EI_01012_Iniziali_pp.1-8 01/06/12 19.26 Pagina 1 EI_01012_Iniziali_pp.1-8 01/06/12 19.26 Pagina 2 EI_01012_Iniziali_pp.1-8 01/06/12 19.26 Pagina 3 ECONOMIA ITALIANA Numero 1 | primavera 2012 Pubblicazione quadrimestrale a cura di UNICREDIT Roma EI_01012_Iniziali_pp.1-8 01/06/12 19.26 Pagina 4 ECONOMIA ITALIANA Fondata nel 1979 da Mario Arcelli Direttore scientifico Paolo Guerrieri Vice direttore scientifico Giovanni Farese Direttore responsabile Alessandro Spaventa Comitato scientifico Giorgio Basevi, Università di Bologna Innocenzo Cipolletta, Università di Trento Marcello De Cecco, Scuola Normale Superiore, Pisa Antonio Maria Fusco, Università di Napoli Federico II Giorgia Giovannetti, Università di Firenze Pier Carlo Padoan, OCSE, Parigi Luigi Paganetto, Università di Roma Tor Vergata Antonio Pedone, Sapienza Università di Roma Margherita Scarlato, Università di Roma Tre Paola Subacchi, Chatham House, Londra Coordinatore delle pubblicazioni scientifiche Elena Fenili (Head of Political Studies) Staff editoriale Maria Lodovica Migliorini (Segretario di redazione) Rinaldi Rinaldi (Relazioni esterne ed eventi) Vincenza Talone (Coordinamento interno) EI_01012_Iniziali_pp.1-8 01/06/12 19.26 Pagina 5 Economia italiana 1•2012 Sommario 9 Editoriale Rigore, crescita, equità: la sfida italiana Paolo Guerrieri In controluce LA NUOVA FASE DELLA GLOBALIZZAZIONE 21 Ripensare la globalizzazione Paola Subacchi 27 Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti degli economisti Mario Deaglio Tema di discussione IL SENTIERO DI AGGIUSTAMENTO A MEDIO TERMINE DELL’ECONOMIA ITALIANA 37 Il risanamento dei conti pubblici Giuseppe Pisauro 63 L'Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione Innocenzo Cipolletta e Sergio De Nardis 99 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta EI_01012_Iniziali_pp.1-8 01/06/12 19.26 Pagina 6 147 Studi e ricerche Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI Francesca Bartoli 173 Rassegna della letteratura economica A cura di Antonio Maria Fusco 209 L’Italia in cifre EI_01012_Iniziali_pp.1-8 01/06/12 19.26 Pagina 7 Editoriale EI_01012_Iniziali_pp.1-8 01/06/12 19.26 Pagina 8 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 9 I rischi Rigore, crescita, equità: la sfida italiana Paolo Guerrieri Direttore Scientifico di Economia Italiana, Sapienza Università di Roma Dalla primavera dello scorso anno l’economia italiana è entrata nel vortice della crisi dell’euro e da quel momento le sue sorti sono rimaste strettamente legate agli incerti e fluttuanti andamenti dell’area europea. È una crisi che ha certamente molte cause, ma tra le principali vi è il deficit accumulato in questi anni dall’Europa. Un deficit economico e sociale, innanzi tutto, cui si è aggiunto un preoccupante deficit politico, che ha danneggiato il progetto dell’euro come fase di passaggio verso successive e più avanzate forme d’integrazione. Dall’autunno del 2009, quando tutto è cominciato con le rivelazioni sui trucchi di bilancio operati dal governo di Atene, la risposta della classe politica europea è stata segnata da incredibili ritardi e ambiguità. I paesi dell’euro, in prima linea Germania e Francia, anziché affrontare con tempestività e determinazione i problemi emersi dalla più grave crisi del dopoguerra, hanno preferito, per ragioni eminentemente politiche di natura interna ai singoli paesi, prima negarli, poi rinviarli e infine cercare di risolverli con misure e interventi apparsi sempre troppo timidi e tardivi per risultare convincenti agli occhi di investitori e mercati internazionali. Solo di recente, col varo di nuove misure e strumenti della governance europea – ultimo in ordine di tempo il varo del cosiddetto “Fiscal Compact” – si è arrivati a riconoscere le implicazioni sistemiche della crisi, non più circoscrivibili ai paesi maggiormente indebitati (Grecia, Spagna, Portogallo). Non sorprende così che i mercati finanziari internazionali abbiano avuto facile gioco ad approfittare di volta in volta – anche grazie all’assenza di efficaci regolamentazioni – di questi comportamenti tardivi e poco efficaci. Il risultato è che a tutt’oggi la crisi è ben lungi dall’essere risolta. Il editoriale 9 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 10 Paolo Guerrieri problema più grave da fronteggiare è la fase recessiva in atto in un vasto insieme di paesi periferici europei unitamente alla prospettiva – negli scenari più ottimistici – di un ristagno più o meno prolungato nei prossimi anni dell’area euro nel suo insieme. In assenza di una rinnovata dinamica di crescita, l’austerità fiscale – oggi perseguita dai più perché necessaria – rischia di divenire in poco tempo intollerabile e trasformarsi in un vero e proprio circolo vizioso che può spingere verso un ulteriore aggravamento della crisi. Vecchie e nuove fragilità dell’economia italiana L’economia italiana è stata una delle più colpite in Europa dall’esplodere, prima, e dall’aggravarsi, poi, della crisi. Il suo stato di salute era stato indebolito dalla perdita di terreno manifestatasi dalla metà degli anni ’90 e per oltre un quindicennio rispetto alla crescita dei paesi più avanzati. Anche nella più recente breve fase di ripresa, la crescita italiana è risultata modesta, al di sotto la media europea. Siamo poi entrati in una nuova recessione che rischia di prolungarsi e debilitare ulteriormente le condizioni di fondo della nostra economia. La perdurante fragilità del nostro paese è ovviamente imputabile a molteplici e complessi fattori. Si può tentare di sintetizzarli distinguendo quelli di breve periodo da quelli di più lungo periodo. Tra i primi, si può certamente ricordare che è stato fatto assai poco negli ultimi anni per arginare gli effetti della drammatica crisi globale: sono state stanziate pochissime risorse per la crescita e non è stata messa in campo alcuna vera strategia di politica economica. Un’inerzia che è costata cara in termini di ulteriore indebolimento dei nostri fondamentali e che è solo in parte giustificata dall’elevato stock di debito pubblico che ci accompagna da anni. Poi vi sono le cause di più lungo periodo, legate ai problemi strutturali della nostra economia – assai numerosi e purtroppo noti da qualche tempo – che vanno dalle fragilità del sistema produttivo e della ricerca, alla carenza d’infrastrutture, all’inefficienza del sistema di 10 economia italiana 1•2012 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 11 Rigore, crescita, equità: la sfida italiana welfare e della Pubblica Amministrazione, al dualismo territoriale, tanto per ricordare le più importanti. Il dato in assoluto più negativo riguarda l’andamento della produttività totale dei fattori, un indicatore assai rilevante perché riassume la capacità di un’economia di combinare in maniera efficiente la dotazione complessiva di capitale e lavoro che rappresenta l’ingrediente primo della crescita di un paese. Ebbene, nel corso dell’ultimo decennio tale indicatore segnala un preoccupante arretramento della nostra economia, ulteriormente aggravatosi nel periodo più recente. Sono tendenze di per sé preoccupanti e lo diventano ancor più se confrontate con quelle dei nostri maggiori partner europei, che hanno fatto registrare nell’ultimo quindicennio dinamiche della produttività totale dei fattori significativamente superiori a quelle del nostro paese. Il mix composito di rigore, crescita ed equità Le difficoltà di antica data dell’economia italiana sono aggravate dalla crisi dell’euro. Le gravi turbolenze dei mercati finanziari e l’impennata degli spread tra Btp italiani e Bund tedeschi hanno reso ancora più oneroso il servizio del nostro debito e più stringenti le condizioni della nostra finanza pubblica, con un rapporto debito/Pil che resta il più alto in Europa, dopo quello della Grecia. Diviene fondamentale e ancora più urgente intervenire. Anche perché vi è sempre meno tempo a disposizione per varare le misure necessarie e, soprattutto, metterle in atto. Due sono i grandi obiettivi da perseguire, in qualche modo scontati: la riduzione del deficit e del debito pubblico, da un lato, e il rilancio della crescita, dall’altro. Rappresentano una sorta di condizione necessaria per un percorso di graduale riconquista da parte nostra della credibilità e fiducia dei mercati che – è inutile illudersi – sarà molto lungo. Rigore e crescita andranno altresì coniugati, nelle misure e negli interventi da adottare, con una maggiore equità sociale: non solo e non tanto per ragioni di giustizia, ma anche di efficienza. È evidente, in effetti, l’esigenza di cominciare a invertire le forti diseguaglianze nella distrieditoriale 11 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 12 Paolo Guerrieri buzione dei redditi e della ricchezza che sono state accumulate in questi ultimi due decenni e che hanno contribuito al ristagno della nostra economia. Solo assicurando una simmetria, decisamente più accentuata rispetto al passato, nella distribuzione dei costi e dei sacrifici necessari sarà possibile procedere contemporaneamente a riconquistare la fiducia dei cittadini italiani, penalizzata in misura significativa dalle vicende della crisi, e rinsaldare quella coesione politica e sociale in grado di trasformarsi in un fattore importante di sviluppo. Se è relativamente agevole indicare i motivi che giustificano, ai fini del successo di un processo di aggiustamento a breve e medio termine della nostra economia, il ruolo che potrà svolgere singolarmente ognuna delle tre esigenze sopraricordate – rigore, crescita, equità – assai più difficile, ma altrettanto rilevante, è individuare i legami e i modi di conciliare tra loro queste tre finalità. È quanto abbiamo cercato di fare con i tre contributi pubblicati nella rubrica centrale del primo numero di quest’anno di Economia Italiana, intitolata «Tema di discussione». Ne emerge un messaggio comune che riconosce sia le difficoltà nel perseguimento di ognuna delle tre esigenze sia le sinergie possibili tra di esse. Ma non vi è nulla di scontato, perché molto dipenderà dalle politiche e dagli interventi che verranno messi in atto. Necessità e rischi dell’austerità Ai fini di un positivo consolidamento fiscale e di una ritrovata fiducia dei mercati finanziari, il nostro tallone d’Achille era e resta l’elevatissimo rapporto debito/Pil che continua a oscillare intorno al 120%. Come mostra nel suo articolo Giuseppe Pisauro, uno stabile processo di riduzione nel tempo dell’enorme stock di debito fin qui accumulato, come richiesto anche dalle nuove regole europee, richiederà innanzi tutto un consistente avanzo primario di bilancio e il suo mantenimento nel tempo. È un obiettivo raggiungibile, a patto di fissare bene le priorità degli interventi su livelli e composizione delle entrate-spese pubbliche, da rispettare poi meticolosamente nelle scelte effettuate. È una logica 12 economia italiana 1•2012 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 13 Rigore, crescita, equità: la sfida italiana diametralmente opposta ai tagli lineari applicati in passato, che hanno, di fatto, impedito ogni serio e duraturo risanamento. Va riconosciuto, allo stesso tempo, che non esistono facili scorciatoie come la fantasiosa formula della “contrazione fiscale espansiva”, per cui una politica restrittiva sarebbe addirittura in grado di generare di per sé nuova domanda e crescita. È semmai vero il contrario come segnalato dallo stesso Fondo Monetario Internazionale: politiche fiscali di aggiustamento troppo intense e concentrate nel breve termine possono penalizzare fortemente il potenziale di crescita di un’economia e innescare un pericoloso circolo vizioso di avvitamento verso il basso. È una sorta di trappola in cui si può infilare anche la nostra economia e può far sì che gli effetti recessivi indotti dalle politiche di austerità peggiorino deficit e debito pubblico, vanificando i potenziali miglioramenti dei conti pubblici legati a queste stesse politiche. A quel punto lo spread peggiorerebbe senza sosta così da chiudere il circolo vizioso. La drammatica deriva della Grecia – che ha cominciato a minacciare da vicino nell’ultimo periodo l’economia spagnola – al di là dalle peculiarità del paese è nata proprio da una situazione simile. Ovviamente, noi non siamo la Grecia. E nemmeno la Spagna, si potrebbe aggiungere, guardando ai fondamentali ben più solidi che caratterizzano la nostra economia. È certamente un dato importante da ricordare, ma che nulla toglie all’assoluta necessità e urgenza di contrastare e mitigare gli effetti recessivi delle politiche di austerità in corso, con provvedimenti che migliorino le nostre potenzialità di crescita a medio termine e sostengano, in particolare, la nostra domanda effettiva. La priorità di tornare a crescere È convinzione diffusa che esista un forte legame tra rigore e crescita tanto che solo un rilancio di quest’ultima potrà assicurare al nostro paese la riduzione e sostenibilità nel tempo del suo debito pubblico. In questa prospettiva, preoccupa seriamente il sostanziale ristagno che l’economia italiana ha conosciuto, come si è già ricordato, in tutti questi editoriale 13 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 14 Paolo Guerrieri anni prima e dopo la grande crisi. È un disagio che viene da lontano e sulle sue cause si è a lungo dibattuto. Per restare nell’ambito economico, esse si possono riassumere in due grandi insiemi di fattori, su cui è necessario intervenire. Il primo chiama in causa alcune fragilità delle nostre imprese e della struttura industriale italiana nel suo complesso, troppo appiattita sulle piccole e piccolissime unità. Un secondo insieme investe le cosiddette “esternalità di sistema” in materia d’infrastrutture, procedure amministrative, diseconomie esterne presenti nel settore pubblico, e così via. Va poi notato che i due insiemi di fattori interagiscono e sommano i loro effetti negativi a livello di economia nazionale complessiva. Riguardo al sistema produttivo, nel loro contributo Innocenzo Cipolletta e Sergio De Nardis mostrano come si sia verificato un deciso rafforzamento della presenza delle imprese italiane, soprattutto quelle di media dimensione, sui mercati interni e internazionali. Questo rilancio non è stato un fenomeno solo ciclico e congiunturale, ma il risultato di un processo di trasformazione e di riposizionamento di successo che ha cominciato a mutare la posizione competitiva di un segmento d’imprese medie e piccole, attraverso prodotti a più alto valore aggiunto, in particolare nei settori di tradizionale competitività dell’industria italiana. Si è trattato, tuttavia, di un processo di ristrutturazione del tutto spontaneo e privo del sostegno di politiche economiche e industriali in grado di guidarlo e consolidarlo. I suoi effetti complessivi sono stati così limitati. Per sintetizzare al massimo si può dire che il nostro sistema produttivo, per una sua parte, ha sostanzialmente tenuto negli anni prima e fino alla recente crisi, ma le sue condizioni di salute nel suo insieme restano preoccupanti. La ragione è che il gruppo d’imprese di successo, per quanto in crescita, non è abbastanza numeroso da compensare le performance negative di quell’elevatissimo numero di piccole e piccolissime unità che sono troppo fragili e sottocapitalizzate per affrontare positivamente le nuove sfide dei mercati globali. 14 economia italiana 1•2012 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 15 Rigore, crescita, equità: la sfida italiana Di qui la necessità di politiche, anche industriali, rivolte alla produzione e alla ricerca che dovrebbero aiutare le nostre imprese ad aggregarsi, a innovare, a internazionalizzarsi per affrontare con successo la concorrenza futura. Servono altresì riforme e una serie d’iniziative importanti sui fattori esterni di contesto, in campi quali la ricerca, gli investimenti in infrastrutture, una maggiore concorrenza sui mercati dei prodotti e servizi. Il governo Monti ha mosso i primi passi in questa direzione, come va riconosciuto, ma ancora molto – è necessario altresì riconoscere – resta da fare. La riduzione delle diseguaglianze tra equità ed efficienza Le riforme e le politiche strutturali necessarie per tornare a crescere possono produrre effetti positivi anche in termini di coesione sociale e minore disuguaglianza distributiva. L’Italia, come mostrano Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta nel loro contributo, è un paese che ha visto la diseguaglianza dei redditi tra le persone in età lavorativa aumentare drasticamente nei primi anni ’90 e rimanere, da allora, a un livello elevato e superiore alla media dei paesi OCSE. Le cause di un fenomeno così complesso ed eterogeneo nei suoi effetti sono ovviamente molteplici, anche se le dinamiche del mercato del lavoro italiano hanno avuto un ruolo predominante. Per tale ragione, una riforma complessiva del mercato del lavoro, che includa un riesame delle tipologie contrattuali e degli incentivi alle imprese unitamente ad ammortizzatori sociali universali e adeguati a offrire un sostegno di reddito durante la fase di ricerca del nuovo posto di lavoro, rappresenta uno strumento essenziale per affrontare in maniera duratura le diseguaglianze dei redditi da lavoro. Al riguardo, i provvedimenti varati di recente dal governo italiano rappresentano un primo passo nella giusta direzione. Servono allo stesso tempo politiche fiscali e previdenziali rinnovate in grado di accrescere i loro effetti redistributivi, che potrebbero essere rafforzati ulteriormente attraverso miglioramenti quantitativi e qualitativi dell’offerta di servizi pubblici – sanità, istruzione e servizi destinati editoriale 15 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 16 Paolo Guerrieri alla persona. Sarebbero interventi mirati a sostenere la domanda interna e correggere disuguaglianze che hanno raggiunto ormai livelli non più tollerabili nel nostro paese. Essi dovrebbero essere realizzati nella logica dello scambio tra misure dettate da ragioni di efficienza ed equità, dirette a rilanciare l’economia nel breve termine, da un lato, e assicurare maggiore crescita in un futuro a medio termine, dall’altro. Si tratterebbe di una politica di riforme in grado di offrire maggiori opportunità di accesso a molti cittadini – giovani e vecchi, uomini e donne – e quindi pienamente compatibile con gli obiettivi della crescita. Non va dimenticato, in effetti, che la crescente diseguaglianza dei redditi in Italia e in tutta l’area industrialmente più avanzata ha contribuito a favorire la crescita abnorme di credito e attività finanziarie a elevato rischio in tutti gli anni precedenti la crisi. Diretta a colmare la distanza crescente tra redditi e aspirazioni alla spesa di vasti strati di cittadini, essa ha finito per rendere a un certo punto insostenibile – com’è noto – il livello di debiti accumulato. Servirebbe più Europa Per riassumere, una via di uscita dalla crisi e un rilancio sostenibile della nostra economia potranno derivare solo da un articolato insieme di politiche economiche che sappia dosare e combinare in maniera sapiente i tre ingredienti fondamentali, sopra ricordati, di politiche di rigore, crescita ed equità. Per quanto efficaci, tuttavia, essi non saranno sufficienti da soli a farci uscire dall’attuale condizione di ristagno. Serve altresì un’azione a livello europeo che sia all’altezza delle sfide da fronteggiare. In un’Europa priva di un governo unitario e in cui il contagio dei debiti si può rapidamente diffondere tra paesi, solo un cambio di passo nella gestione della crisi sarebbe in grado di offrirci quel tempo necessario a compiere un percorso di risanamento come quello sopra disegnato. Le politiche di austerità di bilancio finora adottate, per quanto corredate da politiche di riforme strutturali a livello nazionale, certo impor16 economia italiana 1•2012 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 17 Rigore, crescita, equità: la sfida italiana tanti, ma destinate a dare frutti a medio e lungo termine, hanno generato una fase recessiva in tutti i paesi periferici che si sta estendendo al resto della zona euro. A parità di condizioni, c’è il rischio concreto che la recessione in molti paesi europei perduri ancora a lungo e produca ovunque fenomeni preoccupanti. L’agognata ripresa, di cui si parla guardando al prossimo anno, potrebbe rivelarsi più un auspicio che una fondata previsione. Forti perturbazioni e tensioni tornerebbero in questo caso a caratterizzare i mercati finanziari e le posizioni dei debiti di molti paesi. Non ci si deve far ingannare dalla fase di relativa calma sperimentata nei primi mesi di quest’anno. È stata dovuta in misura prevalente all’immensa liquidità creata dalla Banca Centrale Europea a sostegno del sistema bancario e, indirettamente, dei mercati dei titoli sovrani dei paesi più indebitati. Ha permesso di guadagnare del tempo che si rivelerà prezioso solo se riusciremo a risolvere i due ordini di problemi, tra loro collegati, che erano e restano alla radice della crisi: l’eccesso di debiti e il ristagno della crescita in Europa. Il sostegno alla crescita europea è oggi un problema di supporto alla domanda e allo stesso tempo di necessaria ristrutturazione dell’offerta. Tra gli strumenti fondamentali d’intervento figurano in primo piano meccanismi a livello europeo che sappiano ripartire più simmetricamente di quanto avvenuto fin qui gli oneri di aggiustamento tra paesi in deficit e quelli in surplus; e, poi, gli investimenti europei in infrastrutture e settori a rete, che si possono finanziare sia attraverso il bilancio comunitario, nel nuovo quadro finanziario pluriennale, sia attraverso la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e i project bond. Sarà capace l’Unione di muoversi su questo terreno con rapidità ed efficacia? Per una risposta i prossimi mesi saranno assai importanti e andranno monitorati con particolare attenzione anche per le sorti della nostra economia. È quanto ci ripromettiamo di fare attraverso le pagine di Economia Italiana, che con questo numero si presenta rinnovata nella sua veste grafica e nei suoi contenuti. Sono passati oltre trent’anni editoriale 17 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 18 Paolo Guerrieri dall’uscita del primo numero di questa rivista: la direzione di Mario Arcelli riprendeva allora la strada indicata, fin dal dopoguerra, dalla gemella Review of Economic Conditions in Italy fondata a sua volta nel 1947 per iniziativa di Costantino Bresciani Turroni, ovvero quella di approfondire e far conoscere al mondo italiano e internazionale la realtà e le prospettive della nostra economia. Il rinnovamento di Economia Italiana è dettato innanzi tutto dall’esigenza di confermare e meglio perseguire queste finalità, utilizzando al meglio l’estesa diffusione e il prestigio della rivista. A quanti vi hanno contribuito in tempi più o meno recenti va il nostro sentito ringraziamento e in particolare al Professor Paolo Savona e al Dottor Michele Barbato, per molti anni Direttore Scientifico e Direttore Responsabile della rivista. Attraverso il rinnovo della Direzione e del Comitato scientifico unitamente all’ulteriore arricchimento dei suoi contenuti, Economia Italiana intende rafforzare il rapporto con i suoi lettori e, più in generale, con quanti – esperti, accademici, policymaker – sono interessati ad approfondire le caratteristiche strutturali dell’economia italiana. Soprattutto alla luce dei cambiamenti che le nuove sfide in Europa e nel sistema globale impongono alla nostra economia. L’Italia, l’Europa e il contesto globale in continua evoluzione saranno così al centro dei tre numeri di quest’anno della rivista. Unitamente a sezioni e rubriche dedicate ai temi più attuali dell’economia e della società del nostro paese. Vogliamo in questo modo puntare decisamente a consolidare e, per quanto possibile, rafforzare il ruolo della rivista come strumento di analisi, dibattito e formulazione di politiche d’intervento all’altezza delle sfide esistenti. 18 economia italiana 1•2012 EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 19 In controluce EI_01012_Guerrieri _edit_pp.9-20 01/06/12 19.26 Pagina 20 EI_01012_Subacchi_pp.21-26 01/06/12 19.21 Pagina 21 I rischi Ripensare la globalizzazione Paola Subacchi Chatham House “The global economy needs stable currencies and a balance of power that guarantees peace” POLANYI, 1944 Globalizzazione in crisi? Le grandi crisi, come la recente e ancora non conclusa crisi finanziaria, non solo intaccano nel profondo le dinamiche economiche, ma portano significativi cambiamenti nei modi di pensare. Improvvisamente si osserva la scomparsa di termini e concetti che avevano dominato discussioni accademiche, riflessioni politiche e talk show. La globalizzazione, il tema forte del periodo a cavallo tra gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo millennio, è uno di questi. Un’indagine sommaria sul sito del «Financial Times» mostra che l’uso del termine “globalisation” diminuisce di oltre il 50 per cento nei tre anni successivi alla bancarotta di Lehman Brothers nel settembre 2008, rispetto ai tre anni precedenti. Il termine, d’altro canto, aveva cominciato a essere poco usato già da prima della crisi a significare che il fenomeno aveva iniziato ad avere meno impatto essendo i paesi emergenti entrati a fare parte del mondo globalizzato. Un’altra indagine sommaria effettuata utilizzando ngram viewers in Google books — con il limite dell’inclusione dei soli libri che rientrano nella catalogazione di Google — mostra un picco nel numero dei libri pubblicati sull’argomento intorno ai primi anni del nuovo millennio e una tendenza inversa a partire dal 2003. Se l’interesse per il fenomeno della globalizzazione aveva cominciato a segnare il passo negli anni precedenti la crisi finanziaria mondiale, proprio la crisi crea un’importante cesura e impone una riflessione su se e come la profonda integrazione economica e finanziaria degli ultimi vent’anni, rendendo più complessa la relazione tra economie nazionali e mercati globali, abbia creato maggior instabilità e di conseguenza abbia reso l’economia mondiale più vulnerabile. La crisi, in particolare, In controluce 21 EI_01012_Subacchi_pp.21-26 01/06/12 19.21 Pagina 22 Paola Subacchi ha posto l’accento sugli aspetti irrisolti della globalizzazione, dalla governance del sistema monetario e finanzario alle regole macro-prudenziali. Inoltre, la rapidità con la quale gli effetti della bancarotta di Lehman Brothers si sono propagati dagli Stati Uniti al resto del mondo ha reso evidente la potenza del canale bancario e finanziario come meccanismo di trasmissione degli shock. Allo stesso tempo ha mostrato la fragilità delle economie nazionali rispetto a fenomeni finanziari globali. L’aspetto positivo, e per certi versi sorprendente del dopo-crisi, è l’assenza quasi totale di risposte protezionistiche. Salvo un episodio, poi rettificato, all’indomani del summit dei capi di stato dei G20 a Washington nel novembre 2008, non si è avuta un’inversione di tendenza a favore della chiusura dei mercati nazionali. Al contrario il G20, che nel summit di Pittsburgh nel settembre 2009 venne promosso a forum esclusivo per la discussione multilaterale delle questioni economiche e finanziarie, si è fatto promotore, e continua a promuovere, il dialogo e la cooperazione internazionale per la riforma del sistema monetario e finanziario, per la riduzione degli squilibri commerciali e finanziari tra paesi e in generale per l’attuazione di un framework di crescita “robusta, equilibrata e sostenibile”. Lo spostamento del baricentro Indubbiamente la globalizzazione è una forza che ha aperto nuovi mercati, liberato risorse, stimolato l’innovazione, generato efficienza e creato nuova ricchezza — e nuovi ricchi. Ha contribuito al processo di industrializzazione dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, generando robusti tassi di crescita economica e sostenendo così l’espansione dell’economia mondiale. Se la globalizzazione degli anni pre-crisi era stata trainata dall’affermazione e dal consolidamento degli Stati Uniti come super potenza in seguito all’implosione dell’Unione Sovietica, quella degli anni post-crisi è caratterizzata — e rimarrà tale per almeno un altro decennio — dallo spostamento del baricentro economico verso l’Asia. La crisi infatti non 22 economIa ItalIana 1•2012 EI_01012_Subacchi_pp.21-26 01/06/12 19.21 Pagina 23 Ripensare la globalizzazione solo ha rallentato i tassi di crescita degli Stati Uniti, ma ha mostrato i limiti del modello economico americano che era stato trionfalmente celebrato nel periodo a cavallo del nuovo millennio. La “seconda età d’oro del capitalismo” era stata una storia americana, caratterizzata da tassi di crescita elevati e, come poi si capirà, insostenibili per un’economia avanzata. Negli anni pre-crisi l’integrazione di numerosi paesi emergenti nel sistema economico internazionale e la rimozione di molte barriere alla circolazione di merci, capitali e persone avevano contribuito al generale abbassamento dei prezzi e quindi alla riduzione delle pressioni inflazionistiche nelle principali economie avanzate. La cosiddetta Grande Moderazione aveva quindi permesso alla Federal Reserve di mantenere tassi di interesse relativamente bassi e così continuare a sostenere la crescita economica attraverso condizioni creditizie estremamente favorevoli alle imprese, ma anche alle famiglie. Nel quinquennio tra il 2002 e il 2006 l’economia USA era cresciuta al tasso medio annuo del 3 per cento contro lo 0,9 per cento della Germania, l’1,5 per cento della Francia e lo 0,7 per cento dell’Italia. Nel frattempo l’integrazione delle economie emergenti nel mercato internazionale aveva affiancato la Cina alle grandi economie rappresentate dal G7, facendola diventare per dimensioni la seconda economia dopo gli Stati Uniti. Nel 1990 l’America del Nord e l’Europa occidentale rappresentavano, per dimensioni, più della metà dell’economia mondiale, mentre l’Asia era meno di un quarto — di cui circa il 10 per cento rappresentato dal Giapppone. Nel 2010 la porzione dell’Asia era diventata oltre il 30 per cento, con la quota del Giappone diminuita però al 6%. In maniera analoga l’America del Nord e l’Europa occidentale avevano visto la loro quota scendere a poco più del 40 per cento. La crisi fermando, e in alcuni casi erodendo, la crescita economica dei paesi avanzati ha accelerato e reso più evidente lo spostamento del baricentro economico. Non solo le economie asiatiche, e in particolare la Cina, sono diventate parte integrante del sistema economico internazionale, ma contribuiscono in misura sempre più significativa ai tassi In controluce 23 EI_01012_Subacchi_pp.21-26 01/06/12 19.21 Pagina 24 Paola Subacchi di crescita dell’economia mondiale. Se nella seconda metà del ventesimo secolo erano i paesi sviluppati a offrire il contributo di gran lunga maggiore alla crescita dell’economia mondiale, il divario diventa sempre meno significativo finché all’inizio del nuovo millennio le economie emergenti, di cui la Cina è quella più importante, arrivano a registrare tassi di crescita simili a quelli dei paesi avanzati. La crisi ribalta questo rapporto. Le proiezioni per l’attuale decennio mostrano infatti le economie emergenti crescere in media al tasso annuo del 2 per cento contro meno dell’1 per cento nel caso delle economie avanzate. Se negli ultimi vent’anni la globalizzazione è stata principalmente trainata dai flussi commerciali e dai flussi migratori transcontinentali, nei prossimi dieci-vent’anni sarà caratterizzata dall’apertura dei mercati finanziari dei paesi emergenti e da flussi migratori intra-regionali. In particolare, la riconfigurazione del modello di crescita cinese a favore della domanda interna dovrebbe riequilibrare i flussi commerciali mentre il processo di riforma finanziaria e di graduale apertura del mercato dei capitali, che il governo cinese ha presentato e sottoscritto nel dodicesimo piano quinquennale per il periodo 2011-2015, dovrebbe contribuire all’ulteriore integrazione della Cina nell’economia mondiale. Finora, infatti, l’integrazione cinese è stata puramente commerciale. Le massicce esportazioni cinesi verso il resto del mondo, in particolare gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, sono state in parte rese possibili da tassi di cambio tenuti artificialmente bassi grazie ai continui interventi di sterilizzazione sul mercato interno. Di conseguenza lo yuan rimane una valuta inconvertibile e di scarso uso negli scambi internazionali. Per la principale economia esportatrice questo è problematico dati i costi legati alla continua accumulazione di dollari nelle riserve ufficiali. Non sorprende dunque che il governo, di concerto con la banca centrale, abbia avviato misure per incentivare l’uso della valuta cinese negli scambi internazionali. Nello stesso tempo sono stati allentati i controlli sui flussi di capitali sempre nell’ottica di rendere lo yuan una moneta più internazionale senza però renderla ancora pienamente convertibile. 24 economIa ItalIana 1•2012 EI_01012_Subacchi_pp.21-26 01/06/12 19.21 Pagina 25 Ripensare la globalizzazione Da forza positiva a gioco a somma zero? Se la crisi ha contribuito significativamente a spostare i termini del dibattito sulla globalizzazione, non ha però fermato l’integrazione dell’economia mondiale nè ha imbrigliato i flussi migratori e il commercio internazionale. La maggior parte dei paesi continua infatti ad essere favorevole al mantenimento di un sistema di libero scambio di merci e flussi finanziari. Quella che è venuta meno è la fiducia incondizionata nel processo di integrazione come forza positiva per l’economia mondiale che era stata la nota predominante nel dibatttito sulla globalizzazione negli anni precendenti la crisi. In quegli anni si scelse scientemente di ignorare che a fronte di vantaggi a livello macro — crescita del prodotto interno lordo, riduzione, in aggregato, della disoccupazione, contenimento dell’inflazione — la globalizzazione genera costi a livello micro. Questi si esplicitano nella delocalizzazione di aziende, industrie e settori, nella de-industrializzazione di aree geografiche e nell’impoverimento di individui e famiglie. Allo stesso modo, anche se in maniera meno consapevole, vennero ignorati gli squilibri monetari e finanziari che sono un’emanazione diretta dei movimenti di capitale a livello mondiale. Tali movimenti avevano creato e continuavano a creare una ricchezza tale che, come disse l’ex presidente di Citigroup, Chuck Prince, era nell’interesse di molti non fermare il gioco, anche se si era fatto più rischioso, dal momento che continuava a generare alti profitti. Nel dopo-crisi occorre dunque ripensare la globalizzazione, tenendo in conto sia i costi che i benefici, e dare adeguate risposte di policy. Con tassi di crescita economica inferiori a quegli degli anni precedenti il 2008 e con la disoccupazione ai massimi storici negli Stati Uniti e in buona parte dell’Europa, l’opinione pubblica è oggi estremamente sensibile all’impatto che i processi di rilocalizzazione delle attività produttive hanno in termini di posti di lavoro e in generale di welfare. Non solo, ma c’è anche una maggiore attenzione agli aspetti redistributivi di tali costi. Rimane inoltre la questione irrisolta di avere un sistema di regole che contribuisca a mantenere la stabilità a livello monetario e finanziario e così prevenire nuove crisi. In controluce 25 EI_01012_Subacchi_pp.21-26 01/06/12 19.21 Pagina 26 Paola Subacchi Occorre inoltre evitare che il deterioramento delle condizioni economiche in molti paesi a economia avanzata e il rischio di ripetute crisi finanziarie si traducano in misure protezionistiche. La globalizzazione non è irreversibile e l’esperienza storica mostra che quando l’obiettivo di mantenere aperti gli scambi internazionali genera disoccupazione e squilibri sempre più ingestibili i governi nazionali sono costretti a introdurre misure di controllo sui movimenti di beni e di capitali e a restringere i flussi immigratori. Lo stesso Keynes fu costretto dalle conseguenze della Grande Depressione ad abbandonare temporaneamente il libero scambio, di cui era stato e continuava ad essere un sostenitore convinto, a favore di una serie di tariffe per ridurre la disoccupazione e contenere le tensioni sociali. La situazione attuale è analoga a quella degli anni ’30 per le difficoltà a gestire l’aggiustamento delle economie nazionali nel contesto di un’economia mondiale altamente integrata. A differenza degli anni ’30, tuttavia, le relazioni economiche multilaterali rimangono forti ed è proprio su questo che occorre lavorare per evitare che la globalizzazione vada in controtendenza. Per questo è necessario mantenere un sistema in cui gli interessi di un paese non siano in contrasto con, o usati contro, gli interessi di un altro paese, e soprattutto che non si arrivi a situazioni “beggar-your-neighbour” in cui le misure di policy adottate da un paese generino esternalità negative per altri. Cooperazione e coordinamento internazionale delle policy, e la promozione di un’agenda per il sostegno alla crescita economica, come indicato dal G20, sono un modo per mantenere e rafforzare il processo di integrazione economica internazionale senza alimentare dinamiche concorrenziali al solo scopo di acquisire quote di mercato. Inoltre, devono essere tenuti in maggior conto gli aspetti distributivi della globalizzazione, considerando come i processi di integrazione economica abbiano impatti diversi e spesso di segno opposto su salari, stipendi e redditi da capitale. Bisogna insomma evitare che la globalizzazione si trasformi da forza positiva a gioco a somma zero. 26 economIa ItalIana 1•2012 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 27 I rischi Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti degli economisti Mario Deaglio Università di Torino La fine dell’uniformità globale Con il primo trimestre del 2002 ormai alle spalle, appare chiaro che la tendenza all’uniformità degli andamenti congiunturali mondiali, che aveva caratterizzato la globalizzazione per quasi trent’anni, è quasi del tutto scomparsa, vittima della crisi economica. Dopo decenni di crescita relativamente uniforme e a tassi crescenti, a partire dalle prime fasi della crisi, giunta ormai al suo quinto anno, è emersa la netta divergenza tra gli affaticati paesi ricchi e i dinamici paesi emergenti, a cominciare da Cina e India. Tra i primi si sta inoltre delineando un possibile andamento differenziato tra gli Stati Uniti, il cui prodotto lordo per abitante, pur crescendo debolmente, ha raggiunto ormai i livelli precedenti la crisi, e l’Europa (e il Giappone) che accusa lentezze più o meno accentuate. In Europa si osserva poi una crescente divergenza tra il recupero relativamente veloce della Germania, e qualche paese limitrofo, e la lentezza degli altri, con abbondanza di segnali negativi provenienti dai paesi dell’Europa meridionale. Tra i paesi emergenti dinamici si possono infine agevolmente osservare segnali differenziati di rallentamento. Nella loro diversità, questi andamenti mostrano tutti la comparsa di segnali negativi e pongono così fortemente in discussione uno dei pilastri, a un tempo politici ed economici, della globalizzazione di mercato, ossia la sua possibilità di procurare vantaggi generalizzati a tutti i paesi che partecipano all’economia globalizzata. Ci si può legittimamente domandare se questa sia “una” crisi tra tante oppure “la” crisi, in grado di travolgere un sistema globale che manda simili segnali di divergenza. In controluce 27 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 28 mario Deaglio La mancanza di meccanismi autocorrettivi e la spinta a una globalizzazione diversa Per cercare di rispondere a questa domanda non è sufficiente servirsi degli strumenti dell’analisi economica. Occorre integrarli con indagini sia di carattere politico-strategico sia di carattere sociale; un’integrazione che, come si dirà più avanti, è stata del tutto trascurata a livello scientifico. L’utilizzazione congiunta di tali strumenti individua la struttura portante della globalizzazione nell’accordo di fatto che l’Occidente ricco raggiunse con la Cina e altri paesi asiatici dopo la sconfitta militare americana in Vietnam a metà degli anni settanta del secolo scorso: per evitare la ripetizione, in tutta l’Asia sud-orientale, della vittoria militare delle “campagne” sulle “città”, l’Occidente offrì a questi paesi un grande patto economico, solo parzialmente formalizzato, con cui si garantivano dazi bassi o inesistenti, cambi favorevoli e accesso al mercato dei capitali e alle tecnologie occidentali. Di lì ebbe inizio uno straordinario circolo virtuoso: la Cina rispose con l’istituzione delle zone economiche speciali e mosse analoghe si ebbero in quasi tutti gli altri paesi dell’area. Si verificò un forte flusso di investimenti occidentali in tali zone che a loro volta determinarono un massiccio flusso di esportazioni asiatiche verso gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali, un attivo sempre più cospicuo della bilancia dei pagamenti correnti di questi paesi e l’investimento del surplus in dollari, prevalentemente in titoli del debito pubblico degli Stati Uniti. L’importanza di questo flusso di investimenti finanziari fu decisiva per determinare condizioni di basso costo del denaro negli Stati Uniti e, per conseguenza, in tutto l’Occidente. Della facilità di ottenere prestiti, oltre che della bontà dei meccanismi finanziari americani, è figlia la e-economy che ci ha dato Internet e i telefonini. Terminato quel ciclo, il denaro abbondante e poco caro di matrice asiatica finanziò il boom immobiliare e il boom dei consumi a credito e quindi le esportazioni asiatiche. «Costruiamo sempre più supermercati per vendere sempre più prodotti fabbricati in Cina … – scrive Thomas 28 economIa ItalIana 1•2012 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 29 Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti degli economisti Friedman sul «New York Times» l’8 marzo 2009 – Il che fa guadagnare ai cinesi sempre più dollari con cui comprare sempre più Buoni del Tesoro americano. Così l’America ha sempre più soldi per costruire sempre più supermercati per vendere sempre più prodotti fabbricati in Cina e occupare un numero sempre maggiore di cinesi». Parallelamente all’attivazione di questo circuito, si procedette all’introduzione di regole che favorivano un vivacissimo mercato finanziario internazionale. Volendo scegliere una data, il debutto della globalizzazione si può collocare al 27 ottobre 1986 giorno del cosiddetto “big bang” della Borsa di Londra, con l’introduzione contemporanea di nuove norme liberalizzatrici dell’accesso alle contrattazioni e di nuove procedure elettroniche per gli scambi finanziari, coordinate a livello globale. Nel giro di tre-quattro anni i capitali dei normali cittadini di moltissimi paesi del mondo erano in grado di circolare liberamente in un mercato finanziario attivo, tenendo presenti le differenze di fuso orario, quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. Il nuovo mercato finanziario non contemplava però meccanismi correttivi. Il deficit americano delle partite correnti poté quindi tranquillamente salire dallo 0,5 per cento degli anni ’90 all’incirca al 4 per cento del prodotto lordo mondiale del 2007. Invano gli americani chiesero ripetutamente agli asiatici di espandere i loro consumi interni per farlo diminuire: gli asiatici risposero, in buona sostanza, di avere altre priorità e di non voler adottare il consumismo americano. Tale risposta reintroduce elementi non economici nell’interpretazione della crisi in quanto equivale al rifiuto asiatico di adottare sistemi di priorità – e quindi modelli culturali – tipici degli Stati Uniti; al rifiuto, in altre parole, di riconoscere la leadership americana, a differenza di quanto aveva fatto il Giappone quaranta-cinquanta anni prima. La globalizzazione si configura quindi come l’ennesima proiezione dell’Occidente a livello mondiale e non già come un sistema bilanciato di risorse, domande, interessi delle varie parti del pianeta. L’assenza di meccanismi automatici, o anche solo di regole alle quali fare riferimento In controluce 29 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 30 mario Deaglio per correggere gli sbilanciamenti dei conti con l’estero dei principali paesi, trasformava la globalizzazione in un processo a termine: esportazioni asiatiche e consumi americani finanziati a credito non avrebbero potuto crescere indefinitamente. Il sistema stava diventando fragile, vulnerabile a qualsiasi anomalia si manifestasse sui mercati – come fu, appunto, l’alto tasso di delinquency sui mutui subprime. Per conseguenza, la crisi attuale non può non porre termine al processo di globalizzazione, così come si è sviluppato a partire dagli anni ’80. Ciò che seguirà dovrà tener conto, a livello istituzionale, della variazione di peso economico che si è verificata negli ultimi trent’anni e che la crisi ha chiaramente accentuato. In base alle valutazioni del Fondo Monetario Internazionale, ancora nel 2000 dai paesi ricchi provenivano quasi i due terzi (il 62,6 per cento) della produzione mondiale; nel 2015 la stessa istituzione stima che il peso di questi paesi scenda sotto il 50 per cento. I punti percentuali persi dalla produzione dei paesi ricchi sono andati pressoché tutti alla produzione dei paesi dell’Asia dinamica, saltando quasi per intero Africa e America Latina. In simili condizioni, il ribilanciamento non consiste soltanto nell’assicurare qualche poltrona nei vertici delle istituzioni economiche internazionali a esponenti di questi paesi: i poli della finanza globale già si spostano, con l’ascesa delle tre piazze finanziarie cinesi (Hong Kong, Shanghai e Shenzen) e della piazza finanziaria indiana (Mumbai) e di quella brasiliana (San Paolo). L’obiettivo cinese di giungere a un sistema finanziario multipolare, con una moneta “sintetica” basata su un paniere comprendente, accanto al dollaro, lo yuan e l’euro, prefigura una globalizzazione diversa alla quale non sembra che l’Occidente sia preparato. Gli effetti dirompenti della globalizzazione sulla distribuzione dei redditi Agli effetti finanziari e macroeconomici occorre aggiungere un’altra dinamica che fa della globalizzazione un processo a termine: il suo forte impatto sulla distribuzione dei redditi e l’assenza di meccanismi correttivi che modifichino la tendenza a una diseguaglianza crescente. 