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ECONOMIA ITALIANA
Numero 1 | primavera 2012
Pubblicazione quadrimestrale
a cura di UNICREDIT
Roma
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ECONOMIA ITALIANA
Fondata nel 1979 da Mario Arcelli
Direttore scientifico
Paolo Guerrieri
Vice direttore scientifico
Giovanni Farese
Direttore responsabile
Alessandro Spaventa
Comitato scientifico
Giorgio Basevi, Università di Bologna
Innocenzo Cipolletta, Università di Trento
Marcello De Cecco, Scuola Normale Superiore, Pisa
Antonio Maria Fusco, Università di Napoli Federico II
Giorgia Giovannetti, Università di Firenze
Pier Carlo Padoan, OCSE, Parigi
Luigi Paganetto, Università di Roma Tor Vergata
Antonio Pedone, Sapienza Università di Roma
Margherita Scarlato, Università di Roma Tre
Paola Subacchi, Chatham House, Londra
Coordinatore delle pubblicazioni scientifiche
Elena Fenili (Head of Political Studies)
Staff editoriale
Maria Lodovica Migliorini (Segretario di redazione)
Rinaldi Rinaldi (Relazioni esterne ed eventi)
Vincenza Talone (Coordinamento interno)
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Economia italiana 1•2012
Sommario
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Editoriale
Rigore, crescita, equità: la sfida italiana
Paolo Guerrieri
In controluce
LA NUOVA FASE DELLA GLOBALIZZAZIONE
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Ripensare la globalizzazione
Paola Subacchi
27
Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti
degli economisti
Mario Deaglio
Tema di discussione
IL SENTIERO DI AGGIUSTAMENTO A MEDIO TERMINE
DELL’ECONOMIA ITALIANA
37
Il risanamento dei conti pubblici
Giuseppe Pisauro
63
L'Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
Innocenzo Cipolletta e Sergio De Nardis
99
Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa
in Italia
Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
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147
Studi e ricerche
Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI
Francesca Bartoli
173
Rassegna della letteratura economica
A cura di Antonio Maria Fusco
209
L’Italia in cifre
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Editoriale
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I rischi
Rigore, crescita, equità: la sfida italiana
Paolo Guerrieri
Direttore Scientifico di Economia Italiana, Sapienza Università di Roma
Dalla primavera dello scorso anno l’economia italiana è entrata nel
vortice della crisi dell’euro e da quel momento le sue sorti sono rimaste
strettamente legate agli incerti e fluttuanti andamenti dell’area europea.
È una crisi che ha certamente molte cause, ma tra le principali vi è il
deficit accumulato in questi anni dall’Europa. Un deficit economico e
sociale, innanzi tutto, cui si è aggiunto un preoccupante deficit politico,
che ha danneggiato il progetto dell’euro come fase di passaggio verso
successive e più avanzate forme d’integrazione.
Dall’autunno del 2009, quando tutto è cominciato con le rivelazioni
sui trucchi di bilancio operati dal governo di Atene, la risposta della
classe politica europea è stata segnata da incredibili ritardi e ambiguità.
I paesi dell’euro, in prima linea Germania e Francia, anziché affrontare
con tempestività e determinazione i problemi emersi dalla più grave
crisi del dopoguerra, hanno preferito, per ragioni eminentemente politiche di natura interna ai singoli paesi, prima negarli, poi rinviarli e infine
cercare di risolverli con misure e interventi apparsi sempre troppo
timidi e tardivi per risultare convincenti agli occhi di investitori e
mercati internazionali. Solo di recente, col varo di nuove misure e strumenti della governance europea – ultimo in ordine di tempo il varo del
cosiddetto “Fiscal Compact” – si è arrivati a riconoscere le implicazioni
sistemiche della crisi, non più circoscrivibili ai paesi maggiormente
indebitati (Grecia, Spagna, Portogallo). Non sorprende così che i
mercati finanziari internazionali abbiano avuto facile gioco ad approfittare di volta in volta – anche grazie all’assenza di efficaci regolamentazioni – di questi comportamenti tardivi e poco efficaci.
Il risultato è che a tutt’oggi la crisi è ben lungi dall’essere risolta. Il
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Paolo Guerrieri
problema più grave da fronteggiare è la fase recessiva in atto in un vasto
insieme di paesi periferici europei unitamente alla prospettiva – negli
scenari più ottimistici – di un ristagno più o meno prolungato nei prossimi anni dell’area euro nel suo insieme. In assenza di una rinnovata
dinamica di crescita, l’austerità fiscale – oggi perseguita dai più perché
necessaria – rischia di divenire in poco tempo intollerabile e trasformarsi in un vero e proprio circolo vizioso che può spingere verso un
ulteriore aggravamento della crisi.
Vecchie e nuove fragilità dell’economia italiana
L’economia italiana è stata una delle più colpite in Europa dall’esplodere,
prima, e dall’aggravarsi, poi, della crisi. Il suo stato di salute era stato
indebolito dalla perdita di terreno manifestatasi dalla metà degli anni
’90 e per oltre un quindicennio rispetto alla crescita dei paesi più avanzati. Anche nella più recente breve fase di ripresa, la crescita italiana è
risultata modesta, al di sotto la media europea. Siamo poi entrati in una
nuova recessione che rischia di prolungarsi e debilitare ulteriormente
le condizioni di fondo della nostra economia.
La perdurante fragilità del nostro paese è ovviamente imputabile a
molteplici e complessi fattori. Si può tentare di sintetizzarli distinguendo quelli di breve periodo da quelli di più lungo periodo. Tra i
primi, si può certamente ricordare che è stato fatto assai poco negli
ultimi anni per arginare gli effetti della drammatica crisi globale: sono
state stanziate pochissime risorse per la crescita e non è stata messa in
campo alcuna vera strategia di politica economica. Un’inerzia che è
costata cara in termini di ulteriore indebolimento dei nostri fondamentali e che è solo in parte giustificata dall’elevato stock di debito pubblico
che ci accompagna da anni.
Poi vi sono le cause di più lungo periodo, legate ai problemi strutturali della nostra economia – assai numerosi e purtroppo noti da
qualche tempo – che vanno dalle fragilità del sistema produttivo e della
ricerca, alla carenza d’infrastrutture, all’inefficienza del sistema di
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Rigore, crescita, equità: la sfida italiana
welfare e della Pubblica Amministrazione, al dualismo territoriale,
tanto per ricordare le più importanti. Il dato in assoluto più negativo
riguarda l’andamento della produttività totale dei fattori, un indicatore
assai rilevante perché riassume la capacità di un’economia di combinare in maniera efficiente la dotazione complessiva di capitale e lavoro
che rappresenta l’ingrediente primo della crescita di un paese. Ebbene,
nel corso dell’ultimo decennio tale indicatore segnala un preoccupante
arretramento della nostra economia, ulteriormente aggravatosi nel
periodo più recente. Sono tendenze di per sé preoccupanti e lo diventano ancor più se confrontate con quelle dei nostri maggiori partner
europei, che hanno fatto registrare nell’ultimo quindicennio dinamiche della produttività totale dei fattori significativamente superiori
a quelle del nostro paese.
Il mix composito di rigore, crescita ed equità
Le difficoltà di antica data dell’economia italiana sono aggravate dalla
crisi dell’euro. Le gravi turbolenze dei mercati finanziari e l’impennata
degli spread tra Btp italiani e Bund tedeschi hanno reso ancora più
oneroso il servizio del nostro debito e più stringenti le condizioni della
nostra finanza pubblica, con un rapporto debito/Pil che resta il più alto
in Europa, dopo quello della Grecia. Diviene fondamentale e ancora
più urgente intervenire. Anche perché vi è sempre meno tempo a disposizione per varare le misure necessarie e, soprattutto, metterle in atto.
Due sono i grandi obiettivi da perseguire, in qualche modo scontati:
la riduzione del deficit e del debito pubblico, da un lato, e il rilancio
della crescita, dall’altro. Rappresentano una sorta di condizione necessaria per un percorso di graduale riconquista da parte nostra della credibilità e fiducia dei mercati che – è inutile illudersi – sarà molto lungo.
Rigore e crescita andranno altresì coniugati, nelle misure e negli interventi da adottare, con una maggiore equità sociale: non solo e non tanto
per ragioni di giustizia, ma anche di efficienza. È evidente, in effetti,
l’esigenza di cominciare a invertire le forti diseguaglianze nella distrieditoriale
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Paolo Guerrieri
buzione dei redditi e della ricchezza che sono state accumulate in questi
ultimi due decenni e che hanno contribuito al ristagno della nostra
economia. Solo assicurando una simmetria, decisamente più accentuata
rispetto al passato, nella distribuzione dei costi e dei sacrifici necessari
sarà possibile procedere contemporaneamente a riconquistare la fiducia
dei cittadini italiani, penalizzata in misura significativa dalle vicende
della crisi, e rinsaldare quella coesione politica e sociale in grado di
trasformarsi in un fattore importante di sviluppo.
Se è relativamente agevole indicare i motivi che giustificano, ai fini
del successo di un processo di aggiustamento a breve e medio termine
della nostra economia, il ruolo che potrà svolgere singolarmente
ognuna delle tre esigenze sopraricordate – rigore, crescita, equità – assai
più difficile, ma altrettanto rilevante, è individuare i legami e i modi di
conciliare tra loro queste tre finalità. È quanto abbiamo cercato di fare
con i tre contributi pubblicati nella rubrica centrale del primo numero
di quest’anno di Economia Italiana, intitolata «Tema di discussione».
Ne emerge un messaggio comune che riconosce sia le difficoltà nel
perseguimento di ognuna delle tre esigenze sia le sinergie possibili tra
di esse. Ma non vi è nulla di scontato, perché molto dipenderà dalle
politiche e dagli interventi che verranno messi in atto.
Necessità e rischi dell’austerità
Ai fini di un positivo consolidamento fiscale e di una ritrovata fiducia
dei mercati finanziari, il nostro tallone d’Achille era e resta l’elevatissimo
rapporto debito/Pil che continua a oscillare intorno al 120%. Come
mostra nel suo articolo Giuseppe Pisauro, uno stabile processo di riduzione nel tempo dell’enorme stock di debito fin qui accumulato, come
richiesto anche dalle nuove regole europee, richiederà innanzi tutto un
consistente avanzo primario di bilancio e il suo mantenimento nel
tempo. È un obiettivo raggiungibile, a patto di fissare bene le priorità
degli interventi su livelli e composizione delle entrate-spese pubbliche,
da rispettare poi meticolosamente nelle scelte effettuate. È una logica
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Rigore, crescita, equità: la sfida italiana
diametralmente opposta ai tagli lineari applicati in passato, che hanno,
di fatto, impedito ogni serio e duraturo risanamento.
Va riconosciuto, allo stesso tempo, che non esistono facili scorciatoie
come la fantasiosa formula della “contrazione fiscale espansiva”, per cui
una politica restrittiva sarebbe addirittura in grado di generare di per
sé nuova domanda e crescita. È semmai vero il contrario come segnalato
dallo stesso Fondo Monetario Internazionale: politiche fiscali di aggiustamento troppo intense e concentrate nel breve termine possono penalizzare fortemente il potenziale di crescita di un’economia e innescare
un pericoloso circolo vizioso di avvitamento verso il basso.
È una sorta di trappola in cui si può infilare anche la nostra economia
e può far sì che gli effetti recessivi indotti dalle politiche di austerità
peggiorino deficit e debito pubblico, vanificando i potenziali miglioramenti dei conti pubblici legati a queste stesse politiche. A quel punto
lo spread peggiorerebbe senza sosta così da chiudere il circolo vizioso.
La drammatica deriva della Grecia – che ha cominciato a minacciare
da vicino nell’ultimo periodo l’economia spagnola – al di là dalle peculiarità del paese è nata proprio da una situazione simile. Ovviamente,
noi non siamo la Grecia. E nemmeno la Spagna, si potrebbe aggiungere,
guardando ai fondamentali ben più solidi che caratterizzano la nostra
economia. È certamente un dato importante da ricordare, ma che nulla
toglie all’assoluta necessità e urgenza di contrastare e mitigare gli effetti
recessivi delle politiche di austerità in corso, con provvedimenti che
migliorino le nostre potenzialità di crescita a medio termine e sostengano, in particolare, la nostra domanda effettiva.
La priorità di tornare a crescere
È convinzione diffusa che esista un forte legame tra rigore e crescita
tanto che solo un rilancio di quest’ultima potrà assicurare al nostro
paese la riduzione e sostenibilità nel tempo del suo debito pubblico. In
questa prospettiva, preoccupa seriamente il sostanziale ristagno che
l’economia italiana ha conosciuto, come si è già ricordato, in tutti questi
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Paolo Guerrieri
anni prima e dopo la grande crisi. È un disagio che viene da lontano e
sulle sue cause si è a lungo dibattuto.
Per restare nell’ambito economico, esse si possono riassumere in due
grandi insiemi di fattori, su cui è necessario intervenire. Il primo chiama
in causa alcune fragilità delle nostre imprese e della struttura industriale
italiana nel suo complesso, troppo appiattita sulle piccole e piccolissime
unità. Un secondo insieme investe le cosiddette “esternalità di sistema”
in materia d’infrastrutture, procedure amministrative, diseconomie
esterne presenti nel settore pubblico, e così via. Va poi notato che i due
insiemi di fattori interagiscono e sommano i loro effetti negativi a livello
di economia nazionale complessiva.
Riguardo al sistema produttivo, nel loro contributo Innocenzo Cipolletta e Sergio De Nardis mostrano come si sia verificato un deciso
rafforzamento della presenza delle imprese italiane, soprattutto quelle
di media dimensione, sui mercati interni e internazionali. Questo
rilancio non è stato un fenomeno solo ciclico e congiunturale, ma il
risultato di un processo di trasformazione e di riposizionamento di
successo che ha cominciato a mutare la posizione competitiva di un
segmento d’imprese medie e piccole, attraverso prodotti a più alto
valore aggiunto, in particolare nei settori di tradizionale competitività
dell’industria italiana.
Si è trattato, tuttavia, di un processo di ristrutturazione del tutto spontaneo e privo del sostegno di politiche economiche e industriali in grado
di guidarlo e consolidarlo. I suoi effetti complessivi sono stati così limitati. Per sintetizzare al massimo si può dire che il nostro sistema produttivo, per una sua parte, ha sostanzialmente tenuto negli anni prima e
fino alla recente crisi, ma le sue condizioni di salute nel suo insieme
restano preoccupanti. La ragione è che il gruppo d’imprese di successo,
per quanto in crescita, non è abbastanza numeroso da compensare le
performance negative di quell’elevatissimo numero di piccole e piccolissime unità che sono troppo fragili e sottocapitalizzate per affrontare
positivamente le nuove sfide dei mercati globali.
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Rigore, crescita, equità: la sfida italiana
Di qui la necessità di politiche, anche industriali, rivolte alla produzione e alla ricerca che dovrebbero aiutare le nostre imprese ad aggregarsi, a innovare, a internazionalizzarsi per affrontare con successo la
concorrenza futura. Servono altresì riforme e una serie d’iniziative
importanti sui fattori esterni di contesto, in campi quali la ricerca, gli
investimenti in infrastrutture, una maggiore concorrenza sui mercati
dei prodotti e servizi. Il governo Monti ha mosso i primi passi in questa
direzione, come va riconosciuto, ma ancora molto – è necessario altresì
riconoscere – resta da fare.
La riduzione delle diseguaglianze tra equità ed efficienza
Le riforme e le politiche strutturali necessarie per tornare a crescere
possono produrre effetti positivi anche in termini di coesione sociale e
minore disuguaglianza distributiva. L’Italia, come mostrano Alessandro
Goglio e Stefano Scarpetta nel loro contributo, è un paese che ha visto
la diseguaglianza dei redditi tra le persone in età lavorativa aumentare
drasticamente nei primi anni ’90 e rimanere, da allora, a un livello
elevato e superiore alla media dei paesi OCSE. Le cause di un fenomeno
così complesso ed eterogeneo nei suoi effetti sono ovviamente molteplici, anche se le dinamiche del mercato del lavoro italiano hanno avuto
un ruolo predominante. Per tale ragione, una riforma complessiva del
mercato del lavoro, che includa un riesame delle tipologie contrattuali
e degli incentivi alle imprese unitamente ad ammortizzatori sociali
universali e adeguati a offrire un sostegno di reddito durante la fase di
ricerca del nuovo posto di lavoro, rappresenta uno strumento essenziale
per affrontare in maniera duratura le diseguaglianze dei redditi da
lavoro. Al riguardo, i provvedimenti varati di recente dal governo
italiano rappresentano un primo passo nella giusta direzione.
Servono allo stesso tempo politiche fiscali e previdenziali rinnovate
in grado di accrescere i loro effetti redistributivi, che potrebbero essere
rafforzati ulteriormente attraverso miglioramenti quantitativi e qualitativi dell’offerta di servizi pubblici – sanità, istruzione e servizi destinati
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Paolo Guerrieri
alla persona. Sarebbero interventi mirati a sostenere la domanda interna
e correggere disuguaglianze che hanno raggiunto ormai livelli non più
tollerabili nel nostro paese. Essi dovrebbero essere realizzati nella logica
dello scambio tra misure dettate da ragioni di efficienza ed equità,
dirette a rilanciare l’economia nel breve termine, da un lato, e assicurare
maggiore crescita in un futuro a medio termine, dall’altro. Si tratterebbe
di una politica di riforme in grado di offrire maggiori opportunità di
accesso a molti cittadini – giovani e vecchi, uomini e donne – e quindi
pienamente compatibile con gli obiettivi della crescita. Non va dimenticato, in effetti, che la crescente diseguaglianza dei redditi in Italia e in
tutta l’area industrialmente più avanzata ha contribuito a favorire la
crescita abnorme di credito e attività finanziarie a elevato rischio in tutti
gli anni precedenti la crisi. Diretta a colmare la distanza crescente tra
redditi e aspirazioni alla spesa di vasti strati di cittadini, essa ha finito
per rendere a un certo punto insostenibile – com’è noto – il livello di
debiti accumulato.
Servirebbe più Europa
Per riassumere, una via di uscita dalla crisi e un rilancio sostenibile della
nostra economia potranno derivare solo da un articolato insieme di
politiche economiche che sappia dosare e combinare in maniera
sapiente i tre ingredienti fondamentali, sopra ricordati, di politiche di
rigore, crescita ed equità. Per quanto efficaci, tuttavia, essi non saranno
sufficienti da soli a farci uscire dall’attuale condizione di ristagno. Serve
altresì un’azione a livello europeo che sia all’altezza delle sfide da fronteggiare. In un’Europa priva di un governo unitario e in cui il contagio
dei debiti si può rapidamente diffondere tra paesi, solo un cambio di
passo nella gestione della crisi sarebbe in grado di offrirci quel tempo
necessario a compiere un percorso di risanamento come quello sopra
disegnato.
Le politiche di austerità di bilancio finora adottate, per quanto corredate da politiche di riforme strutturali a livello nazionale, certo impor16
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Rigore, crescita, equità: la sfida italiana
tanti, ma destinate a dare frutti a medio e lungo termine, hanno generato
una fase recessiva in tutti i paesi periferici che si sta estendendo al resto
della zona euro. A parità di condizioni, c’è il rischio concreto che la
recessione in molti paesi europei perduri ancora a lungo e produca
ovunque fenomeni preoccupanti. L’agognata ripresa, di cui si parla guardando al prossimo anno, potrebbe rivelarsi più un auspicio che una
fondata previsione. Forti perturbazioni e tensioni tornerebbero in
questo caso a caratterizzare i mercati finanziari e le posizioni dei debiti
di molti paesi. Non ci si deve far ingannare dalla fase di relativa calma
sperimentata nei primi mesi di quest’anno. È stata dovuta in misura
prevalente all’immensa liquidità creata dalla Banca Centrale Europea a
sostegno del sistema bancario e, indirettamente, dei mercati dei titoli
sovrani dei paesi più indebitati. Ha permesso di guadagnare del tempo
che si rivelerà prezioso solo se riusciremo a risolvere i due ordini di
problemi, tra loro collegati, che erano e restano alla radice della crisi:
l’eccesso di debiti e il ristagno della crescita in Europa.
Il sostegno alla crescita europea è oggi un problema di supporto alla
domanda e allo stesso tempo di necessaria ristrutturazione dell’offerta.
Tra gli strumenti fondamentali d’intervento figurano in primo piano
meccanismi a livello europeo che sappiano ripartire più simmetricamente di quanto avvenuto fin qui gli oneri di aggiustamento tra paesi
in deficit e quelli in surplus; e, poi, gli investimenti europei in infrastrutture e settori a rete, che si possono finanziare sia attraverso il bilancio
comunitario, nel nuovo quadro finanziario pluriennale, sia attraverso
la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e i project bond.
Sarà capace l’Unione di muoversi su questo terreno con rapidità ed
efficacia? Per una risposta i prossimi mesi saranno assai importanti e
andranno monitorati con particolare attenzione anche per le sorti della
nostra economia. È quanto ci ripromettiamo di fare attraverso le pagine
di Economia Italiana, che con questo numero si presenta rinnovata nella
sua veste grafica e nei suoi contenuti. Sono passati oltre trent’anni
editoriale
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Paolo Guerrieri
dall’uscita del primo numero di questa rivista: la direzione di Mario
Arcelli riprendeva allora la strada indicata, fin dal dopoguerra, dalla
gemella Review of Economic Conditions in Italy fondata a sua volta nel
1947 per iniziativa di Costantino Bresciani Turroni, ovvero quella di
approfondire e far conoscere al mondo italiano e internazionale la realtà
e le prospettive della nostra economia.
Il rinnovamento di Economia Italiana è dettato innanzi tutto dall’esigenza di confermare e meglio perseguire queste finalità, utilizzando al
meglio l’estesa diffusione e il prestigio della rivista. A quanti vi hanno
contribuito in tempi più o meno recenti va il nostro sentito ringraziamento e in particolare al Professor Paolo Savona e al Dottor Michele
Barbato, per molti anni Direttore Scientifico e Direttore Responsabile
della rivista.
Attraverso il rinnovo della Direzione e del Comitato scientifico unitamente all’ulteriore arricchimento dei suoi contenuti, Economia Italiana
intende rafforzare il rapporto con i suoi lettori e, più in generale, con
quanti – esperti, accademici, policymaker – sono interessati ad approfondire le caratteristiche strutturali dell’economia italiana. Soprattutto
alla luce dei cambiamenti che le nuove sfide in Europa e nel sistema
globale impongono alla nostra economia.
L’Italia, l’Europa e il contesto globale in continua evoluzione saranno
così al centro dei tre numeri di quest’anno della rivista. Unitamente a
sezioni e rubriche dedicate ai temi più attuali dell’economia e della
società del nostro paese. Vogliamo in questo modo puntare decisamente a consolidare e, per quanto possibile, rafforzare il ruolo della
rivista come strumento di analisi, dibattito e formulazione di politiche
d’intervento all’altezza delle sfide esistenti.
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In controluce
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I rischi
Ripensare la globalizzazione
Paola Subacchi
Chatham House
“The global economy needs stable currencies and a balance
of power that guarantees peace”
POLANYI, 1944
Globalizzazione in crisi?
Le grandi crisi, come la recente e ancora non conclusa crisi finanziaria,
non solo intaccano nel profondo le dinamiche economiche, ma portano
significativi cambiamenti nei modi di pensare. Improvvisamente si
osserva la scomparsa di termini e concetti che avevano dominato
discussioni accademiche, riflessioni politiche e talk show. La globalizzazione, il tema forte del periodo a cavallo tra gli anni ’90 e il primo
decennio del nuovo millennio, è uno di questi.
Un’indagine sommaria sul sito del «Financial Times» mostra che l’uso
del termine “globalisation” diminuisce di oltre il 50 per cento nei tre anni
successivi alla bancarotta di Lehman Brothers nel settembre 2008,
rispetto ai tre anni precedenti. Il termine, d’altro canto, aveva cominciato
a essere poco usato già da prima della crisi a significare che il fenomeno
aveva iniziato ad avere meno impatto essendo i paesi emergenti entrati a
fare parte del mondo globalizzato. Un’altra indagine sommaria effettuata
utilizzando ngram viewers in Google books — con il limite dell’inclusione
dei soli libri che rientrano nella catalogazione di Google — mostra un
picco nel numero dei libri pubblicati sull’argomento intorno ai primi anni
del nuovo millennio e una tendenza inversa a partire dal 2003.
Se l’interesse per il fenomeno della globalizzazione aveva cominciato
a segnare il passo negli anni precedenti la crisi finanziaria mondiale,
proprio la crisi crea un’importante cesura e impone una riflessione su
se e come la profonda integrazione economica e finanziaria degli ultimi
vent’anni, rendendo più complessa la relazione tra economie nazionali
e mercati globali, abbia creato maggior instabilità e di conseguenza
abbia reso l’economia mondiale più vulnerabile. La crisi, in particolare,
In controluce
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Paola Subacchi
ha posto l’accento sugli aspetti irrisolti della globalizzazione, dalla governance del sistema monetario e finanzario alle regole macro-prudenziali.
Inoltre, la rapidità con la quale gli effetti della bancarotta di Lehman
Brothers si sono propagati dagli Stati Uniti al resto del mondo ha reso
evidente la potenza del canale bancario e finanziario come meccanismo
di trasmissione degli shock. Allo stesso tempo ha mostrato la fragilità
delle economie nazionali rispetto a fenomeni finanziari globali.
L’aspetto positivo, e per certi versi sorprendente del dopo-crisi, è l’assenza quasi totale di risposte protezionistiche. Salvo un episodio, poi
rettificato, all’indomani del summit dei capi di stato dei G20 a Washington nel novembre 2008, non si è avuta un’inversione di tendenza a
favore della chiusura dei mercati nazionali. Al contrario il G20, che nel
summit di Pittsburgh nel settembre 2009 venne promosso a forum
esclusivo per la discussione multilaterale delle questioni economiche
e finanziarie, si è fatto promotore, e continua a promuovere, il dialogo
e la cooperazione internazionale per la riforma del sistema monetario
e finanziario, per la riduzione degli squilibri commerciali e finanziari
tra paesi e in generale per l’attuazione di un framework di crescita
“robusta, equilibrata e sostenibile”.
Lo spostamento del baricentro
Indubbiamente la globalizzazione è una forza che ha aperto nuovi
mercati, liberato risorse, stimolato l’innovazione, generato efficienza e
creato nuova ricchezza — e nuovi ricchi. Ha contribuito al processo di
industrializzazione dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, generando
robusti tassi di crescita economica e sostenendo così l’espansione
dell’economia mondiale.
Se la globalizzazione degli anni pre-crisi era stata trainata dall’affermazione e dal consolidamento degli Stati Uniti come super potenza in
seguito all’implosione dell’Unione Sovietica, quella degli anni post-crisi
è caratterizzata — e rimarrà tale per almeno un altro decennio — dallo
spostamento del baricentro economico verso l’Asia. La crisi infatti non
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economIa ItalIana 1•2012
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Ripensare la globalizzazione
solo ha rallentato i tassi di crescita degli Stati Uniti, ma ha mostrato i
limiti del modello economico americano che era stato trionfalmente
celebrato nel periodo a cavallo del nuovo millennio.
La “seconda età d’oro del capitalismo” era stata una storia americana,
caratterizzata da tassi di crescita elevati e, come poi si capirà, insostenibili per un’economia avanzata. Negli anni pre-crisi l’integrazione di
numerosi paesi emergenti nel sistema economico internazionale e la
rimozione di molte barriere alla circolazione di merci, capitali e persone
avevano contribuito al generale abbassamento dei prezzi e quindi alla
riduzione delle pressioni inflazionistiche nelle principali economie
avanzate. La cosiddetta Grande Moderazione aveva quindi permesso alla
Federal Reserve di mantenere tassi di interesse relativamente bassi e
così continuare a sostenere la crescita economica attraverso condizioni
creditizie estremamente favorevoli alle imprese, ma anche alle famiglie.
Nel quinquennio tra il 2002 e il 2006 l’economia USA era cresciuta al
tasso medio annuo del 3 per cento contro lo 0,9 per cento della
Germania, l’1,5 per cento della Francia e lo 0,7 per cento dell’Italia.
Nel frattempo l’integrazione delle economie emergenti nel mercato
internazionale aveva affiancato la Cina alle grandi economie rappresentate dal G7, facendola diventare per dimensioni la seconda economia
dopo gli Stati Uniti. Nel 1990 l’America del Nord e l’Europa occidentale
rappresentavano, per dimensioni, più della metà dell’economia
mondiale, mentre l’Asia era meno di un quarto — di cui circa il 10 per
cento rappresentato dal Giapppone. Nel 2010 la porzione dell’Asia era
diventata oltre il 30 per cento, con la quota del Giappone diminuita
però al 6%. In maniera analoga l’America del Nord e l’Europa occidentale avevano visto la loro quota scendere a poco più del 40 per cento.
La crisi fermando, e in alcuni casi erodendo, la crescita economica
dei paesi avanzati ha accelerato e reso più evidente lo spostamento del
baricentro economico. Non solo le economie asiatiche, e in particolare
la Cina, sono diventate parte integrante del sistema economico internazionale, ma contribuiscono in misura sempre più significativa ai tassi
In controluce
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Paola Subacchi
di crescita dell’economia mondiale. Se nella seconda metà del ventesimo secolo erano i paesi sviluppati a offrire il contributo di gran lunga
maggiore alla crescita dell’economia mondiale, il divario diventa sempre
meno significativo finché all’inizio del nuovo millennio le economie
emergenti, di cui la Cina è quella più importante, arrivano a registrare
tassi di crescita simili a quelli dei paesi avanzati. La crisi ribalta questo
rapporto. Le proiezioni per l’attuale decennio mostrano infatti le
economie emergenti crescere in media al tasso annuo del 2 per cento
contro meno dell’1 per cento nel caso delle economie avanzate.
Se negli ultimi vent’anni la globalizzazione è stata principalmente trainata dai flussi commerciali e dai flussi migratori transcontinentali, nei
prossimi dieci-vent’anni sarà caratterizzata dall’apertura dei mercati
finanziari dei paesi emergenti e da flussi migratori intra-regionali. In
particolare, la riconfigurazione del modello di crescita cinese a favore
della domanda interna dovrebbe riequilibrare i flussi commerciali
mentre il processo di riforma finanziaria e di graduale apertura del
mercato dei capitali, che il governo cinese ha presentato e sottoscritto
nel dodicesimo piano quinquennale per il periodo 2011-2015, dovrebbe
contribuire all’ulteriore integrazione della Cina nell’economia mondiale.
Finora, infatti, l’integrazione cinese è stata puramente commerciale. Le
massicce esportazioni cinesi verso il resto del mondo, in particolare gli
Stati Uniti e l’Europa occidentale, sono state in parte rese possibili da
tassi di cambio tenuti artificialmente bassi grazie ai continui interventi
di sterilizzazione sul mercato interno. Di conseguenza lo yuan rimane
una valuta inconvertibile e di scarso uso negli scambi internazionali. Per
la principale economia esportatrice questo è problematico dati i costi
legati alla continua accumulazione di dollari nelle riserve ufficiali. Non
sorprende dunque che il governo, di concerto con la banca centrale,
abbia avviato misure per incentivare l’uso della valuta cinese negli scambi
internazionali. Nello stesso tempo sono stati allentati i controlli sui flussi
di capitali sempre nell’ottica di rendere lo yuan una moneta più internazionale senza però renderla ancora pienamente convertibile.
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economIa ItalIana 1•2012
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Ripensare la globalizzazione
Da forza positiva a gioco a somma zero?
Se la crisi ha contribuito significativamente a spostare i termini del dibattito
sulla globalizzazione, non ha però fermato l’integrazione dell’economia
mondiale nè ha imbrigliato i flussi migratori e il commercio internazionale.
La maggior parte dei paesi continua infatti ad essere favorevole al mantenimento di un sistema di libero scambio di merci e flussi finanziari. Quella
che è venuta meno è la fiducia incondizionata nel processo di integrazione
come forza positiva per l’economia mondiale che era stata la nota predominante nel dibatttito sulla globalizzazione negli anni precendenti la crisi.
In quegli anni si scelse scientemente di ignorare che a fronte di vantaggi a
livello macro — crescita del prodotto interno lordo, riduzione, in aggregato, della disoccupazione, contenimento dell’inflazione — la globalizzazione genera costi a livello micro. Questi si esplicitano nella delocalizzazione di aziende, industrie e settori, nella de-industrializzazione di aree
geografiche e nell’impoverimento di individui e famiglie. Allo stesso modo,
anche se in maniera meno consapevole, vennero ignorati gli squilibri
monetari e finanziari che sono un’emanazione diretta dei movimenti di
capitale a livello mondiale. Tali movimenti avevano creato e continuavano
a creare una ricchezza tale che, come disse l’ex presidente di Citigroup,
Chuck Prince, era nell’interesse di molti non fermare il gioco, anche se si
era fatto più rischioso, dal momento che continuava a generare alti profitti.
Nel dopo-crisi occorre dunque ripensare la globalizzazione, tenendo
in conto sia i costi che i benefici, e dare adeguate risposte di policy. Con
tassi di crescita economica inferiori a quegli degli anni precedenti il
2008 e con la disoccupazione ai massimi storici negli Stati Uniti e in
buona parte dell’Europa, l’opinione pubblica è oggi estremamente
sensibile all’impatto che i processi di rilocalizzazione delle attività
produttive hanno in termini di posti di lavoro e in generale di welfare.
Non solo, ma c’è anche una maggiore attenzione agli aspetti redistributivi di tali costi. Rimane inoltre la questione irrisolta di avere un sistema
di regole che contribuisca a mantenere la stabilità a livello monetario e
finanziario e così prevenire nuove crisi.
In controluce
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Paola Subacchi
Occorre inoltre evitare che il deterioramento delle condizioni economiche in molti paesi a economia avanzata e il rischio di ripetute crisi
finanziarie si traducano in misure protezionistiche. La globalizzazione
non è irreversibile e l’esperienza storica mostra che quando l’obiettivo
di mantenere aperti gli scambi internazionali genera disoccupazione e
squilibri sempre più ingestibili i governi nazionali sono costretti a introdurre misure di controllo sui movimenti di beni e di capitali e a restringere i flussi immigratori. Lo stesso Keynes fu costretto dalle conseguenze della Grande Depressione ad abbandonare temporaneamente il
libero scambio, di cui era stato e continuava ad essere un sostenitore
convinto, a favore di una serie di tariffe per ridurre la disoccupazione e
contenere le tensioni sociali. La situazione attuale è analoga a quella
degli anni ’30 per le difficoltà a gestire l’aggiustamento delle economie
nazionali nel contesto di un’economia mondiale altamente integrata. A
differenza degli anni ’30, tuttavia, le relazioni economiche multilaterali
rimangono forti ed è proprio su questo che occorre lavorare per evitare
che la globalizzazione vada in controtendenza. Per questo è necessario
mantenere un sistema in cui gli interessi di un paese non siano in
contrasto con, o usati contro, gli interessi di un altro paese, e soprattutto
che non si arrivi a situazioni “beggar-your-neighbour” in cui le misure di
policy adottate da un paese generino esternalità negative per altri.
Cooperazione e coordinamento internazionale delle policy, e la promozione di un’agenda per il sostegno alla crescita economica, come indicato dal G20, sono un modo per mantenere e rafforzare il processo di
integrazione economica internazionale senza alimentare dinamiche
concorrenziali al solo scopo di acquisire quote di mercato. Inoltre,
devono essere tenuti in maggior conto gli aspetti distributivi della
globalizzazione, considerando come i processi di integrazione economica abbiano impatti diversi e spesso di segno opposto su salari,
stipendi e redditi da capitale. Bisogna insomma evitare che la globalizzazione si trasformi da forza positiva a gioco a somma zero.
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economIa ItalIana 1•2012
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I rischi
Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione
e i limiti degli economisti
Mario Deaglio
Università di Torino
La fine dell’uniformità globale
Con il primo trimestre del 2002 ormai alle spalle, appare chiaro che la
tendenza all’uniformità degli andamenti congiunturali mondiali, che
aveva caratterizzato la globalizzazione per quasi trent’anni, è quasi del
tutto scomparsa, vittima della crisi economica.
Dopo decenni di crescita relativamente uniforme e a tassi crescenti,
a partire dalle prime fasi della crisi, giunta ormai al suo quinto anno, è
emersa la netta divergenza tra gli affaticati paesi ricchi e i dinamici paesi
emergenti, a cominciare da Cina e India. Tra i primi si sta inoltre delineando un possibile andamento differenziato tra gli Stati Uniti, il cui
prodotto lordo per abitante, pur crescendo debolmente, ha raggiunto
ormai i livelli precedenti la crisi, e l’Europa (e il Giappone) che accusa
lentezze più o meno accentuate. In Europa si osserva poi una crescente
divergenza tra il recupero relativamente veloce della Germania, e
qualche paese limitrofo, e la lentezza degli altri, con abbondanza di
segnali negativi provenienti dai paesi dell’Europa meridionale. Tra i
paesi emergenti dinamici si possono infine agevolmente osservare
segnali differenziati di rallentamento.
Nella loro diversità, questi andamenti mostrano tutti la comparsa di
segnali negativi e pongono così fortemente in discussione uno dei pilastri, a un tempo politici ed economici, della globalizzazione di mercato,
ossia la sua possibilità di procurare vantaggi generalizzati a tutti i paesi
che partecipano all’economia globalizzata. Ci si può legittimamente
domandare se questa sia “una” crisi tra tante oppure “la” crisi, in grado
di travolgere un sistema globale che manda simili segnali di divergenza.
In controluce
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mario Deaglio
La mancanza di meccanismi autocorrettivi e la spinta
a una globalizzazione diversa
Per cercare di rispondere a questa domanda non è sufficiente servirsi
degli strumenti dell’analisi economica. Occorre integrarli con indagini
sia di carattere politico-strategico sia di carattere sociale; un’integrazione che, come si dirà più avanti, è stata del tutto trascurata a livello
scientifico. L’utilizzazione congiunta di tali strumenti individua la struttura portante della globalizzazione nell’accordo di fatto che l’Occidente
ricco raggiunse con la Cina e altri paesi asiatici dopo la sconfitta militare
americana in Vietnam a metà degli anni settanta del secolo scorso: per
evitare la ripetizione, in tutta l’Asia sud-orientale, della vittoria militare
delle “campagne” sulle “città”, l’Occidente offrì a questi paesi un grande
patto economico, solo parzialmente formalizzato, con cui si garantivano
dazi bassi o inesistenti, cambi favorevoli e accesso al mercato dei capitali
e alle tecnologie occidentali.
Di lì ebbe inizio uno straordinario circolo virtuoso: la Cina rispose
con l’istituzione delle zone economiche speciali e mosse analoghe si
ebbero in quasi tutti gli altri paesi dell’area. Si verificò un forte flusso di
investimenti occidentali in tali zone che a loro volta determinarono un
massiccio flusso di esportazioni asiatiche verso gli Stati Uniti e gli altri
paesi occidentali, un attivo sempre più cospicuo della bilancia dei pagamenti correnti di questi paesi e l’investimento del surplus in dollari,
prevalentemente in titoli del debito pubblico degli Stati Uniti. L’importanza di questo flusso di investimenti finanziari fu decisiva per determinare condizioni di basso costo del denaro negli Stati Uniti e, per
conseguenza, in tutto l’Occidente. Della facilità di ottenere prestiti, oltre
che della bontà dei meccanismi finanziari americani, è figlia la e-economy
che ci ha dato Internet e i telefonini.
Terminato quel ciclo, il denaro abbondante e poco caro di matrice
asiatica finanziò il boom immobiliare e il boom dei consumi a credito
e quindi le esportazioni asiatiche. «Costruiamo sempre più supermercati
per vendere sempre più prodotti fabbricati in Cina … – scrive Thomas
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Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti degli economisti
Friedman sul «New York Times» l’8 marzo 2009 – Il che fa guadagnare
ai cinesi sempre più dollari con cui comprare sempre più Buoni del Tesoro
americano. Così l’America ha sempre più soldi per costruire sempre più
supermercati per vendere sempre più prodotti fabbricati in Cina e occupare
un numero sempre maggiore di cinesi».
Parallelamente all’attivazione di questo circuito, si procedette all’introduzione di regole che favorivano un vivacissimo mercato finanziario
internazionale. Volendo scegliere una data, il debutto della globalizzazione si può collocare al 27 ottobre 1986 giorno del cosiddetto “big
bang” della Borsa di Londra, con l’introduzione contemporanea di
nuove norme liberalizzatrici dell’accesso alle contrattazioni e di nuove
procedure elettroniche per gli scambi finanziari, coordinate a livello
globale. Nel giro di tre-quattro anni i capitali dei normali cittadini di
moltissimi paesi del mondo erano in grado di circolare liberamente in
un mercato finanziario attivo, tenendo presenti le differenze di fuso
orario, quasi ventiquattr’ore su ventiquattro.
Il nuovo mercato finanziario non contemplava però meccanismi
correttivi. Il deficit americano delle partite correnti poté quindi tranquillamente salire dallo 0,5 per cento degli anni ’90 all’incirca al 4 per
cento del prodotto lordo mondiale del 2007. Invano gli americani chiesero ripetutamente agli asiatici di espandere i loro consumi interni per
farlo diminuire: gli asiatici risposero, in buona sostanza, di avere altre
priorità e di non voler adottare il consumismo americano. Tale risposta
reintroduce elementi non economici nell’interpretazione della crisi in
quanto equivale al rifiuto asiatico di adottare sistemi di priorità – e
quindi modelli culturali – tipici degli Stati Uniti; al rifiuto, in altre
parole, di riconoscere la leadership americana, a differenza di quanto
aveva fatto il Giappone quaranta-cinquanta anni prima.
La globalizzazione si configura quindi come l’ennesima proiezione
dell’Occidente a livello mondiale e non già come un sistema bilanciato
di risorse, domande, interessi delle varie parti del pianeta. L’assenza di
meccanismi automatici, o anche solo di regole alle quali fare riferimento
In controluce
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mario Deaglio
per correggere gli sbilanciamenti dei conti con l’estero dei principali
paesi, trasformava la globalizzazione in un processo a termine: esportazioni asiatiche e consumi americani finanziati a credito non avrebbero
potuto crescere indefinitamente. Il sistema stava diventando fragile,
vulnerabile a qualsiasi anomalia si manifestasse sui mercati – come fu,
appunto, l’alto tasso di delinquency sui mutui subprime.
Per conseguenza, la crisi attuale non può non porre termine al
processo di globalizzazione, così come si è sviluppato a partire dagli
anni ’80. Ciò che seguirà dovrà tener conto, a livello istituzionale, della
variazione di peso economico che si è verificata negli ultimi trent’anni
e che la crisi ha chiaramente accentuato. In base alle valutazioni del
Fondo Monetario Internazionale, ancora nel 2000 dai paesi ricchi
provenivano quasi i due terzi (il 62,6 per cento) della produzione
mondiale; nel 2015 la stessa istituzione stima che il peso di questi paesi
scenda sotto il 50 per cento. I punti percentuali persi dalla produzione
dei paesi ricchi sono andati pressoché tutti alla produzione dei paesi
dell’Asia dinamica, saltando quasi per intero Africa e America Latina.
In simili condizioni, il ribilanciamento non consiste soltanto nell’assicurare qualche poltrona nei vertici delle istituzioni economiche internazionali a esponenti di questi paesi: i poli della finanza globale già si
spostano, con l’ascesa delle tre piazze finanziarie cinesi (Hong Kong,
Shanghai e Shenzen) e della piazza finanziaria indiana (Mumbai) e di
quella brasiliana (San Paolo). L’obiettivo cinese di giungere a un sistema
finanziario multipolare, con una moneta “sintetica” basata su un paniere
comprendente, accanto al dollaro, lo yuan e l’euro, prefigura una globalizzazione diversa alla quale non sembra che l’Occidente sia preparato.
Gli effetti dirompenti della globalizzazione sulla distribuzione
dei redditi
Agli effetti finanziari e macroeconomici occorre aggiungere un’altra
dinamica che fa della globalizzazione un processo a termine: il suo forte
impatto sulla distribuzione dei redditi e l’assenza di meccanismi correttivi che modifichino la tendenza a una diseguaglianza crescente.
