testo della conferenza - Biblioteca interdipartimentale di Ingegneria

Prof. Ing. ALBERTO BUCCHI
LA STORIA DELLE STRADE
Relazione tenuta presso la “Scuola di Ingegneria e Architettura” della Università di Bologna il 11 dicembre 2014
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INTRODUZIONE
Delle strade si possono dare diverse definizioni. Tuttavia ritengo che la strada propriamente detta
nasca, in linea generale, nel momento in cui un gruppo sociale conclude il suo processo di
insediamento e di controllo su un certo ambito territoriale.
L’avvento dell’”homo sapiens” attorno a 40.000 anni fa accelera la diffusione migratoria e la
scoperta del primo mezzo di trasporto: la slitta, trainata da buoi, cani e poi cavalli. Con la slitta
non era ancora iniziata la storia della strada, ma la slitta, cominciando la vicenda dei trasporti
terrestri, va considerata la progenitrice del carro, nella linea evolutiva culminata con l’invenzione
della ruota.La ruota costituisce un salto di civiltà nella storia dell’uomo, realizzando il moto
rotatorio. L’applicazione delle ruote alla slitta ha come primo riferimento archeologico il tempio di
Inama nella bassa Mesopotamia, dove alcune tavolette, risalenti al 3.200 a.C., ne riportano uno
schizzo esplicito. L’evoluzione della ruota dalla forma massiccia alla geometria a raggi, fino al suo
svincolarsi dalla solidarietà con l’asse attraverso il mozzo, si sviluppa nel secondo millennio a.C.
estendendosi dalla valle dell’Indo all’Egitto. I ritrovamenti nelle tombe dei re e dei notabili di
queste regioni ci hanno tramandato interi carri funebri a testimoniare il concetto di prestigio
connesso al nuovo veicolo. La ruota, oltre a rappresentare il primo passo nella rivoluzione
tecnologica dei trasporti, impose l’avvento di due nuove tematiche: la creazione della strada e
l’addomesticamento del cavallo. Tali eventi caratterizzeranno nei secoli successivi la vita
dell’umanità e lo sviluppo della civiltà.
I Persiani, essendo il loro impero esteso su gran parte del Vicino Oriente, dovettero affrontare
organicamente il problema delle strade, essenziali per consentire ad eserciti e funzionari un rapido
collegamento con il potere centrale. Ciro il Grande (590-529 a.C.), fondatore dell’impero,
promosse la costruzione di una razionale rete viaria. Piste in terra battuta ed a volte anche
lastricate congiungevano varie località della Persia. La più lunga (detta Via Regia) univa la capitale
Susa in Iran a Sardi nella Turchia Occidentale superando una estesa di 2.699 km che i corrieri
impiegavano 20 giorni per percorrerla. Nel tratto tra Susa e Babilonia, sotto il dominio di Dario il
Grande (550-485 a.C.), le condizioni delle piste battute consentivano ai corrieri a cavallo di
percorrere fino a 160 km al giorno con cambi di monta ogni 25 km. Tutte le strade erano dotate di
stazioni di posta e di locande che erano sorvegliate da guarnigioni militari per rendere sicuro il
transito e fare manutenzione. Due secoli dopo Alessandro Magno (356-323 a.C.) realizzò il suo
immane cammino di conquista dalla Macedonia e quindi dal Mediterraneo, fino all’Oceano
Indiano ed ai piedi dell’Himalaya, utilizzando le strade costruite dai Persiani. L’impero persiano si
colloca quindi come punto di arrivo della primitiva civiltà stradale nonché quale punto di partenza
per il successivo impero romano, che proprio sulle strade fondò l’organizzazione ed il controllo del
territorio.
Nell’antichità si trovano contrastanti testimonianze di strade in relazione alle comunità allora
dominanti. Consideriamo le tre civiltà che maggiormente hanno inciso sul bacino del
Mediterraneo: l’egiziana, la greca e la romana. Gli egiziani ed i greci non hanno fatto molto nel
settore delle strade. Gli egiziani hanno lasciato debolissime tracce di strade non perché fossero un
popolo che non si muoveva e che non aveva scambi commerciali, ma principalmente per due
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motivi : Il primo è determinato dal fatto che la civiltà, e quindi anche gli scambi, si sono sviluppati
fondamentalmente lungo l’asta del fiume Nilo. Il secondo è derivato dalla circostanza che,
allontanandosi dal grande fiume, si incontrano terreni desertici che offrono buone condizioni di
percorribilità. Una innovazione tecnologica molto interessante introdotta dagli egiziani e
riscontrata nelle zone urbane, è costituita dalle prime applicazioni di materiale bituminoso
utilizzato per fissare strati superficiali di mattoni di laterizio. Anche i greci, all’infuori di lastricati in
prossimità delle città, non hanno lasciato significative tracce di strade, in quanto essi hanno
sviluppato la loro civiltà all’interno dei loro insediamenti o l’hanno esportata via mare.
LE STRADE ROMANE
Tra le antiche civiltà Roma fu la prima e l’unica ad ideare e sostenere con continuità una politica
stradale per quasi otto secoli dal 300 a.C. fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476
d.C.). I Romani restano i più grandi costruttori di strade che la storia annoveri, raggiungendo con la
rete delle consolari, nel periodo dell’imperatore Domiziano, un insieme di 372 arterie maestre per
una estensione di quasi 80.000 km (53.000 miglia romane). La storiografia più recente
aumenterebbe ancora questa estensione. Nella penisola italiana, le strade romane seguirono i
tracciati di vie più antiche come la via Salaria, di origine etrusca che congiungeva le coste del
Tirreno a quelle dell’Adriatico; la via Claudia Valeria raggiungeva le regioni dei Marsi e degli Equi;
la Campania era attraversata dalla via Latina e dalla via Appia, costruita nel 312 a.C.. L’Italia del
Nord era collegata a Roma tramite la via Flaminia del 220 a.C., la via Aurelia del 241 a.C., la via
Cassia e la via Clodia; la via Emilia fu costruita nel 187 a.C.. Anche fuori dalla penisola italiana i
Romani tracciarono nuove strade o riadattarono vecchie vie già esistenti nei territori conquistati.
Tutto il bacino del Mediterraneo era costeggiato da una lunghissima via lungo la quale si
articolavano gli assi provinciali: da Cartagine verso Limbesi e Sitifis; da Antiochia verso Palmira,
Trebisonda e la Mesopotamia, ed anche in direzione dell’Asia Minore e della Siria. Parallelamente
alla via costiera che congiungeva Antiochia all’Egitto, venne costruita all’interno una strada
importante che metteva in comunicazione Palmira con Petra. La via Egantia congiungeva l’Italia a
Tessalonica. Altre strade partivano da Aquilea e valicavano le Alpi per raggiungere le province
Danubiane. A queste vie si aggiunsero quelle tracciate nella Bretannia, in Francia, in Germania e in
Spagna con lunghe diramazioni anche nelle regioni occupate dai barbari.
Roma divenne padrona del mondo allora conosciuto in virtù delle sue strade che consentivano di
controllare i vasti territori conquistati. Le strade imperiali, estese su tre continenti, costituivano il
supporto fondamentale all’espansione della potenza e della cultura civilizzatrice, riducendo i
vincoli di spazio e tempo tra genti differenti e lontane. Roma, consapevole del valore fisico,
istituzionale e civilizzatore delle sue strade le celebrava anche. Augusto (23 a. C.- 14 d. C.), il primo
imperatore, aveva fatto erigere nel Foro Romano il “miliarium aureum”, una enorme colonna
rivestita di bronzo dorato con incisi i nomi delle principali città dell’impero e l’indicazione delle
loro distanze dall’Urbe. Lì era materializzato il caposaldo iniziale delle 19 consolari che si
irradiavano dalla città eterna e lì era, racconta Svetonio, il vero “ombelicus Romae”.
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Lungo le strade, ogni 1.000 passi romani, venivano eretti i “miliaria”, imponenti cippi di pietra di
forma cilindrica con diametro 30/50 cm ed altezza fino a 2,0 m. Sui cippi, all’iniziale funzione di
marcare le distanze progressive, si aggiunse una vera e propria azione di propaganda con lunghe
epigrafi che ricordavano ai viandanti i nomi e le gesta dei costruttori. Al termine delle strade più
importanti, opere ancora più maestose celebravano la gloria degli imperatori che avevano
realizzato l’itinerario.
I Romani distinguevano due tipi di strade: la “via silice strata” e la “via glarea strata”, cioè la via
munita di lastricato e la via provvista di semplice massicciata. La larghezza delle strade romane era
variabile, e solo quelle più importanti dell’impero furono completamente lastricate rendendole
idonee al transito di carri e mantenendo ai lati due banchine laterali (margines). La parte centrale
doveva consentire almeno il transito affiancato di due carri larghi solitamente 1,20 m; quindi la
misura minima della carreggiata centrale (8 piedi) corrispondeva a 2,40 m. La larghezza aumentava
fino a 16 piedi in curva, generalmente di piccolissimo raggio, anzi quasi ad angolo acuto, per
consentire l’incrocio dei veicoli. La Via Appia, che viene considerata la più antica delle strade e che
collegava l’Urbe a Terracina già nel 312 a.C., considerata la sua importanza, aveva una larghezza di
3,60 m e margini ai lati larghi 60 cm. Nei campi a lato era ammesso l’accesso per consentire agli
animali il riposo ed il pascolo.