30 economIa ItalIana 1•2012 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 31 Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti degli economisti L’andamento è ben noto: mentre riduce la diseguaglianza tra paesi, misurata in termini di prodotto interno lordo per abitante, la globalizzazione fa aumentare la diseguaglianza all’interno dei paesi. Gli spostamenti produttivi ai quali si è accennato sopra stanno determinando la necessità di ridisegnare la mappa economica mondiale. La Cina ha scalzato il Giappone dal secondo posto nella classifica mondiale del prodotto interno lordo e la Germania dal primo posto in quella delle esportazioni. L’Italia è stata superata dal Brasile – che si appresta a superare anche Francia e Gran Bretagna – e sta per essere superata dall’India; Messico, Turchia, Corea del Sud stanno rapidamente guadagnando posizioni in classifica. L’osservazione – che risale a Vilfredo Pareto – che il 20 per cento della popolazione mondiale (quella che abita nei paesi ricchi) produce e consuma l’80 per cento delle risorse mondiali non corrisponde più alla realtà. Questo processo di riduzione delle diseguaglianze tra paesi rappresenta sicuramente uno dei maggiori successi della globalizzazione ma si accompagna all’aumento delle diseguaglianze all’interno dei paesi. Il coefficiente di Gini, ossia il “termometro” maggiormente in uso di tali diseguaglianze, mostra aumenti generalizzati in ogni tipo di paesi. Si arriva a forme estreme di concentrazione di reddito e ricchezza per cui negli Stati Uniti l’uno per cento più ricco degli americani detiene il 2025 per cento del reddito disponibile. Se si restringe l’analisi allo 0,1 per cento più ricco si trova una quota attorno al 10 per cento («The Economist», 21 gennaio 2012). È arduo immaginare un processo di vera uscita dalla crisi senza una ridistribuzione del reddito che attenui queste diseguaglianze. Tale ridistribuzione non è contemplata, però, dai meccanismi della globalizzazione e per conseguenza cresce uno scontento politico-sociale che può rivolgersi contro la globalizzazione stessa: tra il 2008 e la primavera del 2012, pressoché tutti i paesi ricchi (Svizzera, Austria e Norvegia sono le eccezioni principali) hanno cambiato governanti e partito di governo, In controluce 31 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 32 mario Deaglio oppure hanno visto il partito di governo subire duri rovesci in elezioni locali, come è accaduto in Germania. Per contro, gli avvicendamenti dei governi nei paesi emergenti (Brasile e Russia in particolare) sono avvenuti all’insegna della continuità. La nuova ondata recessiva abbattutasi sull’Europa acuisce l’instabilità del quadro politico del vecchio continente. Contro queste instabilità, la globalizzazione non sembra avere alcuna ricetta. L’arroganza degli economisti e la difficoltà a immaginare soluzioni Per quanto sopra, l’uso congiunto di indicatori economici, politici e sociali consente di delineare un quadro di forte instabilità. Di qui nasce la difficoltà/impossibilità di tornare sic et simpliciter alla situazione precrisi. Il mondo globalizzato potrebbe diventare multipolare e adottare rimedi congiunti all’azione dei mercati finanziari. Il concerto dei governi dovrà fare da contrappunto alla dinamica dei mercati, forse in maniera non troppo dissimile da quella della globalizzazione “vittoriana” nella quale “l’equilibrio delle potenze” temperò, per quasi un secolo, eccessi ed esuberanze delle forze di mercato. Purtroppo la crisi ha colto le scienze sociali – e gli economisti in particolare che tra gli scienziati sociali rivendicano una specie di primato – totalmente impreparate. Il clima culturale è stato improntato, fino al 2008, a un’intransigente specializzazione del sapere, ad analisi sempre più approfondite (peraltro spesso basate su dati insufficientemente attendibili) mentre le sintesi interdisciplinari sono state guardate con un sospetto sempre più profondo. La crisi europea del 2011-12, un duro episodio dagli esiti incerti nella più vasta crisi mondiale, ha posto bene in luce l’assenza di un adeguato modello culturale, la scarsa conoscenza della storia, la difficoltà di concepire il mercato come uno strumento in un vasto orizzonte anziché come l’unico regolatore possibile non solo dell’economia ma anche della politica e di ogni genere di scelte individuali. Il liberalismo del dubbio metodologico di Karl Popper è diventato il liberismo dogmatico, privo di dubbi, di Milton Friedman e soprattutto dei suoi successori. 32 economIa ItalIana 1•2012 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 33 Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti degli economisti Come è potuto avvenire tutto questo? Le criticità che continuano a venire in luce si attenueranno – spontaneamente oppure grazie ad azioni di governo – o finiranno di travolgere il sistema? Per cercare di rispondere a simili interrogativi occorre ripercorrere antichi sentieri intellettuali sui quali negli ultimi decenni è cresciuta l’erba, parlare di limiti e instabilità del mercato. La mancanza di meccanismi autocorrettivi riguarda così non solo le bilance dei pagamenti o la distribuzione dei redditi, ma investe in pieno il campo delle idee. Il che renderà l’uscita dalla crisi e l’inizio di un nuovo periodo economico più lunga, più problematica e più incerta. In controluce 33 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 34 EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 35 Tema di discussione EI_01012_Deaglio_pp.27-36 01/06/12 19.27 Pagina 36 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 37 Il risanamento dei conti pubblici Giuseppe Pisauro Sapienza Università di Roma L’Italia è entrata nella Grande recessione del 2008 con una situazione dei conti pubblici vulnerabile. Nel 2008-2010 non è stato così possibile condurre una politica fiscale espansiva: sono stati approvati numerosi provvedimenti, ma tutti a saldo zero. Nel 2010, con la fase peggiore della recessione apparentemente alla spalle, è ripreso lo sforzo di correzione del disavanzo (avviato nel 2008), in gran parte attraverso tagli alle spese. Nel 2011 le tensioni sui mercati hanno reso necessario nuovi interventi (soprattutto aumenti di imposte), nel complesso di dimensioni senza precedenti. Nel medio periodo, il vincolo principale sarà l’impegno alla riduzione del rapporto debito pubblico/Pil previsto nel nuovo Fiscal compact. Richiederà avanzi primari tra il 4 e il 6% del Pil per un decennio. La regola sul debito è comunque, se si escludono scenari macroeconomici molto sfavorevoli, meno severa dell’obbligo di pareggio del bilancio che sta per essere incorporato nella Costituzione. Per minimizzare gli inevitabili effetti negativi sull’economia, sarà necessario modulare con attenzione gli strumenti della politica di bilancio, tenendo conto dei diversi effetti, nel breve e lungo periodo, di tagli alle spese e aumenti di imposte. 1. La politica di bilancio nella Grande recessione L’Italia è entrata nella crisi del 2008 con una situazione dei conti pubblici precaria per l’elevato livello del debito, che a fine 2007 era al 103,1% in rapporto al Pil, ma con un conto economico tutto sommato non troppo preoccupante: nel 2007 l’indebitamento netto era, sempre in rapporto al Pil, pari all’1,6% (ben al di sotto, quindi, della soglia del 3% fissata dal Trattato europeo) e l’avanzo primario al 3,4%, un valore ritenuto sufficiente a garantire la diminuzione del rapporto debito/Pil (cfr. tabella 1). È vero, tuttavia, che gli anni 2000 costituiscono un’occasione perduta per il risanamento dei conti. Si può calcolare, infatti, che se si fosse riusciti a stabilizzare entrate e spese sui livelli del 1999, il rapporto debito/Pil che era al 113,7% nel 1999, sarebbe stato pari nel 2007 all’84,5%, esattamente tema di discussione 37 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 38 Giuseppe Pisauro Tab. 1 - Principali indicatori di finanza pubblica 2007-2011 (rapporti al Pil) 2007 2008 2009 2010 2011 Saldo primario 3,4 2,5 -0,8 0,0 1,0 Indebitamento netto -1,6 -2,7 -5,4 -4,6 -3,9 103,1 105,8 116,1 118,7 120,1 Variazione Pil reale 1,7 -1,2 -5,5 1,8 0,6 Variazione Pil nominale 4,1 1,3 -3,5 2,2 1,7 Debito pubblico Fonte Istat il percorso fatto segnare dal Belgio nello stesso periodo. Tra i paesi europei che hanno ridotto in misura significativa il debito pubblico negli anni 2000 l’Italia era stato l’unico ad averlo fatto comunque aumentando le spese e diminuendo le entrate: ovvero riducendo l’avanzo primario e realizzando una diminuzione del debito ben più modesta di quella che sarebbe stata altrimenti possibile (Pisauro 2010)1. La caduta del prodotto nel 2008-2009 – cumulativamente 6,6 punti in termini reali e 2,2 punti in termini nominali – ha naturalmente deteriorato lo stato dei conti, soprattutto per l’effetto depressivo che ne è conseguito sulle entrate fiscali: nel 2009 l’avanzo primario si era trasformato in un disavanzo di quasi un punto di Pil e l’indebitamento netto raggiungeva il 5,5%. In due anni il rapporto debito/Pil aumentava così di 13 punti. Nel 2010 la situazione migliorava, grazie alla ripresa dell’economia, lasciando comunque l’indebitamento netto al 4,6% e un sostanziale pareggio del saldo primario. La politica di bilancio nel 2008-2010 ha operato in condizioni oggettivamente molto difficili: tra l’incudine del livello del debito e il martello della crisi (Pisauro 2009). Così, a differenza di tutte le altre maggiori economie avanzate, la politica di bilancio italiana non ha contemplato 1 i paesi considerati sono quelli che nel decennio 1997-2007 hanno diminuito il rapporto debito/Pil di oltre 10 punti: Belgio, danimarca, irlanda, italia, spagna, olanda, Finlandia, svezia. tra questi, dell'italia si è detto; in danimarca e spagna sono aumentate le spese e diminuite le entrate, in Belgio entrate e spese sono entrambe aumentate, per gli altri quattro paesi entrate e spese entrambe diminuite. 38 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 39 Il risanamento dei conti pubblici significative misure di sostegno dell’economia: secondo le stime del Fondo monetario internazionale (IMF 2009a e IMF 2009b), lo stimolo fiscale a valere sul 2008-2010 in Italia è stato solo dello 0,3% del Pil contro una media del 3,4% fatta registrare dalle maggiori economie avanzate (ad esempio, 3,4% in Germania e 4,8% negli Stati Uniti). In effetti la politica di bilancio della XVI legislatura si era aperta in Italia nel giugno 2008, quando la crisi non si era ancora manifestata chiaramente, con il d.l. n. 112 che realizzava una manovra basata soprattutto su riduzioni di spese, con un effetto complessivo di riduzione del disavanzo stimato in circa un punto di Pil nel 2010 e due punti nel 2011. Negli anni successivi, tra la fine del 2008 e la fine del 2010, venivano approvati nove provvedimenti (in gran parte decreti legge) contenenti misure economiche, ma tutti sostanzialmente a saldo zero. Con l’insieme di quei provvedimenti si è realizzata una manovra di ricomposizione del bilancio con dichiarate finalità anticicliche di dimensioni ragguardevoli: per ciascuno degli anni 2009-2010 sono state reperite, mediante riduzioni di spese e aumenti di imposte, risorse per 17-20 miliardi utilizzate per finanziare maggiori spese (soprattutto) e sgravi fiscali (tabella 2a). La relativa tenuta dei conti nel 2008-2010 è dipesa in buona misura dall’andamento dei tassi di interesse che nel 2009 e in parte nel 2010 si sono mantenuti bassi: la spesa per interessi nel 2009 e 2010 è stata inferiore in termini nominali a quella del 2007, con una diminuzione in termini di quota del Pil – nonostante il calo del denominatore – di quasi mezzo punto. La situazione è cambiata nel corso del 2010, quando gli effetti della Grande recessione sulle finanze pubbliche delle economie avanzate (sintetizzati da una crescita del rapporto tra debito pubblico e prodotto di quasi venti punti tra il 2008 e il 2010) e le incertezze della politica europea nel fronteggiare la crisi di solvibilità della Grecia hanno indotto una crescente pressione dei mercati sul debito sovrano dei paesi periferici dell’area dell’euro. La prospettiva era mutata: complice anche l’illusoria ripresa dell’economia nel 2010, la questione centrale tornava ad essere il risanamento dei conti e la riduzione del debito piuttosto che il sostegno del livello di tema di discussione 39 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 40 Giuseppe Pisauro Tab. 2a - La politica di bilancio nella XVI legislatura: i provvedimenti a saldo zero del 2008-2010 (milioni di euro) 2009 2010 2011 2012 2013 Minori entrate 7.216 5.781 7.688 2.283 1.103 Maggiori spese 10.252 11.070 11.378 7.185 1.096 Totale impieghi 17.468 16.851 19.066 9.468 2.199 Maggiori entrate 11.662 11.409 8.427 4.331 768 5.940 5.811 11.243 5.575 1.431 17.602 17.219 19.670 9.906 2.199 134 369 604 438 0 4.446 5.628 739 2.048 -335 Provvedimenti vari (1) Minori spese Totale risorse Saldo Maggiori entrate nette Maggiori spese nette 4.312 5.259 136 1.610 335 (1) Legge finanziaria 2009, d.l. n. 185/2008, d.l. n. 5/2009, d.l. n. 39/2009, d.l. n. 78/2008, d.l. 168/2009, legge finanziaria 2010, d.l. n. 40/2010, legge di stabilità 2011. Fonte Elaborazione su documenti ufficiali attività economica. In Italia, a fine maggio 2010 il governo presentava una manovra di consolidamento fiscale con il d.l. n. 78, basata in gran parte su tagli alle spese, con l’obiettivo di una riduzione del disavanzo per quasi un punto di Pil nel 2011 e per 1,5 punti in ciascuno dei due anni successivi. Si arriva così al 2011. Fino all’estate la situazione sembra sotto controllo. Così nel Documento di economia e finanza di metà aprile, il Governo prendeva l’impegno di raggiungere «entro il 2014 un livello prossimo al pareggio di bilancio». In pratica, ci si proponeva di effettuare una correzione dei conti per il 2013 e 2014 rispettivamente per 1,2 e 2,3 punti di Pil, tralasciando di intervenire sul 2012. Peraltro, secondo le previsioni ufficiali, le prospettive dell’economia erano di una graduale ripresa della crescita con tassi reali in aumento costante da un +1,1 per il 2011 a un +1,6 per il 2014. Insomma un quadro di relativa stabilità. Tutto cambia all’inizio dell’estate. Peggiorano sensibilmente le prospettive dell’economia per il 2012 e per la prima volta viene annunciata dalle autorità europee la necessità di un coinvolgimento del settore privato nella ristrutturazione del debito greco. Le tensioni sui debiti pubblici dei paesi periferici della zona 40 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 41 Il risanamento dei conti pubblici Tab. 2b - La politica di bilancio nel 2008-2011: i provvedimenti di riduzione del disavanzo (milioni di euro) d.l. 112/2008 Maggiori entrate Minori spese Totale risorse Minori entrate Maggiori spese Totale impieghi Saldo Maggiori entrate nette Minori spese nette 2009 2010 2011 5.765 10.696 16.461 1.103 5.464 6.567 9.894 4.662 5.232 5.516 16.950 22.466 555 4.773 5.328 17.138 4.961 12.177 6.103 30.185 36.288 580 4.783 5.363 30.925 5.523 25.402 693 81 774 0 744 744 30 693 -663 d.l. 78/2010 Maggiori entrate Minori spese Totale risorse Minori entrate Maggiori spese Totale impieghi Saldo Maggiori entrate nette Minori spese nette Provvedimenti del 2011 (1) Maggiori entrate Minori spese Totale risorse Minori entrate Maggiori spese Totale impieghi Saldo Maggiori entrate nette Minori spese nette 2012 2013 6.413 10.178 16.591 2.318 2.220 4.538 12.053 4.095 7.958 10.716 15.738 26.454 625 847 1.472 24.982 10.091 14.891 8.036 17.445 25.481 33 470 503 24.978 8.003 16.975 3.654 2.353 6.007 1.051 2.115 3.166 2.842 2.604 238 49.216 24.468 73.684 8.967 15.805 24.772 48.912 40.249 8.663 63.219 28.280 91.499 11.045 4.707 15.752 75.747 52.174 23.573 2014 66.866 30.514 97.380 12.673 3.380 16.052 81.327 54.194 27.13 (1) d.l. 98/2011, d.l. 138/2011, legge di stabilità 2012, d.l. 201/2011. Fonte Elaborazione su documenti ufficiali tema di discussione 41 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 42 Giuseppe Pisauro euro si accentuano rapidamente. Lo spread Btp-Bund, dopo aver oscillato intorno a 25 punti base per quasi un decennio ed essersi mantenuto comunque al di sotto dei 200 punti dopo la Grande recessione, inizia a crescere in misura incontrollata: a novembre 2011 raggiungerà 552 punti, un valore non lontano da quelli toccati nelle crisi finanziarie del 1992 o del 1995 quando lo spread incorporava anche il rischio di cambio. La reazione del governo italiano è stata nell’estate convulsa e, nonostante a conti fatti si sia concretizzata in una manovra di correzione del disavanzo (con due successivi decreti legge) superiore a 50 miliardi sul 2013 e 2014, non è stata sufficiente a invertire la tendenza. Il nuovo governo, insediatosi a metà novembre, è dovuto intervenire nuovamente, anche alla luce del peggioramento delle previsioni macroeconomiche, e lo ha fatto ai primi di dicembre con una nuova manovra di correzione del disavanzo. Così, nell’insieme, le misure di riduzione dell’indebitamento netto approvate nel corso del 2011 assommano in termini di Pil a 3 punti sul 2012, 4,6 punti sul 2013 e 4,8 punti sul 2014. Dimensioni senza precedenti. Le tabelle 2a e 2b mostrano gli effetti finanziari dei provvedimenti economici approvati nel periodo 2008-2011. Nella tabella 2a sono sintetizzati gli effetti dei provvedimenti a saldo zero approvati nel 2008-2010. Nella tabella 2b i provvedimenti di correzione del disavanzo: il decreto legge del 2008, quello del 2010 e i tre decreti legge del 2011. Sommare gli effetti finanziari (desunti dalle relazioni tecniche) di provvedimenti approvati in anni diversi e quindi con effetti stimati su un orizzonte temporale diverso (le relazioni tecniche riportano la stima degli effetti finanziari per l’anno corrente e i tre anni successivi) non è, per i motivi che discuteremo più avanti, un’operazione rigorosamente corretta. Tuttavia, la somma, mostrata nella tabella 3, serve a dare un’idea della dimensione complessiva degli interventi di politica di bilancio realizzati in questi anni. Sono cifre astronomiche: per ciascuno degli anni tra il 2011 e il 2014 sarebbero state reperite risorse (con tagli di spese e aumenti di entrate) per cifre comprese tra gli 80 e i 122 miliardi di euro. Una buona parte di queste risorse è stata destinata a ridurre il disavanzo, 42 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 43 Il risanamento dei conti pubblici Tab. 3 - Effetti finanziari dei provvedimenti approvati nel 2008-2011 (miliardi di euro) 2009 2010 2011 2012 2013 2014 Maggiori entrate e minori spese 34,7 41,7 80,2 111,1 121,5 97,4 Riduzione del disavanzo 10,0 17,5 46,5 74,4 100,8 81,3 Fonte Cfr. tabelle 2a e 2b la parte restante a finanziare interventi di incremento delle spese e sgravi fiscali. Si può notare come nei primi anni considerati sia meno alta la quota delle risorse destinata a riduzione del disavanzo. A conferma di quanto dicevamo in precedenza: soprattutto per il 2009 e 2010 la politica di bilancio si è basata su provvedimenti a saldo zero di ricomposizione del bilancio con dichiarate finalità anti-cicliche. Dall’esame delle tabelle 2a e 2b si evince come un ruolo importante, soprattutto nel 2008-2010, sia stato svolto dai tagli alle spese. Opinione diffusa è che si sia trattato esclusivamente di tagli lineari. In realtà, le cose non stanno esattamente così. Per fare un esempio: a valere sul 2011 le riduzioni di spesa complessivamente ammontano a 53 miliardi, il 7% della spesa primaria. Di questi, 19 miliardi sono andati a finanziare nuove spese. Si tratta di una modifica della composizione della spesa di tutto rispetto. Insomma, certamente i tagli lineari sono stati una parte importante della storia, ma nel 2008-2010, almeno implicitamente, sono state compiute scelte di non scarsa rilevanza. Semmai, la frammentarietà di cui ha sofferto la politica di bilancio, dispersa in un numero eccessivo di provvedimenti legislativi (tutti decreti-legge, quasi sempre approvati con il ricorso alla fiducia), starebbe ad indicare una certa opacità, e forse casualità, delle priorità. Un’interessante direzione di ricerca, che esula dalle finalità di questo saggio, consisterebbe nell’individuare i settori che hanno beneficiato di questa politica bilancio e se essa abbia in qualche misura svolto le sue dichiarate finalità anti-cicliche. 2. Le tendenze di medio periodo e gli scenari di lungo periodo Le tendenze di medio periodo della finanza pubblica, determinate dalle scelte di politica di bilancio che abbiamo illustrato sono contenute nel tema di discussione 43 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 44 Giuseppe Pisauro Documento di economia e finanza pubblicato ad aprile 2012. Una sintesi è nella tabella 4. Il dato più preoccupante è il livello della pressione tributaria, che nel 2013 raggiungerebbe il livello, mai toccato in precedenza, del 31,6%; di conseguenza toccherebbe un record anche la pressione fiscale che nel 2013 sarebbe al 45,4% e calerebbe di mezzo punto solo nel 2015. Nel complesso le entrate si attesterebbero vicino al 50% del Pil. Sono valori da paesi scandinavi che, riportati nel contesto mediterraneo, rappresentano una pesante ipoteca sulla crescita, per l’effetto congiunto di due fattori. Il primo è una insoddisfacente qualità, in termini di servizi erogati, della spesa che quelle entrate finanziano; il secondo è l’ampiezza dell’evasione fiscale che fa sì che la pressione sul settore formale dell’economia sia ben più elevata di quella ufficiale, riferita al Pil stimato in contabilità nazionale che incorpora un settore sommerso pari al 18-20% del totale. Riguardo alla spesa, la componente primaria dovrebbe iniziare a scendere, in rapporto al Pil, nel 2013 di un punto e poi di un altro punto e due decimi nei due anni successivi. Si attesterebbe così nel 2015 al 43,4% in rapporto al Pil, un livello analogo a quello di metà degli anni 2000 e in diminuzione di 4,5 punti rispetto al massimo del 2009. Va detto che in parte la diminuzione delle spesa totale è imputabile alla spesa in conto capitale che nel 2014 e 2015 sarebbe al minimo storico. Comunque la spesa corrente primaria registrerebbe, nel 2015, una diminuzione di 2,9 punti di Pil rispetto al 2009 e 2,6 punti rispetto al 2010. Insomma, i dati confermano che negli anni recenti c’è stato uno sforzo di riduzione della spesa. Anzi, la proiezione al 2015 indica che lo sforzo di riduzione del disavanzo si ripartirebbe in misura simile tra spesa primaria ed entrate fiscali, semmai con una prevalenza della riduzione della prima: rispetto al 2010, la spesa primaria sarebbe in diminuzione di 3,2 punti di Pil e le entrate fiscali in aumento di 2,7 punti. Un aspetto degno di nota è che le spesa primaria corrente diversa da quella per pensioni e sanità, voci legate all’invecchiamento della popolazione, è stabile se non in diminuzione in termini nominali: era 319 miliardi nel 2009, è stata di 316 miliardi nel 2011, è prevista in 313 44 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 45 Il risanamento dei conti pubblici Tab. 4 - Principali voci del conto delle Amministrazioni Pubbliche 2009-2015 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 Miliardi di euro Spesa primaria corrente 661 670 673 677 678 688 701 di cui: Sanità 110 113 112 114 115 115 118 Pensioni 231 237 244 250 255 262 269 Altre spese correnti 319 320 316 312 308 310 313 Interessi passivi 71 71 78 84 88 94 99 Spesa in c/capitale 67 54 48 48 48 47 48 Totale spesa primaria 728 724 721 725 726 735 748 Totale spese finali 798 795 799 809 814 829 847 Entrate tributarie 442 448 455 496 514 528 539 Contributi sociali 213 213 216 220 224 229 236 62 63 65 66 68 70 72 Totale entrate finali 716 724 736 782 806 827 847 Indebitamento netto -83 -71 -62 -27 -9 -2 -1 0 16 57 80 92 99 Altre entrate Saldo primario -12 Rapporti al Pil Spesa primaria corrente 43,5 43,2 42,6 42,6 41,7 41,1 40,6 7,3 7,3 7,1 7,2 7,1 6,9 6,9 Pensioni 15,2 15,3 15,5 15,7 15,7 15,7 15,6 Altre spese correnti 21,0 20,6 20,0 19,7 18,9 18,5 18,1 Sanità Interessi passivi 4,7 4,6 4,9 5,3 5,4 5,6 5,8 Spesa in c/capitale 4,4 3,5 3,0 3,0 3,0 2,8 2,8 Totale spesa primaria 47,9 46,6 45,6 45,6 44,6 43,9 43,4 Totale spese finali 52,5 51,2 50,5 50,9 50,0 49,6 49,1 Pressione tributaria 29,1 28,8 28,8 31,2 31,6 31,6 31,2 Pressione fiscale 43,0 42,6 42,5 45,1 45,4 45,3 44,9 Totale entrate finali 47,1 46,6 46,6 49,2 49,5 49,4 49,1 Indebitamento netto -5,4 -4,6 -3,9 -1,7 -0,5 -0,1 0,0 Saldo primario 0,0 1,0 3,6 4,9 5,5 5,7 -0,8 Fonte Elaborazione su dati Documento di economia e finanza (aprile 2012) tema di discussione 45 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 46 Giuseppe Pisauro miliardi nel 2015. Sarebbero risultati senza precedenti per il nostro paese ed eccezionali anche nel confronto internazionale. Lo squilibrio tra spese ed entrate non è quindi, come vedremo meglio più avanti, nei provvedimenti approvati negli ultimi anni quanto nella situazione di partenza della finanza pubblica nel 2008, quando è esplosa la grande crisi: alto livello del debito con conseguente elevata spesa per interessi, scarsa qualità dei servizi a parità di spesa primaria in confronto con i principali partner europei, ampia evasione fiscale che rende insopportabile l’onere tributario su chi effettivamente lo sopporta. È chiaro che l’unica via di uscita possibile deve basarsi su una combinazione di interventi incisivi di contrasto dell’evasione e di riduzione della spesa. Da entrambi i punti di vista la situazione nonostante gli sforzi fatti non è certo ancora soddisfacente. Negare quegli sforzi, tuttavia, non serve a migliorarla. Riguardo, in particolare, alla spesa pubblica sarebbe fondamentale consolidare le riduzioni decise per via legislativa. La questione dei debiti pregressi delle amministrazioni pubbliche nei confronti del settore privato che, secondo alcune valutazioni sarebbero superiori a 70 miliardi, sta a indicare che una parte consistente dei tagli di spesa decisi negli scorsi anni non è sopportabile dalle amministrazioni fermo restando il contesto di compiti loro affidati e di modalità di espletarli oggi vigente. Rendere sostenibili quei tagli dovrebbe essere il primo compito della spending review che il governo intende effettuare nel 2012. Il problema è che i tagli effettuati, per quanto importanti, rischiano di non essere sufficienti. Un esempio sono i risultati del 2011, quando per il secondo anno consecutivo la spesa primaria totale (corrente e in conto capitale) è diminuita in termini nominali, cosa che in precedenza non era mai avvenuta. In termini di quota del Pil, ciò si è riflesso in una diminuzione di un punto, dal 46,6% del 2010 al 45,6% del 2011, portando così a oltre due punti la diminuzione rispetto al picco del 2009. Quello del 2011, resta, tuttavia, un dato superiore al massimo storico registrato prima della crisi (intorno al 44% del 2006 e nel 2008). Insomma, sforzi anche senza precedenti per il contenimento della spesa 46 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 47 Il risanamento dei conti pubblici non sono sufficienti a fronte di un prodotto in calo o stagnante. Alla fine della storia, ci ritroviamo nel 2011 con un Pil in termini nominali pressoché identico a quello del 2008, ma con 27 miliardi di maggiore spesa primaria. A riprova ulteriore, se mai ve ne fosse bisogno, che il risanamento della finanza pubblica senza crescita dell’economia è un compito quasi senza speranza. Rivolgiamo quindi la nostra attenzione alle prospettive di lungo periodo nelle quali le ipotesi sulla crescita giocano un ruolo fondamentale. 3. Le tendenze di lungo periodo Il 2 marzo 2012 venticinque paesi dell’Unione europea (le eccezioni sono Regno Unito e Repubblica Ceca) hanno firmato un nuovo patto di bilancio, noto come Fiscal compact, che, ridotto in pillole, contiene due regole. La prima (da alcuni definita, non si capisce bene perché, golden rule) è il pareggio di bilancio, o meglio il divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5% del Pil nell’arco di un ciclo economico. La seconda regola fissa un percorso di diminuzione del debito pubblico in rapporto al Pil: dovrà ridursi ogni anno di 1/20 della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60%. In che relazione sono tra loro queste due regole? A giudicare da molti commenti italiani sembra che quella sul debito sia la regola più severa. Così, si tira un sospiro di sollievo osservando che il Fiscal compact prevede deroghe per «fattori rilevanti»2. La regola sul pareggio di bilancio, invece, apparentemente viene accettata senza troppe discussioni e anzi ci si appresta a inserirla in Costituzione, modificando l’art. 81. In realtà, se guardiamo un po’ oltre la contingenza attuale, la regola 2 in molti commenti di giornalisti e esponenti politici il significato della regola sul debito è stato equivocato, immaginando che essa prescrivesse per l'italia una riduzione di tre punti di Pil l'anno del debito e che quindi richiedesse manovre di 40-50 miliardi l'anno per vent'anni, risultando così insostenibile (solo per fare un esempio: “Unione fiscale, il nuovo trattato: un anno in più per ridurre il debito”, «la Repubblica», 11 gennaio 2012). la regola va, invece, interpretata come si spiega di seguito. si veda anche, per una “interpretazione autentica”, european commission (2011). tema di discussione 47 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 48 Giuseppe Pisauro sul debito è in genere meno severa di quella del pareggio di bilancio. Se il bilancio è in pareggio, non si genera nuovo debito. In altre parole il debito in euro non cambia. Ogni variazione del Pil nominale si tradurrà, quindi, in una variazione del rapporto debito/Pil. Si può calcolare facilmente che per rispettare la regola di 1/20, con un debito al 120% del Pil e il pareggio di bilancio è sufficiente che il Pil nominale cresca del 2,5%; con un debito al 100% del Pil basta una crescita nominale del 2%; con un debito all’80% è sufficiente l’1,25%. In tempi appena normali sono valori bassi. Perché si verifichino basta un po’ di inflazione. Tanto per dare un’idea, nel 2000-2007, anni di crescita reale molto bassa, la crescita nominale del Pil in Italia è stata in media del 3,6% l’anno. Le cose vanno diversamente quando c’è una grave recessione: il Pil nominale può anche diminuire (in Italia, nel dopoguerra, è accaduto solo nel 2009) o crescere molto poco (dell’1,7% nel 2011 e, secondo le previsioni ufficiali di aprile 2012, dello 0,5% nel 2012 e poi tra il 2,4% e il 3,2% nei tre anni successivi). Il sospiro di sollievo per l’attenuazione della regola del 1/20 può essere, quindi, giustificato oggi. In condizioni normali, tuttavia, dovremmo preoccuparci di più della regola del pareggio di bilancio. E forse nel valutare le nuove regole europee dovremmo considerare quale sarà il loro effetto in condizioni normali dell’economia. La figura 1 mostra la dinamica del rapporto debito pubblico/Pil in Italia a partire dal 2010: secondo le stime ufficiali (tratte dal Documento di economia e finanza di aprile 2012) fino al 2015 e poi in discesa secondo la regola del 1/20. Si parte dal 118,4 registrato per il 2010. La discesa inizia a essere significativa, per effetto delle manovre già approvate, nel 2013 e poi prosegue, secondo la regola, a un ritmo decrescente: da una riduzione di 3,3 punti nel 2014 a 2,5 punti nel 2018 a 1,3 punti nel 2030. Per inciso, diversamente da quello che a volte si dice, la regola non richiede una riduzione del debito di 3 punti l’anno (un ventesimo della differenza tra 120 e 60) per vent’anni. Man a mano che il debito/Pil scende, la differenza tra il suo valore e la soglia del 60% si 48 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 49 Il risanamento dei conti pubblici Fig. 1 - La dinamica del rapporto debito pubblico/Pil secondo la nuova regola europea Fonte: elaborazioni dell'autore Fig. 2 - Saldo primario e indebitamento netto coerenti con la riduzione del debito -vari scenari Fonte: elaborazioni dell'autore tema di discussione 49 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 50 Giuseppe Pisauro riduce e, quindi, si riduce anche 1/20 di quella differenza. Naturalmente ciò allunga il periodo necessario per avvicinarsi al fatidico 60%. Partendo dal livello attuale, la regola comporta per l’Italia nel 2034 un rapporto ancora all’80%. Quale saldo di bilancio sarà necessario in futuro per ottenere questi risultati? Naturalmente dipenderà dal tasso di crescita del Pil e dal tasso di interesse sul debito. La figura 2 mostra l’avanzo primario e il saldo totale (indebitamento netto) necessari per rispettare la regola sul debito, proiettando nel futuro le ipotesi ufficiali per il 2015: crescita reale del Pil all’1,2%, crescita nominale al 3,2%, costo medio del debito al 5% (quest’ultimo maggiore di 0,8 punti rispetto al valore previsto per il 2011). Sono ipotesi che non appaiono particolarmente ottimistiche in un’ottica di lungo periodo. Sotto queste ipotesi, l’avanzo primario dal 5,7% previsto per il 2015 potrebbe scendere al 4,8% l’anno successivo, al 4% nel 2021 e così via. Ciò non richiederebbe il pareggio di bilancio, bensì sarebbe coerente con un disavanzo totale tra lo 0,8 e l’1,4% del Pil lungo il periodo considerato. La figura 2 mostra il profilo dell’avanzo primario e dell’indebitamento netto anche per due ipotesi alternative: una favorevole, con un punto in più di crescita del Pil, e una sfavorevole, con un punto in meno rispetto alle previsioni ufficiali. Nell’ipotesi sfavorevole, che contempla una crescita nominale del Pil del 2,2% (per inciso, un valore del genere, associato a una crescita reale nulla per vent’anni presumibilmente si qualificherebbe come “fattore rilevante” per una deroga), sarebbe necessario mantenere un saldo primario superiore al 5% e un avanzo o pareggio complessivo fino al 2021. Nell’ipotesi favorevole, invece, di una crescita nominale del Pil al 4,2% l’anno (di poco superiore a quella media del periodo 2000-2007), l’avanzo primario potrebbe scendere sotto il 4% già nel 2016 e sotto il 3% nel 2022; l’indebitamento netto potrebbe mantenersi su livelli superiori all’1,8% lungo tutto il periodo. Insomma, ipotesi anche di poco più favorevoli sulla crescita del Pil e sui tassi di interesse renderebbero ancora meno necessario il manteni50 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 51 Il risanamento dei conti pubblici mento del pareggio di bilancio3. Sarebbe possibile, sempre mantenendo gli obiettivi di riduzione del debito, l’adozione di una vera golden rule, quella che consente di finanziare in disavanzo le spese di investimento. I trattati e le regole dovrebbero essere pensati per durare. Se l’obiettivo finale è la crescita economica, ci sono buoni motivi per volere la riduzione del debito pubblico, specie in casi come quello italiano. Non ve ne sono altrettanti per imporre il pareggio di bilancio per sempre. Il fatto che oggi, in pratica, la prima regola possa richiedere il rispetto della seconda non è un buon motivo per vincolare in modo poco ragionevole la politica fiscale dei paesi europei nel prossimo decennio. 4. La composizione tra spese ed entrate della politica di bilancio nel 2008-2011 Un aspetto che è stato molto discusso è quello della composizione della manovra tra aumenti di entrate e riduzioni di spese, con un peso prevalente dei primi. Difficile negare che ciò sia vero se si guarda alle manovre del 2011: posta uguale a 100 la riduzione del disavanzo, in media nei quattro anni interessati (2011-2014) il contributo delle entrate è 71 e quello delle spese 29. Questo dato, tuttavia, deve essere letto in un contesto più ampio. Va considerato, infatti, che negli interventi di correzione effettuati negli anni precedenti, con riflessi permanenti sulle poste del bilancio, il rapporto tra il contributo delle entrate e quello delle spese è rovesciato a favore delle seconde (tabella 5). Nel triennio 2008-2010, come si è visto, sono stati approvati due provvedimenti di correzione del disavanzo: il d.l. n. 112/2008 e il d.l. n. 78/2010. Il contributo medio dei tagli di spesa alla riduzione del disavanzo è stato del 71% per il decreto del 2008 e del 63% per quello del 2010. Sommando gli effetti dei decreti del 2008 e 2010 con quelli dei tre decreti del 2011 si ottiene un contributo medio delle entrate pari al 56% e delle spese al 44%. Questo 3 negli esercizi di simulazione del rapporto debito/Pil la variabile cruciale è la differenza tra tasso di interesse nominale e crescita nominale del Pil. Risultati vicini a quelli illustrati (ma non identici) si otterrebbero se si assumessero, ferma restando la dinamica del prodotto, ipotesi alternative sul tasso di interesse. tema di discussione 51 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 52 Giuseppe Pisauro Tab. 5 - La composizione degli aggiustamenti fiscali 2008-2011 (miliardi di euro) 2009 2010 2011 Maggiori entrate nette 4,7 5,0 5,5 Minori spese nette 5,2 12,2 25,4 Riduzione del disavanzo 9,9 17,1 30,9 47,5% 29,2% 17,8% 2012 2013 2014 d.l. 112/2008 Contributo % entrate d.l. 78/2010 Maggiori entrate nette 4,1 10,0 8,0 Minori spese nette 8,0 14, 9 17,0 12,1 25,0 25,0 33,9% 40,0% 32,0% Maggiori entrate nette 2,6 40,0 52,4 53,5 Minori spese nette 0,2 8,5 23,2 27,0 Riduzione del disavanzo 2,8 48,5 75,6 80,5 92,9% 82,5% 69,3% 66,4% Riduzione del disavanzo Contributo % entrate d.l. 98, 138 e 201/2011 Contributo % entrate Fonte Elaborazione su documenti ufficiali numero può dare un’idea più vicina alla realtà della composizione tra spese ed entrate delle manovre realizzate in questa XVI legislatura. Rappresenta, comunque, un’approssimazione abbastanza rozza, in quanto a rigore non è corretto sommare gli effetti di provvedimenti approvati in anni diversi. Le stime ufficiali, infatti, riportano gli effetti finanziari per un triennio e non quelli a regime. Così, ad esempio, per il d.l. n. 112/2008 disponiamo della stima degli effetti delle varie misure solo per gli anni 2008-2011 e non per gli anni successivi. Questo nonostante molte di quelle misure (ma certamente non tutte) avessero effetti permanenti. Per fare un esempio, la soppressione di alcuni organismi disposta dal d.l. del 2008 ha effetti non solo fino al 2011 (come esposto nelle stime ufficiali che accompagnano il decreto), ma anche nel 2012 e negli anni successivi. Sommare semplicemente le stime ufficiali di provvedimenti diversi sull’orizzonte temporale per il quale sono fornite 52 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 53 Il risanamento dei conti pubblici porta quindi a sottostimare gli effetti per gli anni più lontani del periodo. Nel nostro caso, si potrebbe anche pensare che essendo il peso dei tagli di spesa maggiore nei provvedimenti del 2008 e 2010, in realtà la percentuale del 44% ottenuta in precedenza rappresenti una sottostima del loro contributo alla riduzione del disavanzo nei provvedimenti approvati nel periodo 2008-2011. In generale, comunque, gli effetti di lungo periodo possono essere molto diversi da quelli stimati e contabilizzati per il primo triennio. In uno studio del Ministero dell’Economia (Ragioneria Generale dello Stato 2012), si stimano gli effetti al 2020 del d.l. n. 201 del dicembre 2011. Secondo la stima ufficiale, quel provvedimento darebbe luogo nel 2014 a una riduzione del disavanzo di 21,4 miliardi di cui 14,9 miliardi di maggiori entrate e 6,5 miliardi di minori spese. Secondo la proiezione di lungo periodo dello studio citato, la riduzione del disavanzo nel 2020 sarebbe di 32 miliardi, di cui 11,4 di maggiori entrate e 20,6 di minori spese (prevalentemente per effetto delle misure sulle pensioni). 5. Efficacia della politica fiscale, moltiplicatori e composizione entrate/spese Ma per quali aspetti ha rilevanza la composizione di un aggiustamento fiscale tra tagli di spesa e aumenti di imposte? Nella letteratura vi è un certo accordo su come sia più probabile che un aggiustamento abbia successo (nel senso di ridurre in modo permanente il debito pubblico) se basato su tagli alla spesa primaria, in particolare al pubblico impiego e alla sicurezza sociale, piuttosto che su aumenti delle imposte. È una letteratura abbastanza ampia, iniziata da Alesina e Perotti (1995). L’idea è che aumenti delle entrate creino spazi futuri per nuove spese, prima o poi destinati ad essere sfruttati, e che l’unico modo per abbassare il debito sia ridurre la dimensione del bilancio. Vi sarebbe comunque un ruolo anche per aumenti della pressione fiscale in una prima fase dell’aggiustamento prima che diventi possibile intervenire riducendo le spese ricorrenti (OECD 2007). Molto più controversa è la nozione, presente nella stesso filone della tema di discussione 53 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 54 Giuseppe Pisauro letteratura (da Giavazzi e Pagano 1990 fino a Alesina e Ardagna 2009), secondo cui è possibile che un aggiustamento fiscale abbia effetti espansivi sull’economia e che ciò è tanto più probabile quanto più esso sia basato su tagli alle spese. È una questione particolarmente rilevante in una situazione come quella italiana attuale, dove l’aggiustamento fiscale deve essere effettuato nel contesto di un’economia stagnante o già in recessione. L’idea fondamentale di questa letteratura è che di fronte a una politica di riduzione del disavanzo, se gli agenti economici ritengono che essa riduca la probabilità di aggiustamenti più costosi nel futuro (crisi fiscale), le loro aspettative saranno di un reddito futuro maggiore; ciò aumenterà la loro fiducia oggi e li indurrà ad aumentare la propria spesa. Alesina e Ardagna (2009) è un buon esempio di questo filone della letteratura. Lo studio utilizza un panel di 21 paesi OCSE dal 1970 al 2007. Un aggiustamento fiscale viene definito come un episodio di miglioramento del saldo primario corretto per il ciclo di almeno l’1,5% del Pil; gli episodi così individuati nello studio sono 107. Si definisce come “espansivo” un aggiustamento che produce un aumento del tasso di crescita del Pil superiore al 75% dei casi esaminati (individuando così 26 casi, circa il 25% del campione) e come “riuscito” un aggiustamento fiscale tale da produrre una riduzione del rapporto debito/Pil in tre anni di almeno 4,5 punti (individuando così 21 casi, circa il 21% del campione). Solo nove casi (circa l’8% del campione) risultano sia “espansivi” sia “riusciti”. Negli aggiustamenti “riusciti” la spesa primaria diminuisce di circa il 2% del Pil e le entrate diminuiscono dello 0,5% del Pil. Al contrario, negli aggiustamenti “non riusciti” la spesa diminuisce dello 0,7% del Pil e le entrate aumentano dell’1,4% del Pil. Risultati, quindi, a sostegno della tesi secondo cui per ridurre il debito sia preferibile affidarsi a tagli di spesa accompagnati da modeste riduzioni di imposta. Una serie di regressioni individuano poi una correlazione tra il tasso di crescita del Pil e le variabili fiscali, che indicherebbero che sgravi fiscali hanno maggiore probabilità di stimolare l’economia di 54 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 55 Il risanamento dei conti pubblici aumenti della spesa; vi sarebbe anzi evidenza che incrementi della spesa inducono una riduzione del tasso di crescita dell’economia. Recentemente, anche sulla scorta di un lavoro del Fondo Monetario Internazionale (IMF 2010), si è sviluppata un’ampia discussione critica su questi risultati (ben sintetizzata in Gravelle e Hungerford 2011). Lo studio del Fondo utilizza una metodologia diversa per individuare gli episodi di aggiustamento fiscale: invece di basarsi su variazioni del saldo primario corretto per il ciclo si concentra sugli interventi di politica fiscale motivati dall’obiettivo di ridurre il disavanzo, a prescindere dai risultati che quegli interventi hanno avuto. La motivazione è che l’approccio basato sul saldo corretto può distorcere i risultati a favore di effetti espansivi. La correzione per il ciclo non riesce ad eliminare gli effetti sul gettito fiscale di variazione dei prezzi delle attività patrimoniali, portando così ad includere episodi di consolidamento fiscale associati ad aumenti dei prezzi dei cespiti (che tendono a coincidere con fasi espansive dell’economia) e ad escludere episodi associati a diminuzioni degli stessi prezzi. Ad esempio, in Irlanda nel 2009 il crollo della borsa e dei prezzi degli immobili provocò un forte peggioramento del saldo corretto nonostante l’introduzione di tagli di spese e aumenti di imposte per 4,5 punti di Pil. Ancora, l’approccio basato sul saldo corretto per il ciclo tenderebbe a non individuare episodi di consolidamento fiscale cui fa seguito uno shock negativo dell’economia che costringe le autorità di politica fiscale a intervenire con misure espansive. In altre parole, un paese che intraprende un programma di riduzione del disavanzo è più probabile che lo continui se non ci sono effetti negativi sull’economia. Considerare solo i casi di riduzioni sostenute nel tempo tende a selezionare i casi di consolidamento seguiti da espansione dell’economia. Passando ai risultati ottenuti in IMF (2010), in estrema sintesi, gli aggiustamenti fiscali risultano avere comunque effetti recessivi, che possono però essere attenuati da una politica monetaria accomodante di riduzione dei tassi di interesse e da concomitanti politiche di svalutazione del cambio che fanno aumentare le esportatema di discussione 55 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 56 Giuseppe Pisauro zioni nette. Tagli di spesa risultano meno recessivi di aumenti di imposte, ma ciò dipende in parte dal fatto che questi ultimi tendono ad essere associati a politiche monetarie più espansive. Riduzioni del disavanzo in Paesi a elevato rischio di default sul debito tendono a essere meno recessivi che non in altri Paesi, ma anche in questi casi non si hanno comunque di solito effetti espansivi. La questione, naturalmente, non è tanto se gli effetti sulle aspettative enfatizzati dalla letteratura sugli aggiustamenti fiscali espansivi siano presenti, quanto se la loro ampiezza sia tale da più che controbilanciare gli effetti diretti depressivi di riduzioni della spesa pubblica. Un’altra critica all’approccio seguito in Alesina e Ardagna (2009) riguarda la possibilità che il successo degli episodi di consolidamento fiscale dipenda dallo stato dell’economia. Un argomento che ritroveremo più avanti a proposito della possibilità che la politica fiscale abbia effetti “non lineari”. Gli aggiustamenti “riusciti” (secondo la definizione di Alesina-Ardagna) hanno avuto luogo in economie che si trovavano al livello di pieno impiego (o vicino ad esso); al contrario, gli aggiustamenti “non riusciti” si sono verificati in genere quando il prodotto effettivo era lontano dal prodotto potenziale. Quasi nove casi su dieci di aggiustamenti fiscali iniziati quando il prodotto era inferiore al potenziale non hanno avuto successo (Gravelle e Hungerford 2011). Più in generale, qualche utile insegnamento si può trarre dal lavoro teorico ed empirico sui moltiplicatori fiscali che ha ripreso particolare vigore durante la crisi4. È una letteratura riferita in gran parte agli Stati Uniti e diretta a valutare l’efficacia anti-ciclica di politiche fiscali espansive. I filoni principali sono due: modelli empirici, basati su forme ridotte (che seguono tecniche VAR, vector autoregressive) e modelli strutturali (modelli di equilibrio generale dinamico-stocastici, DSGE). Nella letteratura più recente, motivata dal dibattito sulla Grande reces4 si vedano in particolare gli articoli contenuti nel numero di settembre 2011 del «Journal of economic literature» e in quello di gennaio 2012 dell’«american economic Journal: macroeconomics». 