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Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti degli economisti
L’andamento è ben noto: mentre riduce la diseguaglianza tra paesi,
misurata in termini di prodotto interno lordo per abitante, la globalizzazione fa aumentare la diseguaglianza all’interno dei paesi. Gli spostamenti produttivi ai quali si è accennato sopra stanno determinando la
necessità di ridisegnare la mappa economica mondiale. La Cina ha scalzato il Giappone dal secondo posto nella classifica mondiale del prodotto interno lordo e la Germania dal primo posto in quella delle esportazioni. L’Italia è stata superata dal Brasile – che si appresta a superare
anche Francia e Gran Bretagna – e sta per essere superata dall’India;
Messico, Turchia, Corea del Sud stanno rapidamente guadagnando
posizioni in classifica. L’osservazione – che risale a Vilfredo Pareto –
che il 20 per cento della popolazione mondiale (quella che abita nei
paesi ricchi) produce e consuma l’80 per cento delle risorse mondiali
non corrisponde più alla realtà.
Questo processo di riduzione delle diseguaglianze tra paesi rappresenta sicuramente uno dei maggiori successi della globalizzazione ma si
accompagna all’aumento delle diseguaglianze all’interno dei paesi. Il
coefficiente di Gini, ossia il “termometro” maggiormente in uso di tali
diseguaglianze, mostra aumenti generalizzati in ogni tipo di paesi. Si
arriva a forme estreme di concentrazione di reddito e ricchezza per cui
negli Stati Uniti l’uno per cento più ricco degli americani detiene il 2025 per cento del reddito disponibile. Se si restringe l’analisi allo 0,1 per
cento più ricco si trova una quota attorno al 10 per cento («The Economist», 21 gennaio 2012).
È arduo immaginare un processo di vera uscita dalla crisi senza una
ridistribuzione del reddito che attenui queste diseguaglianze. Tale ridistribuzione non è contemplata, però, dai meccanismi della globalizzazione e per conseguenza cresce uno scontento politico-sociale che può
rivolgersi contro la globalizzazione stessa: tra il 2008 e la primavera del
2012, pressoché tutti i paesi ricchi (Svizzera, Austria e Norvegia sono
le eccezioni principali) hanno cambiato governanti e partito di governo,
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mario Deaglio
oppure hanno visto il partito di governo subire duri rovesci in elezioni
locali, come è accaduto in Germania. Per contro, gli avvicendamenti
dei governi nei paesi emergenti (Brasile e Russia in particolare) sono
avvenuti all’insegna della continuità. La nuova ondata recessiva abbattutasi sull’Europa acuisce l’instabilità del quadro politico del vecchio
continente. Contro queste instabilità, la globalizzazione non sembra
avere alcuna ricetta.
L’arroganza degli economisti e la difficoltà a immaginare soluzioni
Per quanto sopra, l’uso congiunto di indicatori economici, politici e
sociali consente di delineare un quadro di forte instabilità. Di qui nasce
la difficoltà/impossibilità di tornare sic et simpliciter alla situazione precrisi. Il mondo globalizzato potrebbe diventare multipolare e adottare
rimedi congiunti all’azione dei mercati finanziari. Il concerto dei governi
dovrà fare da contrappunto alla dinamica dei mercati, forse in maniera
non troppo dissimile da quella della globalizzazione “vittoriana” nella
quale “l’equilibrio delle potenze” temperò, per quasi un secolo, eccessi
ed esuberanze delle forze di mercato.
Purtroppo la crisi ha colto le scienze sociali – e gli economisti in particolare che tra gli scienziati sociali rivendicano una specie di primato –
totalmente impreparate. Il clima culturale è stato improntato, fino al
2008, a un’intransigente specializzazione del sapere, ad analisi sempre
più approfondite (peraltro spesso basate su dati insufficientemente
attendibili) mentre le sintesi interdisciplinari sono state guardate con
un sospetto sempre più profondo. La crisi europea del 2011-12, un duro
episodio dagli esiti incerti nella più vasta crisi mondiale, ha posto bene
in luce l’assenza di un adeguato modello culturale, la scarsa conoscenza
della storia, la difficoltà di concepire il mercato come uno strumento
in un vasto orizzonte anziché come l’unico regolatore possibile non solo
dell’economia ma anche della politica e di ogni genere di scelte individuali. Il liberalismo del dubbio metodologico di Karl Popper è diventato il liberismo dogmatico, privo di dubbi, di Milton Friedman e
soprattutto dei suoi successori.
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Dal dogma al dubbio: la crisi, la globalizzazione e i limiti degli economisti
Come è potuto avvenire tutto questo? Le criticità che continuano a
venire in luce si attenueranno – spontaneamente oppure grazie ad
azioni di governo – o finiranno di travolgere il sistema? Per cercare di
rispondere a simili interrogativi occorre ripercorrere antichi sentieri
intellettuali sui quali negli ultimi decenni è cresciuta l’erba, parlare di
limiti e instabilità del mercato. La mancanza di meccanismi autocorrettivi riguarda così non solo le bilance dei pagamenti o la distribuzione
dei redditi, ma investe in pieno il campo delle idee. Il che renderà
l’uscita dalla crisi e l’inizio di un nuovo periodo economico più lunga,
più problematica e più incerta.
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Tema di
discussione
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Il risanamento dei conti pubblici
Giuseppe Pisauro
Sapienza Università di Roma
L’Italia è entrata nella Grande recessione del 2008 con una situazione dei conti
pubblici vulnerabile. Nel 2008-2010 non è stato così possibile condurre una politica
fiscale espansiva: sono stati approvati numerosi provvedimenti, ma tutti a saldo zero.
Nel 2010, con la fase peggiore della recessione apparentemente alla spalle, è ripreso lo
sforzo di correzione del disavanzo (avviato nel 2008), in gran parte attraverso tagli
alle spese. Nel 2011 le tensioni sui mercati hanno reso necessario nuovi interventi
(soprattutto aumenti di imposte), nel complesso di dimensioni senza precedenti. Nel
medio periodo, il vincolo principale sarà l’impegno alla riduzione del rapporto debito
pubblico/Pil previsto nel nuovo Fiscal compact. Richiederà avanzi primari tra il 4 e
il 6% del Pil per un decennio. La regola sul debito è comunque, se si escludono scenari
macroeconomici molto sfavorevoli, meno severa dell’obbligo di pareggio del bilancio
che sta per essere incorporato nella Costituzione. Per minimizzare gli inevitabili effetti
negativi sull’economia, sarà necessario modulare con attenzione gli strumenti della
politica di bilancio, tenendo conto dei diversi effetti, nel breve e lungo periodo, di tagli
alle spese e aumenti di imposte.
1. La politica di bilancio nella Grande recessione
L’Italia è entrata nella crisi del 2008 con una situazione dei conti pubblici
precaria per l’elevato livello del debito, che a fine 2007 era al 103,1% in
rapporto al Pil, ma con un conto economico tutto sommato non troppo
preoccupante: nel 2007 l’indebitamento netto era, sempre in rapporto al
Pil, pari all’1,6% (ben al di sotto, quindi, della soglia del 3% fissata dal
Trattato europeo) e l’avanzo primario al 3,4%, un valore ritenuto sufficiente a garantire la diminuzione del rapporto debito/Pil (cfr. tabella 1).
È vero, tuttavia, che gli anni 2000 costituiscono un’occasione perduta per
il risanamento dei conti. Si può calcolare, infatti, che se si fosse riusciti a
stabilizzare entrate e spese sui livelli del 1999, il rapporto debito/Pil che
era al 113,7% nel 1999, sarebbe stato pari nel 2007 all’84,5%, esattamente
tema di discussione
37
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Giuseppe Pisauro
Tab. 1 - Principali indicatori di finanza pubblica 2007-2011 (rapporti al Pil)
2007
2008
2009
2010
2011
Saldo primario
3,4
2,5
-0,8
0,0
1,0
Indebitamento netto
-1,6
-2,7
-5,4
-4,6
-3,9
103,1
105,8
116,1
118,7
120,1
Variazione Pil reale
1,7
-1,2
-5,5
1,8
0,6
Variazione Pil nominale
4,1
1,3
-3,5
2,2
1,7
Debito pubblico
Fonte Istat
il percorso fatto segnare dal Belgio nello stesso periodo. Tra i paesi europei
che hanno ridotto in misura significativa il debito pubblico negli anni
2000 l’Italia era stato l’unico ad averlo fatto comunque aumentando le
spese e diminuendo le entrate: ovvero riducendo l’avanzo primario e
realizzando una diminuzione del debito ben più modesta di quella che
sarebbe stata altrimenti possibile (Pisauro 2010)1.
La caduta del prodotto nel 2008-2009 – cumulativamente 6,6 punti
in termini reali e 2,2 punti in termini nominali – ha naturalmente deteriorato lo stato dei conti, soprattutto per l’effetto depressivo che ne è
conseguito sulle entrate fiscali: nel 2009 l’avanzo primario si era trasformato in un disavanzo di quasi un punto di Pil e l’indebitamento netto
raggiungeva il 5,5%. In due anni il rapporto debito/Pil aumentava così
di 13 punti. Nel 2010 la situazione migliorava, grazie alla ripresa
dell’economia, lasciando comunque l’indebitamento netto al 4,6% e un
sostanziale pareggio del saldo primario.
La politica di bilancio nel 2008-2010 ha operato in condizioni oggettivamente molto difficili: tra l’incudine del livello del debito e il martello
della crisi (Pisauro 2009). Così, a differenza di tutte le altre maggiori
economie avanzate, la politica di bilancio italiana non ha contemplato
1 i paesi considerati sono quelli che nel decennio 1997-2007 hanno diminuito il
rapporto debito/Pil di oltre 10 punti: Belgio, danimarca, irlanda, italia, spagna, olanda,
Finlandia, svezia. tra questi, dell'italia si è detto; in danimarca e spagna sono aumentate
le spese e diminuite le entrate, in Belgio entrate e spese sono entrambe aumentate, per
gli altri quattro paesi entrate e spese entrambe diminuite.
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economia italiana 1•2012
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Il risanamento dei conti pubblici
significative misure di sostegno dell’economia: secondo le stime del
Fondo monetario internazionale (IMF 2009a e IMF 2009b), lo stimolo
fiscale a valere sul 2008-2010 in Italia è stato solo dello 0,3% del Pil
contro una media del 3,4% fatta registrare dalle maggiori economie avanzate (ad esempio, 3,4% in Germania e 4,8% negli Stati Uniti). In effetti
la politica di bilancio della XVI legislatura si era aperta in Italia nel giugno
2008, quando la crisi non si era ancora manifestata chiaramente, con il
d.l. n. 112 che realizzava una manovra basata soprattutto su riduzioni di
spese, con un effetto complessivo di riduzione del disavanzo stimato in
circa un punto di Pil nel 2010 e due punti nel 2011. Negli anni successivi,
tra la fine del 2008 e la fine del 2010, venivano approvati nove provvedimenti (in gran parte decreti legge) contenenti misure economiche, ma
tutti sostanzialmente a saldo zero. Con l’insieme di quei provvedimenti
si è realizzata una manovra di ricomposizione del bilancio con dichiarate
finalità anticicliche di dimensioni ragguardevoli: per ciascuno degli anni
2009-2010 sono state reperite, mediante riduzioni di spese e aumenti di
imposte, risorse per 17-20 miliardi utilizzate per finanziare maggiori
spese (soprattutto) e sgravi fiscali (tabella 2a).
La relativa tenuta dei conti nel 2008-2010 è dipesa in buona misura dall’andamento dei tassi di interesse che nel 2009 e in parte nel 2010 si sono
mantenuti bassi: la spesa per interessi nel 2009 e 2010 è stata inferiore in
termini nominali a quella del 2007, con una diminuzione in termini di
quota del Pil – nonostante il calo del denominatore – di quasi mezzo punto.
La situazione è cambiata nel corso del 2010, quando gli effetti della Grande
recessione sulle finanze pubbliche delle economie avanzate (sintetizzati da
una crescita del rapporto tra debito pubblico e prodotto di quasi venti
punti tra il 2008 e il 2010) e le incertezze della politica europea nel
fronteggiare la crisi di solvibilità della Grecia hanno indotto una crescente
pressione dei mercati sul debito sovrano dei paesi periferici dell’area
dell’euro. La prospettiva era mutata: complice anche l’illusoria ripresa dell’economia nel 2010, la questione centrale tornava ad essere il risanamento
dei conti e la riduzione del debito piuttosto che il sostegno del livello di
tema di discussione
39
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Giuseppe Pisauro
Tab. 2a - La politica di bilancio nella XVI legislatura: i provvedimenti a saldo zero del 2008-2010
(milioni di euro)
2009
2010
2011
2012
2013
Minori entrate
7.216
5.781
7.688
2.283
1.103
Maggiori spese
10.252
11.070
11.378
7.185
1.096
Totale impieghi
17.468
16.851
19.066
9.468
2.199
Maggiori entrate
11.662
11.409
8.427
4.331
768
5.940
5.811
11.243
5.575
1.431
17.602
17.219
19.670
9.906
2.199
134
369
604
438
0
4.446
5.628
739
2.048
-335
Provvedimenti vari (1)
Minori spese
Totale risorse
Saldo
Maggiori entrate nette
Maggiori spese nette
4.312
5.259
136
1.610
335
(1) Legge finanziaria 2009, d.l. n. 185/2008, d.l. n. 5/2009, d.l. n. 39/2009, d.l. n. 78/2008, d.l. 168/2009,
legge finanziaria 2010, d.l. n. 40/2010, legge di stabilità 2011.
Fonte Elaborazione su documenti ufficiali
attività economica. In Italia, a fine maggio 2010 il governo presentava una
manovra di consolidamento fiscale con il d.l. n. 78, basata in gran parte su
tagli alle spese, con l’obiettivo di una riduzione del disavanzo per quasi un
punto di Pil nel 2011 e per 1,5 punti in ciascuno dei due anni successivi.
Si arriva così al 2011. Fino all’estate la situazione sembra sotto controllo.
Così nel Documento di economia e finanza di metà aprile, il Governo prendeva l’impegno di raggiungere «entro il 2014 un livello prossimo al
pareggio di bilancio». In pratica, ci si proponeva di effettuare una correzione dei conti per il 2013 e 2014 rispettivamente per 1,2 e 2,3 punti di
Pil, tralasciando di intervenire sul 2012. Peraltro, secondo le previsioni
ufficiali, le prospettive dell’economia erano di una graduale ripresa della
crescita con tassi reali in aumento costante da un +1,1 per il 2011 a un +1,6
per il 2014. Insomma un quadro di relativa stabilità. Tutto cambia all’inizio
dell’estate. Peggiorano sensibilmente le prospettive dell’economia per il
2012 e per la prima volta viene annunciata dalle autorità europee la necessità di un coinvolgimento del settore privato nella ristrutturazione del
debito greco. Le tensioni sui debiti pubblici dei paesi periferici della zona
40
economia italiana 1•2012
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Il risanamento dei conti pubblici
Tab. 2b - La politica di bilancio nel 2008-2011: i provvedimenti di riduzione del disavanzo
(milioni di euro)
d.l. 112/2008
Maggiori entrate
Minori spese
Totale risorse
Minori entrate
Maggiori spese
Totale impieghi
Saldo
Maggiori entrate nette
Minori spese nette
2009
2010
2011
5.765
10.696
16.461
1.103
5.464
6.567
9.894
4.662
5.232
5.516
16.950
22.466
555
4.773
5.328
17.138
4.961
12.177
6.103
30.185
36.288
580
4.783
5.363
30.925
5.523
25.402
693
81
774
0
744
744
30
693
-663
d.l. 78/2010
Maggiori entrate
Minori spese
Totale risorse
Minori entrate
Maggiori spese
Totale impieghi
Saldo
Maggiori entrate nette
Minori spese nette
Provvedimenti del 2011 (1)
Maggiori entrate
Minori spese
Totale risorse
Minori entrate
Maggiori spese
Totale impieghi
Saldo
Maggiori entrate nette
Minori spese nette
2012
2013
6.413
10.178
16.591
2.318
2.220
4.538
12.053
4.095
7.958
10.716
15.738
26.454
625
847
1.472
24.982
10.091
14.891
8.036
17.445
25.481
33
470
503
24.978
8.003
16.975
3.654
2.353
6.007
1.051
2.115
3.166
2.842
2.604
238
49.216
24.468
73.684
8.967
15.805
24.772
48.912
40.249
8.663
63.219
28.280
91.499
11.045
4.707
15.752
75.747
52.174
23.573
2014
66.866
30.514
97.380
12.673
3.380
16.052
81.327
54.194
27.13
(1) d.l. 98/2011, d.l. 138/2011, legge di stabilità 2012, d.l. 201/2011.
Fonte Elaborazione su documenti ufficiali
tema di discussione
41
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Giuseppe Pisauro
euro si accentuano rapidamente. Lo spread Btp-Bund, dopo aver oscillato
intorno a 25 punti base per quasi un decennio ed essersi mantenuto
comunque al di sotto dei 200 punti dopo la Grande recessione, inizia a
crescere in misura incontrollata: a novembre 2011 raggiungerà 552 punti,
un valore non lontano da quelli toccati nelle crisi finanziarie del 1992 o
del 1995 quando lo spread incorporava anche il rischio di cambio. La
reazione del governo italiano è stata nell’estate convulsa e, nonostante a
conti fatti si sia concretizzata in una manovra di correzione del disavanzo
(con due successivi decreti legge) superiore a 50 miliardi sul 2013 e 2014,
non è stata sufficiente a invertire la tendenza. Il nuovo governo, insediatosi
a metà novembre, è dovuto intervenire nuovamente, anche alla luce del
peggioramento delle previsioni macroeconomiche, e lo ha fatto ai primi
di dicembre con una nuova manovra di correzione del disavanzo. Così,
nell’insieme, le misure di riduzione dell’indebitamento netto approvate
nel corso del 2011 assommano in termini di Pil a 3 punti sul 2012, 4,6
punti sul 2013 e 4,8 punti sul 2014. Dimensioni senza precedenti.
Le tabelle 2a e 2b mostrano gli effetti finanziari dei provvedimenti
economici approvati nel periodo 2008-2011. Nella tabella 2a sono sintetizzati gli effetti dei provvedimenti a saldo zero approvati nel 2008-2010.
Nella tabella 2b i provvedimenti di correzione del disavanzo: il decreto
legge del 2008, quello del 2010 e i tre decreti legge del 2011. Sommare
gli effetti finanziari (desunti dalle relazioni tecniche) di provvedimenti
approvati in anni diversi e quindi con effetti stimati su un orizzonte
temporale diverso (le relazioni tecniche riportano la stima degli effetti
finanziari per l’anno corrente e i tre anni successivi) non è, per i motivi
che discuteremo più avanti, un’operazione rigorosamente corretta.
Tuttavia, la somma, mostrata nella tabella 3, serve a dare un’idea della
dimensione complessiva degli interventi di politica di bilancio realizzati
in questi anni. Sono cifre astronomiche: per ciascuno degli anni tra il
2011 e il 2014 sarebbero state reperite risorse (con tagli di spese e
aumenti di entrate) per cifre comprese tra gli 80 e i 122 miliardi di euro.
Una buona parte di queste risorse è stata destinata a ridurre il disavanzo,
42
economia italiana 1•2012
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Il risanamento dei conti pubblici
Tab. 3 - Effetti finanziari dei provvedimenti approvati nel 2008-2011 (miliardi di euro)
2009
2010
2011
2012
2013
2014
Maggiori entrate e minori spese
34,7
41,7
80,2
111,1
121,5
97,4
Riduzione del disavanzo
10,0
17,5
46,5
74,4
100,8
81,3
Fonte Cfr. tabelle 2a e 2b
la parte restante a finanziare interventi di incremento delle spese e sgravi
fiscali. Si può notare come nei primi anni considerati sia meno alta la
quota delle risorse destinata a riduzione del disavanzo. A conferma di
quanto dicevamo in precedenza: soprattutto per il 2009 e 2010 la politica
di bilancio si è basata su provvedimenti a saldo zero di ricomposizione
del bilancio con dichiarate finalità anti-cicliche.
Dall’esame delle tabelle 2a e 2b si evince come un ruolo importante,
soprattutto nel 2008-2010, sia stato svolto dai tagli alle spese. Opinione
diffusa è che si sia trattato esclusivamente di tagli lineari. In realtà, le cose
non stanno esattamente così. Per fare un esempio: a valere sul 2011 le
riduzioni di spesa complessivamente ammontano a 53 miliardi, il 7%
della spesa primaria. Di questi, 19 miliardi sono andati a finanziare nuove
spese. Si tratta di una modifica della composizione della spesa di tutto
rispetto. Insomma, certamente i tagli lineari sono stati una parte importante della storia, ma nel 2008-2010, almeno implicitamente, sono state
compiute scelte di non scarsa rilevanza. Semmai, la frammentarietà di
cui ha sofferto la politica di bilancio, dispersa in un numero eccessivo di
provvedimenti legislativi (tutti decreti-legge, quasi sempre approvati con
il ricorso alla fiducia), starebbe ad indicare una certa opacità, e forse
casualità, delle priorità. Un’interessante direzione di ricerca, che esula
dalle finalità di questo saggio, consisterebbe nell’individuare i settori che
hanno beneficiato di questa politica bilancio e se essa abbia in qualche
misura svolto le sue dichiarate finalità anti-cicliche.
2. Le tendenze di medio periodo e gli scenari di lungo periodo
Le tendenze di medio periodo della finanza pubblica, determinate dalle
scelte di politica di bilancio che abbiamo illustrato sono contenute nel
tema di discussione
43
EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 44
Giuseppe Pisauro
Documento di economia e finanza pubblicato ad aprile 2012. Una sintesi è
nella tabella 4. Il dato più preoccupante è il livello della pressione tributaria, che nel 2013 raggiungerebbe il livello, mai toccato in precedenza,
del 31,6%; di conseguenza toccherebbe un record anche la pressione
fiscale che nel 2013 sarebbe al 45,4% e calerebbe di mezzo punto solo nel
2015. Nel complesso le entrate si attesterebbero vicino al 50% del Pil.
Sono valori da paesi scandinavi che, riportati nel contesto mediterraneo,
rappresentano una pesante ipoteca sulla crescita, per l’effetto congiunto
di due fattori. Il primo è una insoddisfacente qualità, in termini di servizi
erogati, della spesa che quelle entrate finanziano; il secondo è l’ampiezza
dell’evasione fiscale che fa sì che la pressione sul settore formale dell’economia sia ben più elevata di quella ufficiale, riferita al Pil stimato in contabilità nazionale che incorpora un settore sommerso pari al 18-20% del
totale. Riguardo alla spesa, la componente primaria dovrebbe iniziare a
scendere, in rapporto al Pil, nel 2013 di un punto e poi di un altro punto
e due decimi nei due anni successivi. Si attesterebbe così nel 2015 al
43,4% in rapporto al Pil, un livello analogo a quello di metà degli anni
2000 e in diminuzione di 4,5 punti rispetto al massimo del 2009.
Va detto che in parte la diminuzione delle spesa totale è imputabile
alla spesa in conto capitale che nel 2014 e 2015 sarebbe al minimo
storico. Comunque la spesa corrente primaria registrerebbe, nel 2015,
una diminuzione di 2,9 punti di Pil rispetto al 2009 e 2,6 punti rispetto
al 2010. Insomma, i dati confermano che negli anni recenti c’è stato uno
sforzo di riduzione della spesa. Anzi, la proiezione al 2015 indica che
lo sforzo di riduzione del disavanzo si ripartirebbe in misura simile tra
spesa primaria ed entrate fiscali, semmai con una prevalenza della riduzione della prima: rispetto al 2010, la spesa primaria sarebbe in diminuzione di 3,2 punti di Pil e le entrate fiscali in aumento di 2,7 punti.
Un aspetto degno di nota è che le spesa primaria corrente diversa da
quella per pensioni e sanità, voci legate all’invecchiamento della popolazione, è stabile se non in diminuzione in termini nominali: era 319
miliardi nel 2009, è stata di 316 miliardi nel 2011, è prevista in 313
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economia italiana 1•2012
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Il risanamento dei conti pubblici
Tab. 4 - Principali voci del conto delle Amministrazioni Pubbliche 2009-2015
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Miliardi di euro
Spesa primaria corrente 661
670
673
677
678
688
701
di cui: Sanità 110
113
112
114
115
115
118
Pensioni 231
237
244
250
255
262
269
Altre spese correnti 319
320
316
312
308
310
313
Interessi passivi
71
71
78
84
88
94
99
Spesa in c/capitale
67
54
48
48
48
47
48
Totale spesa primaria
728
724
721
725
726
735
748
Totale spese finali
798
795
799
809
814
829
847
Entrate tributarie
442
448
455
496
514
528
539
Contributi sociali
213
213
216
220
224
229
236
62
63
65
66
68
70
72
Totale entrate finali 716
724
736
782
806
827
847
Indebitamento netto -83
-71
-62
-27
-9
-2
-1
0
16
57
80
92
99
Altre entrate
Saldo primario
-12
Rapporti al Pil
Spesa primaria corrente 43,5
43,2
42,6
42,6
41,7
41,1
40,6
7,3
7,3
7,1
7,2
7,1
6,9
6,9
Pensioni 15,2
15,3
15,5
15,7
15,7
15,7
15,6
Altre spese correnti 21,0
20,6
20,0
19,7
18,9
18,5
18,1
Sanità
Interessi passivi
4,7
4,6
4,9
5,3
5,4
5,6
5,8
Spesa in c/capitale
4,4
3,5
3,0
3,0
3,0
2,8
2,8
Totale spesa primaria 47,9
46,6
45,6
45,6
44,6
43,9
43,4
Totale spese finali
52,5
51,2
50,5
50,9
50,0
49,6
49,1
Pressione tributaria
29,1
28,8
28,8
31,2
31,6
31,6
31,2
Pressione fiscale
43,0
42,6
42,5
45,1
45,4
45,3
44,9
Totale entrate finali 47,1
46,6
46,6
49,2
49,5
49,4
49,1
Indebitamento netto -5,4
-4,6
-3,9
-1,7
-0,5
-0,1
0,0
Saldo primario
0,0
1,0
3,6
4,9
5,5
5,7
-0,8
Fonte Elaborazione su dati Documento di economia e finanza (aprile 2012)
tema di discussione
45
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Giuseppe Pisauro
miliardi nel 2015. Sarebbero risultati senza precedenti per il nostro
paese ed eccezionali anche nel confronto internazionale.
Lo squilibrio tra spese ed entrate non è quindi, come vedremo meglio
più avanti, nei provvedimenti approvati negli ultimi anni quanto nella
situazione di partenza della finanza pubblica nel 2008, quando è esplosa
la grande crisi: alto livello del debito con conseguente elevata spesa per
interessi, scarsa qualità dei servizi a parità di spesa primaria in confronto
con i principali partner europei, ampia evasione fiscale che rende insopportabile l’onere tributario su chi effettivamente lo sopporta. È chiaro
che l’unica via di uscita possibile deve basarsi su una combinazione di
interventi incisivi di contrasto dell’evasione e di riduzione della spesa.
Da entrambi i punti di vista la situazione nonostante gli sforzi fatti non
è certo ancora soddisfacente. Negare quegli sforzi, tuttavia, non serve a
migliorarla. Riguardo, in particolare, alla spesa pubblica sarebbe fondamentale consolidare le riduzioni decise per via legislativa. La questione
dei debiti pregressi delle amministrazioni pubbliche nei confronti del
settore privato che, secondo alcune valutazioni sarebbero superiori a 70
miliardi, sta a indicare che una parte consistente dei tagli di spesa decisi
negli scorsi anni non è sopportabile dalle amministrazioni fermo
restando il contesto di compiti loro affidati e di modalità di espletarli
oggi vigente. Rendere sostenibili quei tagli dovrebbe essere il primo
compito della spending review che il governo intende effettuare nel 2012.
Il problema è che i tagli effettuati, per quanto importanti, rischiano
di non essere sufficienti. Un esempio sono i risultati del 2011, quando
per il secondo anno consecutivo la spesa primaria totale (corrente e in
conto capitale) è diminuita in termini nominali, cosa che in precedenza
non era mai avvenuta. In termini di quota del Pil, ciò si è riflesso in una
diminuzione di un punto, dal 46,6% del 2010 al 45,6% del 2011,
portando così a oltre due punti la diminuzione rispetto al picco del
2009. Quello del 2011, resta, tuttavia, un dato superiore al massimo
storico registrato prima della crisi (intorno al 44% del 2006 e nel 2008).
Insomma, sforzi anche senza precedenti per il contenimento della spesa
46
economia italiana 1•2012
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Il risanamento dei conti pubblici
non sono sufficienti a fronte di un prodotto in calo o stagnante. Alla
fine della storia, ci ritroviamo nel 2011 con un Pil in termini nominali
pressoché identico a quello del 2008, ma con 27 miliardi di maggiore
spesa primaria. A riprova ulteriore, se mai ve ne fosse bisogno, che il
risanamento della finanza pubblica senza crescita dell’economia è un
compito quasi senza speranza. Rivolgiamo quindi la nostra attenzione
alle prospettive di lungo periodo nelle quali le ipotesi sulla crescita
giocano un ruolo fondamentale.
3. Le tendenze di lungo periodo
Il 2 marzo 2012 venticinque paesi dell’Unione europea (le eccezioni
sono Regno Unito e Repubblica Ceca) hanno firmato un nuovo patto
di bilancio, noto come Fiscal compact, che, ridotto in pillole, contiene
due regole. La prima (da alcuni definita, non si capisce bene perché,
golden rule) è il pareggio di bilancio, o meglio il divieto per il deficit
strutturale di superare lo 0,5% del Pil nell’arco di un ciclo economico.
La seconda regola fissa un percorso di diminuzione del debito pubblico
in rapporto al Pil: dovrà ridursi ogni anno di 1/20 della distanza tra il
suo livello effettivo e la soglia del 60%.
In che relazione sono tra loro queste due regole? A giudicare da molti
commenti italiani sembra che quella sul debito sia la regola più severa.
Così, si tira un sospiro di sollievo osservando che il Fiscal compact prevede
deroghe per «fattori rilevanti»2. La regola sul pareggio di bilancio, invece,
apparentemente viene accettata senza troppe discussioni e anzi ci si
appresta a inserirla in Costituzione, modificando l’art. 81.
In realtà, se guardiamo un po’ oltre la contingenza attuale, la regola
2 in molti commenti di giornalisti e esponenti politici il significato della regola sul
debito è stato equivocato, immaginando che essa prescrivesse per l'italia una riduzione
di tre punti di Pil l'anno del debito e che quindi richiedesse manovre di 40-50 miliardi
l'anno per vent'anni, risultando così insostenibile (solo per fare un esempio: “Unione
fiscale, il nuovo trattato: un anno in più per ridurre il debito”, «la Repubblica», 11 gennaio
2012). la regola va, invece, interpretata come si spiega di seguito. si veda anche, per una
“interpretazione autentica”, european commission (2011).
tema di discussione
47
EI_01012_Pisauro_pp.37-62 01/06/12 19.21 Pagina 48
Giuseppe Pisauro
sul debito è in genere meno severa di quella del pareggio di bilancio. Se
il bilancio è in pareggio, non si genera nuovo debito. In altre parole il
debito in euro non cambia. Ogni variazione del Pil nominale si tradurrà,
quindi, in una variazione del rapporto debito/Pil. Si può calcolare facilmente che per rispettare la regola di 1/20, con un debito al 120% del
Pil e il pareggio di bilancio è sufficiente che il Pil nominale cresca del
2,5%; con un debito al 100% del Pil basta una crescita nominale del 2%;
con un debito all’80% è sufficiente l’1,25%. In tempi appena normali
sono valori bassi. Perché si verifichino basta un po’ di inflazione. Tanto
per dare un’idea, nel 2000-2007, anni di crescita reale molto bassa, la
crescita nominale del Pil in Italia è stata in media del 3,6% l’anno. Le
cose vanno diversamente quando c’è una grave recessione: il Pil nominale può anche diminuire (in Italia, nel dopoguerra, è accaduto solo nel
2009) o crescere molto poco (dell’1,7% nel 2011 e, secondo le previsioni ufficiali di aprile 2012, dello 0,5% nel 2012 e poi tra il 2,4% e il
3,2% nei tre anni successivi). Il sospiro di sollievo per l’attenuazione
della regola del 1/20 può essere, quindi, giustificato oggi. In condizioni
normali, tuttavia, dovremmo preoccuparci di più della regola del
pareggio di bilancio. E forse nel valutare le nuove regole europee
dovremmo considerare quale sarà il loro effetto in condizioni normali
dell’economia.
La figura 1 mostra la dinamica del rapporto debito pubblico/Pil in
Italia a partire dal 2010: secondo le stime ufficiali (tratte dal Documento
di economia e finanza di aprile 2012) fino al 2015 e poi in discesa
secondo la regola del 1/20. Si parte dal 118,4 registrato per il 2010. La
discesa inizia a essere significativa, per effetto delle manovre già approvate, nel 2013 e poi prosegue, secondo la regola, a un ritmo decrescente:
da una riduzione di 3,3 punti nel 2014 a 2,5 punti nel 2018 a 1,3 punti
nel 2030. Per inciso, diversamente da quello che a volte si dice, la regola
non richiede una riduzione del debito di 3 punti l’anno (un ventesimo
della differenza tra 120 e 60) per vent’anni. Man a mano che il
debito/Pil scende, la differenza tra il suo valore e la soglia del 60% si
48
economia italiana 1•2012
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Il risanamento dei conti pubblici
Fig. 1 - La dinamica del rapporto debito pubblico/Pil secondo la nuova regola europea
Fonte: elaborazioni dell'autore
Fig. 2 - Saldo primario e indebitamento netto coerenti con la riduzione del debito -vari scenari
Fonte: elaborazioni dell'autore
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riduce e, quindi, si riduce anche 1/20 di quella differenza. Naturalmente
ciò allunga il periodo necessario per avvicinarsi al fatidico 60%.
Partendo dal livello attuale, la regola comporta per l’Italia nel 2034 un
rapporto ancora all’80%.
Quale saldo di bilancio sarà necessario in futuro per ottenere questi
risultati? Naturalmente dipenderà dal tasso di crescita del Pil e dal tasso
di interesse sul debito. La figura 2 mostra l’avanzo primario e il saldo
totale (indebitamento netto) necessari per rispettare la regola sul debito,
proiettando nel futuro le ipotesi ufficiali per il 2015: crescita reale del
Pil all’1,2%, crescita nominale al 3,2%, costo medio del debito al 5%
(quest’ultimo maggiore di 0,8 punti rispetto al valore previsto per il
2011). Sono ipotesi che non appaiono particolarmente ottimistiche in
un’ottica di lungo periodo.
Sotto queste ipotesi, l’avanzo primario dal 5,7% previsto per il 2015
potrebbe scendere al 4,8% l’anno successivo, al 4% nel 2021 e così via.
Ciò non richiederebbe il pareggio di bilancio, bensì sarebbe coerente
con un disavanzo totale tra lo 0,8 e l’1,4% del Pil lungo il periodo considerato. La figura 2 mostra il profilo dell’avanzo primario e dell’indebitamento netto anche per due ipotesi alternative: una favorevole, con un
punto in più di crescita del Pil, e una sfavorevole, con un punto in meno
rispetto alle previsioni ufficiali. Nell’ipotesi sfavorevole, che contempla
una crescita nominale del Pil del 2,2% (per inciso, un valore del genere,
associato a una crescita reale nulla per vent’anni presumibilmente si
qualificherebbe come “fattore rilevante” per una deroga), sarebbe necessario mantenere un saldo primario superiore al 5% e un avanzo o
pareggio complessivo fino al 2021. Nell’ipotesi favorevole, invece, di
una crescita nominale del Pil al 4,2% l’anno (di poco superiore a quella
media del periodo 2000-2007), l’avanzo primario potrebbe scendere
sotto il 4% già nel 2016 e sotto il 3% nel 2022; l’indebitamento netto
potrebbe mantenersi su livelli superiori all’1,8% lungo tutto il periodo.
Insomma, ipotesi anche di poco più favorevoli sulla crescita del Pil e
sui tassi di interesse renderebbero ancora meno necessario il manteni50
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mento del pareggio di bilancio3. Sarebbe possibile, sempre mantenendo
gli obiettivi di riduzione del debito, l’adozione di una vera golden rule,
quella che consente di finanziare in disavanzo le spese di investimento.
I trattati e le regole dovrebbero essere pensati per durare. Se l’obiettivo finale è la crescita economica, ci sono buoni motivi per volere la
riduzione del debito pubblico, specie in casi come quello italiano. Non
ve ne sono altrettanti per imporre il pareggio di bilancio per sempre. Il
fatto che oggi, in pratica, la prima regola possa richiedere il rispetto della
seconda non è un buon motivo per vincolare in modo poco ragionevole
la politica fiscale dei paesi europei nel prossimo decennio.
4. La composizione tra spese ed entrate della politica di bilancio nel 2008-2011
Un aspetto che è stato molto discusso è quello della composizione della
manovra tra aumenti di entrate e riduzioni di spese, con un peso prevalente dei primi. Difficile negare che ciò sia vero se si guarda alle manovre
del 2011: posta uguale a 100 la riduzione del disavanzo, in media nei
quattro anni interessati (2011-2014) il contributo delle entrate è 71 e
quello delle spese 29. Questo dato, tuttavia, deve essere letto in un
contesto più ampio.
Va considerato, infatti, che negli interventi di correzione effettuati
negli anni precedenti, con riflessi permanenti sulle poste del bilancio,
il rapporto tra il contributo delle entrate e quello delle spese è rovesciato
a favore delle seconde (tabella 5). Nel triennio 2008-2010, come si è
visto, sono stati approvati due provvedimenti di correzione del disavanzo: il d.l. n. 112/2008 e il d.l. n. 78/2010. Il contributo medio dei
tagli di spesa alla riduzione del disavanzo è stato del 71% per il decreto
del 2008 e del 63% per quello del 2010. Sommando gli effetti dei decreti
del 2008 e 2010 con quelli dei tre decreti del 2011 si ottiene un contributo medio delle entrate pari al 56% e delle spese al 44%. Questo
3 negli esercizi di simulazione del rapporto debito/Pil la variabile cruciale è la
differenza tra tasso di interesse nominale e crescita nominale del Pil. Risultati vicini a
quelli illustrati (ma non identici) si otterrebbero se si assumessero, ferma restando la
dinamica del prodotto, ipotesi alternative sul tasso di interesse.
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Tab. 5 - La composizione degli aggiustamenti fiscali 2008-2011 (miliardi di euro)
2009
2010
2011
Maggiori entrate nette
4,7
5,0
5,5
Minori spese nette
5,2
12,2
25,4
Riduzione del disavanzo
9,9
17,1
30,9
47,5%
29,2%
17,8%
2012
2013
2014
d.l. 112/2008
Contributo % entrate
d.l. 78/2010
Maggiori entrate nette
4,1
10,0
8,0
Minori spese nette
8,0
14, 9
17,0
12,1
25,0
25,0
33,9%
40,0%
32,0%
Maggiori entrate nette
2,6
40,0
52,4
53,5
Minori spese nette
0,2
8,5
23,2
27,0
Riduzione del disavanzo
2,8
48,5
75,6
80,5
92,9%
82,5%
69,3%
66,4%
Riduzione del disavanzo
Contributo % entrate
d.l. 98, 138 e 201/2011
Contributo % entrate
Fonte Elaborazione su documenti ufficiali
numero può dare un’idea più vicina alla realtà della composizione tra
spese ed entrate delle manovre realizzate in questa XVI legislatura.
Rappresenta, comunque, un’approssimazione abbastanza rozza, in
quanto a rigore non è corretto sommare gli effetti di provvedimenti
approvati in anni diversi. Le stime ufficiali, infatti, riportano gli effetti
finanziari per un triennio e non quelli a regime. Così, ad esempio, per
il d.l. n. 112/2008 disponiamo della stima degli effetti delle varie misure
solo per gli anni 2008-2011 e non per gli anni successivi. Questo nonostante molte di quelle misure (ma certamente non tutte) avessero effetti
permanenti. Per fare un esempio, la soppressione di alcuni organismi
disposta dal d.l. del 2008 ha effetti non solo fino al 2011 (come esposto
nelle stime ufficiali che accompagnano il decreto), ma anche nel 2012
e negli anni successivi. Sommare semplicemente le stime ufficiali di
provvedimenti diversi sull’orizzonte temporale per il quale sono fornite
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porta quindi a sottostimare gli effetti per gli anni più lontani del periodo.
Nel nostro caso, si potrebbe anche pensare che essendo il peso dei tagli
di spesa maggiore nei provvedimenti del 2008 e 2010, in realtà la
percentuale del 44% ottenuta in precedenza rappresenti una sottostima
del loro contributo alla riduzione del disavanzo nei provvedimenti
approvati nel periodo 2008-2011.
In generale, comunque, gli effetti di lungo periodo possono essere
molto diversi da quelli stimati e contabilizzati per il primo triennio. In
uno studio del Ministero dell’Economia (Ragioneria Generale dello
Stato 2012), si stimano gli effetti al 2020 del d.l. n. 201 del dicembre
2011. Secondo la stima ufficiale, quel provvedimento darebbe luogo nel
2014 a una riduzione del disavanzo di 21,4 miliardi di cui 14,9 miliardi
di maggiori entrate e 6,5 miliardi di minori spese. Secondo la proiezione
di lungo periodo dello studio citato, la riduzione del disavanzo nel 2020
sarebbe di 32 miliardi, di cui 11,4 di maggiori entrate e 20,6 di minori
spese (prevalentemente per effetto delle misure sulle pensioni).
5. Efficacia della politica fiscale, moltiplicatori e composizione entrate/spese
Ma per quali aspetti ha rilevanza la composizione di un aggiustamento
fiscale tra tagli di spesa e aumenti di imposte? Nella letteratura vi è un
certo accordo su come sia più probabile che un aggiustamento abbia
successo (nel senso di ridurre in modo permanente il debito pubblico)
se basato su tagli alla spesa primaria, in particolare al pubblico impiego
e alla sicurezza sociale, piuttosto che su aumenti delle imposte. È una
letteratura abbastanza ampia, iniziata da Alesina e Perotti (1995). L’idea
è che aumenti delle entrate creino spazi futuri per nuove spese, prima
o poi destinati ad essere sfruttati, e che l’unico modo per abbassare il
debito sia ridurre la dimensione del bilancio. Vi sarebbe comunque un
ruolo anche per aumenti della pressione fiscale in una prima fase dell’aggiustamento prima che diventi possibile intervenire riducendo le spese
ricorrenti (OECD 2007).
Molto più controversa è la nozione, presente nella stesso filone della
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letteratura (da Giavazzi e Pagano 1990 fino a Alesina e Ardagna 2009),
secondo cui è possibile che un aggiustamento fiscale abbia effetti espansivi sull’economia e che ciò è tanto più probabile quanto più esso sia
basato su tagli alle spese. È una questione particolarmente rilevante in
una situazione come quella italiana attuale, dove l’aggiustamento fiscale
deve essere effettuato nel contesto di un’economia stagnante o già in
recessione. L’idea fondamentale di questa letteratura è che di fronte a
una politica di riduzione del disavanzo, se gli agenti economici ritengono che essa riduca la probabilità di aggiustamenti più costosi nel
futuro (crisi fiscale), le loro aspettative saranno di un reddito futuro
maggiore; ciò aumenterà la loro fiducia oggi e li indurrà ad aumentare
la propria spesa.
Alesina e Ardagna (2009) è un buon esempio di questo filone della
letteratura. Lo studio utilizza un panel di 21 paesi OCSE dal 1970 al
2007. Un aggiustamento fiscale viene definito come un episodio di
miglioramento del saldo primario corretto per il ciclo di almeno l’1,5%
del Pil; gli episodi così individuati nello studio sono 107. Si definisce
come “espansivo” un aggiustamento che produce un aumento del tasso
di crescita del Pil superiore al 75% dei casi esaminati (individuando
così 26 casi, circa il 25% del campione) e come “riuscito” un aggiustamento fiscale tale da produrre una riduzione del rapporto debito/Pil
in tre anni di almeno 4,5 punti (individuando così 21 casi, circa il 21%
del campione). Solo nove casi (circa l’8% del campione) risultano sia
“espansivi” sia “riusciti”. Negli aggiustamenti “riusciti” la spesa primaria
diminuisce di circa il 2% del Pil e le entrate diminuiscono dello 0,5%
del Pil. Al contrario, negli aggiustamenti “non riusciti” la spesa diminuisce dello 0,7% del Pil e le entrate aumentano dell’1,4% del Pil. Risultati, quindi, a sostegno della tesi secondo cui per ridurre il debito sia
preferibile affidarsi a tagli di spesa accompagnati da modeste riduzioni
di imposta. Una serie di regressioni individuano poi una correlazione
tra il tasso di crescita del Pil e le variabili fiscali, che indicherebbero che
sgravi fiscali hanno maggiore probabilità di stimolare l’economia di
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Il risanamento dei conti pubblici
aumenti della spesa; vi sarebbe anzi evidenza che incrementi della spesa
inducono una riduzione del tasso di crescita dell’economia.
