Roma e Cartagine
Alleanza fra Etruschi (poi Roma) e Cartagine
A causa delle loro mire espansionistiche anche la civiltà romana e quella cartaginese, come altre del
passato, erano destinate a incontrarsi e ad entrare in concorrenza tra loro.
Nell’età dei re e agli inizi della repubblica, quando ancora lo stato romano si andava lentamente
sviluppando nel ristretto ambito del Lazio, già la civiltà etrusca, che possiamo ritenere strettamente
connessa con quella romana immediatamente successiva, si era estesa ampiamente per terra e per
mare, entrando in contatto con le colonie greche e fenicie: Tuscorum ante Romanum imperium late
terra marique opes patuēre. (Livio, V, 33).
Per l’affermazione del proprio predominio nacquero dei conflitti, in cui inizialmente troviamo gli
Etruschi alleati dei Cartaginesi: nel 540 a.C., infatti, Etruschi e Cartaginesi coalizzati insieme
sconfissero una flotta greca presso Alalia, in Corsica, cosa che garantì il dominio etrusco sul
Tirreno.
Circa sessant’anni più tardi invece furono i Greci a prevalere sui Cartaginesi a Imera, in Sicilia, e
sugli Etruschi a Cuma, in Campania; un avvenimento, quest’ultimo, che segnò l’inizio del declino
della potenza etrusca nella penisola, per lasciare il posto però all’emergente potenza romana.
Roma ereditò dagli Etruschi e perseguì per più di due secoli una politica di alleanza e di “buon
vicinato” con Cartagine. Secondo lo storico greco Polibio, risalirebbe addirittura al 508 a.C. (cioè a
un trentennio prima della battaglia di Cuma) un primo trattato che fissava i limiti territoriali delle
sfere di influenza commerciale delle due città. La data fu spesso considerata troppo alta, ma la
possibilità che già a quell’epoca si stabilissero relazioni tra Roma e Cartagine è stata confermata
anche dalla scoperta di lamine con iscrizioni in lingua etrusca e punica che documentano, per gli
inizi del secolo V a.C., stretti contatti fra i Cartaginesi e Cere, città etrusca prossima a Roma,
vincolata da rapporti di alleanza e di amicizia.
Un altro trattato commerciale tra i Romani e i Cartaginesi di cui si ha sicura notizia fu concluso
intorno al 350 a.C., e ancora all’inizio del III secolo quando Roma, dopo le guerre contro i Latini, i
Sanniti e le città della Magna Grecia, si era già affermata come nuova potenza, e la politica estera
cartaginese continuava a porsi come obiettivo la lotta contro i Greci.
Appunto in funzione antiellenica Roma e Cartagine strinsero nel 279 a.C. una vera e propria
alleanza, questa volta militare: un’alleanza determinata dalla guerra contro Pirro, il re epirota
chiamato in aiuto contro i Romani dalla colonia greca di Taranto.
Roma e Cartagine: le guerre puniche
La svolta decisiva nei rapporti fra Roma e Cartagine si ebbe quando Roma, unificato e organizzato
in salda compagine il suolo italico, allargò i suoi piani di conquista fuori dai confini della penisola e
nello stesso tempo si pose non più come antagonista, ma come continuatrice della civiltà greca in
declino. Si aprì allora una stagione di conflitti tra le due potenze, che aspiravano entrambe
all’egemonia sul Mediterraneo centrale e occidentale; la logica stessa della politica di espansione e
di dominio impediva di dividersi mari e territori: esigeva che la lotta fosse portata alle estreme
conseguenze, e non potesse aver termine se non con l’eliminazione di uno dei due domini. I conflitti
furono tre, e vanno sotto il nome di Guerre Puniche.
La prima guerra punica, combattuta dal 264 al 241 a.C., aveva per posta il controllo della Sicilia, in
una posizione chiave al centro del Mediterraneo. Combattuta nella Sicilia stessa e in Africa ma
soprattutto per mare, si concluse con la vittoria romana, che costò a Cartagine l’esclusione dalla
Sicilia e subito dopo dalla Sardegna, oltre al pagamento di una pesantissima indennità. Tuttavia
Cartagine non era stroncata in modo definitivo, e seppe riprendersi in breve tempo specialmente per
opera del partito belligerante dei Barca (a cui apparteneva la famiglia di Amilcare e di Annibale),
che seppe compensare la perdita della Sicilia e della Sardegna con l’espansione in Spagna, un
territorio prezioso per le sue miniere e le riserve di uomini.
