Emile Durkheim (1858-1917) La sociologia come disciplina autonoma D. ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo della sociologia: è stato il primo a darle dignità accademica, insegnandola prima all’Università di Bordeaux (dove per lui il Ministero istituisce un corso di scienze sociali, il primo della storia) poi alla Sorbona di Parigi ha combattuto affinché la sociologia fosse riconosciuta come disciplina autonoma (distinta dalla filosofia e da altre scienze vicine, come la psicologia), affermando che l’oggetto di studio della sociologia è qualcosa di diverso da quello delle altre scienze e in particolare della psicologia. Infatti la sociologia studia la società, che è qualcosa di irriducibile alla semplice somma dei singoli individui. La società è esterna all’individuo e si impone su di lui, penetra nella sua coscienza e istilla convinzioni che vengono interiorizzate e di conseguenza guidano i comportamenti (“la società oltrepassa le coscienze individuali e nello stesso tempo è loro immanente”). La sociologia come scienza empirica. La ricerca sulle cause sociali dei suicidi Per D. la sociologia è una scienza empirica. Nel 1885 D. visita il laboratorio di Wundt a Lipsia e rimane colpito dai metodi scientifici, rigorosi e precisi, applicati allo studio della mente. Ne torna convinto che fosse necessario adottare gli stessi criteri scientifici nello studio della società (anche Tocqueville aveva condotto indagini empiriche, ma D. è più rigoroso e sistematico). Il suo lavoro empirico più importante è la ricerca sulle cause sociali dei suicidi, pubblicata nel 1897 con il titolo Le suicide (Il suicidio). Basandosi su studi preesistenti, dati d’archivio del Ministero di Giustizia e altri documenti, mise insieme una grande quantità di statistiche, a partire dalle quali elaborò dei ragionamenti e trasse delle conclusioni. Già altri studiosi, impiegando dati statistici, avevano dimostrato che certe azioni, come i matrimoni, i suicidi, gli omicidi, nonostante vengano decise ciascuna individualmente, nel loro complesso mostrano distribuzioni e andamenti caratteristici (Quételet ne aveva dedotto che gli individui agiscono sotto l’influenza di fattori sociali). D., studiando i dati raccolti, arriva a concludere che il suicidio, pur essendo un atto individuale, dipende da fattori sociali ed è perciò un fatto sociale. “Se il suicidio è un atto dell'individuo che incide solo sull'individuo, sembrerebbe dover dipendere da fattori individuali e perciò di esclusiva competenza della psicologia. Non è forse, infatti, col temperamento del suicida, col suo carattere, coi suoi antecedenti, con gli avvenimenti della sua storia privata che di solito si spiega la sua risoluzione? Non dobbiamo per adesso ricercare in quale misura e in quali condizioni è legittimo studiare i suicidi da questo punto di vista; è certo tuttavia che essi possono essere considerati sotto tutt'altro aspetto. Se anziché scorgervi unicamente avvenimenti privati, isolati gli uni dagli altri, che richiedono ognuno un esame a sé, si contemplasse l'insieme dei suicidi commessi in una determinata società, in una determinata unità di tempo, si constaterebbe che il totale così ottenuto non è una semplice somma di unità indipendenti, un tutto da collezione, bensì un fatto nuovo e sui generis, avente una sua unità e individualità, una propria natura quindi e, per di più, una natura eminentemente sociale.” Che il suicidio possa essere visto come un fatto sociale (e non solamente come un atto individuale), D. lo dimostra a partire dalle statistiche elaborate, da cui risulta che il tasso di suicidi varia da paese a paese, e in ciascuno si mantiene costante nel tempo a meno che non intervengano profondi cambiamenti nella società. I suicidi sono quindi legati a condizioni sociali. Secondo D. il suicidio non si può imputare, come abitualmente si fa, alle malattie mentali. Le statistiche dimostrano che non c’è correlazione tra tassi di suicidio e di follia (vedi fig. 2 pag. 157). Ma da che cosa dipende allora il suicidio? Secondo D., i suicidi sono più probabili quando i legami sociali si allentano, l’individuo non è più integrato in una rete relazionale ed è lasciato in balia di se stesso, senza la guida morale della società. Per indicare la particolare condizione in cui il controllo della società sull’individuo si indebolisce, usa l’espressione anomia, che letteralmente significa assenza di norme, ma che in senso più ampio sta ad indicare la situazione di disgregazione