Recentemente, anche sulla scorta di un lavoro del Fondo Monetario
Internazionale (IMF 2010), si è sviluppata un’ampia discussione critica
su questi risultati (ben sintetizzata in Gravelle e Hungerford 2011). Lo
studio del Fondo utilizza una metodologia diversa per individuare gli
episodi di aggiustamento fiscale: invece di basarsi su variazioni del saldo
primario corretto per il ciclo si concentra sugli interventi di politica
fiscale motivati dall’obiettivo di ridurre il disavanzo, a prescindere dai
risultati che quegli interventi hanno avuto. La motivazione è che l’approccio basato sul saldo corretto può distorcere i risultati a favore di
effetti espansivi. La correzione per il ciclo non riesce ad eliminare gli
effetti sul gettito fiscale di variazione dei prezzi delle attività patrimoniali, portando così ad includere episodi di consolidamento fiscale associati ad aumenti dei prezzi dei cespiti (che tendono a coincidere con
fasi espansive dell’economia) e ad escludere episodi associati a diminuzioni degli stessi prezzi. Ad esempio, in Irlanda nel 2009 il crollo della
borsa e dei prezzi degli immobili provocò un forte peggioramento del
saldo corretto nonostante l’introduzione di tagli di spese e aumenti di
imposte per 4,5 punti di Pil. Ancora, l’approccio basato sul saldo
corretto per il ciclo tenderebbe a non individuare episodi di consolidamento fiscale cui fa seguito uno shock negativo dell’economia che
costringe le autorità di politica fiscale a intervenire con misure espansive. In altre parole, un paese che intraprende un programma di riduzione del disavanzo è più probabile che lo continui se non ci sono effetti
negativi sull’economia. Considerare solo i casi di riduzioni sostenute
nel tempo tende a selezionare i casi di consolidamento seguiti da espansione dell’economia. Passando ai risultati ottenuti in IMF (2010), in
estrema sintesi, gli aggiustamenti fiscali risultano avere comunque
effetti recessivi, che possono però essere attenuati da una politica monetaria accomodante di riduzione dei tassi di interesse e da concomitanti
politiche di svalutazione del cambio che fanno aumentare le esportatema di discussione
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zioni nette. Tagli di spesa risultano meno recessivi di aumenti di
imposte, ma ciò dipende in parte dal fatto che questi ultimi tendono ad
essere associati a politiche monetarie più espansive. Riduzioni del disavanzo in Paesi a elevato rischio di default sul debito tendono a essere
meno recessivi che non in altri Paesi, ma anche in questi casi non si
hanno comunque di solito effetti espansivi. La questione, naturalmente,
non è tanto se gli effetti sulle aspettative enfatizzati dalla letteratura sugli
aggiustamenti fiscali espansivi siano presenti, quanto se la loro ampiezza
sia tale da più che controbilanciare gli effetti diretti depressivi di riduzioni della spesa pubblica. Un’altra critica all’approccio seguito in
Alesina e Ardagna (2009) riguarda la possibilità che il successo degli
episodi di consolidamento fiscale dipenda dallo stato dell’economia.
Un argomento che ritroveremo più avanti a proposito della possibilità
che la politica fiscale abbia effetti “non lineari”. Gli aggiustamenti
“riusciti” (secondo la definizione di Alesina-Ardagna) hanno avuto
luogo in economie che si trovavano al livello di pieno impiego (o vicino
ad esso); al contrario, gli aggiustamenti “non riusciti” si sono verificati
in genere quando il prodotto effettivo era lontano dal prodotto potenziale. Quasi nove casi su dieci di aggiustamenti fiscali iniziati quando il
prodotto era inferiore al potenziale non hanno avuto successo (Gravelle
e Hungerford 2011).
Più in generale, qualche utile insegnamento si può trarre dal lavoro
teorico ed empirico sui moltiplicatori fiscali che ha ripreso particolare
vigore durante la crisi4. È una letteratura riferita in gran parte agli Stati
Uniti e diretta a valutare l’efficacia anti-ciclica di politiche fiscali espansive. I filoni principali sono due: modelli empirici, basati su forme
ridotte (che seguono tecniche VAR, vector autoregressive) e modelli
strutturali (modelli di equilibrio generale dinamico-stocastici, DSGE).
Nella letteratura più recente, motivata dal dibattito sulla Grande reces4 si vedano in particolare gli articoli contenuti nel numero di settembre 2011 del
«Journal of economic literature» e in quello di gennaio 2012 dell’«american
economic Journal: macroeconomics».
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sione, si cerca di affrontare essenzialmente tre questioni: 1) il grado di
efficacia di politiche fiscali espansive associate a politiche monetarie
accomodanti; 2) il mix più opportuno di strumenti – spesa diretta,
trasferimenti, imposte – per stimolare l’economia; 3) le conseguenze
di lungo periodo di uno stimolo fiscale. I risultati sono molto diversificati, con stime dei moltiplicatori della spesa pubblica che vanno da 0 a
2,1 e delle imposte da -1,5 a 1,4 (IMF 2012).
Concentrando l’attenzione sui modelli strutturali che consentono di
tener conto delle interazioni tra politica fiscale e politica monetaria, in
particolare in situazioni di trappola della liquidità, un buon esempio è
Coenen et al. (2012). Lo studio confronta i risultati di sette modelli
istituzionali (Federal Reserve Board – due modelli, Banca Centrale
Europea, Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea,
OCSE, Bank of Canada) e due modelli “accademici”. Le principali
conclusioni sono tre: 1) uno stimolo fiscale fa crescere il Pil nel breve
periodo e l’effetto aumenta sensibilmente con il grado di monetary accomodation per quasi tutti gli strumenti; 2) trasferimenti selettivi, indirizzati a famiglie liquidity constrained e spesa diretta sono particolarmente efficaci; 3) l’effetto di stimolo di breve periodo diminuisce se lo
stimolo diventa «troppo persistente» e, anzi, un aumento permanente
della spesa diretta porta nel lungo periodo a una riduzione dell’output.
La tabella 6 sintetizza i risultati dello studio sulla dimensione dei moltiplicatori associati a vari strumenti di politica fiscale. Emerge chiaramente come i moltiplicatori della spesa siano superiori a quelli delle
imposte. Sono risultati contrari alla tesi secondo cui per contrastare una
recessione sarebbe preferibile ridurre le imposte piuttosto che aumentare le spese. Conclusioni opposte vanno tratte, invece, se si assume
un’ottica di lungo periodo.
Una questione importante è quella della possibile dipendenza della
dimensione dei moltiplicatori dallo stato dell’economia. Per dirla con
Parker (2011): «Non disponiamo di una buona misura degli effetti
della politica fiscale in recessione perché i metodi di stima ignorano
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Giuseppe Pisauro
Tab. 6 - Moltiplicatori associati a strumenti di politica fiscale
USA
Europa
Consumi pubblici
1,55
1,52
Investimenti pubblici
1,59
1,48
Trasferimenti selettivi
1,30
1,12
Imposte sui consumi
0,61
0,66
Trasferimenti generali
0,42
0,29
Imposte sulle società
0,24
0,15
Imposte su redditi da lavoro
0,23
0,53
Nota: Moltiplicatori associati a uno stimolo fiscale con durata di due anni e politica monetaria accomodante.
Media dei risultati di nove modelli strutturali (Coenen et al. 2012).
quasi interamente lo stato dell’economia e stimano il moltiplicatore
della politica fiscale, che è presumibilmente una media ponderata di
ciò che interessa – il moltiplicatore in recessione – e ciò che interessa
meno – il moltiplicatore in una fase espansiva».
Uno studio recente (Baum, Poplawski-Ribeiro e Weber 20125),
basato su un modello non linear threshold VAR (che separa le osservazioni in regimi diversi in base dell’output gap, utilizzato come variabile
soglia), affronta direttamente la questione, distinguendo tra moltiplicatori in fasi recessive e in fasi espansive. Si basa su dati trimestrali, a
partire dagli anni ’70, per sei paesi del G-7 (l’escluso è l’Italia). I risultati
confermano l’intuizione secondo cui in fasi recessive è più debole, dato
che nell’economia vi è capacità in eccesso, il tradizionale argomento per
cui una spesa pubblica più elevata spiazza la spesa privata. Viene confermato anche il risultato standard per cui i moltiplicatori di breve periodo
della spesa sono significativamente maggiori di quelle delle imposte.
Ad esempio, il moltiplicatore associato a un incremento della spesa
pubblica è 1,22 con un output gap negativo e a 0,72 con un output gap
positivo; il moltiplicatore di una riduzione di spesa è -1,34 in fasi recessive e -0,78 in fasi espansive. E ancora, il moltiplicatore di un incremento delle imposte è -0,40 in fasi recessive e 0,03 in fasi espansive; un
5
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una sintesi è in imF (2012).
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Il risanamento dei conti pubblici
taglio di imposte ha un moltiplicatore 0,35 in fasi recessive e -0,04 in
fasi espansive.
Lo studio avverte che questi risultati sui moltiplicatori di breve
periodo non dovrebbero essere utilizzati per trarre conclusioni sulla desiderabilità di basare un consolidamento fiscale sulla spesa o sulle imposte.
Sono importanti anche gli effetti di lungo periodo sull’output potenziale
e «la pressione fiscale già elevata in alcuni paesi (particolarmente in
Europa) implica che il grosso dell’aggiustamento fiscale dovrebbe
gravare sul lato della spesa (sebbene incrementi delle entrate possano
risultare inevitabili quando l’obiettivo di aggiustamento è elevato)»
(IMF 2012, p. 36). Rimane il fatto che sostenere, come spesso si fa nel
dibattito italiano6, il carattere recessivo (quindi di breve periodo) di
aumenti delle imposte rispetto a tagli delle spese, confondendo le due
ottiche – breve e lungo periodo – non sembra suffragato dall’evidenza
empirica che abbiamo illustrato. Certamente le considerazioni degli
effetti sull’output potenziale sono importanti ma sottovalutare gli effetti
recessivi di tagli alle spese e anzi negarli, specie in una fase di recessione
già acuta, potrebbe avere conseguenze molto poco attraenti.
Per concludere un cenno all’Italia. Gli studi sull’efficacia della politica
fiscale riferiti al nostro paese sono molto scarsi. Una interessante eccezione è Basile, Chiarini e Marzano (2011) che distinguono gli effetti
della politica fiscale sul settore regolare dell’economia e su quello
sommerso (per la stima della dimensione del sommerso utilizzano la
serie della base imponibile IVA non dichiarata elaborata dall’Agenzia
delle entrate). Secondo i risultati ottenuti, il moltiplicatore della spesa
pubblica (dopo un anno) è 0,8 per il Pil privato totale e 3,7 per la
componente regolare (-6 per la componente irregolare). D’altro canto,
l’aumento di un punto percentuale della pressione fiscale avrebbe un
effetto recessivo sulla componente regolare (-1,1), ma farebbe crescere
la componente irregolare (moltiplicatore +4,2). Sono risultati non
6 ad esempio, a. alesina e F. Giavazzi, “Caro Presidente, no così non va”, «corriere
della sera», 4 dicembre 2011.
tema di discussione
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Giuseppe Pisauro
sorprendenti nel loro segno. Dopotutto, ci si può aspettare che la
domanda proveniente dal settore pubblico si rivolga al settore formale
(e quindi una maggiore spesa pubblica faccia espandere quel settore e
contrarre il sommerso). Altrettanto plausibile è che una maggiore pressione fiscale renda relativamente meno conveniente operare nel settore
formale. L’ampiezza degli effetti stimati è forse superiore alle aspettative.
Si tratta comunque di una direzione di ricerca che affronta una
questione peculiare del nostro paese, certamente fondamentale non
solo in un’ottica di breve periodo.
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita,
molta ristrutturazione
Innocenzo Cipolletta
Università di Trento
Sergio De Nardis
Nomisma e Luiss Guido Carli
In questo saggio si analizzano i cambiamenti che hanno interessato l’economia italiana
nell’ultimo decennio. È stato un periodo di bassa crescita, ma anche di importanti riorganizzazioni delle imprese sotto la spinta della globalizzazione e dell’adesione all’euro.
Gli shock esterni hanno interagito con i mutamenti dell’ambiente macroeconomico
nazionale che hanno avuto nelle riforme del mercato del lavoro e nelle dismissioni di
attività dello Stato passaggi essenziali, influenti sulle scelte produttive. Si è trattato di
un adattamento spontaneo, in assenza di un orientamento di politica economica in
gran parte concentrata sugli sforzi di risanamento finanziario. Si argomenta, quindi,
come la capacità reattiva mostrata dalle imprese fornisca la base di partenza per politiche della crescita. Queste, nell’attuale fase, non sembrano poter prescindere dall’identificazione di forme appropriate di rilancio della domanda interna.
1. Introduzione
Gli anni zero di questo terzo millennio sono stati, per l’Italia, anche anni
di crescita zero. Ma sarebbe un errore pensare che durante questo periodo
il paese sia rimasta fermo. La nostra economia ha conosciuto profonde
modifiche e una marcata ristrutturazione, di natura spontanea, guidata
essenzialmente dai mutamenti nelle condizioni esterne e nell’ambiente
macroeconomico. In particolare, la globalizzazione e l’ingresso nell’area
dell’euro hanno imposto una serie di cambiamenti che hanno avuto un
impatto significativo sull’industria italiana, ossia sul settore che più era
esposto alla concorrenza. Gli shock esterni hanno poi interagito con gli
eventi interni che hanno visto nelle riforme del mercato del lavoro e nelle
dismissioni di attività da parte dello Stato due passaggi essenziali, in grado
di condizionare scelte produttive e decisioni di investimento.
Conoscere questi cambiamenti è importante non solo dal punto di
vista scientifico, ma soprattutto per delineare interventi di politica
economica. Se non si apprezzano i mutamenti avvenuti, si rischia infatti
tema di discussione
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
di riproporre vecchie ricette che forse erano adatte in periodi passati,
ma che possono essere sbagliate ora, perché non tengono conto delle
modifiche intervenute e delle tendenze spontanee delle imprese
italiane.
Questo saggio intende dare conto di questi cambiamenti e di come
essi si siano combinati con gli eventi che hanno caratterizzato i primi
dieci anni di questo secolo. In particolare, si mostrerà nel paragrafo 2
come l’industria italiana abbia conosciuto, con l’inasprirsi delle pressioni concorrenziali, un processo di rinnovamento e upgrading delle sue
produzioni, che le ha permesso di tornare a collocarsi, dopo una severa
flessione nei primi anni del decennio, su un sentiero più favorevole di
efficienza e competitività.
Si analizzerà poi, nel paragrafo 3, la posizione del nostro paese nei
confronti delle economie europee. Gli esiti del processo di cambiamento
non sono leggibili nei risultati medi del decennio, sia perché ogni ristrutturazione richiede tempo per dare frutti e passa attraverso una perdita di
produzioni che incide sulla crescita nella prima fase, sia perché la decade
trascorsa è stata scossa da due crisi “epocali”. La prima, quella che seguì
l’11 settembre 2001, data del terribile attentato terrorista contro gli USA.
La seconda, la crisi finanziaria globale, esplosa nel 2008 e che ancora agita
il mondo nel 2012. Soprattutto quest’ultima crisi ha avuto effetti particolarmente intensi sui paesi a più alta vocazione industriale e tra questi
l’Italia. Verranno inoltre esaminati i legami tra perfomance manifatturiera
e produttività dell’intera economia.
Quindi cercheremo, nel paragrafo 4, di individuare quale è il modello
di specializzazione che l’Italia è andata assumendo, in via spontanea,
ossia in assenza di politiche specifiche, posto che il nostro paese appare
soprattutto concentrato sulle politiche di risanamento finanziario e non
ha saputo o voluto sviluppare interventi volti a guidare il cambiamento
strutturale. Si argomenterà che l’aggiustamento spontaneo ha dato
luogo a tendenze opposte per gli operatori privati, venendo alcuni investiti dal forte incremento della pressione concorrenziale della globaliz64
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
zazione e cercando altri riparo da quest’ultima con lo spostamento di
risorse nei settori privatizzati, ma non adeguatamente liberalizzati. Si
discuteranno, inoltre, le influenze che le riforme del mercato del lavoro
hanno esercitato nell’innalzare il contenuto di occupazione della
crescita economica.
Tali considerazioni condurranno a sottolineare, nel paragrafo conclusivo, la capacità delle imprese italiane ad adattarsi alle condizioni del
mercato e alle modifiche del quadro giuridico e istituzionale. Riconoscere questa capacità è importante perché consente di immaginare una
risposta positiva da parte delle imprese italiane a riforme di contesto e
a politiche macroeconomiche volte alla crescita di particolari segmenti
della domanda interna, con effetti positivi sul tasso di sviluppo della
nostra economia. Una crescita che appare necessaria anche per favorire
quel risanamento finanziario che altrimenti rischia di essere difficile da
perseguire.
2. Cambiamenti strutturali nelle imprese italiane
La manifattura italiana ha attraversato una fase di aggiustamento nei primi
anni duemila in risposta agli shock competitivi di inizio decennio (euro
e Cina, in primo luogo). Essi sono stati comuni alle economie europee,
ma hanno avuto effetti specifici sul nostro sistema a motivo della sua
specializzazione e del frequente ricorso fatto nel passato al tasso di cambio
come strumento di riequilibrio macroeconomico. Le riorganizzazioni
produttive sono state significative, ma si è stentato a lungo a riconoscere
la loro effettiva portata. Ciò è avvenuto per problemi di misurazione delle
statistiche, che hanno persistentemente sottovalutato la dinamica in
volume delle esportazioni (quindi, dell’output complessivo), e per l’apparente inerzia, scambiata per assenza di reattività, della struttura industriale tanto sotto il profilo settoriale che dimensionale. La (atipica) gerarchia dei vantaggi comparati settoriali è rimasta sostanzialmente immutata
negli ultimi anni (figura 1), così come scarse sono state le modifiche nella
distribuzione per dimensione delle imprese industriali (tabella 1).
tema di discussione
65
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
Fig. 1 - Indici di vantaggio comparato rivelato delle esportazioni italiane in rapporto ai paesi UE
(indice>1 = specializzazione; indice<1 = despecializzazione)
Fonte elaborazioni su dati OECD
Tab. 1 - Distribuzione delle imprese manifatturiere per classi dimensionali (quote %)
2000
2008
Differenza 2008-2000
83,6
81,9
-1,8
da 10 a 19
9,6
10,6
1,0
da 20 a 49
4,7
5,1
0,4
da 50 a 249
1,8
2,1
0,3
250 e oltre
0,2
0,3
0,1
100
100
-
da 1 a 9
Totale
Fonte elaborazioni su dati Istat
Questa staticità è stata, però, ingannevole. Essa ha, in realtà, sotteso
intensi cambiamenti dando forma a una sorta di ristrutturazione “silenziosa” dell’industria. Ciò che si è verificato negli anni degli shock competitivi è stata una riallocazione delle risorse all’interno dei settori (e delle
classi dimensionali), dalle imprese meno produttive a quelle più efficienti,
e dentro le imprese, dalle linee di prodotto a basso valore medio a quelle
66
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
con più elevato contenuto qualitativo e di servizi. Questa mobilità non
ha avuto una specificità settoriale. Essa si è manifestata nelle industrie sia
di vantaggio che di svantaggio comparato: le spinte competitive hanno
attivato ovunque processi spontanei di selezione, con l’espansione delle
produzioni migliori e la flessione di quelle meno adatte1.
La tabella 2, tratta da De Nardis (2010), fornisce un’indicazione di tali
dinamiche. Nel quinquennio 2000-05, la produzione industriale, calcolata
sui microdati Prodcom, è aumentata in misura molto limitata, solo del
3% in valore. Questa percentuale sembra non dare adito a dubbi: si è trattato di un lungo periodo di stagnazione. Ma ciò è solo l’aspetto di superficie. La stasi ha sotteso, infatti, forti rimescolamenti all’interno dell’industria, in termini tanto di imprese che di prodotti. L’ingresso di nuovi
produttori ha contributo ad aumentare la produzione manifatturiera in
tale periodo di 25 punti percentuali; la contemporanea uscita di imprese
ha indotto una caduta di entità simile. Il cambiamento è stato altrettanto
marcato dentro le aziende. Tra il 2000 e il 2005, l’aggiunta di nuovi
prodotti ha accresciuto l’output complessivo di 24 punti percentuali; la
simultanea eliminazione di produzioni ne ha provocato un calo per 23
punti. I movimenti di imprese e prodotti sono stati, quindi, ampiamente
in eccesso rispetto a quanto “necessario” per accomodare la modesta
variazione dell’output; un’evidenza di processi di rinnovamento non altrimenti identificabili dall’osservazione dei soli andamenti aggregati2.
1 Bugamelli, Schivardi e Zizza (2010) argomentano che la riallocazione delle attività
dopo l’euro è avvenuta, in Italia e in Europa, non tanto “tra” quanto “dentro” i settori e che,
nel caso delle produzioni tradizionali italiane, le riorganizzazioni a livello di impresa hanno
implicato spostamenti di risorse verso le attività a monte e a valle del processo produttivo.
Tale aspetto è sottolineato anche da Arrighetti e Traù (2012) che mostrano, inoltre, come
il riposizionamento competitivo delle imprese di successo abbia comportato una ridefinizione della generalità delle funzioni aziendali. I fenomeni del cambiamento industriale sono
stati analizzati, pur con enfasi e prospettive diverse, da vari autori, cfr. per esempio Cipolletta
(2006), Rossi (2006), Fortis (2005), Lanza e Quintieri (2007), De Nardis (2010).
2 I movimenti di risorse ”intra-muros” hanno anche favorito l’innalzamento del capitale umano (laureati e skill) dentro le imprese, su questo cfr. Bugamelli, Schivardi e Zizza
(2010), De Nardis e Ventura (2010), Schivardi e Torrini (2011).
tema di discussione
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
Tab. 2 - Scomposizione della variazione dell’output manifatturiero 2000-2005
Var. % e contributi % alla variazione
Variazione % output industriale
3,0
dovuta a:
Imprese entrate/uscite: variazione netta (margine estensivo imprese)
+0,1
—— Entrate
+25,6
—— Uscite
-25,5
Beni aggiunti/eliminati: variazione netta (margine estensivo prodotti)
+1,0
—— Aggiunti
+24,0
—— Eliminati
-23,0
Beni già esistenti in crescita/calo: variazione netta (margine intensivo)
+1,9
—— In crescita
+13,4
—— In calo
-11,5
Fonte De Nardis 2010
Le stime condotte sulla stessa base dati mostrano, inoltre, che il
cambiamento delle produzioni all’interno delle imprese si è caratterizzato per il prevalere di beni di maggiore qualità. Ciò è evidenziato nella
tabella 3 dove la variazione del valore unitario dell’output (rapporto tra
fatturato e quantità prodotte) all’interno delle imprese (+4,1% tra il
2000 e il 2005) è scomposta in una porzione dovuta all’aumento dei
beni esistenti all’inizio e alla fine del periodo (basket costante) e in una
componente imputabile al mutamento del mix produttivo. Ne risulta
che una quota preponderante (l’80%) della crescita del valore unitario
tra il 2000 e il 2005 è stata dovuta al cambiamento di composizione
dell’output delle imprese, con l’abbandono dei beni di più bassa qualità
(minore valore unitario) e la loro sostituzione con produzioni di fascia
più alta (maggiore valore unitario)3.
3 L’evidenza di un diffuso upgrading qualitativo nella prima metà degli anni duemila,
con positive ricadute su fatturato e occupazione, è confermata da Di Giacinto e Micucci
(2011) sulla base dell’analisi della dinamica dei prezzi delle imprese nell’indagine
INVIND di Banca d’Italia.
68
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
Tab. 3 - Variazione % del valore unitario dell’output: 2000-2005
Variazione
totale
Variazione
a basket costante
Variazione dovuta
a modifica del mix
Variazione
4,1
0,8
3,3
Contributi alla variazione
100
19,5
80,5
Fonte De Nardis 2010
È da sottolineare che tali sommovimenti non si sono fermati ai primi
anni duemila. Anche l’ultima recessione è stata infatti causa di cambiamento alla stessa stregua delle pressioni competitive. Una misura dei
processi di distruzione creativa indotti dalla crisi è ricavabile dai mutamenti di imprese e prodotti verificatisi nel paniere Istat dei prezzi alla
produzione tra il 2005 e il 2010: il tasso di turnover lordo ha raggiunto
punte del 68% per gli operatori orientati all’export e del 42% per i
prodotti venduti sui mercati di esportazione (tabella 4).
Tab. 4 - Flussi di entrata, di uscita e lordi di imprese e prodotti nel paniere ISTAT
dei prezzi alla produzione: 2005-2010 (valori %)
Imprese
- export
Prodotti
- export
Tasso di turnover lordo
rispetto al 2005
Tasso di uscita
rispetto al 2005
Tasso di entrata
rispetto al 2005
62,2
25,1
37,1
68,3
25,6
42,6
37,8
9,1
28,8
41,7
13,7
27,9
Fonte elaborazioni su dati Istat
Un riflesso di queste modifiche è riscontrabile nello iato che si è
aperto a partire dal 2009 tra l’indicatore di fatturato (deflazionato con
i prezzi alla produzione) e quello di produzione industriale. Quest’ultimo indice si basa sulla struttura fissa di pesi/imprese/prodotti
dell’anno 2005. Il fatturato, invece, per costruzione segue con maggiore
aderenza i mutamenti di composizione dell’output. L’emergere di un
divario tra le due statistiche può, dunque, essere letto come segnale di
cambiamento strutturale (la produzione, legata alla struttura industriale
tema di discussione
69
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
Fig. 2 - Manifattura: fatturato reale/produzione
(2005=1, dati destagionalizzati, medie mobili a 6 termini centrate sull’ultimo)
Fonte elaborazioni su dati Eurostat
del 2005, da più peso alle attività che sono andate contraendosi dopo
quell’anno e meno a quelle che sono andate espandendosi). Come si
vede dalla figura 2 all’uscita dalla recessione – e quindi dai processi
selettivi da essa indotti – la relazione tra i due indicatori subisce una
rottura: l’indice di fatturato, che risente del mutamento di mix, si allontana nella prima metà del 2009 rispetto a quello di produzione, facendo
emergere una netta discontinuità di struttura4.
Alla radice dei mutamenti descritti sta, in generale, l’eterogeneità
delle imprese che reagiscono in modo diversificato all’aumento della
competizione (e alla caduta della domanda), dando luogo a fenomeni
di selezione. Essa è riscontrabile all’interno dei settori, ma anche dentro
le classi dimensionali. Le imprese piccole non sono tutte uguali tra loro,
come non lo sono quelle grandi. In ogni settore e in ogni fascia dimensionale ci sono imprese più e meno efficienti. Come distinguerle? Una
cartina di tornasole è costituita dalla verifica se sono impegnate o meno
4 Si considerano in figura medie mobili a 6 termini per smussare gli effetti di breve
periodo delle variazioni delle scorte e dei fattori accidentali.
70
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
in attività di esportazione. Vendere sul mercato internazionale è, infatti,
più difficile e costoso che produrre per quello interno; possono farlo
in modo profittevole solo le aziende migliori. Queste sono, tuttavia,
presenti in tutte le classi dimensionali. La tabella 5 mostra per alcuni
indicatori economici le differenze che caratterizzano le imprese esportatrici rispetto alle non esportatrici5. Come si vede, gli esportatori sono
in media più grandi, più produttivi, pagano salari maggiori, fanno più
investimenti, hanno margini di profitto più elevati dei non esportatori.
Ma il fatto rilevante è che questi “premi” si riscontrano sistematicamente in ciascuna fascia di dimensione6.
Sulla base di queste osservazioni si può rilevare che, analogamente
a quanto visto per la staticità settoriale, anche l’inerzia dimensionale ha
sotteso dei fenomeni di cambiamento. Negli anni duemila, di intensificazione della competizione internazionale, le risorse produttive si sono
spostate in ciascuna fascia di dimensione verso gli esportatori: la figura
3 mostra che il peso di chi vende all’estero è cresciuto in termini di
addetti in tutte le categorie dimensionali7. Ciò significa che in ogni
classe le risorse si sono mosse verso gli impieghi più produttivi, più
profittevoli, con più alti salari, con maggiori investimenti e in imprese
5 Si prende a riferimento il 2008 e non il 2009 (ultimo anno per il quale sono disponibili i dati sulle imprese, definite peraltro a partire da quell’anno sulla base della nuova
classificazione ATECO 2007) per escludere gli effetti anomali sugli indicatori considerati
della recessione e della caduta degli scambi internazionali.
6 Su dimensione e specializzazione delle imprese manifatturiere italiane, in rapporto
alle economie europee, cfr. Onida (2011) e Borghi e Helg (2011). Le imprese efficienti,
pur presenti in tutte le dimensioni, si concentrano in realtà in alcune fasce. Conti e
Modiano (2010) pongono in luce come i vantaggi competitivi dell’industria italiana siano
nella medio-piccola dimensione che si caratterizza per livelli di produttività/redditività
comparabili con i partner europei, e in particolare con quelli della Germania, in assenza
di “sacrificio” salariale (anche il costo del lavoro è in linea con i livelli tedeschi, al contrario
di quanto si verifica per le altre fasce dimensionali). I sistemi di impresa di media dimensione come asse portante dello sviluppo economico e industriale dell’Italia sono al centro
delle analisi di Mediobanca, cfr. Coltorti (2011a).
7 L’aumento del peso degli esportatori è rilevabile anche in termini di numero di
imprese e di valore aggiunto.
tema di discussione
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
Tab. 5 - Imprese manifatturiere, peso degli esportatori e differenze rispetto ai non esportatori – anno 2008
Peso degli esportatori
su totale imprese
Classi dimensionali Numero Valore
aggiunto
Rapporti degli esportatori rispetto ai non esportatori
(indicatore riferito ai non esportatori=1)
Dimensione
Valore
Retribuzione Investimenti Margine
media
aggiunto
lorda per per addetto operativo
per addetto dipendente
lordo
0-9
12,0
27,0
1,73
1,57
1,29
1,09
4,32
10-19
45,9
55,2
1,04
1,40
1,22
1,31
1,60
20-49
66,0
74,0
1,08
1,36
1,21
1,48
1,45
50-249
88,9
92,6
1,14
1,37
1,16
1,19
1,65
>250
96,4
98,5
1,75
1,43
1,22
1,15
1,48
Totale
20,4
78,7
7,08
2,03
1,50
2,14
2,50
-Totale > 10
57,3
86,4
2,80
1,70
1,90
1,86
1,77
Fonte elaborazioni su dati Istat
più grandi: anche da questa prospettiva si identificano, dunque, gli
effetti delle pressioni selettive.
Si è detto all’inizio di questo paragrafo delle difficoltà degli analisti
ad apprezzare in pieno il cambiamento “micro” a causa degli andamenti
complessivamente modesti evidenziati per lungo tempo dalle statistiche
“macro”. Anzi, quanto posto in luce fin qui porta ad affermare che sono
stati precisamente i cambiamenti microeconomici a mettere in crisi le
statistiche macroeconomiche8. La forte sottovalutazione delle esportazioni in volume, indotta dalla sovrastima degli indicatori di prezzo
utilizzati per deflazionare i valori nella contabilità nazionale, ha comportato che una quota rilevante dell’output manifatturiero venisse mal
misurata. Ma questa difficoltà di stima di prezzi e volumi è dipesa in
ampia parte dal mutamento dei prodotti che è risultato particolarmente
intenso proprio nei mercati di destinazione esteri, dove la competizione
ha spinto le imprese italiane verso il rinnovamento e la differenziazione
delle produzioni.
La situazione di sottovalutazione dell’industria è stata corretta nell’ot8 I problemi di misurazione statistica in conseguenza dei mutamenti di composizione
dell’apparato produttivo sono posti in luce in Cipolletta (2007).
72
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
Fig. 3 - Esportatori: peso negli addetti manifatturieri
Fonte elaborazioni su dati Istat
tobre 2011, quando l’Istat ha diffuso nuovi conti nazionali che, insieme
alla modifica della classificazione delle attività produttive, hanno rivisto,
a partire dal 2002, le serie dell’export e dell’import in volume. I relativi
deflatori perdono il legame diretto che avevano con i valori medi unitari
di commercio estero e vengono ora calcolati sulla base dei prezzi alla
produzione sui mercati esteri per quanto riguarda le esportazioni e di
stime di prezzi all’importazione per gli acquisti dall’estero9. Il nuovo
quadro modifica al rialzo, nel periodo 2002-2010, del 2,1% all’anno la
dinamica delle esportazioni di beni, dell’1,6% quella delle importazioni.
In conseguenza di ciò, l’evoluzione del valore aggiunto industriale
9 Per la discussione sulle difficoltà interpretative dello stato dell’industria, legate alla
sottovalutazione dell’export, si rimanda alle osservazioni contenute nei Rapporti degli
ultimi anni di Banca d’Italia e Isae; una presentazione organica di queste posizioni è nei
contributi di Bugamelli, Brandolini e Torrini (2010) e di De Nardis e Pappalardo (2010)
presentati alla 51esima Riunione della SIE. Anche la successiva riunione della SIE dedica
attenzione alla questione (Coltorti, 2011b). La correzione dei dati di contabilità relativi
agli scambi con l’estero è stata effettuata dall’ISTAT in occasione della pubblicazione
delle nuove serie dei conti nazionali basate sulla classificazione delle attività economiche
ATECO 2007 e dei prodotti CPA 2008, cfr. Statistiche Report, I conti nazionali secondo
la nuova classificazione delle attività economiche, Istat, 19 ottobre 2011. Restano
comunque ancora aperti alcuni punti interrogativi. Un primo riguarda il periodo di revi-
TEMA DI DISCUSSIONE
73
EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 74
innocenzo cipolletta e sergio de nardis
(settore esportatore netto) è stata alzata nello stesso arco di tempo dello
0,9% all’anno. Dato il peso dell’industria nell’attività economica e in
mancanza di significative correzioni negli altri settori, le ripercussioni
sul Pil sono risultate limitate (il tasso di crescita è aumentato dello 0,2%
all’anno).
Tuttavia, ciò che più conta è che le revisioni delle esportazioni nette
e del valore aggiunto dell’industria in volume vanno a impattare, a parità
di impiego degli input di produzione, sulle misure di produttività del
settore. La figura 4 mostra l’andamento della produttività totale dei
fattori (PTF) secondo le varie release annuali dell’Istat, a partire dal
2007. Questa statistica è stata già significativamente corretta al rialzo
man mano che nuove e più precise informazioni sulle imprese si sono
rese disponibili: lo stato della produttività manifatturiera descritta nella
release del 2010 è molto diverso da quello che si ricavava dalle informazioni del 2007. Ulteriori correzioni sono da attendersi con i nuovi conti
nazionali. L’Istat non ha ancora pubblicato la serie aggiornata della
produttività totale dei fattori, ma si può stimare che nelle nuove statistiche la dinamica di questo indicatore risulterà rivalutata rispetto alle
precedenti quantificazioni in proporzione simile a quanto avvenuto per
il valore aggiunto, vale a dire di circa l’1% all’anno nel periodo 2003-10
(riga più alta nella figura 4). Ciò implica che tra il 2003 e il 2007 (prima
della caduta recessiva) la PTF dovrebbe essere tornata sul sentiero di
crescita (+2% all’anno) che aveva contrassegnato il decennio novanta.
Lentamente e in ritardo sugli avvenimenti anche le statistiche “macro”
cominciano a fornire un quadro più preciso degli andamenti post-2002,
sione che parte dal 2002 perché solo da allora sono disponibili prezzi all’esportazione,
ma non è chiaro se gli andamenti precedenti possono considerarsi scevri da problemi di
misurazione. Un secondo punto concerne la disomogeneità che continua a contraddistinguere i deflatori delle esportazioni dei conti nazionali dei paesi europei e che condiziona i confronti sui volumi esportati: in Germania la relazione tra deflatore e prezzi
all’esportazione è negativa a partire dal 2002, in Italia dopo la revisione c’è un rapporto
di quasi perfetta proporzionalità tra i due indicatori; dinamiche eterogenee per le quali è
difficile trovare una motivazione economica.
74
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
Fig. 4 - Produttività totale dei fattori nell'industria in senso stretto (1991=1)
Fonte elaborazioni su dati Istat
ovvero del periodo in cui si raccolgono i frutti dei cambiamenti “micro”
che hanno accompagnato la ristrutturazione silenziosa (e, per questo,
misconosciuta) dei primi anni duemila.
Le tendenze fin qui descritte riguardano il settore industriale che ha
“dovuto” andare incontro a un aggiustamento essendo pienamente
esposto alle pressioni della competizione internazionale. L’industria in
senso stretto rappresenta, però, solo una quota minoritaria (19%) del
valore aggiunto dell’intera economia. Cosa si può dire delle altre attività
produttive e, in particolare, dell’ampio e variegato settore dei servizi?
Qui l’azione della concorrenza estera è più debole, se non, in diversi
casi, del tutto assente. Incidono, invece, la capacità di recepire i risultati
dell’avanzamento tecnologico e, soprattutto, l’efficacia dei mutamenti
del quadro normativo/regolatorio miranti a ridurre le barriere all’entrata e ad ampliare l’area della concorrenza. Si tratta anche di attività in
cui i problemi di misurazione del mix qualitativo dei prodotti sono
analoghi a quelli che hanno afflitto le statistiche del settore manifattutema di discussione
75
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
Tab. 6 - Italia: valore aggiunto per impresa nei servizi, dinamiche in rapporto a Germania
e Francia nel periodo 2000-2008
Dinamica
Dinamica
Distanza
Distanza
rispetto
rispetto
dell’Italia
dell’Italia
a Germania
a Francia dalla Germania della Francia
2000-08
2000-08
nel 2008
nel 2008
(Germania=1) (Francia=1)
Commercio all’ingrosso,
1,077
1,119
0,193
0,381
riparazione motoveicoli,
beni per famiglia
Commercio al dettaglio
1,207
1,213
0,215
0,386
Alberghi e ristoranti
Trasporti, magazzinaggio
e comunicazioni
0,951
0,936
0,615
0655
1,138
1,069
0,367
0,459
—- Trasporti terrestri e via pipeline 1,187
1,018
0,375
0,416
Poste e telecomunicazioni
Attività di servizi alle imprese,
affitto e vendita di case
1,312
1,091
1,206
0,995
1,464
1,118
0,258
0,336
—- Affitto e vendita di case
1,418
1,748
0,242
0,398
Computer e attività correlate
1,601
1,052
0,267
0,361
Ricerca e sviluppo
0,629
1,056
0,076
0,182
Altri servizi alle imprese
1,529
0,957
0,267
0,308
Fonte elaborazioni su dati Eurostat
riero. Misurare l’output (e la produttività) di alcuni servizi, in presenza
di modifiche di composizione da segmenti di minore qualità a quelli di
più elevato valore unitario, può essere molto arduo in mancanza di indicatori adeguati.
Pur con questi caveat, sono comunque riscontrabili anche nei servizi
dinamiche di cambiamento nel corso del decennio duemila. Nella
tabella 6 si considera il valore aggiunto per impresa (a prezzi correnti)
come indicatore sintetico di mutamento. Gli indici misurano la dinamica delle imprese italiane nei vari comparti tra il 2000 e il 2008 in
rapporto agli andamenti tedeschi e francesi. Come si vede, salvo alcune
eccezioni (per esempio, alberghi e ristoranti), le imprese italiane di
servizi hanno sperimentato in generale evoluzioni del valore aggiunto
76
economia italiana 1•2012
EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 77
L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
unitario superiori rispetto agli altri due paesi. Tuttavia, dato il punto di
partenza molto distante dalle economie prese in considerazione, tali
andamenti sono stati insufficienti a consentire un apprezzabile processo
di convergenza; le due ultime colonne della tavola segnalano l’ampio
gap che ancora caratterizza in media le nostre imprese di servizi rispetto
a quelle dei due partner europei.
Il confronto con i due maggiori paesi dell’area euro porta, nel paragrafo successivo, a estendere la discussione alla questione più generale
della collocazione del nostro paese nell’economia europea.
3. L’Italia nel confronto con i partner europei
In questo paragrafo procediamo ad alcuni confronti con i paesi euro nel
corso dell’ultimo decennio, periodo coincidente con i primi dieci anni
della moneta unica. Partiamo dall’industria per verificare se i cambiamenti strutturali sopra evidenziati hanno influito sulla performance
della nostra economia in rapporto ai principali paesi partner.
Se si osserva l’intero decennio, la valutazione non può che essere
negativa. Il valore aggiunto dell’industria è diminuito in Italia contro
una crescita, seppure limitata, nell’area euro (tabella 7, prima sezione).
Questa divaricazione si è, però, formata soprattutto all’inizio del
decennio, quando gli andamenti italiani avevano un segno opposto a
quelli del resto dell’Europa. Successivamente il distacco ha teso a
ridursi. In particolare, dal 2003 e prima della recessione la manifattura
italiana è tornata a crescere più di quella francese. In questo stesso
periodo si è verificato, tuttavia, anche il forte decollo dell’industria
tedesca che ha beneficiato, da un lato, dei miglioramenti di produttività consentiti dalle riforme avviate nei primi anni del decennio e,
dall’altro, dei guadagni di competitività (“deprezzamento” reale sia
all’interno dell’area che nei confronti dei paesi terzi) consentiti dalla
partecipazione alla moneta unica. L’impatto della recessione, attraverso il canale estero, è risultato più intenso per le industrie italiana e
tedesca. La ripresa del 2010 sembra riproporre la gerarchia delle dinatema di discussione
77
EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 78
innocenzo cipolletta e sergio de nardis
miche industriali che era andata emergendo negli anni precedenti la
recessione.
Una caratteristica che spicca negli andamenti del decennio duemila è
il più elevato contenuto di occupazione della crescita italiana, sia nel
confronto con l’esperienza storica del paese (qui non considerata), sia
rispetto a quanto sperimentato nello stesso periodo dai partner europei
(tabella 7, seconda sezione). A fronte di una dinamica del valore
aggiunto industriale nel decennio peggiore delle altre economie dell’area
euro, la performance dell’occupazione nell’industria italiana è stata sensibilmente migliore, scendendo meno di quanto verificatosi negli altri
paesi della moneta unica. Questo fenomeno è particolarmente evidente
nei primi tre anni del periodo considerato, quando la contrazione dell’attività produttiva (-1,2% all’anno) non ha dato luogo, contrariamente alle
precedenti esperienze di recessione industriale, a riorganizzazioni di tipo
labour shedding, ma si è anzi accompagnata ad aumento dei posti di
lavoro (+0,4% all’anno). Una crescita italiana a più elevata intensità di
lavoro si conferma anche nel successivo periodo (2003-07), quando il
rafforzamento produttivo, comune ai vari paesi, si associa a cali dell’occupazione nell’area euro e a un’evoluzione ancora positiva in Italia.
Lo specchio di questi andamenti è costituito dal valore aggiunto per
addetto (o produttività apparente del lavoro) rimasto fermo, in media nel
decennio, contro variazioni positive nelle altre economie (tabella 7, terza
sezione). Il risultato dell’Italia risente in notevole misura della netta flessione del triennio 2000-03 quando si verifica l’anomala combinazione,
sopra ricordata, di un’attività produttiva in calo con una occupazione in
crescita. Dal 2003 e fino alla crisi il valore aggiunto per occupato nella
manifattura italiana torna su un sentiero positivo, riducendo il divario di
crescita rispetto ai paesi dell’area euro, ma non con l’economia tedesca
che accelera sensibilmente in tale periodo. Gli anni della recessione e la
successiva ripresa del 2010 risentono dell’intenso ricorso, soprattutto in
Germania e Italia, agli schemi di riduzione d’orario che hanno inciso
sull’effettivo utilizzo dell’input di lavoro da parte delle imprese (salva78
economia italiana 1•2012
EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 79
L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
Tab. 7 - Industria in senso stretto: valore aggiunto, occupazione, valore aggiunto per occupato
(var. % medie annue)
Valore aggiunto ai prezzi base, in volume
2000-2010
2000-2003
2003-2007
2007-2009
2010
Italia
-0,7
-1,2
2,3
-9,2
7,0
Germania
0,5
0,1
4,5
-10,3
9,8
Francia
0,0
1,1
1,6
-6,5
3,9
Altri euro
1,1
1,9
3,0
-5,5
5,2
Occupazione (persone)
2000-2010
2000-2003
2003-2007
2007-2009
2010
Italia
-0,7
0,4
0,1
-2,6
-3,3
Germania
-1,0
-1,6
-0,7
-0,6
-1,7
Francia
-1,9
-1,1
-1,8
-2,5
-3,4
Altri euro
-1,8
-1,0
-0,7
-4,1
-4,3
Valore aggiunto per persona occupata (P) e per ora lavorata (H)
2000-2010
2000-2003
2003-2007
2007-2009
P
H
P
P
H
P
Italia
0,0
0,8
-1,6 -0,8
2,2
2,1
-6,8 -3,4
10,6
9,0
Germania
1,6
1,9
1,7
2,3
5,2
5,1
-9,8 -6,7
11,7
6,3
Francia
2,0
2,4
2,2
3,5
3,6
3,3
-4,0 -3,4
7,5
7,7
Altri euro
3,1
3,2
2,9
3,2
3,7
4,0
-1,5 -0,5
9,9
7,8
H
H
2010
P
H
Fonte elaborazioni su dati Eurostat
guardando i livelli occupazionali nella fase di caduta e rallentandone il
recupero nella ripresa). Non sorprende quindi che gli indicatori di valore
aggiunto per input di lavoro diano luogo dopo il 2007 – in particolare, in
Italia e Germania – a dinamiche alquanto diverse a seconda che si considerino per persona occupata o per ora lavorata. Guardando al valore
aggiunto per ora lavorata, l’andamento dell’industria italiana appare
nell’ultimo ciclo relativamente migliore di quello tedesco e francese, scendendo meno nel biennio recessivo e recuperando di più nel 2010.