Le strade venivano costruite con una massicciata formata da diversi strati di materiali lapidei. Su
di un primo strato di pietre grosse poste in taglio (statumen), si gettava un secondo strato di ghiaia
e ciottoli (ruderatio) su cui appoggiava un terzo strato di pietrisco (nucleus). Su questo infine
veniva posato il pavimento in lastricato per le strade più importanti, oppure una inghiaiata finale
(summa crusta) per le strade meno importanti. La selce era il materiale comunemente usato per
lastricare la strade romane grazie alle sue caratteristiche di durezza e resistenza; quando questo
materiale non era disponibile si usavano calcari, graniti, arenarie.
La costruzione, la manutenzione e la gestione delle strade romane erano devolute alle maggiori
cariche dello Stato e precisamente ai “censori” e talora anche ai “consoli”; alcune vie ne portano
anche il nome come la Via Appia, la Via Flaminia, la Via Emilia, la Via Cassia ed altre.
I Romani evolsero anche i veicoli stradali. Dalla ruota piena si passò a quella più leggera con
quattro o otto raggi fino a giungere, quando si usarono i metalli, alle ruote con una fascia di ferro
attorno al cerchio di legno, certamente più pesanti, ma, nell’impiego specialmente su strade
accidentate, più resistenti. I veicoli maggiormente utilizzati erano il “currus”, o biga, per le
persone, il “carpentum” e il “plaustrum” per le merci. Augusto organizzò anche un servizio postale,
il “cursus publicus”, riservato ai corrieri imperiali e governativi che venne a sostituire i “tabellari”,
schiavi e liberti incaricati di trasmettere messaggi e notizie.
Ogni 5 o 10 miglia lungo gli itinerari principali si trovavano stazioni per il cambio degli equipaggi,
dette “mutationes”, e ogni 50 o più miglia sorgevano le “mansiones” per il ricovero durante la
notte. Nelle “mansiones” dovevano mantenersi almeno 40 animali da tiro, mentre nelle
“mutationes” almeno 20.
Le strade chiaramente condizionarono anche l’organizzazione delle città. L’impostazione corrente
della città si basò sulla rigorosa trasposizione del concetto di “castrum”, trattando lo spazio
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urbano in modo del tutto simile ad un accampamento militare: la città doveva essere ordinata e
chiara da percorrere. Le due arterie principali, il cardo da Est verso Ovest ed il decumano da Sud
verso Nord, determinarono la tipica configurazione a scacchiera di tutte le città di nuova
formazione o di colonizzazione dell’impero. La larghezza delle strade in città era generalmente
superiore rispetto all’ambito extraurbano raggiungendo spesso 10 m per le arterie principali e mai
inferiore a 4 m per le secondarie. La pianta di Roma forse originata da un primo nucleo quadrato,
si espanse al di fuori degli schemi classici, seguendo piuttosto i vincoli e le opportunità
morfologiche dei sette colli.
I Romani furono anche dei valenti costruttori di ponti. I primi ad utilizzare l’arco a tutto sesto
furono gli Etruschi; i Romani successivamente ne divennero maestri usando gli archi per la
costruzione di ponti ed acquedotti. Nelle arcate dei ponti si incontrano tutte le esperienze
sviluppate nel mondo antico con molteplici materiali da costruzione: pietre, mattoni, legname. Il
ponte romano non ha uno schema ripetitivo, ma contempla una sostanziale varietà di forme
compositive e di equilibrio strutturale. Nel corso dei secoli furono oltre 2.000 i ponti costruiti dai
Romani. L’architettura dei ponti romani è semplice, sobria, ottenuta con archivolti, cornici, nicchie
e trofei. Le pile e le spalle hanno forti spessori a volte alleggeriti da finestre e aperture. Le
fondazioni si realizzavano con barche che venivano riempite di pietrame fino a farle affondare.
IL MEDIOEVO
La caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d. C. con l’ultimo imperatore Romolo Augustolo)
segna un lungo regresso della viabilità in Europa dove non si costruiscono più nuove strade e si
lasciano decadere fino alla inagibilità le antiche arterie romane. A Bisanzio nell’Impero Romano
d’Oriente, invece, per l’opera di Giustiniano (527-573 d.C.), l’attenzione alla rete viaria costituiva
uno dei punti salienti della riforma amministrativa; quando secoli dopo i crociati arrivarono in
quelle terre, ebbero la ventura di trovare strade ben mantenute. Non così in Europa dove la
mancanza di un potere centrale e la decadenza economica determinarono ben presto la
scomparsa della rete imperiale, nonostante non mancasse la sporadica opera di sostegno dei re
barbari. Nel VII° secolo una precisa disposizione della legge visigota puniva con cento sferzate il
reo di avere chiuso una strada; anche le leggi burgunde e bavare salvaguardarono con severità
alcune importanti strade.
Soltanto nel periodo definibile come “età di Carlomagno” si verificò una effimera inversione di
tendenza nel decadimento viario. Si ricordano di Carlomagno (741-814 d.C.) alcuni specifici
capitolari (o decreti) sulla viabilità: nel 793 si ordina ai “missi” reali di obbligare la popolazione a
mantenere in efficienza ponti e strade, nell’anno 805 si prescrivono i pedaggi su alcune strade.
Dopo la morte di Carlomagno (814), i successori promulgarono altri capitolari nella stessa linea di
intervento (anni 823, 829, 854). Carlomagno si interessò del sistema viario perché trascorse la sua
esistenza in viaggio da una regione all’altra del suo immenso impero, senza una città vera capitale.
Egli vide nel ripristino della viabilità romana un sicuro strumento per unificare i territori,
salvaguardare le frontiere, giungere alla costruzione di un grande impero in Europa come aveva
sempre sognato e che non realizzò mai.
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Nell’Alto Medioevo venne a mancare ogni coordinamento fra le varie regioni e le singole città
dovettero lottare da sole prima contro gli attacchi degli Unni, degli Arabi e dei Normanni, poi dei
Turchi, dei Francesi e degli Spagnoli. In tali condizioni l’unica difesa era l’isolamento e la
inaccessibilità; quindi venne a cessare ogni interesse per la conservazione della rete viaria.
Con l’eclissarsi della meteora carolingia nel IX° secolo, si instaurò un sistema feudale, in cui il
potere dei vassalli di imporre dazi e pedaggi, nonché di limitare la libertà dei viaggi, portò la rete
viaria ad un ulteriore stato di crescente abbandono. Ragioni politiche e di sicurezza spingevano i
grandi feudatari a governare “a cavallo” e quindi a percorrere itinerari discosti dalla vecchia
viabilità romana e costituiti da sentieri e mulattiere. Anche il traffico commerciale era circoscritto
nel feudo, si muoveva su piccole distanze e quindi non aveva bisogno di strade ben percorribili in
quanto diventava determinante la brevità del percorso piuttosto che la comodità del viaggio. Le
città non erano collegate da un sistema viario preciso ma attraverso un gran numero di itinerari
locali, sentieri e percorsi alternativi alle vie maestre. Quindi le strade medioevali non erano
vincolate da un tracciato unico, ma da fasci più o meno paralleli di percorsi destinati ad offrire ai
viaggiatori varie opportunità. Anche la geometria della strada peggiora in modo sensibile: l’asse si
piega per seguire l’andamento del terreno e per contornare i confini delle proprietà. Viene seguita
pedissequamente la quota del terreno con minima attrezzatura di pavimentazione; l’altimetria,
non sempre curata nelle strade romane, assume, nei percorsi di montagna pendenze molto forti.
Dopo le devastazioni barbariche si riebbe particolare interesse per i ponti praticando un
perfezionamento strutturale rispetto all’antichità classica e sviluppando opere di maggiore
arditezza e di concezione statica più razionale . Si ottenne questo utilizzando il legno, materiale più
lavorabile, di semplice messa in opera, di flessibilità costruttiva e facilmente rinforzabile e
sostituibile rispetto alla pietra. Purtroppo il legno è degradabile e infiammabile e quindi pochi
esemplari sono giunti fino a noi.
Grandi viaggiatori medievali furono gli ecclesiastici che fondavano nuove abbazie e portavano la
parola della fede cristiana spostandosi da un luogo di culto all’altro non solo per motivi religiosi ma
anche per motivi culturali. Contemporaneamente anche le popolazioni sentirono il bisogno, segno
premonitore delle crociate che arrivarono nel secolo XI, di intraprendere viaggi di culto; nacque
così il fenomeno dei pellegrinaggi. Le grandi vie di pellegrinaggio medioevale costituirono un
sistema organico che collegava i santuari della cristianità a centri devozionali minori. I pellegrini
erano viaggiatori che godevano di uno statuto speciale. Ogni Codice Penale prevedeva pene
severe per chi molestava questi viaggiatori e i Sinodi dei Vescovi promettevano severe sanzioni
ecclesiastiche per chi commetteva delitti contro di loro. Per i primi cristiani la Palestina e quindi
Gerusalemme furono richiami di folle di fedeli. Due erano le strade per Gerusalemme. La via di
terra attraversava la penisola balcanica per poi entrare nel territorio bizantino; di questa via
rimangono poche tracce. L’altro percorso seguiva invece la via del mare, dove Venezia esercitò
una sorta di monopolio. Con la caduta di Gerusalemme in mano degli arabi (640) Roma divenne
l’unica “città santa” dell’Occidente. La più nota strada per Roma è la Via Francigena, così chiamata
perché parte dalla Francia. In Italia questa via aveva diversi itinerari, ma comunque attraversava il
Passo della Cisa, passava per Lucca, percorreva la Valle dell’Elsa sino a Siena e proseguiva verso
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Bolsena, Viterbo e Roma. Un altro itinerario proveniente da Nord costeggiava il mare Adriatico
ricalcando il percorso odierno della Via Romea. Un itinerario molto importante per i pellegrinaggi
fu quello di Santiago di Campostela che costituì il terzo grande polo di attrazione dei pellegrini.