sociale in cui gli individui non hanno più sufficienti riferimenti e sono quindi sganciati dal tessuto sociale. La correlazione tra anomia e suicidi si basa su dati statistici di vario genere: (appartenenza religiosa) il tasso di suicidio è alto tra i protestanti, intermedio tra i cattolici e basso tra gli ebrei, questo perché, secodo D., la comunità ebraica è la più coesa, la cattolica ha un grado di coesione intermedio e la protestante è la più individualistica (istruzione) il suicidio è più diffuso nelle società con un grado maggiore di istruzione, questo perché, secondo D., dove c’è più istruzione le persone tendono ad essere in competizione e a fare ciascuna il proprio interesse e quindi la coesione è minore (genere) la frequenza di suicidi è più bassa nelle donne, perché partecipano maggiormente alla vita famigliare e religiosa (e quindi si sentono più legate al tessuto sociale) (condizione economica) secondo D., il benessere economico “ci dà l’illusione di far capo esclusivamente a noi stessi”, mentre “la povertà protegge dal suicidio” (cioè le società dove c’è benessere economico sono meno coese e quindi i suoi membri sono più a rischio di suicidio) (mutamenti sociali) i mutamenti sociali possono incrementare o far diminuire i tassi di suicidio a seconda degli effetti che hanno sulla coesione sociale (per es. se a una guerra o una crisi la gente reagisce unendosi, i suicidi diminuiranno, ma quando il cambiamento significa disgregazione, i suicidi aumenteranno) Il lavoro di D. sul suicidio è di grande interesse per la storia della sociologia, tuttavia presenta seri limiti: i dati non sono sempre attendibili; i ragionamenti statistici sono spesso grossolani; ma soprattutto, l’ostinazione nel trascurare gli aspetti psicologici si traduce nell’impossibilità di capire effettivamente il fenomeno (oggi si tende a integrare il livello sociologico e quello psicologico nell’analisi del suicidio). La coesione sociale e la teoria della devianza Per D. la coesione sociale è la condizione che contrasta la tendenza al suicidio. In che cosa consiste? Essa è il cemento che tiene assieme le persone nel corpo sociale. Se la società non si disgrega, non è tanto per un calcolo razionale dei suoi membri, ma per un senso di appartenenza alla comunità, un sentimento di condivisione dei fini, dei valori, delle convinzioni che D. chiama coscienza collettiva. I riti e le cerimonie, gli atti simbolici comuni, come la preghiera, il canto dell’inno nazionale, ecc. concorrono a creare il senso di appartenenza alla comunità. Nelle società semplici (primitive) la coscienza collettiva è più forte, perché basata su quella che D. chiama la solidarietà meccanica, unione basata sull’uguaglianza tra le persone, dovuta al fatto che tutti pensano e agiscono all’incirca nello stesso modo e nessuno si distingue. Quando le società diventano complesse, si differenziano, perché le persone si specializzano in attività diverse (operaio, contadino, commerciante, imprenditore). Pertanto non è più possibile la solidarietà meccanica e scatta la solidarietà organica, dovuta al fatto che si ha coscienza di essere interdipendenti, di aver bisogno l’uno dell’altro, e ci si pensa come parti di un unico grande organismo. Sebbene basti a tenere unita una società complessa, la solidarietà organica è più debole. Una prova di questa maggiore debolezza è fornita dall’evoluzione delle leggi: via via che le società diventano complesse, depenalizzano i reati, cioè li considerano sempre più violazioni di carattere civile e amministrativo. Il reato penale fa scattare la collera della comunità indignata e esige una punizione, mentre il civile si risolve con una semplice riparazione del danno arrecato. Il fatto che nella società complesse il diritto si attenui e riduca le punizioni in favore delle riparazioni dice che la coscienza collettiva è più sfumata (c’è una correlazione, secondo D., tra punizione e rafforzamento della coscienza collettiva). D. elabora una particolare teoria della devianza (che sarà poi ripresa da Parsons). A suo giudizio, il crimine è normale e ineliminabile. Anzi, una sua totale estirpazione sarebbe un danno perché la devianza ha la funzione latente di aiutare a mantenere la coesione. Quando una legge viene violata, la società provvede alla sanzione e la cosa acquista un valore simbolico, che ribadisce la coscienza collettiva. Infatti, le pene gravi, per D., non hanno alcun valore come deterrenti, ma valgono come rafforzamento della coscienza collettiva.