56 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 57 Il risanamento dei conti pubblici sione, si cerca di affrontare essenzialmente tre questioni: 1) il grado di efficacia di politiche fiscali espansive associate a politiche monetarie accomodanti; 2) il mix più opportuno di strumenti – spesa diretta, trasferimenti, imposte – per stimolare l’economia; 3) le conseguenze di lungo periodo di uno stimolo fiscale. I risultati sono molto diversificati, con stime dei moltiplicatori della spesa pubblica che vanno da 0 a 2,1 e delle imposte da -1,5 a 1,4 (IMF 2012). Concentrando l’attenzione sui modelli strutturali che consentono di tener conto delle interazioni tra politica fiscale e politica monetaria, in particolare in situazioni di trappola della liquidità, un buon esempio è Coenen et al. (2012). Lo studio confronta i risultati di sette modelli istituzionali (Federal Reserve Board – due modelli, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea, OCSE, Bank of Canada) e due modelli “accademici”. Le principali conclusioni sono tre: 1) uno stimolo fiscale fa crescere il Pil nel breve periodo e l’effetto aumenta sensibilmente con il grado di monetary accomodation per quasi tutti gli strumenti; 2) trasferimenti selettivi, indirizzati a famiglie liquidity constrained e spesa diretta sono particolarmente efficaci; 3) l’effetto di stimolo di breve periodo diminuisce se lo stimolo diventa «troppo persistente» e, anzi, un aumento permanente della spesa diretta porta nel lungo periodo a una riduzione dell’output. La tabella 6 sintetizza i risultati dello studio sulla dimensione dei moltiplicatori associati a vari strumenti di politica fiscale. Emerge chiaramente come i moltiplicatori della spesa siano superiori a quelli delle imposte. Sono risultati contrari alla tesi secondo cui per contrastare una recessione sarebbe preferibile ridurre le imposte piuttosto che aumentare le spese. Conclusioni opposte vanno tratte, invece, se si assume un’ottica di lungo periodo. Una questione importante è quella della possibile dipendenza della dimensione dei moltiplicatori dallo stato dell’economia. Per dirla con Parker (2011): «Non disponiamo di una buona misura degli effetti della politica fiscale in recessione perché i metodi di stima ignorano tema di discussione 57 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 58 Giuseppe Pisauro Tab. 6 - Moltiplicatori associati a strumenti di politica fiscale USA Europa Consumi pubblici 1,55 1,52 Investimenti pubblici 1,59 1,48 Trasferimenti selettivi 1,30 1,12 Imposte sui consumi 0,61 0,66 Trasferimenti generali 0,42 0,29 Imposte sulle società 0,24 0,15 Imposte su redditi da lavoro 0,23 0,53 Nota: Moltiplicatori associati a uno stimolo fiscale con durata di due anni e politica monetaria accomodante. Media dei risultati di nove modelli strutturali (Coenen et al. 2012). quasi interamente lo stato dell’economia e stimano il moltiplicatore della politica fiscale, che è presumibilmente una media ponderata di ciò che interessa – il moltiplicatore in recessione – e ciò che interessa meno – il moltiplicatore in una fase espansiva». Uno studio recente (Baum, Poplawski-Ribeiro e Weber 20125), basato su un modello non linear threshold VAR (che separa le osservazioni in regimi diversi in base dell’output gap, utilizzato come variabile soglia), affronta direttamente la questione, distinguendo tra moltiplicatori in fasi recessive e in fasi espansive. Si basa su dati trimestrali, a partire dagli anni ’70, per sei paesi del G-7 (l’escluso è l’Italia). I risultati confermano l’intuizione secondo cui in fasi recessive è più debole, dato che nell’economia vi è capacità in eccesso, il tradizionale argomento per cui una spesa pubblica più elevata spiazza la spesa privata. Viene confermato anche il risultato standard per cui i moltiplicatori di breve periodo della spesa sono significativamente maggiori di quelle delle imposte. Ad esempio, il moltiplicatore associato a un incremento della spesa pubblica è 1,22 con un output gap negativo e a 0,72 con un output gap positivo; il moltiplicatore di una riduzione di spesa è -1,34 in fasi recessive e -0,78 in fasi espansive. E ancora, il moltiplicatore di un incremento delle imposte è -0,40 in fasi recessive e 0,03 in fasi espansive; un 5 58 una sintesi è in imF (2012). economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 59 Il risanamento dei conti pubblici taglio di imposte ha un moltiplicatore 0,35 in fasi recessive e -0,04 in fasi espansive. Lo studio avverte che questi risultati sui moltiplicatori di breve periodo non dovrebbero essere utilizzati per trarre conclusioni sulla desiderabilità di basare un consolidamento fiscale sulla spesa o sulle imposte. Sono importanti anche gli effetti di lungo periodo sull’output potenziale e «la pressione fiscale già elevata in alcuni paesi (particolarmente in Europa) implica che il grosso dell’aggiustamento fiscale dovrebbe gravare sul lato della spesa (sebbene incrementi delle entrate possano risultare inevitabili quando l’obiettivo di aggiustamento è elevato)» (IMF 2012, p. 36). Rimane il fatto che sostenere, come spesso si fa nel dibattito italiano6, il carattere recessivo (quindi di breve periodo) di aumenti delle imposte rispetto a tagli delle spese, confondendo le due ottiche – breve e lungo periodo – non sembra suffragato dall’evidenza empirica che abbiamo illustrato. Certamente le considerazioni degli effetti sull’output potenziale sono importanti ma sottovalutare gli effetti recessivi di tagli alle spese e anzi negarli, specie in una fase di recessione già acuta, potrebbe avere conseguenze molto poco attraenti. Per concludere un cenno all’Italia. Gli studi sull’efficacia della politica fiscale riferiti al nostro paese sono molto scarsi. Una interessante eccezione è Basile, Chiarini e Marzano (2011) che distinguono gli effetti della politica fiscale sul settore regolare dell’economia e su quello sommerso (per la stima della dimensione del sommerso utilizzano la serie della base imponibile IVA non dichiarata elaborata dall’Agenzia delle entrate). Secondo i risultati ottenuti, il moltiplicatore della spesa pubblica (dopo un anno) è 0,8 per il Pil privato totale e 3,7 per la componente regolare (-6 per la componente irregolare). D’altro canto, l’aumento di un punto percentuale della pressione fiscale avrebbe un effetto recessivo sulla componente regolare (-1,1), ma farebbe crescere la componente irregolare (moltiplicatore +4,2). Sono risultati non 6 ad esempio, a. alesina e F. Giavazzi, “Caro Presidente, no così non va”, «corriere della sera», 4 dicembre 2011. tema di discussione 59 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 60 Giuseppe Pisauro sorprendenti nel loro segno. Dopotutto, ci si può aspettare che la domanda proveniente dal settore pubblico si rivolga al settore formale (e quindi una maggiore spesa pubblica faccia espandere quel settore e contrarre il sommerso). Altrettanto plausibile è che una maggiore pressione fiscale renda relativamente meno conveniente operare nel settore formale. L’ampiezza degli effetti stimati è forse superiore alle aspettative. Si tratta comunque di una direzione di ricerca che affronta una questione peculiare del nostro paese, certamente fondamentale non solo in un’ottica di breve periodo. Bibliografia ALESINA A., ARDAGNA R. (2009), Large changes in fiscal policy: taxes versus spending, «Nber Working Papers», n. 15438, Cambridge. ALESINA A., PEROTTI R. (1995), Fiscal expansions and fiscal adjustments in Oecd countries, «Nber Working Papers», n. 5214, Cambridge. BASILE R., CHIARINI B., MARZANO E. (2011), Can we rely upon fiscal policy estimates in countries with unreported production of 15 per cent (or more) of GDP?, «CESIFO Working Paper» n. 3521, Munich, luglio. BAUM A., POPLAWSKI -RIBEIRO M., WEBER A. (2012), Fiscal multipliers and the state of the economy, «IMF Working Paper» (in corso di stampa), Washington, D.C. COENEN G. et al. (2012), Effects of fiscal stimulus in structural models, in «American Economic Journal: Macroeconomics», vol. 4, n. 1, pp. 22-68. European commission - Directorate-general for economic and financial affairs (2011), Evolving budgetary surveillance, in Public Finances in Emu 2011, «European Economy», n. 3, pp. 63-108. GIAVAZZI F., PAGANO R. (1990), Can severe fiscal contractions be expansionary? Tales of two small European countries, in Nber Macroeconomics Annual, Mit Press, Cambridge, pp. 95-122. GRAVELLE J.G., HUNGERFORD T.L. (2011), Can contractionary fiscal policy be expansionary?, «Crs Report for Congress», Congressional Research Service, Washington, D.C, giugno. 60 economia italiana 1•2012 EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 61 Il risanamento dei conti pubblici International Monetary Fund (2009a), The size of the fiscal expansion: an analysis for the largest countries, Washington D.C., febbraio. International Monetary Fund (2009b), The state of public finances: Outlook and medium-term policies after the 2008 crisis, Washington D.C., marzo. International Monetary Fund (2010), Will it hurt? Macroeconomic effects of fiscal consolidation, in World Economic Outlook, Washington D.C., ottobre, pp. 93-124. International Monetary Fund (2012), Fiscal multipliers in expansions and contractions, in Fiscal Monitor. Balancing fiscal policy risks, Washington D.C., aprile, pp. 33-39. 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Si è trattato di un adattamento spontaneo, in assenza di un orientamento di politica economica in gran parte concentrata sugli sforzi di risanamento finanziario. Si argomenta, quindi, come la capacità reattiva mostrata dalle imprese fornisca la base di partenza per politiche della crescita. Queste, nell’attuale fase, non sembrano poter prescindere dall’identificazione di forme appropriate di rilancio della domanda interna. 1. Introduzione Gli anni zero di questo terzo millennio sono stati, per l’Italia, anche anni di crescita zero. Ma sarebbe un errore pensare che durante questo periodo il paese sia rimasta fermo. La nostra economia ha conosciuto profonde modifiche e una marcata ristrutturazione, di natura spontanea, guidata essenzialmente dai mutamenti nelle condizioni esterne e nell’ambiente macroeconomico. In particolare, la globalizzazione e l’ingresso nell’area dell’euro hanno imposto una serie di cambiamenti che hanno avuto un impatto significativo sull’industria italiana, ossia sul settore che più era esposto alla concorrenza. Gli shock esterni hanno poi interagito con gli eventi interni che hanno visto nelle riforme del mercato del lavoro e nelle dismissioni di attività da parte dello Stato due passaggi essenziali, in grado di condizionare scelte produttive e decisioni di investimento. Conoscere questi cambiamenti è importante non solo dal punto di vista scientifico, ma soprattutto per delineare interventi di politica economica. Se non si apprezzano i mutamenti avvenuti, si rischia infatti tema di discussione 63 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 64 innocenzo cipolletta e sergio de nardis di riproporre vecchie ricette che forse erano adatte in periodi passati, ma che possono essere sbagliate ora, perché non tengono conto delle modifiche intervenute e delle tendenze spontanee delle imprese italiane. Questo saggio intende dare conto di questi cambiamenti e di come essi si siano combinati con gli eventi che hanno caratterizzato i primi dieci anni di questo secolo. In particolare, si mostrerà nel paragrafo 2 come l’industria italiana abbia conosciuto, con l’inasprirsi delle pressioni concorrenziali, un processo di rinnovamento e upgrading delle sue produzioni, che le ha permesso di tornare a collocarsi, dopo una severa flessione nei primi anni del decennio, su un sentiero più favorevole di efficienza e competitività. Si analizzerà poi, nel paragrafo 3, la posizione del nostro paese nei confronti delle economie europee. Gli esiti del processo di cambiamento non sono leggibili nei risultati medi del decennio, sia perché ogni ristrutturazione richiede tempo per dare frutti e passa attraverso una perdita di produzioni che incide sulla crescita nella prima fase, sia perché la decade trascorsa è stata scossa da due crisi “epocali”. La prima, quella che seguì l’11 settembre 2001, data del terribile attentato terrorista contro gli USA. La seconda, la crisi finanziaria globale, esplosa nel 2008 e che ancora agita il mondo nel 2012. Soprattutto quest’ultima crisi ha avuto effetti particolarmente intensi sui paesi a più alta vocazione industriale e tra questi l’Italia. Verranno inoltre esaminati i legami tra perfomance manifatturiera e produttività dell’intera economia. Quindi cercheremo, nel paragrafo 4, di individuare quale è il modello di specializzazione che l’Italia è andata assumendo, in via spontanea, ossia in assenza di politiche specifiche, posto che il nostro paese appare soprattutto concentrato sulle politiche di risanamento finanziario e non ha saputo o voluto sviluppare interventi volti a guidare il cambiamento strutturale. Si argomenterà che l’aggiustamento spontaneo ha dato luogo a tendenze opposte per gli operatori privati, venendo alcuni investiti dal forte incremento della pressione concorrenziale della globaliz64 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 65 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione zazione e cercando altri riparo da quest’ultima con lo spostamento di risorse nei settori privatizzati, ma non adeguatamente liberalizzati. Si discuteranno, inoltre, le influenze che le riforme del mercato del lavoro hanno esercitato nell’innalzare il contenuto di occupazione della crescita economica. Tali considerazioni condurranno a sottolineare, nel paragrafo conclusivo, la capacità delle imprese italiane ad adattarsi alle condizioni del mercato e alle modifiche del quadro giuridico e istituzionale. Riconoscere questa capacità è importante perché consente di immaginare una risposta positiva da parte delle imprese italiane a riforme di contesto e a politiche macroeconomiche volte alla crescita di particolari segmenti della domanda interna, con effetti positivi sul tasso di sviluppo della nostra economia. Una crescita che appare necessaria anche per favorire quel risanamento finanziario che altrimenti rischia di essere difficile da perseguire. 2. Cambiamenti strutturali nelle imprese italiane La manifattura italiana ha attraversato una fase di aggiustamento nei primi anni duemila in risposta agli shock competitivi di inizio decennio (euro e Cina, in primo luogo). Essi sono stati comuni alle economie europee, ma hanno avuto effetti specifici sul nostro sistema a motivo della sua specializzazione e del frequente ricorso fatto nel passato al tasso di cambio come strumento di riequilibrio macroeconomico. Le riorganizzazioni produttive sono state significative, ma si è stentato a lungo a riconoscere la loro effettiva portata. Ciò è avvenuto per problemi di misurazione delle statistiche, che hanno persistentemente sottovalutato la dinamica in volume delle esportazioni (quindi, dell’output complessivo), e per l’apparente inerzia, scambiata per assenza di reattività, della struttura industriale tanto sotto il profilo settoriale che dimensionale. La (atipica) gerarchia dei vantaggi comparati settoriali è rimasta sostanzialmente immutata negli ultimi anni (figura 1), così come scarse sono state le modifiche nella distribuzione per dimensione delle imprese industriali (tabella 1). tema di discussione 65 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 66 innocenzo cipolletta e sergio de nardis Fig. 1 - Indici di vantaggio comparato rivelato delle esportazioni italiane in rapporto ai paesi UE (indice>1 = specializzazione; indice<1 = despecializzazione) Fonte elaborazioni su dati OECD Tab. 1 - Distribuzione delle imprese manifatturiere per classi dimensionali (quote %) 2000 2008 Differenza 2008-2000 83,6 81,9 -1,8 da 10 a 19 9,6 10,6 1,0 da 20 a 49 4,7 5,1 0,4 da 50 a 249 1,8 2,1 0,3 250 e oltre 0,2 0,3 0,1 100 100 - da 1 a 9 Totale Fonte elaborazioni su dati Istat Questa staticità è stata, però, ingannevole. Essa ha, in realtà, sotteso intensi cambiamenti dando forma a una sorta di ristrutturazione “silenziosa” dell’industria. Ciò che si è verificato negli anni degli shock competitivi è stata una riallocazione delle risorse all’interno dei settori (e delle classi dimensionali), dalle imprese meno produttive a quelle più efficienti, e dentro le imprese, dalle linee di prodotto a basso valore medio a quelle 66 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 67 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione con più elevato contenuto qualitativo e di servizi. Questa mobilità non ha avuto una specificità settoriale. Essa si è manifestata nelle industrie sia di vantaggio che di svantaggio comparato: le spinte competitive hanno attivato ovunque processi spontanei di selezione, con l’espansione delle produzioni migliori e la flessione di quelle meno adatte1. La tabella 2, tratta da De Nardis (2010), fornisce un’indicazione di tali dinamiche. Nel quinquennio 2000-05, la produzione industriale, calcolata sui microdati Prodcom, è aumentata in misura molto limitata, solo del 3% in valore. Questa percentuale sembra non dare adito a dubbi: si è trattato di un lungo periodo di stagnazione. Ma ciò è solo l’aspetto di superficie. La stasi ha sotteso, infatti, forti rimescolamenti all’interno dell’industria, in termini tanto di imprese che di prodotti. L’ingresso di nuovi produttori ha contributo ad aumentare la produzione manifatturiera in tale periodo di 25 punti percentuali; la contemporanea uscita di imprese ha indotto una caduta di entità simile. Il cambiamento è stato altrettanto marcato dentro le aziende. Tra il 2000 e il 2005, l’aggiunta di nuovi prodotti ha accresciuto l’output complessivo di 24 punti percentuali; la simultanea eliminazione di produzioni ne ha provocato un calo per 23 punti. I movimenti di imprese e prodotti sono stati, quindi, ampiamente in eccesso rispetto a quanto “necessario” per accomodare la modesta variazione dell’output; un’evidenza di processi di rinnovamento non altrimenti identificabili dall’osservazione dei soli andamenti aggregati2. 1 Bugamelli, Schivardi e Zizza (2010) argomentano che la riallocazione delle attività dopo l’euro è avvenuta, in Italia e in Europa, non tanto “tra” quanto “dentro” i settori e che, nel caso delle produzioni tradizionali italiane, le riorganizzazioni a livello di impresa hanno implicato spostamenti di risorse verso le attività a monte e a valle del processo produttivo. Tale aspetto è sottolineato anche da Arrighetti e Traù (2012) che mostrano, inoltre, come il riposizionamento competitivo delle imprese di successo abbia comportato una ridefinizione della generalità delle funzioni aziendali. I fenomeni del cambiamento industriale sono stati analizzati, pur con enfasi e prospettive diverse, da vari autori, cfr. per esempio Cipolletta (2006), Rossi (2006), Fortis (2005), Lanza e Quintieri (2007), De Nardis (2010). 2 I movimenti di risorse ”intra-muros” hanno anche favorito l’innalzamento del capitale umano (laureati e skill) dentro le imprese, su questo cfr. Bugamelli, Schivardi e Zizza (2010), De Nardis e Ventura (2010), Schivardi e Torrini (2011). tema di discussione 67 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 68 innocenzo cipolletta e sergio de nardis Tab. 2 - Scomposizione della variazione dell’output manifatturiero 2000-2005 Var. % e contributi % alla variazione Variazione % output industriale 3,0 dovuta a: Imprese entrate/uscite: variazione netta (margine estensivo imprese) +0,1 —— Entrate +25,6 —— Uscite -25,5 Beni aggiunti/eliminati: variazione netta (margine estensivo prodotti) +1,0 —— Aggiunti +24,0 —— Eliminati -23,0 Beni già esistenti in crescita/calo: variazione netta (margine intensivo) +1,9 —— In crescita +13,4 —— In calo -11,5 Fonte De Nardis 2010 Le stime condotte sulla stessa base dati mostrano, inoltre, che il cambiamento delle produzioni all’interno delle imprese si è caratterizzato per il prevalere di beni di maggiore qualità. Ciò è evidenziato nella tabella 3 dove la variazione del valore unitario dell’output (rapporto tra fatturato e quantità prodotte) all’interno delle imprese (+4,1% tra il 2000 e il 2005) è scomposta in una porzione dovuta all’aumento dei beni esistenti all’inizio e alla fine del periodo (basket costante) e in una componente imputabile al mutamento del mix produttivo. Ne risulta che una quota preponderante (l’80%) della crescita del valore unitario tra il 2000 e il 2005 è stata dovuta al cambiamento di composizione dell’output delle imprese, con l’abbandono dei beni di più bassa qualità (minore valore unitario) e la loro sostituzione con produzioni di fascia più alta (maggiore valore unitario)3. 3 L’evidenza di un diffuso upgrading qualitativo nella prima metà degli anni duemila, con positive ricadute su fatturato e occupazione, è confermata da Di Giacinto e Micucci (2011) sulla base dell’analisi della dinamica dei prezzi delle imprese nell’indagine INVIND di Banca d’Italia. 68 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 69 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione Tab. 3 - Variazione % del valore unitario dell’output: 2000-2005 Variazione totale Variazione a basket costante Variazione dovuta a modifica del mix Variazione 4,1 0,8 3,3 Contributi alla variazione 100 19,5 80,5 Fonte De Nardis 2010 È da sottolineare che tali sommovimenti non si sono fermati ai primi anni duemila. Anche l’ultima recessione è stata infatti causa di cambiamento alla stessa stregua delle pressioni competitive. Una misura dei processi di distruzione creativa indotti dalla crisi è ricavabile dai mutamenti di imprese e prodotti verificatisi nel paniere Istat dei prezzi alla produzione tra il 2005 e il 2010: il tasso di turnover lordo ha raggiunto punte del 68% per gli operatori orientati all’export e del 42% per i prodotti venduti sui mercati di esportazione (tabella 4). Tab. 4 - Flussi di entrata, di uscita e lordi di imprese e prodotti nel paniere ISTAT dei prezzi alla produzione: 2005-2010 (valori %) Imprese - export Prodotti - export Tasso di turnover lordo rispetto al 2005 Tasso di uscita rispetto al 2005 Tasso di entrata rispetto al 2005 62,2 25,1 37,1 68,3 25,6 42,6 37,8 9,1 28,8 41,7 13,7 27,9 Fonte elaborazioni su dati Istat Un riflesso di queste modifiche è riscontrabile nello iato che si è aperto a partire dal 2009 tra l’indicatore di fatturato (deflazionato con i prezzi alla produzione) e quello di produzione industriale. Quest’ultimo indice si basa sulla struttura fissa di pesi/imprese/prodotti dell’anno 2005. Il fatturato, invece, per costruzione segue con maggiore aderenza i mutamenti di composizione dell’output. L’emergere di un divario tra le due statistiche può, dunque, essere letto come segnale di cambiamento strutturale (la produzione, legata alla struttura industriale tema di discussione 69 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 70 innocenzo cipolletta e sergio de nardis Fig. 2 - Manifattura: fatturato reale/produzione (2005=1, dati destagionalizzati, medie mobili a 6 termini centrate sull’ultimo) Fonte elaborazioni su dati Eurostat del 2005, da più peso alle attività che sono andate contraendosi dopo quell’anno e meno a quelle che sono andate espandendosi). Come si vede dalla figura 2 all’uscita dalla recessione – e quindi dai processi selettivi da essa indotti – la relazione tra i due indicatori subisce una rottura: l’indice di fatturato, che risente del mutamento di mix, si allontana nella prima metà del 2009 rispetto a quello di produzione, facendo emergere una netta discontinuità di struttura4. Alla radice dei mutamenti descritti sta, in generale, l’eterogeneità delle imprese che reagiscono in modo diversificato all’aumento della competizione (e alla caduta della domanda), dando luogo a fenomeni di selezione. Essa è riscontrabile all’interno dei settori, ma anche dentro le classi dimensionali. Le imprese piccole non sono tutte uguali tra loro, come non lo sono quelle grandi. In ogni settore e in ogni fascia dimensionale ci sono imprese più e meno efficienti. Come distinguerle? Una cartina di tornasole è costituita dalla verifica se sono impegnate o meno 4 Si considerano in figura medie mobili a 6 termini per smussare gli effetti di breve periodo delle variazioni delle scorte e dei fattori accidentali. 70 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 71 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione in attività di esportazione. Vendere sul mercato internazionale è, infatti, più difficile e costoso che produrre per quello interno; possono farlo in modo profittevole solo le aziende migliori. Queste sono, tuttavia, presenti in tutte le classi dimensionali. La tabella 5 mostra per alcuni indicatori economici le differenze che caratterizzano le imprese esportatrici rispetto alle non esportatrici5. Come si vede, gli esportatori sono in media più grandi, più produttivi, pagano salari maggiori, fanno più investimenti, hanno margini di profitto più elevati dei non esportatori. Ma il fatto rilevante è che questi “premi” si riscontrano sistematicamente in ciascuna fascia di dimensione6. Sulla base di queste osservazioni si può rilevare che, analogamente a quanto visto per la staticità settoriale, anche l’inerzia dimensionale ha sotteso dei fenomeni di cambiamento. Negli anni duemila, di intensificazione della competizione internazionale, le risorse produttive si sono spostate in ciascuna fascia di dimensione verso gli esportatori: la figura 3 mostra che il peso di chi vende all’estero è cresciuto in termini di addetti in tutte le categorie dimensionali7. Ciò significa che in ogni classe le risorse si sono mosse verso gli impieghi più produttivi, più profittevoli, con più alti salari, con maggiori investimenti e in imprese 5 Si prende a riferimento il 2008 e non il 2009 (ultimo anno per il quale sono disponibili i dati sulle imprese, definite peraltro a partire da quell’anno sulla base della nuova classificazione ATECO 2007) per escludere gli effetti anomali sugli indicatori considerati della recessione e della caduta degli scambi internazionali. 6 Su dimensione e specializzazione delle imprese manifatturiere italiane, in rapporto alle economie europee, cfr. Onida (2011) e Borghi e Helg (2011). Le imprese efficienti, pur presenti in tutte le dimensioni, si concentrano in realtà in alcune fasce. Conti e Modiano (2010) pongono in luce come i vantaggi competitivi dell’industria italiana siano nella medio-piccola dimensione che si caratterizza per livelli di produttività/redditività comparabili con i partner europei, e in particolare con quelli della Germania, in assenza di “sacrificio” salariale (anche il costo del lavoro è in linea con i livelli tedeschi, al contrario di quanto si verifica per le altre fasce dimensionali). I sistemi di impresa di media dimensione come asse portante dello sviluppo economico e industriale dell’Italia sono al centro delle analisi di Mediobanca, cfr. Coltorti (2011a). 7 L’aumento del peso degli esportatori è rilevabile anche in termini di numero di imprese e di valore aggiunto. tema di discussione 71 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 72 innocenzo cipolletta e sergio de nardis Tab. 5 - Imprese manifatturiere, peso degli esportatori e differenze rispetto ai non esportatori – anno 2008 Peso degli esportatori su totale imprese Classi dimensionali Numero Valore aggiunto Rapporti degli esportatori rispetto ai non esportatori (indicatore riferito ai non esportatori=1) Dimensione Valore Retribuzione Investimenti Margine media aggiunto lorda per per addetto operativo per addetto dipendente lordo 0-9 12,0 27,0 1,73 1,57 1,29 1,09 4,32 10-19 45,9 55,2 1,04 1,40 1,22 1,31 1,60 20-49 66,0 74,0 1,08 1,36 1,21 1,48 1,45 50-249 88,9 92,6 1,14 1,37 1,16 1,19 1,65 >250 96,4 98,5 1,75 1,43 1,22 1,15 1,48 Totale 20,4 78,7 7,08 2,03 1,50 2,14 2,50 -Totale > 10 57,3 86,4 2,80 1,70 1,90 1,86 1,77 Fonte elaborazioni su dati Istat più grandi: anche da questa prospettiva si identificano, dunque, gli effetti delle pressioni selettive. Si è detto all’inizio di questo paragrafo delle difficoltà degli analisti ad apprezzare in pieno il cambiamento “micro” a causa degli andamenti complessivamente modesti evidenziati per lungo tempo dalle statistiche “macro”. Anzi, quanto posto in luce fin qui porta ad affermare che sono stati precisamente i cambiamenti microeconomici a mettere in crisi le statistiche macroeconomiche8. La forte sottovalutazione delle esportazioni in volume, indotta dalla sovrastima degli indicatori di prezzo utilizzati per deflazionare i valori nella contabilità nazionale, ha comportato che una quota rilevante dell’output manifatturiero venisse mal misurata. Ma questa difficoltà di stima di prezzi e volumi è dipesa in ampia parte dal mutamento dei prodotti che è risultato particolarmente intenso proprio nei mercati di destinazione esteri, dove la competizione ha spinto le imprese italiane verso il rinnovamento e la differenziazione delle produzioni. La situazione di sottovalutazione dell’industria è stata corretta nell’ot8 I problemi di misurazione statistica in conseguenza dei mutamenti di composizione dell’apparato produttivo sono posti in luce in Cipolletta (2007). 72 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 04/06/12 14.31 Pagina 73 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione Fig. 3 - Esportatori: peso negli addetti manifatturieri Fonte elaborazioni su dati Istat tobre 2011, quando l’Istat ha diffuso nuovi conti nazionali che, insieme alla modifica della classificazione delle attività produttive, hanno rivisto, a partire dal 2002, le serie dell’export e dell’import in volume. I relativi deflatori perdono il legame diretto che avevano con i valori medi unitari di commercio estero e vengono ora calcolati sulla base dei prezzi alla produzione sui mercati esteri per quanto riguarda le esportazioni e di stime di prezzi all’importazione per gli acquisti dall’estero9. Il nuovo quadro modifica al rialzo, nel periodo 2002-2010, del 2,1% all’anno la dinamica delle esportazioni di beni, dell’1,6% quella delle importazioni. In conseguenza di ciò, l’evoluzione del valore aggiunto industriale 9 Per la discussione sulle difficoltà interpretative dello stato dell’industria, legate alla sottovalutazione dell’export, si rimanda alle osservazioni contenute nei Rapporti degli ultimi anni di Banca d’Italia e Isae; una presentazione organica di queste posizioni è nei contributi di Bugamelli, Brandolini e Torrini (2010) e di De Nardis e Pappalardo (2010) presentati alla 51esima Riunione della SIE. Anche la successiva riunione della SIE dedica attenzione alla questione (Coltorti, 2011b). La correzione dei dati di contabilità relativi agli scambi con l’estero è stata effettuata dall’ISTAT in occasione della pubblicazione delle nuove serie dei conti nazionali basate sulla classificazione delle attività economiche ATECO 2007 e dei prodotti CPA 2008, cfr. Statistiche Report, I conti nazionali secondo la nuova classificazione delle attività economiche, Istat, 19 ottobre 2011. Restano comunque ancora aperti alcuni punti interrogativi. Un primo riguarda il periodo di revi- TEMA DI DISCUSSIONE 73 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 74 innocenzo cipolletta e sergio de nardis (settore esportatore netto) è stata alzata nello stesso arco di tempo dello 0,9% all’anno. Dato il peso dell’industria nell’attività economica e in mancanza di significative correzioni negli altri settori, le ripercussioni sul Pil sono risultate limitate (il tasso di crescita è aumentato dello 0,2% all’anno). Tuttavia, ciò che più conta è che le revisioni delle esportazioni nette e del valore aggiunto dell’industria in volume vanno a impattare, a parità di impiego degli input di produzione, sulle misure di produttività del settore. La figura 4 mostra l’andamento della produttività totale dei fattori (PTF) secondo le varie release annuali dell’Istat, a partire dal 2007. Questa statistica è stata già significativamente corretta al rialzo man mano che nuove e più precise informazioni sulle imprese si sono rese disponibili: lo stato della produttività manifatturiera descritta nella release del 2010 è molto diverso da quello che si ricavava dalle informazioni del 2007. Ulteriori correzioni sono da attendersi con i nuovi conti nazionali. L’Istat non ha ancora pubblicato la serie aggiornata della produttività totale dei fattori, ma si può stimare che nelle nuove statistiche la dinamica di questo indicatore risulterà rivalutata rispetto alle precedenti quantificazioni in proporzione simile a quanto avvenuto per il valore aggiunto, vale a dire di circa l’1% all’anno nel periodo 2003-10 (riga più alta nella figura 4). Ciò implica che tra il 2003 e il 2007 (prima della caduta recessiva) la PTF dovrebbe essere tornata sul sentiero di crescita (+2% all’anno) che aveva contrassegnato il decennio novanta. Lentamente e in ritardo sugli avvenimenti anche le statistiche “macro” cominciano a fornire un quadro più preciso degli andamenti post-2002, sione che parte dal 2002 perché solo da allora sono disponibili prezzi all’esportazione, ma non è chiaro se gli andamenti precedenti possono considerarsi scevri da problemi di misurazione. Un secondo punto concerne la disomogeneità che continua a contraddistinguere i deflatori delle esportazioni dei conti nazionali dei paesi europei e che condiziona i confronti sui volumi esportati: in Germania la relazione tra deflatore e prezzi all’esportazione è negativa a partire dal 2002, in Italia dopo la revisione c’è un rapporto di quasi perfetta proporzionalità tra i due indicatori; dinamiche eterogenee per le quali è difficile trovare una motivazione economica. 74 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 75 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione Fig. 4 - Produttività totale dei fattori nell'industria in senso stretto (1991=1) Fonte elaborazioni su dati Istat ovvero del periodo in cui si raccolgono i frutti dei cambiamenti “micro” che hanno accompagnato la ristrutturazione silenziosa (e, per questo, misconosciuta) dei primi anni duemila. Le tendenze fin qui descritte riguardano il settore industriale che ha “dovuto” andare incontro a un aggiustamento essendo pienamente esposto alle pressioni della competizione internazionale. L’industria in senso stretto rappresenta, però, solo una quota minoritaria (19%) del valore aggiunto dell’intera economia. Cosa si può dire delle altre attività produttive e, in particolare, dell’ampio e variegato settore dei servizi? Qui l’azione della concorrenza estera è più debole, se non, in diversi casi, del tutto assente. Incidono, invece, la capacità di recepire i risultati dell’avanzamento tecnologico e, soprattutto, l’efficacia dei mutamenti del quadro normativo/regolatorio miranti a ridurre le barriere all’entrata e ad ampliare l’area della concorrenza. Si tratta anche di attività in cui i problemi di misurazione del mix qualitativo dei prodotti sono analoghi a quelli che hanno afflitto le statistiche del settore manifattutema di discussione 75 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 76 innocenzo cipolletta e sergio de nardis Tab. 6 - Italia: valore aggiunto per impresa nei servizi, dinamiche in rapporto a Germania e Francia nel periodo 2000-2008 Dinamica Dinamica Distanza Distanza rispetto rispetto dell’Italia dell’Italia a Germania a Francia dalla Germania della Francia 2000-08 2000-08 nel 2008 nel 2008 (Germania=1) (Francia=1) Commercio all’ingrosso, 1,077 1,119 0,193 0,381 riparazione motoveicoli, beni per famiglia Commercio al dettaglio 1,207 1,213 0,215 0,386 Alberghi e ristoranti Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni 0,951 0,936 0,615 0655 1,138 1,069 0,367 0,459 —- Trasporti terrestri e via pipeline 1,187 1,018 0,375 0,416 Poste e telecomunicazioni Attività di servizi alle imprese, affitto e vendita di case 1,312 1,091 1,206 0,995 1,464 1,118 0,258 0,336 —- Affitto e vendita di case 1,418 1,748 0,242 0,398 Computer e attività correlate 1,601 1,052 0,267 0,361 Ricerca e sviluppo 0,629 1,056 0,076 0,182 Altri servizi alle imprese 1,529 0,957 0,267 0,308 Fonte elaborazioni su dati Eurostat riero. Misurare l’output (e la produttività) di alcuni servizi, in presenza di modifiche di composizione da segmenti di minore qualità a quelli di più elevato valore unitario, può essere molto arduo in mancanza di indicatori adeguati. Pur con questi caveat, sono comunque riscontrabili anche nei servizi dinamiche di cambiamento nel corso del decennio duemila. Nella tabella 6 si considera il valore aggiunto per impresa (a prezzi correnti) come indicatore sintetico di mutamento. Gli indici misurano la dinamica delle imprese italiane nei vari comparti tra il 2000 e il 2008 in rapporto agli andamenti tedeschi e francesi. Come si vede, salvo alcune eccezioni (per esempio, alberghi e ristoranti), le imprese italiane di servizi hanno sperimentato in generale evoluzioni del valore aggiunto 76 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 77 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione unitario superiori rispetto agli altri due paesi. Tuttavia, dato il punto di partenza molto distante dalle economie prese in considerazione, tali andamenti sono stati insufficienti a consentire un apprezzabile processo di convergenza; le due ultime colonne della tavola segnalano l’ampio gap che ancora caratterizza in media le nostre imprese di servizi rispetto a quelle dei due partner europei. Il confronto con i due maggiori paesi dell’area euro porta, nel paragrafo successivo, a estendere la discussione alla questione più generale della collocazione del nostro paese nell’economia europea. 3. L’Italia nel confronto con i partner europei In questo paragrafo procediamo ad alcuni confronti con i paesi euro nel corso dell’ultimo decennio, periodo coincidente con i primi dieci anni della moneta unica. Partiamo dall’industria per verificare se i cambiamenti strutturali sopra evidenziati hanno influito sulla performance della nostra economia in rapporto ai principali paesi partner. Se si osserva l’intero decennio, la valutazione non può che essere negativa. Il valore aggiunto dell’industria è diminuito in Italia contro una crescita, seppure limitata, nell’area euro (tabella 7, prima sezione). Questa divaricazione si è, però, formata soprattutto all’inizio del decennio, quando gli andamenti italiani avevano un segno opposto a quelli del resto dell’Europa. Successivamente il distacco ha teso a ridursi. In particolare, dal 2003 e prima della recessione la manifattura italiana è tornata a crescere più di quella francese. In questo stesso periodo si è verificato, tuttavia, anche il forte decollo dell’industria tedesca che ha beneficiato, da un lato, dei miglioramenti di produttività consentiti dalle riforme avviate nei primi anni del decennio e, dall’altro, dei guadagni di competitività (“deprezzamento” reale sia all’interno dell’area che nei confronti dei paesi terzi) consentiti dalla partecipazione alla moneta unica. L’impatto della recessione, attraverso il canale estero, è risultato più intenso per le industrie italiana e tedesca. La ripresa del 2010 sembra riproporre la gerarchia delle dinatema di discussione 77 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 78 innocenzo cipolletta e sergio de nardis miche industriali che era andata emergendo negli anni precedenti la recessione. Una caratteristica che spicca negli andamenti del decennio duemila è il più elevato contenuto di occupazione della crescita italiana, sia nel confronto con l’esperienza storica del paese (qui non considerata), sia rispetto a quanto sperimentato nello stesso periodo dai partner europei (tabella 7, seconda sezione). A fronte di una dinamica del valore aggiunto industriale nel decennio peggiore delle altre economie dell’area euro, la performance dell’occupazione nell’industria italiana è stata sensibilmente migliore, scendendo meno di quanto verificatosi negli altri paesi della moneta unica. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei primi tre anni del periodo considerato, quando la contrazione dell’attività produttiva (-1,2% all’anno) non ha dato luogo, contrariamente alle precedenti esperienze di recessione industriale, a riorganizzazioni di tipo labour shedding, ma si è anzi accompagnata ad aumento dei posti di lavoro (+0,4% all’anno). Una crescita italiana a più elevata intensità di lavoro si conferma anche nel successivo periodo (2003-07), quando il rafforzamento produttivo, comune ai vari paesi, si associa a cali dell’occupazione nell’area euro e a un’evoluzione ancora positiva in Italia. Lo specchio di questi andamenti è costituito dal valore aggiunto per addetto (o produttività apparente del lavoro) rimasto fermo, in media nel decennio, contro variazioni positive nelle altre economie (tabella 7, terza sezione). Il risultato dell’Italia risente in notevole misura della netta flessione del triennio 2000-03 quando si verifica l’anomala combinazione, sopra ricordata, di un’attività produttiva in calo con una occupazione in crescita. Dal 2003 e fino alla crisi il valore aggiunto per occupato nella manifattura italiana torna su un sentiero positivo, riducendo il divario di crescita rispetto ai paesi dell’area euro, ma non con l’economia tedesca che accelera sensibilmente in tale periodo. Gli anni della recessione e la successiva ripresa del 2010 risentono dell’intenso ricorso, soprattutto in Germania e Italia, agli schemi di riduzione d’orario che hanno inciso sull’effettivo utilizzo dell’input di lavoro da parte delle imprese (salva78 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 79 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione Tab. 7 - Industria in senso stretto: valore aggiunto, occupazione, valore aggiunto per occupato (var. % medie annue) Valore aggiunto ai prezzi base, in volume 2000-2010 2000-2003 2003-2007 2007-2009 2010 Italia -0,7 -1,2 2,3 -9,2 7,0 Germania 0,5 0,1 4,5 -10,3 9,8 Francia 0,0 1,1 1,6 -6,5 3,9 Altri euro 1,1 1,9 3,0 -5,5 5,2 Occupazione (persone) 2000-2010 2000-2003 2003-2007 2007-2009 2010 Italia -0,7 0,4 0,1 -2,6 -3,3 Germania -1,0 -1,6 -0,7 -0,6 -1,7 Francia -1,9 -1,1 -1,8 -2,5 -3,4 Altri euro -1,8 -1,0 -0,7 -4,1 -4,3 Valore aggiunto per persona occupata (P) e per ora lavorata (H) 2000-2010 2000-2003 2003-2007 2007-2009 P H P P H P Italia 0,0 0,8 -1,6 -0,8 2,2 2,1 -6,8 -3,4 10,6 9,0 Germania 1,6 1,9 1,7 2,3 5,2 5,1 -9,8 -6,7 11,7 6,3 Francia 2,0 2,4 2,2 3,5 3,6 3,3 -4,0 -3,4 7,5 7,7 Altri euro 3,1 3,2 2,9 3,2 3,7 4,0 -1,5 -0,5 9,9 7,8 H H 2010 P H Fonte elaborazioni su dati Eurostat guardando i livelli occupazionali nella fase di caduta e rallentandone il recupero nella ripresa). Non sorprende quindi che gli indicatori di valore aggiunto per input di lavoro diano luogo dopo il 2007 – in particolare, in Italia e Germania – a dinamiche alquanto diverse a seconda che si considerino per persona occupata o per ora lavorata. Guardando al valore aggiunto per ora lavorata, l’andamento dell’industria italiana appare nell’ultimo ciclo relativamente migliore di quello tedesco e francese, scendendo meno nel biennio recessivo e recuperando di più nel 2010. Gli indicatori di valore aggiunto per addetto (o per ora lavorata) forniscono una misura di quella che è stata definita produttività appatema di discussione 79 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 80 innocenzo cipolletta e sergio de nardis Tab. 8 - Produttività Totale dei Fattori nell’industria (var. % medie annue) 1991-2000 2000-2007 2000-2003 2003-2007 1 1,8 0,5 -1,4 2,0 Germania2 1,6 2,4 0,5 3,9 Francia2 2,9 1,3 1,5 1,3 Italia Altri euro2 1,5 1,1 -0,1 2,0 1 Industria in senso stretto, fonte Istat e dal 2002 nostre stime basate su dati Istat corretti con la CN di marzo 2012. 2 Manifattura, fonte elaborazioni su dati Euklems database November 2009, negli Altri euro sono compresi Austria, Belgio, Finlandia, Olanda, Spagna. Fonte elaborazioni su dati Istat ed Euklems rente del lavoro. Questa statistica costituisce, come noto, una stima imprecisa della produttività. Essa non tiene conto dell’intensità dell’impiego degli altri fattori produttivi che incidono sui risultati complessivi di produzione e che vengono attribuiti per intero al lavoro. Una misura più accurata dell’efficienza con cui tutti gli input di produzione si trasformano in output è fornita dalla produttività totale dei fattori. Purtroppo non sono disponibili confronti internazionali omogenei e attendibili per la PTF manifatturiera. La banca dati Euklems della Commissione europea (versione novembre 2009) appare poco affidabile proprio per gli indicatori relativi all’industria italiana, non includendo le più recenti revisioni di Contabilità Nazionale (CN) che, come visto nel precedente paragrafo, hanno avuto un impatto significativo su questa statistica. In assenza di dati omogenei e aggiornati e con lo scopo di ricavare indicazioni su un fenomeno rilevante per la valutazione dell’efficienza, nella tabella 8 si mette a confronto la nostra stima della PTF dell’industria in senso stretto per l’Italia (dati Istat di agosto 2010, corretti con la nuova CN di marzo 2012, già riportati in figura 4) con quelle di fonte Euklems sulle manifatture dei principali paesi della zona euro (stime ferme al 2007). Si è consapevoli della disomogeneità degli indicatori e per questo li utilizziamo unicamente per il segnale qualitativo che possono fornire. Queste tendenze indicano che il ritorno della PTF dell’industria italiana su un sentiero positivo a partire dal 2003 80 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 81 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione Tab. 9 - Intera economia: valore aggiunto, occupazione, valore aggiunto per occupato (var. % medie annue) Valore aggiunto ai prezzi base, in volume 2000-2010 2000-2003 2003-2007 2007-2009 2010 Italia 0,4 0,7 1,7 -3,4 2,1 Germania 1,1 0,6 2,5 -2,3 4,1 Francia 1,2 1,1 2,3 -1,2 1,3 Altri euro 1,8 2,2 3,4 -1,3 0,8 Occupazione (persone) 2000-2010 2000-2003 2003-2007 2007-2009 2010 Italia 0,7 1,7 1,1 -0,7 -0,7 Germania 0,3 -0,4 0,6 0,6 0,5 Francia 0,5 0,7 0,8 -0,3 0,2 Altri euro 0,9 1,5 2,2 -1,3 -1,4 Valore aggiunto per persona occupata 2000-2010 2000-2003 2003-2007 2007-2009 2010 Italia -0,3 -1,0 0,7 -2,7 2,8 Germania 0,8 1,0 1,9 -2,9 3,6 Francia 0,7 0,4 1,5 -0,8 1,2 Altri euro 0,9 0,7 1,2 0,0 2,3 Fonte elaborazioni su dati Eurostat non sarebbe stato sufficiente a recuperare il gap sulla Germania che dal 2003 ha, a sua volta, incrementato il ritmo di crescita; il rafforzamento dell’Italia avrebbe, invece, permesso di coprire i ritardi sulle altre industrie europee, con un rafforzamento rispetto a quella francese e ad altri paesi dell’area euro (come la Spagna e altre economie “periferiche”). Il miglioramento dell’industria ha avuto limitati riflessi sull’intera economia. Nella media del decennio l’Italia è cresciuta meno della zona euro (tabella 9). La ripresa manifatturiera dopo il 2003 si è accompagnata a un’accelerazione del tasso di crescita (1,7% all’anno) che però non ha tenuto il passo di Germania e Francia (circa 2,5%). La recessione del 2008-2009 è risultata più marcata in Italia, anche rispetto alla Germania nonostante un caduta del settore industriale di proporzioni tema di discussione 81 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 82 innocenzo cipolletta e sergio de nardis inferiori. Il rimbalzo del 2010, trainato sostanzialmente dalla manifattura, non ha consentito comunque di tornare sui livelli pre-crisi. Come osservato nel caso del settore industriale, anche per l’economia nel suo complesso si rileva un più elevato contenuto di lavoro del valore aggiunto tanto rispetto agli andamenti storici, quanto nel confronto con gli altri paesi europei. L’occupazione è aumentata, in media, più che in Germania e Francia nonostante il tasso di sviluppo sostanzialmente più basso; anche il raffronto con gli altri paesi euro conferma una crescita a più alta intensità di lavoro nel nostro paese. Ne è conseguita, nella media del decennio, una dinamica del valore aggiunto per addetto negativa a fronte di rialzi pur moderati delle altre economie. In definitiva le evidenze statistiche indicano che il miglioramento manifatturiero italiano è stato apprezzabile (anche in termini di produttività multifattoriale), ma non sufficientemente robusto da tenere il passo con l’industria tedesca e da trainare la performance complessiva dell’economia. Poiché la capacità di attivazione della manifattura sul resto del sistema produttivo è molto simile nei due paesi10, l’elemento di debolezza italiana sembrerebbe derivare da una dinamica ancora inadeguata dell’industria. Ma una manifattura diversa (con mix settoriale “migliore” e produttività più dinamica) costituirebbe effettivamente la condizione per una maggiore crescita di tutta l’economia? Per rispondere a questa domanda ricorriamo a un semplice esercizio contabile che ipotizza una “assimilazione” dell’economia italiana a quella tedesca. Lo scopo è illustrativo e mira a identificare i canali che porterebbero a una maggiore convergenza del nostro paese nei confronti dell’economia tedesca. La tabella 10 mostra la dinamica del valore aggiunto per addetto dei due paesi nel periodo 2000-09, quale essa è effettivamente stata e in ipotesi “fittizie” riguardo all’Italia. In questo arco di tempo il valore aggiunto per occupato è aumentato del 4,9% in Germania ed è sceso 10 Un euro speso per acquistare output manifatturiero attiva quasi due euro di attività economica tanto in Italia che in Germania. 