Gli indicatori di valore aggiunto per addetto (o per ora lavorata)
forniscono una misura di quella che è stata definita produttività appatema di discussione
79
EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 80
innocenzo cipolletta e sergio de nardis
Tab. 8 - Produttività Totale dei Fattori nell’industria (var. % medie annue)
1991-2000
2000-2007
2000-2003
2003-2007
1
1,8
0,5
-1,4
2,0
Germania2
1,6
2,4
0,5
3,9
Francia2
2,9
1,3
1,5
1,3
Italia
Altri euro2
1,5
1,1
-0,1
2,0
1 Industria in senso stretto, fonte Istat e dal 2002 nostre stime basate su dati Istat corretti con la CN di
marzo 2012.
2 Manifattura, fonte elaborazioni su dati Euklems database November 2009, negli Altri euro sono compresi
Austria, Belgio, Finlandia, Olanda, Spagna.
Fonte elaborazioni su dati Istat ed Euklems
rente del lavoro. Questa statistica costituisce, come noto, una stima
imprecisa della produttività. Essa non tiene conto dell’intensità dell’impiego degli altri fattori produttivi che incidono sui risultati complessivi
di produzione e che vengono attribuiti per intero al lavoro. Una misura
più accurata dell’efficienza con cui tutti gli input di produzione si
trasformano in output è fornita dalla produttività totale dei fattori.
Purtroppo non sono disponibili confronti internazionali omogenei e
attendibili per la PTF manifatturiera. La banca dati Euklems della
Commissione europea (versione novembre 2009) appare poco affidabile proprio per gli indicatori relativi all’industria italiana, non includendo le più recenti revisioni di Contabilità Nazionale (CN) che, come
visto nel precedente paragrafo, hanno avuto un impatto significativo su
questa statistica. In assenza di dati omogenei e aggiornati e con lo scopo
di ricavare indicazioni su un fenomeno rilevante per la valutazione
dell’efficienza, nella tabella 8 si mette a confronto la nostra stima della
PTF dell’industria in senso stretto per l’Italia (dati Istat di agosto 2010,
corretti con la nuova CN di marzo 2012, già riportati in figura 4) con
quelle di fonte Euklems sulle manifatture dei principali paesi della zona
euro (stime ferme al 2007). Si è consapevoli della disomogeneità degli
indicatori e per questo li utilizziamo unicamente per il segnale qualitativo che possono fornire. Queste tendenze indicano che il ritorno della
PTF dell’industria italiana su un sentiero positivo a partire dal 2003
80
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
Tab. 9 - Intera economia: valore aggiunto, occupazione, valore aggiunto per occupato
(var. % medie annue)
Valore aggiunto ai prezzi base, in volume
2000-2010
2000-2003
2003-2007
2007-2009
2010
Italia
0,4
0,7
1,7
-3,4
2,1
Germania
1,1
0,6
2,5
-2,3
4,1
Francia
1,2
1,1
2,3
-1,2
1,3
Altri euro
1,8
2,2
3,4
-1,3
0,8
Occupazione (persone)
2000-2010
2000-2003
2003-2007
2007-2009
2010
Italia
0,7
1,7
1,1
-0,7
-0,7
Germania
0,3
-0,4
0,6
0,6
0,5
Francia
0,5
0,7
0,8
-0,3
0,2
Altri euro
0,9
1,5
2,2
-1,3
-1,4
Valore aggiunto per persona occupata
2000-2010
2000-2003
2003-2007
2007-2009
2010
Italia
-0,3
-1,0
0,7
-2,7
2,8
Germania
0,8
1,0
1,9
-2,9
3,6
Francia
0,7
0,4
1,5
-0,8
1,2
Altri euro
0,9
0,7
1,2
0,0
2,3
Fonte elaborazioni su dati Eurostat
non sarebbe stato sufficiente a recuperare il gap sulla Germania che dal
2003 ha, a sua volta, incrementato il ritmo di crescita; il rafforzamento
dell’Italia avrebbe, invece, permesso di coprire i ritardi sulle altre industrie europee, con un rafforzamento rispetto a quella francese e ad altri
paesi dell’area euro (come la Spagna e altre economie “periferiche”).
Il miglioramento dell’industria ha avuto limitati riflessi sull’intera
economia. Nella media del decennio l’Italia è cresciuta meno della zona
euro (tabella 9). La ripresa manifatturiera dopo il 2003 si è accompagnata a un’accelerazione del tasso di crescita (1,7% all’anno) che però
non ha tenuto il passo di Germania e Francia (circa 2,5%). La recessione
del 2008-2009 è risultata più marcata in Italia, anche rispetto alla
Germania nonostante un caduta del settore industriale di proporzioni
tema di discussione
81
EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 82
innocenzo cipolletta e sergio de nardis
inferiori. Il rimbalzo del 2010, trainato sostanzialmente dalla manifattura, non ha consentito comunque di tornare sui livelli pre-crisi.
Come osservato nel caso del settore industriale, anche per l’economia
nel suo complesso si rileva un più elevato contenuto di lavoro del valore
aggiunto tanto rispetto agli andamenti storici, quanto nel confronto con
gli altri paesi europei. L’occupazione è aumentata, in media, più che in
Germania e Francia nonostante il tasso di sviluppo sostanzialmente più
basso; anche il raffronto con gli altri paesi euro conferma una crescita
a più alta intensità di lavoro nel nostro paese. Ne è conseguita, nella
media del decennio, una dinamica del valore aggiunto per addetto negativa a fronte di rialzi pur moderati delle altre economie.
In definitiva le evidenze statistiche indicano che il miglioramento
manifatturiero italiano è stato apprezzabile (anche in termini di produttività multifattoriale), ma non sufficientemente robusto da tenere il
passo con l’industria tedesca e da trainare la performance complessiva
dell’economia. Poiché la capacità di attivazione della manifattura sul
resto del sistema produttivo è molto simile nei due paesi10, l’elemento
di debolezza italiana sembrerebbe derivare da una dinamica ancora
inadeguata dell’industria. Ma una manifattura diversa (con mix settoriale “migliore” e produttività più dinamica) costituirebbe effettivamente la condizione per una maggiore crescita di tutta l’economia? Per
rispondere a questa domanda ricorriamo a un semplice esercizio contabile che ipotizza una “assimilazione” dell’economia italiana a quella
tedesca. Lo scopo è illustrativo e mira a identificare i canali che porterebbero a una maggiore convergenza del nostro paese nei confronti
dell’economia tedesca.
La tabella 10 mostra la dinamica del valore aggiunto per addetto dei
due paesi nel periodo 2000-09, quale essa è effettivamente stata e in
ipotesi “fittizie” riguardo all’Italia. In questo arco di tempo il valore
aggiunto per occupato è aumentato del 4,9% in Germania ed è sceso
10 Un euro speso per acquistare output manifatturiero attiva quasi due euro di attività
economica tanto in Italia che in Germania.
82
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
Tab. 10 - Valore aggiunto per addetto in Italia e Germania nel 2009, numeri indice 2000=1
Germania
1,049
Italia
Italia, se avesse la composizione settoriale
della manifattura tedesca (19 branche)
Italia, se avesse la composizione settoriale
dell’economia tedesca (64 branche)
Italia, se avesse la dinamica della produttività
dei settori manifatturieri tedeschi (19 branche)
Italia, se avesse la dinamica della produttività
di tutti i settori dell’economia tedesca (64 branche)
0,945
0,942
0,947
0,975
1,061
Fonte elaborazioni su dati Eurostat
del 5,5% in Italia. Tali evoluzioni hanno riflesso andamenti tedeschi
migliori tanto nella manifattura che nei servizi, anche se la dinamica
industriale è risultata più debole di quella dei servizi in entrambe le
economie per gli effetti della recessione del 2008-09. L’esercizio mostra,
in primo luogo, che il problema di bassa crescita dell’Italia non sembra
dipendere da un mix settoriale “cattivo”. Il valore aggiunto per addetto
non avrebbe, infatti, sostanziali vantaggi se il nostro paese si caratterizzasse per una composizione di settori, della manifattura o di tutta l’economia, uguale a quella tedesca11. Ciò che invece inciderebbe veramente,
a parità di struttura settoriale, è l’assunzione da parte dell’Italia della
dinamica della produttività tedesca. Ma non tanto di quella dell’industria manifatturiera. Se l’assimilazione dell’Italia alla Germania si limitasse al conseguimento dei più elevati tassi di sviluppo del prodotto per
occupato dell’industria tedesca, gli effetti per l’economia sarebbero
quasi impercettibili. Il motivo è che la manifattura pesa poco nel sistema
produttivo: la dinamica della produttività industriale può anche
raddoppiare, ma l’effetto sulla produttività dell’economia si riduce a
qualche decimo di punto se null’altro si muove. L’impatto per l’Italia
sarebbe apprezzabile solo se l’assunzione dei ritmi del prodotto per
11 Sulla scarsa incidenza della composizione settoriale, contrapposta a quella dimensionale, nel condizionare la performance italiana si veda, con riferimento all’attività di
esportazione, Barba Navaretti et al. (2010).
tema di discussione
83
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
occupato tedeschi si estendesse al resto dell’economia, vale a dire a
quell’80% di attività produttive che non coinvolgono trasformazioni
industriali: un motore ben più grosso di quello manifatturiero si deve
attivare per tornare ad avere maggiore crescita economica.
4. Tendenze di specializzazione dell’economia italiana
Nel corso del primo decennio di questo secolo, le imprese italiane
hanno dunque reagito agli eventi macroeconomici mettendo in
evidenza una discreta capacità di adattamento. Le analisi dei paragrafi
precedenti hanno evidenziato lo spostamento delle imprese italiane, in
particolare di quelle industriali, verso produzioni a valore medio più
elevato. Esse hanno anche mostrato come la crescita quasi nulla
dell’economia italiana durante questi anni nascondesse in realtà forti
modifiche interne. Molte sono state le produzioni nuove che sono
cresciute, così come molte sono state quelle che sono scomparse, a testimonianza di un marcato processo di mutazione avvenuto all’interno
delle imprese stesse.
Ma, quali sono stati i fattori che hanno spinto a questa trasformazione
e quali sono le tendenze di nuova specializzazione dell’economia
italiana? In questo paragrafo si cercherà di dare una risposta a queste
domande, mentre resterà aperta la domanda di sapere se queste
tendenze siano tutte positive e se, soprattutto, siano sufficienti a consentire al nostro paese di crescere e competere nell’economia mondiale. A
queste ultime domande si cercherà di dare elementi di risposta nell’ultimo paragrafo.
Nel corso degli ultimi quindici-venti anni l’Italia, come molti altri
paesi europei, non ha avuto alcuna politica industriale, ma ha inseguito,
a volte in modo affannoso, obiettivi macroeconomici di riequilibrio e
di risanamento finanziario. Ricordiamo, per memoria: le manovre di
finanza pubblica del 1992 e l’avvio delle privatizzazioni per contrastare
l’attacco alla lira; l’abolizione della scala mobile e il patto sociale del
1993 che modificarono il sistema delle relazioni industriali; la sofferta
84
economia italiana 1•2012
EI_01012_Cipolletta_pp.63-98 01/06/12 19.28 Pagina 85
L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
prima riforma delle pensioni del 1995; la complessa manovra di finanza
pubblica del 1996 per consentire all’Italia l’ingresso nell’euro; le modifiche del mercato del lavoro con il cosiddetto pacchetto Treu del 1997
e con la legge Biagi del 2003 per introdurre qualche flessibilità nell’ingresso al lavoro. Dopo di allora, i governi italiani hanno cercato di contenere il disavanzo pubblico con alterni successi (scarso successo e scarsa
volontà nel periodo 2001-2006 e migliori risultati negli anni successivi).
Bisognerà attendere il Governo Monti nel novembre 2011 per riprendere la strada delle riforme, anch’esse prevalentemente di stampo
macroeconomico e volte al riequilibrio del paese.
Di fatto, le imprese italiane, nel corso di questo periodo, hanno visto
aumentare il loro peso fiscale (per il riaggiustamento finanziario),
hanno conosciuto una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro,
hanno fronteggiato un progressivo contenimento della domanda
interna per consumi (compressi anche dagli aggiustamenti di finanza
pubblica e dagli adeguamenti delle tariffe dei servizi pubblici) e hanno
assistito a un processo di dismissione di attività pubbliche che ha allargato il mercato interno.
Contemporaneamente, sul fronte esterno, le aziende del nostro paese
hanno dovuto subire una duplice forte pressione concorrenziale. La
prima, a causa della stabilità del cambio rispetto agli altri paesi europei,
in seguito alla sostituzione della lira con l’euro, che ha eliminato la possibilità di aggiustamento graduale della competitività italiana attraverso
la svalutazione del cambio della moneta. Per altro, l’euro si è complessivamente rafforzato sul mercato dei cambi, determinando una
complessiva riduzione di competitività dell’Europa, anche se non tutti
i paesi europei l’hanno subita allo stesso modo, posto che alcuni, come
la Germania, si sono avvantaggiati, specie nei confronti degli altri paesi
del vecchio continente. Il secondo fattore di pressione concorrenziale
è derivato dal fenomeno della globalizzazione dei mercati che ha fatto
emergere nuovi paesi esportatori, come la Cina, l’India, il Vietnam, il
Brasile e tanti altri che nel corso degli ultimi venti anni sono diventati
tema di discussione
85
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
forti esportatori internazionali in particolare, ma non solo, nelle produzioni tradizionali nelle quali è specializzato il nostro paese.
In assenza di politiche industriali o di interventi volti a indirizzare
processi di riconversione, le nostre imprese hanno reagito a queste pressioni esterne attraverso processi di ristrutturazione e di riconversione
spontanei, cercando di adattarsi alle nuove condizioni dei mercati. Si
possono così evidenziare tre linee di tendenza che hanno caratterizzato
il tessuto produttivo italiano nel corso degli ultimi venti anni, almeno
fino a quando la crisi globale del 2008 è venuta a interferire con alcune
di queste tendenze.
4.1 L’industria su misura: upgrading e personalizzazione delle produzioni
La prima tendenza, che emerge chiaramente dalle analisi dei paragrafi
precedenti, è quella di un marcato upgrading delle produzioni: le
imprese italiane si sono spostate da beni di massa a basso valore medio
verso beni di valore medio maggiore, salendo nella gamma delle produzioni. È un generale miglioramento qualitativo che è avvenuto in
maniera spontanea e spesso non programmata.
In altre parole, la forte competizione dei paesi di nuova industrializzazione ha scalzato dai mercati le produzioni italiane di basso valore,
quelle che competono essenzialmente sul prezzo e sui costi di produzione. Sono scomparse imprese che producevano questi prodotti,
mentre sono cresciute quelle che avevano produzioni a più elevato
valore, dove il fattore competitivo era la qualità più del prezzo. Spesso
questo fenomeno è avvenuto all’interno delle stesse imprese che hanno
progressivamente abbandonato produzioni a basso valore per dedicarsi
a produzioni di maggior valore.
Questo fenomeno può essere ascritto ai processi di specializzazione
che avvengono quando si aprono i mercati alla concorrenza. Occorre
sottolineare come il nostro paese abbia subito contemporaneamente
due possenti fenomeni di apertura dei mercati. Il primo è quello
europeo attraverso la costruzione del mercato interno e l’adozione
86
economia italiana 1•2012
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
dell’euro. Queste decisioni degli anni novanta hanno comportato un’accresciuta competizione all’interno dell’Europa con processi di specializzazione che ancora non sono terminati. Basti pensare alle trasformazioni che stanno riguardando molti settori, come quello della finanza,
dove si sono manifestate forti ristrutturazioni nel settore bancario,
quello dei trasporti con la nascita di nuove aggregazioni e, in generale,
quello delle public utilities, dove si stanno formando nuovi competitori
attraverso la disgregazione dei vecchi produttori nazionali. Il fenomeno
della specializzazione settoriale ha riguardato anche il comparto industriale tradizionale, attraverso processi di acquisizioni e di fusioni che
stanno ridisegnando la geografia economica del vecchio continente.
Il secondo fenomeno è quello che va sotto il nome di globalizzazione
e che ha significato l’ingresso nel mercato mondiale di nuovi produttori
a basso costo e con un’enorme capacità d’offerta. Ci si riferisce a paesi
come la Cina, l’India, il Brasile, la Turchia, il Vietnam e altri che hanno
radicalmente cambiato l’offerta di prodotti manufatti, specie nei settori
dove l’Italia ha punti di forza. L’insieme di questi due fenomeni ha costituito una possente apertura dei mercati e ha spinto i paesi industriali
verso nuove specializzazioni produttive.
Da questi processi sta emergendo una caratteristica precipua dell’industria italiana. Abbandonando le produzioni di massa e specializzandosi nelle produzioni di più elevato valore, essa ha accentuato la sua
caratteristica di industria custom-made, ossia di industria che fa prodotti
quasi su ordinazione, prodotti su misura per le richieste degli acquirenti.
In questa tendenza, essa sfrutta le sue forti competenze di natura artigianale, da dove è spesso nata.
Il fenomeno di personalizzazione delle produzioni ha caratterizzato
soprattutto l’industria meccanica e quella strumentale, che sono tra le
principali industrie esportatrici del nostro paese. La costruzione di
macchine utensili si è spostata sempre più verso macchine studiate
apposta per le esigenze dei clienti. In ciò ha aiutato molto l’inserimento
dell’elettronica e dei microprocessori nelle macchine che ormai
tema di discussione
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
vengono studiate e elaborate per le funzioni specifiche del cliente. In
queste condizioni, l’industria delle macchine diviene industria densa
di servizi, fatti di studi, engineering, introduzione di innovazioni tecnologiche, ricerca di nuove soluzioni, messa in opera, assistenza e quant’altro possa servire all’impresa acquirente per far funzionare i macchinari. Basti pensare alle macchine per il packaging che non possono che
essere studiate per le singole esigenze dell’acquirente. Ma lo stesso vale
per le macchine per il taglio del legno e del marmo, dove l’Italia sta
abbandonando i macchinari standard e si sta specializzando nei sistemi
complessi, così come per le macchine per l’industria tessile, per la robotica, per le macchine da diagnosi, e per numerosi altri usi.
Il fenomeno della personalizzazione delle produzioni è poi insito
nella componentistica che rappresenta una quota significativa dell’industria italiana. Anche in questo comparto l’industria italiana sta abbandonando le produzioni standard in favore di prodotti studiati per le
imprese acquirenti, fino a costituire spesso parti integrate con altre
imprese: dalle valvole ai prodotti di fonderia, alle ruote dei treni, fino
ai freni delle auto. Spesso in queste nicchie di produzione, le imprese
italiane finiscono per avere un ruolo leader dominando di fatto il
mercato di riferimento ed imponendo così i prezzi, ciò che consente
loro un vantaggio competitivo e gli extraprofitti necessari per migliorare
continuamente le produzioni e mantenere per tale via il vantaggio
acquisito.
Un fenomeno non dissimile sta riguardando anche l’industria tradizionale di consumo: dalla moda, all’arredo, fino all’alimentare. In questo
caso la personalizzazione delle produzioni s’identifica con la costruzione di un marchio (il brand) che rappresenta un valore distintivo per
il consumatore che acquista non solo il prodotto ma una visione del
modo di vita costruito apposta dal produttore. Tale valore è spesso
declinato attraverso la catena della distribuzione personalizzata del
marchio, che con i suoi negozi monomarca porta direttamente al consumatore le proprie produzioni. Attraverso questa strategia, l’impresa può
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
valorizzare meglio le sue produzioni, assorbendo un costo del lavoro
più elevato di quello dei concorrenti nei paesi emergenti.
Il fenomeno della personalizzazione delle produzioni qui rilevato
con riferimento all’industria, è ovviamente altrettanto presente nei
servizi che spesso sono, per loro natura, personali. Tuttavia nell’ambito
di questi ultimi si nota in Italia una maggiore resistenza all’introduzione
di nuove formule e molti dei brand noti sono spesso di importazione
straniera. Basti pensare agli studi di avvocati internazionali, alle banche
d’affari, alle catene di ristorazione, fino ai servizi di cura alla persona
che spesso hanno nomi e formule di altri paesi.
In definitiva, si può dire che cambio stabile e globalizzazione hanno
finito per favorire un approfondimento della specializzazione dell’economia italiana che ha riguardato in particolare l’industria. La nostra
economia ha visto crescere il peso e il ruolo dei settori tradizionali, dove
tuttavia si è realizzato un profondo mutamento del tipo di produzione,
che è salito verso l’alto della gamma. Questo giustifica il giudizio di cristallizzazione della nostra manifattura nei settori di forza tradizionali (meccanica di consumo, macchine utensili, componentistica, moda, arredo,
alimentare, ecc.), ma la competizione non avviene più solo sul prezzo,
bensì anche e soprattutto sulla qualità e sull’innovazione introdotta.
4.2 L’attrazione dei servizi pubblici
La seconda tendenza della nostra economia originata dai processi
macroeconomici prima descritti è stato lo spostamento di risorse investite dalle maggiori imprese italiane nel settore delle public utilities. La
privatizzazione delle molte imprese possedute dallo Stato, avviata dal
1992, ha indotto diversi imprenditori ha investire in queste imprese, a
volte anche dismettendo parte delle attività da loro possedute. L’apertura ai privati di monopoli pubblici è avvenuta nel nostro paese senza
un adeguato processo di liberalizzazione. Di fatto sono state immesse
nel mercato attività che godevano ancora dei vantaggi della protezione
monopolistica, spesso derivanti proprio dalle caratteristiche naturali
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del servizio stesso: basti pensare all’attività della produzione e distribuzione di energia, alle concessioni delle autostrade, alle televisioni.
In un momento caratterizzato da una forte pressione concorrenziale
che, come detto, proveniva dall’adesione all’euro e dalla globalizzazione,
molte imprese hanno guardato al mercato delle public utilities come a
un mercato protetto dalla concorrenza e capace di produrre profitti più
elevati e meno difficili rispetto alle tradizionali attività industriali. Il
fenomeno non è stato solo italiano, posto che in tutta l’Europa è avvenuto uno spostamento di risorse dagli investimenti nei settori aperti
alla concorrenza in favore dei settori protetti. Questo fenomeno
andrebbe corretto (o avrebbe dovuto essere corretto) attraverso una
maggiore dose di liberalizzazioni e di controlli da parte delle autorità
della concorrenza per frenare il vantaggio degli incumbent. Nel nostro
paese, come in altri dell’Europa continentale, questa azione di correzione non è stata sufficiente e ciò spiega la naturale corsa a accaparrarsi
le attività dei servizi pubblici.
È così che abbiamo visto la trasformazione della Olivetti in Omnitel
poi ceduta a Vodafone. La privatizzazione di Telecom Italia che ha
assorbito molte risorse private. L’investimento di Benetton nel settore
delle autostrade e negli aeroporti che ha assorbito i profitti derivanti
dal tessile e abbigliamento. Gli investimenti di Fiat in Edison, poi ceduta
a EDF. Gli investimenti nelle banche e nelle assicurazioni da parte di
imprenditori industriali (Del Vecchio, Della Valle, Maramotti, Caltagirone e altri).
A sua volta la privatizzazione di molte imprese di pubblici servizi ha
spesso implicato un innalzamento delle tariffe non più frenate dalle
autorità politiche. In molti casi si è trattato di recuperare livelli di prezzi
più corretti e tenuti bassi fino ad allora dalla politica e dalle resistenze
sindacali. Ma in altri casi e con il proseguire del tempo c’è stata anche
una tendenza ad approfittare della protezione dalla concorrenza per
molti settori dove le liberalizzazioni non avevano potuto scalfire il
potere delle imprese dominanti. Il fenomeno ha preso una dimensione
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
particolare specie nelle aziende che ancora hanno lo Stato come azionista di maggioranza relativa (ENEL e ENI in particolare) al quale, oltre
che agli azionisti privati ed al management, hanno potuto distribuire
dividendi rilevanti. I bisogni di entrate da parte dello Stato hanno così
finito per ridurre l’attenzione al controllo delle tariffe che, gestite in
regime di quasi-monopolio, hanno di fatto costituito una sorta di tassa
sui cittadini volta (anche) ad accrescere le entrate pubbliche.
È così che l’economia italiana ha visto spostarsi l’attenzione degli
operatori privati dai mercati aperti alla concorrenza a quelli protetti.
Questo fenomeno ha però comportato anche un forte indebitamento
delle imprese di public utilities, posta anche la pratica di scaricare
sull’azienda acquistata il debito contratto per l’acquisizione. Durante gli
anni di bassi tassi di interesse, proprio tale pratica ha consentito agli
acquirenti di recuperare le risorse investite e di realizzare guadagni
consistenti. Ma, alla fine, essa ha appesantito le aziende acquistate che
hanno cominciato a faticare nella loro crescita, come il caso di Telecom
che si trova alle prese con un debito suo e dei suoi azionisti che ha finito
per comprometterne la crescita. Quando poi, dopo la crisi del 2008, il
credito ha iniziato a scarseggiare e il ricorso al mercato del debito a farsi
più oneroso, le capacità di crescita di queste imprese si sono trovate
depotenziate, tanto da spingerle a processi di dismissioni per ridurre le
posizioni di debito.
4.3 Imprese a maggiore densità di occupazione
Infine, la terza tendenza dell’economia italiana è stata quella di riassorbire nei processi produttivi molto lavoro e molte attività un tempo
dismesse o gestite in mercati paralleli perché fino ad allora erano di fatto
vietate o fortemente scoraggiate. Questo fenomeno è stato a sua volta
accompagnato da un generale upgrading dell’occupazione verso professioni più qualificate, in sintonia con quanto verificato per le produzioni.
Le molle di questo fenomeno sono state l’introduzione di una
maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e l’immissione d’innovazioni
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tecnologiche. Con il patto sociale del 1993 sono state aperte le porte a
una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. I relativi provvedimenti
sono stati la legge Treu del 1997 poi modificata con la Legge Biagi del
2003. La legge Treu in particolare ha legittimato il lavoro a termine, sia
nella forma del lavoro interinale che attraverso le Collaborazioni Continuative Coordinate prima e a Progetto poi (rispettivamente Co.Co.Co
e Co.Co.Pro.).
Con questa legge sono stati di fatto legalizzati i contratti a termine,
ciò che ha consentito alle imprese sia di assumere in prova i giovani
lavoratori prima di confermarli (una gran parte delle assunzioni a
termine nell’industria verrà poi trasformata in contratti a tempo indeterminato, mentre rimarranno a termine molti contratti nei servizi e
nella Pubblica Amministrazione), sia di ricomprendere nell’attività
aziendale funzioni dismesse perché temporanee o di basso valore.
Le motivazioni di questi provvedimenti erano proprio quelle di
aumentare il contenuto di lavoro nella produzione italiana. Si era constatato, dal 1970 in poi, una forte tendenza a risparmiare manodopera, sia
perché cara, sia perché rigida. Questo fenomeno si traduceva in un’elevata produttività relativa dell’economia italiana. Il prodotto per addetto
del nostro paese, se valutato in PPP (parità di potere d’acquisto, secondo
le analisi dell’Eurostat), era negli anni ’90 ben superiore a quello degli
altri paesi europei. La motivazione di questo eccesso di produttività era
spiegato proprio dalle rigidità del mercato del lavoro che avevano indotto
un’eccessiva sostituzione di lavoro con capitale (figura 5)
Con la fine degli anni ’90, dopo le misure sul mercato del lavoro,
l’Italia si è riavvicinata agli altri paesi europei, grazie a una minore
crescita del Pil per persona occupata, che ha significato una maggiore
densità di occupazione per unità di crescita: ossia proprio quello che si
cercava di ottenere con la riduzione delle rigidità nel mercato del lavoro.
La minore crescita della produttività, che tanto ha preoccupato e
preoccupa molti economisti italiani, trova una sua spiegazione proprio
nelle politiche degli anni ’90 e rappresenta, da questa prospettiva, un
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
Fig. 5 - Pil in volume in PPP (Real expenditure in PPPs_EU-15) per persona occupata intera economia, livelli
Fonte elaborazioni su dati Eurostat
successo più che un problema. Se poi si tiene conto che negli ultimi
venti anni l’Italia si è trovata a fronteggiare un’offerta di lavoro crescente
da parte di lavoratori immigrati, spesso con basse qualifiche, si capisce
come la riduzione nella crescita del valore aggiunto per persona occupata rappresenti la risultante di più spinte che hanno agito contemporaneamente.
Tuttavia, appare necessario specificare che questa minore crescita
della produttività non significa che l’Italia sia meno efficiente di altri
paesi europei. Al contrario, se si guarda al rapporto relativo nel grafico
sopracitato, si nota che, malgrado il rallentamento della crescita della
produttività in Italia, essa risulti nel 2010 pari o superiore a quella di
molti paesi europei, compresa la Germania.
Con questo non si vuole certamente dire che l’Italia sia più efficiente
della Germania, posto che le valutazioni in PPP tendono a eguagliare
situazioni che sono strutturalmente differenti. Espresso in euro correnti,
il rapporto del Pil per occupato in Italia non supera quello della
Germania, ma nei confronti internazionali si ricorre alle valutazioni in
PPP proprio per rendere comparabili situazioni diverse. Questi calcoli
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Fig. 6 - Cambiamento dell'occupazione per ventile della distribuzione delle qualifiche tra le professioni italiane,
1993-2009 (var. quota ore lavorate)
Fonte, Olivieri (2012)
testimoniano di un processo di avvicinamento dell’Italia alle condizioni
degli altri paesi europei, più che una perdita di efficienza relativa. D’altra
parte la minore crescita della produttività del nostro paese non si è
tradotta in un impoverimento delle qualifiche del lavoro. Al contrario
l’Italia, come gli altri paesi europei, ha conosciuto nel corso degli ultimi
due decenni una crescita relativa delle professioni a maggiore qualificazione sia rispetto alle qualifiche intermedie che rispetto alle basse
qualifiche.
Uno studio della Banca d’Italia (Olivieri 2012, dal quale è estratta la
figura 6) dimostra come in Italia sia cresciuta nell’ultimo quindicennio
la quota di lavoro per le alte qualifiche, mentre sono scese sia le medie
che le basse qualifiche. Il fenomeno appare legato sia alle variazioni
dell’offerta di lavoro che a quelle della domanda. In particolare sulla
domanda di lavoro avrebbe influito il progresso tecnologico con l’introduzione di sistemi di automazione che hanno spiazzato le attività di
media qualificazione. Un effetto analogo potrebbe essere anche attribuito ai processi di delocalizzazione che hanno teso a spostare in paesi
a costi più bassi le attività a forte contenuto di lavoro. Un fenomeno di
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
polarizzazione, con crescita contemporanea sia di occupazioni di alta
qualificazione che di bassa qualificazione a detrimento della classe
media, è invece emerso tra il 2000 e il 2009 per effetto soprattutto delle
regolarizzazioni degli immigrati verificatesi in tale periodo.
5. Considerazioni conclusive
Le analisi fin qui svolte stanno a testimoniare di una capacità di reazione
delle imprese italiane a fronte di eventi macroeconomici, come la stabilità del cambio, la globalizzazione, le privatizzazioni e le modifiche del
mercato del lavoro.
La reazione è stata quella di una ricerca di maggiore efficienza a
livello microeconomico, che ha portato a cambiare molte delle produzioni senza modificare sostanzialmente la specializzazione settoriale e
dimensionale della nostra economia e questo grazie anche allo sfruttamento del progresso tecnologico e ad una applicazione sapiente delle
innovazioni che ne derivano sia in termini produttivi che organizzativi12. Inoltre si è manifestato uno spostamento degli investimenti privati
dai settori esposti alla concorrenza ai settori protetti. Questi ultimi
hanno mostrato maggiore resistenza ai cambiamenti.
Il fatto positivo che queste analisi mettono in evidenza è proprio la
capacità di reazione delle imprese. Il fatto negativo che emerge è che
questa reazione non ha avuto un indirizzo di politica industriale e
quindi si è realizzata essenzialmente sulla base di convenienze microeconomiche da parte delle imprese.
Resta dunque aperta la questione se le tendenze alla specializzazione
emerse negli ultimi venti anni avrebbero potuto conseguire anche
un’efficienza macroeconomica attraverso politiche industriali o politiche macroeconomiche volte a conseguire specifici obiettivi. Un
esempio di queste politiche sembra essere stata la Germania che nel
12 Nonostante tale aspetto, resta tuttavia confermato un marcato ritardo della nostra
economia nei confronti della ricerca e del progresso tecnologico: le imprese italiane sono
forti utilizzatrici di innovazioni che sanno adattare ai loro bisogni, ma restano povere in
termini di capacità di creare innovazioni da immettere nel mercato.
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innocenzo cipolletta e sergio de nardis
corso dello stesso periodo ha avviato modifiche nel mercato del lavoro
e delle imprese volte a realizzare una maggiore competitività delle
imprese stesse.
Riteniamo che politiche di questo tipo possono essere condotte anche
in Italia, per volgere la ricerca di efficienza microeconomica anche verso
indirizzi macroeconomici. Conforta in questo senso la reazione delle
imprese italiane alle modifiche del mercato del lavoro degli anni ’90, che
attraverso l’introduzione di flessibilità nell’accesso al lavoro, hanno
consentito di conseguire un maggior tasso di occupazione.
Oggi l’obiettivo macroeconomico principale è quello della crescita.
Tale obiettivo può essere perseguito attraverso la riforma dei mercati,
la delegificazione e la semplificazione del contesto normativo e il
sostegno alla ricerca e alla produzione di innovazione (e non solo al suo
utilizzo) e accorte politiche di rilancio della domanda interna. Tra i
mercati da riformare vi sono sia il mercato delle imprese, attraverso liberalizzazioni e sostegni alla concorrenza (soprattutto per quanto riguarda
i servizi), sia quello del lavoro, dove la riduzione del dualismo tra lavoratori precari e lavoratori a tempo indeterminato non deve avvenire a
scapito della flessibilità in entrata nel mondo del lavoro13.
Ma da sole, le riforme del mercato delle imprese non possono bastare
a riprendere un sentiero di crescita. L’Italia, come altri paesi europei, è
coinvolta in un processo recessivo favorito dalle politiche di risanamento finanziario. In queste condizioni, una crescita è possibile solo se
si riesce ad agire anche sulla domanda interna. A questo fine sono
necessarie politiche di redistribuzione del reddito, che favoriscano le
classi di reddito con più elevata propensione al consumo, e politiche
normative volte a creare nuova domanda per obiettivi collettivi, come
il risparmio energetico, la tutela ambientale, l’assetto del territorio, la
manutenzione degli immobili e altre. Politiche che impongano speci13 In particolare, mentre appare corretto penalizzare forme di lavoro a tempo determinato quando esse siano reiterate successivamente, appare necessario allargare il periodo
di prova per i lavoratori a tempo indeterminato e rendere progressivamente crescente
con l’anzianità il costo del licenziamento.
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L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione
fiche soluzioni, senza implicare necessariamente risorse pubbliche, per
non vanificare lo sforzo di risanamento finanziario del paese.
Queste e altre misure di politica economica potrebbero non solo sostenere e favorire le imprese nella loro risposta al mutamento del contesto
nel quale operano, ma anche estendere tale processo a settori finora poco
reattivi o protetti, soprattutto per quanto riguarda i servizi, ponendo le
basi per un periodo di crescita economica rilevante e duraturo frutto di
una modernizzazione dell’apparato produttivo del nostro paese.
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economia italiana 1•2012
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Mercato del lavoro e diseguaglianze:
i vincoli a una crescita equa in Italia1
Alessandro Goglio
OCSE
Stefano Scarpetta
OCSE
La disuguaglianza dei redditi tra le persone in età lavorativa è aumentata drasticamente in Italia nei primi anni Novanta. Da allora è rimasta superiore alla media
OCSE. La prima parte dell’articolo esplora le possibili determinanti dell’evoluzione
della disuguaglianza in Italia, in una prospettiva internazionale e soffermandosi in
particolare sulle dinamiche del mercato del lavoro dove ad un aumento dei tassi di
occupazione ha fatto seguito anche un aumento del dualismo retributivo e delle tipologie contrattuali. La seconda parte discute i principali orientamenti di politica economica per affrontare la disuguaglianza retributiva e nelle prospettive occupazionali.
Promuovere l’occupazione tra i gruppi sotto rappresentati – giovani, donne e persone
con basse qualifiche – è essenziale. Ma la vera sfida per creare nuove opportunità, riducendo i rischi di povertà, è conciliare la necessaria flessibilità sul mercato del lavoro
con incentivi alla creazione di posti di lavoro produttivi e con un sostegno adeguato ai
lavoratori in mobilità.
1. Introduzione
In Italia, così come in molti altri paesi OCSE, si sono registrati nell’ultimo quarto di secolo profondi mutamenti economici e sociali che
hanno portato a un aumento delle diseguaglianze nel mercato del lavoro
e nella distribuzione dei redditi delle famiglie. In Italia, in particolare,
la diseguaglianza dei redditi tra le persone in età lavorativa è aumentata
1 Il lavoro ha beneficiato di una ricca occasione di dibattito durante il workshop per
Economia Italiana, “Il sentiero di aggiustamento a medio termine dell’economia italiana:
crescita, rigore, equità”, Roma, UniCredit, 20 marzo, 2012. Si ringraziano Paolo Guerrieri,
Direttore Scientifico di Economia Italiana, Fabio Bacchini, Innocenzo Cipolletta, Lorenzo
Codogno, Marcello De Cecco, Antonio Pedone, Giuseppe Pisauro, Giorgio Basevi,
Margherita Scarlato, Alessandro Spaventa, Marco Valli e tutti i partecipanti al workshop
per le stimolanti discussioni e gli utili commenti. Le opinioni contenute in queste note
sono tuttavia imputabili ai soli autori e sebbene basate su analisi condotte presso l’OCSE,
esse non rappresentano necessariamente la posizione dell’istituzione di appartenenza.
tEMA DI DISCUSSIOnE
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
drasticamente nei primi anni ’90 e da allora è rimasta a un livello elevato
e superiore alla media dei paesi OCSE. Nel 2008, il reddito medio del
10% più ricco degli italiani era dieci volte quello del 10% più povero.
Queste dinamiche non hanno nulla a che vedere con la crisi economica
globale del 2008-2009. Sono state innescate ben prima, per poi intensificarsi durante la recente crisi economica.
Le interazioni tra attività economica e crescita della diseguaglianza
discusse in questo articolo traggono le loro origini da una serie
complessa di fattori: la forte integrazione sui mercati internazionali,
con le conseguenti maggiori potenzialità di accesso al mercato globale,
ma anche maggiori pressioni competitive; il progresso tecnico che
tende a premiare i lavoratori con competenze più elevate; un mercato
del lavoro che ha visto aumentare la sua segmentazione anche a causa
di un processo di riforma incompiuto. La prima parte dell’articolo
analizza i legami tra diseguaglianze dei redditi delle famiglie e dinamiche nel mercato del lavoro mettendo a confronto l’Italia con gli altri
paesi OCSE. In particolare, l’articolo sottolinea come a un aumento
dei tassi di occupazione tra i gruppi generalmente sotto rappresentati
– giovani e donne così come persone con basse qualifiche – che ha
indubbiamente contribuito a ridurre le diseguaglianze tra la popolazione in età lavorativa, si sia registrato al contempo un forte aumento
delle diseguaglianze nelle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e nei
redditi dei lavoratori autonomi. Una parte consistente della crescita
occupazionale si è concentrata, infatti, su contratti atipici molto spesso
a basso reddito e con scarse prospettive di carriera. Allo stesso tempo,
il numero annuale di ore di lavoro dei lavoratori dipendenti meno
pagati è diminuito in misura molto maggiore di quello dei lavoratori
con retribuzioni più elevate. Le riforme degli ultimi quindici anni, se
da un lato hanno favorito la crescita dell’occupazione, non sembrano
essere riuscite a mettere in moto un processo virtuoso di crescita e
occupazione produttiva.
Nella seconda parte, l’articolo si sofferma sui principali orientamenti
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ECOnOMIA ItALIAnA 1•2012
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
di politica economica per affrontare le diseguaglianze nel mercato del
lavoro e nei redditi delle famiglie. Non vi è dubbio che promuovere l’occupazione tra i gruppi sotto rappresentati sia il modo migliore di ridurre
le disparità nel mercato del lavoro, ma la sfida principale in Italia
consiste nel creare posti di lavoro qualitativamente e quantitativamente
migliori, che offrano buone prospettive di carriera e la possibilità
concreta di sfuggire alla povertà.
Una riforma complessiva del mercato del lavoro, che includa un
riesame delle tipologie contrattuali e degli incentivi alle imprese ad
assumere con contratti permanenti, ma che consideri anche ammortizzatori sociali universali e adeguati a offrire un sostegno di reddito
durante la fase di ricerca del nuovo posto di lavoro, è uno strumento
essenziale per affrontare in maniera duratura le diseguaglianze dei
redditi da lavoro. Le ragioni a favore di un approccio complessivo alla
riforma del mercato del lavoro appaiono ulteriormente rafforzate dai
recenti cambiamenti del regime previdenziale. In effetti, il rapido
passaggio al metodo contributivo per tutti accentua l’importanza della
realizzazione di percorsi di carriera il più possibile continui e di qualità,
onde facilitare l’accumulo di diritti pensionistici adeguati. A questa
riforma complessiva si deve affiancare una riforma delle politiche fiscali
e previdenziali per accrescere gli effetti redistributivi. Il sistema tributario e i trasferimenti alle famiglie hanno svolto un ruolo importante
nella redistribuzione del reddito in Italia, riducendo la diseguaglianza
di mercato di circa il 30%, ma nello stesso tempo la redistribuzione
attraverso i servizi pubblici – sanità, istruzione e servizi destinati alla
salute – si è ridotta nell’ultimo decennio. Se la lotta all’evasione fiscale
è uno strumento importante per affrontare le diseguaglianze, la quota
crescente di reddito della popolazione con le retribuzioni più elevate
suggerisce che la sua capacità contributiva è aumentata. In tale contesto,
sarebbe necessario un riesame del ruolo redistributivo della fiscalità
onde assicurare che i soggetti più abbienti contribuiscano in giusta
misura al pagamento degli oneri impositivi.
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
2. Le diseguaglianze di reddito in Italia e nei paesi OCSE
L’Italia si caratterizza per una diseguaglianza dei redditi elevata e una
povertà diffusa. Esistono diversi indicatori di diseguaglianza che colgono
gli aspetti di questo complesso fenomeno. In questo studio, ci concentriamo su due indicatori comunemente utilizzati in letteratura: il coefficiente di Gini (che, come noto, tiene conto di tutta la distribuzione dei
redditi e assume un valore compreso tra 0 e 1, tanto maggiore quanto
maggiore è la diseguaglianza) e il rapporto tra decili della distribuzione
dei redditi.2 In un confronto internazionale, usando il coefficiente di
Gini, la diseguaglianza dei redditi delle famiglie è superiore alla media
dei paesi OCSE (figura 1).3 In particolare, la diseguaglianza dei redditi
in Italia è più elevata rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Europa
continentale (Austria, Belgio, Francia, Germania, Olanda e Spagna, ad
esempio) e soprattutto dei paesi Scandinavi. Essa è tuttavia inferiore a
quanto registrato in Portogallo, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
La figura 1 mostra il rapporto tra il reddito per la fascia più ricca della
popolazione e quella più povera, in particolare tra il reddito medio percepito rispettivamente dal 10% più ricco e il 10% più povero. Nel 2008 il
reddito medio del 10% più ricco degli italiani era dieci volte superiore
al reddito medio del 10% più povero. Nella media dei paesi OCSE, il
rapporto è di circa 9:1. La media OCSE però nasconde profonde diffe2 La diseguaglianza può essere studiata sotto diversi punti di vista; il più approrpriato
per esprimersi sull’equità sociale è, probabilmente, quello legato al benessere o well-being
della popolazione. Come anche sottolineato dal recente rapporto della Commissione
internazionale sulla valutazione della performance economica e il progresso sociale
(Stiglitz, Sen e Fitoussi 2009) il reddito è solo uno dei mezzi che assicurano una vita
dignitosa. D’altro canto però, concetti più ampi del benessere sfuggono ancora a precise
definizioni e in particolare sono difficili da misurare accuratamente. tenendo a mente i
limiti legati all’utilizzo del reddito come indicatore, ai fini di questo studio ci concentriamo sulla diseguaglianza relativamente ai redditi familiari disponibili e, successivamente, anche rispetto ai redditi familiari di mercato e a quelli individuali da lavoro.