Anche questo itinerario parte dalla Francia, attraversa i Pirenei e prosegue per la costa Nord della
Spagna. Malgrado l’insicurezza dei luoghi determinata dalle incursioni musulmane, la rinomanza
del pellegrinaggio crebbe nel X° secolo, e Santiago divenne luogo di convergenza di grandi masse
da tutta Europa.
IL RINASCIMENTO
La rete viaria rimase in stato di quasi abbandono per circa sei secoli, dal IX° al XV° secolo. Così si
arriva al Rinascimento dove tutto si andava rinnovando. I dogmi medioevali crollavano, il
commercio e le industrie prosperavano. C’era l’entusiasmo culturale della riscoperta dei classici
greci e romani, ed il desiderio di creare una splendida civiltà. Città, principi, mercanti, artisti,
miravano tutti a far meglio degli altri in continua competizione. Fu l’età più carica di inquietudini
che l’Europa avesse fino a quel momento conosciuto. L’insieme di queste vicende politiche, sociali,
economiche e culturali rinascimentali si colloca fra il XV° ed il XVII° secolo. Furono tempi di
continue guerre e questo non giovò alla rete stradale. Tuttavia il ruolo assunto dai mercanti e dalle
loro corporazioni nel governo delle città , dopo la parentesi medioevale, contribuì a determinare
un rinnovato interesse almeno per le strade principali. I prodotti delle corporazioni di arti e
mestieri avevano bisogno di sbocchi, e la necessità dei traffici induceva gli Stati ad impegnarsi
almeno sulle strade più frequentate, spesso quasi impraticabili, per l’abbandono in cui erano state
lasciate. Si cominciò allora ad assistere ad una cura più diffusa per riqualificare i trasporti. Tuttavia
il progresso delle strade fu modesto e lento ed ostacolato dal fatto che ogni miglioramento della
carreggiata veniva compromesso dall’accrescersi del peso dei veicoli. Per quanto riguarda i
tracciati, si osserva che le condizioni proibitive di gran parte delle pianure, interessate da terreni
paludosi, dal pericolo delle alluvioni e delle imboscate, facevano sì che i viaggiatori scegliessero
tracciati viari più elevati quali arginature di canali e fiumi. Il generale prevalere dell’insediamento
d’altura comportò il rinnovamento del sistema viario rispetto a quello romano che aveva tenuto
fino allora. In pochi casi l’insediamento rimase legato alle arterie romane; appare eccezionale la
situazione in Emilia dove l’asse viario romano continuava a polarizzare il territorio.
In Italia la frammentazione politica prima, e più tardi la dominazione straniera del XVI° e XVII°
secolo, non permise la realizzazione di un organico sistema di comunicazioni stradali. Ciò non
impedì che principi e signori rivaleggiassero nel costruire grandi cattedrali e monumentali palazzi .
Tuttavia non si può certo annoverare il Rinascimento tra le epoche significative per la storia delle
nostre strade. In effetti nel settecento la condizione della viabilità restava purtroppo ancora
precaria in tutta Europa. La massicciata, quando esisteva, non aveva robustezza e non conteneva
materie agglomeranti. Oltre ai piani viabili in pessime condizioni, mancavano i ponti e i fiumi si
passavano a guado o col traghetto. Così tra Bologna e Mantova si attraversavano in barca il Panaro
e il Po. Tra Bologna e Ferrara si traghettava il Reno.
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Si può quindi immaginare come in tali condizioni, il traffico delle merci fosse ancora ridotto e le
strade venissero utilizzate per i viaggi indispensabili e per le corriere postali. La viabilità era
regolata da scarse, manchevoli e spesso contradditorie disposizioni, mutevoli e mal rispettate.
Vediamo la situazione nella penisola italiana. Il Piemonte in fatto di strade era molto arretrato. Fin
dal 1612 la monarchia aveva creato il porto franco di Nizza, ma le persone e le merci stentavano a
dargli vita tanto inadeguate restavano le vie d’accesso attraverso il colle di Tenda. Un secolo dopo
le strade interne del Piemonte storico continuavano a perdersi in un labile reticolato. Il Regno
delle due Sicilie era immiserito dalla pochezza delle strade, cui tardivamente si cominciò a pensare
solo nel settecento. Nel disegno generale si era considerata solo la capitale con un sistema radiale
di strade che portavano a Napoli dai capoluoghi dell’interno, trascurando completamente le
comunicazioni trasversali. Un panorama similare presentavano lo Stato Pontificio e la Toscana.
Dopo la pace di Aquisgrana (1668) che mise fine alla guerra di devoluzione e che riservò all’Italia
un periodo insolitamente lungo di stabilità politica, la Toscana e i Ducati misero mano ad alcuni
importanti progetti transappenninici costituiti da strade da rifare su antichi sentieri percorribili a
dorso di mulo, miranti ad attrarre il contesissimo commercio di transito, quali la strada della
Garfagnana, quella della Futa, quella dell’Abetone. Queste opere maggiori procedettero tra le
reciproche gelosie dei governi, nel timore che comode strade a lungo tragitto aperte fino al mare
potessero risolversi in una grande sventura politica in quanto si offriva a eserciti stranieri la
tentazione di una passeggiata militare per conquistare con minimo sforzo un altro lembo
dell’Italia.
Anche i mezzi di traporto, quali le carrozze, subirono alcune evoluzioni. Dapprima le carrozze
erano “sospese”. Successivamente fu radicale il passaggio dal tipo “sospeso” al tipo “su
sospensioni” ; le sospensioni erano fatte con lamine di legno tenute insieme da cinghie di cuoio.
Un’altra innovazione si ha nel sistema dello sterzo; mentre prima lo sterzo era costituito da una
forcella sull’asse dell’avantreno, successivamente si ha un sistema in cui la rotazione viene
distribuita su segmenti circolari. Infine anche gli abitacoli delle carrozze furono migliorati
sostituendo la struttura in pezze di cuoio con una costituita da una ossatura di legno.
In tutta Europa l’impegno degli Stati verso la viabilità cresceva lentamente. In Francia il corso degli
eventi procedeva invece velocissimo fino a concludersi in forma profondamente innovativa con
l’avvento del periodo napoleonico. Una tappa importante nella storia della strada fu la creazione
nel 1747 della scuola di “Ponts et Chaussees” che serviva per preparare i futuri ingegneri stradali.
Questa scuola è giunta fino ai giorni nostri ed ha rappresentato sempre un esempio di ricerca al
quale riferirsi.
IL DICIANNOVESIMO SECOLO
Le opere viarie napoleoniche del XIX° secolo si presentarono imponenti, ma i trasporti terrestri
rimanevano a trazione animale. Negli stessi anni si misero a punto i primi macchinari destinati a
cambiare lo stato delle cose con il ricorso all’energia meccanica sui treni e sui battelli a vapore.
Invenzioni sempre più ardite anticipavano i tempi dell’era moderna; già sul finire del secolo XVIII° i
fratelli Mongolfier avevano aperto all’umanità le prospettiva del volo. Anche la tecnica costruttiva
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delle strade andava evolvendo con una maggiore diffusione dei ponti e con le nuove impostazioni
dei piani viabili. La manutenzione si riduceva ancora a riparare le irregolarità più gravi delle
carreggiate riempiendo le ormaie e le buche con materiali ricavati nelle vicinanze: pietre, sabbia,
terra, legname, macerie. Solo raramente sulle vie principali si usava consolidare la superficie della
parte centrale destinata al carreggio; si stendeva di solito uno strato di ciottoli collocati di piatto .
Le parti laterali della piattaforma stradale, destinate al someggio ed ai pedoni, venivano al più
livellate con la terra.