82 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 83 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione Tab. 10 - Valore aggiunto per addetto in Italia e Germania nel 2009, numeri indice 2000=1 Germania 1,049 Italia Italia, se avesse la composizione settoriale della manifattura tedesca (19 branche) Italia, se avesse la composizione settoriale dell’economia tedesca (64 branche) Italia, se avesse la dinamica della produttività dei settori manifatturieri tedeschi (19 branche) Italia, se avesse la dinamica della produttività di tutti i settori dell’economia tedesca (64 branche) 0,945 0,942 0,947 0,975 1,061 Fonte elaborazioni su dati Eurostat del 5,5% in Italia. Tali evoluzioni hanno riflesso andamenti tedeschi migliori tanto nella manifattura che nei servizi, anche se la dinamica industriale è risultata più debole di quella dei servizi in entrambe le economie per gli effetti della recessione del 2008-09. L’esercizio mostra, in primo luogo, che il problema di bassa crescita dell’Italia non sembra dipendere da un mix settoriale “cattivo”. Il valore aggiunto per addetto non avrebbe, infatti, sostanziali vantaggi se il nostro paese si caratterizzasse per una composizione di settori, della manifattura o di tutta l’economia, uguale a quella tedesca11. Ciò che invece inciderebbe veramente, a parità di struttura settoriale, è l’assunzione da parte dell’Italia della dinamica della produttività tedesca. Ma non tanto di quella dell’industria manifatturiera. Se l’assimilazione dell’Italia alla Germania si limitasse al conseguimento dei più elevati tassi di sviluppo del prodotto per occupato dell’industria tedesca, gli effetti per l’economia sarebbero quasi impercettibili. Il motivo è che la manifattura pesa poco nel sistema produttivo: la dinamica della produttività industriale può anche raddoppiare, ma l’effetto sulla produttività dell’economia si riduce a qualche decimo di punto se null’altro si muove. L’impatto per l’Italia sarebbe apprezzabile solo se l’assunzione dei ritmi del prodotto per 11 Sulla scarsa incidenza della composizione settoriale, contrapposta a quella dimensionale, nel condizionare la performance italiana si veda, con riferimento all’attività di esportazione, Barba Navaretti et al. (2010). tema di discussione 83 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 84 innocenzo cipolletta e sergio de nardis occupato tedeschi si estendesse al resto dell’economia, vale a dire a quell’80% di attività produttive che non coinvolgono trasformazioni industriali: un motore ben più grosso di quello manifatturiero si deve attivare per tornare ad avere maggiore crescita economica. 4. Tendenze di specializzazione dell’economia italiana Nel corso del primo decennio di questo secolo, le imprese italiane hanno dunque reagito agli eventi macroeconomici mettendo in evidenza una discreta capacità di adattamento. Le analisi dei paragrafi precedenti hanno evidenziato lo spostamento delle imprese italiane, in particolare di quelle industriali, verso produzioni a valore medio più elevato. Esse hanno anche mostrato come la crescita quasi nulla dell’economia italiana durante questi anni nascondesse in realtà forti modifiche interne. Molte sono state le produzioni nuove che sono cresciute, così come molte sono state quelle che sono scomparse, a testimonianza di un marcato processo di mutazione avvenuto all’interno delle imprese stesse. Ma, quali sono stati i fattori che hanno spinto a questa trasformazione e quali sono le tendenze di nuova specializzazione dell’economia italiana? In questo paragrafo si cercherà di dare una risposta a queste domande, mentre resterà aperta la domanda di sapere se queste tendenze siano tutte positive e se, soprattutto, siano sufficienti a consentire al nostro paese di crescere e competere nell’economia mondiale. A queste ultime domande si cercherà di dare elementi di risposta nell’ultimo paragrafo. Nel corso degli ultimi quindici-venti anni l’Italia, come molti altri paesi europei, non ha avuto alcuna politica industriale, ma ha inseguito, a volte in modo affannoso, obiettivi macroeconomici di riequilibrio e di risanamento finanziario. Ricordiamo, per memoria: le manovre di finanza pubblica del 1992 e l’avvio delle privatizzazioni per contrastare l’attacco alla lira; l’abolizione della scala mobile e il patto sociale del 1993 che modificarono il sistema delle relazioni industriali; la sofferta 84 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 85 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione prima riforma delle pensioni del 1995; la complessa manovra di finanza pubblica del 1996 per consentire all’Italia l’ingresso nell’euro; le modifiche del mercato del lavoro con il cosiddetto pacchetto Treu del 1997 e con la legge Biagi del 2003 per introdurre qualche flessibilità nell’ingresso al lavoro. Dopo di allora, i governi italiani hanno cercato di contenere il disavanzo pubblico con alterni successi (scarso successo e scarsa volontà nel periodo 2001-2006 e migliori risultati negli anni successivi). Bisognerà attendere il Governo Monti nel novembre 2011 per riprendere la strada delle riforme, anch’esse prevalentemente di stampo macroeconomico e volte al riequilibrio del paese. Di fatto, le imprese italiane, nel corso di questo periodo, hanno visto aumentare il loro peso fiscale (per il riaggiustamento finanziario), hanno conosciuto una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, hanno fronteggiato un progressivo contenimento della domanda interna per consumi (compressi anche dagli aggiustamenti di finanza pubblica e dagli adeguamenti delle tariffe dei servizi pubblici) e hanno assistito a un processo di dismissione di attività pubbliche che ha allargato il mercato interno. Contemporaneamente, sul fronte esterno, le aziende del nostro paese hanno dovuto subire una duplice forte pressione concorrenziale. La prima, a causa della stabilità del cambio rispetto agli altri paesi europei, in seguito alla sostituzione della lira con l’euro, che ha eliminato la possibilità di aggiustamento graduale della competitività italiana attraverso la svalutazione del cambio della moneta. Per altro, l’euro si è complessivamente rafforzato sul mercato dei cambi, determinando una complessiva riduzione di competitività dell’Europa, anche se non tutti i paesi europei l’hanno subita allo stesso modo, posto che alcuni, come la Germania, si sono avvantaggiati, specie nei confronti degli altri paesi del vecchio continente. Il secondo fattore di pressione concorrenziale è derivato dal fenomeno della globalizzazione dei mercati che ha fatto emergere nuovi paesi esportatori, come la Cina, l’India, il Vietnam, il Brasile e tanti altri che nel corso degli ultimi venti anni sono diventati tema di discussione 85 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 86 innocenzo cipolletta e sergio de nardis forti esportatori internazionali in particolare, ma non solo, nelle produzioni tradizionali nelle quali è specializzato il nostro paese. In assenza di politiche industriali o di interventi volti a indirizzare processi di riconversione, le nostre imprese hanno reagito a queste pressioni esterne attraverso processi di ristrutturazione e di riconversione spontanei, cercando di adattarsi alle nuove condizioni dei mercati. Si possono così evidenziare tre linee di tendenza che hanno caratterizzato il tessuto produttivo italiano nel corso degli ultimi venti anni, almeno fino a quando la crisi globale del 2008 è venuta a interferire con alcune di queste tendenze. 4.1 L’industria su misura: upgrading e personalizzazione delle produzioni La prima tendenza, che emerge chiaramente dalle analisi dei paragrafi precedenti, è quella di un marcato upgrading delle produzioni: le imprese italiane si sono spostate da beni di massa a basso valore medio verso beni di valore medio maggiore, salendo nella gamma delle produzioni. È un generale miglioramento qualitativo che è avvenuto in maniera spontanea e spesso non programmata. In altre parole, la forte competizione dei paesi di nuova industrializzazione ha scalzato dai mercati le produzioni italiane di basso valore, quelle che competono essenzialmente sul prezzo e sui costi di produzione. Sono scomparse imprese che producevano questi prodotti, mentre sono cresciute quelle che avevano produzioni a più elevato valore, dove il fattore competitivo era la qualità più del prezzo. Spesso questo fenomeno è avvenuto all’interno delle stesse imprese che hanno progressivamente abbandonato produzioni a basso valore per dedicarsi a produzioni di maggior valore. Questo fenomeno può essere ascritto ai processi di specializzazione che avvengono quando si aprono i mercati alla concorrenza. Occorre sottolineare come il nostro paese abbia subito contemporaneamente due possenti fenomeni di apertura dei mercati. Il primo è quello europeo attraverso la costruzione del mercato interno e l’adozione 86 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 87 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione dell’euro. Queste decisioni degli anni novanta hanno comportato un’accresciuta competizione all’interno dell’Europa con processi di specializzazione che ancora non sono terminati. Basti pensare alle trasformazioni che stanno riguardando molti settori, come quello della finanza, dove si sono manifestate forti ristrutturazioni nel settore bancario, quello dei trasporti con la nascita di nuove aggregazioni e, in generale, quello delle public utilities, dove si stanno formando nuovi competitori attraverso la disgregazione dei vecchi produttori nazionali. Il fenomeno della specializzazione settoriale ha riguardato anche il comparto industriale tradizionale, attraverso processi di acquisizioni e di fusioni che stanno ridisegnando la geografia economica del vecchio continente. Il secondo fenomeno è quello che va sotto il nome di globalizzazione e che ha significato l’ingresso nel mercato mondiale di nuovi produttori a basso costo e con un’enorme capacità d’offerta. Ci si riferisce a paesi come la Cina, l’India, il Brasile, la Turchia, il Vietnam e altri che hanno radicalmente cambiato l’offerta di prodotti manufatti, specie nei settori dove l’Italia ha punti di forza. L’insieme di questi due fenomeni ha costituito una possente apertura dei mercati e ha spinto i paesi industriali verso nuove specializzazioni produttive. Da questi processi sta emergendo una caratteristica precipua dell’industria italiana. Abbandonando le produzioni di massa e specializzandosi nelle produzioni di più elevato valore, essa ha accentuato la sua caratteristica di industria custom-made, ossia di industria che fa prodotti quasi su ordinazione, prodotti su misura per le richieste degli acquirenti. In questa tendenza, essa sfrutta le sue forti competenze di natura artigianale, da dove è spesso nata. Il fenomeno di personalizzazione delle produzioni ha caratterizzato soprattutto l’industria meccanica e quella strumentale, che sono tra le principali industrie esportatrici del nostro paese. La costruzione di macchine utensili si è spostata sempre più verso macchine studiate apposta per le esigenze dei clienti. In ciò ha aiutato molto l’inserimento dell’elettronica e dei microprocessori nelle macchine che ormai tema di discussione 87 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 88 innocenzo cipolletta e sergio de nardis vengono studiate e elaborate per le funzioni specifiche del cliente. In queste condizioni, l’industria delle macchine diviene industria densa di servizi, fatti di studi, engineering, introduzione di innovazioni tecnologiche, ricerca di nuove soluzioni, messa in opera, assistenza e quant’altro possa servire all’impresa acquirente per far funzionare i macchinari. Basti pensare alle macchine per il packaging che non possono che essere studiate per le singole esigenze dell’acquirente. Ma lo stesso vale per le macchine per il taglio del legno e del marmo, dove l’Italia sta abbandonando i macchinari standard e si sta specializzando nei sistemi complessi, così come per le macchine per l’industria tessile, per la robotica, per le macchine da diagnosi, e per numerosi altri usi. Il fenomeno della personalizzazione delle produzioni è poi insito nella componentistica che rappresenta una quota significativa dell’industria italiana. Anche in questo comparto l’industria italiana sta abbandonando le produzioni standard in favore di prodotti studiati per le imprese acquirenti, fino a costituire spesso parti integrate con altre imprese: dalle valvole ai prodotti di fonderia, alle ruote dei treni, fino ai freni delle auto. Spesso in queste nicchie di produzione, le imprese italiane finiscono per avere un ruolo leader dominando di fatto il mercato di riferimento ed imponendo così i prezzi, ciò che consente loro un vantaggio competitivo e gli extraprofitti necessari per migliorare continuamente le produzioni e mantenere per tale via il vantaggio acquisito. Un fenomeno non dissimile sta riguardando anche l’industria tradizionale di consumo: dalla moda, all’arredo, fino all’alimentare. In questo caso la personalizzazione delle produzioni s’identifica con la costruzione di un marchio (il brand) che rappresenta un valore distintivo per il consumatore che acquista non solo il prodotto ma una visione del modo di vita costruito apposta dal produttore. Tale valore è spesso declinato attraverso la catena della distribuzione personalizzata del marchio, che con i suoi negozi monomarca porta direttamente al consumatore le proprie produzioni. Attraverso questa strategia, l’impresa può 88 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 89 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione valorizzare meglio le sue produzioni, assorbendo un costo del lavoro più elevato di quello dei concorrenti nei paesi emergenti. Il fenomeno della personalizzazione delle produzioni qui rilevato con riferimento all’industria, è ovviamente altrettanto presente nei servizi che spesso sono, per loro natura, personali. Tuttavia nell’ambito di questi ultimi si nota in Italia una maggiore resistenza all’introduzione di nuove formule e molti dei brand noti sono spesso di importazione straniera. Basti pensare agli studi di avvocati internazionali, alle banche d’affari, alle catene di ristorazione, fino ai servizi di cura alla persona che spesso hanno nomi e formule di altri paesi. In definitiva, si può dire che cambio stabile e globalizzazione hanno finito per favorire un approfondimento della specializzazione dell’economia italiana che ha riguardato in particolare l’industria. La nostra economia ha visto crescere il peso e il ruolo dei settori tradizionali, dove tuttavia si è realizzato un profondo mutamento del tipo di produzione, che è salito verso l’alto della gamma. Questo giustifica il giudizio di cristallizzazione della nostra manifattura nei settori di forza tradizionali (meccanica di consumo, macchine utensili, componentistica, moda, arredo, alimentare, ecc.), ma la competizione non avviene più solo sul prezzo, bensì anche e soprattutto sulla qualità e sull’innovazione introdotta. 4.2 L’attrazione dei servizi pubblici La seconda tendenza della nostra economia originata dai processi macroeconomici prima descritti è stato lo spostamento di risorse investite dalle maggiori imprese italiane nel settore delle public utilities. La privatizzazione delle molte imprese possedute dallo Stato, avviata dal 1992, ha indotto diversi imprenditori ha investire in queste imprese, a volte anche dismettendo parte delle attività da loro possedute. L’apertura ai privati di monopoli pubblici è avvenuta nel nostro paese senza un adeguato processo di liberalizzazione. Di fatto sono state immesse nel mercato attività che godevano ancora dei vantaggi della protezione monopolistica, spesso derivanti proprio dalle caratteristiche naturali tema di discussione 89 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 90 innocenzo cipolletta e sergio de nardis del servizio stesso: basti pensare all’attività della produzione e distribuzione di energia, alle concessioni delle autostrade, alle televisioni. In un momento caratterizzato da una forte pressione concorrenziale che, come detto, proveniva dall’adesione all’euro e dalla globalizzazione, molte imprese hanno guardato al mercato delle public utilities come a un mercato protetto dalla concorrenza e capace di produrre profitti più elevati e meno difficili rispetto alle tradizionali attività industriali. Il fenomeno non è stato solo italiano, posto che in tutta l’Europa è avvenuto uno spostamento di risorse dagli investimenti nei settori aperti alla concorrenza in favore dei settori protetti. Questo fenomeno andrebbe corretto (o avrebbe dovuto essere corretto) attraverso una maggiore dose di liberalizzazioni e di controlli da parte delle autorità della concorrenza per frenare il vantaggio degli incumbent. Nel nostro paese, come in altri dell’Europa continentale, questa azione di correzione non è stata sufficiente e ciò spiega la naturale corsa a accaparrarsi le attività dei servizi pubblici. È così che abbiamo visto la trasformazione della Olivetti in Omnitel poi ceduta a Vodafone. La privatizzazione di Telecom Italia che ha assorbito molte risorse private. L’investimento di Benetton nel settore delle autostrade e negli aeroporti che ha assorbito i profitti derivanti dal tessile e abbigliamento. Gli investimenti di Fiat in Edison, poi ceduta a EDF. Gli investimenti nelle banche e nelle assicurazioni da parte di imprenditori industriali (Del Vecchio, Della Valle, Maramotti, Caltagirone e altri). A sua volta la privatizzazione di molte imprese di pubblici servizi ha spesso implicato un innalzamento delle tariffe non più frenate dalle autorità politiche. In molti casi si è trattato di recuperare livelli di prezzi più corretti e tenuti bassi fino ad allora dalla politica e dalle resistenze sindacali. Ma in altri casi e con il proseguire del tempo c’è stata anche una tendenza ad approfittare della protezione dalla concorrenza per molti settori dove le liberalizzazioni non avevano potuto scalfire il potere delle imprese dominanti. Il fenomeno ha preso una dimensione 90 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 91 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione particolare specie nelle aziende che ancora hanno lo Stato come azionista di maggioranza relativa (ENEL e ENI in particolare) al quale, oltre che agli azionisti privati ed al management, hanno potuto distribuire dividendi rilevanti. I bisogni di entrate da parte dello Stato hanno così finito per ridurre l’attenzione al controllo delle tariffe che, gestite in regime di quasi-monopolio, hanno di fatto costituito una sorta di tassa sui cittadini volta (anche) ad accrescere le entrate pubbliche. È così che l’economia italiana ha visto spostarsi l’attenzione degli operatori privati dai mercati aperti alla concorrenza a quelli protetti. Questo fenomeno ha però comportato anche un forte indebitamento delle imprese di public utilities, posta anche la pratica di scaricare sull’azienda acquistata il debito contratto per l’acquisizione. Durante gli anni di bassi tassi di interesse, proprio tale pratica ha consentito agli acquirenti di recuperare le risorse investite e di realizzare guadagni consistenti. Ma, alla fine, essa ha appesantito le aziende acquistate che hanno cominciato a faticare nella loro crescita, come il caso di Telecom che si trova alle prese con un debito suo e dei suoi azionisti che ha finito per comprometterne la crescita. Quando poi, dopo la crisi del 2008, il credito ha iniziato a scarseggiare e il ricorso al mercato del debito a farsi più oneroso, le capacità di crescita di queste imprese si sono trovate depotenziate, tanto da spingerle a processi di dismissioni per ridurre le posizioni di debito. 4.3 Imprese a maggiore densità di occupazione Infine, la terza tendenza dell’economia italiana è stata quella di riassorbire nei processi produttivi molto lavoro e molte attività un tempo dismesse o gestite in mercati paralleli perché fino ad allora erano di fatto vietate o fortemente scoraggiate. Questo fenomeno è stato a sua volta accompagnato da un generale upgrading dell’occupazione verso professioni più qualificate, in sintonia con quanto verificato per le produzioni. Le molle di questo fenomeno sono state l’introduzione di una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e l’immissione d’innovazioni tema di discussione 91 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 92 innocenzo cipolletta e sergio de nardis tecnologiche. Con il patto sociale del 1993 sono state aperte le porte a una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. I relativi provvedimenti sono stati la legge Treu del 1997 poi modificata con la Legge Biagi del 2003. La legge Treu in particolare ha legittimato il lavoro a termine, sia nella forma del lavoro interinale che attraverso le Collaborazioni Continuative Coordinate prima e a Progetto poi (rispettivamente Co.Co.Co e Co.Co.Pro.). Con questa legge sono stati di fatto legalizzati i contratti a termine, ciò che ha consentito alle imprese sia di assumere in prova i giovani lavoratori prima di confermarli (una gran parte delle assunzioni a termine nell’industria verrà poi trasformata in contratti a tempo indeterminato, mentre rimarranno a termine molti contratti nei servizi e nella Pubblica Amministrazione), sia di ricomprendere nell’attività aziendale funzioni dismesse perché temporanee o di basso valore. Le motivazioni di questi provvedimenti erano proprio quelle di aumentare il contenuto di lavoro nella produzione italiana. Si era constatato, dal 1970 in poi, una forte tendenza a risparmiare manodopera, sia perché cara, sia perché rigida. Questo fenomeno si traduceva in un’elevata produttività relativa dell’economia italiana. Il prodotto per addetto del nostro paese, se valutato in PPP (parità di potere d’acquisto, secondo le analisi dell’Eurostat), era negli anni ’90 ben superiore a quello degli altri paesi europei. La motivazione di questo eccesso di produttività era spiegato proprio dalle rigidità del mercato del lavoro che avevano indotto un’eccessiva sostituzione di lavoro con capitale (figura 5) Con la fine degli anni ’90, dopo le misure sul mercato del lavoro, l’Italia si è riavvicinata agli altri paesi europei, grazie a una minore crescita del Pil per persona occupata, che ha significato una maggiore densità di occupazione per unità di crescita: ossia proprio quello che si cercava di ottenere con la riduzione delle rigidità nel mercato del lavoro. La minore crescita della produttività, che tanto ha preoccupato e preoccupa molti economisti italiani, trova una sua spiegazione proprio nelle politiche degli anni ’90 e rappresenta, da questa prospettiva, un 92 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 93 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione Fig. 5 - Pil in volume in PPP (Real expenditure in PPPs_EU-15) per persona occupata intera economia, livelli Fonte elaborazioni su dati Eurostat successo più che un problema. Se poi si tiene conto che negli ultimi venti anni l’Italia si è trovata a fronteggiare un’offerta di lavoro crescente da parte di lavoratori immigrati, spesso con basse qualifiche, si capisce come la riduzione nella crescita del valore aggiunto per persona occupata rappresenti la risultante di più spinte che hanno agito contemporaneamente. Tuttavia, appare necessario specificare che questa minore crescita della produttività non significa che l’Italia sia meno efficiente di altri paesi europei. Al contrario, se si guarda al rapporto relativo nel grafico sopracitato, si nota che, malgrado il rallentamento della crescita della produttività in Italia, essa risulti nel 2010 pari o superiore a quella di molti paesi europei, compresa la Germania. Con questo non si vuole certamente dire che l’Italia sia più efficiente della Germania, posto che le valutazioni in PPP tendono a eguagliare situazioni che sono strutturalmente differenti. Espresso in euro correnti, il rapporto del Pil per occupato in Italia non supera quello della Germania, ma nei confronti internazionali si ricorre alle valutazioni in PPP proprio per rendere comparabili situazioni diverse. Questi calcoli tema di discussione 93 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 94 innocenzo cipolletta e sergio de nardis Fig. 6 - Cambiamento dell'occupazione per ventile della distribuzione delle qualifiche tra le professioni italiane, 1993-2009 (var. quota ore lavorate) Fonte, Olivieri (2012) testimoniano di un processo di avvicinamento dell’Italia alle condizioni degli altri paesi europei, più che una perdita di efficienza relativa. D’altra parte la minore crescita della produttività del nostro paese non si è tradotta in un impoverimento delle qualifiche del lavoro. Al contrario l’Italia, come gli altri paesi europei, ha conosciuto nel corso degli ultimi due decenni una crescita relativa delle professioni a maggiore qualificazione sia rispetto alle qualifiche intermedie che rispetto alle basse qualifiche. Uno studio della Banca d’Italia (Olivieri 2012, dal quale è estratta la figura 6) dimostra come in Italia sia cresciuta nell’ultimo quindicennio la quota di lavoro per le alte qualifiche, mentre sono scese sia le medie che le basse qualifiche. Il fenomeno appare legato sia alle variazioni dell’offerta di lavoro che a quelle della domanda. In particolare sulla domanda di lavoro avrebbe influito il progresso tecnologico con l’introduzione di sistemi di automazione che hanno spiazzato le attività di media qualificazione. Un effetto analogo potrebbe essere anche attribuito ai processi di delocalizzazione che hanno teso a spostare in paesi a costi più bassi le attività a forte contenuto di lavoro. Un fenomeno di 94 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 95 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione polarizzazione, con crescita contemporanea sia di occupazioni di alta qualificazione che di bassa qualificazione a detrimento della classe media, è invece emerso tra il 2000 e il 2009 per effetto soprattutto delle regolarizzazioni degli immigrati verificatesi in tale periodo. 5. Considerazioni conclusive Le analisi fin qui svolte stanno a testimoniare di una capacità di reazione delle imprese italiane a fronte di eventi macroeconomici, come la stabilità del cambio, la globalizzazione, le privatizzazioni e le modifiche del mercato del lavoro. La reazione è stata quella di una ricerca di maggiore efficienza a livello microeconomico, che ha portato a cambiare molte delle produzioni senza modificare sostanzialmente la specializzazione settoriale e dimensionale della nostra economia e questo grazie anche allo sfruttamento del progresso tecnologico e ad una applicazione sapiente delle innovazioni che ne derivano sia in termini produttivi che organizzativi12. Inoltre si è manifestato uno spostamento degli investimenti privati dai settori esposti alla concorrenza ai settori protetti. Questi ultimi hanno mostrato maggiore resistenza ai cambiamenti. Il fatto positivo che queste analisi mettono in evidenza è proprio la capacità di reazione delle imprese. Il fatto negativo che emerge è che questa reazione non ha avuto un indirizzo di politica industriale e quindi si è realizzata essenzialmente sulla base di convenienze microeconomiche da parte delle imprese. Resta dunque aperta la questione se le tendenze alla specializzazione emerse negli ultimi venti anni avrebbero potuto conseguire anche un’efficienza macroeconomica attraverso politiche industriali o politiche macroeconomiche volte a conseguire specifici obiettivi. Un esempio di queste politiche sembra essere stata la Germania che nel 12 Nonostante tale aspetto, resta tuttavia confermato un marcato ritardo della nostra economia nei confronti della ricerca e del progresso tecnologico: le imprese italiane sono forti utilizzatrici di innovazioni che sanno adattare ai loro bisogni, ma restano povere in termini di capacità di creare innovazioni da immettere nel mercato. tema di discussione 95 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 96 innocenzo cipolletta e sergio de nardis corso dello stesso periodo ha avviato modifiche nel mercato del lavoro e delle imprese volte a realizzare una maggiore competitività delle imprese stesse. Riteniamo che politiche di questo tipo possono essere condotte anche in Italia, per volgere la ricerca di efficienza microeconomica anche verso indirizzi macroeconomici. Conforta in questo senso la reazione delle imprese italiane alle modifiche del mercato del lavoro degli anni ’90, che attraverso l’introduzione di flessibilità nell’accesso al lavoro, hanno consentito di conseguire un maggior tasso di occupazione. Oggi l’obiettivo macroeconomico principale è quello della crescita. Tale obiettivo può essere perseguito attraverso la riforma dei mercati, la delegificazione e la semplificazione del contesto normativo e il sostegno alla ricerca e alla produzione di innovazione (e non solo al suo utilizzo) e accorte politiche di rilancio della domanda interna. Tra i mercati da riformare vi sono sia il mercato delle imprese, attraverso liberalizzazioni e sostegni alla concorrenza (soprattutto per quanto riguarda i servizi), sia quello del lavoro, dove la riduzione del dualismo tra lavoratori precari e lavoratori a tempo indeterminato non deve avvenire a scapito della flessibilità in entrata nel mondo del lavoro13. Ma da sole, le riforme del mercato delle imprese non possono bastare a riprendere un sentiero di crescita. L’Italia, come altri paesi europei, è coinvolta in un processo recessivo favorito dalle politiche di risanamento finanziario. In queste condizioni, una crescita è possibile solo se si riesce ad agire anche sulla domanda interna. A questo fine sono necessarie politiche di redistribuzione del reddito, che favoriscano le classi di reddito con più elevata propensione al consumo, e politiche normative volte a creare nuova domanda per obiettivi collettivi, come il risparmio energetico, la tutela ambientale, l’assetto del territorio, la manutenzione degli immobili e altre. Politiche che impongano speci13 In particolare, mentre appare corretto penalizzare forme di lavoro a tempo determinato quando esse siano reiterate successivamente, appare necessario allargare il periodo di prova per i lavoratori a tempo indeterminato e rendere progressivamente crescente con l’anzianità il costo del licenziamento. 96 economia italiana 1•2012 EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 97 L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione fiche soluzioni, senza implicare necessariamente risorse pubbliche, per non vanificare lo sforzo di risanamento finanziario del paese. Queste e altre misure di politica economica potrebbero non solo sostenere e favorire le imprese nella loro risposta al mutamento del contesto nel quale operano, ma anche estendere tale processo a settori finora poco reattivi o protetti, soprattutto per quanto riguarda i servizi, ponendo le basi per un periodo di crescita economica rilevante e duraturo frutto di una modernizzazione dell’apparato produttivo del nostro paese. Riferimenti bibliografici ARRIGHETTI A., TRAÙ F. (2012), Far from the madding crowd. Sviluppo delle competenze e nuovi percorsi evolutivi delle imprese italiane, «L’Industria», marzo. BARBA NAVARETTI G., BUGAMELLI M., SCHIVARDI F., ALTOMONTE C., HORGOS D. MAGGIONI D. (2010), The Global Operations of European Firms, «The second Efige Policy Report», November. BORGHI E., HELG R. (2011), Il modello di specializzazione italiano per classi dimensionali di impresa, in «L’Italia nell’economia internazionale», Rapporto del Ministero dello Sviluppo Economico, 2010-2011. 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La prima parte dell’articolo esplora le possibili determinanti dell’evoluzione della disuguaglianza in Italia, in una prospettiva internazionale e soffermandosi in particolare sulle dinamiche del mercato del lavoro dove ad un aumento dei tassi di occupazione ha fatto seguito anche un aumento del dualismo retributivo e delle tipologie contrattuali. La seconda parte discute i principali orientamenti di politica economica per affrontare la disuguaglianza retributiva e nelle prospettive occupazionali. Promuovere l’occupazione tra i gruppi sotto rappresentati – giovani, donne e persone con basse qualifiche – è essenziale. Ma la vera sfida per creare nuove opportunità, riducendo i rischi di povertà, è conciliare la necessaria flessibilità sul mercato del lavoro con incentivi alla creazione di posti di lavoro produttivi e con un sostegno adeguato ai lavoratori in mobilità. 1. Introduzione In Italia, così come in molti altri paesi OCSE, si sono registrati nell’ultimo quarto di secolo profondi mutamenti economici e sociali che hanno portato a un aumento delle diseguaglianze nel mercato del lavoro e nella distribuzione dei redditi delle famiglie. In Italia, in particolare, la diseguaglianza dei redditi tra le persone in età lavorativa è aumentata 1 Il lavoro ha beneficiato di una ricca occasione di dibattito durante il workshop per Economia Italiana, “Il sentiero di aggiustamento a medio termine dell’economia italiana: crescita, rigore, equità”, Roma, UniCredit, 20 marzo, 2012. Si ringraziano Paolo Guerrieri, Direttore Scientifico di Economia Italiana, Fabio Bacchini, Innocenzo Cipolletta, Lorenzo Codogno, Marcello De Cecco, Antonio Pedone, Giuseppe Pisauro, Giorgio Basevi, Margherita Scarlato, Alessandro Spaventa, Marco Valli e tutti i partecipanti al workshop per le stimolanti discussioni e gli utili commenti. Le opinioni contenute in queste note sono tuttavia imputabili ai soli autori e sebbene basate su analisi condotte presso l’OCSE, esse non rappresentano necessariamente la posizione dell’istituzione di appartenenza. tEMA DI DISCUSSIOnE 99 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 100 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta drasticamente nei primi anni ’90 e da allora è rimasta a un livello elevato e superiore alla media dei paesi OCSE. Nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era dieci volte quello del 10% più povero. Queste dinamiche non hanno nulla a che vedere con la crisi economica globale del 2008-2009. Sono state innescate ben prima, per poi intensificarsi durante la recente crisi economica. Le interazioni tra attività economica e crescita della diseguaglianza discusse in questo articolo traggono le loro origini da una serie complessa di fattori: la forte integrazione sui mercati internazionali, con le conseguenti maggiori potenzialità di accesso al mercato globale, ma anche maggiori pressioni competitive; il progresso tecnico che tende a premiare i lavoratori con competenze più elevate; un mercato del lavoro che ha visto aumentare la sua segmentazione anche a causa di un processo di riforma incompiuto. La prima parte dell’articolo analizza i legami tra diseguaglianze dei redditi delle famiglie e dinamiche nel mercato del lavoro mettendo a confronto l’Italia con gli altri paesi OCSE. In particolare, l’articolo sottolinea come a un aumento dei tassi di occupazione tra i gruppi generalmente sotto rappresentati – giovani e donne così come persone con basse qualifiche – che ha indubbiamente contribuito a ridurre le diseguaglianze tra la popolazione in età lavorativa, si sia registrato al contempo un forte aumento delle diseguaglianze nelle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e nei redditi dei lavoratori autonomi. Una parte consistente della crescita occupazionale si è concentrata, infatti, su contratti atipici molto spesso a basso reddito e con scarse prospettive di carriera. Allo stesso tempo, il numero annuale di ore di lavoro dei lavoratori dipendenti meno pagati è diminuito in misura molto maggiore di quello dei lavoratori con retribuzioni più elevate. Le riforme degli ultimi quindici anni, se da un lato hanno favorito la crescita dell’occupazione, non sembrano essere riuscite a mettere in moto un processo virtuoso di crescita e occupazione produttiva. Nella seconda parte, l’articolo si sofferma sui principali orientamenti 100 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 101 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia di politica economica per affrontare le diseguaglianze nel mercato del lavoro e nei redditi delle famiglie. Non vi è dubbio che promuovere l’occupazione tra i gruppi sotto rappresentati sia il modo migliore di ridurre le disparità nel mercato del lavoro, ma la sfida principale in Italia consiste nel creare posti di lavoro qualitativamente e quantitativamente migliori, che offrano buone prospettive di carriera e la possibilità concreta di sfuggire alla povertà. Una riforma complessiva del mercato del lavoro, che includa un riesame delle tipologie contrattuali e degli incentivi alle imprese ad assumere con contratti permanenti, ma che consideri anche ammortizzatori sociali universali e adeguati a offrire un sostegno di reddito durante la fase di ricerca del nuovo posto di lavoro, è uno strumento essenziale per affrontare in maniera duratura le diseguaglianze dei redditi da lavoro. Le ragioni a favore di un approccio complessivo alla riforma del mercato del lavoro appaiono ulteriormente rafforzate dai recenti cambiamenti del regime previdenziale. In effetti, il rapido passaggio al metodo contributivo per tutti accentua l’importanza della realizzazione di percorsi di carriera il più possibile continui e di qualità, onde facilitare l’accumulo di diritti pensionistici adeguati. A questa riforma complessiva si deve affiancare una riforma delle politiche fiscali e previdenziali per accrescere gli effetti redistributivi. Il sistema tributario e i trasferimenti alle famiglie hanno svolto un ruolo importante nella redistribuzione del reddito in Italia, riducendo la diseguaglianza di mercato di circa il 30%, ma nello stesso tempo la redistribuzione attraverso i servizi pubblici – sanità, istruzione e servizi destinati alla salute – si è ridotta nell’ultimo decennio. Se la lotta all’evasione fiscale è uno strumento importante per affrontare le diseguaglianze, la quota crescente di reddito della popolazione con le retribuzioni più elevate suggerisce che la sua capacità contributiva è aumentata. In tale contesto, sarebbe necessario un riesame del ruolo redistributivo della fiscalità onde assicurare che i soggetti più abbienti contribuiscano in giusta misura al pagamento degli oneri impositivi. tEMA DI DISCUSSIOnE 101 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 102 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta 2. Le diseguaglianze di reddito in Italia e nei paesi OCSE L’Italia si caratterizza per una diseguaglianza dei redditi elevata e una povertà diffusa. Esistono diversi indicatori di diseguaglianza che colgono gli aspetti di questo complesso fenomeno. In questo studio, ci concentriamo su due indicatori comunemente utilizzati in letteratura: il coefficiente di Gini (che, come noto, tiene conto di tutta la distribuzione dei redditi e assume un valore compreso tra 0 e 1, tanto maggiore quanto maggiore è la diseguaglianza) e il rapporto tra decili della distribuzione dei redditi.2 In un confronto internazionale, usando il coefficiente di Gini, la diseguaglianza dei redditi delle famiglie è superiore alla media dei paesi OCSE (figura 1).3 In particolare, la diseguaglianza dei redditi in Italia è più elevata rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Europa continentale (Austria, Belgio, Francia, Germania, Olanda e Spagna, ad esempio) e soprattutto dei paesi Scandinavi. Essa è tuttavia inferiore a quanto registrato in Portogallo, nel Regno Unito e negli Stati Uniti. La figura 1 mostra il rapporto tra il reddito per la fascia più ricca della popolazione e quella più povera, in particolare tra il reddito medio percepito rispettivamente dal 10% più ricco e il 10% più povero. Nel 2008 il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero. Nella media dei paesi OCSE, il rapporto è di circa 9:1. La media OCSE però nasconde profonde diffe2 La diseguaglianza può essere studiata sotto diversi punti di vista; il più approrpriato per esprimersi sull’equità sociale è, probabilmente, quello legato al benessere o well-being della popolazione. Come anche sottolineato dal recente rapporto della Commissione internazionale sulla valutazione della performance economica e il progresso sociale (Stiglitz, Sen e Fitoussi 2009) il reddito è solo uno dei mezzi che assicurano una vita dignitosa. D’altro canto però, concetti più ampi del benessere sfuggono ancora a precise definizioni e in particolare sono difficili da misurare accuratamente. tenendo a mente i limiti legati all’utilizzo del reddito come indicatore, ai fini di questo studio ci concentriamo sulla diseguaglianza relativamente ai redditi familiari disponibili e, successivamente, anche rispetto ai redditi familiari di mercato e a quelli individuali da lavoro. 3 nel caso specifico, l’indicatore rileva i redditi netti per le persone in età lavorativa e cioè la fascia di età compresa tra 15 e 64 anni d’età. L’anno di riferimento è il 2008, il dato più aggiornato per un confronto internazionale. 102 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 103 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Fig. 1 - Confronto tra diseguaglianze nei paesi OCSE Coefficiente di Gini, 2008 Nota il reddito si riferisce al reddito disponibile per famiglia, corretto per la dimensione della famiglia utilizzando come deflatore l’Indice dei Prezzi al Consumo (IPC). Il primo anno considerato è il 1985 fatta eccezione per: Austria, Belgio e Svezia (1983); Francia, Italia, Messico e Stati Uniti (1984); Finlandia, Lussemburgo e Norvegia (1986); Irlanda (1987); Grecia (1988); Portogallo (1990); Ungheria (1991); Repubblica Ceca (1992). L’ultimi anno considerato è il 2008, fatta eccezione per: Cile (2009); Danimarca, Ungheria, Turchia (2007); Giappone (2006). Da Ocse-20 sono esclusi quei paesi per i quali non sono disponibili trend di lungo periodo. * Informazioni sui dati per Israele: http://dx.doi.org/10.1787/888932315602. Fonte OECD Database on Household Income Distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality) renze tra paesi: negli Stati Uniti, ad esempio, il rapporto è di 14:1 e diviene 27:1 in Messico e Cile. All’estremo opposto, il rapporto è di 6:1 nei paesi del Nord Europa, così come in Austria, Belgio e Svizzera. Il livello elevato della diseguaglianza dei redditi persiste da circa 15 anni e non tiene conto degli effetti della crisi in corso, che non è ancora possibile valutare. A determinarlo ha concorso un peggioramento forte e repentino, concentrato tra il 1992 e il 1993, a cui ha fatto seguito un periodo di stabilità, nonostante un leggero calo verso la fine del primo decennio degli anni duemila (figura 2). Il rapporto tra il reddito medio del 10% più ricco rispetto al reddito medio del 10% era di 8:1 alla metà degli anni ’80, rispetto al 10:1 ricordato in precedenza riferito al 2010. tEMA DI DISCUSSIOnE 103 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 104 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 2 - Evoluzione temporale della diseguaglianza Coefficiente di Gini, 1975-2008 Nota Per Australia, Cile, Finlandia, Norvegia, Nuova Zelanda e Svezia sono state utilizzate fonti nazionali per completare i dati standardizzati Ocse. La metodologia di tali fonti è la più simile possibile alle definizioni Ocse. Dati mancanti tra il 2000 e il 2004 per Austria, Belgio, Irlanda, Portogallo e Spagna. Dato mancante nel 1997 per Israele. * Informazioni sui dati per Israele: http://dx.doi.org/10.1787/888932315602. Fonte OECD Database on Income distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality) Si possono formulare diverse ipotesi circa le ragioni che spiegano il cambiamento repentino nel trend della diseguaglianza in Italia nei primi anni ’90. Queste comprendono i cambiamenti socio-demografici e inerenti al mercato del lavoro. Si devono annoverare anche le drammatiche svolte storiche intervenute nella politica italiana di quegli anni. Un ruolo scatenante potrebbe essere stato svolto, ad esempio, dagli effetti della potente manovra di risanamento fiscale attuata dal primo governo Amato, in carica tra il giugno del 1992 e l’aprile dell’anno successivo (Franzini e Raitano 2009a). Se l’impatto dei fattori storici è invero molto difficile da valutare, la figura 3 permette di farsi un’dea più precisa con riguardo al ruolo delle altre due spiegazioni. Ciò avviene grazie alla scomposizione del coefficiente di Gini tra effetti socio-demografici 104 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 04/06/12 14.32 Pagina 105 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Fig. 3 - Scomposizione percentuale delle variazioni nell’indice di diseguaglianza di Gini, confronto tra media OCSE e Italia1 Note 1. I campioni sono limitati agli individui per la popolazione in età da lavoro (25-64 anni) che vivono in un nucleo familiare con un capofamiglia in età da lavoro. I guadagni equivalenti della famiglia sono calcolati come la somma dei guadagni di tutti i membri della famiglia, corretta per le differenze nella dimensione della famiglia usando una scala di equivalenza (radice quadrata della dimensione della famiglia). 2. La scelta non casuale del/la compagno/a perché possiede una o più caratteristiche simili. Tali scelte possono accentuare le dinamiche economico-sociali di persistenza. È il caso, ad esempio, del matrimonio assortativo tra individui con grado di istruzione simile: le nuove generazioni provenienti dai nuclei familiari meno istruiti tendono a restare tali, al contrario di quelle provenienti dai nuclei familiari meglio istruiti. * Informazioni sui dati per Israele: http://dx.doi.org/10.1787/888932315602. Fonte OECD Database on Household Income Distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality) (come i cambiamenti nelle strutture dei nuclei familiari e nell’occupazione femminile, ad esempio) e quelli che risentono più direttamente delle caratteristiche del mercato del lavoro (il contributo alla diseguaglianza dei cambiamenti nei differenziali retributivi degli addetti di sesso maschile). La figura mostra che, in generale, nella media dei paesi OCSE le tendenze del mercato del lavoro sono più importanti dei cambiamenti socio-demografici nello spiegare la maggiore diseguaglianza dei redditi delle famiglie. Infatti, l’incidenza sulla diseguaglianza dei cambiamenti nella distribuzione dei redditi da lavoro supera, di molto, l’incidenza degli altri fattori. Il comportamento dell’Italia è in linea con la media dei paesi OCSE. Quello che sembra essere accaduto in Italia, però, è che il ruolo giocato dal mercato del lavoro come determinante dei cambiamenti nella distribuzione dei redditi è stato molto più marcato. TEMA DI DISCUSSIONE 105 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 106 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 4 - Quote di reddito percepite dall’1% più ricco sul totale dei redditi lordi 1990-2007 o ultimo anno disponibile Nota I dati 2007 si riferiscono al 2006 per Belgio, Francia e Svizzera; al 2005 per Giappone, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Portogallo, Spagna e Regno Unito; al 2004 per la Finlandia; al 2000 per Germania e Irlanda. I paesi sono ordinati in modo decrescente prendendo a riferimento i valori relativi all’ultimo anno. Fonte OECD Database on Income distribution and poverty (www.oecd.org/els/social/inequality). Indicazioni complementari in tal senso sono fornite dalla figura 4. L’aumento della diseguaglianza di reddito è largamente imputabile alla crescita sostenuta dei redditi più elevati a cui ha fatto riscontro una crescita moderata se non stagnante dei redditi medio bassi. Come indicato nella figura, il percentile più ricco degli italiani ha visto la proporzione del proprio reddito aumentare dal 7% del reddito totale nel 1980 fino a quasi il 10% nel 2008. Sebbene si tratti di un aumento relativamente cospicuo nel confronto con le maggiori economie europee, esso resta assai meno pronunciato di quanto osservato ad esempio negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada. Allo stesso tempo, la proporzione di reddito detenuta dallo 0,1% della popolazione italiana è aumentata da poco meno il 2% a quasi il 3%. Vi è un ulteriore aspetto importante della diseguaglianza italiana che 106 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 107 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia merita di essere richiamato. Si tratta della tendenza particolarmente accentuata della diseguaglianza economica nel nostro paese a trasmettersi da una generazione alla successiva. Il fenomeno della trasmissione di tipo intergenerazionale della diseguaglianza è stato al centro di alcune indagini recenti che hanno posto a confronto l’Italia con le principali economie europee (Piraino 2007; Mocetti 2007; Franzini e Raitano 2009b; Raitano 2009). Sebbene la trasmissione dai genitori ai figli della diseguaglianza non sia una specificità italiana, le conclusioni di queste analisi dipingono un quadro particolarmente preoccupante per il nostro paese, dove non solo è riscontrabile una correlazione elevata tra titoli di studio dei genitori e dei figli, ma anche come il reddito dei genitori incida su quello dei figli a prescindere dal titolo di studio. Occorre peraltro osservare che in Italia la persistenza intergenerazionale è ulteriormente rafforzata dal fatto che i nuovi nuclei familiari tendono a essere creati tra individui che provengono dalla stessa sfera economico-sociale. È quanto emerge di nuovo dalla figura 3, che illustra come l’effetto sull’aumento della diseguaglianza dovuto alla propensione dei ricchi a formare nuclei familiari tra loro è decisamente più elevato in Italia di quanto sia riscontrabile nella media dei paesi OCSE. In Italia, dunque, la correlazione tra titoli di studio e tra livelli di reddito da lavoro non è elevata solo tra generazioni, ma anche tra membri che compongono il nucleo familiare. Recenti analisi presso l’OCSE (D’Addio 2007 e 2012) consentono di valutare queste considerazioni in prospettiva. La figura 5, riprodotta dallo studio in questione, mostra che a livelli elevati dell’indice di diseguaglianza dei redditi di Gini fanno riscontro livelli elevati di persistenza della diseguaglianza intergenerazionale, con Italia, Regno Unito e Stati Uniti caratterizzati dai valori più elevati di entrambi gli indicatori. Pur ponendo l’accento sul fatto che la verifica della robustezza statistica di queste correlazioni richiederebbe un’analisi più approfondita, l’apparente correlazione tra diseguaglianza corrente e diseguaglianza intergenerazionale suggerisce che laddove la politica economica riuscisse a ridurre le divergenze di tEMA DI DISCUSSIOnE 107 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 108 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 5 - Correlazione tra diseguaglianza dei redditi ed elasticità intergenerazionale Fonte D’Addio (2012) “Social Mobility in OECD countries: Evidence and Policy Implications” (in corso di pubblicazione); e OECD (2008) Growing Unequal?, www.oecd.org/els/social/inequality/GU reddito correnti tra famiglie anche il fenomeno della permanenza della diseguaglianza tra genitori e figli risulterebbe indebolito. Sostanzialmente, i guadagni di una riduzione della diseguaglianza corrente non sono isolati nel tempo, ma si distribuiscono in modo duraturo. Lo scopo di questo articolo è fornire un’analisi aggregata della diseguaglianza di reddito in Italia e degli aspetti cruciali del nostro paese nel confronto internazionale. Tuttavia, date le particolari circostanze del nostro paese, non ci si può esimere dal ricordare anche solo brevemente che per l’Italia lo studio delle caratteristiche aggregate maschera l’esistenza di importanti differenze tra aree geografiche. A questo proposito, l’analisi disaggregata per aree territoriali condotta da Franzini e Raitano (2009a) conferma la posizione di svantaggio delle aree meridionali per tutte le componenti del reddito familiare disponibile prese in esame (da lavoro dipendente, da attività autonoma e da trasferimenti). Gli autori pongono inoltre l’accento sul fatto che l’indice di Gini 108 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 109 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia varia tra due valori estremi, i massimi del Mezzogiorno (in particolare in Sicilia) e i minimi nelle regioni del Centro (in particolare Toscana e Umbria). La varianza nella distribuzione è maggiore nel caso dei redditi da attività autonoma, rispetto a quelli da lavoro dipendente e da pensione. La distribuzione dei redditi da lavoro autonomo è particolarmente diseguale nel Nord-Ovest e nelle Isole, mentre quella da lavoro dipendente è più diseguale nelle Mezzogiorno. 