Da qui mosse Annibale quando, provocata tanto dal proposito di rivincita dei Cartaginesi quanto
dall’intransigente volontà di potenza dei Romani, scoppiò la seconda guerra punica, durata dal 218
al 202 a.C. L’audacia e il genio militare di Annibale conferirono un carattere di drammaticità a
questo conflitto, e alcuni suoi momenti rimasero impressi indelebilmente nella memoria dei
Romani: essi dovettero difendersi sul suolo stesso d’Italia e subire a lungo le iniziative
dell’avversario, mentre la guerra si allargava alla Sicilia, alla Spagna, alla Sardegna, alla
Macedonia. Tuttavia il sostanziale fallimento del piano strategico di Annibale, che si era proposto di
scompaginare la confederazione romano-italica, e la saldezza degli ordinamenti politici e militari di
Roma portarono infine alla vittoria romana. A quel punto lo stato cartaginese, ridotto a una striscia
di terreno nell’Africa settentrionale, fu degradato al rango di potenza di secondo ordine.
Anche così mutilata, però, la potenza cartaginese continuava a costituire un’insidia intollerabile per
Roma; perciò mezzo secolo più tardi, imposte delle condizioni inaccettabili e quindi respinte dai
Cartaginesi, i Romani dichiararono guerra per la terza volta nel 149 a.C.; dopo tre anni di assedio
Cartagine fu conquistata e, distrutta fin dalle fondamenta, fu cancellata definitivamente dalla storia.
Annibale
La vita di Annibale
Annibale, figlio di Amilcare Barca, fu un celebre condottiero e uomo politico, nato a Cartagine nel
247 a.C.
Secondo la tradizione, all’età di nove anni giurò solennemente al padre un odio eterno nei confronti
dei Romani, un giuramento mantenuto per tutta la vita, poi partì con lui alla volta della Spagna.
Diventato comandante supremo dell’esercito cartaginese a ventisei anni, in breve tempo conquistò
gran parte della Spagna; dopo otto mesi di assedio, nel 219 occupò anche Sagunto, città alleata di
Roma; la conquista di questa città causò lo scoppio della seconda guerra punica, che durò dal 218 al
202 a.C.
Per abbattere il predominio dei Romani, Annibale si propose di vincerli sul loro stesso territorio
invadendo l’Italia, con l’illusione che le città italiche si ribellassero e facessero causa comune con
lui nella lotta contro gli avversari. Con un poderoso esercito e numerosi elefanti valicò quindi i
Pirenei, percorse la Gallia meridionale, attraversò il Rodano e, superate le Alpi con un’impresa
rimasta memorabile, scese in Italia, dove sconfisse ripetutamente gli eserciti romani: nell’autunno
del 218 presso il Ticino e la Trebbia; nel 217 nell’Italia centrale presso il lago Trasimeno; nel 216
infine in Puglia presso il villaggio di Canne, la più celebre delle sue vittorie e la più disastrosa
sconfitta della storia per un esercito romano.
Annibale però non seppe raccogliere i frutti della vittoria dimostrando la necessaria determinazione,
consentendo così una rapidissima ripresa dei Romani sia sul piano militare, sia su quello politico:
infatti il suo progetto di un’insurrezione generale delle città italiche non si realizzò; inoltre un
contingente guidato dal fratello Asdrubale, che veniva dalla Spagna con dei rinforzi, fu annientato
nella batttaglia del Metauro nel 207; con mossa spregiudicata, infine, Publio Cornelio Scipione
riuscì a convincere il senato a portare la guerra direttamente in Africa, così da obbligare Cartagine a
richiamare in patria Annibale.
Nel 204, quindi, Annibale fu richiamato a difendere il territorio occupato da Scipione, che era
sbarcato in Africa e minacciava la stessa Cartagine.
Lo scontro decisivo avvenne a Zama, nel 202; Annibale, sconfitto e braccato dai Romani, in seguito
bandito anche dagli stessi concittadini, cercò ospitalità presso vari sovrani, che continuò a spingere
a muovere guerra ai Romani. Da ultimo trovò riparo in Bitinia presso Prusia, ma quando i Romani
chiesero a questi la sua consegna, fu costretto a prendere il veleno per non cadere nelle loro mani;
era l’anno 182 a.C. o, come sembra potersi dedurre da Livio, il 183, lo stesso anno della morte del
suo vincitore, Scipione l’Africano.
Annibale è considerato uno dei più grandi generali della storia; Polibio, uno storico greco suo
contemporaneo, lo paragona a Scipione l’Africano; altri lo accostarono ad altri grandi condottieri,
come Alessandro Magno, Giulio Cesare e Napoleone.
Annibale nella presentazione di Cornelio Nepote
La figura di Annibale è una delle meglio riuscite, tra quelle presentate da Cornelio Nepote, per la
capacità dello scrittore di cogliere la tragica grandezza e la solitudine del grande condottiero
cartaginese, l’eterno nemico di Roma a cui solo la morte portò, dopo tante vicissitudini, il riposo e
la pace.