3 nel caso specifico, l’indicatore rileva i redditi netti per le persone in età lavorativa e
cioè la fascia di età compresa tra 15 e 64 anni d’età. L’anno di riferimento è il 2008, il
dato più aggiornato per un confronto internazionale.
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Fig. 1 - Confronto tra diseguaglianze nei paesi OCSE
Coefficiente di Gini, 2008
Nota il reddito si riferisce al reddito disponibile per famiglia, corretto per la dimensione della famiglia utilizzando come deflatore l’Indice dei Prezzi al
Consumo (IPC). Il primo anno considerato è il 1985 fatta eccezione per: Austria, Belgio e Svezia (1983); Francia, Italia, Messico e Stati Uniti (1984);
Finlandia, Lussemburgo e Norvegia (1986); Irlanda (1987); Grecia (1988); Portogallo (1990); Ungheria (1991); Repubblica Ceca (1992). L’ultimi anno considerato è il 2008, fatta eccezione per: Cile (2009); Danimarca, Ungheria, Turchia (2007); Giappone (2006). Da Ocse-20 sono esclusi quei paesi per i quali non
sono disponibili trend di lungo periodo.
* Informazioni sui dati per Israele: http://dx.doi.org/10.1787/888932315602.
Fonte OECD Database on Household Income Distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality)
renze tra paesi: negli Stati Uniti, ad esempio, il rapporto è di 14:1 e
diviene 27:1 in Messico e Cile. All’estremo opposto, il rapporto è di 6:1
nei paesi del Nord Europa, così come in Austria, Belgio e Svizzera. Il
livello elevato della diseguaglianza dei redditi persiste da circa 15 anni e
non tiene conto degli effetti della crisi in corso, che non è ancora possibile valutare. A determinarlo ha concorso un peggioramento forte e
repentino, concentrato tra il 1992 e il 1993, a cui ha fatto seguito un
periodo di stabilità, nonostante un leggero calo verso la fine del primo
decennio degli anni duemila (figura 2). Il rapporto tra il reddito medio
del 10% più ricco rispetto al reddito medio del 10% era di 8:1 alla metà
degli anni ’80, rispetto al 10:1 ricordato in precedenza riferito al 2010.
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
Fig. 2 - Evoluzione temporale della diseguaglianza
Coefficiente di Gini, 1975-2008
Nota Per Australia, Cile, Finlandia, Norvegia, Nuova Zelanda e Svezia sono state utilizzate fonti nazionali per completare i dati standardizzati Ocse. La
metodologia di tali fonti è la più simile possibile alle definizioni Ocse. Dati mancanti tra il 2000 e il 2004 per Austria, Belgio, Irlanda, Portogallo e Spagna.
Dato mancante nel 1997 per Israele.
* Informazioni sui dati per Israele: http://dx.doi.org/10.1787/888932315602.
Fonte OECD Database on Income distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality)
Si possono formulare diverse ipotesi circa le ragioni che spiegano il
cambiamento repentino nel trend della diseguaglianza in Italia nei primi
anni ’90. Queste comprendono i cambiamenti socio-demografici e
inerenti al mercato del lavoro. Si devono annoverare anche le drammatiche svolte storiche intervenute nella politica italiana di quegli anni. Un
ruolo scatenante potrebbe essere stato svolto, ad esempio, dagli effetti
della potente manovra di risanamento fiscale attuata dal primo governo
Amato, in carica tra il giugno del 1992 e l’aprile dell’anno successivo
(Franzini e Raitano 2009a). Se l’impatto dei fattori storici è invero molto
difficile da valutare, la figura 3 permette di farsi un’dea più precisa con
riguardo al ruolo delle altre due spiegazioni. Ciò avviene grazie alla
scomposizione del coefficiente di Gini tra effetti socio-demografici
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Fig. 3 - Scomposizione percentuale delle variazioni nell’indice di diseguaglianza di Gini,
confronto tra media OCSE e Italia1
Note
1. I campioni sono limitati agli individui per la popolazione in età da lavoro (25-64 anni) che vivono in un nucleo familiare con un capofamiglia in età da
lavoro. I guadagni equivalenti della famiglia sono calcolati come la somma dei guadagni di tutti i membri della famiglia, corretta per le differenze nella
dimensione della famiglia usando una scala di equivalenza (radice quadrata della dimensione della famiglia).
2. La scelta non casuale del/la compagno/a perché possiede una o più caratteristiche simili. Tali scelte possono accentuare le dinamiche economico-sociali
di persistenza. È il caso, ad esempio, del matrimonio assortativo tra individui con grado di istruzione simile: le nuove generazioni provenienti dai nuclei
familiari meno istruiti tendono a restare tali, al contrario di quelle provenienti dai nuclei familiari meglio istruiti.
* Informazioni sui dati per Israele: http://dx.doi.org/10.1787/888932315602.
Fonte OECD Database on Household Income Distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality)
(come i cambiamenti nelle strutture dei nuclei familiari e nell’occupazione femminile, ad esempio) e quelli che risentono più direttamente
delle caratteristiche del mercato del lavoro (il contributo alla diseguaglianza dei cambiamenti nei differenziali retributivi degli addetti di sesso
maschile). La figura mostra che, in generale, nella media dei paesi OCSE
le tendenze del mercato del lavoro sono più importanti dei cambiamenti
socio-demografici nello spiegare la maggiore diseguaglianza dei redditi
delle famiglie. Infatti, l’incidenza sulla diseguaglianza dei cambiamenti
nella distribuzione dei redditi da lavoro supera, di molto, l’incidenza
degli altri fattori. Il comportamento dell’Italia è in linea con la media dei
paesi OCSE. Quello che sembra essere accaduto in Italia, però, è che il
ruolo giocato dal mercato del lavoro come determinante dei cambiamenti nella distribuzione dei redditi è stato molto più marcato.
TEMA DI DISCUSSIONE
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
Fig. 4 - Quote di reddito percepite dall’1% più ricco sul totale dei redditi lordi
1990-2007 o ultimo anno disponibile
Nota I dati 2007 si riferiscono al 2006 per Belgio, Francia e Svizzera; al 2005 per Giappone, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Portogallo, Spagna e Regno Unito; al
2004 per la Finlandia; al 2000 per Germania e Irlanda. I paesi sono ordinati in modo decrescente prendendo a riferimento i valori relativi all’ultimo anno.
Fonte OECD Database on Income distribution and poverty (www.oecd.org/els/social/inequality).
Indicazioni complementari in tal senso sono fornite dalla figura 4.
L’aumento della diseguaglianza di reddito è largamente imputabile alla
crescita sostenuta dei redditi più elevati a cui ha fatto riscontro una
crescita moderata se non stagnante dei redditi medio bassi. Come indicato nella figura, il percentile più ricco degli italiani ha visto la proporzione del proprio reddito aumentare dal 7% del reddito totale nel 1980
fino a quasi il 10% nel 2008. Sebbene si tratti di un aumento relativamente cospicuo nel confronto con le maggiori economie europee, esso
resta assai meno pronunciato di quanto osservato ad esempio negli Stati
Uniti, nel Regno Unito e in Canada. Allo stesso tempo, la proporzione
di reddito detenuta dallo 0,1% della popolazione italiana è aumentata
da poco meno il 2% a quasi il 3%.
Vi è un ulteriore aspetto importante della diseguaglianza italiana che
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
merita di essere richiamato. Si tratta della tendenza particolarmente
accentuata della diseguaglianza economica nel nostro paese a trasmettersi da una generazione alla successiva. Il fenomeno della trasmissione
di tipo intergenerazionale della diseguaglianza è stato al centro di alcune
indagini recenti che hanno posto a confronto l’Italia con le principali
economie europee (Piraino 2007; Mocetti 2007; Franzini e Raitano
2009b; Raitano 2009). Sebbene la trasmissione dai genitori ai figli della
diseguaglianza non sia una specificità italiana, le conclusioni di queste
analisi dipingono un quadro particolarmente preoccupante per il nostro
paese, dove non solo è riscontrabile una correlazione elevata tra titoli
di studio dei genitori e dei figli, ma anche come il reddito dei genitori
incida su quello dei figli a prescindere dal titolo di studio.
Occorre peraltro osservare che in Italia la persistenza intergenerazionale è ulteriormente rafforzata dal fatto che i nuovi nuclei familiari
tendono a essere creati tra individui che provengono dalla stessa sfera
economico-sociale. È quanto emerge di nuovo dalla figura 3, che illustra
come l’effetto sull’aumento della diseguaglianza dovuto alla propensione dei ricchi a formare nuclei familiari tra loro è decisamente più
elevato in Italia di quanto sia riscontrabile nella media dei paesi OCSE.
In Italia, dunque, la correlazione tra titoli di studio e tra livelli di reddito
da lavoro non è elevata solo tra generazioni, ma anche tra membri che
compongono il nucleo familiare.
Recenti analisi presso l’OCSE (D’Addio 2007 e 2012) consentono di
valutare queste considerazioni in prospettiva. La figura 5, riprodotta dallo
studio in questione, mostra che a livelli elevati dell’indice di diseguaglianza dei redditi di Gini fanno riscontro livelli elevati di persistenza della
diseguaglianza intergenerazionale, con Italia, Regno Unito e Stati Uniti
caratterizzati dai valori più elevati di entrambi gli indicatori. Pur ponendo
l’accento sul fatto che la verifica della robustezza statistica di queste correlazioni richiederebbe un’analisi più approfondita, l’apparente correlazione
tra diseguaglianza corrente e diseguaglianza intergenerazionale suggerisce
che laddove la politica economica riuscisse a ridurre le divergenze di
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
Fig. 5 - Correlazione tra diseguaglianza dei redditi ed elasticità intergenerazionale
Fonte D’Addio (2012) “Social Mobility in OECD countries: Evidence and Policy Implications” (in corso di pubblicazione); e OECD (2008) Growing Unequal?,
www.oecd.org/els/social/inequality/GU
reddito correnti tra famiglie anche il fenomeno della permanenza della
diseguaglianza tra genitori e figli risulterebbe indebolito. Sostanzialmente,
i guadagni di una riduzione della diseguaglianza corrente non sono isolati
nel tempo, ma si distribuiscono in modo duraturo.
Lo scopo di questo articolo è fornire un’analisi aggregata della diseguaglianza di reddito in Italia e degli aspetti cruciali del nostro paese
nel confronto internazionale. Tuttavia, date le particolari circostanze
del nostro paese, non ci si può esimere dal ricordare anche solo brevemente che per l’Italia lo studio delle caratteristiche aggregate maschera
l’esistenza di importanti differenze tra aree geografiche. A questo proposito, l’analisi disaggregata per aree territoriali condotta da Franzini e
Raitano (2009a) conferma la posizione di svantaggio delle aree meridionali per tutte le componenti del reddito familiare disponibile prese
in esame (da lavoro dipendente, da attività autonoma e da trasferimenti). Gli autori pongono inoltre l’accento sul fatto che l’indice di Gini
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
varia tra due valori estremi, i massimi del Mezzogiorno (in particolare
in Sicilia) e i minimi nelle regioni del Centro (in particolare Toscana e
Umbria). La varianza nella distribuzione è maggiore nel caso dei redditi
da attività autonoma, rispetto a quelli da lavoro dipendente e da
pensione. La distribuzione dei redditi da lavoro autonomo è particolarmente diseguale nel Nord-Ovest e nelle Isole, mentre quella da
lavoro dipendente è più diseguale nelle Mezzogiorno.
3. Le determinanti dell’aumento della diseguaglianza nei redditi in Italia
3.1 Il contesto macroeconomico caratterizzato da bassa crescita economica
e aumento dell’occupazione
Per comprendere le dinamiche dell’occupazione e della distribuzione
dei redditi in Italia, occorre analizzare in dettaglio le dinamiche macroeconomiche e della produttività. Come è risaputo, l’Italia si è caratterizzata nel decennio precedente alla crisi globale del 2008-2009 per un
tasso di crescita del Pil estremamente modesto (figura 6). A ciò si è
accompagnato un aumento relativamente sostenuto dell’occupazione
con la contropartita che la crescita della produttività del lavoro è stata
minima se non negativa in alcuni anni. Queste dinamiche hanno determinato retribuzioni orarie stagnanti, ma un forte aumento del costo
unitario del lavoro con la conseguente perdita di competitività e il rischio
di avvitamento in un circolo vizioso di bassa crescita, produttività in
declino, salari stagnanti e ulteriore perdita di competitività. In questo
contesto, malgrado il significativo aumento dell’occupazione la diseguaglianza è rimasta costante perché all’assottigliarsi del numero dei disoccupati (prima della crisi globale del 2008-09), di per sé favorevole alla
riduzione delle diseguaglianze, si è contrapposto un aumento della
dispersione dei redditi da lavoro in grado di neutralizzare tale effetto. In
altre parole, la maggiore occupazione e l’emersione del sommerso ha
riguardato posti di lavoro a bassa produttività e a basso reddito.
In un confronto internazionale l’Italia lamentava anche prima della
crisi economica globale del 2008-2009 un divario rilevante del Pil pro
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Fig. 6 - Prodotto interno lordo, occupazione e costi unitari del lavoro in Italia
Indici in base 1992, primo trimestre=100
Fonte OECD Main Economic Indicators Database
capite rispetto agli altri paesi maggiormente sviluppati dell’OCSE –
attorno al 35% rispetto agli Stati Uniti (figura 7). Nel decennio precedente la crisi, il tasso medio di crescita economica ampiamente inferiore
a quello registrato nella maggior parte dei paesi OCSE ha contribuito
ad aumentare ulteriormente il divario nel reddito pro capite.
Come illustrato nella figura 8, il fattore principale per spiegare l’elevato differenziale nel livello del Pil pro capite italiano rispetto a quello
degli Stati Uniti e degli altri paesi più sviluppati dell’OCSE è legato
all’importante divario nel livello medio della produttività del lavoro.
Questo divario è aumentato invece di contrarsi nel decennio precedente
la crisi quando, come ricordato, l’aumento dei tassi di occupazione in
concomitanza con una crescita economica modesta ha generato perdite
sul fronte della produttività. La figura 6 indica infatti come, al contrario
della maggior parte dei paesi OCSE, il tasso di crescita medio della
produttività è stato molto limitato in Italia.
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Fig. 7 - Differenze tra paesi in termini di Pil pro capite, Pil e livelli di produttività
In US$ PPP, 2007 divari percentuali rispetto agli USA
Divario Pil pro capite =
Divario Pil per ora lavorata
+
Divario nell’utilizzo del lavoro
Note
1. Basato sulle parità del potere di acquisto 2007. Nel caso del Lussemburgo, la popolazione include i lavoratori transfrontalieri così da tener conto del loro
contributo al PIL.
2. L’utilizzo del fattore lavoro è misurata con il numero totale di ore lavorate pro capite.
3. La produttività del lavoro è misurata come PIL per ora lavorata.
4. UE 19 è un aggregato che comprende i paesi che sono membri sia dell’Unione Europea che dell’OCSE. Si tratta dei paesi UE15 più la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Slovacca.
Fonte OECD, National Accounts Database; OECD, Economic Outlook 84 Database and OECD (2008), Employment Outlook
I tre temi che sono stati scelti a fulcro di questo numero di Economia
Italiana ci ricordano che le cause sottostanti la bassa crescita italiana
sono molteplici e fortemente interconnesse, anche se tutte di natura
strutturale. In un paese avanzato, l’eliminazione dei vincoli alle esportazioni, alla competitività del sistema produttivo, come anche alla stessa
evoluzione della domanda interna, non dipende, nel lungo termine, dai
soli costi del lavoro, ma dall’efficienza produttiva, dalla capacità di favorire l’accumulazione di capitale umano e fisico, dalla qualità degli sforzi
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Fig. 8 - Cosa determina le differenze tra paesi in termini di tasso di crescita del Pil pro capite?
Economia, tasso di crescita annuale medio, 1997-2007
Crescita Pil pro capite =
Crescita Pil per ora lavorata
+
Crescita utilizzo del lavoro
Fonte Elaborazioni OCSE
all’innovazione e dal dinamismo della rete intera delle imprese. Essa
dipende inoltre dalla prudenza con cui è gestita la politica di bilancio
nel breve e nel medio periodo, anche a fronte dei profondi cambiamenti
nella società italiana con l’invecchiamento della sua popolazione. Questi
fattori concorrono tutti alla crescita economica e alla distribuzione del
reddito tra lavoro e capitale e tra i lavoratori stessi e sono tutti profondamente influenzabili da misure di politica economica.
Riportare l’Italia su un sentiero di crescita sostenuta e durevole richiede
quindi un’azione di riforma coordinata su più fronti. In questo quadro,
un’attenzione particolare deve essere rivolta all’affrontare i profondi squilibri sul mercato del lavoro che da un dualismo occupati-disoccupati è
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
passato ad un dualismo caratterizzato anche da forti divergenze tra lavoratori precari a basso salario e lavoratori con contratti più stabili, con
migliori retribuzioni e prospettive di carriera. Se la crescita economica è
condizione necessaria per affrontare le difficoltà del mercato del lavoro
italiano, riforme strutturali sono necessarie per affrontare i profondi
dualismi del mercato del lavoro italiano. Anche se il quadro in cui si declinano gli effetti redistributivi dei cambiamenti nelle politiche sociali e del
lavoro non è il breve periodo, gli effetti sulle attese delle famiglie e degli
operatori possono manifestarsi in tempi rapidi, elevando la propensione
a consumare e a investire e dunque sostenendo la riduzione del premio
di rischio sugli interessi del debito pubblico.
3.2 Diseguaglianze di reddito e mercato del lavoro: quali interazioni?
Nella maggior parte dei paesi OCSE, il mercato del lavoro è il motore
principale delle diseguaglianze di reddito delle famiglie. L’accesso al
lavoro per i membri adulti del nucleo familiare è un fattore essenziale
così come la distribuzione dei redditi da lavoro. In media tra i paesi
OCSE, il 70% del reddito delle famiglie è reddito da lavoro, anche se i
redditi da capitale sono aumentati e la loro distribuzione ha contribuito
all’aumento delle diseguaglianze.
Se le dinamiche sul mercato del lavoro sono essenziali per comprendere le diseguaglianze dei redditi in generale, esse rivestono un ruolo
ancora più importante in Italia. Come ricordato, il mercato del lavoro
italiano è caratterizzato da profondi dualismi. Nel confronto internazionale ciò si manifesta nella varietà relativamente ampia delle tipologie
contrattuali (una quarantina circa) e nel vasto numero di occupati italiani
che si trovano in condizioni precarie o atipiche. Da ciò è dipesa essenzialmente la forte crescita dell’incidenza percentuale sull’occupazione
totale degli occupati con contratti a termine nell’ultimo decennio (figura
9). Questa dinamica ha interessato particolarmente i giovani, ma anche
le donne e i lavoratori meno qualificati, molti dei quali immigrati.
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
Fig. 9 - Evoluzione dalla quota percentuale degli occupati con contratti a termine sul totale degli occupati, 1990-2010
Percentuale di ciascun gruppo rispetto al totale dell’occupazione dipendente
Nota I paesi sono in ordine crescente per incidenza del numero di occupati con contratti a termine sul totale degli occupati nel 2010.
Fonte OECD Labour Force Statistics Database
La figura 9 indica l’insieme dei lavoratori e dei giovani con contratti
a durata definita. Occorre però sottolineare che esistono profonde differenze tra le varie tipologie di contratto a temine all’interno di ciascun
paese e tra paesi. Se per alcuni i contratti a termine sono parte di un
processo formativo – si pensi alla formazione in alternanza del modello
tedesco, austriaco – o comunque dei trampolini verso posizioni più
stabili e con migliori prospettive di carriera, per altri essi rappresentano
il canale verso situazioni di precariato che difficilmente trovano sbocco
in posizioni più stabili.
Per cogliere le profonde differenze nelle tipologie dei contratti a
termine, la figura 10 illustra la parte dell’occupazione giovanile con
contratti a termine che dichiara di essere in questa situazione per l’assenza di opportunità di lavoro più stabili (lavoratori con contratti a
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Fig. 10 - L’aumento dei giovani che dichiarano di accettare un posto
a termine a causa dell’indisponibilità di posti più stabili
Quota percentuale sul totale dei giovani occupati con contratto a termine
Nota I dati si riferiscono alla quota di giovani che hanno dichiarato di avere impieghi a termine perché non sono riusciti a trovare impieghi a tempo indeterminato.
Fonte Eurostat
termine involontari). Se da un lato è interessante notare il dato tedesco,
dove a fronte di una forte incidenza dei contratti a termine tra i giovani
si riscontra una bassissima percentuale tra loro che dichiara di essere
occupata con contratti a termine per l’assenza di un contratto permanente, dall’altro si trova l’Italia in cui oltre il 40% dell’occupazione giovanile con contratti temporanei è in questa situazione per l’assenza di posti
di lavoro più stabili. Inoltre, la figura sottolinea la forte crescita nel
numero dei giovani italiani che dichiarano di occupare un posto a
termine involontariamente, a causa della crisi che rende ancora più
scarsa la disponibilità di posti più stabili.
L’ulteriore evoluzione del lavoro temporaneo involontario è uno
degli elementi che hanno caratterizzato la crisi recente. In Italia, così
come nella maggior parte dei paesi OCSE, i giovani hanno subito in
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maniera particolarmente pesante le perdite occupazionali nella fase
recessiva e le scarse opportunità di lavoro anche nella fase di flebile
ripresa economica. Il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato di
circa il 50% durante la crisi, fino a superare il 30% verso la fine del 2011
(il quarto tasso più elevato nell’area OCSE dopo la Spagna, la Grecia e
la Repubblica Slovacca). I giovani hanno subito particolarmente il calo
di posti di lavoro perché queste ultimo si è concentrato soprattutto nei
contratti atipici in cui, come abbiamo ricordato, è concentrata l’occupazione giovanile.
3.3 Le ricadute delle riforme istituzionali sulla diseguaglianza dei redditi
Quali sono i fattori che hanno contribuito a questi cambiamenti sul
mercato del lavoro italiano? Non c’è dubbio che le importanti riforme
regolamentari introdotte dall’Italia durante gli ultimi due decenni
abbiano avuto conseguenze di vastissima portata sui modi di produzione e l’ambiente operativo delle imprese e a cascata sulla domanda di
lavoro. L’evidenza empirica disponibile concorda sul fatto che la rimozione di una serie di vincoli e restrizioni alla concorrenza e all’attività
economica ha contribuito ad accrescere l’occupazione, grazie al miglior
funzionamento dei meccanismi di riallocazione delle risorse (Fiori,
Nicoletti, Scarpetta e Schiantarelli 2012; Nicoletti e Scarpetta 2006;
Blanchard e Giavazzi 2003; Bassanini e Duval 2006). Tuttavia, il
progresso tecnologico e l’espansione del settore dei servizi scaturiti da
queste iniziative hanno anche accentuato l’eterogeneità delle figure
professionali, dando luogo a un ampliamento della gamma retributiva
(Baldini e Toso 2005).
Allo stesso tempo, un importante stimolo complementare alla
tendenza verso la maggiore dispersione nelle retribuzioni da lavoro è
stato esercitato dalle caratteristiche impresse ai mutamenti della struttura istituzionale del mercato del lavoro dalla metà degli anni ’90 (Franzini e Raitano 2009a). Infatti, le riforme che si sono succedute a partire
da quel momento sono state spesso perseguite all’insegna di un allen116
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
tamento della legislazione in materia di protezione del lavoro (job
protection legislation) e in primo luogo della liberalizzazione dei contratti
a termine. Se questo ha permesso l’emersione del sommerso e quindi
una crescita dell’occupazione dichiarata, è anche vero che ciò ha contributivo alla crescita, accanto a tipologie occupazionali più standardizzate
e meglio protette, di una moltitudine di tipologie contrattuali atipiche
(dipendenti a termine, parasubordinati, lavoratori con contratto parttime e così via).
Questi cambiamenti hanno sensibilmente facilitato la capacità delle
imprese di adattarsi alle fluttuazioni cicliche della domanda e ai cambiamenti di mercato e a quelli indotti dal progresso tecnologico. In questo
senso hanno offerto un supporto all’espansione dell’occupazione.
Tuttavia, trattandosi di interventi che hanno inciso prevalentemente
sulla rimozione di una serie di vincoli al “margine”, e cioè più precisamente sui limiti all’ingresso al mercato del lavoro, essi hanno comportato anche alcune controindicazioni (OCSE 2010b). Se molti lavoratori, generalmente più qualificati, hanno potuto usufruire di nuove
mansioni e migliori opportunità professionali, altri sono stati penalizzati
dall’aggiustamento al ribasso dei trattamenti salari, dalle minori ore
lavorate e dalle peggiori condizioni lavorative.
Le conseguenze redistributive di tale dualismo sono illustrate dalla
figura 11, che riporta l’effetto dell’aggiunta dei lavoratori a tempo
parziale e dei lavoratori autonomi alla distribuzione dei redditi netti
calcolata per i soli lavoratori a tempo pieno. Per la media dei paesi
OCSE, l’aggiunta dei lavoratori a tempo parziale aumenta l’indice di
eterogeneità di Gini di quattro punti percentuali. Sebbene l’indice
aumenti di altri quattro punti quando si prendano in considerazione
anche i lavoratori autonomi, nel caso dell’Italia l’effetto di questa
aggiunta è molto più marcato.
Al di là da quanto emerge dall’osservazione della diseguaglianza salariale, la condizione di forte svantaggio per i lavoratori atipici si rileva
anche in altre dimensioni, talune a forte connotazione sociale, piuttosto
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Fig. 11 - Disuguaglianza salariale fra lavoratori a tempo pieno, a tempo parziale e autonomi
Media OCSE e Italia alla metà degli anni 2000
Coefficiente di Gini di diseguaglianza nei guadagni
Nota Il campione è limitato alla popolazione civile in età da lavoro (25-64 anni).
Fonte Elaborazioni del Segretariato OCSE sulla base di dati del Luxembourg Income Study (LIS)
che riflettere in modo diretto le contingenze del posto di lavoro. Tra
queste è stato rilevato, in particolare, l’elevato rischio d’interruzione lavorativa per i dipendenti a tempo determinato (Lucidi e Raitano, 2009).
Una conferma dell’importanza di un tale rischio è offerta dalla figura
12, che illustra come la forte crescita dell’occupazione con contratti
atipici sia stata associata ad un forte aumento del differenziale tra le ore
annualmente lavorate, rispettivamente dai lavoratori meglio e peggio
retribuiti. Si tratta invero di una tendenza assai diffusa nella media dei
paesi OCSE e non solo nostrana. Tuttavia, l’Italia spicca nel quadro
internazionale perché la riduzione delle ore lavorate è stata molto più
accentuata, in particolare tra i lavoratori meno retribuiti. Il numero
annuale delle ore lavorate è diminuito rispetto alla media OCSE anche
nel caso dei lavoratori a redditi più elevati, ma in misura molto minore
che per i lavoratori a basso reddito.
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Fig. 12 - Tendenze di lungo periodo nelle ore lavorate annualmente per classi di reddito
Da metà degli anni ’80 a metà degli anni 2000
Nota Lavoratori retribuiti in età da lavoro.
Fonte OECD Database on Household Income Distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality)
Un contesto di forte precarietà con alti rischi di interruzione della
carriera si traduce anche in minori opportunità di accesso a programmi
di formazione professionale sul posto di lavoro per i lavoratori con
contratti atipici, a causa dei minori incentivi per le imprese ad investire
nel loro capitale umano. Agendo da fattore deterrente delle possibilità
del lavoratore di transitare tra le diverse forme contrattuali, la preclusione all’accesso ai canali formativi non fa altro che prolungare la dipendenza dalla precarietà. Da ultimo, le conseguenze del dualismo del
mercato del lavoro sulla diseguaglianza sono state aggravate dal
mancato adeguamento degli ammortizzatori e dalla conseguente differenziazione delle tutele in caso di perdita del posto di lavoro.
4. L’impatto distributivo della crisi economica del 2008-09
Sebbene gli effetti distributivi della recente crisi economica globale
siano difficili da valutare, perché le informazioni disponibili sono
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ancora limitate, interessanti e accurate indicazioni in tal senso sono ricavabili da uno studio recente a cura di Jenkins, Brandolini, Micklewright
e Nolan (2011). Per i ventuno paesi avanzati passati in rassegna, l’impatto di breve periodo della recente crisi sulla diseguaglianza della
distribuzione dei redditi familiari medi è stato diverso, ma complessivamente contenuto, tenuto conto dell’importanza della contrazione del
Pil. Rispetto alla “grande depressione” degli anni ’30, ciò riflette da un
lato una contrazione meno marcata del Pil, ma soprattutto i mutamenti
da allora intervenuti nel funzionamento dei mercati, nella gestione della
politica economica e nello sviluppo della rete di protezione sociale. Se
rispetto alla drammatica esperienza degli anni ’30, però, i paesi dimostrano di aver imparato come affrontare le conseguenze sociali di una
grave contrazione economica, permangono le incertezze riguardo alla
prospettiva di medio-lungo periodo. Gli autori pongono l’accento sul
fatto che tutto dipende da quando le economie avanzate torneranno su
un sentiero di crescita stabile, dal modo in cui saranno superati i difficili
problemi di finanza pubblica lasciati in eredità dalla crisi, dalle scelte di
politica economica e di riforma dello stato sociale che i governi prenderanno negli anni a venire.
L’evidenza presentata in un capitolo speciale dedicato all’Italia,
conferma che anche nel nostro paese l’effetto della crisi economica sulla
diseguaglianza è stato contenuto, almeno nella prima fase della crisi
analizzata dagli autori. Tuttavia, se si confrontano i nuclei familiari per
fasce d’età, è riscontrabile che, contrariamente a quanto osservato per
quelli con capofamiglia di 65 e più anni, i nuclei familiari più giovani
(inclusi quelli nei quali il capofamiglia ha meno di 40 anni) hanno
subito cali di reddito più evidenti. I redditi dei pensionati e quelli dei
lavoratori dipendenti hanno continuato lungo i rispettivi trend pre-crisi,
positivo per i primi, negativo per i secondi. Allo stesso tempo, i redditi
dei lavoratori autonomi hanno subito una brusca caduta. In particolare,
la condizione di diseguaglianza economica sembrerebbe essersi aggravata tra le famiglie relativamente più giovani, soprattutto con figli. I
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
trasferimenti sociali non sarebbero dunque riusciti a compensare gli
effetti distributivi della recessione, anche se l’effetto dello shock
macroeconomico avrebbe potuto essere maggiore senza l’effetto
compensativo esercitato dal supporto economico alle famiglie.
Le rilevazioni più recenti sui redditi e la ricchezza delle famiglie
operate dalle indagini della Banca d’Italia confermano l’acuto stato di
disagio sociale dei giovani e il crescente ruolo di ammortizzatore sociale
esercitato dai loro nuclei familiari. La crisi ha ampliato il divario tra la
condizione economica e finanziaria dei giovani e quella del resto della
popolazione. Tra il 2008 e il 2010 la quota di famiglie povere in base al
reddito e alla ricchezza è cresciuta di circa un punto percentuale per il
campione nel suo complesso e di circa cinque punti per le famiglie dei
giovani (Tarantola 2012).
5. Implicazioni di politica economica in materia di mercato del lavoro
Dalla nostra breve disamina emerge con chiarezza come le riforme
intraprese in Italia per rendere il mercato del lavoro più flessibile non
sono riuscite a coniugare tra loro equità ed efficienza produttiva. L’analisi sin qui svolta suggerisce che ancora molto può e deve essere fatto al
fine di accentuare la capacità del mercato del lavoro di incidere sul dinamismo del sistema economico italiano nel suo complesso, ma anche di
offrire una rete di protezione adeguata ai lavoratori e prospettive di
carriera ai giovani. Con riferimento alle variabili in gioco, la delicata
miscela tra dimensione lavorativa e sociale che esse presentano rivela
che la chiave di volta sta nel superamento della situazione di dualismo
interno al mercato del lavoro.
La scommessa per la politica economica, non solo per l’Italia ma
anche per molti altri paesi europei, è quella di favorire non solo la crescita
occupazionale ma anche e soprattutto di favorire la creazione di posti di
lavoro produttivi e con prospettive di carriera, così da poter sfruttare al
meglio le potenzialità spesso inespresse dei giovani che entrano nel
mercato del lavoro. Il raggiungimento di un tale fine non può essere il
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
risultato di iniziative in “ordine sparso”. Esso richiede una strategia di
indirizzo che affronti il problema della diseguaglianza nel mercato del
lavoro in modo complessivo. I principali elementi di una tale strategia
sono passati in rassegna nella restante parte di questo paper.
5.1 Come si caratterizza l’Italia nel confronto internazionale?
Nel confronto internazionale l’Italia si caratterizza tuttora per un quadro
regolamentare del mercato del lavoro eccessivamente rigido e soprattutto
caratterizzato da un alto grado di incertezza per quanto riguarda il rispetto
della normativa vigente e i tempi della giustizia civile. L’OCSE ha da
tempo elaborato un indicatore del grado di rigidità della normativa sui
contratti con riferimento ai contratti a tempo indeterminato, ai contratti
a tempo determinato e alle normative che regolano i licenziamenti collettivi. Occorre sottolineare che questi indicatori fanno esclusivo riferimento
alla normativa e non tengono conto del suo grado di applicazione in
pratica o dei tempi legati alla risoluzione in tribunale delle dispute.
La figura 13 presenta questi indicatori sintetici con riferimento al
2008 e suggerisce che, complessivamente, il quadro regolamentare che
governa i licenziamenti individuali non è più vincolante rispetto alla
media dei paesi OCSE, principalmente a motivo dell’estensione relativamente moderata dei requisiti di preavviso e della generosità contenuta dell’indennizzo nel caso di licenziamento ingiustificato.
Permangono tuttavia elementi specifici della normativa vigente in
cui l’esistenza di regole mediamente più restrittive rafforza il ricorso alle
forme contrattuali atipiche. Informazioni interessanti per definire
concrete linee di riforme del mercato del lavoro italiano sono ricavabili
dal vaglio di queste aree. Ciò risulta dalla figura 14 che, a partire dalla
scomposizione dell’indicatore OCSE nelle sue diverse componenti,
permette di identificare tre aree fondamentali, in merito rispettivamente al periodo di prova, al reintegro nel caso di licenziamento individuale ingiustificato o discriminatorio e, infine, alla normativa sui
licenziamenti collettivi.
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Fig. 13 - Indicatore OCSE di protezione del mercato del lavoro
Fonte OECD Indicators on Employment Protection
Il periodo di prova antecedente la conferma dei contratti a tempo indeterminato. Un primo spunto di riflessione offerto dalla figura 14
concerne il periodo di prova da applicare ai contratti di lavoro a tempo
indeterminato, che è particolarmente breve in Italia. Fissato entro un
termine di una/due settimane per gli operai, per raggiungere tre/otto
settimane nel caso degli impiegati, esso si confronta con una media
OCSE di circa quattro mesi. Un’estensione considerevole del periodo
di prova per il contratto a tempo indeterminato contribuirebbe a superare i dilemmi che frenano le imprese dal farne un uso maggiore.
È chiaro, innanzitutto, che in una prospettiva di allungamento significativo del periodo di prova il tema dell’indennizzo diventa molto
importante da affrontare. Il rischio è che il datore di lavoro si senta sistematicamente incoraggiato a sostituire quei lavoratori che si stiano avvicinando alla fine del periodo di prova con nuovi lavoratori reclutati
sempre in prova. Queste considerazioni sono ancora più dense di signitEMA DI DISCUSSIOnE
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ficato alla luce del fatto che il disegno di legge al vaglio del parlamento
prevede di migliorare il regime dell’apprendistato che potrebbe essere
prolungato fino a tre anni, a partire da un minimo di sei mesi. In casi
come questo, la raccomandazione dell’OCSE ai paesi è di preferire l’istituzione di un regime compensativo che avvantaggi livelli contenuti
degli indennizzi per evitare il rischio di scoraggiare le nuove assunzioni.
Per offrire un elemento di valutazione si può considerare che il meccanismo in vigore nella media dei paesi OCSE comporta una progressione approssimativamente lineare, pari a circa una settimana di retribuzione per ogni sei mesi di anzianità d’impiego, con una diminuzione
del tasso di incremento dell’indennizzo a partire dal primo anno di
anzianità.
In materia di contratti, l’attenzione potrebbe contemplare l’ipotesi
del passaggio a un contratto unico per tutte le nuove assunzioni. L’esperienza dei paesi OCSE suggerisce che la proliferazione delle tipologie
contrattuali rappresenti un fattore d’incertezza e confusione, col rischio
di accrescere la segmentazione del mercato del lavoro. In una prospettiva di introduzione del contratto unico in Italia, l’esito ideale del lungo
periodo di prova previsto sarebbe quello della conversione in un
contratto più stabile. Tutti i lavoratori in periodo di prova avrebbero
accesso all’indennità di disoccupazione e chi dovesse essere licenziato
durante tale periodo avrebbe accesso a un risarcimento, commisurato
all’estensione del contratto, pur senza clausola di reintegro (sulla base
dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori). I contratti a termine non
verrebbero aboliti, ma resi più costosi al fine di incoraggiarne l’uso in
mansioni realmente motivate dal breve periodo.
Il reintegro nel caso del licenziamento individuale ingiustificato o discriminatorio. Il secondo spunto di riflessione segnalato dagli indicatori
disaggregati dell’OCSE riguarda la questione del reintegro nel caso di
licenziamento individuale non giustificato. Benché dal punto di vista
formale questa pratica esista in numerosi paesi, il ricorso avviene più
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
raramente che in Italia e in forma circoscritta ai soli casi in cui sia accertabile la presenza di ragioni oggettivamente gravi, conformemente a
una casistica appurata al momento dell’introduzione della norma
(come avviene nel modello tedesco o austriaco, ad esempio). Questo
suggerisce che un modo di perseguire la razionalizzazione del sistema
italiano di licenziamento individuale potrebbe essere quello di ridurre
drasticamente l’aleatorietà legata all’intervento del giudice.
L’orientamento al momento in discussione in Italia di un risarcimento,
nel caso il giudice decida sull’insussistenza dei motivi economici addotti
dall’impresa per il licenziamento individuale, valutabile tra quindici e
ventisette mesi del salario lordo, collocherebbe l’Italia al secondo posto
dell’ordinamento dei livelli di generosità di tali risarcimenti (dopo la
Svezia). Questo fatto sembrerebbe suggerire che una prospettiva di riduzione della generosità del sistema non sia da escludere, nel qual caso essa
andrebbe intrapresa in modo coordinato con l’aumento progressivo della
generosità del sistema degli ammortizzatori sociali. Il risultato finale
sarebbe quello di sostituire alla generosità dei meccanismi di indennizzo
meccanismi di protezione sociale più moderni e in linea coi livelli di
protezione osservabili a livello internazionale.
Sempre ragionando in prospettiva e assumendo che i cittadini italiani
non siano pronti a rinunciare al meccanismo del reintegro, un modo
operativo di ridurre il grado di discrezionalità dei giudici potrebbe
essere quello di introdurre un incentivo tendente a favorire la soluzione
del licenziamento prima che il contenzioso venga portato in tribunale.
Il modello tedesco, per esempio, prevede il versamento di un risarcimento al lavoratore, benché di entità relativamente più modesta (basato
su una scala fissa, calcolata sull’anzianità di servizio), previa la rinuncia
da parte di quest’ultimo a ricorrere in tribunale. In questo caso, viene
fatto salvo al lavoratore il ricorso alla protezione della decisione del
tribunale se decide di non accettare il risarcimento, ma l’incentivo a
ricorrervi sarebbe fortemente diminuito qualora le prospettive di una
soluzione favorevole fossero oggettivamente modeste. Un sistema di
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questo tipo andrebbe certamente sostenuto dalla creazione di meccanismi di mediazione certi, capaci di garantire a entrambi le parti di accedere al risarcimento consenziente nel modo più semplice e nei tempi
più rapidi possibili.
Licenziamenti collettivi. Una terza direzione dove il potenziale di
riforma è particolarmente elevato in Italia si riferisce alle norme relative
ai licenziamenti collettivi. Sopra i quindici addetti, le imprese che intendano licenziare cinque o più occupati sono tenute all’adempimento di
obblighi amministrativi di consultazione e preavviso addizionali,
rispetto alla procedura ordinaria che si applica alle imprese più piccole,
spesso ulteriormente accresciuti dall’aggiunta di uno speciale indennizzo di licenziamento. Sebbene l’evidenza empirica disponibile non
sembri corroborare l’idea che queste barriere rappresentino un deterrente serio al raggiungimento di scale dimensionali ottimali di produzione da parte delle imprese (Schivardi e Torrini 2008; Garibaldi,
Pacelli e Borgarello 2004), una linea di riforma potrebbe consistere
nell’aumentare la soglia minima d’applicazione della regola. In molti
paesi OCSE, la soglia del criterio del licenziamento collettivo si applica
da dieci o venti occupati nel caso di piccole imprese, mentre in quelle
di maggiore dimensione essa passa a trenta occupati o una percentuale
prestabilita (di solito fissata al 10%). Un’altra opzione praticabile è
quella di andare a incidere sugli oneri amministrativi, laddove il periodo
di consultazione, che attualmente può raggiungere quarantacinque
giorni in Italia, si confronta con i circa ventisei giorni per la media dei
paesi OCSE.
Inoltre, l’Italia si distingue dalle pratiche internazionali per i tempi
lunghi e le difficoltà delle procedure burocratiche che si applicano al
caso dei licenziamenti collettivi. Ciò emerge dalla figura 15 che presenta
la frequenza dei ricorsi in giudizio, nonché i tempi di esecuzione dei
processi per cause di lavoro, relativi a diversi paesi, misurati su dati
recenti. Si tratta di ostacoli che disincentivano la rapida presa delle deci126
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Fig. 14 - Differenze fra indicatori disaggregati di protezione del mercato del lavoro
Italia rispetto alla media OCSE per l’anno 2008
Nota CT - contratto a termine; ALI - Agenzia di lavoro interinale; LC - Licenziamenti collettivi.
Fonte OECD Indicators on Employment Protection
sioni da parte di entrambi i soggetti coinvolti, datore di lavoro e lavoratore. La semplificazione delle procedure amministrative, coniugata ad
un aumento delle risorse destinabili ai tribunali del lavoro, potrebbe
essere di grande supporto. Un’altra possibilità, ispirata dalle pratiche
internazionali in vigore, potrebbe essere quella di dotare i datori di
lavoro e i dipendenti degli strumenti idonei alla ricerca di soluzioni
consensuali, evitando così i tempi e le incertezze delle procedure giudiziali. In Spagna, ad esempio, il datore di lavoro può decidere il versamento immediato dell’indennità di licenziamento, nel qual caso non
esiste alcun incentivo addizionale a ricorrere in giudizio da parte del
lavoratore. Circa il 75% dei licenziamenti spagnoli sono eseguiti
seguendo questa procedura. In modo simile, anche in Germania datori
di lavoro e dipendenti possono decidere di accordarsi sul modo di pagatEMA DI DISCUSSIOnE
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Fig. 15 - Tempi e procedure burocratiche nel caso dei licenziamenti collettivi,
confronto tra Italia e una selezione di paesi OCSE
Nota Rispetto al totale dei casi in primo grado, valori percentuali.
Fonte Venn (2009), Appendice B
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mento dell’indennizzo, in cambio della rinuncia alla prospettiva di
ricorso per via giudiziale. In entrambi i casi, molti datori di lavoro preferiscono scegliere la soluzione dell’indennizzo immediato in cambio di
una maggiore certezza e del costo ridotto della procedura burocratica.