3. Le determinanti dell’aumento della diseguaglianza nei redditi in Italia 3.1 Il contesto macroeconomico caratterizzato da bassa crescita economica e aumento dell’occupazione Per comprendere le dinamiche dell’occupazione e della distribuzione dei redditi in Italia, occorre analizzare in dettaglio le dinamiche macroeconomiche e della produttività. Come è risaputo, l’Italia si è caratterizzata nel decennio precedente alla crisi globale del 2008-2009 per un tasso di crescita del Pil estremamente modesto (figura 6). A ciò si è accompagnato un aumento relativamente sostenuto dell’occupazione con la contropartita che la crescita della produttività del lavoro è stata minima se non negativa in alcuni anni. Queste dinamiche hanno determinato retribuzioni orarie stagnanti, ma un forte aumento del costo unitario del lavoro con la conseguente perdita di competitività e il rischio di avvitamento in un circolo vizioso di bassa crescita, produttività in declino, salari stagnanti e ulteriore perdita di competitività. In questo contesto, malgrado il significativo aumento dell’occupazione la diseguaglianza è rimasta costante perché all’assottigliarsi del numero dei disoccupati (prima della crisi globale del 2008-09), di per sé favorevole alla riduzione delle diseguaglianze, si è contrapposto un aumento della dispersione dei redditi da lavoro in grado di neutralizzare tale effetto. In altre parole, la maggiore occupazione e l’emersione del sommerso ha riguardato posti di lavoro a bassa produttività e a basso reddito. In un confronto internazionale l’Italia lamentava anche prima della crisi economica globale del 2008-2009 un divario rilevante del Pil pro tEMA DI DISCUSSIOnE 109 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 110 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 6 - Prodotto interno lordo, occupazione e costi unitari del lavoro in Italia Indici in base 1992, primo trimestre=100 Fonte OECD Main Economic Indicators Database capite rispetto agli altri paesi maggiormente sviluppati dell’OCSE – attorno al 35% rispetto agli Stati Uniti (figura 7). Nel decennio precedente la crisi, il tasso medio di crescita economica ampiamente inferiore a quello registrato nella maggior parte dei paesi OCSE ha contribuito ad aumentare ulteriormente il divario nel reddito pro capite. Come illustrato nella figura 8, il fattore principale per spiegare l’elevato differenziale nel livello del Pil pro capite italiano rispetto a quello degli Stati Uniti e degli altri paesi più sviluppati dell’OCSE è legato all’importante divario nel livello medio della produttività del lavoro. Questo divario è aumentato invece di contrarsi nel decennio precedente la crisi quando, come ricordato, l’aumento dei tassi di occupazione in concomitanza con una crescita economica modesta ha generato perdite sul fronte della produttività. La figura 6 indica infatti come, al contrario della maggior parte dei paesi OCSE, il tasso di crescita medio della produttività è stato molto limitato in Italia. 110 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.42 Pagina 111 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Fig. 7 - Differenze tra paesi in termini di Pil pro capite, Pil e livelli di produttività In US$ PPP, 2007 divari percentuali rispetto agli USA Divario Pil pro capite = Divario Pil per ora lavorata + Divario nell’utilizzo del lavoro Note 1. Basato sulle parità del potere di acquisto 2007. Nel caso del Lussemburgo, la popolazione include i lavoratori transfrontalieri così da tener conto del loro contributo al PIL. 2. L’utilizzo del fattore lavoro è misurata con il numero totale di ore lavorate pro capite. 3. La produttività del lavoro è misurata come PIL per ora lavorata. 4. UE 19 è un aggregato che comprende i paesi che sono membri sia dell’Unione Europea che dell’OCSE. Si tratta dei paesi UE15 più la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Slovacca. Fonte OECD, National Accounts Database; OECD, Economic Outlook 84 Database and OECD (2008), Employment Outlook I tre temi che sono stati scelti a fulcro di questo numero di Economia Italiana ci ricordano che le cause sottostanti la bassa crescita italiana sono molteplici e fortemente interconnesse, anche se tutte di natura strutturale. In un paese avanzato, l’eliminazione dei vincoli alle esportazioni, alla competitività del sistema produttivo, come anche alla stessa evoluzione della domanda interna, non dipende, nel lungo termine, dai soli costi del lavoro, ma dall’efficienza produttiva, dalla capacità di favorire l’accumulazione di capitale umano e fisico, dalla qualità degli sforzi TEMA DI DISCUSSIONE 111 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 112 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 8 - Cosa determina le differenze tra paesi in termini di tasso di crescita del Pil pro capite? Economia, tasso di crescita annuale medio, 1997-2007 Crescita Pil pro capite = Crescita Pil per ora lavorata + Crescita utilizzo del lavoro Fonte Elaborazioni OCSE all’innovazione e dal dinamismo della rete intera delle imprese. Essa dipende inoltre dalla prudenza con cui è gestita la politica di bilancio nel breve e nel medio periodo, anche a fronte dei profondi cambiamenti nella società italiana con l’invecchiamento della sua popolazione. Questi fattori concorrono tutti alla crescita economica e alla distribuzione del reddito tra lavoro e capitale e tra i lavoratori stessi e sono tutti profondamente influenzabili da misure di politica economica. Riportare l’Italia su un sentiero di crescita sostenuta e durevole richiede quindi un’azione di riforma coordinata su più fronti. In questo quadro, un’attenzione particolare deve essere rivolta all’affrontare i profondi squilibri sul mercato del lavoro che da un dualismo occupati-disoccupati è 112 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 113 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia passato ad un dualismo caratterizzato anche da forti divergenze tra lavoratori precari a basso salario e lavoratori con contratti più stabili, con migliori retribuzioni e prospettive di carriera. Se la crescita economica è condizione necessaria per affrontare le difficoltà del mercato del lavoro italiano, riforme strutturali sono necessarie per affrontare i profondi dualismi del mercato del lavoro italiano. Anche se il quadro in cui si declinano gli effetti redistributivi dei cambiamenti nelle politiche sociali e del lavoro non è il breve periodo, gli effetti sulle attese delle famiglie e degli operatori possono manifestarsi in tempi rapidi, elevando la propensione a consumare e a investire e dunque sostenendo la riduzione del premio di rischio sugli interessi del debito pubblico. 3.2 Diseguaglianze di reddito e mercato del lavoro: quali interazioni? Nella maggior parte dei paesi OCSE, il mercato del lavoro è il motore principale delle diseguaglianze di reddito delle famiglie. L’accesso al lavoro per i membri adulti del nucleo familiare è un fattore essenziale così come la distribuzione dei redditi da lavoro. In media tra i paesi OCSE, il 70% del reddito delle famiglie è reddito da lavoro, anche se i redditi da capitale sono aumentati e la loro distribuzione ha contribuito all’aumento delle diseguaglianze. Se le dinamiche sul mercato del lavoro sono essenziali per comprendere le diseguaglianze dei redditi in generale, esse rivestono un ruolo ancora più importante in Italia. Come ricordato, il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da profondi dualismi. Nel confronto internazionale ciò si manifesta nella varietà relativamente ampia delle tipologie contrattuali (una quarantina circa) e nel vasto numero di occupati italiani che si trovano in condizioni precarie o atipiche. Da ciò è dipesa essenzialmente la forte crescita dell’incidenza percentuale sull’occupazione totale degli occupati con contratti a termine nell’ultimo decennio (figura 9). Questa dinamica ha interessato particolarmente i giovani, ma anche le donne e i lavoratori meno qualificati, molti dei quali immigrati. tEMA DI DISCUSSIOnE 113 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 114 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 9 - Evoluzione dalla quota percentuale degli occupati con contratti a termine sul totale degli occupati, 1990-2010 Percentuale di ciascun gruppo rispetto al totale dell’occupazione dipendente Nota I paesi sono in ordine crescente per incidenza del numero di occupati con contratti a termine sul totale degli occupati nel 2010. Fonte OECD Labour Force Statistics Database La figura 9 indica l’insieme dei lavoratori e dei giovani con contratti a durata definita. Occorre però sottolineare che esistono profonde differenze tra le varie tipologie di contratto a temine all’interno di ciascun paese e tra paesi. Se per alcuni i contratti a termine sono parte di un processo formativo – si pensi alla formazione in alternanza del modello tedesco, austriaco – o comunque dei trampolini verso posizioni più stabili e con migliori prospettive di carriera, per altri essi rappresentano il canale verso situazioni di precariato che difficilmente trovano sbocco in posizioni più stabili. Per cogliere le profonde differenze nelle tipologie dei contratti a termine, la figura 10 illustra la parte dell’occupazione giovanile con contratti a termine che dichiara di essere in questa situazione per l’assenza di opportunità di lavoro più stabili (lavoratori con contratti a 114 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 115 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Fig. 10 - L’aumento dei giovani che dichiarano di accettare un posto a termine a causa dell’indisponibilità di posti più stabili Quota percentuale sul totale dei giovani occupati con contratto a termine Nota I dati si riferiscono alla quota di giovani che hanno dichiarato di avere impieghi a termine perché non sono riusciti a trovare impieghi a tempo indeterminato. Fonte Eurostat termine involontari). Se da un lato è interessante notare il dato tedesco, dove a fronte di una forte incidenza dei contratti a termine tra i giovani si riscontra una bassissima percentuale tra loro che dichiara di essere occupata con contratti a termine per l’assenza di un contratto permanente, dall’altro si trova l’Italia in cui oltre il 40% dell’occupazione giovanile con contratti temporanei è in questa situazione per l’assenza di posti di lavoro più stabili. Inoltre, la figura sottolinea la forte crescita nel numero dei giovani italiani che dichiarano di occupare un posto a termine involontariamente, a causa della crisi che rende ancora più scarsa la disponibilità di posti più stabili. L’ulteriore evoluzione del lavoro temporaneo involontario è uno degli elementi che hanno caratterizzato la crisi recente. In Italia, così come nella maggior parte dei paesi OCSE, i giovani hanno subito in tEMA DI DISCUSSIOnE 115 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 116 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta maniera particolarmente pesante le perdite occupazionali nella fase recessiva e le scarse opportunità di lavoro anche nella fase di flebile ripresa economica. Il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato di circa il 50% durante la crisi, fino a superare il 30% verso la fine del 2011 (il quarto tasso più elevato nell’area OCSE dopo la Spagna, la Grecia e la Repubblica Slovacca). I giovani hanno subito particolarmente il calo di posti di lavoro perché queste ultimo si è concentrato soprattutto nei contratti atipici in cui, come abbiamo ricordato, è concentrata l’occupazione giovanile. 3.3 Le ricadute delle riforme istituzionali sulla diseguaglianza dei redditi Quali sono i fattori che hanno contribuito a questi cambiamenti sul mercato del lavoro italiano? Non c’è dubbio che le importanti riforme regolamentari introdotte dall’Italia durante gli ultimi due decenni abbiano avuto conseguenze di vastissima portata sui modi di produzione e l’ambiente operativo delle imprese e a cascata sulla domanda di lavoro. L’evidenza empirica disponibile concorda sul fatto che la rimozione di una serie di vincoli e restrizioni alla concorrenza e all’attività economica ha contribuito ad accrescere l’occupazione, grazie al miglior funzionamento dei meccanismi di riallocazione delle risorse (Fiori, Nicoletti, Scarpetta e Schiantarelli 2012; Nicoletti e Scarpetta 2006; Blanchard e Giavazzi 2003; Bassanini e Duval 2006). Tuttavia, il progresso tecnologico e l’espansione del settore dei servizi scaturiti da queste iniziative hanno anche accentuato l’eterogeneità delle figure professionali, dando luogo a un ampliamento della gamma retributiva (Baldini e Toso 2005). Allo stesso tempo, un importante stimolo complementare alla tendenza verso la maggiore dispersione nelle retribuzioni da lavoro è stato esercitato dalle caratteristiche impresse ai mutamenti della struttura istituzionale del mercato del lavoro dalla metà degli anni ’90 (Franzini e Raitano 2009a). Infatti, le riforme che si sono succedute a partire da quel momento sono state spesso perseguite all’insegna di un allen116 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 117 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia tamento della legislazione in materia di protezione del lavoro (job protection legislation) e in primo luogo della liberalizzazione dei contratti a termine. Se questo ha permesso l’emersione del sommerso e quindi una crescita dell’occupazione dichiarata, è anche vero che ciò ha contributivo alla crescita, accanto a tipologie occupazionali più standardizzate e meglio protette, di una moltitudine di tipologie contrattuali atipiche (dipendenti a termine, parasubordinati, lavoratori con contratto parttime e così via). Questi cambiamenti hanno sensibilmente facilitato la capacità delle imprese di adattarsi alle fluttuazioni cicliche della domanda e ai cambiamenti di mercato e a quelli indotti dal progresso tecnologico. In questo senso hanno offerto un supporto all’espansione dell’occupazione. Tuttavia, trattandosi di interventi che hanno inciso prevalentemente sulla rimozione di una serie di vincoli al “margine”, e cioè più precisamente sui limiti all’ingresso al mercato del lavoro, essi hanno comportato anche alcune controindicazioni (OCSE 2010b). Se molti lavoratori, generalmente più qualificati, hanno potuto usufruire di nuove mansioni e migliori opportunità professionali, altri sono stati penalizzati dall’aggiustamento al ribasso dei trattamenti salari, dalle minori ore lavorate e dalle peggiori condizioni lavorative. Le conseguenze redistributive di tale dualismo sono illustrate dalla figura 11, che riporta l’effetto dell’aggiunta dei lavoratori a tempo parziale e dei lavoratori autonomi alla distribuzione dei redditi netti calcolata per i soli lavoratori a tempo pieno. Per la media dei paesi OCSE, l’aggiunta dei lavoratori a tempo parziale aumenta l’indice di eterogeneità di Gini di quattro punti percentuali. Sebbene l’indice aumenti di altri quattro punti quando si prendano in considerazione anche i lavoratori autonomi, nel caso dell’Italia l’effetto di questa aggiunta è molto più marcato. Al di là da quanto emerge dall’osservazione della diseguaglianza salariale, la condizione di forte svantaggio per i lavoratori atipici si rileva anche in altre dimensioni, talune a forte connotazione sociale, piuttosto tEMA DI DISCUSSIOnE 117 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 118 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 11 - Disuguaglianza salariale fra lavoratori a tempo pieno, a tempo parziale e autonomi Media OCSE e Italia alla metà degli anni 2000 Coefficiente di Gini di diseguaglianza nei guadagni Nota Il campione è limitato alla popolazione civile in età da lavoro (25-64 anni). Fonte Elaborazioni del Segretariato OCSE sulla base di dati del Luxembourg Income Study (LIS) che riflettere in modo diretto le contingenze del posto di lavoro. Tra queste è stato rilevato, in particolare, l’elevato rischio d’interruzione lavorativa per i dipendenti a tempo determinato (Lucidi e Raitano, 2009). Una conferma dell’importanza di un tale rischio è offerta dalla figura 12, che illustra come la forte crescita dell’occupazione con contratti atipici sia stata associata ad un forte aumento del differenziale tra le ore annualmente lavorate, rispettivamente dai lavoratori meglio e peggio retribuiti. Si tratta invero di una tendenza assai diffusa nella media dei paesi OCSE e non solo nostrana. Tuttavia, l’Italia spicca nel quadro internazionale perché la riduzione delle ore lavorate è stata molto più accentuata, in particolare tra i lavoratori meno retribuiti. Il numero annuale delle ore lavorate è diminuito rispetto alla media OCSE anche nel caso dei lavoratori a redditi più elevati, ma in misura molto minore che per i lavoratori a basso reddito. 118 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 119 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Fig. 12 - Tendenze di lungo periodo nelle ore lavorate annualmente per classi di reddito Da metà degli anni ’80 a metà degli anni 2000 Nota Lavoratori retribuiti in età da lavoro. Fonte OECD Database on Household Income Distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality) Un contesto di forte precarietà con alti rischi di interruzione della carriera si traduce anche in minori opportunità di accesso a programmi di formazione professionale sul posto di lavoro per i lavoratori con contratti atipici, a causa dei minori incentivi per le imprese ad investire nel loro capitale umano. Agendo da fattore deterrente delle possibilità del lavoratore di transitare tra le diverse forme contrattuali, la preclusione all’accesso ai canali formativi non fa altro che prolungare la dipendenza dalla precarietà. Da ultimo, le conseguenze del dualismo del mercato del lavoro sulla diseguaglianza sono state aggravate dal mancato adeguamento degli ammortizzatori e dalla conseguente differenziazione delle tutele in caso di perdita del posto di lavoro. 4. L’impatto distributivo della crisi economica del 2008-09 Sebbene gli effetti distributivi della recente crisi economica globale siano difficili da valutare, perché le informazioni disponibili sono tEMA DI DISCUSSIOnE 119 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 120 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta ancora limitate, interessanti e accurate indicazioni in tal senso sono ricavabili da uno studio recente a cura di Jenkins, Brandolini, Micklewright e Nolan (2011). Per i ventuno paesi avanzati passati in rassegna, l’impatto di breve periodo della recente crisi sulla diseguaglianza della distribuzione dei redditi familiari medi è stato diverso, ma complessivamente contenuto, tenuto conto dell’importanza della contrazione del Pil. Rispetto alla “grande depressione” degli anni ’30, ciò riflette da un lato una contrazione meno marcata del Pil, ma soprattutto i mutamenti da allora intervenuti nel funzionamento dei mercati, nella gestione della politica economica e nello sviluppo della rete di protezione sociale. Se rispetto alla drammatica esperienza degli anni ’30, però, i paesi dimostrano di aver imparato come affrontare le conseguenze sociali di una grave contrazione economica, permangono le incertezze riguardo alla prospettiva di medio-lungo periodo. Gli autori pongono l’accento sul fatto che tutto dipende da quando le economie avanzate torneranno su un sentiero di crescita stabile, dal modo in cui saranno superati i difficili problemi di finanza pubblica lasciati in eredità dalla crisi, dalle scelte di politica economica e di riforma dello stato sociale che i governi prenderanno negli anni a venire. L’evidenza presentata in un capitolo speciale dedicato all’Italia, conferma che anche nel nostro paese l’effetto della crisi economica sulla diseguaglianza è stato contenuto, almeno nella prima fase della crisi analizzata dagli autori. Tuttavia, se si confrontano i nuclei familiari per fasce d’età, è riscontrabile che, contrariamente a quanto osservato per quelli con capofamiglia di 65 e più anni, i nuclei familiari più giovani (inclusi quelli nei quali il capofamiglia ha meno di 40 anni) hanno subito cali di reddito più evidenti. I redditi dei pensionati e quelli dei lavoratori dipendenti hanno continuato lungo i rispettivi trend pre-crisi, positivo per i primi, negativo per i secondi. Allo stesso tempo, i redditi dei lavoratori autonomi hanno subito una brusca caduta. In particolare, la condizione di diseguaglianza economica sembrerebbe essersi aggravata tra le famiglie relativamente più giovani, soprattutto con figli. I 120 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 121 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia trasferimenti sociali non sarebbero dunque riusciti a compensare gli effetti distributivi della recessione, anche se l’effetto dello shock macroeconomico avrebbe potuto essere maggiore senza l’effetto compensativo esercitato dal supporto economico alle famiglie. Le rilevazioni più recenti sui redditi e la ricchezza delle famiglie operate dalle indagini della Banca d’Italia confermano l’acuto stato di disagio sociale dei giovani e il crescente ruolo di ammortizzatore sociale esercitato dai loro nuclei familiari. La crisi ha ampliato il divario tra la condizione economica e finanziaria dei giovani e quella del resto della popolazione. Tra il 2008 e il 2010 la quota di famiglie povere in base al reddito e alla ricchezza è cresciuta di circa un punto percentuale per il campione nel suo complesso e di circa cinque punti per le famiglie dei giovani (Tarantola 2012). 5. Implicazioni di politica economica in materia di mercato del lavoro Dalla nostra breve disamina emerge con chiarezza come le riforme intraprese in Italia per rendere il mercato del lavoro più flessibile non sono riuscite a coniugare tra loro equità ed efficienza produttiva. L’analisi sin qui svolta suggerisce che ancora molto può e deve essere fatto al fine di accentuare la capacità del mercato del lavoro di incidere sul dinamismo del sistema economico italiano nel suo complesso, ma anche di offrire una rete di protezione adeguata ai lavoratori e prospettive di carriera ai giovani. Con riferimento alle variabili in gioco, la delicata miscela tra dimensione lavorativa e sociale che esse presentano rivela che la chiave di volta sta nel superamento della situazione di dualismo interno al mercato del lavoro. La scommessa per la politica economica, non solo per l’Italia ma anche per molti altri paesi europei, è quella di favorire non solo la crescita occupazionale ma anche e soprattutto di favorire la creazione di posti di lavoro produttivi e con prospettive di carriera, così da poter sfruttare al meglio le potenzialità spesso inespresse dei giovani che entrano nel mercato del lavoro. Il raggiungimento di un tale fine non può essere il tEMA DI DISCUSSIOnE 121 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 122 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta risultato di iniziative in “ordine sparso”. Esso richiede una strategia di indirizzo che affronti il problema della diseguaglianza nel mercato del lavoro in modo complessivo. I principali elementi di una tale strategia sono passati in rassegna nella restante parte di questo paper. 5.1 Come si caratterizza l’Italia nel confronto internazionale? Nel confronto internazionale l’Italia si caratterizza tuttora per un quadro regolamentare del mercato del lavoro eccessivamente rigido e soprattutto caratterizzato da un alto grado di incertezza per quanto riguarda il rispetto della normativa vigente e i tempi della giustizia civile. L’OCSE ha da tempo elaborato un indicatore del grado di rigidità della normativa sui contratti con riferimento ai contratti a tempo indeterminato, ai contratti a tempo determinato e alle normative che regolano i licenziamenti collettivi. Occorre sottolineare che questi indicatori fanno esclusivo riferimento alla normativa e non tengono conto del suo grado di applicazione in pratica o dei tempi legati alla risoluzione in tribunale delle dispute. La figura 13 presenta questi indicatori sintetici con riferimento al 2008 e suggerisce che, complessivamente, il quadro regolamentare che governa i licenziamenti individuali non è più vincolante rispetto alla media dei paesi OCSE, principalmente a motivo dell’estensione relativamente moderata dei requisiti di preavviso e della generosità contenuta dell’indennizzo nel caso di licenziamento ingiustificato. Permangono tuttavia elementi specifici della normativa vigente in cui l’esistenza di regole mediamente più restrittive rafforza il ricorso alle forme contrattuali atipiche. Informazioni interessanti per definire concrete linee di riforme del mercato del lavoro italiano sono ricavabili dal vaglio di queste aree. Ciò risulta dalla figura 14 che, a partire dalla scomposizione dell’indicatore OCSE nelle sue diverse componenti, permette di identificare tre aree fondamentali, in merito rispettivamente al periodo di prova, al reintegro nel caso di licenziamento individuale ingiustificato o discriminatorio e, infine, alla normativa sui licenziamenti collettivi. 122 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 123 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Fig. 13 - Indicatore OCSE di protezione del mercato del lavoro Fonte OECD Indicators on Employment Protection Il periodo di prova antecedente la conferma dei contratti a tempo indeterminato. Un primo spunto di riflessione offerto dalla figura 14 concerne il periodo di prova da applicare ai contratti di lavoro a tempo indeterminato, che è particolarmente breve in Italia. Fissato entro un termine di una/due settimane per gli operai, per raggiungere tre/otto settimane nel caso degli impiegati, esso si confronta con una media OCSE di circa quattro mesi. Un’estensione considerevole del periodo di prova per il contratto a tempo indeterminato contribuirebbe a superare i dilemmi che frenano le imprese dal farne un uso maggiore. È chiaro, innanzitutto, che in una prospettiva di allungamento significativo del periodo di prova il tema dell’indennizzo diventa molto importante da affrontare. Il rischio è che il datore di lavoro si senta sistematicamente incoraggiato a sostituire quei lavoratori che si stiano avvicinando alla fine del periodo di prova con nuovi lavoratori reclutati sempre in prova. Queste considerazioni sono ancora più dense di signitEMA DI DISCUSSIOnE 123 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 124 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta ficato alla luce del fatto che il disegno di legge al vaglio del parlamento prevede di migliorare il regime dell’apprendistato che potrebbe essere prolungato fino a tre anni, a partire da un minimo di sei mesi. In casi come questo, la raccomandazione dell’OCSE ai paesi è di preferire l’istituzione di un regime compensativo che avvantaggi livelli contenuti degli indennizzi per evitare il rischio di scoraggiare le nuove assunzioni. Per offrire un elemento di valutazione si può considerare che il meccanismo in vigore nella media dei paesi OCSE comporta una progressione approssimativamente lineare, pari a circa una settimana di retribuzione per ogni sei mesi di anzianità d’impiego, con una diminuzione del tasso di incremento dell’indennizzo a partire dal primo anno di anzianità. In materia di contratti, l’attenzione potrebbe contemplare l’ipotesi del passaggio a un contratto unico per tutte le nuove assunzioni. L’esperienza dei paesi OCSE suggerisce che la proliferazione delle tipologie contrattuali rappresenti un fattore d’incertezza e confusione, col rischio di accrescere la segmentazione del mercato del lavoro. In una prospettiva di introduzione del contratto unico in Italia, l’esito ideale del lungo periodo di prova previsto sarebbe quello della conversione in un contratto più stabile. Tutti i lavoratori in periodo di prova avrebbero accesso all’indennità di disoccupazione e chi dovesse essere licenziato durante tale periodo avrebbe accesso a un risarcimento, commisurato all’estensione del contratto, pur senza clausola di reintegro (sulla base dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori). I contratti a termine non verrebbero aboliti, ma resi più costosi al fine di incoraggiarne l’uso in mansioni realmente motivate dal breve periodo. Il reintegro nel caso del licenziamento individuale ingiustificato o discriminatorio. Il secondo spunto di riflessione segnalato dagli indicatori disaggregati dell’OCSE riguarda la questione del reintegro nel caso di licenziamento individuale non giustificato. Benché dal punto di vista formale questa pratica esista in numerosi paesi, il ricorso avviene più 124 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 125 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia raramente che in Italia e in forma circoscritta ai soli casi in cui sia accertabile la presenza di ragioni oggettivamente gravi, conformemente a una casistica appurata al momento dell’introduzione della norma (come avviene nel modello tedesco o austriaco, ad esempio). Questo suggerisce che un modo di perseguire la razionalizzazione del sistema italiano di licenziamento individuale potrebbe essere quello di ridurre drasticamente l’aleatorietà legata all’intervento del giudice. L’orientamento al momento in discussione in Italia di un risarcimento, nel caso il giudice decida sull’insussistenza dei motivi economici addotti dall’impresa per il licenziamento individuale, valutabile tra quindici e ventisette mesi del salario lordo, collocherebbe l’Italia al secondo posto dell’ordinamento dei livelli di generosità di tali risarcimenti (dopo la Svezia). Questo fatto sembrerebbe suggerire che una prospettiva di riduzione della generosità del sistema non sia da escludere, nel qual caso essa andrebbe intrapresa in modo coordinato con l’aumento progressivo della generosità del sistema degli ammortizzatori sociali. Il risultato finale sarebbe quello di sostituire alla generosità dei meccanismi di indennizzo meccanismi di protezione sociale più moderni e in linea coi livelli di protezione osservabili a livello internazionale. Sempre ragionando in prospettiva e assumendo che i cittadini italiani non siano pronti a rinunciare al meccanismo del reintegro, un modo operativo di ridurre il grado di discrezionalità dei giudici potrebbe essere quello di introdurre un incentivo tendente a favorire la soluzione del licenziamento prima che il contenzioso venga portato in tribunale. Il modello tedesco, per esempio, prevede il versamento di un risarcimento al lavoratore, benché di entità relativamente più modesta (basato su una scala fissa, calcolata sull’anzianità di servizio), previa la rinuncia da parte di quest’ultimo a ricorrere in tribunale. In questo caso, viene fatto salvo al lavoratore il ricorso alla protezione della decisione del tribunale se decide di non accettare il risarcimento, ma l’incentivo a ricorrervi sarebbe fortemente diminuito qualora le prospettive di una soluzione favorevole fossero oggettivamente modeste. Un sistema di tEMA DI DISCUSSIOnE 125 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 126 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta questo tipo andrebbe certamente sostenuto dalla creazione di meccanismi di mediazione certi, capaci di garantire a entrambi le parti di accedere al risarcimento consenziente nel modo più semplice e nei tempi più rapidi possibili. Licenziamenti collettivi. Una terza direzione dove il potenziale di riforma è particolarmente elevato in Italia si riferisce alle norme relative ai licenziamenti collettivi. Sopra i quindici addetti, le imprese che intendano licenziare cinque o più occupati sono tenute all’adempimento di obblighi amministrativi di consultazione e preavviso addizionali, rispetto alla procedura ordinaria che si applica alle imprese più piccole, spesso ulteriormente accresciuti dall’aggiunta di uno speciale indennizzo di licenziamento. Sebbene l’evidenza empirica disponibile non sembri corroborare l’idea che queste barriere rappresentino un deterrente serio al raggiungimento di scale dimensionali ottimali di produzione da parte delle imprese (Schivardi e Torrini 2008; Garibaldi, Pacelli e Borgarello 2004), una linea di riforma potrebbe consistere nell’aumentare la soglia minima d’applicazione della regola. In molti paesi OCSE, la soglia del criterio del licenziamento collettivo si applica da dieci o venti occupati nel caso di piccole imprese, mentre in quelle di maggiore dimensione essa passa a trenta occupati o una percentuale prestabilita (di solito fissata al 10%). Un’altra opzione praticabile è quella di andare a incidere sugli oneri amministrativi, laddove il periodo di consultazione, che attualmente può raggiungere quarantacinque giorni in Italia, si confronta con i circa ventisei giorni per la media dei paesi OCSE. Inoltre, l’Italia si distingue dalle pratiche internazionali per i tempi lunghi e le difficoltà delle procedure burocratiche che si applicano al caso dei licenziamenti collettivi. Ciò emerge dalla figura 15 che presenta la frequenza dei ricorsi in giudizio, nonché i tempi di esecuzione dei processi per cause di lavoro, relativi a diversi paesi, misurati su dati recenti. Si tratta di ostacoli che disincentivano la rapida presa delle deci126 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 127 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Fig. 14 - Differenze fra indicatori disaggregati di protezione del mercato del lavoro Italia rispetto alla media OCSE per l’anno 2008 Nota CT - contratto a termine; ALI - Agenzia di lavoro interinale; LC - Licenziamenti collettivi. Fonte OECD Indicators on Employment Protection sioni da parte di entrambi i soggetti coinvolti, datore di lavoro e lavoratore. La semplificazione delle procedure amministrative, coniugata ad un aumento delle risorse destinabili ai tribunali del lavoro, potrebbe essere di grande supporto. Un’altra possibilità, ispirata dalle pratiche internazionali in vigore, potrebbe essere quella di dotare i datori di lavoro e i dipendenti degli strumenti idonei alla ricerca di soluzioni consensuali, evitando così i tempi e le incertezze delle procedure giudiziali. In Spagna, ad esempio, il datore di lavoro può decidere il versamento immediato dell’indennità di licenziamento, nel qual caso non esiste alcun incentivo addizionale a ricorrere in giudizio da parte del lavoratore. Circa il 75% dei licenziamenti spagnoli sono eseguiti seguendo questa procedura. In modo simile, anche in Germania datori di lavoro e dipendenti possono decidere di accordarsi sul modo di pagatEMA DI DISCUSSIOnE 127 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 128 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 15 - Tempi e procedure burocratiche nel caso dei licenziamenti collettivi, confronto tra Italia e una selezione di paesi OCSE Nota Rispetto al totale dei casi in primo grado, valori percentuali. Fonte Venn (2009), Appendice B 128 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 129 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia mento dell’indennizzo, in cambio della rinuncia alla prospettiva di ricorso per via giudiziale. In entrambi i casi, molti datori di lavoro preferiscono scegliere la soluzione dell’indennizzo immediato in cambio di una maggiore certezza e del costo ridotto della procedura burocratica. 5.2 Gli effetti potenziali della riduzione del dualismo Un primo importante denominatore comune tra queste direzioni d’intervento risiede nella loro qualità di fattori generatori di riequilibrio tra due convenienze relative, da un lato l’uso dei contratti a termine, dall’altro il ricorso ai contratti a tempo indeterminato. Agendo in modo complementare tra loro, tali misure presentano dunque il vantaggio di incidere sul dualismo, riducendo i rischi e le incertezze che ancora scoraggiano le imprese a ricorrere ai contratti a tempo indeterminato. Dal punto di vista della distribuzione dei benefici tra i diversi lavoratori, i maggiori beneficiari sarebbero i giovani. I loro tassi di partecipazione al mercato del lavoro aumenterebbero, in particolare tra i lavoratori meno esperti e qualificati. Vi è un altro aspetto dei benefici attesi di queste misure che merita di essere richiamato ed è quello legato ad una “migliore” mobilità del lavoro che permetta di mobilitare i lavoratori verso le opportunità di lavoro più produttive. La riallocazione è un motore essenziale della crescita della produttività del sistema economico: permette di mobilizzare i fattori produttivi, tra cui il lavoro, da attività produttive meno efficienti e in declino verso attività più produttive e in espansione. Di recente sono stati eseguiti diversi studi per misurare in modo diretto l’impatto della mobilità del lavoro attraverso la creazione e distruzione di posti di lavoro da parte delle imprese e la nati-mortalità delle imprese stesse. Una conclusione importante di questi studi è che la riallocazione delle risorse disponibili tra attività in declino e in crescita esercita un impatto significativo sulla crescita economica e sulla produttività (Bartelsman, Haltiwanger e Scarpetta 2009; Haltiwanger, Scarpetta e Schweiger 2010; Martin e Scarpetta 2012; OECD 2009). Pur tuttavia, tEMA DI DISCUSSIOnE 129 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 130 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta l’efficacia della riallocazione varia grandemente tra paesi; essa è influenzabile dalla definizione dei meccanismi istituzionali che agiscono sugli spostamenti delle risorse disponibili. In taluni casi, l’effetto è sub-ottimale. In particolare, laddove la riallocazione opera nell’ambito di un mercato del lavoro marcatamente segmentato, l’accumulo dei contratti atipici incoraggia sì la realizzazione di tassi di mobilità molto elevati, ma al costo di una crescita modesta della produttività. Gli indicatori della riallocazione del lavoro in Italia non sono incoraggianti. Più precisamente emerge un chiaro quadro in cui l’Italia si colloca ben al di sotto delle pratiche internazionali, sia dal punto di vista della quantità che della qualità/efficienza della riallocazione. Le stime OCSE evidenziano per il nostro paese tassi d’assunzione e separazione che sono inferiori di circa il 25% rispetto alla media dei paesi OCSE. Di conseguenza, il numero dei lavoratori che trovano una nuova occupazione entro un anno dalla perdita del precedente impiego è molto inferiore a quello che si osserva nelle economie europee più reattive, meglio in grado cioè di aggiustare i loro modelli occupazionali in reazione ai cambiamenti nella struttura produttiva. Tra questi paesi, spicca l’esempio della Danimarca dove, non a caso, l’incidenza dei lavoratori a termine è attestata su livelli decisamente inferiori all’Italia, specie tra i giovani (figura 7, sopra). L’approfondimento delle sinergie con l’efficienza produttiva rafforza la percezione degli effetti benefici dell’eliminazione del dualismo. Dando maggiore certezza che le risorse disponibili possono essere orientate verso usi più produttivi, grazie a una riallocazione più efficace, la rimozione del dualismo sospinge l’accumulazione da parte delle imprese. Si può innestare una spirale virtuosa tra espansione delle imprese e crescita dell’occupazione. 5.3 Le complementarità con la razionalizzazione degli ammortizzatori sociali Dal punto di vista dei lavoratori, un mercato del lavoro dinamico si traduce in un ventaglio più ampio di opportunità occupazionali. In un 130 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 131 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia mercato dinamico una quota consistente delle separazioni è il risultato di scelte volontarie dei lavoratori che si orientano verso un’altra occupazione che si addice meglio alle loro qualifiche professionali e legittime aspirazioni. In generale, è proprio così che i lavoratori migliorano la loro posizione sotto il duplice aspetto della carriera e della retribuzione. Se questo autorizza a pensare che le riforme che hanno l’obiettivo di superare il dualismo dovrebbero avvantaggiare un numero elevato di lavoratori, tuttavia sarebbe eccessivamente pretenzioso attendersi che i guadagni siano distribuiti equamente. Non tutti cambiano lavoro volontariamente e per gli individui che vi sono costretti, perché licenziati, o incoraggiati, la ricerca di un nuovo posto può richiedere tempo. Quand’anche quest’ultima dovesse risolversi in un lasso temporale limitato, non necessariamente il nuovo posto potrebbe essere in grado di offrire le stesse condizioni retributive. Inoltre, durante un periodo di crisi economica, come l’attuale, il reperimento di un nuovo posto è reso ancora più arduo. Per di più, la congestione del mercato del lavoro accresce il rischio di incappare in una decurtazione del salario all’atto del reimpiego. Queste considerazioni spostano l’accento su un altro aspetto cruciale delle riforme del mercato del lavoro. È quello del sistema italiano degli ammortizzatori sociali, la cui analisi, nel confronto con gli altri paesi OCSE, è di grande aiuto per comprendere il potenziale di riforma in tale area. In Italia, il ruolo di protezione alle famiglie garantito dal sostegno del reddito, quale strumento per controbilanciare i rischi di perdite ingenti nei redditi da lavoro, è comparativamente modesto rispetto agli altri paesi. Le stime OCSE rivelano che in Italia cadute violente nel reddito da lavoro individuale, a seguito, ad esempio, della perdita del posto di lavoro, comportano effetti di riduzione del reddito disponibile delle famiglie assai maggiori che negli altri paesi OCSE (OECD 2011b). Per esempio, nel caso di una perdita di entità uguale o superiore al 20% del reddito da lavoro annualmente percepito dal soggetto, in Italia la corrispondente flessione del reddito familiare disponibile è pari al 68% per cento di tale tEMA DI DISCUSSIOnE 131 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 132 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 16 - Stima dei tassi di sostituzione netti calcolati per i beneficiari dei sussidi alla disoccupazione Nota I paesi sono in ordine crescente per generosità del sistema al 2009 (il tasso medio di sostituzione nei due anni). Le elaborazioni considerano sia i redditi in denaro (escludendo per esempio i contributi sanitari o previdenziali dei lavoratori a carico del datore di lavoro e i trasferimenti in natura per i disoccupati) sia le tasse che i contributi sociali e previdenziali obbligatori pagati dai lavoratori. Per concentrarsi sul ruolo dei sussidi alla disoccupazione, si assume l’assenza di sostegni alle famiglie a basso reddito sotto forma di assistenza sociale o benefici per l’abitazione. Non si tiene inoltre conto della liquidazione. Il tasso netto di sostituzione è calcolato per un lavoratore di 40 anni con una storia occupazionale “lunga” e ininterrotta. È una media calcolata su 24 mesi e quattro tipologie diverse di famiglia (single, coppie con un solo lavoratore, con e senza bambini) e due diversi livelli di reddito (67% e 100% della retribuzione media a tempo pieno). A causa dei tetti ai sussidi, i tassi netti di sostituzione sono minori per gli individui con guadagni sopra la media. Per maggiori dettagli cfr. OECD (2007a). Fonte OECD tax-benefit models (www.oecd.org/els/social/workincentives) perdita, contro una media di solo il 47% negli altri paesi OCSE. C’è dunque da attendersi che lo shock negativo sui redditi subito dai lavoratori italiani a seguito della crisi recente abbia accentuato i rischi di povertà, nonostante l’aumento dei fondi a disposizione della Cassa Integrazione e Guadagni abbia dato un apporto notevole al contenimento delle cadute occupazionali e delle perdite finanziarie per le famiglie degli aventi diritto. La figura 16 mostra che, anche dopo la decisione di espandere temporaneamente la capacità di portata finanziaria della Cassa, il sistema italiano degli ammortizzatori sociali resta uno dei meno generosi dell’area OCSE. 132 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 133 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia La valutazione delle caratteristiche intrinseche al sistema italiano, rende realistico aspettarsi che la razionalizzazione degli ammortizzatori sociali avvenga gradualmente. È infatti oggettivamente difficile, nelle attuali condizioni di bilancio pubblico che impongono controlli molto rigorosi della spesa sociale, pensare che la necessaria estensione della copertura del sistema alle ampie fasce di lavoratori ancora escluse possa realizzarsi in tempi brevi. Ciononostante, l’evidenza empirica disponibile suggerisce che la razionalizzazione degli ammortizzatori sociali non si pone necessariamente in antitesi con la riforma del mercato del lavoro. Occorre però garantire il rispetto di certe condizioni affinché si stabiliscano delle sinergie tra le due direzioni dell’intervento. In effetti, se l’accesso dei beneficiari è subordinato al rispetto di precise condizioni di re-ingresso nell’occupazione, intese a limitare i costi legati a comportamenti opportunistici, ed è coniugato a programmi di attivazione dei beneficiari che stimolino la ricerca attiva del lavoro e incoraggino la partecipazione a programmi di formazione, l’introduzione di ammortizzatori sociali a carattere universale e con una copertura adeguata del reddito non ostacola la riallocazione del lavoro (OCSE 2006, 2007 e 2010). Al contrario, ideata con l’obiettivo di facilitare il re-ingresso nell’occupazione, nel pieno rispetto delle competenze professionali, essa si traduce in maggiore efficienza produttiva, contribuendo a rafforzare i guadagni di produttività. 