Nei primi decenni del XIX° secolo si registrarono diverse realizzazioni viarie negli Stati preunitari e
soprattutto si diffuse una migliore manutenzione delle strade esistenti. Molte mulattiere furono
trasformate in carrozzabili, in modo da non subire più le interruzioni dovute al crollo di ponti, al
fango, alle frane in montagna. Inoltre si impose una nuova tecnica stradale non solo per le
pavimentazioni, ma anche per i tracciati che lentamente cominciarono a percorrere i fondovalle
anziché i crinali e le pendici delle montagne. Si stava passando dal trasporto someggiato con
cavalli e muli ai carri capaci di portare anche diversi quintali. Ulteriori progressi furono realizzati
fino a metà Ottocento quando gli Stati preunitari cominciarono ad avviare una vera politica dei
lavori pubblici. Più attivo nelle opere infrastrutturali fu il Piemonte, dove per motivi economicopolitici fu resa carreggiabile la vecchia mulattiera del San Bernardino che collegava Genova con la
valle del Reno. Furono poi realizzati diversi lavori sui valichi appenninici in Liguria, nei Ducati, in
Toscana nonché la ricostruzione dell’Aurelia costiera da Livorno a Roma. Rimase invece statica la
situazione del Mezzogiorno dove i Borboni incrementarono solo le strade attorno alla capitale
Napoli. L’Austria, particolarmente in Lombardia, approvò ed in parte realizzò i programmi viari
napoleonici. Tra l’altro portò a compimento una importante strada: la rotabile dello Stelvio , che
costituisce un’insigne realizzazione della tecnica italiana; i primi studi sono del 1801, ma la
realizzazione completa è del 1826. Negli stessi anni si iniziarono i lavori per rendere carrozzabile
l’antica mulattiera attraverso il valico del Gottardo tra infinite difficoltà tecniche ed economiche; i
lavori terminarono nel 1842. Fra il 1818 ed il 1822 fu aperta anche un’altra grande strada
transalpina: quella dello Spluga. E’ interessante notare come queste strade siano state oggetto da
parte dei progettisti di particolare attenzione nei riguardi del loro inserimento nel paesaggio; le
documentazioni pervenuteci colgono appieno questo aspetto; la panoramicità, le vedute, gli scorci
che si susseguono nell’itinerario non sono casuali, ma voluti dal progettista. Quindi il problema
dell’inserimento ambientale, che è elemento fondante dell’attuale progettazione stradale, è
vecchio almeno di due secoli.
La sistemazione e la costruzione delle strade rappresentò, specie dopo la fine dell’era napoleonica,
un importante strumento economico contro la disoccupazione e la miseria dilagante. La grande
vicenda della viabilità è anche la piccola storia dei lavoratori che la costruivano. Un esempio ci
viene dalla costruzione della Strada Porrettana decretata da Pio VII nel 1818 e ultimata nel 1848.
L’inizio di questa storia è un mondo di uomini indeboliti da una lunga fame che lasciano le case
sull’Appennino per scendere a valle a sbadilare e scarriolare tutta la giornata, una giornata segnata
non dall’orologio , ma dal sole , cioè dall’alba al tramonto. Tutto questo per salari modesti; si pensi
che a un “lavoratore robusto munito di zappone o badile” veniva corrisposta una lira al giorno
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quando un chilo di pane costava 60 centesimi ed un boccale di vino 32 centesimi. Quindi il salario
era appena sufficiente per lo “sfamo”, come si diceva, di poco più di una persona. Per di più in
caso di maltempo o di malattia, se non si lavorava, non c’era salario.
Passando al problema strutturale della strada si può asserire che l’evoluzione della
pavimentazione stradale cominciò con Gerolamo Tresaguet, ingegnere di “Ponts et Chaussees”,
nel 1764, sulla base della ricerca di una sovrastruttura che reggesse ai carichi sempre maggiori,
che fosse di facile manutenzione e che fosse rapida da costruire. Tresaguet ideò una
pavimentazione costituita da tre strati: una fondazione di grosse pietre messe di coltello sul
sottofondo sagomato come la strada e quindi con pendenze trasversali del 4/5 % per scolare
velocemente le acque, un secondo strato di pietre più piccole battute con mazze entro gli interstizi
della fondazione, un terzo strato di pietrisco.
Agli inizi dell’800 lo schema di pavimentazione di Tresaguet andò in competizione tecnica con le
massicciate ideate dalla scozzese Jhon Loudon Mac Adam che ben presto si diffusero in tutto il
mondo fino a pochi decenni addietro. Si pensi che l’Autostrada del Sole nella sua prima
realizzazione aveva una massicciata tipo Mac Adam. L’innovazione di Mac Adam consisteva nel
sostituire la fondazione in pietrame grosso con elementi lapidei più minuti in quanto si era notato
che le grosse pietre di fondazione si sconnettevano e lasciavano passare l’acqua che rammolliva il
terreno di posa e conseguentemente tutta la massicciata andava in malora. Gli elementi lapidei
più minuti di origine calcarea, sotto l’azione dei rulli compressori trainati da buoi e sotto l’azione
successiva del carreggio, con una modesta bagnatura in fase costruttiva, si cementavano fino a
formare in superficie una crosta dura che, favorita dall’inclinazione della sagoma trasversale,
proteggeva il sottofondo dalle infiltrazioni delle acque meteoriche. Si deve invece a Thomas
Telford, quasi coetaneo di Mac Adam, la costruzione del “pavè” diffuso sulle strade più trafficate
di Francia, Germania e Paesi Bassi. Il “pavè” era uno strato superficiale di elementi lapidei
cubiformi accostati che, secondo Telford doveva essere posto su una fondazione alla Tresaguet.
Nel XVIII° e nel XIX° secolo, ai prodromi della rivoluzione industriale, si era verificato, specialmente
in Inghilterra, un notevole sviluppo della produzione siderurgica, in particolare della ghisa. La ghisa
si rivelava molto idonea per essere impiegata negli archi, ma risultava poco adatta per realizzare
travature. La richiesta, d’altra parte, nella costruzione dei ponti di nuovi modelli strutturali a
travata, al posto di quelli costituiti da tradizionali sequenze di arcate, si presentava con sempre
maggiore urgenza per realizzare nuove opere di dimensioni ben più grandi delle tradizionali,
esigenze particolarmente sentite per le strade ferrate. Quindi si passò all’uso del ferro e, solo
decine di anni dopo, si utilizzò l’acciaio. L’innovazione più eclatante del ricorso alla metallurgia fu
la diffusione dei ponti sospesi che consentirono di superare grandi luci. La storia di queste opere
inizia nel 1826 con la costruzione del ponte sospeso di 176 m in Inghilterra sullo stretto di Menai;
questo ponte crollò nel 1839 per una tempesta di vento. Infatti gli insuccessi furono frequenti
perché ci si affidava all’intuizione non essendo ancora disponibile una calcolazione precisa. Il
primo ponte sospeso realizzato in Italia fu il ponte borbonico in ferro sul Garigliano, costruito fra il
1828 ed il 1832 sulla base delle esperienze inglesi. Di origine francese fu invece il Ponte delle
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Catene a Bagni di Lucca del 1840. Anche a Firenze si ebbero due rilevanti esempi: i ponti di San
Leopoldo alle Cascine e quello di San Ferdinando a San Niccolò.
Verso la metà del XIX° secolo la rete dei sevizi di trasporto su strada aveva raggiunto una elevata
espansione in tutti i paesi europei. Grazie ai progressi intercorsi nella viabilità si era ottenuta una
notevole celerità dei tragitti. Lo sviluppo dei traffici abbracciava ormai non solo le strade di grande
comunicazione ereditate dall’antichità, ma tutto il reticolo minore a causa della crescente
diffusione di carri e vetture.
Nel XIX° secolo purtroppo lo sviluppo del sistema stradale subì una notevole battuta d’arresto con
l’innovazione tecnologica della ferrovia: il nobile cavallo trainante i carriaggi non poteva
competere col pragmatico cavallo-vapore dell’energia meccanica. La rivoluzione del trasporto
ferroviario fu repentina e traumatica. I decenni centrali del XIX° secolo risultarono fondamentali
per quel rapido progresso tecnologico che rivoluzionò ogni forma di mobilità di persone e merci.
La sostituzione dell’energia meccanica a quella animale consentì nei trasporti ferroviari velocità e
carichi mai prima possibili.
In Italia il primo tronco ferroviario da Napoli a Granatello di Portici fu inaugurato dal re Ferdinando
II di Borbone nel 1839. Nel 1842 la ferrovia aveva raggiunto Castellamare di Stabia e due anni
dopo Pompei e Nocera; lo sviluppo successivo non fu altrettanto celere e la via ferrata si fermò in
direzione Sud a Salerno ed in direzione Nord a Sparanise per non entrare nello Stato Pontificio;
tale situazione rimase invariata fino all’Unità d’Italia. Nel Regno Lombardo-Veneto nel 1842 fu
inaugurato il tratto Padova-Mestre, nel 1846 il tratto Milano-Treviglio ed il Ponte sulla Laguna al
fine di collegare le due capitali Milano e Venezia. Nel 1859 fu inaugurata la Verona-Bolzano e
Bolzano fu poi collegata a Innsbruck nel 1867 lungo la prima linea del Brennero. In Piemonte Carlo
Alberto di Savoia autorizzò la costruzione della Torino-Genova che fu messa in funzione nel 1854;
nel 1859, per interessamento di Cavour, si fecero i collegamenti con la Svizzera e la Francia. Nello
Stato Pontificio Pio IX nel 1859 costruì la Roma-Civitavecchia e, in accordo con gli Stati vicini, nel
1859 la Piacenza-Bologna, nel 1861 la Bologna-Ancona e nel 1864 la Bologna–Porretta. Nel
Granducato di Toscana furono inaugurate la Firenze-Pisa-Livorno, la Firenze-Prato-Pistoia, la PisaLucca e la Empoli-Siena. Per le ferrovie si sono potute riferire queste date certe, cosa non
possibile per le strade in quanto queste hanno origini antiche e variabili che si perdono nel tempo.