Nepote ci presenta una biografia di Annibale, non la storia della seconda guerra punica: le battaglie
di Canne o di Zama sono sbrigate con poche parole, e non si accenna neppure alle operazioni nei
teatri di guerra in cui Annibale non fu presente di persona. Hanno invece largo sviluppo gli aneddoti
caratterizzanti, come il giuramento di odio eterno a Roma, gli stratagemmi per evitare o uscire da un
accerchiamento, gli inganni per vincere pur in condizioni di inferiorità, o per salvaguardare le sue
ricchezze ecc. Nonostante ciò, e nonostante alcune imprecisioni cronologiche e inesattezze nei
particolari, la biografia di Annibale di Nepote è capace di suscitare l’interesse del lettore.
Va posta l’attenzione, inoltre, anche sull’atteggiamento dal punto di vista umano del biografo di
fronte al personaggio cartaginese: un atteggiamento di sostanziale simpatia, di ammirazione per le
qualità dello stratega e la coerenza del patriota, in contrasto con la tradizionale storiografia romana
che demonizzava Annibale definendolo sleale, empio, sacrilego, fedìfrago ecc. È del tutto naturale
pensare che quando vincevano i Romani gli storici di parte attribuissero la vittoria alla virtus
Romana, quando invece vinceva Annibale se ne cercasse la causa nella fraus e nella perfidia del
Cartaginese. Nepote, invece, riconosce con franchezza ad Annibale eccelse virtù militari e singolari
doti di carattere; riconoscerle, del resto, significava esaltare indirettamente le qualità degli stessi
Romani, che un tale nemico, alla fine, avevano saputo battere.
I motivi dell’insuccesso di Annibale
Il progetto ambizioso di Annibale di abbattere la potenza romana sul suo stesso territorio era
destinato a fallire.
Innanzitutto, era determinante il fattore tempo: Annibale aveva occupato l’Italia e teneva in scacco i
Romani, ma si trovava in territorio ostile, in quanto anche la speranza che le città italiche si
ribellassero in massa al dominio di Roma si era rivelata illusoria: a parte alcune defezioni, si vide
costretto a conquistare le città una dopo l’altra con la forza. Era angustiato inoltre da difficoltà di
rifornimenti, e l’esercito era soggetto a logoramento; come sosteneva il dittatore Fabio Massimo, lo
si poteva vincere “temporeggiando”, cioè facendogli terra bruciata attorno e ricorrendo ad azioni e
scaramucce di disturbo, evitando lo scontro diretto.
In secondo luogo, nelle difficoltà e specialmente dopo il disastro di Canne i Romani dimostrarono
eccezionali doti di civismo e grandi capacità di ripresa.
In terzo luogo, Annibale dovette fare i conti con una forte opposizione in patria: gli avversari lo
accusavano di decantare vittorie strepitose, ma nel contempo di chiedere altro denaro per finanziare
la spedizione e l’invio di rinforzi.
Giocarono inoltre a favore dei Romani anche dei fattori psicologici. Ad esempio, mentre Annibale
stava accampato nei pressi di Roma, gli veniva riferito che i terreni occupati e devastati dai suoi
soldati erano posti in vendita a un prezzo per nulla diminuito rispetto a quando erano liberi e
produttivi: il che significava che la sua occupazione era ritenuta effimera e i danni assolutamente
riparabili. Negli stessi giorni veniva pure informato che i Romani, nonostante il pericolo costituito
dalla sua presenza alle porte di Roma, inviavano truppe per la guerra in Spagna.
Gli storici accusarono Annibale anche di mancanza di determinazione dopo la vittoria di Canne:
infatti non marciò subito su Roma, ma condusse l’esercito a svernare a Capua, da dove i soldati
uscirono in primavera svigoriti dagli ozi e dagli agi della città; si diresse a Roma soltanto nel 211
a.C., dopo aver assoggettato Capua e gran parte dell’Italia meridionale.
Un altro motivo dell’insuccesso di Annibale può essere indicato nel fatto che i Romani ebbero un
uomo dalle doti eccezionali: Publio Cornelio Scipione il quale, mentre Annibale teneva ancora
occupato il suolo italico, con una manovra azzardata fece trasportare un esercito in Africa sul
territorio di Cartagine, costringendo così i Cartaginesi a richiamare Annibale a difendere la patria.
Infine i Romani, che si ritenevano al di sopra degli altri popoli per la pietas e la religiosità, erano
convinti che Annibale fosse destinato all’insuccesso anche per la protezione accordata loro dagli dèi
contro quel condottiero che la tradizione presentò sempre come fornito di immani vizi, e cioè sleale,
perfido, empio, spergiuro e sacrilego. Quando, dopo la sosta di alcuni giorni nei pressi di Roma,
Annibale levò il campo, i Romani attribuirono quel fatto all’intervento di una divinità creata per
l’occasione: il deus Rediculus, che avrebbe indotto il Cartaginese ad allontanarsi dalle mura di
Roma (da redeo, «tornare»), e al quale in seguito dedicarono anche un tempietto vicino alla porta
Capena.