6. Il ruolo delle politiche redistributive L’accresciuta disparità delle retribuzioni ha fatto sì che un maggior numero di persone abbia dovuto attingere ai sistemi di protezione sociale per mantenere lo stesso livello di vita. Nel confronto internazionale, le imposte sui redditi e i sussidi sociali hanno un ruolo importante nella redistribuzione del reddito in Italia e leggermente superiore alla media dei paesi OCSE. Ciò viene suggerito dalla figura 17 che mostra che i redditi di mercato sono distribuiti in modi più ineguale dei redditi netti disponibili delle famiglie: contributi e prestazioni riducono le disetEMA DI DISCUSSIOnE 133 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 134 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta Fig. 17 - Confronto tra coefficienti di Gini per i redditi di mercato e i redditi netti delle famiglie Nota Ci si riferisce ad un anno tra il 2006 e il 2009. La media Ocse esclude Grecia, Ungheria, Irlanda, Messico e Turchia (nessuna informazione disponibile sul reddito di mercato). L’età da lavoro è definita come 18-65 anni. 1. Informazioni sui dati per Israele: http://dx.doi.org/10.1787/888932315602. Fonte OECD Database on Household Income Distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality) guaglianze di circa il 30%, contro una riduzione di circa un quarto per la media dei paesi OCSE. Va pur detto che per l’Italia la tendenza degli ultimi quindici anni è stata quella di un leggero aumento dell’efficacia della capacità del sistema impositivo e dei sussidi di stabilizzare la diseguaglianza. Imposte e sussidi compensavano circa la metà dell’aumento della diseguaglianza del reddito prima della metà degli anni ’90. Da allora essi hanno compensato una quota pari a circa il 65% dell’aumento. Tuttavia, questa dinamica va soppesata col fatto che nel caso particolare dell’Italia l’effetto di riduzione della diseguaglianza grazie alla spesa in servizi pubblici è diminuito nel corso dell’ultimo decennio (figura 18). Come in molti paesi OCSE, in Italia sanità, istruzione e servizi pubblici destinati alla salute contribuiscono a ridurre di circa un quinto 134 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 135 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Fig. 18 - Associazione tra variazione nella spesa pubblica in servizi e riduzione della diseguaglianza Nota Rispettivamente variazioni percentuali nella quota dei servizi pubblici sul totale del reddito disponibile, e della riduzione percentuale della diseguaglianza (coefficiente di Gini). Fonte OECD (2008a); Elaborazioni del Segretariato OCSE sul database OCSE/EU sull’impatto distributivo dei servizi in natura e dati di rilevazioni nazionali per i paesi non-EU la diseguaglianza di reddito, il che si confronta con una capacità di riduzione della diseguaglianza pari a circa un quarto nel 2000. La tendenza alla diminuzione della capacità redistributiva dei servizi rende il ruolo degli strumenti diretti della redistribuzione, attraverso le imposte e i trasferimenti, appunto, ancora più importante da considerare nel caso italiano. In una situazione di crescita modesta è certo difficile trovare nuove risorse da destinare ai fini redistributivi. Allo stesso tempo, gli spazi di manovra per un aumento della spesa rivolta alle famiglie risentono al momento dei vincoli imposti dal processo di consolidamento delle finanze pubbliche. Anche in un quadro così difficile, indicazioni utili per l’indirizzo delle politiche sociali nel rispetto dei vincoli di bilancio sono offerte da alcune analisi condotte recentemente dalla Banca tEMA DI DISCUSSIOnE 135 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 136 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta d’Italia. Nell’attuale sistema italiano di imposte e trasferimenti, questi studi rilevano la persistenza di meccanismi di disincentivo all’offerta di lavoro del secondo percettore di reddito del nucleo familiare, in genere la donna. Da qui, una proposta concreta che potrebbe aiutare a risolvere il conflitto tra le esigenze di sostenere il reddito delle famiglie con carichi familiari e l’ampliamento dell’occupazione femminile potrebbe consistere nella trasformazione, in un’ottica di parità di gettito, delle detrazioni per coniuge a carico in un credito d’imposta sulle basse retribuzioni. Schemi di questo tipo, ispirati dall’idea di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro dei gruppi sottorappresentati, come in questo caso le donne sposate, potrebbero essere disegnati traendo ispirazione da analoghi strumenti già sperimentati in altri paesi (Colonna e Marcassa 2012), ad esempio negli Stati Uniti (Earned Income Tax Credit, EITC) e nel Regno Unito (Working Tax Credit, WTC). Essi favorirebbero l’occupazione dei lavoratori meno qualificati, con effetti positivi sulla povertà. Anche dal lato delle entrate è possibile accrescere l’efficacia redistributiva, senza compromettere le forze della crescita. In particolare, la quota crescente di reddito per i più ricchi suggerisce che la loro capacità contributiva è aumentata, e in alcuni paesi pagano già un’aliquota d’imposta sul reddito più alta rispetto al passato. In tale contesto, molti governi stanno riesaminando il ruolo redistributivo della fiscalità onde assicurare che i soggetti più abbienti contribuiscano in modo più equo al pagamento degli oneri impositivi. Tale rivalutazione non si limita ad aumentare le aliquote delle tasse marginali sul reddito, una delle misure probabilmente meno efficaci per aumentare il gettito fiscale, ma comprende anche un miglioramento del rispetto degli adempimenti tributari mediante la lotta all’evasione, la soppressione delle agevolazioni ed esenzioni che favoriscono in modo sproporzionato i gruppi a reddito più elevato e la rivalutazione del ruolo delle imposte su ogni forma di proprietà e di ricchezza (ivi comprese le donazioni). 136 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 137 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia 7. Riflessioni conclusive L’Italia è un paese con una diseguaglianza dei redditi elevata e una povertà diffusa. L’aumento della diseguaglianza nella distribuzione dei redditi delle famiglie è avvenuto in gran parte nella prima metà degli anni ’90. Da allora si sono riscontrati due fenomeni contrastanti; se da un lato si sono fatti progressi sul fronte occupazionale, con un aumento dei tassi di occupazione dei gruppi generalmente sotto rappresentati come le donne, i giovani e i lavoratori a bassa qualifica, dall’altro si è osservato un aumento del dualismo sul mercato del lavoro in termini di stabilità del posto di lavoro e remunerazione. A ciò si aggiunge la forte trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze. Se da un lato le riforme del mercato del lavoro degli ultimi quindici anni hanno favorito l’emersione del sommerso, dall’altro la pressione competitiva sui mercati, un progresso tecnico skill-biased e persistenti rigidità sul mercato del lavoro hanno concorso ad aumentare la sua segmentazione tra gli occupati, con forti conseguenze negative sulla distribuzione dei redditi delle famiglie e sulla mobilità sociale. Inoltre, la recente crisi economica ha mostrato chiaramente la forte vulnerabilità dei lavoratori con contratti atipici alle fluttuazioni di domanda: le perdite occupazionali si sono concentrate tra questi lavoratori contribuendo ad aumentare ulteriormente la segmentazione del mercato del lavoro. Coniugare la necessaria flessibilità sul mercato del lavoro con una maggiore protezione dei lavoratori richiede una riforma complessiva del mercato del lavoro supportata da misure strutturali volte a promuovere la crescita economica. Le riforme intraprese dall’attuale governo sembrano orientarsi in questa direzione. Se da un lato è necessario combattere gli abusi legati all’utilizzo improprio dei contratti atipici, rafforzando i controlli sul ricorso a tali contratti e agendo sul differenziale tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore, cioè il cuneo fiscale, dall’altra è anche importante promuovere l’apprendistato come meccanismo di entrata nel mercato tEMA DI DISCUSSIOnE 137 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 138 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta del lavoro per i giovani. Allo stesso tempo, occorre anche riconsiderare la legislazione in materia di licenziamenti individuali e collettivi per i lavoratori con contratti a durata indeterminata riducendo l’attuale incertezza rispetto ai tempi e ai costi dei licenziamenti che scoraggiano la creazione di posti di lavoro permanenti e non garantiscono necessariamente i lavoratori. L’introduzione di un contratto unico con protezione che aumenta con la durata del contratto, ampiamente discusso nella letteratura in Italia e in altri paesi europei, permetterebbe di affrontare questi temi alla radice, ma le opzioni incluse nella proposta di riforma in discussione sono dei passi significativi. Allo stesso tempo, è urgente in Italia operare sugli ammortizzatori sociali, con l’introduzione di un sussidio universale, anche se condizionato ad una ricerca attiva del lavoro e alla disponibilità a partecipare a programmi per il reinserimento e la formazione. Queste necessarie riforme del mercato del lavoro sono ancora più urgenti nel contesto attuale e a seguito delle altre riforme strutturali recentemente intraprese, tra cui in particolare la riforma del regime previdenziale e le liberalizzazioni dei mercati, soprattutto dei servizi. Questi cambiamenti in rapida sequenza rafforzano, se possibile, l’argomento a favore di una riforma complessiva del mercato del lavoro. In effetti, la velocità del passaggio al metodo contributivo per tutti (dal 1° gennaio 2012) ha accentuato l’importanza di rendere praticabile la realizzazione di carriere il più possibile continue e di qualità, onde facilitare l’accumulo di diritti sufficienti al recepimento di pensioni adeguate. Allo stesso tempo, non è da escludere che la maggiore concorrenza sui mercati dei beni e dei servizi, pur comportando l’innalzamento dei livelli produttivi e occupazionali dei settori direttamente coinvolti, potrebbe anche contribuire ad acutizzare i differenziali salariali e occupazionali. Pertanto, oltre che dalle pressioni dovute alla dinamica congiunturale, la necessità degli interventi in atto per il completamento del mercato del lavoro è resa ancora più acuta alla luce dei possibili effetti attesi delle concomitanti riforme strutturali. 138 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 139 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Bibliografia ATKINSON A.B., RAINWATER L., SMEEDING T.M. (1995), Income Distribution in OECD Countries: The Evidence from the Luxembourg Income Study (LIS), «OECD Social Policy Studies», n. 18, October, OECD Publishing, Paris. BALDINI M., TOSO S. (2005), Diseguaglianza, povertà e politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna. BARTELSMAN E., HALTIWANGER J., SCARPETTA S. (2009). Measuring and analyzing cross-country differences in firm dynamics, in T. Dunne, J. B. Jensen, e M. J. Roberts (Eds.), Producer dynamics. Chicago: University of Chicago Press for the NBER. BASSANINI A., DUVAL R. 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Da allora, l’OCSE garantisce la raccolta di informazioni standardizzate sulle diseguaglianze con cadenza regolare, approssimativamente ogni cinque anni. Più recentemente, nel 2008, la pubblicazione Growing Unequal? Ha documentato gli aspetti chiave che contraddistinguono le diseguaglianze nei 30 paesi membri dell’OCSE. Una successiva pubblicazione (OECD 2010a) ha esteso la metodologia di Growing Unequal? alle principali economie emergenti: Brasile, China, India e Sud Africa. L’ultimo contributo dell’OCSE in questo campo, Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising, offre un’analisi approfondita delle possibili cause della crescita delle diseguaglianze nel quarto di secolo antecedente la crisi finanziaria. Il rapporto si concentra, in particolare sul ruolo che quattro grandi aree d’influenza hanno avuto sulla distribuzione dei redditi da lavoro dei lavoratori a tempo pieno: la globalizzazione, il progresso tecnologico, le scelte in materia di politica economica e il capitale umano. Come riportato nella tabella che segue, ciascun fattore incide sul mercato del lavoro operando su due leve 142 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 143 Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia Sintesi delle principali determinanti delle disparità nella distribuzione dei salari per la popolazione in età lavorativa EFFETTO DI: OCCUPAZIONE DISPERSIONE DEI SALARI STIMA DELL’EFFETTO TOTALE Integrazione commerciale = = = Investimenti diretti esteri (FDI) = = = Progresso tecnologico = + + Copertura sindacale decrescente + + =/- Deregolamentazione del mercato (prodotti) + + +/ = / - Protezione più debole per i lavoratori con contratto a termine = + + Cuneo fiscale ridotto + + =/- Indennità di disoccupazione diminuite per lavoratori a basso reddito + + +/=/- Capitale umano (aumento nei livelli di istruzione up-skilling) + - — Fonte “Divided We Stand, Why Inequality Keeps Rising”, OECD, Paris, 2011 distinte, la variazione dei livelli occupazionali (prima colonna) e/o dei salari (la seconda). L’effetto netto risultante dall’azione combinata delle due leve è riportato nella terza colonna.1 I principali risultati sono sintetizzabili come segue: • La globalizzazione, che ha interessato tutti i paesi OCSE, sostenuta dalla riduzione delle barriere al commercio internazionale di beni e servizi e dalla rimozione dei controlli sui mercati dei capitali finanziari e sugli investimenti diretti dall’estero, non ha svolto un ruolo decisivo nella crescente dispersione dei salari dei paesi OCSE. In altre parole, la situa1 L’esame delle cause soggiacenti la variazione delle disparità salariali all’interno dei paesi è stato condotto attraverso analisi econometrica su dati sezionali e in serie storica usando uno stimatore a effetti fissi su un campione di 22 paesi OCSE dai primi anni ’80 al 2008. Ai fini del calcolo dell’effetto aggregato dei due effetti distinti sull’occupazione e sulla dispersione dei salari sono state fatte due ipotesi con riguardo al reddito potenziale degli individui disoccupati. nella prima è stato imputato un reddito pari a zero, mentre nella seconda si è fatta una stima del costo opportunità del lavoro, pari alla metà del salario mediano. tEMA DI DISCUSSIOnE 143 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 144 Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta • • • • zione attuale riflette, né più né meno, il funzionamento prevedibile delle regole del mercato: esse operano in modo efficiente, almeno fino a quando si tratta di accumulare e concentrare capitale e ricchezza. Il cambiamento tecnologico non ha anch’esso avuto un effetto significativo sull’aumento dei differenziali salariali nel loro insieme, anche se ha contribuito ad un aumento dei differenziali tra i salari mediani e quelli più elevati. In particolare, i lavoratori più qualificati hanno beneficiato in misura maggiore rispetto agli altri dei progressi compiuti nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Occorre però rilevare che se l’impatto diretto della globalizzazione e del progresso tecnico sui differenziali salariali è stato limitato, questi fattori hanno esercitato un significativo ruolo indiretto; in particolare una forte pressione sui decisori pubblici per riforme strutturali dei mercati dei beni e servizi così come del mercato del lavoro volte ad aumentare la concorrenza e l’adattabilità dei mercati per poter rispondere meglio ai cambiamenti legati alla globalizzazione e progresso tecnico. Se da un lato queste riforme strutturali hanno indubbiamente contribuito a promuovere la crescita economica e l’occupazione, esse hanno anche determinato un aumento delle disparità salariali tra gli occupati. Più in dettaglio, se da un lato i tassi di occupazione (occupati su popolazione 15-64 in età lavorativa) sono aumentati, soprattutto tra i gruppi meno rappresentati sul mercato – giovani, donne, lavoratori a basse qualifiche – nello stesso tempo la maggiore presenza di lavoratori a basso reddito ha condotto all’ampliamento della distribuzione dei salari. Il fattore principale che ha contrastato – almeno in parte – l’aumento tendenziale delle disparità salariali è stato l’investimento in capitale umano. La quota di lavoratori con qualifiche intermedie e superiori è aumentata in tutti i paesi OCSE e ciò ha contribuito a contenere le disparità salariali risultanti dal progresso tecnologico, dalle riforme normative e dalle modifiche istituzionali. Quest’ultimo effetto si è manifestato attraverso il duplice volano della maggiore occupazione e della riduzione della dispersione salariale. 144 ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 145 Studi e ricerche EI_01012_Goglio_pp.99-146 01/06/12 19.26 Pagina 146 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 147 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 Francesca Bartoli Responsabile Family & SME Analysis, UniCredit 1. Introduzione L’attuale scenario economico non è incoraggiante, e i pericoli di progressiva perdita di competitività del sistema italiano sul mercato globale sono concreti. Un limite aggiuntivo è posto dall’accresciuta importanza della competitività dei sistemi territoriali come fattore chiave dello sviluppo. Infatti, la globalizzazione spinge verso una competizione tra sistemi territoriali, dato che la caduta di barriere e distanze rende potenzialmente accessibile tutto il mondo, moltiplicando la mobilità dei fattori produttivi. Ogni sistema territoriale si trova dunque a competere con le omologhe realtà all’estero per attrarre le risorse umane e finanziarie che si fanno sempre più scarse. Le trasformazioni in atto rendono più complessa la definizione di competitività e più articolato l’insieme dei fattori necessari per misurarla. In particolare, il fenomeno della globalizzazione delle filiere produttive suggerisce la necessità di sviluppare nuovi indicatori di competitività, non più basati su soli dati settoriali aggregati, ma che piuttosto combinino informazioni territoriali con dati a livello di impresa (Quintieri 2006). Il panorama italiano relativo alle performance d’impresa si presenta variegato, tanto a livello intersettoriale quanto intra-settoriale. Dal 2006, il Rapporto UniCredit sulle piccole imprese offre annualmente uno spaccato sulla realtà produttiva italiana, forte di un’indagine sottoposta a oltre 6.000 piccoli imprenditori clienti. Quest’anno l’analisi si arricchisce di un ulteriore elemento: dato il focus sulle forme di aggregazione tra imprese, è stata condotta un’indagine ad hoc su circa 1.500 studi e ricerche 147 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 148 Francesca Bartoli medie imprese manifatturiere1. La ricchezza delle informazioni raccolte ci consente di andare oltre i dati strutturali esaminati nelle statistiche pubbliche, ricavando dalla voce dei protagonisti del “fare” impresa rilevanti aspetti qualitativi e comportamentali altrimenti impossibili da cogliere in modo sistematico. Nello specifico, le interviste, condotte tramite questionario, riguardavano: le caratteristiche strutturali delle imprese; le strategie imprenditoriali (in particolare, innovazione e internazionalizzazione); le caratteristiche della produzione (in particolare, l’appartenenza a filiere produttive e i rapporti di subfornitura) le forme di collaborazione e aggregazione tra imprese; gli aspetti di credito e struttura finanziaria; il rapporto banca-impresa. Partendo dai risultati di indagine, il presente lavoro si concentra sull’attività di innovazione e internazionalizzazione nelle PMI, due aspetti fondamentali, dato che capacità innovativa e capacità di intercettare le dinamiche della domanda estera rappresentano le leve strategiche principali per tornare a crescere nel medio-lungo periodo a ritmi più sostenuti. Relativamente ai due temi selezionati, vengono dunque messe a confronto le performance delle piccole e medie imprese manifatturiere. 2. L’innovazione In conformità con la rilevazione europea sull’innovazione coordinata dall’Eurostat (Community Innovation Survey), l’attività di innovazione delle piccole e medie imprese manifatturiere viene analizzata pren1. L’indagine ai piccoli imprenditori è basata su 6.025 interviste cAti (computer Assisted telephone interview) appartenenti a tutti i settori dell’economia (di cui, 540 manifatturiere), distribuite su tutto il territorio nazionale a clienti unicredit individuati secondo uno schema che riconduce il campione alla popolazione delle imprese che esso rappresenta. L’indagine sulle medie imprese manifatturiere è invece basata su 1.408 interviste cAti a imprese clienti e non clienti, anch’esse stratificate a livello territoriale. in entrambi i casi, le interviste sono state somministrate da doxa nel periodo giugnosettembre 2011. Le imprese sono classificate sulla base del fatturato: da 0 a 5 milioni di euro per le piccole imprese, da 5 a 50 milioni di euro per le medie imprese. 148 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 149 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 dendo in considerazione non solo la componente tecnologica, ovvero l’innovazione di prodotto o servizio e l’innovazione di processo, ma anche quanto di innovativo introdotto dall’impresa non necessariamente legato all’utilizzo di nuove tecnologie, ovvero l’innovazione organizzativa o di marketing. Relativamente all’innovazione di prodotto o servizio e di processo, al di là di una specifica caratterizzazione in termini qualitativi o di impatto sul fatturato e sull’attività di impresa, si considera inoltre l’attività brevettuale ad esse collegata, e il ruolo della collaborazione e cooperazione con soggetti pubblici e privati. Chiude il paragrafo l’analisi dei principali fattori di ostacolo all’attività di innovazione, intesa in senso lato. La forma più radicale di innovazione è quella costituita dall’introduzione di un prodotto o servizio tecnologicamente nuovo (o significativamente migliorato) rispetto a quelli precedentemente disponibili, in termini di caratteristiche tecniche e funzionali, prestazioni, facilità d’uso, ecc., esclusa la vendita di nuovi prodotti o servizi acquistati da altre imprese. Nel triennio 2009-2011, poco meno del 5% delle imprese manifatturiere intervistate ha introdotto un prodotto o un servizio tecnologicamente nuovo, senza particolari differenze tra piccoli e medi operatori (tabella 1). Il miglioramento significativo di un bene o servizio già esistente è stato invece relativamente più diffuso tra le imprese di dimensione maggiore (18,7% delle risposte, valore che scende al 17,6% per le più piccole). C’è poi una parte di intervistati – ancora più rilevante di quelle sopra citate – che ha sviluppato entrambe le forme di innovazione di prodotto: si va dal 32,8% degli operatori industriali di dimensioni minori al 48,4% di quelli più grandi. Tra questi ultimi – come atteso – l’attività di innovazione di prodotto è stata complessivamente più diffusa (71,8% dei rispondenti, a fronte di un 55,2% registrato presso le piccole aziende manifatturiere). Nello specifico (tabella 2), l’innovatività riguarda prevalentemente il mercato di riferimento (64,4% delle risposte per le medie e 58,7% per le piccole), ma non è comunque trascurabile il numero di coloro studi e ricerche 149 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 150 Francesca Bartoli Tab. 1 - Innovazione di prodotto o servizio nel triennio 2009-2011 Piccole imprese Medie Imprese Prodotti o servizi tecnologicamente nuovi Prodotti o servizi tecnologicamente pre-esistenti ma significativamente migliorati 4,8 4,7 17,6 18,7 Entrambe le tipologie di innovazione di prodotto 32,8 48,4 Nessuna innovazione di prodotto 44,8 28,2 Totale rispondenti 540 1.408 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì Tab. 2 - Qualità dell’innovazione di prodotto o servizio nel triennio 2009-2011 Piccole imprese Prodotti o servizi tecnologicamente nuovi (o significativamente migliorati) per il mercato di riferimento 58,7 Prodotti o servizi tecnologicamente nuovi (o significativamente migliorati) solo per l’impresa 34,6 Medie Imprese 64,4 29,1 Non sa - non indica 6,7 6,5 Totale rispondenti 298 1.011 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple, percentuale di risposte sì; domanda posta a chi ha compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto o servizio negli ultimi tre anni (298 piccole imprese e 1.011 medie imprese) che hanno ampliato l’offerta della propria impresa puntando su prodotti o servizi già esistenti, specie nel gruppo piccole imprese (34,6%, contro il 29,1% delle medie). Minoritaria la quota di intervistati che dichiara che l’innovatività di prodotto non è legata né al mercato di riferimento né all’impresa in sé e per sé (6,5% per le medie aziende manifatturiere, mentre i piccoli operatori sono il 6,7% del totale). Anche in termini di fatturato realizzato, risulta significativa la componente di attività di innovazione di prodotto o di servizio legata al mercato di riferimento (tabella 3). Infatti, posto pari a 100 il fatturato realizzato nel 2010, gli intervistati dichiarano che in media oltre il 45% è generato da prodotti o servizi “effettivamente” nuovi (o significativamente migliorati), e questo indipendentemente dalla dimensione di impresa. Diversa è invece l’importanza del fatturato che proviene dagli altri beni, specie per le imprese più grandi: rilevano soprattutto i 150 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 151 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 Tab. 3 - Composizione percentuale del fatturato realizzato nel 2010 distinguendo i prodotti/servizi innovativi dagli altri beni Piccole imprese Prodotti o servizi nuovi (o significativamente migliorati) per il mercato di riferimento 45,9 Prodotti o servizi nuovi (o significativamente migliorati) solo per l’impresa 26,1 Prodotti o servizi non modificati o modificati solo marginalmente (compresa la vendita di nuovi prodotti o servizi acquistati da altre imprese) 28,0 Totale rispondenti Medie Imprese 45,6 23,5 30,9 273 816 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota domanda posta a chi ha compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto o servizio negli ultimi tre anni (298 piccole imprese e 1.011 medie imprese); valori medi, calcolati sulla base degli effettivi rispondenti alla domanda (273 piccole imprese e 816 medie imprese) Tab. 4 - Nel triennio 2009-2011 ha modificato il proprio settore prevalente di produzione? Piccole imprese Medie Imprese 16,3 13,1 4,4 2,8 No 79,3 84,1 Totale rispondenti 540 1.408 Sì, continuando l’attività anche nel precedente settore Sì, abbandonando il precedente settore di attività Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota valori percentuali prodotti o servizi non modificati o modificati solo marginalmente, compresa la vendita di nuovi prodotti o servizi acquistati da altre imprese (per una quota media del 30,9% per le medie e del 28% per le piccole). L’importanza dell’innovazione di prodotto svolta negli ultimi tre anni, testimoniata dai risultati sin qui commentati, non è tuttavia associata ad un contemporaneo cambiamento nel settore prevalente di attività (tabella 4). Anzi, una maggiore stabilità si riscontra proprio tra le imprese che più hanno innovato, ossia le medie (84,1% degli intervistati). Tra coloro che dichiarano di aver modificato il settore di attività prevalente si registra una maggioranza di intervistati che hanno mantenuto anche l’attività nel settore di provenienza, fenomeno più accentuato per gli operatori di piccola dimensione (16,3%) – tra le medie studi e ricerche 151 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 152 Francesca Bartoli imprese dell’industria invece la quota si attesta al 13,1%. Minoritaria invece la quota di aziende che hanno abbandonato il precedente settore di produzione, più risicata tra gli intervistati di dimensioni più grandi (2,8% contro il 4,4% delle piccole). Una seconda forma di innovazione in ambito aziendale è quella di processo, che consiste nell’introduzione di processi o modalità di produzione tecnologicamente nuovi (o significativamente migliorati) rispetto a quelli adottati dall’impresa, in termini di caratteristiche tecniche e funzionali, prestazioni, facilità d’uso, ecc. Come nel caso dell’innovazione di prodotto, nel triennio 2009-2011 si osserva una maggiore diffusione tra le medie imprese: quasi il 75% degli operatori dichiara di aver effettuato almeno una tra le tipologie di innovazione di processo indicate in tabella 5. Tuttavia, anche gran parte delle piccole imprese manifatturiere sono impegnate su questo fronte (62%), che di fatto risulta essere quello su cui esse sono più attive. Alcune tipologie di innovazione risultano relativamente più diffuse tra le medie imprese: quella relativa ai processi di produzione riguarda oltre la metà degli intervistati (54,3%), sebbene rimanga l’attività più seguita anche dagli operatori più piccoli (36,9%). Anche negli ambiti dei sistemi amministrativi e informatici e della contabilità, così come in quelli dei sistemi di logistica e dei metodi di distribuzione o fornitura, l’attività innovativa delle medie imprese è stata più intensa (rispettivamente, 48,4% e 34,6%) di quella svolta dagli operatori di dimensioni minori (rispettivamente, 35,9% e 21,5%). Le innovazioni nella gestione degli acquisti rivestono invece un’importanza simile in entrambi i gruppi di intervistati (30,7% per le piccole, 35,2% per le medie). Non si riscontrano sostanziali differenze anche sul fronte delle innovazioni nell’attività di manutenzione e supporto, compresa l’introduzione di servizi post-vendita (per esempio l’invio di tecnici ed esperti), a cui fanno riferimento il 28,9% delle piccole imprese e il 30,2% delle medie. Considerando l’attività di innovazione nel suo complesso (ovvero, mettendo insieme le informazioni su innovazione di prodotto e innova152 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 153 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 Tab. 5 - Innovazione di processo nel triennio 2009-2011 Piccole imprese Medie Imprese Innovazioni nei processi di produzione Innovazioni nella gestione dei sistemi amministrativi e informatici, contabilità 36,9 54,3 35,9 48,4 Innovazioni nella gestione degli acquisti Innovazioni nell’attività di manutenzione e supporto, compresa l’introduzione di servizi post-vendita (es. invio di tecnici ed esperti) Innovazioni nei sistemi di logistica, metodi di distribuzione o fornitura 30,7 35,2 28,9 30,2 21,5 34,6 Nessuna di queste 38,0 25,7 Totale rispondenti 540 1.408 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì zione di processo), spicca nuovamente la differenza tra imprese di dimensioni diverse (tabella 6). Tra le più grandi, solo il 12,8% degli intervistati non ha effettuato alcuna tipologia di innovazione tra quelle indicate in precedenza, a fronte di una percentuale quasi doppia (25,5%) riscontrata presso gli operatori industriali di minori dimensioni. Tra chi ha invece dichiarato di aver introdotto solo innovazioni di prodotto o servizio non si segnalano forti diversità in termini di dimensione (poco più del 12% in entrambi i campioni). Non così per l’innovazione di processo, la cui diffusione caratterizza maggiormente le piccole (19,3%) rispetto alle medie (15,4%). Da sottolineare come la maggior parte degli intervistati dichiari di aver svolto innovazione sia di prodotto che di processo, con un’intensità che aumenta al crescere della dimensione di impresa: quasi il 60% per le medie, poco meno del 43% per le piccole. I risultati sull’attività brevettuale confermano quanto appena indicato2. Nel periodo 2009-2011, ben il 24% delle medie imprese manifatturiere che hanno introdotto innovazioni di prodotto/servizio e/o 2. il brevetto costituisce una forma di tutela legale che si applica a scoperte nuove, non ovvie e utili per scongiurare il rischio che qualcuno le utilizzi durante i venti anni di validità dello stesso. esso conferisci espliciti diritti di sfruttamento esclusivi al titolare dell’innovazione. studi e ricerche 153 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 154 Francesca Bartoli Tab. 6 - Innovazione di prodotto e processo nel triennio 2009-2011 Piccole imprese Medie Imprese Solo innovazione di prodotto o servizio 12,4 12,9 Solo innovazione di processo 19,3 15,4 Sia innovazione di prodotto che di processo 42,8 58,9 Né innovazione di prodotto né innovazione di processo 25,5 12,8 Totale rispondenti 540 1.408 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì Tab. 7 - Distribuzione dei brevetti depositati per tipologia di attività di innovazione nel triennio 2009-2011 Piccole imprese Medie Imprese Solo innovazione di prodotto o servizio 6,0 22,5 Solo innovazione di processo 3,8 6,5 12,1 29,0 36 295 Sia innovazione di prodotto che di processo Totale rispondenti Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì; domanda posta a chi ha depositato un brevetto (36 piccole imprese e 295 medie imprese) di processo ha depositato anche dei brevetti. Tale quota crolla al 9% per le piccole. Inoltre, analizzando le risposte in base alla tipologia di innovazione introdotta, emergono altre peculiarità che contraddistinguono realtà di dimensione diversa (tabella 7). Tra le imprese manifatturiere che hanno depositato brevetti nel periodo in esame sono più numerose quelle che hanno svolto un’attività innovativa sia di prodotto che di processo. Tuttavia, l’attività brevettuale è più diffusa tra le aziende di maggiori dimensioni: il 29% delle medie imprese ha depositato brevetti nel periodo considerato, percentuale che crolla al 12,1% tra gli operatori più piccoli. La distanza tra piccole e medie imprese si accentua se il brevetto è stato depositato da chi ha effettuato la sola innovazione di prodotto o servizio: nel primo caso si tratta del 6% del totale, dato più che triplicato nel secondo segmento (22,5%). Anche per l’attività brevettuale associata all’innovazione di processo si osserva una 154 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 155 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 Tab. 8 - Principale partner con cui l’impresa ha sviluppato rapporti o accordi di cooperazione per favorire l’attività di innovazione Piccole imprese Medie Imprese Imprese clienti 24,9 17,8 Fornitori 20,6 20,4 Altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 9,4 6,9 Associazioni di categoria 6,5 3,9 Centri di ricerca / università 4,0 10,7 Altre imprese concorrenti Nessuno, l’innovazione è stata sviluppata interamente all’interno dell’azienda 3,0 1,4 31,6 38,9 Totale rispondenti 402 1.228 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota valori percentuali; domanda posta a chi ha compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto o di processo (402 piccole imprese e 1228 medie imprese) maggiore diffusione tra gli operatori di medie dimensioni (6,5% delle risposte) che tra quelli più piccoli (3,8%). La maggiore dimensione di impresa non è solo associata ad un’attività innovativa più diffusa, ma si accompagna anche ad una maggiore autonomia nel promuovere la stessa. Infatti, mentre tra le medie aziende la percentuale degli intervistati che ha prodotto internamente innovazioni di prodotto/servizio e/o di processo sfiora il 40%, tra i piccoli operatori tale quota non raggiunge il 32% (tabella 8). Risultano invece fondamentali, per le imprese che svolgono l’attività di innovazione grazie a rapporti ed accordi di collaborazione, i principali interlocutori commerciali, ossia i fornitori e le altre aziende clienti. In particolare, i fornitori sono più diffusamente citati come principali partner dalle medie imprese (20,4% del totale di chi ha effettuato almeno una attività innovativa). Tra le piccole imprese manifatturiere appaiono più importanti i rapporti con le imprese clienti (24,9%), a cui seguono quelli con i fornitori (20,6%). In generale, nelle realtà più piccole rilevano anche i rapporti e gli accordi con le altre imprese appartenenti allo stesso gruppo, soggetti a cui fa riferimento quale partner principale per l’attività di innovazione il 9,4% degli operatori. Decisamente più frequenti per le medie imprese i rapporti e studi e ricerche 155 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 156 Francesca Bartoli Tab. 9 - Collocazione del partner principale con cui l’impresa ha sviluppato rapporti o accordi di cooperazione per favorire l’attività di innovazione Piccole imprese Medie Imprese Nella provincia in cui ha sede amministrativa l’impresa 42,2 25,3 Nella regione in cui ha sede amministrativa l’impresa 23,6 25,5 Sul restante territorio nazionale 27,6 35,3 6,6 13,9 275 750 All’estero Totale rispondenti Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota valori percentuali; domanda posta solo a coloro che hanno compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto o di processo e che hanno sviluppato accordi con partner esterni all’impresa (275 piccole imprese e 750 medie imprese) gli accordi di collaborazione con i centri di ricerca e le università (10,7%). Come osservato in precedenza per altri aspetti dell’attività innovativa, anche in questo ambito si osserva una divaricazione tra piccole e medie imprese: sono poche, infatti, le aziende di dimensioni minori che dichiarano di collaborare in via preferenziale con il mondo della ricerca in senso stretto (4,0% degli intervistati). Anche l’analisi relativa alla localizzazione geografica del principale partner per l’attività innovativa segnala una demarcazione tra piccole e medie imprese. Come illustrato nella tabella 9, le realtà di dimensioni minori privilegiano i rapporti di prossimità: per il 42,2% di esse il partner principale nell’attività innovativa è collocato nelle medesima provincia, mentre tale situazione si riscontra solo per poco più di un quarto degli operatori più grandi. Di contro, sono le medie imprese manifatturiere che più diffusamente intrattengono rapporti di cooperazione per l’innovazione con interlocutori esteri (13,9% dei rispondenti), quota che si dimezza tra le aziende del settore di dimensione minore (6,6%). Per buona parte degli operatori più grandi, inoltre, il partner principale nell’attività di innovazione è collocato sul territorio nazionale, al di fuori della regione in cui ha sede l’azienda (35,3%), mentre tale dimensione geografica della collaborazione non riguarda nemmeno un terzo degli operatori più piccoli (27,6%), sebbene risulti essere per essi la seconda per importanza. 156 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 157 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 Tab. 10 - Grado di importanza delle fonti di informazione per l’attività di innovazione di prodotto/servizio e/o di processo Piccole imprese Medie Imprese Imprese clienti 23,4 18,9 Fonti interne all’impresa 20,9 16,9 Fornitori 20,9 46,4 Fiere, conferenze, pubblicazioni di settore -22,9 -7,7 Associazioni di categoria -30,8 -27,2 Altre imprese appartenenti allo stesso gruppo -31,8 -30,0 Altre imprese concorrenti -35,3 -33,4 Centri di ricerca / università -69,2 -40,4 402 1.228 Totale rispondenti Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota saldo percentuale, dato dalla differenza tra la somma delle modalità di risposta “alto” e “medio” e la somma delle modalità di risposta “basso” e “nullo”; domanda posta solo a coloro che hanno compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto o di processo (402 piccole imprese e 1.228 medie imprese) Nella tabella 10 sono riportate le principali fonti di informazione a cui un’impresa può ricorrere per svolgere l’attività di innovazione. Un primo dato che spicca è che tre sono i canali di primaria importanza per le imprese, a prescindere dal settore di appartenenza o dalla dimensione dell’azienda: fornitori, imprese clienti e fonti interne. Il grado di importanza è tuttavia diverso tra i due aggregati. Gli operatori più piccoli assegnano grande rilevanza ai fornitori (saldo percentuale pari al 23,4%3), mentre nelle medie imprese manifatturiere giocano un ruolo fondamentale le fonti interne (46,4%). Si segnala invece in senso negativo il contributo proveniente da centri di ricerca e università, dato che indica il prevalere di chi dichiara che questi istituti hanno scarsa o nulla importanza per l’attività innovativa. Il saldo percentuale riferito alle medie imprese manifatturiere è pari al -40,4%, mentre è ancora più netto il giudizio degli operatori industriali di dimensioni minori, per i quali centri di ricerca e università si collocano all’ultimo posto nella 3. il saldo percentuale è calcolato come differenza tra la somma delle modalità di risposta “alto” e “medio” e la somma delle modalità di risposta “basso” e “nullo”. studi e ricerche 157 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 158 Francesca Bartoli Tab. 11 - Innovazione organizzativa o di marketing nel triennio 2009-2011 Piccole imprese Introduzione di nuove modalità di organizzazione del lavoro (definizione di nuove unità divisionali o operative, riduzione dei livelli gerarchici, decentramento delle decisioni aziendali) 32,4 Modifiche estetiche dei prodotti, incluso il confezionamento Introduzione di cambiamenti nelle relazioni con altre imprese (accordi produttivi e commerciali, partnership, accordi di subfornitura, esternalizzazione) Adozione di nuove (o significativamente migliorate) pratiche di commercializzazione o distribuzione dei prodotti o servizi, quali commercio elettronico, franchising, vendite dirette, licenze di distribuzione Adozione di nuove (o significativamente migliorate) tecniche manageriali per potenziare l’uso e lo scambio di informazioni, conoscenza e competenze tecniche e lavorative all’interno dell’impresa Introduzione di cambiamenti nelle relazioni con istituzioni pubbliche (accordi produttivi e commerciali, partnership, accordi di subfornitura, esternalizzazione) Medie Imprese 43,5 25,6 40,6 25,4 24,7 23,3 28,1 22,6 33,0 9,1 12,7 Non sa - non indica 42,2 30,3 Totale rispondenti 540 1.408 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì lista dei partner principali per l’innovazione (-69,2%). Insomma, il canale di trasmissione tra saperi industriali e saperi accademici mostra una volta di più una dimensione insufficiente e, al tempo stesso, un potenziale da sviluppare nell’interesse reciproco. Risulta poco rilevante anche il ruolo delle altre imprese appartenenti allo stesso gruppo, specie nel settore industriale (rispettivamente -31,8% per le piccole aziende e -30% per le medie). Consideriamo infine i risultati relativi alla terza forma di innovazione considerata nell’indagine, ovvero quella relativa all’organizzazione e alle attività di marketing. Come si evince dalla tabella 11, questa tipologia di innovazione è più diffusa tra gli operatori più grandi: quasi 70% degli intervistati in questa categoria dichiara di aver introdotto almeno una delle forme segnalate in tabella, a fronte del 57,8% delle imprese indu158 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 159 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 striali più piccole. Anche nella manifattura prevale l’introduzione di nuove modalità di organizzazione del lavoro (come la definizione di nuove unità divisionali o operative, la riduzione dei livelli gerarchici o il decentramento delle decisioni aziendali), sia tra le piccole imprese (32,4% dei casi) che, in misura maggiore, tra le medie (43,5%). Appaiono inoltre rilevanti le modifiche estetiche dei prodotti, incluso il confezionamento, specie per le aziende di medie dimensioni (40,6% degli intervistati). Per le piccole imprese manifatturiere questa forma è poco più diffusa rispetto all’introduzione di cambiamenti nelle relazioni con istituzioni pubbliche (quali accordi produttivi e commerciali, partnership, accordi di subfornitura, esternalizzazione), dichiarata dal 25,4% dei rispondenti (un dato analogo a quello delle medie, 24,7%). Circa il 23% degli operatori di dimensioni minori ha adottato nuove (o significativamente migliorate) pratiche di commercializzazione o distribuzione dei prodotti o servizi (quali commercio elettronico, franchising, vendite dirette, licenze di distribuzione) e nuove (o significativamente migliorate) tecniche manageriali per potenziare l’uso e lo scambio di informazioni, conoscenza e competenze tecniche e lavorative all’interno dell’impresa. Anche tra le medie imprese queste modalità risultano di una certa importanza: il 33% degli intervistati ha introdotto innovazione nelle tecniche manageriali, mentre il 28,1% ha investito nell’adozione di pratiche di commercializzazione o distribuzione dei prodotti o servizi. Anche nell’industria risulta poco diffusa l’introduzione di cambiamenti nelle relazioni con altre imprese (quali accordi produttivi e commerciali, partnership, accordi di subfornitura, esternalizzazione), sia tra le piccole (9,1%) che tra le medie imprese (12,7%). Come già rilevato nelle precedenti edizioni dell’indagine, e come messo qui in evidenza dalla tabella 12, il principale fattore di ostacolo all’attività di innovazione – sia essa di prodotto, di processo o organizzativa – resta l’eccessiva onerosità dell’investimento, a cui si accompagnano benefici troppo distanti nel tempo, e questo indipendentemente dalla dimensione di impresa (saldo percentuale pari al 45,6% per le studi e ricerche 159 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 160 Francesca Bartoli Tab. 12 - Grado di importanza dei fattori di ostacolo all’attività di innovazione Piccole imprese Medie Imprese 45,6 46,6 27,0 19,0 La scarsità dei finanziamenti pubblici 20,4 30,8 La presenza di imprese consolidate che dominano il mercato 11,1 17,3 La mancanza di personale qualificato La difficoltà di individuare / stringere accordi con partner con cui collaborare 1,9 6,1 0,0 11,4 Una domanda insufficiente per prodotti o servizi innovativi -1,9 6,8 La scarsità di informazioni sulle tecnologie e/o sui mercati -12,6 4,0 540 1.408 I costi elevati connessi all’investimento, con benefici troppo lontani nel tempo La difficoltà ad ottenere finanziamenti bancari o capitale di rischio per l’attività di innovazione Totale rispondenti Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota saldo percentuale, dato dalla differenza tra la somma delle modalità di risposta “alto” e “medio” e la somma delle modalità di risposta “basso” e “nullo” piccole imprese, 46,6% per le medie). La poca sostenibilità dei costi connessi all’attività di innovazione è un punto di attenzione anche per la mancanza di adeguate risorse finanziarie provenienti dai canali esterni, con una distinzione: le piccole imprese lamentano soprattutto la difficoltà di ottenere finanziamenti bancari o capitale di rischio (27%); le medie invece indicano la scarsità di finanziamenti pubblici come secondo fattore di ostacolo (30,8%), a cui segue ad una certa distanza la difficoltà di ottenere i finanziamenti privati (19,7%). Tra i fattori di ostacolo che sono di scarsa o nulla importanza, le imprese di dimensioni minori segnalano la domanda insufficiente per prodotto o servizi innovativi (-1,9%) e soprattutto la scarsità di informazioni sulle tecnologie e/o sui mercati (-12,6%). Tutti i fattori elencati sono invece ritenuti ostacoli relativamente importanti dalle medie imprese, seppure con intensità diverse. 