Con lo sviluppo delle ferrovie si ebbe anche un notevole impulso tecnologico nella costruzione dei
ponti dovuto alle vincolanti necessità plano altimetriche. Dopo le sfavorevoli esperienze della
prima generazione dei ponti sospesi, si adottarono schemi statici di semplice appoggio, di trave
continua e di archi, realizzando strutture in ferro con sezione piena o reticolare. La trave a
graticcio multiplo ebbe notevoli sviluppi sia in termini di calcolo statico sia di modalità costruttive
sempre più perfezionate nei particolari delle connessioni, chiodate o saldate. In Italia l’esempio più
eclatante di struttura in ferro è costituito dal ponte ferroviario di San Michele sull’Adda, costituito
da un arco incastrato di 266 m di luce che sostiene una trave continua; fu costruito nel 1889.
Facendo una brevissima storia della locomozione applicata alle ferrovie si ricorda che nel 1690 un
medico francese Denis Papin fece una rudimentale macchina a vapore che non ebbe seguito. Nel
1757 James Watt, giovane meccanico scozzese, ebbe l’incarico di aggiustare una delle prime
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macchine a vapore ideata da Thomas Newcomen; l’autodidatta scozzese apportò alla macchina
quei perfezionamenti che ne fecero una motrice di uso universale. George Stephenson , ingegnere
minerario, specialista nella costruzione delle ferrovie, costruì la prima locomotiva a vapore nel
1814. Nel 1815 Stephenson costruì la sua seconda locomotiva ottenendone il brevetto nel 1822. Il
figlio Robert perfezionò le macchine del padre che, dalle miniere per le quali erano state costruite,
passarono alle strade ferrate.
In due anni appena, dall’aprile 1859 al marzo 1861 si era realizzata l’Unità d’Italia. Furono annesse
al Regno dei Savoia, che già comprendeva Piemonte, Liguria e Sardegna, in rapida successione , la
Lombardia, Modena, Parma, la Toscana, le Legazioni comprendenti il resto dell’Emilia e la
Romagna, le Marche, l’Umbria ed infine il Regno delle Due Sicilie che era lo Stato preunitario più
esteso. Nel decennio successivo anche Roma e la Venezia Euganea entrarono a fare parte del
regno d’Italia. Il reddito del paese era modestissimo e dovuto principalmente all’agricoltura che
impiegava il 41% dell’intera popolazione. La nuova Italia ereditava dagli Stati preunitari una rete
viaria poco omogenea dove si aveva la seguente concentrazione di strade principali per 100 kmq di
superficie : Toscana 15,4, Lombardia 12,7, Piemonte 9,6, Campania 6,4. Per quanto riguarda le
strade comunali, i nove decimi appartenevano alle regioni settentrionali e centrali. Così mentre in
Lombardia si avevano 5,7 km di strade comunali per mille abitanti, nel napoletano erano 0,8 ed in
Sicilia e Sardegna 0,2. Molto diversi erano anche i sistemi giuridico-amministrativi e costruttivi
degli Stati preunitari e ciò rappresentò per il nuovo Regno un serio ostacolo allo sviluppo del
settore.
In tema di viabilità la nuova Italia incontrava ulteriori difficoltà persino a procurarsi un quadro
statistico dell’esatta situazione. Finalmente nel 1871 si riuscì a conoscere l’estensione del
patrimonio viario che risultò di 112.711 km. Le strade classificate nazionali e provinciali
sommavano a 22.955 km in tutta Italia. Di queste 4.095 si trovavano nel Regno di Sardegna, 3.149
in Lombardia, 4.843 nello Stato Pontificio, 3.340 in Toscana, 5.520 nel Regno di Napoli, i restanti
2.008 km nei Ducati. Per avere un quadro più espressivo si può fare riferimento ai km di strade per
1.000 abitanti e si ha il massimo in Toscana con 1,81 km ed il minimo nel Regno di Napoli con 0,81
km.
In questo contesto pur col lento progredire delle strade si ebbe una radicale evoluzione dei mezzi
di trasporto stradali. Il primo automezzo stradale mosso da energia meccanica sembra sia stato un
triciclo d’artiglieria sul quale era stata applicata una caldaia a vapore azionante su una ruota; il
costruttore era stato Nicolas Joseph Cugnot, francese, nel 1769. Nel 1801 comparve la prima
vettura a vapore su strada ad opera di Richard Trevithick, inglese. Il motore a combustione interna
apparve presto nella storia dei veicoli a motore, ma ci vollero parecchi decenni per essere
perfezionato e messo in grado di percorrere lunghe distanze su strada. Furono due tedeschi Otto e
Langen nel 1867 a realizzare su scala industriale il motore a scoppio a quattro tempi. Fu soltanto
nel 1885 che apparvero le prime auto a benzina progettate da due tedeschi Gottlieb Daimler e Karl
Benz. Nel 1887 Renè Panard creò un’automobile con telaio tubolare e con il motore che non era
più sotto i sedili ma era collocato nella parte anteriore. Quello scorcio del XIX° secolo vide la
nascita di molteplici invenzioni che avrebbero marcato la vita della gente fino ai giorni nostri: nel
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1876 il telefono di Meucci e Bell, nel 1878 il grammofono di Edison, nel 1888 la pellicola
impressionabile di Eastmann, nel 1894 il telegrafo senza fili di Marconi. L’automobile fu un anello
di questa catena di novità.
In Italia la prima automobile, che percorse le strade di allora, fu una Peugeot acquistata da un
industriale tessile lombardo nel 1893. L’11 luglio 1899 fu fondata la FIAT, Fabbrica Italiana
Automobili Torino; nel 1900 furono vendute le prime otto vetture. Le fabbriche italiane di auto agli
inizi del secolo ventesimo erano molte: nel 1906 se ne contavano ben 96. Nel 1906 venne fondata
la Lancia con prototipi caratterizzati da soluzioni tecniche d’avanguardia. Nel 1910 nacque l’ALFA,
Anonima Lombarda Fabbrica Automobili. Trovandosi in difficoltà finanziarie nel 1920 l’ALFA si fuse
con la fabbrica di Nicola Romeo e nacque l’ALFA ROMEO. Nel 1903 le “carrozze a motore” erano
1.440 contro le 226 del 1900.
IL VENTESIMO SECOLO – LE AUTOSTRADE
Il traffico motorizzato in continuo aumento cominciò a porre nuovi problemi per la viabilità,
problemi concernenti sia le tecniche di costruzione e manutenzione delle strade, sia la disciplina e
la regolamentazione della circolazione.
Accresciuto il traffico automobilistico nei primi decenni del ventesimo secolo, sulla strada si
verificarono diversi inconvenienti ed in particolare l’incompatibilità con altri modi di trasporto
quali i carri a traino animale, le biciclette, i pedoni. Questa commistione di mezzi con diverse
velocità, con diversi ingombri, con diverse esigenze di mobilità creò ingorghi, rallentamenti dei
mezzi veloci che perdevano quindi di efficienza, ed anche incidenti nei quali le utenze deboli erano
le più danneggiate. Sulla base di queste premesse nacque l’idea della “autostrada”. L’idea, tutta
italiana, fu lanciata nel 1923. Si trattava di costruire, prima nel mondo, una strada a sevizio
esclusivo dell’automobile. L’autostrada costituiva una idea avveniristica che attecchì nell’opinione
pubblica italiana perché in essa si era formata una certa cultura dell’automobile e della velocità.
Nel 1909 il poeta futurista Tommaso Marinetti, con la solita ricerca del paradosso, nel Manifesto
Futurista declamava “l’automobile da corsa col cofano adorno da grossi tubi simili a serpenti
dall’alito esplosivo”. D’altra parte l’ansia di cambiamento che agitava l’Italia dopo “l’inutile strage”
della guerra del 1915-18 vedeva nell’automobilismo la speranza di un migliore modo di vivere
secondo una nuova linea di pensiero sempre più condivisa dall’opinione pubblica. Anche
D’Annunzio ebbe entusiasmo per l’autostrada che definì “genuina fautrice di velocità, la prima
nata dall’arco teso che si chiama vita”. Chiaramente questa infrastruttura non poteva non piacere
alla classe politica fascista allora dominante quale fattore propagandistico a forte presa nazionale
ed internazionale. L’idea originaria delle autostrade va attribuita all’ing. Pietro Puricelli, uno dei
maggiori impresari stradali del primo dopoguerra, che tradusse le vaghe aspirazioni correnti in
documentati progetti prima, e in concrete realizzazioni poi, ritraendo importanti benefici per le
sue imprese di costruzione. Le caratteristiche essenziali di una autostrada di allora erano:
esclusione del traffico non veicolare, assoggettamento a regole di polizia stradale, adozione di
requisiti tecnici speciali quali la larghezza della carreggiata adeguata al volume ed alla velocità del
traffico, lunghi rettilinei raccordati con amplissime curve, pavimentazione permanente liscia ma
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non sdrucciolevole, soppressione di ogni attraversamento a livello, servizi accessori per
rifornimenti, riparazioni e informazioni. Il criterio dei “lunghi rettilinei” è stato adottato anche per
le autostrade di prima generazione degli anni cinquanta del XX° secolo (vedi l’Autostrada del Sole
nei tratti pianeggianti). Tale criterio è poi stato superato in quanto apportatore di disattenzione e
quindi di pericolosità. La costruzione delle autostrade fu data in concessione a privati.
Automaticamente venne introdotto il pedaggio che incontrò forti opposizioni in quanto
contrastava con il fornire gratuitamente l’infrastruttura, come era sempre avvenuto. Quindi le
autostrade non portarono sufficiente reddito ai concessionari che quindi furono in parte
sovvenzionati dallo Stato.