5.2 Gli effetti potenziali della riduzione del dualismo
Un primo importante denominatore comune tra queste direzioni d’intervento risiede nella loro qualità di fattori generatori di riequilibrio tra
due convenienze relative, da un lato l’uso dei contratti a termine,
dall’altro il ricorso ai contratti a tempo indeterminato. Agendo in modo
complementare tra loro, tali misure presentano dunque il vantaggio di
incidere sul dualismo, riducendo i rischi e le incertezze che ancora
scoraggiano le imprese a ricorrere ai contratti a tempo indeterminato.
Dal punto di vista della distribuzione dei benefici tra i diversi lavoratori,
i maggiori beneficiari sarebbero i giovani. I loro tassi di partecipazione
al mercato del lavoro aumenterebbero, in particolare tra i lavoratori
meno esperti e qualificati.
Vi è un altro aspetto dei benefici attesi di queste misure che merita
di essere richiamato ed è quello legato ad una “migliore” mobilità del
lavoro che permetta di mobilitare i lavoratori verso le opportunità di
lavoro più produttive. La riallocazione è un motore essenziale della
crescita della produttività del sistema economico: permette di mobilizzare i fattori produttivi, tra cui il lavoro, da attività produttive meno
efficienti e in declino verso attività più produttive e in espansione. Di
recente sono stati eseguiti diversi studi per misurare in modo diretto
l’impatto della mobilità del lavoro attraverso la creazione e distruzione
di posti di lavoro da parte delle imprese e la nati-mortalità delle imprese
stesse. Una conclusione importante di questi studi è che la riallocazione
delle risorse disponibili tra attività in declino e in crescita esercita un
impatto significativo sulla crescita economica e sulla produttività
(Bartelsman, Haltiwanger e Scarpetta 2009; Haltiwanger, Scarpetta e
Schweiger 2010; Martin e Scarpetta 2012; OECD 2009). Pur tuttavia,
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l’efficacia della riallocazione varia grandemente tra paesi; essa è influenzabile dalla definizione dei meccanismi istituzionali che agiscono sugli
spostamenti delle risorse disponibili. In taluni casi, l’effetto è sub-ottimale. In particolare, laddove la riallocazione opera nell’ambito di un
mercato del lavoro marcatamente segmentato, l’accumulo dei contratti
atipici incoraggia sì la realizzazione di tassi di mobilità molto elevati,
ma al costo di una crescita modesta della produttività.
Gli indicatori della riallocazione del lavoro in Italia non sono incoraggianti. Più precisamente emerge un chiaro quadro in cui l’Italia si
colloca ben al di sotto delle pratiche internazionali, sia dal punto di vista
della quantità che della qualità/efficienza della riallocazione. Le stime
OCSE evidenziano per il nostro paese tassi d’assunzione e separazione
che sono inferiori di circa il 25% rispetto alla media dei paesi OCSE.
Di conseguenza, il numero dei lavoratori che trovano una nuova occupazione entro un anno dalla perdita del precedente impiego è molto
inferiore a quello che si osserva nelle economie europee più reattive,
meglio in grado cioè di aggiustare i loro modelli occupazionali in
reazione ai cambiamenti nella struttura produttiva. Tra questi paesi,
spicca l’esempio della Danimarca dove, non a caso, l’incidenza dei lavoratori a termine è attestata su livelli decisamente inferiori all’Italia,
specie tra i giovani (figura 7, sopra).
L’approfondimento delle sinergie con l’efficienza produttiva rafforza
la percezione degli effetti benefici dell’eliminazione del dualismo.
Dando maggiore certezza che le risorse disponibili possono essere
orientate verso usi più produttivi, grazie a una riallocazione più efficace,
la rimozione del dualismo sospinge l’accumulazione da parte delle
imprese. Si può innestare una spirale virtuosa tra espansione delle
imprese e crescita dell’occupazione.
5.3 Le complementarità con la razionalizzazione degli ammortizzatori sociali
Dal punto di vista dei lavoratori, un mercato del lavoro dinamico si
traduce in un ventaglio più ampio di opportunità occupazionali. In un
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mercato dinamico una quota consistente delle separazioni è il risultato
di scelte volontarie dei lavoratori che si orientano verso un’altra occupazione che si addice meglio alle loro qualifiche professionali e legittime
aspirazioni. In generale, è proprio così che i lavoratori migliorano la loro
posizione sotto il duplice aspetto della carriera e della retribuzione.
Se questo autorizza a pensare che le riforme che hanno l’obiettivo di
superare il dualismo dovrebbero avvantaggiare un numero elevato di lavoratori, tuttavia sarebbe eccessivamente pretenzioso attendersi che i
guadagni siano distribuiti equamente. Non tutti cambiano lavoro volontariamente e per gli individui che vi sono costretti, perché licenziati, o
incoraggiati, la ricerca di un nuovo posto può richiedere tempo. Quand’anche quest’ultima dovesse risolversi in un lasso temporale limitato,
non necessariamente il nuovo posto potrebbe essere in grado di offrire
le stesse condizioni retributive. Inoltre, durante un periodo di crisi economica, come l’attuale, il reperimento di un nuovo posto è reso ancora più
arduo. Per di più, la congestione del mercato del lavoro accresce il rischio
di incappare in una decurtazione del salario all’atto del reimpiego.
Queste considerazioni spostano l’accento su un altro aspetto cruciale
delle riforme del mercato del lavoro. È quello del sistema italiano degli
ammortizzatori sociali, la cui analisi, nel confronto con gli altri paesi
OCSE, è di grande aiuto per comprendere il potenziale di riforma in
tale area.
In Italia, il ruolo di protezione alle famiglie garantito dal sostegno del
reddito, quale strumento per controbilanciare i rischi di perdite ingenti
nei redditi da lavoro, è comparativamente modesto rispetto agli altri paesi.
Le stime OCSE rivelano che in Italia cadute violente nel reddito da lavoro
individuale, a seguito, ad esempio, della perdita del posto di lavoro,
comportano effetti di riduzione del reddito disponibile delle famiglie
assai maggiori che negli altri paesi OCSE (OECD 2011b). Per esempio,
nel caso di una perdita di entità uguale o superiore al 20% del reddito da
lavoro annualmente percepito dal soggetto, in Italia la corrispondente
flessione del reddito familiare disponibile è pari al 68% per cento di tale
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Fig. 16 - Stima dei tassi di sostituzione netti calcolati per i beneficiari dei sussidi alla disoccupazione
Nota I paesi sono in ordine crescente per generosità del sistema al 2009 (il tasso medio di sostituzione nei due anni).
Le elaborazioni considerano sia i redditi in denaro (escludendo per esempio i contributi sanitari o previdenziali dei lavoratori a carico del datore di lavoro e
i trasferimenti in natura per i disoccupati) sia le tasse che i contributi sociali e previdenziali obbligatori pagati dai lavoratori. Per concentrarsi sul ruolo dei
sussidi alla disoccupazione, si assume l’assenza di sostegni alle famiglie a basso reddito sotto forma di assistenza sociale o benefici per l’abitazione. Non si
tiene inoltre conto della liquidazione. Il tasso netto di sostituzione è calcolato per un lavoratore di 40 anni con una storia occupazionale “lunga” e ininterrotta. È una media calcolata su 24 mesi e quattro tipologie diverse di famiglia (single, coppie con un solo lavoratore, con e senza bambini) e due diversi
livelli di reddito (67% e 100% della retribuzione media a tempo pieno). A causa dei tetti ai sussidi, i tassi netti di sostituzione sono minori per gli individui
con guadagni sopra la media. Per maggiori dettagli cfr. OECD (2007a).
Fonte OECD tax-benefit models (www.oecd.org/els/social/workincentives)
perdita, contro una media di solo il 47% negli altri paesi OCSE.
C’è dunque da attendersi che lo shock negativo sui redditi subito dai
lavoratori italiani a seguito della crisi recente abbia accentuato i rischi
di povertà, nonostante l’aumento dei fondi a disposizione della Cassa
Integrazione e Guadagni abbia dato un apporto notevole al contenimento delle cadute occupazionali e delle perdite finanziarie per le famiglie degli aventi diritto. La figura 16 mostra che, anche dopo la decisione
di espandere temporaneamente la capacità di portata finanziaria della
Cassa, il sistema italiano degli ammortizzatori sociali resta uno dei
meno generosi dell’area OCSE.
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
La valutazione delle caratteristiche intrinseche al sistema italiano,
rende realistico aspettarsi che la razionalizzazione degli ammortizzatori
sociali avvenga gradualmente. È infatti oggettivamente difficile, nelle
attuali condizioni di bilancio pubblico che impongono controlli molto
rigorosi della spesa sociale, pensare che la necessaria estensione della
copertura del sistema alle ampie fasce di lavoratori ancora escluse possa
realizzarsi in tempi brevi. Ciononostante, l’evidenza empirica disponibile suggerisce che la razionalizzazione degli ammortizzatori sociali non
si pone necessariamente in antitesi con la riforma del mercato del
lavoro. Occorre però garantire il rispetto di certe condizioni affinché si
stabiliscano delle sinergie tra le due direzioni dell’intervento. In effetti,
se l’accesso dei beneficiari è subordinato al rispetto di precise condizioni
di re-ingresso nell’occupazione, intese a limitare i costi legati a comportamenti opportunistici, ed è coniugato a programmi di attivazione dei
beneficiari che stimolino la ricerca attiva del lavoro e incoraggino la
partecipazione a programmi di formazione, l’introduzione di ammortizzatori sociali a carattere universale e con una copertura adeguata del
reddito non ostacola la riallocazione del lavoro (OCSE 2006, 2007 e
2010). Al contrario, ideata con l’obiettivo di facilitare il re-ingresso
nell’occupazione, nel pieno rispetto delle competenze professionali,
essa si traduce in maggiore efficienza produttiva, contribuendo a rafforzare i guadagni di produttività.
6. Il ruolo delle politiche redistributive
L’accresciuta disparità delle retribuzioni ha fatto sì che un maggior
numero di persone abbia dovuto attingere ai sistemi di protezione
sociale per mantenere lo stesso livello di vita. Nel confronto internazionale, le imposte sui redditi e i sussidi sociali hanno un ruolo importante
nella redistribuzione del reddito in Italia e leggermente superiore alla
media dei paesi OCSE. Ciò viene suggerito dalla figura 17 che mostra
che i redditi di mercato sono distribuiti in modi più ineguale dei redditi
netti disponibili delle famiglie: contributi e prestazioni riducono le disetEMA DI DISCUSSIOnE
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
Fig. 17 - Confronto tra coefficienti di Gini per i redditi di mercato e i redditi netti delle famiglie
Nota Ci si riferisce ad un anno tra il 2006 e il 2009. La media Ocse esclude Grecia, Ungheria, Irlanda, Messico e Turchia (nessuna informazione disponibile sul
reddito di mercato). L’età da lavoro è definita come 18-65 anni.
1. Informazioni sui dati per Israele: http://dx.doi.org/10.1787/888932315602.
Fonte OECD Database on Household Income Distribution and Poverty (www.oecd.org/els/social/inequality)
guaglianze di circa il 30%, contro una riduzione di circa un quarto per
la media dei paesi OCSE.
Va pur detto che per l’Italia la tendenza degli ultimi quindici anni è
stata quella di un leggero aumento dell’efficacia della capacità del
sistema impositivo e dei sussidi di stabilizzare la diseguaglianza.
Imposte e sussidi compensavano circa la metà dell’aumento della diseguaglianza del reddito prima della metà degli anni ’90. Da allora essi
hanno compensato una quota pari a circa il 65% dell’aumento.
Tuttavia, questa dinamica va soppesata col fatto che nel caso particolare dell’Italia l’effetto di riduzione della diseguaglianza grazie alla spesa
in servizi pubblici è diminuito nel corso dell’ultimo decennio (figura
18). Come in molti paesi OCSE, in Italia sanità, istruzione e servizi
pubblici destinati alla salute contribuiscono a ridurre di circa un quinto
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Fig. 18 - Associazione tra variazione nella spesa pubblica in servizi e riduzione della diseguaglianza
Nota Rispettivamente variazioni percentuali nella quota dei servizi pubblici sul totale del reddito disponibile, e della riduzione percentuale della diseguaglianza (coefficiente di Gini).
Fonte OECD (2008a); Elaborazioni del Segretariato OCSE sul database OCSE/EU sull’impatto distributivo dei servizi in natura e dati di rilevazioni nazionali
per i paesi non-EU
la diseguaglianza di reddito, il che si confronta con una capacità di riduzione della diseguaglianza pari a circa un quarto nel 2000. La tendenza
alla diminuzione della capacità redistributiva dei servizi rende il ruolo
degli strumenti diretti della redistribuzione, attraverso le imposte e i
trasferimenti, appunto, ancora più importante da considerare nel caso
italiano.
In una situazione di crescita modesta è certo difficile trovare nuove
risorse da destinare ai fini redistributivi. Allo stesso tempo, gli spazi di
manovra per un aumento della spesa rivolta alle famiglie risentono al
momento dei vincoli imposti dal processo di consolidamento delle
finanze pubbliche. Anche in un quadro così difficile, indicazioni utili
per l’indirizzo delle politiche sociali nel rispetto dei vincoli di bilancio
sono offerte da alcune analisi condotte recentemente dalla Banca
tEMA DI DISCUSSIOnE
135
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
d’Italia. Nell’attuale sistema italiano di imposte e trasferimenti, questi
studi rilevano la persistenza di meccanismi di disincentivo all’offerta di
lavoro del secondo percettore di reddito del nucleo familiare, in genere
la donna. Da qui, una proposta concreta che potrebbe aiutare a risolvere
il conflitto tra le esigenze di sostenere il reddito delle famiglie con
carichi familiari e l’ampliamento dell’occupazione femminile potrebbe
consistere nella trasformazione, in un’ottica di parità di gettito, delle
detrazioni per coniuge a carico in un credito d’imposta sulle basse retribuzioni. Schemi di questo tipo, ispirati dall’idea di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro dei gruppi sottorappresentati, come in
questo caso le donne sposate, potrebbero essere disegnati traendo ispirazione da analoghi strumenti già sperimentati in altri paesi (Colonna
e Marcassa 2012), ad esempio negli Stati Uniti (Earned Income Tax
Credit, EITC) e nel Regno Unito (Working Tax Credit, WTC). Essi favorirebbero l’occupazione dei lavoratori meno qualificati, con effetti positivi sulla povertà.
Anche dal lato delle entrate è possibile accrescere l’efficacia redistributiva, senza compromettere le forze della crescita. In particolare,
la quota crescente di reddito per i più ricchi suggerisce che la loro
capacità contributiva è aumentata, e in alcuni paesi pagano già un’aliquota d’imposta sul reddito più alta rispetto al passato. In tale
contesto, molti governi stanno riesaminando il ruolo redistributivo
della fiscalità onde assicurare che i soggetti più abbienti contribuiscano in modo più equo al pagamento degli oneri impositivi. Tale
rivalutazione non si limita ad aumentare le aliquote delle tasse marginali sul reddito, una delle misure probabilmente meno efficaci per
aumentare il gettito fiscale, ma comprende anche un miglioramento
del rispetto degli adempimenti tributari mediante la lotta all’evasione,
la soppressione delle agevolazioni ed esenzioni che favoriscono in
modo sproporzionato i gruppi a reddito più elevato e la rivalutazione
del ruolo delle imposte su ogni forma di proprietà e di ricchezza (ivi
comprese le donazioni).
136
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
7. Riflessioni conclusive
L’Italia è un paese con una diseguaglianza dei redditi elevata e una
povertà diffusa. L’aumento della diseguaglianza nella distribuzione dei
redditi delle famiglie è avvenuto in gran parte nella prima metà degli
anni ’90. Da allora si sono riscontrati due fenomeni contrastanti; se da
un lato si sono fatti progressi sul fronte occupazionale, con un aumento
dei tassi di occupazione dei gruppi generalmente sotto rappresentati
come le donne, i giovani e i lavoratori a bassa qualifica, dall’altro si è
osservato un aumento del dualismo sul mercato del lavoro in termini
di stabilità del posto di lavoro e remunerazione. A ciò si aggiunge la
forte trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze.
Se da un lato le riforme del mercato del lavoro degli ultimi quindici
anni hanno favorito l’emersione del sommerso, dall’altro la pressione
competitiva sui mercati, un progresso tecnico skill-biased e persistenti
rigidità sul mercato del lavoro hanno concorso ad aumentare la sua
segmentazione tra gli occupati, con forti conseguenze negative sulla
distribuzione dei redditi delle famiglie e sulla mobilità sociale. Inoltre,
la recente crisi economica ha mostrato chiaramente la forte vulnerabilità dei lavoratori con contratti atipici alle fluttuazioni di domanda: le
perdite occupazionali si sono concentrate tra questi lavoratori contribuendo ad aumentare ulteriormente la segmentazione del mercato del
lavoro.
Coniugare la necessaria flessibilità sul mercato del lavoro con una
maggiore protezione dei lavoratori richiede una riforma complessiva
del mercato del lavoro supportata da misure strutturali volte a promuovere la crescita economica. Le riforme intraprese dall’attuale governo
sembrano orientarsi in questa direzione. Se da un lato è necessario
combattere gli abusi legati all’utilizzo improprio dei contratti atipici,
rafforzando i controlli sul ricorso a tali contratti e agendo sul differenziale tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito
dal lavoratore, cioè il cuneo fiscale, dall’altra è anche importante
promuovere l’apprendistato come meccanismo di entrata nel mercato
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
del lavoro per i giovani. Allo stesso tempo, occorre anche riconsiderare
la legislazione in materia di licenziamenti individuali e collettivi per i
lavoratori con contratti a durata indeterminata riducendo l’attuale incertezza rispetto ai tempi e ai costi dei licenziamenti che scoraggiano la
creazione di posti di lavoro permanenti e non garantiscono necessariamente i lavoratori. L’introduzione di un contratto unico con protezione
che aumenta con la durata del contratto, ampiamente discusso nella
letteratura in Italia e in altri paesi europei, permetterebbe di affrontare
questi temi alla radice, ma le opzioni incluse nella proposta di riforma
in discussione sono dei passi significativi. Allo stesso tempo, è urgente
in Italia operare sugli ammortizzatori sociali, con l’introduzione di un
sussidio universale, anche se condizionato ad una ricerca attiva del
lavoro e alla disponibilità a partecipare a programmi per il reinserimento e la formazione.
Queste necessarie riforme del mercato del lavoro sono ancora più
urgenti nel contesto attuale e a seguito delle altre riforme strutturali
recentemente intraprese, tra cui in particolare la riforma del regime
previdenziale e le liberalizzazioni dei mercati, soprattutto dei servizi.
Questi cambiamenti in rapida sequenza rafforzano, se possibile, l’argomento a favore di una riforma complessiva del mercato del lavoro. In
effetti, la velocità del passaggio al metodo contributivo per tutti (dal 1°
gennaio 2012) ha accentuato l’importanza di rendere praticabile la
realizzazione di carriere il più possibile continue e di qualità, onde facilitare l’accumulo di diritti sufficienti al recepimento di pensioni
adeguate. Allo stesso tempo, non è da escludere che la maggiore concorrenza sui mercati dei beni e dei servizi, pur comportando l’innalzamento dei livelli produttivi e occupazionali dei settori direttamente
coinvolti, potrebbe anche contribuire ad acutizzare i differenziali salariali e occupazionali. Pertanto, oltre che dalle pressioni dovute alla dinamica congiunturale, la necessità degli interventi in atto per il completamento del mercato del lavoro è resa ancora più acuta alla luce dei
possibili effetti attesi delle concomitanti riforme strutturali.
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
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Alessandro Goglio e Stefano Scarpetta
Appendice
Studi OCSE sulla distribuzione dei redditi
L’OCSE ha da lungo tempo condotto studi comparativi in materia di
distribuzione dei redditi. I primi contributi sono quelli Sawyer (1976)
e Atkinson, Rainwater e Smeeding (1995). Il primo presentava una
rassegna di 12 paesi OCSE con osservazioni puntuali tra la fine degli
anni 1960 e i primi anni 1970. Tuttavia, la significatività dei confronti
tra paesi allora disponibili era notevolmente ridota dalla scarsa armonizzazione dei dati disponibili. Questo annoso problema è stato in
parte superato dal lavoro di Atkinson, Rainwater e Smeeding che si
basava su informazioni standardizzate per 16 paesi OCSE.
Da allora, l’OCSE garantisce la raccolta di informazioni standardizzate sulle diseguaglianze con cadenza regolare, approssimativamente
ogni cinque anni. Più recentemente, nel 2008, la pubblicazione Growing
Unequal? Ha documentato gli aspetti chiave che contraddistinguono le
diseguaglianze nei 30 paesi membri dell’OCSE. Una successiva pubblicazione (OECD 2010a) ha esteso la metodologia di Growing Unequal?
alle principali economie emergenti: Brasile, China, India e Sud Africa.
L’ultimo contributo dell’OCSE in questo campo, Divided We Stand:
Why Inequality Keeps Rising, offre un’analisi approfondita delle possibili
cause della crescita delle diseguaglianze nel quarto di secolo antecedente la crisi finanziaria. Il rapporto si concentra, in particolare sul
ruolo che quattro grandi aree d’influenza hanno avuto sulla distribuzione dei redditi da lavoro dei lavoratori a tempo pieno: la globalizzazione, il progresso tecnologico, le scelte in materia di politica economica e il capitale umano. Come riportato nella tabella che segue,
ciascun fattore incide sul mercato del lavoro operando su due leve
142
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Mercato del lavoro e diseguaglianze: i vincoli a una crescita equa in Italia
Sintesi delle principali determinanti delle disparità nella distribuzione dei salari
per la popolazione in età lavorativa
EFFETTO DI:
OCCUPAZIONE
DISPERSIONE
DEI SALARI
STIMA
DELL’EFFETTO TOTALE
Integrazione commerciale
=
=
=
Investimenti diretti esteri (FDI)
=
=
=
Progresso tecnologico
=
+
+
Copertura sindacale decrescente
+
+
=/-
Deregolamentazione del mercato (prodotti) +
+
+/ = / -
Protezione più debole per i lavoratori
con contratto a termine
=
+
+
Cuneo fiscale ridotto
+
+
=/-
Indennità di disoccupazione diminuite
per lavoratori a basso reddito
+
+
+/=/-
Capitale umano (aumento nei livelli
di istruzione up-skilling)
+
-
—
Fonte “Divided We Stand, Why Inequality Keeps Rising”, OECD, Paris, 2011
distinte, la variazione dei livelli occupazionali (prima colonna) e/o dei
salari (la seconda). L’effetto netto risultante dall’azione combinata delle
due leve è riportato nella terza colonna.1
I principali risultati sono sintetizzabili come segue:
• La globalizzazione, che ha interessato tutti i paesi OCSE, sostenuta dalla
riduzione delle barriere al commercio internazionale di beni e servizi e
dalla rimozione dei controlli sui mercati dei capitali finanziari e sugli
investimenti diretti dall’estero, non ha svolto un ruolo decisivo nella
crescente dispersione dei salari dei paesi OCSE. In altre parole, la situa1 L’esame delle cause soggiacenti la variazione delle disparità salariali all’interno
dei paesi è stato condotto attraverso analisi econometrica su dati sezionali e in serie
storica usando uno stimatore a effetti fissi su un campione di 22 paesi OCSE dai primi
anni ’80 al 2008. Ai fini del calcolo dell’effetto aggregato dei due effetti distinti sull’occupazione e sulla dispersione dei salari sono state fatte due ipotesi con riguardo al
reddito potenziale degli individui disoccupati. nella prima è stato imputato un reddito
pari a zero, mentre nella seconda si è fatta una stima del costo opportunità del lavoro,
pari alla metà del salario mediano.
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•
•
•
•
zione attuale riflette, né più né meno, il funzionamento prevedibile delle
regole del mercato: esse operano in modo efficiente, almeno fino a
quando si tratta di accumulare e concentrare capitale e ricchezza.
Il cambiamento tecnologico non ha anch’esso avuto un effetto significativo sull’aumento dei differenziali salariali nel loro insieme, anche
se ha contribuito ad un aumento dei differenziali tra i salari mediani
e quelli più elevati. In particolare, i lavoratori più qualificati hanno
beneficiato in misura maggiore rispetto agli altri dei progressi
compiuti nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Occorre però rilevare che se l’impatto diretto della globalizzazione e
del progresso tecnico sui differenziali salariali è stato limitato, questi
fattori hanno esercitato un significativo ruolo indiretto; in particolare
una forte pressione sui decisori pubblici per riforme strutturali dei
mercati dei beni e servizi così come del mercato del lavoro volte ad
aumentare la concorrenza e l’adattabilità dei mercati per poter rispondere meglio ai cambiamenti legati alla globalizzazione e progresso
tecnico. Se da un lato queste riforme strutturali hanno indubbiamente contribuito a promuovere la crescita economica e l’occupazione, esse hanno anche determinato un aumento delle disparità salariali tra gli occupati.
Più in dettaglio, se da un lato i tassi di occupazione (occupati su popolazione 15-64 in età lavorativa) sono aumentati, soprattutto tra i gruppi
meno rappresentati sul mercato – giovani, donne, lavoratori a basse
qualifiche – nello stesso tempo la maggiore presenza di lavoratori a
basso reddito ha condotto all’ampliamento della distribuzione dei salari.
Il fattore principale che ha contrastato – almeno in parte – l’aumento
tendenziale delle disparità salariali è stato l’investimento in capitale
umano. La quota di lavoratori con qualifiche intermedie e superiori
è aumentata in tutti i paesi OCSE e ciò ha contribuito a contenere le
disparità salariali risultanti dal progresso tecnologico, dalle riforme
normative e dalle modifiche istituzionali. Quest’ultimo effetto si è
manifestato attraverso il duplice volano della maggiore occupazione
e della riduzione della dispersione salariale.
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Studi
e ricerche
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI:
i risultati dell’indagine UniCredit 2011
Francesca Bartoli
Responsabile Family & SME Analysis, UniCredit
1. Introduzione
L’attuale scenario economico non è incoraggiante, e i pericoli di
progressiva perdita di competitività del sistema italiano sul mercato
globale sono concreti. Un limite aggiuntivo è posto dall’accresciuta
importanza della competitività dei sistemi territoriali come fattore
chiave dello sviluppo. Infatti, la globalizzazione spinge verso una
competizione tra sistemi territoriali, dato che la caduta di barriere e
distanze rende potenzialmente accessibile tutto il mondo, moltiplicando la mobilità dei fattori produttivi. Ogni sistema territoriale si
trova dunque a competere con le omologhe realtà all’estero per
attrarre le risorse umane e finanziarie che si fanno sempre più scarse.
Le trasformazioni in atto rendono più complessa la definizione di
competitività e più articolato l’insieme dei fattori necessari per misurarla. In particolare, il fenomeno della globalizzazione delle filiere
produttive suggerisce la necessità di sviluppare nuovi indicatori di
competitività, non più basati su soli dati settoriali aggregati, ma che
piuttosto combinino informazioni territoriali con dati a livello di
impresa (Quintieri 2006).
Il panorama italiano relativo alle performance d’impresa si presenta
variegato, tanto a livello intersettoriale quanto intra-settoriale. Dal 2006,
il Rapporto UniCredit sulle piccole imprese offre annualmente uno
spaccato sulla realtà produttiva italiana, forte di un’indagine sottoposta
a oltre 6.000 piccoli imprenditori clienti. Quest’anno l’analisi si arricchisce di un ulteriore elemento: dato il focus sulle forme di aggregazione tra imprese, è stata condotta un’indagine ad hoc su circa 1.500
studi e ricerche
147
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Francesca Bartoli
medie imprese manifatturiere1. La ricchezza delle informazioni raccolte
ci consente di andare oltre i dati strutturali esaminati nelle statistiche
pubbliche, ricavando dalla voce dei protagonisti del “fare” impresa rilevanti aspetti qualitativi e comportamentali altrimenti impossibili da
cogliere in modo sistematico. Nello specifico, le interviste, condotte
tramite questionario, riguardavano: le caratteristiche strutturali delle
imprese; le strategie imprenditoriali (in particolare, innovazione e internazionalizzazione); le caratteristiche della produzione (in particolare,
l’appartenenza a filiere produttive e i rapporti di subfornitura) le forme
di collaborazione e aggregazione tra imprese; gli aspetti di credito e
struttura finanziaria; il rapporto banca-impresa.
Partendo dai risultati di indagine, il presente lavoro si concentra
sull’attività di innovazione e internazionalizzazione nelle PMI, due
aspetti fondamentali, dato che capacità innovativa e capacità di intercettare le dinamiche della domanda estera rappresentano le leve strategiche principali per tornare a crescere nel medio-lungo periodo a
ritmi più sostenuti. Relativamente ai due temi selezionati, vengono
dunque messe a confronto le performance delle piccole e medie
imprese manifatturiere.
2. L’innovazione
In conformità con la rilevazione europea sull’innovazione coordinata
dall’Eurostat (Community Innovation Survey), l’attività di innovazione
delle piccole e medie imprese manifatturiere viene analizzata pren1. L’indagine ai piccoli imprenditori è basata su 6.025 interviste cAti (computer
Assisted telephone interview) appartenenti a tutti i settori dell’economia (di cui, 540
manifatturiere), distribuite su tutto il territorio nazionale a clienti unicredit individuati
secondo uno schema che riconduce il campione alla popolazione delle imprese che esso
rappresenta. L’indagine sulle medie imprese manifatturiere è invece basata su 1.408 interviste cAti a imprese clienti e non clienti, anch’esse stratificate a livello territoriale. in
entrambi i casi, le interviste sono state somministrate da doxa nel periodo giugnosettembre 2011. Le imprese sono classificate sulla base del fatturato: da 0 a 5 milioni di
euro per le piccole imprese, da 5 a 50 milioni di euro per le medie imprese.
148
economiA itALiAnA 1•2012
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
dendo in considerazione non solo la componente tecnologica, ovvero
l’innovazione di prodotto o servizio e l’innovazione di processo, ma
anche quanto di innovativo introdotto dall’impresa non necessariamente legato all’utilizzo di nuove tecnologie, ovvero l’innovazione organizzativa o di marketing. Relativamente all’innovazione di prodotto o
servizio e di processo, al di là di una specifica caratterizzazione in
termini qualitativi o di impatto sul fatturato e sull’attività di impresa, si
considera inoltre l’attività brevettuale ad esse collegata, e il ruolo della
collaborazione e cooperazione con soggetti pubblici e privati. Chiude
il paragrafo l’analisi dei principali fattori di ostacolo all’attività di innovazione, intesa in senso lato.
La forma più radicale di innovazione è quella costituita dall’introduzione di un prodotto o servizio tecnologicamente nuovo (o significativamente migliorato) rispetto a quelli precedentemente disponibili, in
termini di caratteristiche tecniche e funzionali, prestazioni, facilità
d’uso, ecc., esclusa la vendita di nuovi prodotti o servizi acquistati da
altre imprese. Nel triennio 2009-2011, poco meno del 5% delle imprese
manifatturiere intervistate ha introdotto un prodotto o un servizio
tecnologicamente nuovo, senza particolari differenze tra piccoli e medi
operatori (tabella 1). Il miglioramento significativo di un bene o
servizio già esistente è stato invece relativamente più diffuso tra le
imprese di dimensione maggiore (18,7% delle risposte, valore che
scende al 17,6% per le più piccole). C’è poi una parte di intervistati –
ancora più rilevante di quelle sopra citate – che ha sviluppato entrambe
le forme di innovazione di prodotto: si va dal 32,8% degli operatori
industriali di dimensioni minori al 48,4% di quelli più grandi. Tra questi
ultimi – come atteso – l’attività di innovazione di prodotto è stata
complessivamente più diffusa (71,8% dei rispondenti, a fronte di un
55,2% registrato presso le piccole aziende manifatturiere).
Nello specifico (tabella 2), l’innovatività riguarda prevalentemente
il mercato di riferimento (64,4% delle risposte per le medie e 58,7%
per le piccole), ma non è comunque trascurabile il numero di coloro
studi e ricerche
149
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Francesca Bartoli
Tab. 1 - Innovazione di prodotto o servizio nel triennio 2009-2011
Piccole imprese
Medie Imprese
Prodotti o servizi tecnologicamente nuovi
Prodotti o servizi tecnologicamente pre-esistenti
ma significativamente migliorati
4,8
4,7
17,6
18,7
Entrambe le tipologie di innovazione di prodotto
32,8
48,4
Nessuna innovazione di prodotto
44,8
28,2
Totale rispondenti
540
1.408
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì
Tab. 2 - Qualità dell’innovazione di prodotto o servizio nel triennio 2009-2011
Piccole imprese
Prodotti o servizi tecnologicamente nuovi
(o significativamente migliorati) per il mercato di riferimento
58,7
Prodotti o servizi tecnologicamente nuovi
(o significativamente migliorati) solo per l’impresa
34,6
Medie Imprese
64,4
29,1
Non sa - non indica
6,7
6,5
Totale rispondenti
298
1.011
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple, percentuale di risposte sì; domanda posta a chi ha compiuto almeno una tipologia di innovazione
di prodotto o servizio negli ultimi tre anni (298 piccole imprese e 1.011 medie imprese)
che hanno ampliato l’offerta della propria impresa puntando su prodotti
o servizi già esistenti, specie nel gruppo piccole imprese (34,6%, contro
il 29,1% delle medie). Minoritaria la quota di intervistati che dichiara
che l’innovatività di prodotto non è legata né al mercato di riferimento
né all’impresa in sé e per sé (6,5% per le medie aziende manifatturiere,
mentre i piccoli operatori sono il 6,7% del totale).
Anche in termini di fatturato realizzato, risulta significativa la componente di attività di innovazione di prodotto o di servizio legata al
mercato di riferimento (tabella 3). Infatti, posto pari a 100 il fatturato
realizzato nel 2010, gli intervistati dichiarano che in media oltre il 45%
è generato da prodotti o servizi “effettivamente” nuovi (o significativamente migliorati), e questo indipendentemente dalla dimensione di
impresa. Diversa è invece l’importanza del fatturato che proviene dagli
altri beni, specie per le imprese più grandi: rilevano soprattutto i
150
economiA itALiAnA 1•2012
EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 151
Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
Tab. 3 - Composizione percentuale del fatturato realizzato nel 2010
distinguendo i prodotti/servizi innovativi dagli altri beni
Piccole imprese
Prodotti o servizi nuovi (o significativamente migliorati)
per il mercato di riferimento
45,9
Prodotti o servizi nuovi (o significativamente migliorati)
solo per l’impresa
26,1
Prodotti o servizi non modificati o modificati
solo marginalmente (compresa la vendita di nuovi prodotti
o servizi acquistati da altre imprese)
28,0
Totale rispondenti
Medie Imprese
45,6
23,5
30,9
273
816
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota domanda posta a chi ha compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto o servizio negli ultimi tre anni (298 piccole
imprese e 1.011 medie imprese); valori medi, calcolati sulla base degli effettivi rispondenti alla domanda (273 piccole imprese
e 816 medie imprese)
Tab. 4 - Nel triennio 2009-2011 ha modificato il proprio settore prevalente di produzione?
Piccole imprese
Medie Imprese
16,3
13,1
4,4
2,8
No
79,3
84,1
Totale rispondenti
540
1.408
Sì, continuando l’attività anche nel precedente settore
Sì, abbandonando il precedente settore di attività
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota valori percentuali
prodotti o servizi non modificati o modificati solo marginalmente,
compresa la vendita di nuovi prodotti o servizi acquistati da altre
imprese (per una quota media del 30,9% per le medie e del 28% per le
piccole).
L’importanza dell’innovazione di prodotto svolta negli ultimi tre
anni, testimoniata dai risultati sin qui commentati, non è tuttavia associata ad un contemporaneo cambiamento nel settore prevalente di attività (tabella 4). Anzi, una maggiore stabilità si riscontra proprio tra le
imprese che più hanno innovato, ossia le medie (84,1% degli intervistati). Tra coloro che dichiarano di aver modificato il settore di attività
prevalente si registra una maggioranza di intervistati che hanno mantenuto anche l’attività nel settore di provenienza, fenomeno più accentuato per gli operatori di piccola dimensione (16,3%) – tra le medie
studi e ricerche
151
EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 152
Francesca Bartoli
imprese dell’industria invece la quota si attesta al 13,1%. Minoritaria
invece la quota di aziende che hanno abbandonato il precedente settore
di produzione, più risicata tra gli intervistati di dimensioni più grandi
(2,8% contro il 4,4% delle piccole).
Una seconda forma di innovazione in ambito aziendale è quella di
processo, che consiste nell’introduzione di processi o modalità di
produzione tecnologicamente nuovi (o significativamente migliorati)
rispetto a quelli adottati dall’impresa, in termini di caratteristiche
tecniche e funzionali, prestazioni, facilità d’uso, ecc. Come nel caso
dell’innovazione di prodotto, nel triennio 2009-2011 si osserva una
maggiore diffusione tra le medie imprese: quasi il 75% degli operatori
dichiara di aver effettuato almeno una tra le tipologie di innovazione di
processo indicate in tabella 5. Tuttavia, anche gran parte delle piccole
imprese manifatturiere sono impegnate su questo fronte (62%), che di
fatto risulta essere quello su cui esse sono più attive.
Alcune tipologie di innovazione risultano relativamente più diffuse
tra le medie imprese: quella relativa ai processi di produzione riguarda
oltre la metà degli intervistati (54,3%), sebbene rimanga l’attività più
seguita anche dagli operatori più piccoli (36,9%). Anche negli ambiti
dei sistemi amministrativi e informatici e della contabilità, così come
in quelli dei sistemi di logistica e dei metodi di distribuzione o fornitura,
l’attività innovativa delle medie imprese è stata più intensa (rispettivamente, 48,4% e 34,6%) di quella svolta dagli operatori di dimensioni
minori (rispettivamente, 35,9% e 21,5%). Le innovazioni nella gestione
degli acquisti rivestono invece un’importanza simile in entrambi i
gruppi di intervistati (30,7% per le piccole, 35,2% per le medie). Non
si riscontrano sostanziali differenze anche sul fronte delle innovazioni
nell’attività di manutenzione e supporto, compresa l’introduzione di
servizi post-vendita (per esempio l’invio di tecnici ed esperti), a cui
fanno riferimento il 28,9% delle piccole imprese e il 30,2% delle medie.
Considerando l’attività di innovazione nel suo complesso (ovvero,
mettendo insieme le informazioni su innovazione di prodotto e innova152
economiA itALiAnA 1•2012
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
Tab. 5 - Innovazione di processo nel triennio 2009-2011
Piccole imprese
Medie Imprese
Innovazioni nei processi di produzione
Innovazioni nella gestione dei sistemi amministrativi
e informatici, contabilità
36,9
54,3
35,9
48,4
Innovazioni nella gestione degli acquisti
Innovazioni nell’attività di manutenzione e supporto,
compresa l’introduzione di servizi post-vendita
(es. invio di tecnici ed esperti)
Innovazioni nei sistemi di logistica,
metodi di distribuzione o fornitura
30,7
35,2
28,9
30,2
21,5
34,6
Nessuna di queste
38,0
25,7
Totale rispondenti
540
1.408
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì
zione di processo), spicca nuovamente la differenza tra imprese di
dimensioni diverse (tabella 6). Tra le più grandi, solo il 12,8% degli intervistati non ha effettuato alcuna tipologia di innovazione tra quelle indicate in precedenza, a fronte di una percentuale quasi doppia (25,5%)
riscontrata presso gli operatori industriali di minori dimensioni. Tra chi
ha invece dichiarato di aver introdotto solo innovazioni di prodotto o
servizio non si segnalano forti diversità in termini di dimensione (poco
più del 12% in entrambi i campioni). Non così per l’innovazione di
processo, la cui diffusione caratterizza maggiormente le piccole (19,3%)
rispetto alle medie (15,4%). Da sottolineare come la maggior parte degli
intervistati dichiari di aver svolto innovazione sia di prodotto che di
processo, con un’intensità che aumenta al crescere della dimensione di
impresa: quasi il 60% per le medie, poco meno del 43% per le piccole.
I risultati sull’attività brevettuale confermano quanto appena indicato2. Nel periodo 2009-2011, ben il 24% delle medie imprese manifatturiere che hanno introdotto innovazioni di prodotto/servizio e/o
2. il brevetto costituisce una forma di tutela legale che si applica a scoperte nuove, non
ovvie e utili per scongiurare il rischio che qualcuno le utilizzi durante i venti anni di
validità dello stesso. esso conferisci espliciti diritti di sfruttamento esclusivi al titolare
dell’innovazione.
studi e ricerche
153
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Francesca Bartoli
Tab. 6 - Innovazione di prodotto e processo nel triennio 2009-2011
Piccole imprese
Medie Imprese
Solo innovazione di prodotto o servizio
12,4
12,9
Solo innovazione di processo
19,3
15,4
Sia innovazione di prodotto che di processo
42,8
58,9
Né innovazione di prodotto né innovazione di processo
25,5
12,8
Totale rispondenti
540
1.408
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì
Tab. 7 - Distribuzione dei brevetti depositati per tipologia di attività di innovazione
nel triennio 2009-2011
Piccole imprese
Medie Imprese
Solo innovazione di prodotto o servizio
6,0
22,5
Solo innovazione di processo
3,8
6,5
12,1
29,0
36
295
Sia innovazione di prodotto che di processo
Totale rispondenti
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì; domanda posta a chi ha depositato un brevetto (36 piccole imprese e 295
medie imprese)
di processo ha depositato anche dei brevetti. Tale quota crolla al 9% per
le piccole. Inoltre, analizzando le risposte in base alla tipologia di innovazione introdotta, emergono altre peculiarità che contraddistinguono
realtà di dimensione diversa (tabella 7). Tra le imprese manifatturiere
che hanno depositato brevetti nel periodo in esame sono più numerose
quelle che hanno svolto un’attività innovativa sia di prodotto che di
processo. Tuttavia, l’attività brevettuale è più diffusa tra le aziende di
maggiori dimensioni: il 29% delle medie imprese ha depositato brevetti
nel periodo considerato, percentuale che crolla al 12,1% tra gli operatori
più piccoli. La distanza tra piccole e medie imprese si accentua se il
brevetto è stato depositato da chi ha effettuato la sola innovazione di
prodotto o servizio: nel primo caso si tratta del 6% del totale, dato più
che triplicato nel secondo segmento (22,5%). Anche per l’attività
brevettuale associata all’innovazione di processo si osserva una
154
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
Tab. 8 - Principale partner con cui l’impresa ha sviluppato rapporti o accordi di cooperazione
per favorire l’attività di innovazione
Piccole imprese
Medie Imprese
Imprese clienti
24,9
17,8
Fornitori
20,6
20,4
Altre imprese appartenenti allo stesso gruppo
9,4
6,9
Associazioni di categoria
6,5
3,9
Centri di ricerca / università
4,0
10,7
Altre imprese concorrenti
Nessuno, l’innovazione è stata sviluppata interamente
all’interno dell’azienda
3,0
1,4
31,6
38,9
Totale rispondenti
402
1.228
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota valori percentuali; domanda posta a chi ha compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto o di processo
(402 piccole imprese e 1228 medie imprese)
maggiore diffusione tra gli operatori di medie dimensioni (6,5% delle
risposte) che tra quelli più piccoli (3,8%).
La maggiore dimensione di impresa non è solo associata ad un’attività
innovativa più diffusa, ma si accompagna anche ad una maggiore autonomia nel promuovere la stessa. Infatti, mentre tra le medie aziende la
percentuale degli intervistati che ha prodotto internamente innovazioni
di prodotto/servizio e/o di processo sfiora il 40%, tra i piccoli operatori
tale quota non raggiunge il 32% (tabella 8). Risultano invece fondamentali, per le imprese che svolgono l’attività di innovazione grazie a rapporti
ed accordi di collaborazione, i principali interlocutori commerciali, ossia
i fornitori e le altre aziende clienti. In particolare, i fornitori sono più
diffusamente citati come principali partner dalle medie imprese (20,4%
del totale di chi ha effettuato almeno una attività innovativa). Tra le
piccole imprese manifatturiere appaiono più importanti i rapporti con
le imprese clienti (24,9%), a cui seguono quelli con i fornitori (20,6%).