3. L’internazionalizzazione La capacità delle imprese italiane di affacciarsi sui mercati esteri rappresenta la leva strategica principale per tornare a crescere nel medio-lungo 160 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 161 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 periodo a ritmi più sostenuti. Nel caratterizzare l’attività di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese manifatturiere, si considera innanzitutto come è avvenuto il primo contatto con l’estero. Segue un’analisi della dimensione temporale (anni di operatività) spaziale (mercati di sbocco) e quantitativa (quota di spesa/fatturato), distinguendo per tipologia specifica di attività svolta. Infine, relativamente alla sola attività di esportazione, viene presa in esame l’eventuale presenza di innovazioni di prodotto o servizio nel passare dal mercato locale a quello estero, o nell’aumentare il numero di mercati di sbocco. Dai risultati dell’indagine emerge che, per quanto riguarda il settore manifatturiero, il 29,4% delle piccole imprese e il 68,8% delle medie imprese intrattengono rapporti con l’estero. L’individuazione delle controparti commerciali costituisce il primo (e forse più importante) scoglio che le piccole imprese incontrano nel momento in cui decidono di espandere la propria attività all’estero. L’esperienza degli intervistati riportata in tabella 13 ci parla di iniziative autonome, ovvero la partecipazione a fiere di settore (per le medie imprese questa voce raggiunge il 43,4% contro il 37,1% delle piccole), il passaparola tra imprese (22% piccole, 16,9% medie), la ricerca diretta su internet, con piattaforme di “incontri” e banche dati (14,5% piccole, 11,7% medie). Dunque, la rete come driver, intesa sia in senso letterale, sia in senso relazionale. Il ricorso a soggetti esterni appare ancora limitato, probabilmente legato a una mancata conoscenza di iniziative e servizi ad hoc, così come a un’innata tendenza a “fare da sé”. In questo senso, il dato può essere letto in positivo: sul fronte dell’internazionalizzazione esistono ancora ampi spazi di manovra, grazie a un’adeguata attività informativa e all’intervento di soggetti specializzati che accompagnino l’impresa nei primi passi verso i mercati esteri. In particolare, risposte e soluzioni concrete possono arrivare dalle banche, specie se a loro volta internazionalizzate, e quindi in grado di fornire, accanto ai tradizionali servizi per le esportazioni, una consulenza specifica su approccio iniziale ai mercati esteri, ricerca di controparti e investistudi e ricerche 161 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 162 Francesca Bartoli Tab. 13 - Il primo contatto con le controparti estere Piccole imprese Medie Imprese Durante fiere di settore 37,1 43,4 Grazie a contatti forniti da altre imprese 22,0 16,9 Ricerca diretta tramite internet e banche dati 14,5 11,7 Grazie a specifiche iniziative proposte da soggetti pubblici 6,3 4,7 Tramite la propria associazione di categoria 2,5 2,7 Tramite i consorzi export 2,5 2,3 Grazie a iniziative e servizi offerti dalla banca 1,9 0,8 Non sa - non indica 13,2 17,4 Totale rispondenti 159 969 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota valori percentuali menti, nonché supporto in loco grazie alle presenza di una rete capillare dislocata a livello internazionale4. Residuale, indipendentemente dalla dimensione di impresa, il ricorso a specifiche iniziative proposte da soggetti pubblici come camere di commercio, ICE, missioni governative all’estero. Per quanto riguarda il tipo di attività svolta dalle imprese che intrattengono rapporti internazionali (tabella 14), le differenze maggiori tra piccole e medie imprese sono relative all’acquisto di materie prime o 4 La letteratura più recente ha evidenziato l’importanza dell’intensità del rapporto banca-impresa come fattore che aumenta la probabilità dell’impresa di svolgere attività all’estero, con effetto amplificato nel caso in cui l’impresa abbia come banca principale una banca internazionalizzata. i dati dell’indagine confermano questa tesi: la percentuale di imprese operative sui mercati esteri aumenta all’aumentare dell’intensità (approssimata dalla durata) del rapporto con la banca principale, e in misura maggiore se la banca è anch’essa internazionalizzata. sempre sulla base dei dati dell’indagine 2011, Bartoli, Ferri, maccarone, rotondi (2011), mostrano come la capacità di esportare delle piccole imprese sia maggiore se l’interlocutore bancario ha una dimensione internazionale, in quanto in grado di fornire una gamma più ampia di servizi a supporto dell’attività di export che vanno oltre l’operatività ordinaria (assicurazione crediti, gestione di pagamenti e incassi, ecc.), quali ad esempio la segnalazione di controparti commerciali o di opportunità di investimento all’estero, così come una specifica assistenza legale e fiscale e la presenza di una rete estera che faciliti il reperimento di credito bancario in loco. 162 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 163 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 Tab. 14 - Tipologie di attività internazionale svolte dall’impresa Piccole imprese Medie Imprese Vendita di prodotti o servizi all’estero 86,8 90,6 Acquisto di materie prime o semilavorati dall’estero 45,9 62,2 Produzione all’estero utilizzando strutture pre-esistenti 10,7 11,9 Delocalizzazione o apertura di una sede all’estero 8,2 12,8 Nessuna di queste attività 4,4 2,3 159 969 Totale rispondenti Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì semilavorati dall’estero. Infatti, la maggior parte delle piccole imprese manifatturiere acquista gli input produttivi sul mercato interno e solo il 45,9% ricorre ai mercati esteri, al contrario delle medie imprese, che importano materie prime e semilavorati nel 62,2% dei casi. Può sembrare sorprendente, ma è proprio qui – dal lato cioè degli acquisti più che da quello delle vendite – che si coglie la maggior capacità delle medie imprese ad inserirsi nelle catene di fornitura internazionali. Differenze meno marcate tra piccole e medie imprese emergono rispetto alle altre forme di internazionalizzazione. La quota di operatori che vendono prodotti all’estero non è molto diversa (86,8% per le piccole e 90,6% per le medie), confermando quindi la notevole propensione ad esportare delle imprese manifatturiere di dimensioni minori, non inferiore a quella delle più grandi. La stessa cosa vale sia per la produzione all’estero utilizzando strutture pre-esistenti, come accordi di produzione, joint-venture, fusioni e acquisizioni con altre imprese, sia, seppur in minor misura, per la delocalizzazione o l’apertura di nuove sedi all’estero. Le medie imprese, come atteso, vantano rapporti consolidati con l’estero da più tempo rispetto alle piccole imprese (tabella 15). Infatti, il 71,5% delle medie imprese svolge attività internazionale da oltre dieci anni, contro il 47,2% delle piccole; tra queste ultime, viceversa, si trova una quota maggiore di aziende che operano sull’estero da meno di un studi e ricerche 163 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 164 Francesca Bartoli Tab. 15 - Da quanto tempo l’impresa svolge attività internazionale? Piccole imprese Medie Imprese 7,5 1,2 Da 1 a 5 anni 22,0 12,3 Da 6 a 10 anni 22,6 13,8 Da oltre 10 anni 47,2 71,5 Non sa - Non indica 0,6 1,1 Totale rispondenti 159 969 Da meno di un anno Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota valori percentuali Tab. 16 - Numero di mercati esteri di operatività Piccole imprese Medie Imprese 20,1 7,0 9,4 8,3 Da 3 a 5 mercati 35,2 22,8 Oltre 5 mercati 33,3 60,1 Non sa - Non indica 1,9 1,9 Totale rispondenti 159 969 Un solo mercato Due mercati Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota valori percentuali anno (7,5% contro l’1,2% delle medie). L’interesse per i mercati esteri non è dunque un fenomeno nuovo, sebbene per le piccole si sia intensificato soprattutto negli anni più recenti, probabilmente a seguito della debolezza della domanda interna e della necessità, resa più urgente dalla crisi del 2008-2009, di diversificare i mercati di riferimento. Allo stesso modo, le medie imprese manifatturiere operano su molti più mercati (tabella 16): il 60% dichiara infatti di avere relazioni con oltre cinque mercati, contro appena un terzo delle piccole imprese. Il 20% di queste ultime opera su un solo mercato (contro il 7% delle medie), mentre la maggior parte di piccoli operatori (35,2%) si rapporta a un numero di mercati compreso tra tre e cinque. Questi risultati sono particolarmente interessanti, dato che la differenziazione dei mercati di riferimento, oltre a consentire un controllo maggiore del 164 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 165 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 Tab. 17 - Mercati di sbocco Export Import Produzione Piccole Medie Piccole Medie Piccole Medie imprese imprese imprese imprese imprese imprese Principali paesi europei (es. Francia, Germania, Spagna, Regno Unito…) 81,9 89,6 74,0 78,1 36,0 45,1 Est Europa (nuovi membri UE, Balcani e Russia) 36,2 59,2 16,4 33,2 20,0 34,6 Altri paesi europei (es. Svizzera, Belgio, ecc.) 42,0 59,8 21,9 33,7 32,0 24,2 America settentrionale 21,7 33,7 5,5 14,9 20,0 15,9 America centrale e Sud America 18,1 34,4 5,5 10,9 16,0 15,9 Cina, India 19,6 35,8 17,8 33,3 24,0 26,9 Altri paesi asiatici Paesi del bacino del Mediterraneo (Nord Africa, Medio Oriente) 21,0 36,7 12,3 14,9 8,0 9,3 26,8 38,3 2,7 10,8 16,0 12, Africa centrale e del Sud 10,1 18,2 1,4 5,1 4,0 6,6 Oceania 7,2 18,5 1,4 3,8 4,0 4,4 Totale rispondenti 138 878 73 603 25 182 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di rispose sì rischio, svincolando i risultati aziendali dagli andamenti di pochi partner commerciali, può essere anche indice di successo competitivo. Nello specifico, la tabella 17 evidenzia un ruolo preponderante dei mercati europei più tradizionali, principale destinazione delle esportazioni sia per le piccole (81,9%) che per le medie imprese (89,6%), seguiti a distanza dai paesi dell’Est europa e dagli altri paesi europei. Tali risultati non sorprendono: le destinazioni più vicine sono naturalmente predominanti, dati i minori costi di accesso, legati non solo alla contiguità geografica, ma anche a quella culturale, sia d’impresa che generale. Dalla lettura comparata dei dati dei due campioni è evidente come al crescere della lontananza aumentino le difficoltà delle piccole imprese, che avrebbero bisogno di una struttura aziendale più articolata e/o di un maggior ricorso ad accordi di collaborazione con altre imprese per poter penetrare mercati più lontani e più complessi. Ad esempio, Cina e India rappresentano un mercato di sbocco per il 35,8% studi e ricerche 165 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 166 Francesca Bartoli Tab. 18 - Quota di fatturato e quota di spesa realizzate con l’estero nel 2010 Export Import Piccole imprese Medie imprese Piccole imprese Medie imprese Fino al 10% 36,2 28,0 52,1 43,4 Da 11% al 20% 15,9 12,3 11,0 15,4 Da 21% a 50% 28,3 28,5 21,9 23,4 Da 51% a 80% 15,2 23,8 12,3 10,9 Da 81% a 100% 4,3 7,4 2,7 6,8 Totale rispondenti 138 878 73 603 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota valori percentuali delle medie imprese, contro il 19,6% realizzato presso gli operatori di dimensione minore (dato tuttavia in crescita rispetto a quanto rilevato nelle scorse edizioni dell’indagine sulle piccole imprese). I principali paesi europei rimangono, per l’intero settore manifatturiero, i più importanti mercati di riferimento anche in relazione all’acquisto di materie prime e semilavorati e alla produzione al di fuori dei confini nazionali, effettuata sia attraverso accordi di collaborazione e joint-venture con partner stranieri, sia tramite l’apertura di nuove sedi (investimenti greenfield e delocalizzazioni). Per quanto riguarda le importazioni, si nota inoltre come le medie imprese acquistino in maggior misura rispetto alle piccole anche al di fuori dell’Europa. L’attività esportativa è sistematica per l’89% delle medie imprese contro il 63,8% delle piccole. La quota di fatturato realizzata all’estero è ovviamente più alta per le medie imprese (tabella 18 – parte sinistra). Tra queste troviamo infatti il 31,2% di imprese che ha una quota di fatturato estero che supera il 50% del fatturato totale, contro il 19,6% delle piccole imprese. All’opposto, nelle piccole imprese esportatrici il 36,2% ha realizzato una quota di fatturato estero non superiore al 10%, contro il 28% delle medie. Anche per quanto riguarda l’acquisto di materie prime e semilavorati all’estero, le medie imprese svolgono un’attività sistematica in percen166 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 167 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 tuale maggiore rispetto alle piccole imprese (78,8% contro 53,4%). In generale, le piccole imprese acquistano dall’estero una quota di input produttivi inferiore rispetto alle medie imprese (tabella 18 – parte destra). Per oltre il 50% delle piccole imprese la quota di materie prime e semilavorati acquistata dall’estero non supera il 10% degli acquisti totali. Tra le medie imprese, al contrario, troviamo il 17,7% di aziende che comprano all’estero oltre il 50% delle materie prime e dei semilavorati; dato che prospetta la possibilità che molte di queste imprese siano inserite in catene di produzione globali. La strategia di internazionalizzazione commerciale di un’impresa varia fortemente in relazione ad alcuni parametri che ne identificano il livello di sofisticazione: in particolare essa si qualifica – oltre che per l’intensità stessa dell’attività di esportazione, il numero dei mercati di destinazione raggiunti dall’impresa e la loro prossimità al mercato domestico – anche per la qualità dei prodotti e servizi venduti all’estero. Nel passare dal mercato interno ai mercati esteri il 44,9% delle piccole imprese e il 38,8% delle medie ha introdotto modifiche ai propri prodotti o servizi, confermando che, pur se nella maggior parte dei casi le imprese manifatturiere competono nell’arena internazionale con gli stessi prodotti con cui si misurano sul mercato domestico, tuttavia la competizione globale ha un qualche ruolo nel sollecitare comportamenti innovativi (tabella 19)5. In particolare, tra le piccole imprese si riscontrano percentuali più alte di aziende che hanno introdotto un nuovo prodotto (10,1%, a fronte di un 8,7% registrato presso le medie) o che hanno fatto modifiche marginali ai prodotti esistenti, ad esempio sull’estetica (25,4% contro 19,8%), il che evidenzia come, in alcuni casi, l’offerta delle aziende di dimensioni minori, per essere collocata sul mercato estero, necessiti di un upgrading qualitativo che non sempre è richiesto alle medie imprese. 5. Anche in questo caso appare rilevante il tema del rapporto banca-impresa. Ad esempio, l’evidenza empirica offerta dal lavoro di Frazzoni, mancusi, rotondi, sobrero, Vezzulli (2011) mostra un’interessante relazione tra stabilità delle relazioni bancaimpresa, capacità di innovare e capacità di esportare. studi e ricerche 167 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 168 Francesca Bartoli Tab. 19 - Upgrading qualitativo nel il passaggio dal mercato nazionale a quello estero Piccole imprese Medie Imprese Introduzione di un nuovo prodotto 10,1 8,7 Miglioramento significativo dei prodotti esistenti 16,7 16,6 Modificazioni marginali ai prodotti esistenti 25,4 19,8 Nessuna modificazione di prodotto 55,1 61,2 Totale rispondenti 138 878 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì Tab. 20 - Upgrading qualitativo nell’ampliamento del numero di mercati di esportazione Piccole imprese Medie Imprese Introduzione di un nuovo prodotto 10,1 9,5 Miglioramento significativo dei prodotti esistenti 15,2 16,1 Modificazioni marginali ai prodotti esistenti 23,2 20,0 Nessuna modificazione di prodotto 56,5 61,5 Totale rispondenti 138 878 Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì Considerazioni pressoché analoghe valgono per le strategie di allargamento dei mercati di vendita (tabella 20), anche se in questo caso le differenze tra piccole e medie imprese sono un po’ meno nette, presumibilmente perché l’upgrading qualitativo prima citato a proposito delle piccole imprese è stato già realizzato nel primo contatto con l’estero o perché il nuovo mercato è molto simile ad altri mercati dove l’impresa è già presente. 4. Conclusioni Le trasformazioni in atto nei sistemi economici mondiali rendono più complessa la definizione di competitività e più articolato l’insieme dei fattori necessari a misurarla. In quest’ottica, andare al di là di dati settoriali aggregati e capire le strategie a disposizione delle singole imprese è fondamentale, in una concezione di sviluppo endogeno che parta dal basso e si diffonda per imitazione, fino a pervadere il territorio nel suo 168 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 169 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 complesso. I risultati di indagine presentati in questo capitolo fanno riferimento in particolare a due dimensioni fondamentali per la crescita e lo sviluppo del tessuto imprenditoriale italiano: l’innovazione e l’internazionalizzazione. L’analisi evidenzia la necessità di attivare strumenti e processi di sistema che favoriscano l’innovazione. Non mancano in Italia iniziative in tal senso; tuttavia è carente l’aspetto sistemico, l’azione sinergica tra gli attori economici ed istituzionali a vario titolo coinvolti nei processi di innovazione. Da parte delle imprese, è auspicabile una maggiore e migliore capacità di interagire con il mondo della ricerca universitaria – che strutturalmente rappresenta l’ambito in cui più si sviluppa la ricerca in Italia – capacità ancora alquanto carente. Anche se in maniera meno drammatica, questo aspetto riguarda anche le relazioni tra le imprese: scarseggiano, infatti, le forme di collaborazione o di aggregazione che consentirebbero a gran parte degli operatori italiani di superare l’ostacolo all’attività innovativa posto dalla piccola dimensione e di potenziare il trasferimento tecnologico. In effetti, uno dei più recenti strumenti a disposizione delle imprese, il Contratto di Rete, è stato concepito anche per favorire i processi di innovazione. Alle istituzioni è richiesta la capacità di definire strumenti agili ed efficaci che riescano a mettere a sistema le molte iniziative innovative o volte a promuovere l’innovazione – non ultime le startup universitarie. Il sistema finanziario, d’altro canto, può predisporre strumenti a favore delle imprese innovative, che siano al tempo stesso competitive, e può svolgere un ruolo di stimolo ai processi di innovazione. In termini più generali, sarebbe utile – a livello Paese – sostenere i processi innovativi in due ambiti. In primo luogo, potenziando il mercato del private equity, i cui operatori giocano in altri Paesi un ruolo di primo piano specie nel caso di nuove imprese innovative. In secondo luogo, puntando al miglioramento della capacità di attrarre in Italia imprese multinazionali, la cui presenza costituisce uno dei possibili canali di trasferimento tecnologico e di spinta all’innovazione. studi e ricerche 169 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 170 Francesca Bartoli L’internazionalizzazione rimane un tema centrale per la crescita del paese, e l’indagine conferma che le piccole e medie imprese hanno registrato negli ultimi anni una decisa accelerazione su questo fronte. Benché la dimensione d’impresa costituisca una variabile decisiva nel processo di internazionalizzazione – che richiede ingenti investimenti economici, specifiche competenze delle risorse umane, capacità di movimento in paesi spesso sconosciuti – l’interesse delle piccole imprese per i mercati esteri non è in realtà un fenomeno nuovo. L’indagine, tuttavia, sottolinea come negli ultimi cinque anni tale interesse si è intensificato, probabilmente in risposta alle difficoltà causate dalla crisi, oltre che alla crescente globalizzazione. Ciò che emerge è certamente una grande eterogeneità nei comportamenti, cui fanno da sfondo caratteristiche comuni che permettono di individuare potenziali aree di intervento. Risulta confermata, in particolare, l’idea che ancora troppo spesso l’impresa internazionalizzata giochi da sola. Le risposte degli intervistati raccontano prevalentemente storie legate ad iniziative autonome, soprattutto nell’individuazione dei mercati e dei partner esteri di riferimento: si parla spesso di passaparola, ricerca diretta su internet, partecipazione a fiere di settore. Ciò risulta tanto più vero per le piccole imprese, che non hanno ancora trovato un efficiente partner istituzionale per le loro strategie di ricollocazione all’estero. Il “fare da sé” tuttavia, rappresenta spesso un vincolo alle strategie di internazionalizzazione, limitandone i benefici connessi all’allargamento dei mercati di sbocco (o di fornitura) e di differenziazione dei rischi. Non è un caso, quindi, che le strategie più complesse di internazionalizzazione siano spesso associate ad una collaborazione strategica tra imprese. Le imprese con una più elevata intensità relazionale e più aperte alle collaborazioni di tipo strategico sono anche quelle che sono maggiormente coinvolte nei processi di internazionalizzazione e che lo sono in maniera più sistematica e persistente, riuscendo a mantenere nel tempo rapporti commerciali attivi con un numero maggiore di paesi. L’indagine segnala quindi che sul fronte dell’internazionalizza170 economiA itALiAnA 1•2012 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 171 Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011 zione delle piccole e medie imprese permangono ancora ampi spazi di manovra per quanto riguarda una adeguata attività informativa, sia in merito alle caratteristiche dei mercati esteri dove si intende andare, sia in merito alla possibilità di un incontro e di un collegamento tra imprese. A livello pubblico, diventa sempre più urgente la riforma degli enti per l’internazionalizzazione delle imprese; a livello privato, rimane un’area di intervento per soggetti specializzati, che accompagnino l’impresa nella penetrazione e nel presidio dei mercati esteri. Bigliografia BARTOLI F., FERRI G., MURRO P., ROTONDI Z. (2011), Can banks help small businesses’ export performance?, in: D. Masciandaro e G. Bracchi (a cura di), Banche imprese: competitività, internazionalizzazione e crescita, Fondazione Rosselli, XV Rapporto sul Sistema Finanziario, 2011, Bancaria Editrice. FRAZZONI S., MANCUSI M., ROTONDI Z., SOBRERO M., VEZZULLI A. (2011), Relationship with banks and access to credit for innovaiton and internationalization of SMEs, in: D. Masciandaro e G. Bracchi (a cura di), Banche imprese: competitività, internazionalizzazione e crescita, Fondazione Rosselli, XV Rapporto sul Sistema Finanziario, 2011, Bancaria Editrice. QUINTIERI B. (2006), Le misure della competitività nel nuovo contesto internazionale: dai settori alle imprese. Mimeo. UNICREDIT (2011), Le aggregazioni di rete: modello vincente per la sostenibilità e lo sviluppo, «VIII Rapporto UniCredit sulle Piccole imprese a analisi comparata tra piccole e medie imprese manifatturiere». UNICREDIT (2010), La ricerca di nuovi mercati: la sfida delle piccole imprese tra cambiamento e tradizione, «VII Rapporto UniCredit sulle Piccole imprese». studi e ricerche 171 EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 172 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 173 Rassegna della letteratura economica a cura di Antonio Maria Fusco Università di Napoli «Federico II» EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 174 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 175 Letture Tommaso Padoa-Schioppa: gli anni spesi da ministro Una premessa. Ci sono dichiarazioni che, ricondotte a chi le pronunciò, finiscono quasi per delinearne la personalità e sintetizzarne i convincimenti: tradotti poi se mai in scelte politiche che possono a volte denominare addirittura un’epoca. Un esempio significativo di tali esiti? Si mediti un istante sul seguente passo di un discorso famoso, pronunciato dal presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, nel luglio del 1932: «I pledge you, I pledge myself, to a new deal for the American people». L’espressione «new deal», cioè «nuovo corso», contenuta in tale dichiarazione, invero un po’ enfatica, ha dato appunto il nome a quell’insieme di riforme dell’economia e della società americane con il quale il governo statunitense affrontò, negli anni trenta, gli anni poi non a caso defniti del «new deal», i problemi posti dalla «grande depressione». Ed essendo Roosevelt passato alla storia, fra l’altro, come l’uomo del «new deal», come l’uomo che pose le premesse per avviare la ripresa (destinata, si sa, a dare il meglio di sé solo a secondo conflitto mondiale deflagrato), verrebbe fatto di dire che l’espressione usata gli ha portato fortuna. Ma ci sono anche dichiarazioni, passate se mai in proverbio, che non hanno giovato al buon nome di chi le pronunciò. Un esempio scelto a caso? Quello di Enrico IV, che sembra abbia cinicamente detto, al fine di giustificare l’abiura a cui si accingeva, lui protestante, per poter cingere la corona di un paese cattolico, quale in larga maggioranza era la Francia: «Paris vaut bien une messe». Pure, è lo stesso sovrano al quale si attribuisce un apprezzabile divisamento: «je veux que le dimanche chaque paysan ait sa poule au pot». Traguardo, per quei tempi, niente affatto facile da tagliare, e dunque impegnativo per chi se lo poneva come obiettivo, non importa se poi raggiunto. Avendo però il cinismo della prima presa di posizione fatto premio sui generosi propositi della seconda, la figura di quel re ha finito, per certi versi, col soffrirne. rassegna della letteratura economica 175 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 176 a cura di antonio maria Fusco D’accordo, forse si concederà, non senza però chiedersi: ma è proprio il caso che, per avviare una breve riflessione sugli anni spesi da Tommaso Padoa-Schioppa in veste di ministro, si debba prenderla così alla lontana? Non necessariamente. Se però siamo stati indotti a rammentare certi remoti o remotissimi precedenti, è perché egli si lasciò andare, in tale veste, a impiegare termini e a rilasciare dichiarazioni (il cui eco sembra non essersi ancora dissolto) che non sapremmo dire quanto abbiano giovato, nelle polemiche del tempo, alla sua immagine: a livello di grosso pubblico, almeno. Già la parola «tesoretto», ricorsa a proposito delle maggiori possibilità di spesa consentite dall’extra gettito dovuto a entrate fiscali non previste e, soprattutto, al successo nella lotta all’evasione fiscale, ha fatto discutere; e più ancora ha suscitato riserve la parola «bamboccioni», ricorsa nell’accusa da lui severamente rivolta a quei giovani che non saprebbero o non vorrebbero affrancarsi dai genitori. Ma addirittura «scioccante» è risultato il suo elogio delle tasse, definite «bellissime» e addirittura «una delle cose più belle che ci siano», quasi potessero concorrere a delineare il volto stesso della Bellezza, come qualcuno nell’ascoltare le sue parole avrebbe potuto, al limite, essere anche indotto a ritenere. E delle stupefatte negative reazioni suscitate, segnatamente da quest’ultima «scandalosa» asserzione, egli era pienamente consapevole. Ne prendeva infatti atto, a volte anche con una punta di manifesto fastidio, ma non tornava sui suoi passi. E non di rinnegarla egli sentiva il bisogno, bensì di far seguire alla provocazione la spiegazione. Si adoperava perciò a chiarirne il senso, a evidenziare le ragioni che la motivavano, a rivendicare l’alto incompreso significato che gli sembrava rivestisse. Il suo, confessava, era stato in fondo un gesto (e i gesti certo contano) che aiutasse a scorgere il positivo là dove si è pressoché soliti vedere nient’altro che il negativo: un gesto purtroppo solo verbale, mancandogli la possibilità di compiere gesti fisici, sicuramente più spettacolari. Per essere efficaci, però, i gesti (verbali o fisici che siano) devono essere controversi, devono scuotere, devono suscitare reazioni. 176 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 177 letture E definire bellissime le tasse era proprio un gesto di tal fatta, un gesto che, essendo verbale, ha potuto trovare posto, en exergue, anche nella prima pagina del volume da cui prendiamo le mosse per questa nota, volume che ospita un nutrito numero di suoi interventi pubblici sollecitati, nel corso del biennio in cui ricoprì la carica di ministro dell’Economia e delle Finanze, dalle occasioni le più disparate, nonché una selezione delle interviste concesse, nel medesimo arco di tempo, a giornalisti di testate italiane e straniere e della televisione*. E mette forse conto, in apertura di discorso, soffermarsi proprio su quella controversa affermazione, perché essa aiuta non poco a porre in luce convincimenti che sono a monte di una concezione della vita, all’insegna della probità e del rigore, che ha largamente ispirato i suoi comportamenti di cittadino e di uomo prestato alle istituzioni. Vediamolo, pur se molto sommariamente, cominciando col chiederci: le tasse sono davvero «bellissime»? Padoa-Schioppa, rammentiamo, non solo lo asseriva con convinzione, ma (si diceva) non era affatto disposto a rimangiarsi simile contestata definizione, fosse pur solo per non alimentare facili motteggi. «Continuo a pensare (asseriva) che le tasse meritino un elogio: sono un civilissimo strumento in mano ai cittadini, e non c’è alcun altro mezzo attraverso il quale essi potrebbero avere servizi fondamentali che da soli non sono in grado di procacciarsi». Bisognava convincersene e riaffermarlo con forza in ogni sede, senza arretrare d’un passo. E opera di convincimento particolarmente meritoria sarebbe sicuramente stata quella svolta fra i giovani, gli uomini e i cittadini di domani, che in cuor suo si augurava più rispettosi del pubblico bene e riteneva rappresentassero un terreno più fertile per far passare certi messaggi. Di qui il tono, fra il giustificatorio e il didascalico, di chi vuol seminare perché poi si raccolga, che si coglie nelle parole rivolte, in un’intervista rilasciata al Gt Ragazzi, agli alunni da lui incontrati. * cfr. t. Padoa-schioppa, Due anni di governo dell’economia (maggio 2006-maggio 2008), con una Prefazione di Romano Prodi e una nota introduttiva di carlo maria Fenu e antonio Padoa-schioppa, Bologna, il mulino, 2011, pp. 664, € 48. rassegna della letteratura economica 177 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 178 a cura di antonio maria Fusco Parole che hanno inizio con una concessione: è comprensibile, diceva, che a nessuno piaccia privarsi del danaro per pagare tasse definite tuttavia belle, ma non c’è da abbandonarsi, di fronte a tale definizione, a maliziosi commenti e a interessate prese di distanza: tutto sta, pensava Padoa-Schioppa, a capirsi. Ebbene, egli chiariva, «io volevo dire che sono bellissime le cose che si ottengono in cambio delle tasse». E puntigliosamente esemplificava, per spazzare via i dubbi che lo studente al quale si rivolgeva avrebbe potuto nutrire in materia: «la prima cosa bellissima è la vostra scuola. Se tu non avessi la scuola, non sapresti leggere e scrivere». E ancora: «se quando ti ammali non ci fossero le tasse, non avresti un’assistenza sanitaria che non costa niente ai tuoi genitori». E tuttavia, constatava, molti evadono le tasse, che però restano, anche a non volerle definire «bellissime», decisamente «belle», in quanto corrispettivo, si sottolineava ancora una volta, dei servizi ricevuti. Pure, le tasse vengono più o meno largamente evase. Le ragioni di un comportamento siffatto? «Intanto (veniva pazientemente spiegato) lo Stato non è tanto bravo a controllare e poi alcune persone sono molto furbe a non farsi scoprire. È un po’ (si concludeva) come uno che copia durate la lezione: se il professore è attento, non ci riesce, se è disattento, può copiare tranquillamente». Quel che più conta, però, è che «lui rimane un disonesto anche se il professore non se ne accorge». Bisogna essere insomma consapevoli, in entrambi i casi, «che si sta commettendo un imbroglio». E vergognarsene, perché non basta, se «questa coscienza è bassissima, riempire il paese di poliziotti e controllori per evitare che qualcuno non paghi le tasse… o che copi». Disgraziatamente, constatava, «troppo raramente il mancato adempimento fiscale è sentito come qualcosa di cui vergognarsi». Il ragionamento, come si vede, da spiegazione del perché si pagano le tasse e del perché sarebbe bello pagarle, si trasforma in esplicito giudizio di valore: il mancato adempimento fiscale altro non sarebbe che un comportamento moralmente disdicevole. Va dunque denunciato, severamente denunciato, in ogni occasione e in ogni luogo. Sembra, 178 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 179 letture insomma, che Padoa-Schioppa vedesse il pagamento delle tasse, ancor prima che come interesse del cittadino a tenere in piedi il «contratto sociale», che proprio attraverso quel pagamento in fondo si concretizza, come dovere da far rispettare anzitutto per ragioni etiche, e solo dopo per ragioni giuridiche. Andava «sentito», in altre parole, ancor prima che «imposto». È perciò da escludere che potessero piacergli storie di corruzione, quali fra l’altro erano quelle che lasciavano spazio a vicende di tasse evase o eluse. Come accade, vien fatto di ricordare, nel racconto (fra il surreale e il simbolico) lasciatoci da Francis Scott Fitzgerald, nel quale il personaggio principale chiede stupito, nell’apprendere che il padre del suo amico è «di gran lunga l’uomo più ricco del mondo», come mai il suo nome non compaia, nel World Almanac, fra le persone più facoltose. Ottenendo una risposta tutt’altro che edificante: non vi compare (gli viene detto) perché, pur essendo tanto ricco da possedere «the diamond as big as the Ritz», vale a dire un enorme diamante a forma di montagna (non segnalata dalle mappe!) sulla cui cima si erge un castello incantato, «lui le tasse non le paga, o al massimo ne paga una irrisoria, ma nessuna sui suoi veri guadagni». Padoa-Schioppa, nel leggere questa storia, non sarebbe restato indifferente: incliniamo a credere che avrebbe provato fastidio. E si può ben ipotizzarlo non avendo egli nascosto, in un pubblico incontro nel corso del quale veniva dibattuto anche il tema dell’evasione fiscale, di sentirsi vicino alle posizioni di un teologo, e teologo di vaglia, qual è Bruno Forte, certo non dimentico delle parole di san Paolo: «pagate le tasse; quelli che svolgono questo compito sono a servizio di Dio; e dunque rendete a ciascuno ciò che è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi si deve l’imposta, date l’imposta». Una vicinanza di cui si dà testimonianza nel resoconto di una inviata di The Banker, le cui pagine sono riprodotte nel volume: per quel che riguarda l’evasione fiscale, ella scrive, «both the eminent theologian and the Minister agreed on its nefariousness». Ed egli deve essere rimasto sicuramente colpito nell’apprendere, lo rese noto Forte in detta occasione, che «havrassegna della letteratura economica 179 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 180 a cura di antonio maria Fusco ing taken confession from many, none have confessed to tax evasion». Una ragione di più, pensiamo, per trovare fondata la necessità di un’azione, da lui fortemente auspicata, che rinsaldasse «la coscienza morale dei cittadini» e conducesse altresì a condannare come «irresponsabile» la polemica anti-tasse. Perché, con forza asseriva, «ci può essere insoddisfazione sulla qualità dei servizi che si ricevono in cambio, ma non ci può essere un’insoddisfazione di principio sul fatto che le tasse esistano e si debbano pagare». Discorso, il suo, ineccepibile. È pur vero, però, che la prima insoddisfazione alimenta la seconda. Se dunque si vuole combattere efficacemente quest’ultima, bisogna farsi attentamente carico dell’altra. Che alberga non nell’animo di inguaribili scontenti, ai quali niente sta bene per partito preso o per pessimismo verso le cose del mondo e la vita in generale, ma in quello di persone che non hanno bisogno di ricorrere al cosiddetto «triangolo di Harberger», modello costruito al fine di misurare la perdita di benessere prodotto da un eccesso di pressione fiscale, per avere la netta percezione di sopportare costi (riduzione del potere d’acquisto) e disutilità (rinuncia al desiderato paniere di beni) niente affatto compensati dal gettito che con crescente difficoltà esse contribuiscono, in varia misura e a vario titolo, ad alimentare. Non compensati, quei costi e quelle disutilità, vuoi a causa dell’eccesso di pressione fiscale, vuoi e ancor più a causa del cattivo impiego di un gettito di entità niente affatto trascurabile, cattivo impiego largamente testimoniato dalla spesso pessima qualità dei servizi offerti e dai notevoli sprechi che sovente accompagnano la spesa pubblica. Di qui una insoddisfazione più che giustificata, che si trasforma addirittura in sdegno (stato d’animo, sia detto en passant, assai pericoloso per la tenuta della democrazia) quando il discorso cade sulla sensibile quota parte di gettito destinata a fronteggiare i cosiddetti «costi della politica». Eufemismo che nasconde privilegi di cui godono i numerosissimi membri di quella che non a caso è stata polemicamente definita «casta»: un’accolita di uomini sfacciatamente dediti alla ricerca del proprio «particu180 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 181 letture lare» e vergognosamente dimentichi del pubblico bene. Sarebbe perciò difficile, in un simile contesto, dire ai contribuenti: «faites votre devoir et laissez faire aux dieux», ché quei politici sono ben lungi dall’essere e dal comportarsi da «dei». Non che, beninteso, si pretenda tanto, ma la loro condotta ha ormai superato, fatte le dovute eccezioni, ogni limite di decenza. Di ciò Padoa-Schioppa era pienamente consapevole, e non nascondeva che c’era da impensierirsene. Preferiva perciò parlare, prudentemente, di «costi delle funzioni pubbliche», anziché di «costi della politica»: per non alimentare quel «senso di ostilità» nei suoi confronti «già troppo diffuso (preoccupato constatava) nell’opinione pubblica». Restava infatti convinto, in veste di cittadino e ancor più in veste di ministro impegnato nel contenimento e nella razionalizzazione della spesa pubblica, che «dalla cattiva politica si esce con la buona politica, non con l’anti-politica». E la buona politica richiedeva, fra l’altro, il ricorso a una metodologia che da un lato migliorasse il processo decisionale a livello di priorità e di allocazione delle risorse, e dall’altro favorisse adempimenti, da parte delle pubbliche amministrazioni, attenti alla qualità e all’efficienza dei servizi forniti: pur se «imparare a spendere meglio (sconsolatamente diceva) è anche più difficile che imparare a spendere meno». Bisognava, però, provarci. Non meraviglia, dunque, che a lui si debba l’introduzione, con la Finanziaria per il 2007, di quel moderno strumento di programmazione e di gestione dei conti pubblici che va, pagando pegno a forme diffuse di anglofilia a livello di lessico, sotto il nome di «spending review». Di cui egli magnificava, non senza fondamento, le potenzialità: attente procedure di analisi e di valutazione della spesa, sottolineava, avrebbero fra l’altro finito col permettere infatti di spendere di più. Essa si sarebbe dunque rivelata, col tempo, di notevole aiuto nel sostenere gli sforzi volti a liberare risorse per destinarle a nuovi bisogni e a nuove priorità. Riteneva, perciò, che «revisione sistematica del bilancio, riesame delle priorità, analisi dell’efficacia delle politiche e dell’efficienza organizzativa rassegna della letteratura economica 181 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 182 a cura di antonio maria Fusco [dovessero] divenire parte integrante del servizio che i pubblici uffici rendono al paese». E teneva a precisare che non ci si trovava in presenza di mere tecniche di gestione: esse, diceva, «sono, devono essere, l’atteggiamento mentale di chi sa di amministrare beni non suoi, risorse prodotte con fatica dagli italiani (tra questi gli stessi dipendenti pubblici) attraverso il loro lavoro». E tanto più lo sosteneva in quanto era convinto, non senza buone ragioni, che «gli sprechi quantitativamente maggiori non [fossero] quelli della politica, moralmente più gravi, bensì quelli del malo uso delle risorse pubbliche nei diversi comparti dell’amministrazione. E per malo uso (chiariva) non intendo la scarsa applicazione al lavoro, i cosiddetti fannulloni, che pure esistono a fianco di tanti impiegati e funzionari coscienziosi; intendo strutture inutilmente pesanti, troppe province, troppi uffici, troppi tribunali, lavori magari svolti con scrupolo, ma con tecniche superate, o lavori non più necessari». Occorreva, dunque, voltare pagina. Non che fosse cosa semplice a realizzarsi e men che mai c’era da illudersi di poter ottenere grossi risultati in tempi brevi. Ma bisognava pure iniziare. E Padoa-Schioppa dette prova di grande impegno nei due difficili anni che lo videro sedere sulla poltrona un tempo occupata, in anni anch’essi finanziariamente quanto mai problematici per il paese, dall’uomo dinnanzi al cui busto, salendo le scale del ministero, pressoché quotidianamente passava: Quintino Sella. E ogni giorno, confessa, gli veniva fatto di chiedersi, alzando su di lui lo sguardo: «sapremo trovare in noi la stessa forza morale che egli ebbe un secolo e mezzo fa?» La risposta è scontata: se lo augurava e ci sperava. E non nasconde di aver trasformato quasi in modello quel suo lontano predecessore: gli è che, Machiavelli insegnava, «riferirsi a grandi esempi aiuta la nostra piccola azione perché, “camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere, né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere, debbe un uomo prudente intrare sempre per vie battute da [uomini] grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che, se la sua virtù non vi arriva, 182 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 183 letture almeno ne renda qualche odore”». La citazione è sua e ben riflette l’esigenza di trarre conforto, avendo accettato la gravosa nomina a ministro dell’Economia e delle Finanze, dall’esempio offerto da un uomo che, chiamato a mettere ordine nelle finanze assai disastrate di un paese da poco unificato, aveva saputo dare apprezzabili prove di fermezza, di tenacia, di perseveranza. E sì che ce n’era bisogno, estremo bisogno. Basti pensare che la questione finanziaria, per dirla con Federico Chabod, «costituisce in ogni tempo un problema politico, esulando dal ristretto campo tecnico per investire tutta quanta la vita nazionale». Riveste dunque sempre una straordinaria rilevanza: la rivestiva ai tempi di Sella, era tornata ancora una volta a rivestirla, e in maniera via via preoccupante, in tempi a noi sempre più vicini, e restava non poco inquietante, pur senza assumere i toni drammatici di oggi, quando Padoa-Schioppa fu chiamato a ricoprire la carica di ministro. Che accettò, scrive, dopo aver molto esitato. Pure, si era trovato a confessare, quando era ancora studente, che non gli sarebbe dispiaciuto diventare un giorno ministro del Tesoro. Ma nient’altro che un seducente passeggero miraggio può essere tutt’al più considerato quel suo desiderio, non un obiettivo al quale egli abbia ritenuto di poter davvero alla lunga puntare. Anche perché, scrive ancora, «non mi attirava per nulla il percorso per arrivarci, che allora era quello del funzionario di partito». Appare dunque, quell’idea giovanile appena balenata, una cosa detta così per dire e subito cancellata dalla mente. Non ritornata più, forse, neppure in sogno. Ma se sogno presto dimenticato fu, esso era destinato, a distanza di decenni, dopo un’intera vita trascorsa indossando prevalentemente la veste del banchiere, a tramutarsi in realtà. Era infatti già in pensione quando Prodi lo chiamò: e se accettò l’incarico fu vuoi per stima verso chi glielo offriva, vuoi perché (dichiara) «ho sempre avuto, fin da giovane, una grande passione per la politica e per le questioni pubbliche». Una passione, però, che non obbligava a diventare, per trovare piena soddisfazione, politico di professione: bastava fare il civil servant. E proprio questa era stata la sua scelta, una scelta a rassegna della letteratura economica 183 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 184 a cura di antonio maria Fusco lui decisamente congeniale: «era il punto di incontro (chiarisce) tra un forte interesse per la politica e la consapevolezza che il mestiere della politica non era adatto a me». Una volta ministro, però, di quel mestiere egli dovette farsi carico. Non che Padoa-Schioppa non lo sapesse: «l’azione di governo (riconosceva) è politica sempre e per definizione, chiunque la eserciti»: era dunque «priva di senso», a suo avviso, la distinzione dei governanti in politici e tecnici. Ma gli riuscì probabilmente sgradevole, da tecnico prestato alla politica, trovarsi a sperimentare di persona quanto difficile fosse effettuare scelte che pure le leggi dell’economia imponevano: leggi che il tecnico conosce certo meglio del politico, di un politico non sempre disposto, per giunta, a lasciarsene vincolare. Si dà infatti il caso che i politici siano, più dei tecnici chiamati a far politica, sensibili alla ricerca del consenso e timorosi di perderlo o di non riuscire a garantirselo a sufficienza. E non si stancano di rammentarlo ai tecnici dei quali possono trovarsi a volte, per fastidiosa necessità (lo stiamo sperimentando), a dover ricorrere, tecnici che di quelle leggi tendono invece a farsi se mai scudo nel loro operare. Non che essi non siano pienamente consapevoli, scrive Padoa-Schioppa, di quanto importante sia, in democrazia, la ricerca del consenso: anzi, non se ne può prescindere, e dunque «è necessario cercarlo sempre». Nei limiti del possibile, però, ché «inseguire il consenso giorno per giorno (diceva) finisce per diventare una perdizione»: se, infatti, «non si ha ben chiara la direzione di marcia, non si va da nessuna parte; se non si adatta il cammino alle pieghe del terreno, non si arriva al traguardo». A Padoa-Schioppa, quella direzione di marcia era ben chiara: non di una politica dei due tempi (prima il risanamento, poi la crescita) il paese aveva bisogno, falso essendo il dilemma tra rigore e sviluppo. Diventavano pertanto tre le categorie alle quali, nell’apprestare acconce misure di politica economica, riteneva che occorresse far riferimento: risanamento, crescita, equità. Bisognava prendere insomma atto, «l’obiettivo dell’intera nostra politica economica non [potendo] essere altro che il 184 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 185 letture ritorno dell’Italia a una crescita superiore, non inferiore, alla media europea», che si trattava di un fine difficilmente conseguibile «senza perseguire insieme efficienza nell’uso delle risorse, equità sociale e buona salute dei conti pubblici». E in tale direzione egli appunto si mosse nei due anni in cui ebbe responsabilità di governo, percorrendo strade in questo volume di suoi scritti richiamate, precisate, difese. Che se poi i risultati raggiunti non furono appieno quelli che egli si prefiggeva di raggiungere, non gli può venir certo ascritto a colpa. Il contesto in cui si mosse non va infatti dimenticato. Ed è lecito credere, ricordandolo, che quei risultati sarebbero stati certo migliori se non si fosse trovato a dover operare all’interno di una compagine governativa che disponeva, in parlamento, di una maggioranza risicata e che risultava, quel che è peggio, fortemente disomogenea sul piano ideologico: se non fosse stato insomma membro di un governo costretto, per ciò stesso, a continui faticosi compromessi «al ribasso». Padoa-Schioppa aveva invero tutte le qualità per affrontare al meglio i problemi dell’ora: quelle umane, la straordinaria passione civile da cui era animato, e quelle professionali, le profonde conoscenze acquisite grazie a studi severi (laurea e master in Economia, rispettivamente a Milano, alla Bocconi, e a Boston, al MIT). Ma a renderlo ancor più la persona giusta al posto giusto era