Nelle realizzazioni autostradali avviate negli anni venti i criteri di progettazione dei tracciati molto
risentivano della cultura dominante dell’ingegneria ferroviaria. L’opzione geometrica
fondamentale, come si è detto, era rivolta a preferire lunghi rettilinei con il minor numero
possibile di curve in genere ad ampio raggio. Tale impostazione, certamente evolutiva rispetto ai
canoni correnti della cultura stradale di allora, venne praticamente ad escludere la regola di
adattare il tracciato alla morfologia del terreno. Il prevalere delle esigenze geometriche rispetto
alle forme naturali del terreno costituì un significativo salto culturale nel tracciato delle
autostrade. Questo fatto, nel contempo, acquisì, nell’ambito corrente dell’ingegneria stradale, una
serie di problematiche, prima considerate episodiche, come i grandi movimenti di terra in scavo ed
in rilevato, la realizzazione di estese ed importanti murature di sostegno, il ricorso a tratti in
galleria, e, in particolare, la diffusione di manufatti da ponte. La costruzione dei ponti anche di
grandi dimensioni fu supportata da più raffinate e pertinenti calcolazioni in sede di progetto e
dalla crescente diffusione del cemento armato in sede di costruzione.
Il tratto Milano-Varese dell’Autostrada dei Laghi fu inaugurato nel settembre del 1924; un anno
dopo fu aperto al traffico l’ultimo tratto Gallarate-Sesto Calende rendendo l’intera autostrada
funzionante sull’intero percorso di 85 km. L’autostrada Bergamo-Milano di 49 km ebbe i lavori
conclusi nel 1927; il progetto era inserito in un più ampio disegno di rete autostradale che l’ing.
Puricelli aveva presentato al governo nel 1925; quindi si osserva come, anche allora, ci fossero
master plan di ampie dimensioni che scaturivano da progettisti dotati di visione vasta e
lungimirante. Nel 1929 fu inaugurata la Napoli-Pompei di 23 km; nel 1930 il raccordo per
Castellamare di Stabia e nel 1936 il prolungamento verso il cuore di Napoli. La stasi che si verificò
nelle costruzioni autostradali all’inizio degli anni trenta fu dovuta alla crisi economica del 1929,
protrattasi fino al 1933. Nell’agosto 1931, comunque, fu aperta al traffico l’autostrada BresciaBergamo di 45 km. Nel 1932 la Milano-Torino di 127 km e la Firenze-Mare di 81 km. Nel 1933 fu
inaugurata la Venezia-Padova di 24 km. Poiché le previsioni di traffico attorno a Roma apparivano
molto scarse e quindi tali da mettere in crisi il sistema delle concessioni, Mussolini decise che
bisognava comunque realizzare una strada fra la capitale ed il mare. Nacque così la “strada
automobilistica” fra Roma e Ostia di 20 km; per economizzare si fecero molte intersezioni a livello,
le pavimentazioni furono sottodimensionate, in principio si escluse il transito degli autocarri, non
furono fatte costruzioni di servizio; l’inaugurazione avvenne nel 1929. L’Autocamionale GenovaSerravalle, che vide la luce nel 1935, fu certamente un’opera per quei tempi grandiosa sia sotto
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l’aspetto tecnico, sia per il cospicuo impegno finanziario, in quanto si dovette attraversare
l’Appennino.
IL VENTESIMO SECOLO – LA TECNICA STRADALE
L’avvento delle automobili e la progressiva riduzione del traino animale trasformavano le strade
sempre più nel regno della polvere. Le vecchie massicciate, pur con la cilindratura meccanica, non
potevano resistere al nuovo genere di sollecitazioni. La polvere sollevata dalle automobili non solo
produceva fastidio agli utenti e danno alle proprietà vicine con evidente pericolo igienico, ma
determinava l’impoverimento delle massicciate, al cui reintegro la manutenzione difficilmente
riusciva a sopperire. Quindi praticamente sulle strade si aveva polvere in estate nelle stagioni
secche e fango in inverno nelle stagioni umide. D’altra parte, invece, il problema della portanza era
stato risolto per quei tempi e per quei mezzi con la tecnologia di Mac Adam. Era quindi necessario
risolvere il problema superficiale. Le prime strade catramate nacquero in Italia per opera di un
tecnico illuminato, l’ing. Guido Rimini della Provincia di Ravenna, responsabile del reparto di Lugo.
I primi esperimenti furono fatti nel 1901 sulle provinciali “Quarantola” e “Felisio” in prossimità
appunto della città di Lugo a seguito di un articolo apparso sulla rivista “Le Strade” nell’aprile dello
stesso anno. In quell’articolo si riportava la notizia di applicazioni effettuate dall’ing. Londgen in
California fino dal 1898 utilizzando il petrolio: le strade petroliate. Questa tecnica in Italia non
poteva essere applicata a causa dell’elevato costo del petrolio. La grande intuizione dell’ing. Rimini
fu quella di utilizzare un materiale più povero: il catrame liquido proveniente dalla combustione
del carbone per la formazione del gas. Questo materiale veniva prodotto nelle cosiddette officine
del gas che, in quei tempi, erano ubicate nelle grandi città, come, ad esempio a Bologna dove
ancora l’officina del gas costituisce un elemento di architettura industriale del diciannovesimo
secolo; il catrame applicato a Lugo proveniva appunto da Bologna. Scrive l’ing. Rimini : “Sulle
massicciate a macadam, che, per effetto della siccità, cominciano a produrre polvere, si versa del
catrame del gas ben liquido; questo vi penetra cementando il conglomerato e formando in
superficie una crosta assai dura che resiste bene al carreggio”. In questa pratica l’applicazione in
sito consisteva nelle seguenti operazioni: si sagomava la massicciata con forte pendenza verso
l’esterno, si risarcivano le parti ammalorate con materiale di imbrecciamento, si compattava con
rulli pesanti a vapore, si riscaldava il catrame a 60 gradi, si stendeva il catrame con scope. La
tecnologia si estese a tutta Italia e fu perfezionata, per quei tempi, principalmente su due punti: il
materiale legante utilizzato e le attrezzature. In merito al materiale si capì subito che per ottenere
un buon risultato occorreva utilizzare un legante che facilitasse la penetrazione e l’impregnazione
nella massicciata; si miscelò quindi il catrame da gas con olii minerali e si riscaldò la miscela. Per
quanto riguarda le attrezzature, si fece affidamento sui primi rulli compressori ad unico cilindro
trainato da cavalli ed alle caldaie portatili su strada.
Lo sviluppo del traffico automobilistico dopo la prima guerra mondiale portò ben presto le
catramature a perdere mercato di fronte ad un formidabile antagonista: il bitume proveniente
dalla distillazione del petrolio, che soppiantò progressivamente le catramature presentando
proprietà più efficaci e durature. La tecnica dei trattamenti superficiali si andò diffondendo e
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perfezionando con la determinazione scientifica del legante e degli aggregati. Nel 1924 si ebbero
in Italia le prime applicazioni del bitume a caldo e nel 1925 i primi impieghi di emulsioni
bituminose. Nel contempo si acquisì l’importanza di aggregati litici di elevata qualità e resistenza.
Le pavimentazioni asfaltiche o bituminose, anticipatrici dei conglomerati bituminosi moderni,
furono inizialmente poco diffuse a causa di una opinabile breve vita utile. Per le prime autostrade
furono usate in superficie lastre di calcestruzzo ritenute più durature; si facevano lastre di circa 20
cm di spessore. L’esperienza si rivelò negativa a causa dei sottofondi non sufficientemente stabili
per assicurare piani di uniforme portata. Si passò quindi, anche per le ultime autostrade degli anni
trenta alle pavimentazioni di tipo “flessibile” con gli strati superiori legati dapprima con catrame
poi con bitume. Tale tipologia di pavimentazione è ancora utilizzata ai giorni nostri, chiaramente
con materiali, ed in particolare leganti, più performanti. Oggi si usano i bitumi modificati, ossia
additivati con polimeri che ne migliorano le qualità di resistenza ai fenomeni di fatica ed
all’invecchiamento. In tempi moderni sono poi nate le pavimentazioni “semirigide” con
l’interposizione di uno strato legato a cemento posto in posizione centrale del pacchetto della
pavimentazione, al fine di allungare la vita utile dei conglomerati bituminosi.
Un chiaro segnale della crescente globalizzazione della tecnica stradale fu il Primo Congresso della
Strada che si svolse nel 1908 a Parigi. Tra i vari aspetti su cui il Congresso aveva richiamato
l’attenzione, il più importante fu ritenuto l’esigenza di una buona fondazione delle massicciate, in
quanto essa influiva drasticamente sulla durabilità e sulla conservazione del piano viabile. La
strada del futuro, secondo le risoluzioni finali del Congresso, doveva seguire il criterio della zona
viabile, ossia carreggiata, incatramata, larga almeno 6 m, avere pendenze medie poco variabili,
raggi delle curve di ampiezza non minore di 50 m, incroci senza ostacoli. Si nota che alcune
prescrizioni in merito alla geometria del tracciato sono ancora oggi valide.