In generale, nelle realtà più piccole rilevano anche i rapporti e gli accordi
con le altre imprese appartenenti allo stesso gruppo, soggetti a cui fa riferimento quale partner principale per l’attività di innovazione il 9,4% degli
operatori. Decisamente più frequenti per le medie imprese i rapporti e
studi e ricerche
155
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Francesca Bartoli
Tab. 9 - Collocazione del partner principale con cui l’impresa ha sviluppato rapporti o accordi
di cooperazione per favorire l’attività di innovazione
Piccole imprese
Medie Imprese
Nella provincia in cui ha sede amministrativa l’impresa
42,2
25,3
Nella regione in cui ha sede amministrativa l’impresa
23,6
25,5
Sul restante territorio nazionale
27,6
35,3
6,6
13,9
275
750
All’estero
Totale rispondenti
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota valori percentuali; domanda posta solo a coloro che hanno compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto
o di processo e che hanno sviluppato accordi con partner esterni all’impresa (275 piccole imprese e 750 medie imprese)
gli accordi di collaborazione con i centri di ricerca e le università
(10,7%). Come osservato in precedenza per altri aspetti dell’attività
innovativa, anche in questo ambito si osserva una divaricazione tra
piccole e medie imprese: sono poche, infatti, le aziende di dimensioni
minori che dichiarano di collaborare in via preferenziale con il mondo
della ricerca in senso stretto (4,0% degli intervistati).
Anche l’analisi relativa alla localizzazione geografica del principale
partner per l’attività innovativa segnala una demarcazione tra piccole e
medie imprese. Come illustrato nella tabella 9, le realtà di dimensioni
minori privilegiano i rapporti di prossimità: per il 42,2% di esse il
partner principale nell’attività innovativa è collocato nelle medesima
provincia, mentre tale situazione si riscontra solo per poco più di un
quarto degli operatori più grandi. Di contro, sono le medie imprese
manifatturiere che più diffusamente intrattengono rapporti di cooperazione per l’innovazione con interlocutori esteri (13,9% dei rispondenti), quota che si dimezza tra le aziende del settore di dimensione
minore (6,6%). Per buona parte degli operatori più grandi, inoltre, il
partner principale nell’attività di innovazione è collocato sul territorio
nazionale, al di fuori della regione in cui ha sede l’azienda (35,3%),
mentre tale dimensione geografica della collaborazione non riguarda
nemmeno un terzo degli operatori più piccoli (27,6%), sebbene risulti
essere per essi la seconda per importanza.
156
economiA itALiAnA 1•2012
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
Tab. 10 - Grado di importanza delle fonti di informazione per l’attività di innovazione
di prodotto/servizio e/o di processo
Piccole imprese
Medie Imprese
Imprese clienti
23,4
18,9
Fonti interne all’impresa
20,9
16,9
Fornitori
20,9
46,4
Fiere, conferenze, pubblicazioni di settore
-22,9
-7,7
Associazioni di categoria
-30,8
-27,2
Altre imprese appartenenti allo stesso gruppo
-31,8
-30,0
Altre imprese concorrenti
-35,3
-33,4
Centri di ricerca / università
-69,2
-40,4
402
1.228
Totale rispondenti
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota saldo percentuale, dato dalla differenza tra la somma delle modalità di risposta “alto” e “medio” e la somma delle modalità
di risposta “basso” e “nullo”; domanda posta solo a coloro che hanno compiuto almeno una tipologia di innovazione di prodotto
o di processo (402 piccole imprese e 1.228 medie imprese)
Nella tabella 10 sono riportate le principali fonti di informazione a
cui un’impresa può ricorrere per svolgere l’attività di innovazione. Un
primo dato che spicca è che tre sono i canali di primaria importanza
per le imprese, a prescindere dal settore di appartenenza o dalla dimensione dell’azienda: fornitori, imprese clienti e fonti interne. Il grado di
importanza è tuttavia diverso tra i due aggregati. Gli operatori più
piccoli assegnano grande rilevanza ai fornitori (saldo percentuale pari
al 23,4%3), mentre nelle medie imprese manifatturiere giocano un ruolo
fondamentale le fonti interne (46,4%). Si segnala invece in senso negativo il contributo proveniente da centri di ricerca e università, dato che
indica il prevalere di chi dichiara che questi istituti hanno scarsa o nulla
importanza per l’attività innovativa. Il saldo percentuale riferito alle
medie imprese manifatturiere è pari al -40,4%, mentre è ancora più
netto il giudizio degli operatori industriali di dimensioni minori, per i
quali centri di ricerca e università si collocano all’ultimo posto nella
3. il saldo percentuale è calcolato come differenza tra la somma delle modalità di
risposta “alto” e “medio” e la somma delle modalità di risposta “basso” e “nullo”.
studi e ricerche
157
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Francesca Bartoli
Tab. 11 - Innovazione organizzativa o di marketing nel triennio 2009-2011
Piccole imprese
Introduzione di nuove modalità di organizzazione
del lavoro (definizione di nuove unità divisionali o operative,
riduzione dei livelli gerarchici, decentramento
delle decisioni aziendali)
32,4
Modifiche estetiche dei prodotti, incluso il confezionamento
Introduzione di cambiamenti nelle relazioni con altre imprese
(accordi produttivi e commerciali, partnership,
accordi di subfornitura, esternalizzazione)
Adozione di nuove (o significativamente migliorate)
pratiche di commercializzazione o distribuzione
dei prodotti o servizi, quali commercio elettronico,
franchising, vendite dirette, licenze di distribuzione
Adozione di nuove (o significativamente migliorate)
tecniche manageriali per potenziare l’uso e lo scambio
di informazioni, conoscenza e competenze tecniche e lavorative
all’interno dell’impresa
Introduzione di cambiamenti nelle relazioni
con istituzioni pubbliche (accordi produttivi e commerciali,
partnership, accordi di subfornitura, esternalizzazione)
Medie Imprese
43,5
25,6
40,6
25,4
24,7
23,3
28,1
22,6
33,0
9,1
12,7
Non sa - non indica
42,2
30,3
Totale rispondenti
540
1.408
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì
lista dei partner principali per l’innovazione (-69,2%). Insomma, il
canale di trasmissione tra saperi industriali e saperi accademici mostra
una volta di più una dimensione insufficiente e, al tempo stesso, un
potenziale da sviluppare nell’interesse reciproco. Risulta poco rilevante
anche il ruolo delle altre imprese appartenenti allo stesso gruppo, specie
nel settore industriale (rispettivamente -31,8% per le piccole aziende e
-30% per le medie).
Consideriamo infine i risultati relativi alla terza forma di innovazione
considerata nell’indagine, ovvero quella relativa all’organizzazione e alle
attività di marketing. Come si evince dalla tabella 11, questa tipologia
di innovazione è più diffusa tra gli operatori più grandi: quasi 70% degli
intervistati in questa categoria dichiara di aver introdotto almeno una
delle forme segnalate in tabella, a fronte del 57,8% delle imprese indu158
economiA itALiAnA 1•2012
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
striali più piccole. Anche nella manifattura prevale l’introduzione di
nuove modalità di organizzazione del lavoro (come la definizione di
nuove unità divisionali o operative, la riduzione dei livelli gerarchici o
il decentramento delle decisioni aziendali), sia tra le piccole imprese
(32,4% dei casi) che, in misura maggiore, tra le medie (43,5%). Appaiono inoltre rilevanti le modifiche estetiche dei prodotti, incluso il
confezionamento, specie per le aziende di medie dimensioni (40,6%
degli intervistati). Per le piccole imprese manifatturiere questa forma è
poco più diffusa rispetto all’introduzione di cambiamenti nelle relazioni
con istituzioni pubbliche (quali accordi produttivi e commerciali,
partnership, accordi di subfornitura, esternalizzazione), dichiarata dal
25,4% dei rispondenti (un dato analogo a quello delle medie, 24,7%).
Circa il 23% degli operatori di dimensioni minori ha adottato nuove (o
significativamente migliorate) pratiche di commercializzazione o distribuzione dei prodotti o servizi (quali commercio elettronico, franchising, vendite dirette, licenze di distribuzione) e nuove (o significativamente migliorate) tecniche manageriali per potenziare l’uso e lo
scambio di informazioni, conoscenza e competenze tecniche e lavorative all’interno dell’impresa. Anche tra le medie imprese queste modalità risultano di una certa importanza: il 33% degli intervistati ha introdotto innovazione nelle tecniche manageriali, mentre il 28,1% ha investito nell’adozione di pratiche di commercializzazione o distribuzione
dei prodotti o servizi. Anche nell’industria risulta poco diffusa l’introduzione di cambiamenti nelle relazioni con altre imprese (quali accordi
produttivi e commerciali, partnership, accordi di subfornitura, esternalizzazione), sia tra le piccole (9,1%) che tra le medie imprese (12,7%).
Come già rilevato nelle precedenti edizioni dell’indagine, e come
messo qui in evidenza dalla tabella 12, il principale fattore di ostacolo
all’attività di innovazione – sia essa di prodotto, di processo o organizzativa – resta l’eccessiva onerosità dell’investimento, a cui si accompagnano benefici troppo distanti nel tempo, e questo indipendentemente
dalla dimensione di impresa (saldo percentuale pari al 45,6% per le
studi e ricerche
159
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Francesca Bartoli
Tab. 12 - Grado di importanza dei fattori di ostacolo all’attività di innovazione
Piccole imprese
Medie Imprese
45,6
46,6
27,0
19,0
La scarsità dei finanziamenti pubblici
20,4
30,8
La presenza di imprese consolidate che dominano il mercato
11,1
17,3
La mancanza di personale qualificato
La difficoltà di individuare / stringere accordi
con partner con cui collaborare
1,9
6,1
0,0
11,4
Una domanda insufficiente per prodotti o servizi innovativi
-1,9
6,8
La scarsità di informazioni sulle tecnologie e/o sui mercati
-12,6
4,0
540
1.408
I costi elevati connessi all’investimento,
con benefici troppo lontani nel tempo
La difficoltà ad ottenere finanziamenti bancari
o capitale di rischio per l’attività di innovazione
Totale rispondenti
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota saldo percentuale, dato dalla differenza tra la somma delle modalità di risposta “alto” e “medio” e la somma delle modalità
di risposta “basso” e “nullo”
piccole imprese, 46,6% per le medie). La poca sostenibilità dei costi
connessi all’attività di innovazione è un punto di attenzione anche per
la mancanza di adeguate risorse finanziarie provenienti dai canali
esterni, con una distinzione: le piccole imprese lamentano soprattutto
la difficoltà di ottenere finanziamenti bancari o capitale di rischio
(27%); le medie invece indicano la scarsità di finanziamenti pubblici
come secondo fattore di ostacolo (30,8%), a cui segue ad una certa
distanza la difficoltà di ottenere i finanziamenti privati (19,7%). Tra i
fattori di ostacolo che sono di scarsa o nulla importanza, le imprese di
dimensioni minori segnalano la domanda insufficiente per prodotto o
servizi innovativi (-1,9%) e soprattutto la scarsità di informazioni sulle
tecnologie e/o sui mercati (-12,6%). Tutti i fattori elencati sono invece
ritenuti ostacoli relativamente importanti dalle medie imprese, seppure
con intensità diverse.
3. L’internazionalizzazione
La capacità delle imprese italiane di affacciarsi sui mercati esteri rappresenta la leva strategica principale per tornare a crescere nel medio-lungo
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
periodo a ritmi più sostenuti. Nel caratterizzare l’attività di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese manifatturiere, si considera
innanzitutto come è avvenuto il primo contatto con l’estero. Segue
un’analisi della dimensione temporale (anni di operatività) spaziale
(mercati di sbocco) e quantitativa (quota di spesa/fatturato), distinguendo per tipologia specifica di attività svolta. Infine, relativamente
alla sola attività di esportazione, viene presa in esame l’eventuale
presenza di innovazioni di prodotto o servizio nel passare dal mercato
locale a quello estero, o nell’aumentare il numero di mercati di sbocco.
Dai risultati dell’indagine emerge che, per quanto riguarda il settore
manifatturiero, il 29,4% delle piccole imprese e il 68,8% delle medie
imprese intrattengono rapporti con l’estero. L’individuazione delle
controparti commerciali costituisce il primo (e forse più importante)
scoglio che le piccole imprese incontrano nel momento in cui decidono di espandere la propria attività all’estero. L’esperienza degli intervistati riportata in tabella 13 ci parla di iniziative autonome, ovvero la
partecipazione a fiere di settore (per le medie imprese questa voce
raggiunge il 43,4% contro il 37,1% delle piccole), il passaparola tra
imprese (22% piccole, 16,9% medie), la ricerca diretta su internet, con
piattaforme di “incontri” e banche dati (14,5% piccole, 11,7% medie).
Dunque, la rete come driver, intesa sia in senso letterale, sia in senso
relazionale. Il ricorso a soggetti esterni appare ancora limitato, probabilmente legato a una mancata conoscenza di iniziative e servizi ad hoc,
così come a un’innata tendenza a “fare da sé”. In questo senso, il dato
può essere letto in positivo: sul fronte dell’internazionalizzazione
esistono ancora ampi spazi di manovra, grazie a un’adeguata attività
informativa e all’intervento di soggetti specializzati che accompagnino
l’impresa nei primi passi verso i mercati esteri. In particolare, risposte
e soluzioni concrete possono arrivare dalle banche, specie se a loro
volta internazionalizzate, e quindi in grado di fornire, accanto ai tradizionali servizi per le esportazioni, una consulenza specifica su
approccio iniziale ai mercati esteri, ricerca di controparti e investistudi e ricerche
161
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Francesca Bartoli
Tab. 13 - Il primo contatto con le controparti estere
Piccole imprese
Medie Imprese
Durante fiere di settore
37,1
43,4
Grazie a contatti forniti da altre imprese
22,0
16,9
Ricerca diretta tramite internet e banche dati
14,5
11,7
Grazie a specifiche iniziative proposte da soggetti pubblici
6,3
4,7
Tramite la propria associazione di categoria
2,5
2,7
Tramite i consorzi export
2,5
2,3
Grazie a iniziative e servizi offerti dalla banca
1,9
0,8
Non sa - non indica
13,2
17,4
Totale rispondenti
159
969
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota valori percentuali
menti, nonché supporto in loco grazie alle presenza di una rete capillare dislocata a livello internazionale4.
Residuale, indipendentemente dalla dimensione di impresa, il ricorso
a specifiche iniziative proposte da soggetti pubblici come camere di
commercio, ICE, missioni governative all’estero.
Per quanto riguarda il tipo di attività svolta dalle imprese che intrattengono rapporti internazionali (tabella 14), le differenze maggiori tra
piccole e medie imprese sono relative all’acquisto di materie prime o
4 La letteratura più recente ha evidenziato l’importanza dell’intensità del rapporto
banca-impresa come fattore che aumenta la probabilità dell’impresa di svolgere attività
all’estero, con effetto amplificato nel caso in cui l’impresa abbia come banca principale
una banca internazionalizzata. i dati dell’indagine confermano questa tesi: la percentuale
di imprese operative sui mercati esteri aumenta all’aumentare dell’intensità (approssimata
dalla durata) del rapporto con la banca principale, e in misura maggiore se la banca è
anch’essa internazionalizzata. sempre sulla base dei dati dell’indagine 2011, Bartoli, Ferri,
maccarone, rotondi (2011), mostrano come la capacità di esportare delle piccole
imprese sia maggiore se l’interlocutore bancario ha una dimensione internazionale, in
quanto in grado di fornire una gamma più ampia di servizi a supporto dell’attività di export
che vanno oltre l’operatività ordinaria (assicurazione crediti, gestione di pagamenti e
incassi, ecc.), quali ad esempio la segnalazione di controparti commerciali o di opportunità di investimento all’estero, così come una specifica assistenza legale e fiscale e la
presenza di una rete estera che faciliti il reperimento di credito bancario in loco.
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
Tab. 14 - Tipologie di attività internazionale svolte dall’impresa
Piccole imprese
Medie Imprese
Vendita di prodotti o servizi all’estero
86,8
90,6
Acquisto di materie prime o semilavorati dall’estero
45,9
62,2
Produzione all’estero utilizzando strutture pre-esistenti
10,7
11,9
Delocalizzazione o apertura di una sede all’estero
8,2
12,8
Nessuna di queste attività
4,4
2,3
159
969
Totale rispondenti
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì
semilavorati dall’estero. Infatti, la maggior parte delle piccole imprese
manifatturiere acquista gli input produttivi sul mercato interno e solo
il 45,9% ricorre ai mercati esteri, al contrario delle medie imprese, che
importano materie prime e semilavorati nel 62,2% dei casi. Può
sembrare sorprendente, ma è proprio qui – dal lato cioè degli acquisti
più che da quello delle vendite – che si coglie la maggior capacità delle
medie imprese ad inserirsi nelle catene di fornitura internazionali. Differenze meno marcate tra piccole e medie imprese emergono rispetto alle
altre forme di internazionalizzazione. La quota di operatori che
vendono prodotti all’estero non è molto diversa (86,8% per le piccole
e 90,6% per le medie), confermando quindi la notevole propensione
ad esportare delle imprese manifatturiere di dimensioni minori, non
inferiore a quella delle più grandi. La stessa cosa vale sia per la produzione all’estero utilizzando strutture pre-esistenti, come accordi di
produzione, joint-venture, fusioni e acquisizioni con altre imprese, sia,
seppur in minor misura, per la delocalizzazione o l’apertura di nuove
sedi all’estero.
Le medie imprese, come atteso, vantano rapporti consolidati con
l’estero da più tempo rispetto alle piccole imprese (tabella 15). Infatti,
il 71,5% delle medie imprese svolge attività internazionale da oltre dieci
anni, contro il 47,2% delle piccole; tra queste ultime, viceversa, si trova
una quota maggiore di aziende che operano sull’estero da meno di un
studi e ricerche
163
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Francesca Bartoli
Tab. 15 - Da quanto tempo l’impresa svolge attività internazionale?
Piccole imprese
Medie Imprese
7,5
1,2
Da 1 a 5 anni
22,0
12,3
Da 6 a 10 anni
22,6
13,8
Da oltre 10 anni
47,2
71,5
Non sa - Non indica
0,6
1,1
Totale rispondenti
159
969
Da meno di un anno
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota valori percentuali
Tab. 16 - Numero di mercati esteri di operatività
Piccole imprese
Medie Imprese
20,1
7,0
9,4
8,3
Da 3 a 5 mercati
35,2
22,8
Oltre 5 mercati
33,3
60,1
Non sa - Non indica
1,9
1,9
Totale rispondenti
159
969
Un solo mercato
Due mercati
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota valori percentuali
anno (7,5% contro l’1,2% delle medie). L’interesse per i mercati esteri
non è dunque un fenomeno nuovo, sebbene per le piccole si sia intensificato soprattutto negli anni più recenti, probabilmente a seguito della
debolezza della domanda interna e della necessità, resa più urgente dalla
crisi del 2008-2009, di diversificare i mercati di riferimento.
Allo stesso modo, le medie imprese manifatturiere operano su molti
più mercati (tabella 16): il 60% dichiara infatti di avere relazioni con
oltre cinque mercati, contro appena un terzo delle piccole imprese. Il
20% di queste ultime opera su un solo mercato (contro il 7% delle
medie), mentre la maggior parte di piccoli operatori (35,2%) si
rapporta a un numero di mercati compreso tra tre e cinque. Questi risultati sono particolarmente interessanti, dato che la differenziazione dei
mercati di riferimento, oltre a consentire un controllo maggiore del
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
Tab. 17 - Mercati di sbocco
Export
Import
Produzione
Piccole Medie Piccole Medie Piccole Medie
imprese imprese imprese imprese imprese imprese
Principali paesi europei (es. Francia, Germania,
Spagna, Regno Unito…)
81,9
89,6
74,0
78,1
36,0
45,1
Est Europa (nuovi membri UE, Balcani e Russia)
36,2
59,2
16,4
33,2
20,0
34,6
Altri paesi europei (es. Svizzera, Belgio, ecc.)
42,0
59,8
21,9
33,7
32,0
24,2
America settentrionale
21,7
33,7
5,5
14,9
20,0
15,9
America centrale e Sud America
18,1
34,4
5,5
10,9
16,0
15,9
Cina, India
19,6
35,8
17,8
33,3
24,0
26,9
Altri paesi asiatici
Paesi del bacino del Mediterraneo
(Nord Africa, Medio Oriente)
21,0
36,7
12,3
14,9
8,0
9,3
26,8
38,3
2,7
10,8
16,0
12,
Africa centrale e del Sud
10,1
18,2
1,4
5,1
4,0
6,6
Oceania
7,2
18,5
1,4
3,8
4,0
4,4
Totale rispondenti
138
878
73
603
25
182
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di rispose sì
rischio, svincolando i risultati aziendali dagli andamenti di pochi
partner commerciali, può essere anche indice di successo competitivo.
Nello specifico, la tabella 17 evidenzia un ruolo preponderante dei
mercati europei più tradizionali, principale destinazione delle esportazioni sia per le piccole (81,9%) che per le medie imprese (89,6%),
seguiti a distanza dai paesi dell’Est europa e dagli altri paesi europei.
Tali risultati non sorprendono: le destinazioni più vicine sono naturalmente predominanti, dati i minori costi di accesso, legati non solo alla
contiguità geografica, ma anche a quella culturale, sia d’impresa che
generale. Dalla lettura comparata dei dati dei due campioni è evidente
come al crescere della lontananza aumentino le difficoltà delle piccole
imprese, che avrebbero bisogno di una struttura aziendale più articolata
e/o di un maggior ricorso ad accordi di collaborazione con altre
imprese per poter penetrare mercati più lontani e più complessi. Ad
esempio, Cina e India rappresentano un mercato di sbocco per il 35,8%
studi e ricerche
165
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Francesca Bartoli
Tab. 18 - Quota di fatturato e quota di spesa realizzate con l’estero nel 2010
Export
Import
Piccole
imprese
Medie
imprese
Piccole
imprese
Medie
imprese
Fino al 10%
36,2
28,0
52,1
43,4
Da 11% al 20%
15,9
12,3
11,0
15,4
Da 21% a 50%
28,3
28,5
21,9
23,4
Da 51% a 80%
15,2
23,8
12,3
10,9
Da 81% a 100%
4,3
7,4
2,7
6,8
Totale rispondenti
138
878
73
603
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota valori percentuali
delle medie imprese, contro il 19,6% realizzato presso gli operatori di
dimensione minore (dato tuttavia in crescita rispetto a quanto rilevato
nelle scorse edizioni dell’indagine sulle piccole imprese).
I principali paesi europei rimangono, per l’intero settore manifatturiero, i più importanti mercati di riferimento anche in relazione all’acquisto di materie prime e semilavorati e alla produzione al di fuori dei
confini nazionali, effettuata sia attraverso accordi di collaborazione e
joint-venture con partner stranieri, sia tramite l’apertura di nuove sedi
(investimenti greenfield e delocalizzazioni). Per quanto riguarda le
importazioni, si nota inoltre come le medie imprese acquistino in
maggior misura rispetto alle piccole anche al di fuori dell’Europa.
L’attività esportativa è sistematica per l’89% delle medie imprese
contro il 63,8% delle piccole. La quota di fatturato realizzata all’estero
è ovviamente più alta per le medie imprese (tabella 18 – parte sinistra).
Tra queste troviamo infatti il 31,2% di imprese che ha una quota di fatturato estero che supera il 50% del fatturato totale, contro il 19,6% delle
piccole imprese. All’opposto, nelle piccole imprese esportatrici il 36,2%
ha realizzato una quota di fatturato estero non superiore al 10%, contro
il 28% delle medie.
Anche per quanto riguarda l’acquisto di materie prime e semilavorati
all’estero, le medie imprese svolgono un’attività sistematica in percen166
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
tuale maggiore rispetto alle piccole imprese (78,8% contro 53,4%). In
generale, le piccole imprese acquistano dall’estero una quota di input
produttivi inferiore rispetto alle medie imprese (tabella 18 – parte
destra). Per oltre il 50% delle piccole imprese la quota di materie prime
e semilavorati acquistata dall’estero non supera il 10% degli acquisti
totali. Tra le medie imprese, al contrario, troviamo il 17,7% di aziende
che comprano all’estero oltre il 50% delle materie prime e dei semilavorati; dato che prospetta la possibilità che molte di queste imprese
siano inserite in catene di produzione globali.
La strategia di internazionalizzazione commerciale di un’impresa varia
fortemente in relazione ad alcuni parametri che ne identificano il livello
di sofisticazione: in particolare essa si qualifica – oltre che per l’intensità
stessa dell’attività di esportazione, il numero dei mercati di destinazione
raggiunti dall’impresa e la loro prossimità al mercato domestico – anche
per la qualità dei prodotti e servizi venduti all’estero. Nel passare dal mercato interno ai mercati esteri il 44,9% delle piccole imprese e il 38,8%
delle medie ha introdotto modifiche ai propri prodotti o servizi, confermando che, pur se nella maggior parte dei casi le imprese manifatturiere
competono nell’arena internazionale con gli stessi prodotti con cui si misurano sul mercato domestico, tuttavia la competizione globale ha un
qualche ruolo nel sollecitare comportamenti innovativi (tabella 19)5. In
particolare, tra le piccole imprese si riscontrano percentuali più alte di
aziende che hanno introdotto un nuovo prodotto (10,1%, a fronte di un
8,7% registrato presso le medie) o che hanno fatto modifiche marginali
ai prodotti esistenti, ad esempio sull’estetica (25,4% contro 19,8%), il
che evidenzia come, in alcuni casi, l’offerta delle aziende di dimensioni
minori, per essere collocata sul mercato estero, necessiti di un upgrading
qualitativo che non sempre è richiesto alle medie imprese.
5. Anche in questo caso appare rilevante il tema del rapporto banca-impresa. Ad
esempio, l’evidenza empirica offerta dal lavoro di Frazzoni, mancusi, rotondi, sobrero,
Vezzulli (2011) mostra un’interessante relazione tra stabilità delle relazioni bancaimpresa, capacità di innovare e capacità di esportare.
studi e ricerche
167
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Francesca Bartoli
Tab. 19 - Upgrading qualitativo nel il passaggio dal mercato nazionale a quello estero
Piccole imprese
Medie Imprese
Introduzione di un nuovo prodotto
10,1
8,7
Miglioramento significativo dei prodotti esistenti
16,7
16,6
Modificazioni marginali ai prodotti esistenti
25,4
19,8
Nessuna modificazione di prodotto
55,1
61,2
Totale rispondenti
138
878
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì
Tab. 20 - Upgrading qualitativo nell’ampliamento del numero di mercati di esportazione
Piccole imprese
Medie Imprese
Introduzione di un nuovo prodotto
10,1
9,5
Miglioramento significativo dei prodotti esistenti
15,2
16,1
Modificazioni marginali ai prodotti esistenti
23,2
20,0
Nessuna modificazione di prodotto
56,5
61,5
Totale rispondenti
138
878
Fonte Indagine sulle piccole imprese e Indagine sulle medie imprese manifatturiere, UniCredit Family & SME Italy Network
Nota risposte multiple; percentuale di risposte sì
Considerazioni pressoché analoghe valgono per le strategie di allargamento dei mercati di vendita (tabella 20), anche se in questo caso le
differenze tra piccole e medie imprese sono un po’ meno nette, presumibilmente perché l’upgrading qualitativo prima citato a proposito delle
piccole imprese è stato già realizzato nel primo contatto con l’estero o
perché il nuovo mercato è molto simile ad altri mercati dove l’impresa
è già presente.
4. Conclusioni
Le trasformazioni in atto nei sistemi economici mondiali rendono più
complessa la definizione di competitività e più articolato l’insieme dei
fattori necessari a misurarla. In quest’ottica, andare al di là di dati settoriali aggregati e capire le strategie a disposizione delle singole imprese
è fondamentale, in una concezione di sviluppo endogeno che parta dal
basso e si diffonda per imitazione, fino a pervadere il territorio nel suo
168
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
complesso. I risultati di indagine presentati in questo capitolo fanno
riferimento in particolare a due dimensioni fondamentali per la crescita
e lo sviluppo del tessuto imprenditoriale italiano: l’innovazione e l’internazionalizzazione.
L’analisi evidenzia la necessità di attivare strumenti e processi di sistema
che favoriscano l’innovazione. Non mancano in Italia iniziative in tal
senso; tuttavia è carente l’aspetto sistemico, l’azione sinergica tra gli attori
economici ed istituzionali a vario titolo coinvolti nei processi di innovazione. Da parte delle imprese, è auspicabile una maggiore e migliore capacità di interagire con il mondo della ricerca universitaria – che strutturalmente rappresenta l’ambito in cui più si sviluppa la ricerca in Italia – capacità ancora alquanto carente. Anche se in maniera meno drammatica,
questo aspetto riguarda anche le relazioni tra le imprese: scarseggiano,
infatti, le forme di collaborazione o di aggregazione che consentirebbero
a gran parte degli operatori italiani di superare l’ostacolo all’attività innovativa posto dalla piccola dimensione e di potenziare il trasferimento
tecnologico. In effetti, uno dei più recenti strumenti a disposizione delle
imprese, il Contratto di Rete, è stato concepito anche per favorire i
processi di innovazione. Alle istituzioni è richiesta la capacità di definire
strumenti agili ed efficaci che riescano a mettere a sistema le molte iniziative innovative o volte a promuovere l’innovazione – non ultime le startup universitarie. Il sistema finanziario, d’altro canto, può predisporre strumenti a favore delle imprese innovative, che siano al tempo stesso competitive, e può svolgere un ruolo di stimolo ai processi di innovazione.
In termini più generali, sarebbe utile – a livello Paese – sostenere i
processi innovativi in due ambiti. In primo luogo, potenziando il
mercato del private equity, i cui operatori giocano in altri Paesi un ruolo
di primo piano specie nel caso di nuove imprese innovative. In secondo
luogo, puntando al miglioramento della capacità di attrarre in Italia
imprese multinazionali, la cui presenza costituisce uno dei possibili
canali di trasferimento tecnologico e di spinta all’innovazione.
studi e ricerche
169
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Francesca Bartoli
L’internazionalizzazione rimane un tema centrale per la crescita del
paese, e l’indagine conferma che le piccole e medie imprese hanno registrato negli ultimi anni una decisa accelerazione su questo fronte.
Benché la dimensione d’impresa costituisca una variabile decisiva nel
processo di internazionalizzazione – che richiede ingenti investimenti
economici, specifiche competenze delle risorse umane, capacità di
movimento in paesi spesso sconosciuti – l’interesse delle piccole
imprese per i mercati esteri non è in realtà un fenomeno nuovo. L’indagine, tuttavia, sottolinea come negli ultimi cinque anni tale interesse
si è intensificato, probabilmente in risposta alle difficoltà causate dalla
crisi, oltre che alla crescente globalizzazione. Ciò che emerge è certamente una grande eterogeneità nei comportamenti, cui fanno da sfondo
caratteristiche comuni che permettono di individuare potenziali aree
di intervento. Risulta confermata, in particolare, l’idea che ancora
troppo spesso l’impresa internazionalizzata giochi da sola. Le risposte
degli intervistati raccontano prevalentemente storie legate ad iniziative
autonome, soprattutto nell’individuazione dei mercati e dei partner
esteri di riferimento: si parla spesso di passaparola, ricerca diretta su
internet, partecipazione a fiere di settore. Ciò risulta tanto più vero per
le piccole imprese, che non hanno ancora trovato un efficiente partner
istituzionale per le loro strategie di ricollocazione all’estero.
Il “fare da sé” tuttavia, rappresenta spesso un vincolo alle strategie di
internazionalizzazione, limitandone i benefici connessi all’allargamento
dei mercati di sbocco (o di fornitura) e di differenziazione dei rischi.
Non è un caso, quindi, che le strategie più complesse di internazionalizzazione siano spesso associate ad una collaborazione strategica tra
imprese. Le imprese con una più elevata intensità relazionale e più
aperte alle collaborazioni di tipo strategico sono anche quelle che sono
maggiormente coinvolte nei processi di internazionalizzazione e che lo
sono in maniera più sistematica e persistente, riuscendo a mantenere
nel tempo rapporti commerciali attivi con un numero maggiore di
paesi. L’indagine segnala quindi che sul fronte dell’internazionalizza170
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Innovazione e internazionalizzazione nelle PMI: i risultati dell’indagine UniCredit 2011
zione delle piccole e medie imprese permangono ancora ampi spazi di
manovra per quanto riguarda una adeguata attività informativa, sia in
merito alle caratteristiche dei mercati esteri dove si intende andare, sia
in merito alla possibilità di un incontro e di un collegamento tra
imprese. A livello pubblico, diventa sempre più urgente la riforma degli
enti per l’internazionalizzazione delle imprese; a livello privato, rimane
un’area di intervento per soggetti specializzati, che accompagnino l’impresa nella penetrazione e nel presidio dei mercati esteri.
Bigliografia
BARTOLI F., FERRI G., MURRO P., ROTONDI Z. (2011), Can banks help small
businesses’ export performance?, in: D. Masciandaro e G. Bracchi (a cura di),
Banche imprese: competitività, internazionalizzazione e crescita, Fondazione
Rosselli, XV Rapporto sul Sistema Finanziario, 2011, Bancaria Editrice.
FRAZZONI S., MANCUSI M., ROTONDI Z., SOBRERO M., VEZZULLI A. (2011),
Relationship with banks and access to credit for innovaiton and internationalization of SMEs, in: D. Masciandaro e G. Bracchi (a cura di), Banche imprese:
competitività, internazionalizzazione e crescita, Fondazione Rosselli, XV
Rapporto sul Sistema Finanziario, 2011, Bancaria Editrice.
QUINTIERI B. (2006), Le misure della competitività nel nuovo contesto internazionale: dai settori alle imprese. Mimeo.
UNICREDIT (2011), Le aggregazioni di rete: modello vincente per la sostenibilità
e lo sviluppo, «VIII Rapporto UniCredit sulle Piccole imprese a analisi
comparata tra piccole e medie imprese manifatturiere».
UNICREDIT (2010), La ricerca di nuovi mercati: la sfida delle piccole imprese tra
cambiamento e tradizione, «VII Rapporto UniCredit sulle Piccole imprese».
studi e ricerche
171
EI_01012_Bartoli_pp.147-172 01/06/12 19.28 Pagina 172
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Rassegna
della letteratura
economica
a cura di Antonio Maria Fusco
Università di Napoli «Federico II»
EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 174
EI_01012_Rassegna_pp.173-210 01/06/12 19.21 Pagina 175
Letture
Tommaso Padoa-Schioppa: gli anni spesi da ministro
Una premessa. Ci sono dichiarazioni che, ricondotte a chi le pronunciò,
finiscono quasi per delinearne la personalità e sintetizzarne i convincimenti: tradotti poi se mai in scelte politiche che possono a volte denominare addirittura un’epoca. Un esempio significativo di tali esiti? Si mediti un istante sul seguente passo di un discorso famoso, pronunciato dal
presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, nel luglio del
1932: «I pledge you, I pledge myself, to a new deal for the American
people». L’espressione «new deal», cioè «nuovo corso», contenuta in
tale dichiarazione, invero un po’ enfatica, ha dato appunto il nome a quell’insieme di riforme dell’economia e della società americane con il quale
il governo statunitense affrontò, negli anni trenta, gli anni poi non a caso
defniti del «new deal», i problemi posti dalla «grande depressione».
Ed essendo Roosevelt passato alla storia, fra l’altro, come l’uomo del
«new deal», come l’uomo che pose le premesse per avviare la ripresa
(destinata, si sa, a dare il meglio di sé solo a secondo conflitto mondiale
deflagrato), verrebbe fatto di dire che l’espressione usata gli ha portato
fortuna. Ma ci sono anche dichiarazioni, passate se mai in proverbio, che
non hanno giovato al buon nome di chi le pronunciò. Un esempio scelto
a caso? Quello di Enrico IV, che sembra abbia cinicamente detto, al fine
di giustificare l’abiura a cui si accingeva, lui protestante, per poter cingere la corona di un paese cattolico, quale in larga maggioranza era la
Francia: «Paris vaut bien une messe». Pure, è lo stesso sovrano al quale
si attribuisce un apprezzabile divisamento: «je veux que le dimanche
chaque paysan ait sa poule au pot». Traguardo, per quei tempi, niente
affatto facile da tagliare, e dunque impegnativo per chi se lo poneva come
obiettivo, non importa se poi raggiunto. Avendo però il cinismo della
prima presa di posizione fatto premio sui generosi propositi della
seconda, la figura di quel re ha finito, per certi versi, col soffrirne.
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D’accordo, forse si concederà, non senza però chiedersi: ma è proprio
il caso che, per avviare una breve riflessione sugli anni spesi da
Tommaso Padoa-Schioppa in veste di ministro, si debba prenderla così
alla lontana? Non necessariamente. Se però siamo stati indotti a
rammentare certi remoti o remotissimi precedenti, è perché egli si
lasciò andare, in tale veste, a impiegare termini e a rilasciare dichiarazioni (il cui eco sembra non essersi ancora dissolto) che non sapremmo
dire quanto abbiano giovato, nelle polemiche del tempo, alla sua immagine: a livello di grosso pubblico, almeno. Già la parola «tesoretto», ricorsa a proposito delle maggiori possibilità di spesa consentite dall’extra
gettito dovuto a entrate fiscali non previste e, soprattutto, al successo
nella lotta all’evasione fiscale, ha fatto discutere; e più ancora ha suscitato riserve la parola «bamboccioni», ricorsa nell’accusa da lui severamente rivolta a quei giovani che non saprebbero o non vorrebbero
affrancarsi dai genitori. Ma addirittura «scioccante» è risultato il suo
elogio delle tasse, definite «bellissime» e addirittura «una delle cose
più belle che ci siano», quasi potessero concorrere a delineare il volto
stesso della Bellezza, come qualcuno nell’ascoltare le sue parole avrebbe
potuto, al limite, essere anche indotto a ritenere.
E delle stupefatte negative reazioni suscitate, segnatamente da
quest’ultima «scandalosa» asserzione, egli era pienamente consapevole. Ne prendeva infatti atto, a volte anche con una punta di manifesto fastidio, ma non tornava sui suoi passi. E non di rinnegarla egli
sentiva il bisogno, bensì di far seguire alla provocazione la spiegazione.
Si adoperava perciò a chiarirne il senso, a evidenziare le ragioni che la
motivavano, a rivendicare l’alto incompreso significato che gli sembrava
rivestisse. Il suo, confessava, era stato in fondo un gesto (e i gesti certo
contano) che aiutasse a scorgere il positivo là dove si è pressoché soliti
vedere nient’altro che il negativo: un gesto purtroppo solo verbale,
mancandogli la possibilità di compiere gesti fisici, sicuramente più spettacolari. Per essere efficaci, però, i gesti (verbali o fisici che siano)
devono essere controversi, devono scuotere, devono suscitare reazioni.
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E definire bellissime le tasse era proprio un gesto di tal fatta, un gesto
che, essendo verbale, ha potuto trovare posto, en exergue, anche nella
prima pagina del volume da cui prendiamo le mosse per questa nota,
volume che ospita un nutrito numero di suoi interventi pubblici sollecitati, nel corso del biennio in cui ricoprì la carica di ministro dell’Economia e delle Finanze, dalle occasioni le più disparate, nonché una selezione delle interviste concesse, nel medesimo arco di tempo, a giornalisti di testate italiane e straniere e della televisione*. E mette forse conto,
in apertura di discorso, soffermarsi proprio su quella controversa affermazione, perché essa aiuta non poco a porre in luce convincimenti che
sono a monte di una concezione della vita, all’insegna della probità e
del rigore, che ha largamente ispirato i suoi comportamenti di cittadino
e di uomo prestato alle istituzioni. Vediamolo, pur se molto sommariamente, cominciando col chiederci: le tasse sono davvero «bellissime»?
Padoa-Schioppa, rammentiamo, non solo lo asseriva con convinzione, ma (si diceva) non era affatto disposto a rimangiarsi simile contestata definizione, fosse pur solo per non alimentare facili motteggi.
«Continuo a pensare (asseriva) che le tasse meritino un elogio: sono
un civilissimo strumento in mano ai cittadini, e non c’è alcun altro
mezzo attraverso il quale essi potrebbero avere servizi fondamentali che
da soli non sono in grado di procacciarsi». Bisognava convincersene e
riaffermarlo con forza in ogni sede, senza arretrare d’un passo. E opera
di convincimento particolarmente meritoria sarebbe sicuramente stata
quella svolta fra i giovani, gli uomini e i cittadini di domani, che in cuor
suo si augurava più rispettosi del pubblico bene e riteneva rappresentassero un terreno più fertile per far passare certi messaggi. Di
qui il tono, fra il giustificatorio e il didascalico, di chi vuol seminare
perché poi si raccolga, che si coglie nelle parole rivolte, in un’intervista
rilasciata al Gt Ragazzi, agli alunni da lui incontrati.
* cfr. t. Padoa-schioppa, Due anni di governo dell’economia (maggio 2006-maggio 2008),
con una Prefazione di Romano Prodi e una nota introduttiva di carlo maria Fenu e
antonio Padoa-schioppa, Bologna, il mulino, 2011, pp. 664, € 48.
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Parole che hanno inizio con una concessione: è comprensibile,
diceva, che a nessuno piaccia privarsi del danaro per pagare tasse definite tuttavia belle, ma non c’è da abbandonarsi, di fronte a tale definizione, a maliziosi commenti e a interessate prese di distanza: tutto sta,
pensava Padoa-Schioppa, a capirsi. Ebbene, egli chiariva, «io volevo
dire che sono bellissime le cose che si ottengono in cambio delle tasse».
E puntigliosamente esemplificava, per spazzare via i dubbi che lo studente al quale si rivolgeva avrebbe potuto nutrire in materia: «la prima
cosa bellissima è la vostra scuola. Se tu non avessi la scuola, non sapresti leggere e scrivere». E ancora: «se quando ti ammali non ci fossero
le tasse, non avresti un’assistenza sanitaria che non costa niente ai tuoi
genitori». E tuttavia, constatava, molti evadono le tasse, che però
restano, anche a non volerle definire «bellissime», decisamente
«belle», in quanto corrispettivo, si sottolineava ancora una volta, dei
servizi ricevuti. Pure, le tasse vengono più o meno largamente evase. Le
ragioni di un comportamento siffatto? «Intanto (veniva pazientemente
spiegato) lo Stato non è tanto bravo a controllare e poi alcune persone
sono molto furbe a non farsi scoprire. È un po’ (si concludeva) come
uno che copia durate la lezione: se il professore è attento, non ci riesce,
se è disattento, può copiare tranquillamente». Quel che più conta, però,
è che «lui rimane un disonesto anche se il professore non se ne accorge». Bisogna essere insomma consapevoli, in entrambi i casi, «che
si sta commettendo un imbroglio». E vergognarsene, perché non basta,
se «questa coscienza è bassissima, riempire il paese di poliziotti e controllori per evitare che qualcuno non paghi le tasse… o che copi».
Disgraziatamente, constatava, «troppo raramente il mancato adempimento fiscale è sentito come qualcosa di cui vergognarsi».
Il ragionamento, come si vede, da spiegazione del perché si pagano le
tasse e del perché sarebbe bello pagarle, si trasforma in esplicito giudizio
di valore: il mancato adempimento fiscale altro non sarebbe che un
comportamento moralmente disdicevole. Va dunque denunciato, severamente denunciato, in ogni occasione e in ogni luogo. Sembra,
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insomma, che Padoa-Schioppa vedesse il pagamento delle tasse, ancor
prima che come interesse del cittadino a tenere in piedi il «contratto sociale», che proprio attraverso quel pagamento in fondo si concretizza,
come dovere da far rispettare anzitutto per ragioni etiche, e solo dopo
per ragioni giuridiche. Andava «sentito», in altre parole, ancor prima
che «imposto». È perciò da escludere che potessero piacergli storie di
corruzione, quali fra l’altro erano quelle che lasciavano spazio a vicende
di tasse evase o eluse. Come accade, vien fatto di ricordare, nel racconto
(fra il surreale e il simbolico) lasciatoci da Francis Scott Fitzgerald, nel
quale il personaggio principale chiede stupito, nell’apprendere che il padre del suo amico è «di gran lunga l’uomo più ricco del mondo», come
mai il suo nome non compaia, nel World Almanac, fra le persone più
facoltose. Ottenendo una risposta tutt’altro che edificante: non vi compare (gli viene detto) perché, pur essendo tanto ricco da possedere «the
diamond as big as the Ritz», vale a dire un enorme diamante a forma di
montagna (non segnalata dalle mappe!) sulla cui cima si erge un castello
incantato, «lui le tasse non le paga, o al massimo ne paga una irrisoria,
ma nessuna sui suoi veri guadagni».