l’esperienza acquisita nel lungo servizio prestato in varie prestigiose istituzioni nazionali, dalla Banca d’Italia alla Consob, e internazionali, dalla Cee alla Bce, nelle quali quella passione e quelle conoscenze avevano avuto modo di trovare piena esplicazione. E sempre, in tali istituzioni, egli aveva dato ottima prova di sé. Ma altro è fare il civil servant, altro è fare il ministro. E gli ostacoli che si incontrano, in quest’ultima veste, per cercare di aver ragione di resistenze di natura ideologica e di vincere quelle, ancor più condizionanti, di agguerrite corporazioni, niente affatto disposte a subordinare l’interesse particolare a quello generale, sono parte dell’esperienza che fa ogni tecnico prestato alla politica, costretto quindi a farsi suo malgrado politico: non è un’esperienza che a Padoa-Schioppa fu risparmiata. rassegna della letteratura economica 185 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 186 a cura di antonio maria Fusco Non sappiamo se e quanto ebbe a soffrirne. Ma non era certo uomo che lasciasse spazio ai rimpianti e si abbandonasse alle recriminazioni: di essi, dunque, egli sicuramente non si nutrì nei due anni che, lasciato l’incarico di ministro, precedettero la morte, prematura e improvvisa. Una morte, la sua, che suscitò largo rimpianto. Ma tutti, per richiamare una metafora di Dino Buzzati, apparteniamo a un reggimento, anche senza essere militari di mestiere, e non c’è reggimento che non riceva, prima o poi, l’ordine di partire. E quando l’ordine giunge, a volte improvviso e quindi inatteso, chi ne fa parte non può che preparare il bagaglio, perché non sono chiamate, quelle a cui si accennava, alle quali ci si possa sottrarre: gli è che non c’è, in questi casi, spazio per i disertori, e infatti mai sono esistiti, né c’è modo di farsi esentare, avanzando scuse puerilmente banali o ricorrendo ai buoni uffici di qualche potente di turno. Di ciò Tommaso Padoa-Schioppa era, va da sé, pienamente consapevole. Ma è lecito credere che ritenesse l’evento ancora lontano. Del resto, per restare fedeli all’immagine richiamata, non si avvertivano, fra le mura della caserma in cui il suo reggimento era acquartierato, segnali insoliti: gli ufficiali, di basso e di alto rango, si abbandonavano agli ozi propri della vita di guarnigione, i soldati erano in libera uscita, il trombettiere chiamava a raccolta per il rancio e la ritirata non per levar le tende. La sera del 18 dicembre del 2010, però, nel corso di un’allegra riunione conviviale, egli si sentì toccare lievemente sulla spalla: era venuta, gli fu bisbigliato all’orecchio, l’ora della partenza. Di già, egli forse chiese e certo si chiese? Con tante cose, impegnato com’era, che aveva ancora in cantiere! Ma nulla c’era da fare, se non prepararsi a partire. Si alzò perciò a fatica da tavola, si scusò con gli amici da lui riuniti per essere suo malgrado costretto ad allontanarsi, e dignitosamente si incamminò verso una notte senza fine. 186 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 187 Segnalazioni GIUSEPPE BERTA, Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale, Bologna, il Mulino, 2011. TITO BOERI - PIETRO GARIBALDI, Le riforme a costo zero: dieci proposte per tornare a crescere, Milano, Chiare Lettere Editore, 2011. GIORGIO CALCAGNINI - ILARIO FAVARETTO (a cura di), L’economia della piccola impresa: rapporto 2011, Milano, Franco Angeli Editore, 2011. LEANDRO CONTE (a cura di), Le banche e l’Italia: crescita economica e società civile (1861-2011), Roma, Bancaria Editrice, 2011. VITTORIO DANIELE - PAOLO MALANIMA , Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011), Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011. GIOVANNI MALAGODI, Aprire l’Italia all’aria d’Europa. Il diario europeo (1950-1951), a cura di G. Farese, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011. MARIA CECILIA GUERRA - ALBERTO Z ANARDI (a cura di), La finanza pubblica italiana: «rapporto» 2011, Bologna, il Mulino, 2011. PIETRO ICHINO, Inchiesta sul lavoro, Milano, Mondadori Editore, 2011. rassegna della letteratura economica 187 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 188 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 189 segnalazioni GIUSEPPE BERTA Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale Bologna, il Mulino, 2011 pp. 142, € 14 Il titolo del libro che qui si segnala non è fatto per tirare su il morale, perché la parola che vi compare, «deriva», è locuzione comunemente impiegata per indicare, a tacer d’altro, la drammatica realtà di una nave senza più governo, e dunque in totale balia dei flutti. E averla ritenuta atta a descrivere anche la realtà dell’Italia industriale dei nostri giorni, notoriamente caratterizzata da piccole e medie imprese più che da grandi, è cosa inquietante, perché si dà in tal modo per scontata una perdita di rotta foriera, se non proprio di naufragio, di ridotta governabilità e dunque di crescenti difficoltà a entrare in porti sicuri. Una perdita, va da sé, che ha certo le sue brave motivazioni ed è forse più facile da intendere, deve aver finito col pensare l’autore, se letta alla luce di una vicenda emblematica: quella che ha portato la Fiat a dar vita, con la Chrysler, case automobilistiche entrambe bisognose di risanamento, a un nuovo soggetto di impresa, convertendo (egli dice) «due debolezze in una nuova forza». Non che un simile percorso si profili come tranquillo modello per scelte capaci di trarre d’impaccio le imprese di maggiori dimensioni che dovessero trovarsi ad affrontare problemi analoghi a quelli che hanno afflitto la Fiat, e si lasciassero quindi prendere dalla voglia o avvertissero comunque il bisogno di stringere alleanze internazionali. Il successo o l’insuccesso dell’iniziativa della Fiat si vedrà infatti se e solo quando «sarà superata una crisi che non è ancora conclusa e produrrà conseguenze prolungate nel tempo». Ma neppure siamo, successo o insuccesso a parte, in presenza di un percorso potenzialmente capace di porre riparo alla denunciata «deriva dell’Italia industriale». Basti pensare che la scelta della Fiat di proiettarsi fuori dei confini nazionali, e quindi di «calamitarsi nei flussi di una dinamica globale che ne minaccia l’ancorassegna della letteratura economica 189 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 190 a cura di antonio maria Fusco raggio al sistema italiano», solleva non pochi interrogativi sulle prospettive del nostro industrialismo, e segnatamente il seguente, di non piccolo momento: c’è, in Italia, ancora spazio per la grande impresa? Ora, che quello spazio si sia ridotto non sembra possa venir messo in dubbio. Gli è che, si osserva, «la questione Fiat-Chrysler, con le sue incognite sul futuro, è la spia di ciò che potrà succedere domani ad altre grandi imprese, chiamate a scegliere fra proiezione internazionale e radicamento nel territorio d’origine». Scelte che potrebbero risultare per giunta obbligate se, così come è stato per la Fiat, la ricerca di una soluzione internazionale dovesse rivelarsi, si aggiunge, «una condizione di sopravvivenza». Ne consegue, si conclude, che «non sappiamo che cosa resterà dell’Italia industriale che abbiamo conosciuto dopo una crisi che ha scavato in profondità nella sua complessione e le sta ancora disegnando un profilo modificato, certamente ridotto rispetto alla sua storia, ma lasciando un nucleo che, pur modificato e ridimensionato, resta come leva di sviluppo». Per concludere: Fiat-Chrysler, «questa nuova identità ancora indistinta, di cui ignoriamo la sorte, ha avuto la conseguenza di sollevare domande che altrimenti non sarebbero state altrettanto nette». Ma non altrettanto nette si può pretendere che siano le risposte, tuttavia illuminanti, contenute nei cinque capitoli in cui il volume si articola: «FiatChrysler e l’Italia»; «Genesi e sviluppo di un’alleanza»; «La scommessa del sindacato americano dell’auto»; «Globalizzazione e relazioni industriali in Italia»; «La deriva dell’Italia industriale». 190 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 191 segnalazioni TITO BOERI - PIETRO GARIBALDI Le riforme a costo zero: dieci proposte per tornare a crescere Milano, Chiare Lettere Editore, 2011 pp. 153, € 13 «Faute d’argent c’est douleur non pareille». Il detto è antico, e non manca di fondatezza: la carenza di danaro, infatti, vincola, frena, impedendo al limite di fare, e dunque intristisce, avvilisce, inducendo per ciò stesso sofferenza. E ben pochi, se i quattrini scarseggiano, riescono a sfuggire a tale stato d’animo. Sicuramente non coloro, e sono i più, che alle cose terrene si volgono, facendosene più o meno dominare. Ciò vale, allora, anche per chi governa la cosa pubblica? Forse lo si può concedere. Aggiungendo però subito, onde non correre il rischio di passare per ingenui: più che perché si sia in presenza di soggetti dediti al bene altrui, perché abbiamo di fronte persone timorose di vedere assottigliarsi il consenso da cui il loro potere dipende, consenso che in regime democratico largamente si consegue distribuendo a vario titolo e impiegando in varie forme risorse che negli ultimi tempi si sono venute ovunque assottigliando. Risorse che andrebbero dunque accresciute, per ridurre, con le ambasce dei cittadini, le «sofferenze» dei politici, e potrebbero esserlo se si fosse disposti ad avviare, si sostiene nel libro di cui questa «scheda» intende dare sommariamente conto, riforme coraggiose, capaci di sbloccare economie che segnano se mai il passo perché, è il caso del nostro paese, largamente «ingessate». E invece accade che si resti incerti, quasi che la strada a cui si accennava fosse impraticabile: le riforme, questa l’obiezione, sarebbero infatti costose e mancherebbero i soldi per farle. Ma le cose stanno poi veramente così? Gli autori del volume lo negano recisamente, perché solo apparentemente fondate sono, a loro avviso, le argomentazioni di coloro che al contrario lo sostengono. Certo, il loro ragionamento sembra a tutta prima corretto: «con una situazione finanziaria tanto delicata (essi ci dicono) dove si possono rassegna della letteratura economica 191 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 192 a cura di antonio maria Fusco trovare i quattrini per riformare importanti settori dell’economia? Impossibile». Non ci sarebbe, quindi, che da «aspettare tempi migliori, tenere la barra dritta e attendere che il vento della crescita torni a soffiare in poppa. Solo a quel punto potremo mettere mano al portafoglio e fare le riforme». Dov’è, però, l’errore in un tal modo di argomentare? Perché un errore c’è e tutto sta a scovarlo per potersene affrancare. Compito reso agevole da questo libro, scritto apposta per dimostrare quanto profondamente sbagliato sia il ragionamento del «non ci sono i soldi per fare le riforme». E sono due, precisano gli autori, i motivi che lo invalidano. Vediamolo, in breve, lasciando loro la parola. Primo motivo. È interno, si sottolinea, al ragionamento stesso. Gli è ché «il vento della crescita non tornerà mai a spirare in poppa senza un vero e proprio programma di riforme». E non è certo un caso che il paese sia praticamente fermo da quindici anni: «tre quinquenni durante i quali l’economia mondiale è cresciuta come mai in passato». Perché, «nonostante la violenza della crisi globale, il 2009 è stato, per il mondo, solo una parentesi. Da noi, invece, sembra un incubo lungo vent’anni». Il vento della crescita, insomma, «soffia in varie parti del modo, ma non tornerà mai a soffiare in Italia se non cambiamo atteggiamento. L’Italia è un paese impantanato e, per ricominciare a crescere, deve necessariamente riformarsi». Secondo motivo. Quello che viene sollevato, si asserisce, è un falso problema. Esistono, infatti, «moltissime e importantissime riforme che si possono fare “senza aumentare di un solo euro il debito pubblico”. Sono le cosiddette “riforme a costo zero”», riforme decisive e attuabili «senza incidere sul bilancio pubblico», riforme che in alcuni casi «possono addirittura portare una riduzione della spesa pubblica proprio mentre aumenta il tasso di crescita potenziale della nostra economia». E dal momento che il tema posto alla base di questo libro è proprio quello delle «riforme a costo zero», spendiamo ancora qualche parola per ricordare che esse trovano illustrazione nei dieci capitoli in cui il libro si articola, capitoli di cui si danno qui appresso i titoli: «Investire 192 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 193 segnalazioni nell’immigrazione»; «L’apprendistato universitario»; «Decentramento, deroghe e standard minimi»; «Incentivi nel pubblico impiego»; «Professionisti più liberi e ordini trasparenti»; «Più lavori in famiglia»; «Come non tagliare le pensioni dei giovani»: «Il credito a chi vuole crescere». «Meno politici per scegliere meglio»; «Un partito per la crescita». E dunque un partito a favore delle riforme. rassegna della letteratura economica 193 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 194 a cura di antonio maria Fusco GIORGIO CALCAGNINI - ILARIO FAVARETTO (a cura di) L’economia della piccola impresa: «rapporto» 2011 Milano, Franco Angeli Editore, 2011 pp. 255, € 33 Ancora un «rapporto», il terzo, sulle problematiche e le tendenze della piccola e media impresa in Italia: esso è il frutto del lavoro, coordinato dai curatori del volume, di un gruppo di ricercatori delle Facoltà di Economia dell’Università di Urbino e dell’Università Politecnica delle Marche, nonché del centro studi di UniCredit. La finalità che li ha mossi e li accomuna è stata quella di approfondire la conoscenza di una realtà produttiva che risente anch’essa, e in non piccola misura, delle difficoltà del momento: cosa particolarmente preoccupante, data la notevole rilevanza che il settore riveste per l’economia del paese. Di qui un esame pressoché a tutto campo: ampio è infatti il ventaglio delle tematiche affrontate negli otto capitoli in cui il volume si articola e di cui ci si appresta a dare qui appresso sommariamente conto. Non senza aver prima ricordato che i contributi offerti «si muovono nell’ottica dell’analisi delle vie d’uscita da una crisi che ha perso le connotazioni critiche e va sempre più acquistando (si asserisce) quelle di un nuovo mutamento paradigmatico». Ma lasciamo la parola ai curatori, ai quali vanno presumibilmente attribuite le pagine non firmate dell’Introduzione che mi fanno da guida. Il primo capitolo («La piccola e media impresa in Italia») propone una riflessione generale su imprese di tal fatta operanti nel nostro paese, sia nelle loro dinamiche recenti, sia alla luce del contesto economico nazionale nel quale si muovono. Il secondo capitolo («Le piccole e medie imprese italiane nel dopo crisi: un nuovo modello?») si occupa delle dinamiche di mutamento di medio e di lungo periodo e delle novità emerse nel corso del passato decennio in questo ambito. Il terzo capitolo («Posizionamento competitivo dei settori manifatturieri italiani nel contesto europeo») offre una dettagliata analisi dell’evolu194 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 195 segnalazioni zione manifestatasi in detti settori nel periodo 2002-2007, evoluzione posta opportunamente a raffronto con quella verificatasi negli analoghi settori di attività economica dei principali paesi europei. Il quarto capitolo («I processi di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese italiane: criticità e prospettive») indaga la natura di siffatti processi, prospettati come possibile percorso di crescita in un contesto reso problematico dalla recente crisi economico-finanziaria. Il quinto capitolo («Territori, piccole imprese e sistema finanziario nell’uscita dalla crisi») analizza i delicati aspetti che l’«uscita» in questione presenta, soffermandosi in modo particolare sui rapporti di detto mondo con il sistema finanziario e sulle differenti dinamiche manifestatesi in ciascuna area del paese. Il sesto capitolo («Prestiti alle piccole imprese: il ruolo delle garanzie durante la crisi economica») si prefigge di identificare il ruolo e il peso relativo delle garanzie reali e personali nella determinazione dei tassi di interesse applicati, nel periodo 2006-2009, ai prestiti concessi alle piccole e medie imprese italiane, nonché di verificare se e come il ruolo delle banche è mutato durante la recente crisi economica e finanziaria. Il settimo capitolo («Il regime fiscale del ”nuovo” contratto di rete») si prefigge di delineare i tratti che caratterizzano la fiscalità di una figura, il contratto di rete, introdotto allo scopo di accrescere la capacità innovativa e la competitività sul mercato delle imprese italiane, segnatamente di quelle medio-piccole. L’ottavo capitolo («“Sales management” e piccole e medie imprese: problematiche e prospettive per le imprese calzaturiere») considera la gestione delle vendite in siffatti tipi di imprese, ponendo particolare attenzione al sistema delle relazioni tra l’impresa mandante e il personale di vendita: l’analisi poggia su una ricerca empirica esplorativa effettuata presso un campione di imprese calzaturiere. Siamo in presenza, come si vede, di un lavoro che affronta tematiche varie, tutte di grande momento per meglio comprendere difficoltà e prospettive di un settore, quello delle imprese di piccola e media grandezza, che si conferma «asse portante» del sistema produttivo italiano. rassegna della letteratura economica 195 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 196 a cura di antonio maria Fusco LEANDRO CONTE (a cura di) Le banche e l’Italia: crescita economica e società civile (1861-2011) Roma, Bancaria Editrice, 2011 pp. 366, s.i.p. Il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione italiana è stata occasione per numerose manifestazioni pubbliche di ritrovato patriottico sentire, nonché per molteplici iniziative promosse in ambienti i più diversi e dirette a ripensare criticamente passato e presente di vicende che a vario titolo costituiscono tappe rilevanti della nostra storia nazionale. Poteva l’Abi, l’Associazione bancaria italiana, restare alla finestra a guardare? Sarebbe stato invero ben strano, e non perché ci sono circostanze in cui la presenza è d’obbligo e non ci si può quindi sottrarre, pur se solo rituale dovesse poi risultare la partecipazione, bensì perché l’evoluzione del mercato finanziario e, al suo interno, del sistema bancario è aspetto non irrilevante del processo di unificazione della penisola. Metteva dunque conto farla oggetto d’esame, assai opportunamente affidato a una ricerca alla quale è stato dato il significativo titolo, che fa bella mostra di sé sulla copertina del volume qui segnalato, di «Le banche e l’Italia». Ma veniamo, guardandolo più da vicino, al volume in questione. Scrive, nella prefazione, Giuseppe Mussari: siamo in presenza di un’opera nella quale la storia bancaria d’Italia dell’ultimo secolo e mezzo «è declinata in quattro macro-periodi (1861-1914, 1915-1945, 19461990, 1991-2011), per i quali vengono analizzati i rapporti fra economia, società civile e banche, considerando queste ultime non solo come intermediari, ma quali soggetti complessi che interagiscono con il contesto sociale e produttivo». I temi fatti oggetto d’esame? Sono in breve i seguenti: l’ordinamento bancario e le sue regole, il rapporto banca-impresa-sviluppo, le relazioni tra le banche, i rapporti tra banche e società civile, l’intermediazione risparmio-investimento, le relazioni fra credito, reputazione, informazione e fiducia. 196 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 197 segnalazioni Tutti passaggi fondamentali, quelli appena ricordati, su cui ci si sofferma negli otto saggi distribuiti, a due a due, nelle quattro parti (che ai quattro sopra menzionati macro-periodi si richiamano) nelle quali il volume si articola. Di detti saggi si danno qui appresso le intestazioni. Le tematiche affrontate nella prima parte, intitolata L’unificazione nazionale, sono: «Banche e società civile» e «Banche ed economia nazionale»; quelle discusse nella seconda parte, intitolata L’Italia tra le due guerre, sono: «Le banche dall’autocrazia al controllo politico» ed «Economia e banche tra le due guerre»; quelle di cui ci si occupa nella terza parte, intitolata La repubblica, sono: «Programmazione economica e banca pubblica» e «Banche, regolamentazione e politica economica»; quelle approfondite nella quarta parte, intitolata L’Europa, sono: «Il processo di ridefinizione delle regole» e «L’industria bancaria italiana nell’Unione Europea». Sono pagine stimolanti, quelle che il volume offre, la loro lettura consentendo (scrive il prefatore) di cogliere la portata dei cambiamenti intervenuti, in campo bancario, nel secolo e mezzo di vita dell’Italia unita e, quel che più conta, «di trarne spunti utili a orientare l’azione futura, sulla base del presupposto che una stessa forza può unire la memoria del passato, il governo del presente e gli impegni per il domani». rassegna della letteratura economica 197 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 198 a cura di antonio maria Fusco VITTORIO DANIELE - PAOLO MALANIMA Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011) Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011 pp. 259, € 15 Sarà una maledizione, ma sembra proprio che non si riesca ad avere una Italia sola. Affermazione, questa, fatta certo per sorprendere, se non addirittura per scandalizzare: ma come, forse si osserverà, se abbiamo appena festeggiato, e con grande sventolio di bandiere e discorsi grondanti retorica, il 150° anniversario dell’unità del paese! Pure, sembra proprio che le cose stiano così. Anche se certo lontani sono i tempi in cui, vien fatto di ricordare, forzando la memoria, le milizie di un monarca straniero – Carlo VIII, che scendeva nella Penisola, dopo aver attraversato il Moncenisio, passato poi di mano e diventato nel ’47 francese, come francese era quel re – con boria mista a spregio cantavano: «nous conquerrons les Italies»: le Italie, al plurale. Certo, all’epoca, l’Italia era divisa in singoli stati indipendenti, tanto numerosi, verrebbe fatto di dire, che quasi non si contavano, laddove oggi è divisa in regioni autonome, che sono sì anch’esse numerose, ancor più numerose di quegli antichi stati, ma esercitano la loro autonomia all’interno di una compagine statale che si conserva unitaria: a dispetto di quei circoli che la conseguita unità politica vorrebbero mettere di nuovo in discussione. E quando ai nostri giorni si parla di Italie, perché il plurale tenacemente persiste, ci si riferisce non a una molteplicità di stati, quali erano quelli pre-unitari, bensì alle due aree geografiche (Centro-Nord, da un lato, Sud e Isole, dall’altro) in cui il paese resta economicamente diviso: ci troviamo pertanto in presenza non più di molteplici Italie, come fu in passato, ma di due Italie soltanto, due realtà separate da un divario che, malgrado ogni sforzo (e sì che ne sono stati fatti, vuoi sul piano della teoria, per darsi ragione del fenomeno, vuoi su quello della prassi, per avviarlo a soluzione), non si riesce a vincere. 198 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 199 segnalazioni C’è dunque di che restar delusi. E lo sconforto certo non manca, ma non tutti sono stati spinti a voltar pagina per occuparsi d’altro. Restano, infatti, ancora in tanti a chiedersi che cosa ha determinato quel divario e che cosa ha sin qui impedito di «riassorbirlo». Siamo in presenza di diagnosi non adeguate? di terapie insufficienti o male applicate? Chissà. Forse, se dovesse farsi strada il convincimento che siano di fronte a un male incurabile, ci sentiremmo per così dire «assolti». Ma non sembra che sia così. O almeno non si è disposti a crederlo. Non si spiegherebbe, diversamente, l’attenzione che continua a venir riservata al fenomeno, sia sul piano del dibattito politico, sia su quello del dibattito intellettuale. E di quest’ultimo, vorrei ricordare, è un esempio rilevante il volume che qui si segnala, un volume che, nell’affrontare il tema del divario NordSud in Italia, adotta il punto di vista storico ed economico e persegue un preciso obiettivo: cercare di «capire meglio i meccanismi della disuguaglianza regionale in un esempio nazionale di crescita moderna». Quale appunto è stata quella italiana fra il 1861 e il 2011. Perché il dualismo che ci affligge altro non è, si asserisce, che «un aspetto della crescita moderna dell’economia del paese», e va dunque esaminato «all’interno del processo di modernizzazione che l’Italia ha attraversato nell’ultimo secolo e mezzo della sua storia». In altre parole, gli autori non si pongono nella scia della «abbondantissima letteratura sui problemi del Mezzogiorno italiano, costituita in larga prevalenza da dibattiti sul perché in Italia ci siano un Nord e un Sud, sugli sbagli commessi e su cosa si dovrebbe fare per avvicinare le due parti del paese». E con forza dichiarano: «tutto questo esula dai nostri interessi». Che sono altri e trovano alimento, come si accennava, in «curiosità» che solo l’attenzione rivolta al binomio disuguaglianze regionalicrescita economica moderna può soddisfare. La qual cosa spiega perché essi abbiano cercato di «raccogliere informazioni, in prevalenza quantitative, su come siano andate le cose, ricostruendo soprattutto i cambiamenti nella produzione, nel lavoro e nella produttività». Una raccolta di informazioni quantitative e una ricostruzione dei rassegna della letteratura economica 199 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 200 a cura di antonio maria Fusco mutamenti verificatisi distribuite dagli autori in quattro nutriti capitoli: «nel primo vengono descritte le differenze fra Nord e Sud nei decenni immediatamente successivi all’Unità; nel secondo si esamina il prodotto pro capite per regione e poi nel Nord e nel Sud; nel terzo si considera il mercato del lavoro per regione e nelle grandi aree del paese; nel quarto si combinano i risultati dei due capitoli precedenti e si discute il tema della produttività». Il volume, ricordo ancora, è arricchito da numerose appendici statistiche. 200 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 201 segnalazioni GIOVANNI MALAGODI Aprire l’Italia all’aria d’Europa. Il diario europeo (1950-1951) a cura di Giovanni Farese Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011 pp. 117, € 18 «Entriamo in un’epoca», scriveva desolato André Gide, «nella quale il liberalismo diventerà la virtù più sospetta e la meno praticabile». Sono parole del 1940: la Francia era in ginocchio, la Germania (alla quale il nostro paese si era incautamente accodato) trionfava, l’Inghilterra era rimasta (mi sembra che Churchill abbia poi detto) «sola nella bufera». E nel modo in cui il liberalismo veniva visto nella maggior parte dei paesi europei, segnatamente nella Spagna franchista e nella Russia sovietica, esempi a questo proposito quanto mai eloquenti, c’era assai più (occorre ricordarlo?) che semplice diffidenza. E come avrebbe potuto, un liberale, non soffrire di tale stato di cose? La risposta è scontata: lo testimoniano le scelte di Giovanni Malagodi (1904-1991), che liberale si sentiva e mai ne avrebbe dimesso l’abito. Figlio di madre ebrea, Gabriella Levi, e di Olindo, giornalista di grido vicino alle posizioni di Giolitti, Malagodi aveva portato i figli alla fonte battesimale, e si era poi fatto lui stesso, sul finire degli anni trenta, battezzare. Per prudenza? Va detto subito, ove mai dovesse essere stata questa la motivazione della sua scelta, che non si trovò nella condizione di doversene servire, di doverla trasformare insomma in salvacondotto, e salvacondotto prezioso in tempi di persecuzioni razziali. Ebbe infatti la fortuna di restare lontano dall’Europa illiberale degli anni più bui, quelli della guerra: aveva fissato infatti la sua residenza in Argentina, a Buenos Aires, e non perché fosse in fuga dalle dittature e dunque profugo. Era la carica all’epoca rivestita che lo aveva «favorito». Perché, dopo essere entrato, grazie a Raffaele Mattioli, nella Comit di Giuseppe Toeplitz e avervi fatto esperienze varie, in patria e all’estero, era stato nominato ai vertici di un istituto partecipato da Comit e Paribas, la Sudameris, la rassegna della letteratura economica 201 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 202 a cura di antonio maria Fusco Banca francese e italiana per l’America del Sud, che si ritenne opportuno, una volta scoppiato il conflitto, rendere autonoma sul piano gestionale, trasferendone la direzione, da Parigi dov’era, in più tranquilli luoghi. Rientrato in Italia, a guerra conclusa, Malagodi mostrerà di voler dare una decisa svolta alla propria vita: andrà infatti alla ricerca di incarichi che più soddisfacessero il suo desiderio di emergere, ed entrerà di lì a poco nella politica attiva. Sarebbe diventato parlamentare, segretario prima e presidente poi del partito liberale, ministro del Tesoro. Giunse persino a sedere, per alcuni mesi, sul più alto scranno di Palazzo Madama. Ma i primi passi compiuti alla ricerca di una nuova collocazione lo avrebbero condotto, ancora una volta, a Parigi, nella capitale francese, chiamato ad assumervi (è il 1948) l’incarico di rappresentante italiano presso l’Oece, l’organizzazione europea per la cooperazione economica, che in quella città aveva sede col compito di amministrare i fondi del Piano Marshall e di coordinare il processo di ricostruzione europea. E gli anni trascorsi in tale impegnativa veste rivivono in parte nel diario che all’epoca egli tenne, le cui pagine vengono portate oggi assai opportunamente alla luce da Giovanni Farese con la perizia di chi è aduso a muoversi con agilità negli archivi. Sono anni, il curatore ci rammenta, «in cui si definisce il profilo di un Malagodi “di mezzo”, economista e civil servant, che segue il primo Malagodi, il brillante banchiere della Banca Commerciale, e precede il secondo Malagodi, il politico leader del partito liberale». Rivelando aspetti non secondari della sua personalità: perché se è vero, come fu detto, che Malagodi «è più noto al pubblico per l’attività politica che non per l’eccezionale talento di banchiere», ciò vale «a fortiori per l’attività svolta all’Oece, che pure è stata definita “l’esperienza più positiva della sua vita”». Compongono il diario, ricordo in breve col curatore, tre piccoli quaderni. Gli appunti in essi contenuti coprono un arco di tempo di poco più di un anno: vanno dal febbraio del 1950 al marzo del 1951. Una fase, si sottolinea, circoscritta ma cruciale, vuoi per il processo di integrazione europea, vuoi per lo stesso Malagodi, che si muove senza 202 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 203 segnalazioni sosta tra Roma, Washington e il quartiere generale dell’Oece a Parigi. «E ciò (si aggiunge) a un livello più generale consente di gettare uno sguardo su come, e in che misura, gli indirizzi di politica economica assunti dai governi possano essere il frutto dell’unità di pensiero e di azione di ristrette cerchie di uomini»: degli uomini che egli incontrava e con cui serratamente dialogava. Sempre all’insegna di un obiettivo che ritroviamo sinteticamente espresso nel titolo del volume: occorre «aprire l’Italia all’aria europea». Sono parole sue, queste prese dal curatore in prestito per la copertina, parole che, a dispetto degli anni trascorsi, non hanno perso d’attualità. rassegna della letteratura economica 203 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 204 a cura di antonio maria Fusco MARIA CECILIA GUERRA - ALBERTO ZANARDI (a cura di) La finanza pubblica italiana: rapporto 2011 Bologna, il Mulino, 2011 pp. 293, € 26 Questo tradizionale «rapporto», annualmente offerto a mo’ di utile guida a chi intenda volenterosamente scendere su un terreno niente affatto piano, che le difficoltà dell’ora hanno reso ancor più impervio, si presenta ai lettori in veste rinnovata, vale a dire con una struttura diversa da quella adottata negli anni che corrono fra il 2004 e il 2009, e ciò per meglio valorizzare, dichiarano i curatori, ma senza iattanza, «la sua capacità di analisi critica tempestiva, puntuale e continua» delle politiche di finanza pubblica adottate nel nostro paese. La scelta è stata, in breve, la seguente: «dare più spazio alla descrizione e alla discussione di tali politiche, coinvolgendo anche, come coautori o con contributi autonomi, apporti esterni al gruppo degli abituali collaboratori». Una scelta, mette conto aggiungere, che ha di conseguenza comportato la rinuncia alla usuale sezione monografica e un ampliamento dei capitoli dedicati a quei settori d’intervento pubblico fatti da sempre oggetto di attenzione nel «rapporto». I capitoli nei quali il volume si articola, dei quali si trascrivono i titoli e si forniscono i nomi degli estensori, sono i seguenti nove: «I conti pubblici: un faticoso rientro», di Giuseppe Pisauro; «Regole per il controllo della spesa pubblica: come far sì che Achille raggiunga la tartaruga», di Fabrizio Baldassone, Daniele Franco e Stefania Zotteri; «Erosione ed evasione delle imposte: alla ricerca del gettito perduto», di Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra; «Pensioni pubbliche e pensioni private e adeguatezza delle prestazioni: le conseguenze della variabilità dei rendimenti», di Carlo Mazzaferro e Alessandro Magi; «Ammortizzatori sociali e spesa per assistenza: l’impatto della crisi e le risposte di policy», di Massimo Baldini e Stefano Toso; «La sanità tra conservazione, innovazione e incertezze normative», di Enza 204 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 205 segnalazioni Caruso e Nerina Dirindin; «Povera università: il governo degli atenei in epoca di tagli», di Paolo Silvestri; «Federalismo fiscale: prove di attuazione», di Alberto Zanardi; «Servizi di pubblica utilità e interventi infrastrutturali», di Alberto Cavaliere e Alessandro Scarioni. Sono tutti contributi, quelli menzionati, consegnati dagli autori per la stampa nell’arco di tempo che corre fra metà marzo e inizio aprile del 2010: essi non tengono né avrebbero potuto tener dunque conto di quanto è accaduto successivamente. Del resto, questo non è e non vuol certo essere un instant book, e sarebbe invero assai strano se si pretendesse che lo fosse. Tutt’altra, infatti, è la sua dichiarata finalità: sottoporre ad esame critico le politiche pubbliche adottate dal governo nel corso del 2010, con particolare riferimento a quei rilevanti ambiti di intervento che già i menzionati titoli dei saggi si incaricano di porre in evidenza: conti pubblici, fisco, previdenza, politiche sociali, servizi di pubblica utilità, finanza decentrata, sanità e via discorrendo. E tuttavia, qualche squarcio su ciò che è accaduto nei primi mesi del 2011 viene nell’introduzione timidamente aperto: segnatamente sul terreno dell’evoluzione nel coordinamento delle politiche europee e nella programmazione degli obiettivi nazionali. C’è di più: pur se l’anno di riferimento è il 2010, le analisi offerte in qualche misura di fatto lo trascendono, ché restano attuali le problematiche su cui ci si concentra: il controllo dei conti pubblici, il processo di attuazione del federalismo fiscale, le risposte delle politiche a una crisi economica che, mordendo sempre più, obbliga ad effettuare scelte sempre più incisive. rassegna della letteratura economica 205 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 206 a cura di antonio maria Fusco PIETRO ICHINO Inchiesta sul lavoro Milano, Mondadori Editore, 2011 pp. 240, € 18 Mi accingo a scrivere questa «scheda» mentre in Italia infuria il dibattito su una riforma, quella del mercato del lavoro, che il governo sta faticosamente cercando di far digerire sia a sindacati incerti o riottosi (alcuni già sul piede di guerra), sia a forze politiche smarrite o in ambasce (alcune già pronte a dar battaglia in parlamento). Né c’è poi da stupirsi delle resistenze a cui su questo terreno si va incontro: mai, infatti, le «cose guaste» si riformano con «universal contento». Anche perché, difesa di interessi corporativi a parte, non a tutti appare «guasto» ciò che ad altri sembra invece tale. Di qui, a voler semplificare, due schiere contrapposte, pur se tutt’altro che compatte al loro interno: da una parte, quella dei conservatori, fautori di uno status quo che, perno il mitizzato articolo 18 dello statuto dei lavoratori, andrebbe quasi cristallizzato à jamais, a dispetto di esigenze nuove che finiscono coll’essere così lasciate tranquillamente disattese; dall’altra, quella dei progressisti, patrocinatori di svolte che da un lato attenuino il dualismo oggi esistente tra lavoratori protetti (dunque privilegiati: gli occupati, cioè, in imprese con più di quindici dipendenti) e lavoratori non protetti (dunque sacrificati: precari e disoccupati, cioè, privi di tutele e coperture assicurative), e dall’altro favoriscano la nascita di un mercato più flessibile, premessa irrinunciabile per l’auspicata crescita di una domanda di lavoro che privilegi non la provvisorietà nei rapporti che si instaurano, ma una stabilità che dovrebbe essere non il giudice (fatto salvo il caso di palesi discriminazioni) a garantire nelle affollate aule di tribunali nei quali il tempo sembra essersi arrestato. E viene a questo punto naturale chiedersi, dopo aver tutto ciò sommariamente ricordato: in quale delle due schiere sopra richiamate si colloca l’autore del libro che qui si segnala? La risposta è agevole, 206 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 207 segnalazioni limpida essendo la sua posizione: non nella schiera che mi sono lasciato andare a definire dei conservatori, bensì in quella dei progressisti. Pietro Ichino è insomma ben lungi dall’erigersi a difensore di quell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che alcuni ambienti della sinistra politica e sindacale hanno tutta l’aria di vivere come la linea del Piave del nostro sistema di relazioni industriali. La qual cosa spiega, ma certo non giustifica, perché siano a sinistra molti di coloro che hanno finito col prendere le distanze dalle sue prese di posizione: a volte se mai con rammarico, quasi egli fosse persona smarritasi strada facendo, altre volte andando molto al di là del civile dissenso, tanto da giungere a rivolgergli l’accusa di «intelligenza col nemico»: vale a dire col padronato, con la destra, con le forze (sempre in agguato, a quanto pare) della reazione. Qualcuno, è noto, ha addirittura pensato che Ichino fosse per ciò stesso persona da zittire. E dal momento che il verbo è stato coniugato in passato, un passato neppure troppo remoto, in modo niente affatto rassicurante, anzi più volte tragico, egli si è trovato costretto, suo malgrado, a vivere sotto scorta. Ma, non essendo uomo da arrendersi, ha continuato a guardare al mercato del lavoro portando avanti le sue idee, idee che trovano in questo libro nuovo spazio e vi vengono enunciate con rinnovato vigore. La formula adottata è accattivante. Siamo infatti in presenza di un immaginario dialogo con una persona chiamata, per così dire, a fargli «da spalla»: e dunque intenta a porre quesiti (che ricevono risposte articolate), ad avanzare obiezioni (che stimolano puntualizzazioni chiarificatrici), a rinvangare accuse (debitamente rinviate al mittente). Fra le tante, anche quella, sopra richiamata, di «intelligenza col nemico». Che cessa, però, di essere «infamante» e può venire addirittura ritenuta, osserva l’autore, non del tutto priva di un qual certo fondamento: se, beninteso, la si priva del carattere di condanna personale, con sentenza passata in giudicato, pur se non suffragata da convincenti prove, e la si legge come addebito frutto di una «concezione vecchia» delle relazioni industriali. In fondo, osserva Ichino, ciò che propongo è rassegna della letteratura economica 207 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 208 a cura di antonio maria Fusco un rovesciamento di quella concezione: gli è che, si precisa, «il nemico non sta più dove fino a ieri lo abbiamo visto o creduto di vederlo»: sta altrove. Si nasconde, fra l’altro, «nelle incrostazioni delle vecchie tecniche di protezione», alle quali si fa fatica a rinunciare. Bisogna dunque cercarlo là dove si cela. Ed è superfluo aggiungere che questo libro vuol esserci d’aiuto, vuol darci una mano a «identificarlo»: per poterlo poi combattere alfine con successo. 208 economia italiana 1•2012 EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 209 L’Italia in cifre EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 210 EI_01012_Italia_cifre_pp.211-216 01/06/12 19.23 Pagina 211 I rischi L’Italia in cifre Gli investimenti diretti esteri (IDE) Sempre più rilevanti. Il fenomeno degli IDE è andato crescendo negli ultimi 15 anni: nel 2010 il loro stock nel mondo valeva quasi il 30% del Pil mondiale. Andamento dello stock di IDE nel mondo in % del Pil mondiale, 1996-2010 Fonte Banca dati Unctadstat Definizioni e note IDE – Investimenti Diretti Esteri: gli IDE sono investimenti realizzati per stabilire un rapporto di lungo termine o acquisire una posizione durevole in imprese registrate all’estero con l’obiettivo di avere voce in capitolo nella gestione dell’impresa. In genere, all’investimento corrisponde l’acquisto di azioni o quote societarie con una soglia minima fissata convenzionalmente al 10%. Altre forme di investimento, oltre all’acquisto di quote, che vengono classificate come IDE sono il reinvestimento degli utili e la stipula di prestiti a lungo o breve termine tra casa madre e controllata. Investimenti Greenfield: gli investimenti greenfield (a prato verde) sono IDE che comportano l’apertura o costruzione ex novo di uffici, edifici, stabilimenti e imprese. L’investimento può avvenire tramite l’apertura di una filiale, di un’unità locale o operativa o di una società. Nota: C’è una notevole discrepanza tra i dati globali dei flussi IDE in entrata e di quelli in uscita, dovuta a diversi fattori. Il primo è che le stesse transazioni registrate dal paese origine e quello destinatario dell’investimento possono differire per classificazione della transazione, metodo di raccolta dei dati o tasso di cambio applicato. Il secondo fattore è la continua evoluzione dei tipi di transazione utilizzati e il loro divenire sempre più sofisticati. Infine, può essere complicato distinguere tra investimento diretto e investimento di portafoglio. Le discrepanze sono più rilevanti per i paesi in via di sviluppo. L’ItALIA In CIfrE 211 EI_01012_Italia_cifre_pp.211-216 01/06/12 19.23 Pagina 212 Ma non per l’Italia. Al contrario degli altri principali paesi europei l’Italia non figura nei primi 20 paesi destinatari di investimenti diretti esteri. I primi 20 paesi destinatari di IDE, 2010 (mld di USD) Fonte World Investment Report 2011, Unctad, Ginevra, 2011 Un basso stock di IDE. Il nostro paese è al 26° posto nella classifica europea per stock di IDE in entrata rispetto al Pil. Unione Europea: stock di IDE in % del Pil, 2010 Fonte Banca dati Unctadstat 212 EConomIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Italia_cifre_pp.211-216 01/06/12 19.23 Pagina 213 Un paese che fa fatica ad attrarre. Nel decennio 2001-2010, l’Italia ha quasi sempre attratto meno investimenti dei principali paesi europei. Principali paesi UE: flussi di IDE in entrata, 2001-2010 (miliardi di USD a prezzi e tassi di cambio correnti) Fonte Banca dati Unctadstat Pochi greenfield, per valore… Il valore dei progetti di investimento greenfield realizzati in Italia tra il 2005 e il 2010 è stato inferiore a quello dei principali paesi europei. Principali paesi UE: quota del valore dei progetti greenfield rispetto al totale UE, media 2005-2010 Fonte elaborazione su dati World Investment Report 2011, Unctad, Ginevra, 2011 L’ItALIA In CIfrE 213 EI_01012_Italia_cifre_pp.211-216 01/06/12 19.23 Pagina 214 …e per numero. Lo stesso dicasi per il numero dei progetti di investimento. Principali paesi UE: quota del valore dei progetti greenfield rispetto al totale UE, media 2005-2010 Fonte elaborazione su dati World Investment Report 2011, Unctad, Ginevra, 2011 Ma quando ci sono, sono investimenti consistenti. Il valore medio dei progetti di investimento è stato invece superiore a quello dei principali paesi europei. Principali paesi UE: valore medio dei progetti greenfield, media 2005-2010 (milioni di USD a prezzi e tassi di cambio correnti) Fonte elaborazione su dati World Investment Report 2011, Unctad, Ginevra, 2011 214 EConomIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Italia_cifre_pp.211-216 01/06/12 19.23 Pagina 215 Chi è presente in Italia. Fatta eccezione per Lussemburgo e Belgio, il cui dato risente dell’offshoring di imprese italiane, i principali paesi presenti in Italia sono Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Germania, Stati Uniti, Svizzera e Spagna. Italia: primi 15 paesi presenti in Italia (% sul totale dello stock di IDE), 2010 Fonte elaborazione su dati "Investment Country Profiles - Italy, 2012", UNCTAD, New York e Ginevra, Febbraio 2012, basati su dati Banca d'Italia E chi investe di più. I paesi che hanno investito di più nel quinquennio 2006-2010 sono quasi gli stessi. Manca la Francia che ha invece disinvestito in misura consistente. I 15 paesi che investono di più in Italia: totale dei flussi IDE verso l'Italia nel periodo 2006-2010 (% sul totale dei flussi IDE verso l'Italia) Fonte elaborazione su dati "Investment Country Profiles - Italy, 2012", UNCTAD, New York e Ginevra, Febbraio 2012, basati su dati Banca d'Italia L’ItALIA In CIfrE 215 EI_01012_Italia_cifre_pp.211-216 01/06/12 19.23 Pagina 216 Cosa cercano gli investitori… Un’indagine dell’Unctad ha confermato come il mercato sia di gran lunga il fattore localizzativo principale, seguito dalla presenza di fornitori e partner, di un contesto favorevole e di manodopera qualificata. Principali fattori che influenzano la scelta localizzativa degli IDE Fonte “World Investment Prospects Survey 2009-11”, Unctad, New York e Ginevra, 2009, United Nations …e verso quali settori si dirigono quando investono in Europa. I dati di fDI Market indicano come settore particolarmente appetito quello delle energie rinnovabili, seguito dal settore immobiliare, da quello dei mezzi di trasporto, quindi da quello dei servizi finanziari e alle imprese e, infine, da quello del software e ICT. I principali settori di destinazione degli IDE in Europa nel 2011 Fonte “The fDI report 2012”, fDI Markets 216 EConomIA ItALIAnA 1•2012 EI_01012_Finali_pp.217-224 01/06/12 19.27 Pagina 217 EI_01012_Finali_pp.217-224 01/06/12 19.27 Pagina 218 EI_01012_Finali_pp.217-224 04/06/12 14.31 Pagina 219 Nel prossimo numero in uscita a settembre L’ITALIA NELL’ECONOMIA MONDIALE Editoriale Marcello De Cecco In controluce VIZI E VIRTÙ DEL DEBITO PUBBLICO Antonio Pedone Peter Praet Tema di discussione LA COLLOCAZIONE DELL’ITALIA NELL’ECONOMIA MONDIALE La nuova competizione globale e la risposta italiana Paolo Guerrieri e Piero Esposito I sistemi di imprese guida nel processo di internazionalizzazione dell’economia italiana Fulvio Coltorti L’effetto della Cina sui prezzi alle esportazioni italiane Giorgia Giovannetti e Marco Sanfilippo Studi e ricerche Il sistema dei porti e della logistica in Italia Rassegna della letteratura economica A cura di Antonio Maria Fusco L’Italia in cifre EI_01012_Finali_pp.217-224 01/06/12 19.27 Pagina 220 EI_01012_Finali_pp.217-224 01/06/12 19.27 Pagina 221 EI_01012_Finali_pp.217-224 01/06/12 19.27 Pagina 222 EI_01012_Finali_pp.217-224 01/06/12 19.27 Pagina 223 EI_01012_Finali_pp.217-224 01/06/12 19.27 Pagina 224 Economia Italiana Direttore responsabile: Alessandro Spaventa UNICREDIT Spa, via A. Specchi, 16 - 00186 Roma Tel. +39.06.6707.0245 / 0678; Fax +39. 06.67.07.0241 / 0778 E-mail: [email protected] ASSOCIATO ALL’USPI UNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA Registrazione del Tribunale di Roma n. 43/1991 del 24.1.1991 Service editoriale: Banda Larga Srl via Atanasio Kircher, 7 - 00197 Roma Tel. +3906.8091.271 Fax +3906.8076.819 Copertina a cura di: Roberto Steve Gobesso Impaginazione: Fabio Rizzo In copertina: View Pictures / UIG via Getty Images London Bridge Tower, London Bridge Quarter, Architect: Renzo Piano Building Workshop, 2012. Printing: I.G.F. Industria Grafica Falciola -Torino Finito di stampare: maggio 2012