IL VENTESIMO SECOLO – LA GESTIONE DELLE STRADE
Lo stato disastroso in cui versava la rete stradale italiana dopo la prima guerra mondiale (1918),
l’inadeguatezza dei tracciati, la carenza manutentoria della carreggiate, determinarono la chiara
percezione di un problema non risolvibile dall’organizzazione viaria in essere in mano a province e
comuni. Scartata l’ipotesi di affidare in concessione a privati non solo le autostrade, ma anche
l’intera rete delle strade primarie, con l’obbligo della loro graduale riparazione e sistemazione, la
scelta politica si orientò verso l’istituzione di un nuovo organismo che doveva assumere la
gestione della rete delle strade denominate statali. Con Legge del 17 maggio 1928 n. 1094, venne
costituita l’Azienda Autonoma Statale della Strada (A.A.S.S.) che ebbe in gestione una rete
organica di 137 strade per complessivi 20.622 km. Si trattava in genere di strade con vecchie
carreggiate a macadam, in condizioni manutentorie scadenti. La legge conferì alla A.A.S.S. la
possibilità di comportamento e di decisioni , con interventi finanziari ed operativi tali da renderla,
sia pure sotto la presidenza del Ministero dei LL. PP., un organismo quasi completamente libero
dai controlli burocratici dello Stato. Tra le prime strade statali classificate ci furono le consolari :
SS.1 Aurelia (Roma-Pisa-Genova-Ventimiglia), SS.2 Cassia (Roma-Siena-Firenze), SS.3 Flaminia
(Roma-Terni-Fano), e così via fino alla SS.9 Emilia (Rimini-Bologna-Milano). Oltre a provvedere alla
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manutenzione l’A.A.S.S. costruì anche circa 12.000 km di nuove strade . Alla sua soppressione nel
settembre 1944 la maggior parte delle strade statali furono lasciate in condizioni accettabili in
merito ai tracciati per gli standard tecnici dell’epoca, mediante moltissimi interventi di rettifica ed
ammodernamento. In merito alle pavimentazioni l’A.A.S.S. si pose l’obiettivo della
depolverizzazione. Dapprima si fecero i cosiddetti macadam protetti che consistevano in
trattamenti a caldo con bitume di importazione. Con l’”autarchia” e le “inique sanzioni” del 1936
da parte della Società delle Nazioni a causa della guerra d’Africa, si utilizzarono i giacimenti di
rocce asfaltiche dell’Abruzzo e della Sicilia. Le polveri asfaltiche furono usate per rivestimenti
protettivi di nuove massicciate stradali, per manutenzione di preesistenti trattamenti superficiali,
per irruvidimento di pavimentazioni divenute eccessivamente lisce in superficie. L’A.A.S.S. varò
anche un programma generale per il riordino della segnaletica verticale e per l’istituzione di quella
orizzontale.
Le condizioni delle strade, riguardo alle pavimentazioni, alla fine della seconda guerra mondiale
(1945), erano disastrose. Alla lunga interruzione nell’opera di manutenzione si erano aggiunte le
distruzioni causate dai belligeranti. Oltre ai ponti e ai manufatti minori ovunque colpiti,
pavimentazioni per lunghissime tratte sconvolte e muri di sostegno crollati, determinavano gravi
interruzioni al regolare esercizio del traffico. Le distruzioni più gravi si verificarono nella zona
compresa tra la Linea Gustav e la Linea Gotica nell’Italia centro-settentrionale durante lo
spostamento del fronte dall’una all’altra linea nell’ultimo anno di guerra. All’Italia del Nord furono
in parte risparmiate le distruzioni sofferte dalle strade in altre regioni; nel Sud il passaggio del
conflitto aveva provocato specialmente la distruzione dei ponti esercitata dai tedeschi in ritirata.
Ancora più imponente si manifestava il disastro per la rete ferroviaria sulla quale gli Alleati ed i
Tedeschi si erano accaniti recidendo le linee in tutti i punti più vulnerabili, così da paralizzare
l’intera nazione; in sintesi i binari erano inutilizzabili per il 35% delle linee a doppio binario, il 10%
delle linee a semplice, il 35% dei fasci di stazione.
Nel dopoguerra, dal 1945, i maggiori investimenti furono fatti per le ferrovie; meno per le strade.
Gli interventi furono eseguiti per ripristinare le opere, ma anche principalmente per fronteggiare
la grave disoccupazione di quegli anni. Le strade comunque continuarono, sia pure
fortunosamente, a svolgere il loro insostituibile compito, favorite dal fatto di essere molto meno
esigenti delle ferrovie nei confronti di sistemazioni provvisorie sia della pavimentazione che della
geometria. A sanare l’assoluta mancanza di direttive per la grande viabilità nazionale sopravvenne
l’istituzione dell’Azienda Nazionale Autonoma delle Strade Statali (ANAS), che venne a sostituire la
cessata A.A.S.S.. Il decreto istitutivo è del giugno 1946 e conferiva all’ANAS il compito di gestire la
rete ordinaria e autostradale appartenente allo Stato, e affidava ad essa anche il controllo
dell’esercizio delle autostrade non statali allo scopo di facilitare un disegno unitario di conduzione.
Per la mancanza di adeguati finanziamenti le strade italiane, nel loro complesso, nell’immediato
dopoguerra, continuarono a sussistere in condizioni di estrema miseria e ristrettezza. Nel 1950, su
175.000 km di strade extraurbane, ben 150.000 km erano ancora polverosi. La ricostruzione della
rete richiese un decennio; solo nel 1955 l’ANAS ufficializzò al Parlamento la fine dell’emergenza
post-bellica. Le autostrade continuarono ad essere migliorate per assorbire la notevole espansione
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dell’autotrasporto dovuta al mancato sviluppo delle ferrovie. Negli anni fra il 1947 ed il 1952 su
tutta la rete autostradale si fecero imponenti lavori di sistemazione dei ponti e delle
pavimentazioni in virtù degli introiti che derivavano dai pedaggi. Il 21 settembre 2001 si ha un
riassetto della rete stradale nazionale per cui l’ANAS cede alle Regioni, che poi passano
generalmente alle Province, 29.410 km dei suoi 46.400 km di strade.
Negli anni dal 1950 al 1955, sulla base dell’ulteriore aumento del traffico stradale , su
sollecitazione dell’industria meccanica, in particolare automobilistica, e delle imprese di
costruzione, si ricominciò a considerare le autostrade secondo diversi master plan presentati dai
Ministri dei LL.PP. e da tecnici privati in genere universitari. Il problema era focalizzato nei
finanziamenti, considerato che lo Stato non era in grado di sostenerli. Si accese un vivace dibattito
nel quale intervenne autorevolmente anche il prof. Francesco Balatroni, insigne maestro di Strade
dell’Università di Bologna; il prof. Balatroni resse la cattedra di Strade fino al 1954. Anche secondo
i suggerimenti del prof. Balatroni si arrivò alla soluzione, praticamente quale quella attuale, delle
concessioni, per cui lo Stato da un contributo ed il concessionario ricava il resto dai pedaggi. La
Legge n. 463 del 1955, nota anche come legge Romita dal nome del Ministro dei LL. PP. del tempo,
avviò la costruzione delle autostrade di seconda generazione. Essa era una legge di finanziamento ,
la quale, nel delineare un piano poliennale di sviluppo e miglioramento della rete, tentava di dare
un assetto definitivo e organico all’intero sistema autostradale italiano. Il primo gruppo di
autostrade per il quale venne emanato il decreto di concessione furono la “A1” Milano-Napoli
ultimata nel 1964, e successivamente la “A4” Brescia-Verona-Vicenza-Padova. Nel 1975 assunse
livelli preoccupanti la crisi delle società concessionarie che, con la riscossione dei pedaggi, non
riuscivano a quadrare i bilanci. Chiaramente dovette intervenire lo Stato, che comunque non
aveva elevate disponibilità. Di conseguenza fu sancito il blocco delle costruzioni delle autostrade
anche perché si cominciò a valutare modi alternativi di trasporto, in primis le ferrovie,
considerato il forte impatto ambientale del trasporto su strada. La costruzione delle autostrade,
limitata a opere di completamento e di allargamento delle carreggiate da due a tre corsie, riprese
con la legge del 1982 . Praticamente si è così arrivati alla situazione attuale.
LA SITUAZIONE ATTUALE
La rete stradale italiana attualmente ha una estensione di 487,5 mila km , di cui 6,5 mila km di
autostrade, 17 mila km di strade statali gestite dall’ANAS, 154 mila km di strade provinciali e 310
mila km di strade comunali, escluse le urbane. Il parco veicolare attualmente circolante in Italia è
costituito complessivamente da 48,8 milioni di unità, di cui 36,7 milioni di autovetture, 6,4 milioni
di motocicli, 5,6 milioni di autocarri, 0,1 milioni di autobus e altri veicoli quali veicoli agricoli,
macchine stradali, veicoli di sevizio. Con questi numeri l’Italia risulta avere una densità veicolare
sulla rete stradale, espressa in veicoli per km, che é la maggiore in ambito comunitario. Nella
comunità europea l’Italia risulta essere significativamente superiore a Germania, Inghilterra e
Francia. E’ evidente che una elevata concentrazione di veicoli su strada facilita l’incidentalità.
Infatti, in merito all’incidentalità, le statistiche rilevano che in Italia nel 2012 (ultimo rilevamento
ISTAT) si sono verificati circa 230.000 incidenti con 3.653 morti e 264.716 feriti. Con questi
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numeri l’Italia non ha raggiunto l’obiettivo dell’UE di riduzione del 50% dei morti nel decennio
2001-2010; il nostro Paese si piazza al tredicesimo posto tra i paesi UE con una riduzione
complessiva del 43%. I costi determinati dagli incidenti stradali a causa della distruzione di beni,
delle spese sanitarie, dei costi previdenziali ed assistenziali, degli oneri collegati alla ricostituzione
di professionalità perse o alla sostituzione di professionalità temporaneamente inabilitate, sono
valutati in 24.600 milioni di Euro. Da questa situazione di dotazione stradale e di incidentalità, ne
consegue che le strade in Italia oltre ad essere carenti come estensione lo sono anche per le
condizioni di sicurezza.
D’altra parte in Italia è prevalente l’utilizzo del modo stradale dei trasporti, fatto comune a molti
paesi; tuttavia l’Italia mostra una anomalia di un più sensibile squilibrio. Infatti la mobilità delle
persone utilizza per il 91% la strada, solo per l’8% la ferrovia e per l’1% l’aereo; e così quella delle
merci utilizza per il 70% la strada, per il 15% il cabotaggio, per l’11% le ferrovie e per il 4% le
condotte.
Attualmente in Italia si sta completando il sistema Alta Velocità/Alta Capacità ferroviaria. Questo
comporterà una variazione nella ripartizione dei modi di trasporto sia per i passeggeri che per le
merci. Tale variazione non sarà comunque molto sensibile perché l’AV/AC interessa solo la “T”
costituita dal tracciato Ovest/Est da Torino a Trieste e dal Nord/Sud da Milano a Salerno (ora si sta
lavorando anche sulla Salerno-Bari), mentre tutte le altre tratte rimarranno generalmente
invariate, se non addirittura meno servite. Un ulteriore contributo alla variazione dei modi di
trasporto potrà essere determinato dalla navigazione interna del Nord Italia e dalle autostrade del
mare, quando questi modi avranno risolto i problemi infrastrutturali ed organizzativi che
attualmente ne bloccano l’espansione. La conclusione è quindi che le strade servono e serviranno
ancora, e quindi esse vanno potenziate per avere anche un rilancio dell’economia. Infatti è
accertato che la capacità di aggressione dei mercati dipende non solamente dalla qualità del
prodotto e dai costi di produzione, ma anche dall’efficienza delle reti di sevizi. Da qui l’importanza
strategica delle infrastrutture di rete in generale e quindi anche di quelle dei sistemi di trasporto.
Gli economisti affermano che il comparto dei trasporti e della logistica vale circa l’8% del PIL.
D’altra parte all’interno del comparto dei trasporti un contributo determinante viene fornito
proprio dalla mobilità su strada.
E’ pertanto chiaro che non è vero che in Italia, negli anni passati, si è speso troppo nel settore delle
strade. Se così non fosse, oggi sarebbe in crisi l’intero sistema nazionale dei trasporti e la crisi
economica sarebbe più evidente.
Per migliorare la situazione e razionalizzare il sistema stradale in una prospettiva a lungo termine
si deve intervenire in due direzioni. La prima è quella di completare i grandi itinerari con valenza
internazionale e nazionale. A questo proposito si ricorda che l’Italia è interessata da tre corridoi
internazionali del TEN-T (Trans European Network). Il corridoio che unisce Lisbona a Kiev (ex
corridoio n. 5) attraversa la pianura padana da Torino a Trieste ed interessa, con andamento
Ovest/Est, le maggiori realtà produttive del paese; al proposito ci si augura che chi osteggia
questo tracciato in Val Susa si renda conto che si tratta di una opportunità eccezionale per
relazionare a Ovest con la Spagna e la Francia e a Est con i paesi emergenti dell’Est europeo. Il
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corridoio Helsinki-Berlino-Roma-Palermo (ex n.1) unisce l’Italia col Nord Europa e quindi con i
paesi più avanzati del continente. Infine il corridoio Rotterdam-Genova (ex n. 24) permette il
collegamento fra il Mare del Nord ed il Mediterraneo. Questi tre corridoi internazionali devono
essere potenziati per mettere l’Italia in rete in modo che abbia la possibilità di relazionare con
tutta l’Europa. A livello nazionale in più, a parte fatti locali, si notano principalmente carenze
longitudinali con andamento Nord/Sud. Innanzi tutto deve essere completata la variante di valico
Bologna/Firenze, ma devono essere anche considerati i percorsi alternativi costituti
dall’autostrada tirrenica da Livorno a Civitavecchia e dall’itinerario E45/E55 (Orte-Perugia-CesenaRavenna-Venezia) che rappresenta una mediana importante di collegamento del centro Italia col
Nord. La seconda direzione di intervento è quella naturalmente del miglioramento della rete
esistente, miglioramento individuabile principalmente in tre elementi : eliminazione dei punti neri,
adeguamento plano-altimetrico, risezionamento con rifacimento del piano viabile. Queste
operazioni sono finalizzate a velocizzare i percorsi, sfruttare nuove opportunità di collegamento,
migliorare le condizioni di sicurezza.
LA FILOSOFIA DELLA PROGETTAZIONE STRADALE
Attualmente l’ingegneria stradale ha consolidato nuovi indirizzi tecnici che pongono la
progettazione in uno scenario del tutto innovativo, attribuendo alle infrastrutture viarie valenze ad
ampio spettro sociale e macro-economico. Fino agli anni cinquanta la progettazione era
improntata al solo aspetto economico e le strade venivano progettate con lunghi rettilinei che
avevano lo scopo di ridurre la lunghezza della strada e quindi contenere i costi di costruzione e di
percorrenza. Negli anni settanta nacque il problema ambientale sotto il duplice aspetto: paesistico
e di inquinamento atmosferico. Paesisticamente è chiaro che la strada determina una frattura nel
territorio con effetti negativi; tuttavia con una progettazione accorta che rispetti le zone sensibili
e, quando occorre, ponga la strada a scomparsa sotto il piano campagna, si possono ottenere
ottimi risultati. Per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico, la tecnica stradale può utilizzare
materiali “mangia smog” a base di biossido di titanio per le pavimentazioni, e tracciati che
consentono una marcia regolare senza notevoli variazioni di moto. Dagli anni ottanta la
progettazione stradale, senza dimenticare le esperienze precedenti di economicità e di rispetto
ambientale, ha posto particolare attenzione alle problematiche della sicurezza che devono essere
risolte con un nuovo approccio del rapporto strada-conducente del veicolo.
La progettazione diventa quindi un procedimento iterativo che subordina le scelte tecniche alla
verifica degli effetti indotti al fine di perseguire un compromesso tra esigenze funzionali,
economiche, ambientali e di sicurezza atto a garantire il miglior bilancio. Infatti è diventato
patrimonio della moderna cultura stradale che la strada debba essere sicura, debba garantire
adeguati livelli di servizio per tutta la sua vita utile e debba essere sostenibile dal territorio
attraversato. Il risultato del percorso progettuale è che la strada con i suoi volumi, le sue opere
d’arte, lo stesso tracciato, diventi ambiente nell’ambiente preesistente, ne sia elemento di
valorizzazione e di arricchimento. Così avviene che la progettazione, così definita integrata, nel suo
divenire lungo il percorso progettuale, nel disegnare la strada ai differenti livelli di
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approfondimento, nella sua capacità di coinvolgimento e di convincimento delle comunità
direttamente interessate, diventa una sicura metodologia quando si vogliono armonizzare natura
e manufatti, meccanica e sicurezza, estetica e statica. In riferimento alle relazioni fra strada e
utente, è nota l’importanza del comportamento del conducente del veicolo in relazione alle
caratteristiche geometriche e di progetto. In questi ultimi anni si sono intensificati gli studi circa le
variazioni del comportamento di guida in relazione all’ambiente stradale. E’ conseguentemente
nata una evoluzione della tracciatistica dove la concezione dell’asse viario si è progressivamente
spostata verso un legame con il guidatore , ricercando di impegnarne l’attenzione in maniera
concentrata su situazioni visive chiare e progressive in modo da influenzarne positivamente la
reattività. Quindi deve essere l’estetica intrinseca del tracciato a determinare il continuo
adattamento del conducente del veicolo all’apparente movimento dello spazio animato che lo
circonda. L’elemento umano viene così a rivestire un ruolo preponderante nelle scelte planoaltimetriche, con particolare riferimento ai nuovi target di sicurezza stradale.
Una ulteriore caratteristica della strada moderna si esplica nella riduzione delle esternalità
ambientali attraverso il riuso dei materiali di scavo e di demolizione. I materiali costituenti il corpo
stradale e le pavimentazioni derivano sempre meno da cave appositamente aperte e originano
sempre più dal recupero e dal trattamento migliorativo di componenti di risulta.
Da queste considerazioni si evince che la tecnica stradale è in continua evoluzione sia sotto
l’aspetto progettuale che costruttivo. Tuttavia chi si accinge a progettare una strada non può e
non deve confrontarsi solo con i regolamenti e le tecnologie, ma deve esporsi personalmente ed
assumere una funzione che io definisco “eroica” in quanto espressione che scende dal cuore, che
crea emozione, che coinvolge tutta la sfera intellettuale e sensoriale.
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