Padoa-Schioppa, nel leggere questa storia, non sarebbe restato indifferente: incliniamo a credere che avrebbe provato fastidio. E si può ben
ipotizzarlo non avendo egli nascosto, in un pubblico incontro nel corso
del quale veniva dibattuto anche il tema dell’evasione fiscale, di sentirsi
vicino alle posizioni di un teologo, e teologo di vaglia, qual è Bruno
Forte, certo non dimentico delle parole di san Paolo: «pagate le tasse;
quelli che svolgono questo compito sono a servizio di Dio; e dunque
rendete a ciascuno ciò che è dovuto: a chi si devono le tasse, date le
tasse; a chi si deve l’imposta, date l’imposta». Una vicinanza di cui si
dà testimonianza nel resoconto di una inviata di The Banker, le cui
pagine sono riprodotte nel volume: per quel che riguarda l’evasione
fiscale, ella scrive, «both the eminent theologian and the Minister
agreed on its nefariousness». Ed egli deve essere rimasto sicuramente
colpito nell’apprendere, lo rese noto Forte in detta occasione, che «havrassegna della letteratura economica
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ing taken confession from many, none have confessed to tax evasion».
Una ragione di più, pensiamo, per trovare fondata la necessità di
un’azione, da lui fortemente auspicata, che rinsaldasse «la coscienza
morale dei cittadini» e conducesse altresì a condannare come «irresponsabile» la polemica anti-tasse. Perché, con forza asseriva, «ci può
essere insoddisfazione sulla qualità dei servizi che si ricevono in cambio,
ma non ci può essere un’insoddisfazione di principio sul fatto che le
tasse esistano e si debbano pagare».
Discorso, il suo, ineccepibile. È pur vero, però, che la prima insoddisfazione alimenta la seconda. Se dunque si vuole combattere efficacemente quest’ultima, bisogna farsi attentamente carico dell’altra. Che
alberga non nell’animo di inguaribili scontenti, ai quali niente sta bene
per partito preso o per pessimismo verso le cose del mondo e la vita in
generale, ma in quello di persone che non hanno bisogno di ricorrere
al cosiddetto «triangolo di Harberger», modello costruito al fine di
misurare la perdita di benessere prodotto da un eccesso di pressione fiscale, per avere la netta percezione di sopportare costi (riduzione del
potere d’acquisto) e disutilità (rinuncia al desiderato paniere di beni)
niente affatto compensati dal gettito che con crescente difficoltà esse
contribuiscono, in varia misura e a vario titolo, ad alimentare. Non
compensati, quei costi e quelle disutilità, vuoi a causa dell’eccesso di
pressione fiscale, vuoi e ancor più a causa del cattivo impiego di un
gettito di entità niente affatto trascurabile, cattivo impiego largamente
testimoniato dalla spesso pessima qualità dei servizi offerti e dai notevoli sprechi che sovente accompagnano la spesa pubblica. Di qui una
insoddisfazione più che giustificata, che si trasforma addirittura in
sdegno (stato d’animo, sia detto en passant, assai pericoloso per la tenuta
della democrazia) quando il discorso cade sulla sensibile quota parte
di gettito destinata a fronteggiare i cosiddetti «costi della politica». Eufemismo che nasconde privilegi di cui godono i numerosissimi membri
di quella che non a caso è stata polemicamente definita «casta»: un’accolita di uomini sfacciatamente dediti alla ricerca del proprio «particu180
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lare» e vergognosamente dimentichi del pubblico bene. Sarebbe perciò
difficile, in un simile contesto, dire ai contribuenti: «faites votre devoir
et laissez faire aux dieux», ché quei politici sono ben lungi dall’essere e
dal comportarsi da «dei». Non che, beninteso, si pretenda tanto, ma la
loro condotta ha ormai superato, fatte le dovute eccezioni, ogni limite
di decenza.
Di ciò Padoa-Schioppa era pienamente consapevole, e non nascondeva che c’era da impensierirsene. Preferiva perciò parlare, prudentemente, di «costi delle funzioni pubbliche», anziché di «costi della politica»: per non alimentare quel «senso di ostilità» nei suoi confronti
«già troppo diffuso (preoccupato constatava) nell’opinione pubblica».
Restava infatti convinto, in veste di cittadino e ancor più in veste di
ministro impegnato nel contenimento e nella razionalizzazione della
spesa pubblica, che «dalla cattiva politica si esce con la buona politica,
non con l’anti-politica». E la buona politica richiedeva, fra l’altro, il
ricorso a una metodologia che da un lato migliorasse il processo decisionale a livello di priorità e di allocazione delle risorse, e dall’altro
favorisse adempimenti, da parte delle pubbliche amministrazioni,
attenti alla qualità e all’efficienza dei servizi forniti: pur se «imparare a
spendere meglio (sconsolatamente diceva) è anche più difficile che
imparare a spendere meno». Bisognava, però, provarci.
Non meraviglia, dunque, che a lui si debba l’introduzione, con la Finanziaria per il 2007, di quel moderno strumento di programmazione e
di gestione dei conti pubblici che va, pagando pegno a forme diffuse di
anglofilia a livello di lessico, sotto il nome di «spending review». Di cui
egli magnificava, non senza fondamento, le potenzialità: attente procedure di analisi e di valutazione della spesa, sottolineava, avrebbero fra
l’altro finito col permettere infatti di spendere di più. Essa si sarebbe
dunque rivelata, col tempo, di notevole aiuto nel sostenere gli sforzi volti
a liberare risorse per destinarle a nuovi bisogni e a nuove priorità. Riteneva, perciò, che «revisione sistematica del bilancio, riesame delle priorità, analisi dell’efficacia delle politiche e dell’efficienza organizzativa
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[dovessero] divenire parte integrante del servizio che i pubblici uffici
rendono al paese». E teneva a precisare che non ci si trovava in presenza
di mere tecniche di gestione: esse, diceva, «sono, devono essere, l’atteggiamento mentale di chi sa di amministrare beni non suoi, risorse
prodotte con fatica dagli italiani (tra questi gli stessi dipendenti pubblici)
attraverso il loro lavoro». E tanto più lo sosteneva in quanto era convinto, non senza buone ragioni, che «gli sprechi quantitativamente maggiori non [fossero] quelli della politica, moralmente più gravi, bensì
quelli del malo uso delle risorse pubbliche nei diversi comparti dell’amministrazione. E per malo uso (chiariva) non intendo la scarsa applicazione al lavoro, i cosiddetti fannulloni, che pure esistono a fianco di tanti
impiegati e funzionari coscienziosi; intendo strutture inutilmente pesanti, troppe province, troppi uffici, troppi tribunali, lavori magari svolti
con scrupolo, ma con tecniche superate, o lavori non più necessari».
Occorreva, dunque, voltare pagina. Non che fosse cosa semplice a
realizzarsi e men che mai c’era da illudersi di poter ottenere grossi risultati in tempi brevi. Ma bisognava pure iniziare. E Padoa-Schioppa dette
prova di grande impegno nei due difficili anni che lo videro sedere sulla
poltrona un tempo occupata, in anni anch’essi finanziariamente quanto
mai problematici per il paese, dall’uomo dinnanzi al cui busto, salendo
le scale del ministero, pressoché quotidianamente passava: Quintino
Sella. E ogni giorno, confessa, gli veniva fatto di chiedersi, alzando su
di lui lo sguardo: «sapremo trovare in noi la stessa forza morale che egli
ebbe un secolo e mezzo fa?» La risposta è scontata: se lo augurava e ci
sperava. E non nasconde di aver trasformato quasi in modello quel suo
lontano predecessore: gli è che, Machiavelli insegnava, «riferirsi a
grandi esempi aiuta la nostra piccola azione perché, “camminando gli
uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle
azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere,
né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere, debbe un uomo prudente
intrare sempre per vie battute da [uomini] grandi, e quegli che sono
stati eccellentissimi imitare: acciò che, se la sua virtù non vi arriva,
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almeno ne renda qualche odore”». La citazione è sua e ben riflette l’esigenza di trarre conforto, avendo accettato la gravosa nomina a ministro
dell’Economia e delle Finanze, dall’esempio offerto da un uomo che,
chiamato a mettere ordine nelle finanze assai disastrate di un paese da
poco unificato, aveva saputo dare apprezzabili prove di fermezza, di
tenacia, di perseveranza. E sì che ce n’era bisogno, estremo bisogno.
Basti pensare che la questione finanziaria, per dirla con Federico
Chabod, «costituisce in ogni tempo un problema politico, esulando
dal ristretto campo tecnico per investire tutta quanta la vita nazionale».
Riveste dunque sempre una straordinaria rilevanza: la rivestiva ai tempi
di Sella, era tornata ancora una volta a rivestirla, e in maniera via via
preoccupante, in tempi a noi sempre più vicini, e restava non poco
inquietante, pur senza assumere i toni drammatici di oggi, quando Padoa-Schioppa fu chiamato a ricoprire la carica di ministro.
Che accettò, scrive, dopo aver molto esitato. Pure, si era trovato a
confessare, quando era ancora studente, che non gli sarebbe dispiaciuto
diventare un giorno ministro del Tesoro. Ma nient’altro che un seducente passeggero miraggio può essere tutt’al più considerato quel suo
desiderio, non un obiettivo al quale egli abbia ritenuto di poter davvero
alla lunga puntare. Anche perché, scrive ancora, «non mi attirava per
nulla il percorso per arrivarci, che allora era quello del funzionario di
partito». Appare dunque, quell’idea giovanile appena balenata, una
cosa detta così per dire e subito cancellata dalla mente. Non ritornata
più, forse, neppure in sogno. Ma se sogno presto dimenticato fu, esso
era destinato, a distanza di decenni, dopo un’intera vita trascorsa indossando prevalentemente la veste del banchiere, a tramutarsi in realtà. Era
infatti già in pensione quando Prodi lo chiamò: e se accettò l’incarico
fu vuoi per stima verso chi glielo offriva, vuoi perché (dichiara) «ho
sempre avuto, fin da giovane, una grande passione per la politica e per
le questioni pubbliche». Una passione, però, che non obbligava a diventare, per trovare piena soddisfazione, politico di professione: bastava
fare il civil servant. E proprio questa era stata la sua scelta, una scelta a
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lui decisamente congeniale: «era il punto di incontro (chiarisce) tra un
forte interesse per la politica e la consapevolezza che il mestiere della
politica non era adatto a me».
Una volta ministro, però, di quel mestiere egli dovette farsi carico.
Non che Padoa-Schioppa non lo sapesse: «l’azione di governo (riconosceva) è politica sempre e per definizione, chiunque la eserciti»: era
dunque «priva di senso», a suo avviso, la distinzione dei governanti in
politici e tecnici. Ma gli riuscì probabilmente sgradevole, da tecnico
prestato alla politica, trovarsi a sperimentare di persona quanto difficile
fosse effettuare scelte che pure le leggi dell’economia imponevano: leggi
che il tecnico conosce certo meglio del politico, di un politico non
sempre disposto, per giunta, a lasciarsene vincolare. Si dà infatti il caso
che i politici siano, più dei tecnici chiamati a far politica, sensibili alla
ricerca del consenso e timorosi di perderlo o di non riuscire a garantirselo a sufficienza. E non si stancano di rammentarlo ai tecnici dei quali
possono trovarsi a volte, per fastidiosa necessità (lo stiamo sperimentando), a dover ricorrere, tecnici che di quelle leggi tendono invece a
farsi se mai scudo nel loro operare. Non che essi non siano pienamente
consapevoli, scrive Padoa-Schioppa, di quanto importante sia, in democrazia, la ricerca del consenso: anzi, non se ne può prescindere, e
dunque «è necessario cercarlo sempre». Nei limiti del possibile, però,
ché «inseguire il consenso giorno per giorno (diceva) finisce per diventare una perdizione»: se, infatti, «non si ha ben chiara la direzione di
marcia, non si va da nessuna parte; se non si adatta il cammino alle
pieghe del terreno, non si arriva al traguardo».
A Padoa-Schioppa, quella direzione di marcia era ben chiara: non di
una politica dei due tempi (prima il risanamento, poi la crescita) il paese
aveva bisogno, falso essendo il dilemma tra rigore e sviluppo. Diventavano pertanto tre le categorie alle quali, nell’apprestare acconce misure
di politica economica, riteneva che occorresse far riferimento: risanamento, crescita, equità. Bisognava prendere insomma atto, «l’obiettivo
dell’intera nostra politica economica non [potendo] essere altro che il
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ritorno dell’Italia a una crescita superiore, non inferiore, alla media europea», che si trattava di un fine difficilmente conseguibile «senza
perseguire insieme efficienza nell’uso delle risorse, equità sociale e
buona salute dei conti pubblici». E in tale direzione egli appunto si
mosse nei due anni in cui ebbe responsabilità di governo, percorrendo
strade in questo volume di suoi scritti richiamate, precisate, difese. Che
se poi i risultati raggiunti non furono appieno quelli che egli si prefiggeva di raggiungere, non gli può venir certo ascritto a colpa. Il
contesto in cui si mosse non va infatti dimenticato. Ed è lecito credere,
ricordandolo, che quei risultati sarebbero stati certo migliori se non si
fosse trovato a dover operare all’interno di una compagine governativa
che disponeva, in parlamento, di una maggioranza risicata e che risultava, quel che è peggio, fortemente disomogenea sul piano ideologico:
se non fosse stato insomma membro di un governo costretto, per ciò
stesso, a continui faticosi compromessi «al ribasso».
Padoa-Schioppa aveva invero tutte le qualità per affrontare al meglio
i problemi dell’ora: quelle umane, la straordinaria passione civile da cui
era animato, e quelle professionali, le profonde conoscenze acquisite
grazie a studi severi (laurea e master in Economia, rispettivamente a
Milano, alla Bocconi, e a Boston, al MIT). Ma a renderlo ancor più la
persona giusta al posto giusto era l’esperienza acquisita nel lungo servizio
prestato in varie prestigiose istituzioni nazionali, dalla Banca d’Italia alla
Consob, e internazionali, dalla Cee alla Bce, nelle quali quella passione
e quelle conoscenze avevano avuto modo di trovare piena esplicazione.
E sempre, in tali istituzioni, egli aveva dato ottima prova di sé. Ma altro
è fare il civil servant, altro è fare il ministro. E gli ostacoli che si incontrano,
in quest’ultima veste, per cercare di aver ragione di resistenze di natura
ideologica e di vincere quelle, ancor più condizionanti, di agguerrite
corporazioni, niente affatto disposte a subordinare l’interesse particolare
a quello generale, sono parte dell’esperienza che fa ogni tecnico prestato
alla politica, costretto quindi a farsi suo malgrado politico: non è un’esperienza che a Padoa-Schioppa fu risparmiata.
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Non sappiamo se e quanto ebbe a soffrirne. Ma non era certo uomo
che lasciasse spazio ai rimpianti e si abbandonasse alle recriminazioni:
di essi, dunque, egli sicuramente non si nutrì nei due anni che, lasciato
l’incarico di ministro, precedettero la morte, prematura e improvvisa.
Una morte, la sua, che suscitò largo rimpianto. Ma tutti, per richiamare
una metafora di Dino Buzzati, apparteniamo a un reggimento, anche
senza essere militari di mestiere, e non c’è reggimento che non riceva,
prima o poi, l’ordine di partire. E quando l’ordine giunge, a volte
improvviso e quindi inatteso, chi ne fa parte non può che preparare il
bagaglio, perché non sono chiamate, quelle a cui si accennava, alle quali
ci si possa sottrarre: gli è che non c’è, in questi casi, spazio per i disertori,
e infatti mai sono esistiti, né c’è modo di farsi esentare, avanzando scuse
puerilmente banali o ricorrendo ai buoni uffici di qualche potente di
turno. Di ciò Tommaso Padoa-Schioppa era, va da sé, pienamente consapevole. Ma è lecito credere che ritenesse l’evento ancora lontano. Del
resto, per restare fedeli all’immagine richiamata, non si avvertivano, fra
le mura della caserma in cui il suo reggimento era acquartierato, segnali
insoliti: gli ufficiali, di basso e di alto rango, si abbandonavano agli ozi
propri della vita di guarnigione, i soldati erano in libera uscita, il trombettiere chiamava a raccolta per il rancio e la ritirata non per levar le
tende. La sera del 18 dicembre del 2010, però, nel corso di un’allegra
riunione conviviale, egli si sentì toccare lievemente sulla spalla: era
venuta, gli fu bisbigliato all’orecchio, l’ora della partenza. Di già, egli
forse chiese e certo si chiese? Con tante cose, impegnato com’era, che
aveva ancora in cantiere! Ma nulla c’era da fare, se non prepararsi a
partire. Si alzò perciò a fatica da tavola, si scusò con gli amici da lui
riuniti per essere suo malgrado costretto ad allontanarsi, e dignitosamente si incamminò verso una notte senza fine.
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Segnalazioni
GIUSEPPE BERTA, Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale, Bologna,
il Mulino, 2011.
TITO BOERI - PIETRO GARIBALDI, Le riforme a costo zero: dieci proposte
per tornare a crescere, Milano, Chiare Lettere Editore, 2011.
GIORGIO CALCAGNINI - ILARIO FAVARETTO (a cura di), L’economia della
piccola impresa: rapporto 2011, Milano, Franco Angeli Editore, 2011.
LEANDRO CONTE (a cura di), Le banche e l’Italia: crescita economica e
società civile (1861-2011), Roma, Bancaria Editrice, 2011.
VITTORIO DANIELE - PAOLO MALANIMA , Il divario Nord-Sud in Italia
(1861-2011), Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011.
GIOVANNI MALAGODI, Aprire l’Italia all’aria d’Europa. Il diario europeo
(1950-1951), a cura di G. Farese, Soveria Mannelli, Rubbettino
Editore, 2011.
MARIA CECILIA GUERRA - ALBERTO Z ANARDI (a cura di), La finanza
pubblica italiana: «rapporto» 2011, Bologna, il Mulino, 2011.
PIETRO ICHINO, Inchiesta sul lavoro, Milano, Mondadori Editore, 2011.
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segnalazioni
GIUSEPPE BERTA
Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale
Bologna, il Mulino, 2011
pp. 142, € 14
Il titolo del libro che qui si segnala non è fatto per tirare su il morale,
perché la parola che vi compare, «deriva», è locuzione comunemente
impiegata per indicare, a tacer d’altro, la drammatica realtà di una nave
senza più governo, e dunque in totale balia dei flutti. E averla ritenuta
atta a descrivere anche la realtà dell’Italia industriale dei nostri giorni,
notoriamente caratterizzata da piccole e medie imprese più che da
grandi, è cosa inquietante, perché si dà in tal modo per scontata una
perdita di rotta foriera, se non proprio di naufragio, di ridotta governabilità e dunque di crescenti difficoltà a entrare in porti sicuri. Una
perdita, va da sé, che ha certo le sue brave motivazioni ed è forse più
facile da intendere, deve aver finito col pensare l’autore, se letta alla luce
di una vicenda emblematica: quella che ha portato la Fiat a dar vita, con
la Chrysler, case automobilistiche entrambe bisognose di risanamento,
a un nuovo soggetto di impresa, convertendo (egli dice) «due debolezze in una nuova forza».
Non che un simile percorso si profili come tranquillo modello per
scelte capaci di trarre d’impaccio le imprese di maggiori dimensioni che
dovessero trovarsi ad affrontare problemi analoghi a quelli che hanno
afflitto la Fiat, e si lasciassero quindi prendere dalla voglia o avvertissero
comunque il bisogno di stringere alleanze internazionali. Il successo o
l’insuccesso dell’iniziativa della Fiat si vedrà infatti se e solo quando
«sarà superata una crisi che non è ancora conclusa e produrrà conseguenze prolungate nel tempo». Ma neppure siamo, successo o insuccesso a parte, in presenza di un percorso potenzialmente capace di porre
riparo alla denunciata «deriva dell’Italia industriale». Basti pensare che
la scelta della Fiat di proiettarsi fuori dei confini nazionali, e quindi di
«calamitarsi nei flussi di una dinamica globale che ne minaccia l’ancorassegna della letteratura economica
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raggio al sistema italiano», solleva non pochi interrogativi sulle prospettive del nostro industrialismo, e segnatamente il seguente, di non
piccolo momento: c’è, in Italia, ancora spazio per la grande impresa?
Ora, che quello spazio si sia ridotto non sembra possa venir messo
in dubbio. Gli è che, si osserva, «la questione Fiat-Chrysler, con le sue
incognite sul futuro, è la spia di ciò che potrà succedere domani ad altre
grandi imprese, chiamate a scegliere fra proiezione internazionale e radicamento nel territorio d’origine». Scelte che potrebbero risultare per
giunta obbligate se, così come è stato per la Fiat, la ricerca di una soluzione internazionale dovesse rivelarsi, si aggiunge, «una condizione di
sopravvivenza». Ne consegue, si conclude, che «non sappiamo che
cosa resterà dell’Italia industriale che abbiamo conosciuto dopo una
crisi che ha scavato in profondità nella sua complessione e le sta ancora
disegnando un profilo modificato, certamente ridotto rispetto alla sua
storia, ma lasciando un nucleo che, pur modificato e ridimensionato,
resta come leva di sviluppo».
Per concludere: Fiat-Chrysler, «questa nuova identità ancora indistinta, di cui ignoriamo la sorte, ha avuto la conseguenza di sollevare
domande che altrimenti non sarebbero state altrettanto nette». Ma non
altrettanto nette si può pretendere che siano le risposte, tuttavia illuminanti, contenute nei cinque capitoli in cui il volume si articola: «FiatChrysler e l’Italia»; «Genesi e sviluppo di un’alleanza»; «La scommessa del sindacato americano dell’auto»; «Globalizzazione e relazioni
industriali in Italia»; «La deriva dell’Italia industriale».
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TITO BOERI - PIETRO GARIBALDI
Le riforme a costo zero: dieci proposte per tornare a crescere
Milano, Chiare Lettere Editore, 2011
pp. 153, € 13
«Faute d’argent c’est douleur non pareille». Il detto è antico, e non
manca di fondatezza: la carenza di danaro, infatti, vincola, frena, impedendo al limite di fare, e dunque intristisce, avvilisce, inducendo per
ciò stesso sofferenza. E ben pochi, se i quattrini scarseggiano, riescono
a sfuggire a tale stato d’animo. Sicuramente non coloro, e sono i più,
che alle cose terrene si volgono, facendosene più o meno dominare. Ciò
vale, allora, anche per chi governa la cosa pubblica? Forse lo si può
concedere. Aggiungendo però subito, onde non correre il rischio di
passare per ingenui: più che perché si sia in presenza di soggetti dediti
al bene altrui, perché abbiamo di fronte persone timorose di vedere
assottigliarsi il consenso da cui il loro potere dipende, consenso che in
regime democratico largamente si consegue distribuendo a vario titolo
e impiegando in varie forme risorse che negli ultimi tempi si sono
venute ovunque assottigliando. Risorse che andrebbero dunque accresciute, per ridurre, con le ambasce dei cittadini, le «sofferenze» dei
politici, e potrebbero esserlo se si fosse disposti ad avviare, si sostiene
nel libro di cui questa «scheda» intende dare sommariamente conto,
riforme coraggiose, capaci di sbloccare economie che segnano se mai
il passo perché, è il caso del nostro paese, largamente «ingessate». E
invece accade che si resti incerti, quasi che la strada a cui si accennava
fosse impraticabile: le riforme, questa l’obiezione, sarebbero infatti costose e mancherebbero i soldi per farle.
Ma le cose stanno poi veramente così? Gli autori del volume lo
negano recisamente, perché solo apparentemente fondate sono, a loro
avviso, le argomentazioni di coloro che al contrario lo sostengono.
Certo, il loro ragionamento sembra a tutta prima corretto: «con una
situazione finanziaria tanto delicata (essi ci dicono) dove si possono
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a cura di antonio maria Fusco
trovare i quattrini per riformare importanti settori dell’economia?
Impossibile». Non ci sarebbe, quindi, che da «aspettare tempi migliori,
tenere la barra dritta e attendere che il vento della crescita torni a soffiare
in poppa. Solo a quel punto potremo mettere mano al portafoglio e fare
le riforme». Dov’è, però, l’errore in un tal modo di argomentare? Perché
un errore c’è e tutto sta a scovarlo per potersene affrancare. Compito
reso agevole da questo libro, scritto apposta per dimostrare quanto
profondamente sbagliato sia il ragionamento del «non ci sono i soldi
per fare le riforme». E sono due, precisano gli autori, i motivi che lo
invalidano. Vediamolo, in breve, lasciando loro la parola.
Primo motivo. È interno, si sottolinea, al ragionamento stesso. Gli è
ché «il vento della crescita non tornerà mai a spirare in poppa senza un
vero e proprio programma di riforme». E non è certo un caso che il
paese sia praticamente fermo da quindici anni: «tre quinquenni
durante i quali l’economia mondiale è cresciuta come mai in passato».
Perché, «nonostante la violenza della crisi globale, il 2009 è stato, per
il mondo, solo una parentesi. Da noi, invece, sembra un incubo lungo
vent’anni». Il vento della crescita, insomma, «soffia in varie parti del
modo, ma non tornerà mai a soffiare in Italia se non cambiamo atteggiamento. L’Italia è un paese impantanato e, per ricominciare a crescere,
deve necessariamente riformarsi». Secondo motivo. Quello che viene
sollevato, si asserisce, è un falso problema. Esistono, infatti, «moltissime
e importantissime riforme che si possono fare “senza aumentare di un
solo euro il debito pubblico”. Sono le cosiddette “riforme a costo zero”»,
riforme decisive e attuabili «senza incidere sul bilancio pubblico»,
riforme che in alcuni casi «possono addirittura portare una riduzione
della spesa pubblica proprio mentre aumenta il tasso di crescita potenziale della nostra economia».
E dal momento che il tema posto alla base di questo libro è proprio
quello delle «riforme a costo zero», spendiamo ancora qualche parola
per ricordare che esse trovano illustrazione nei dieci capitoli in cui il
libro si articola, capitoli di cui si danno qui appresso i titoli: «Investire
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nell’immigrazione»; «L’apprendistato universitario»; «Decentramento, deroghe e standard minimi»; «Incentivi nel pubblico
impiego»; «Professionisti più liberi e ordini trasparenti»; «Più lavori
in famiglia»; «Come non tagliare le pensioni dei giovani»: «Il credito
a chi vuole crescere». «Meno politici per scegliere meglio»; «Un
partito per la crescita». E dunque un partito a favore delle riforme.
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a cura di antonio maria Fusco
GIORGIO CALCAGNINI - ILARIO FAVARETTO (a cura di)
L’economia della piccola impresa: «rapporto» 2011
Milano, Franco Angeli Editore, 2011
pp. 255, € 33
Ancora un «rapporto», il terzo, sulle problematiche e le tendenze della
piccola e media impresa in Italia: esso è il frutto del lavoro, coordinato
dai curatori del volume, di un gruppo di ricercatori delle Facoltà di
Economia dell’Università di Urbino e dell’Università Politecnica delle
Marche, nonché del centro studi di UniCredit. La finalità che li ha mossi
e li accomuna è stata quella di approfondire la conoscenza di una realtà
produttiva che risente anch’essa, e in non piccola misura, delle difficoltà
del momento: cosa particolarmente preoccupante, data la notevole rilevanza che il settore riveste per l’economia del paese. Di qui un esame
pressoché a tutto campo: ampio è infatti il ventaglio delle tematiche
affrontate negli otto capitoli in cui il volume si articola e di cui ci si
appresta a dare qui appresso sommariamente conto. Non senza aver
prima ricordato che i contributi offerti «si muovono nell’ottica dell’analisi delle vie d’uscita da una crisi che ha perso le connotazioni critiche
e va sempre più acquistando (si asserisce) quelle di un nuovo mutamento paradigmatico». Ma lasciamo la parola ai curatori, ai quali vanno
presumibilmente attribuite le pagine non firmate dell’Introduzione che
mi fanno da guida.
Il primo capitolo («La piccola e media impresa in Italia») propone
una riflessione generale su imprese di tal fatta operanti nel nostro paese,
sia nelle loro dinamiche recenti, sia alla luce del contesto economico
nazionale nel quale si muovono. Il secondo capitolo («Le piccole e medie imprese italiane nel dopo crisi: un nuovo modello?») si occupa
delle dinamiche di mutamento di medio e di lungo periodo e delle
novità emerse nel corso del passato decennio in questo ambito. Il terzo
capitolo («Posizionamento competitivo dei settori manifatturieri
italiani nel contesto europeo») offre una dettagliata analisi dell’evolu194
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zione manifestatasi in detti settori nel periodo 2002-2007, evoluzione
posta opportunamente a raffronto con quella verificatasi negli analoghi
settori di attività economica dei principali paesi europei. Il quarto capitolo («I processi di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese
italiane: criticità e prospettive») indaga la natura di siffatti processi,
prospettati come possibile percorso di crescita in un contesto reso
problematico dalla recente crisi economico-finanziaria. Il quinto capitolo
(«Territori, piccole imprese e sistema finanziario nell’uscita dalla
crisi») analizza i delicati aspetti che l’«uscita» in questione presenta,
soffermandosi in modo particolare sui rapporti di detto mondo con il
sistema finanziario e sulle differenti dinamiche manifestatesi in ciascuna
area del paese. Il sesto capitolo («Prestiti alle piccole imprese: il ruolo
delle garanzie durante la crisi economica») si prefigge di identificare il
ruolo e il peso relativo delle garanzie reali e personali nella determinazione dei tassi di interesse applicati, nel periodo 2006-2009, ai prestiti
concessi alle piccole e medie imprese italiane, nonché di verificare se e
come il ruolo delle banche è mutato durante la recente crisi economica
e finanziaria. Il settimo capitolo («Il regime fiscale del ”nuovo” contratto
di rete») si prefigge di delineare i tratti che caratterizzano la fiscalità di
una figura, il contratto di rete, introdotto allo scopo di accrescere la
capacità innovativa e la competitività sul mercato delle imprese italiane,
segnatamente di quelle medio-piccole. L’ottavo capitolo («“Sales management” e piccole e medie imprese: problematiche e prospettive per le
imprese calzaturiere») considera la gestione delle vendite in siffatti tipi
di imprese, ponendo particolare attenzione al sistema delle relazioni tra
l’impresa mandante e il personale di vendita: l’analisi poggia su una
ricerca empirica esplorativa effettuata presso un campione di imprese
calzaturiere.
Siamo in presenza, come si vede, di un lavoro che affronta tematiche
varie, tutte di grande momento per meglio comprendere difficoltà e
prospettive di un settore, quello delle imprese di piccola e media grandezza, che si conferma «asse portante» del sistema produttivo italiano.
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LEANDRO CONTE (a cura di)
Le banche e l’Italia: crescita economica e società civile (1861-2011)
Roma, Bancaria Editrice, 2011
pp. 366, s.i.p.
Il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione italiana è stata
occasione per numerose manifestazioni pubbliche di ritrovato patriottico sentire, nonché per molteplici iniziative promosse in ambienti i più
diversi e dirette a ripensare criticamente passato e presente di vicende
che a vario titolo costituiscono tappe rilevanti della nostra storia nazionale. Poteva l’Abi, l’Associazione bancaria italiana, restare alla finestra a
guardare? Sarebbe stato invero ben strano, e non perché ci sono circostanze in cui la presenza è d’obbligo e non ci si può quindi sottrarre, pur
se solo rituale dovesse poi risultare la partecipazione, bensì perché l’evoluzione del mercato finanziario e, al suo interno, del sistema bancario è
aspetto non irrilevante del processo di unificazione della penisola.
Metteva dunque conto farla oggetto d’esame, assai opportunamente
affidato a una ricerca alla quale è stato dato il significativo titolo, che fa
bella mostra di sé sulla copertina del volume qui segnalato, di «Le
banche e l’Italia».
Ma veniamo, guardandolo più da vicino, al volume in questione.
Scrive, nella prefazione, Giuseppe Mussari: siamo in presenza di
un’opera nella quale la storia bancaria d’Italia dell’ultimo secolo e mezzo
«è declinata in quattro macro-periodi (1861-1914, 1915-1945, 19461990, 1991-2011), per i quali vengono analizzati i rapporti fra
economia, società civile e banche, considerando queste ultime non solo
come intermediari, ma quali soggetti complessi che interagiscono con
il contesto sociale e produttivo». I temi fatti oggetto d’esame? Sono in
breve i seguenti: l’ordinamento bancario e le sue regole, il rapporto
banca-impresa-sviluppo, le relazioni tra le banche, i rapporti tra banche
e società civile, l’intermediazione risparmio-investimento, le relazioni
fra credito, reputazione, informazione e fiducia.
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segnalazioni
Tutti passaggi fondamentali, quelli appena ricordati, su cui ci si
sofferma negli otto saggi distribuiti, a due a due, nelle quattro parti (che
ai quattro sopra menzionati macro-periodi si richiamano) nelle quali il
volume si articola. Di detti saggi si danno qui appresso le intestazioni.
Le tematiche affrontate nella prima parte, intitolata L’unificazione nazionale, sono: «Banche e società civile» e «Banche ed economia nazionale»; quelle discusse nella seconda parte, intitolata L’Italia tra le due
guerre, sono: «Le banche dall’autocrazia al controllo politico» ed
«Economia e banche tra le due guerre»; quelle di cui ci si occupa nella
terza parte, intitolata La repubblica, sono: «Programmazione economica e banca pubblica» e «Banche, regolamentazione e politica economica»; quelle approfondite nella quarta parte, intitolata L’Europa, sono:
«Il processo di ridefinizione delle regole» e «L’industria bancaria
italiana nell’Unione Europea».
Sono pagine stimolanti, quelle che il volume offre, la loro lettura
consentendo (scrive il prefatore) di cogliere la portata dei cambiamenti
intervenuti, in campo bancario, nel secolo e mezzo di vita dell’Italia
unita e, quel che più conta, «di trarne spunti utili a orientare l’azione
futura, sulla base del presupposto che una stessa forza può unire la
memoria del passato, il governo del presente e gli impegni per il
domani».
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a cura di antonio maria Fusco
VITTORIO DANIELE - PAOLO MALANIMA
Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011)
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011
pp. 259, € 15
Sarà una maledizione, ma sembra proprio che non si riesca ad avere una
Italia sola. Affermazione, questa, fatta certo per sorprendere, se non
addirittura per scandalizzare: ma come, forse si osserverà, se abbiamo
appena festeggiato, e con grande sventolio di bandiere e discorsi grondanti retorica, il 150° anniversario dell’unità del paese! Pure, sembra
proprio che le cose stiano così. Anche se certo lontani sono i tempi in
cui, vien fatto di ricordare, forzando la memoria, le milizie di un
monarca straniero – Carlo VIII, che scendeva nella Penisola, dopo aver
attraversato il Moncenisio, passato poi di mano e diventato nel ’47 francese, come francese era quel re – con boria mista a spregio cantavano:
«nous conquerrons les Italies»: le Italie, al plurale.
Certo, all’epoca, l’Italia era divisa in singoli stati indipendenti, tanto
numerosi, verrebbe fatto di dire, che quasi non si contavano, laddove
oggi è divisa in regioni autonome, che sono sì anch’esse numerose,
ancor più numerose di quegli antichi stati, ma esercitano la loro autonomia all’interno di una compagine statale che si conserva unitaria: a
dispetto di quei circoli che la conseguita unità politica vorrebbero
mettere di nuovo in discussione. E quando ai nostri giorni si parla di
Italie, perché il plurale tenacemente persiste, ci si riferisce non a una
molteplicità di stati, quali erano quelli pre-unitari, bensì alle due aree
geografiche (Centro-Nord, da un lato, Sud e Isole, dall’altro) in cui il
paese resta economicamente diviso: ci troviamo pertanto in presenza
non più di molteplici Italie, come fu in passato, ma di due Italie soltanto,
due realtà separate da un divario che, malgrado ogni sforzo (e sì che ne
sono stati fatti, vuoi sul piano della teoria, per darsi ragione del fenomeno, vuoi su quello della prassi, per avviarlo a soluzione), non si riesce a vincere.
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C’è dunque di che restar delusi. E lo sconforto certo non manca, ma
non tutti sono stati spinti a voltar pagina per occuparsi d’altro. Restano,
infatti, ancora in tanti a chiedersi che cosa ha determinato quel divario
e che cosa ha sin qui impedito di «riassorbirlo». Siamo in presenza di
diagnosi non adeguate? di terapie insufficienti o male applicate? Chissà.
Forse, se dovesse farsi strada il convincimento che siano di fronte a un
male incurabile, ci sentiremmo per così dire «assolti». Ma non sembra
che sia così. O almeno non si è disposti a crederlo. Non si spiegherebbe,
diversamente, l’attenzione che continua a venir riservata al fenomeno,
sia sul piano del dibattito politico, sia su quello del dibattito intellettuale.
E di quest’ultimo, vorrei ricordare, è un esempio rilevante il volume che
qui si segnala, un volume che, nell’affrontare il tema del divario NordSud in Italia, adotta il punto di vista storico ed economico e persegue
un preciso obiettivo: cercare di «capire meglio i meccanismi della disuguaglianza regionale in un esempio nazionale di crescita moderna».
Quale appunto è stata quella italiana fra il 1861 e il 2011. Perché il
dualismo che ci affligge altro non è, si asserisce, che «un aspetto della
crescita moderna dell’economia del paese», e va dunque esaminato
«all’interno del processo di modernizzazione che l’Italia ha attraversato
nell’ultimo secolo e mezzo della sua storia».
In altre parole, gli autori non si pongono nella scia della «abbondantissima letteratura sui problemi del Mezzogiorno italiano, costituita in
larga prevalenza da dibattiti sul perché in Italia ci siano un Nord e un Sud,
sugli sbagli commessi e su cosa si dovrebbe fare per avvicinare le due parti
del paese». E con forza dichiarano: «tutto questo esula dai nostri interessi». Che sono altri e trovano alimento, come si accennava, in «curiosità» che solo l’attenzione rivolta al binomio disuguaglianze regionalicrescita economica moderna può soddisfare. La qual cosa spiega perché
essi abbiano cercato di «raccogliere informazioni, in prevalenza quantitative, su come siano andate le cose, ricostruendo soprattutto i cambiamenti nella produzione, nel lavoro e nella produttività».
Una raccolta di informazioni quantitative e una ricostruzione dei
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mutamenti verificatisi distribuite dagli autori in quattro nutriti capitoli:
«nel primo vengono descritte le differenze fra Nord e Sud nei decenni
immediatamente successivi all’Unità; nel secondo si esamina il
prodotto pro capite per regione e poi nel Nord e nel Sud; nel terzo si
considera il mercato del lavoro per regione e nelle grandi aree del paese;
nel quarto si combinano i risultati dei due capitoli precedenti e si
discute il tema della produttività». Il volume, ricordo ancora, è arricchito da numerose appendici statistiche.
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GIOVANNI MALAGODI
Aprire l’Italia all’aria d’Europa. Il diario europeo (1950-1951)
a cura di Giovanni Farese
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011
pp. 117, € 18
«Entriamo in un’epoca», scriveva desolato André Gide, «nella quale
il liberalismo diventerà la virtù più sospetta e la meno praticabile».
Sono parole del 1940: la Francia era in ginocchio, la Germania (alla
quale il nostro paese si era incautamente accodato) trionfava, l’Inghilterra era rimasta (mi sembra che Churchill abbia poi detto) «sola nella
bufera». E nel modo in cui il liberalismo veniva visto nella maggior
parte dei paesi europei, segnatamente nella Spagna franchista e nella
Russia sovietica, esempi a questo proposito quanto mai eloquenti, c’era
assai più (occorre ricordarlo?) che semplice diffidenza. E come avrebbe
potuto, un liberale, non soffrire di tale stato di cose? La risposta è scontata: lo testimoniano le scelte di Giovanni Malagodi (1904-1991), che
liberale si sentiva e mai ne avrebbe dimesso l’abito.
Figlio di madre ebrea, Gabriella Levi, e di Olindo, giornalista di grido
vicino alle posizioni di Giolitti, Malagodi aveva portato i figli alla fonte
battesimale, e si era poi fatto lui stesso, sul finire degli anni trenta, battezzare. Per prudenza? Va detto subito, ove mai dovesse essere stata questa
la motivazione della sua scelta, che non si trovò nella condizione di
doversene servire, di doverla trasformare insomma in salvacondotto, e
salvacondotto prezioso in tempi di persecuzioni razziali. Ebbe infatti la
fortuna di restare lontano dall’Europa illiberale degli anni più bui, quelli
della guerra: aveva fissato infatti la sua residenza in Argentina, a Buenos
Aires, e non perché fosse in fuga dalle dittature e dunque profugo. Era
la carica all’epoca rivestita che lo aveva «favorito». Perché, dopo essere
entrato, grazie a Raffaele Mattioli, nella Comit di Giuseppe Toeplitz e
avervi fatto esperienze varie, in patria e all’estero, era stato nominato ai
vertici di un istituto partecipato da Comit e Paribas, la Sudameris, la
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a cura di antonio maria Fusco
Banca francese e italiana per l’America del Sud, che si ritenne opportuno,
una volta scoppiato il conflitto, rendere autonoma sul piano gestionale,
trasferendone la direzione, da Parigi dov’era, in più tranquilli luoghi.
Rientrato in Italia, a guerra conclusa, Malagodi mostrerà di voler dare
una decisa svolta alla propria vita: andrà infatti alla ricerca di incarichi che
più soddisfacessero il suo desiderio di emergere, ed entrerà di lì a poco
nella politica attiva. Sarebbe diventato parlamentare, segretario prima e
presidente poi del partito liberale, ministro del Tesoro. Giunse persino a
sedere, per alcuni mesi, sul più alto scranno di Palazzo Madama. Ma i
primi passi compiuti alla ricerca di una nuova collocazione lo avrebbero
condotto, ancora una volta, a Parigi, nella capitale francese, chiamato ad
assumervi (è il 1948) l’incarico di rappresentante italiano presso l’Oece,
l’organizzazione europea per la cooperazione economica, che in quella
città aveva sede col compito di amministrare i fondi del Piano Marshall e
di coordinare il processo di ricostruzione europea.
E gli anni trascorsi in tale impegnativa veste rivivono in parte nel
diario che all’epoca egli tenne, le cui pagine vengono portate oggi assai
opportunamente alla luce da Giovanni Farese con la perizia di chi è
aduso a muoversi con agilità negli archivi. Sono anni, il curatore ci
rammenta, «in cui si definisce il profilo di un Malagodi “di mezzo”,
economista e civil servant, che segue il primo Malagodi, il brillante banchiere della Banca Commerciale, e precede il secondo Malagodi, il politico leader del partito liberale». Rivelando aspetti non secondari della
sua personalità: perché se è vero, come fu detto, che Malagodi «è più
noto al pubblico per l’attività politica che non per l’eccezionale talento
di banchiere», ciò vale «a fortiori per l’attività svolta all’Oece, che pure
è stata definita “l’esperienza più positiva della sua vita”».
Compongono il diario, ricordo in breve col curatore, tre piccoli
quaderni. Gli appunti in essi contenuti coprono un arco di tempo di
poco più di un anno: vanno dal febbraio del 1950 al marzo del 1951.
Una fase, si sottolinea, circoscritta ma cruciale, vuoi per il processo di
integrazione europea, vuoi per lo stesso Malagodi, che si muove senza
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sosta tra Roma, Washington e il quartiere generale dell’Oece a Parigi.
«E ciò (si aggiunge) a un livello più generale consente di gettare uno
sguardo su come, e in che misura, gli indirizzi di politica economica
assunti dai governi possano essere il frutto dell’unità di pensiero e di
azione di ristrette cerchie di uomini»: degli uomini che egli incontrava
e con cui serratamente dialogava. Sempre all’insegna di un obiettivo
che ritroviamo sinteticamente espresso nel titolo del volume: occorre
«aprire l’Italia all’aria europea». Sono parole sue, queste prese dal curatore in prestito per la copertina, parole che, a dispetto degli anni
trascorsi, non hanno perso d’attualità.
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MARIA CECILIA GUERRA - ALBERTO ZANARDI (a cura di)
La finanza pubblica italiana: rapporto 2011
Bologna, il Mulino, 2011
pp. 293, € 26
Questo tradizionale «rapporto», annualmente offerto a mo’ di utile
guida a chi intenda volenterosamente scendere su un terreno niente
affatto piano, che le difficoltà dell’ora hanno reso ancor più impervio,
si presenta ai lettori in veste rinnovata, vale a dire con una struttura diversa da quella adottata negli anni che corrono fra il 2004 e il 2009, e
ciò per meglio valorizzare, dichiarano i curatori, ma senza iattanza, «la
sua capacità di analisi critica tempestiva, puntuale e continua» delle
politiche di finanza pubblica adottate nel nostro paese. La scelta è stata,
in breve, la seguente: «dare più spazio alla descrizione e alla discussione
di tali politiche, coinvolgendo anche, come coautori o con contributi
autonomi, apporti esterni al gruppo degli abituali collaboratori». Una
scelta, mette conto aggiungere, che ha di conseguenza comportato la
rinuncia alla usuale sezione monografica e un ampliamento dei capitoli
dedicati a quei settori d’intervento pubblico fatti da sempre oggetto di
attenzione nel «rapporto».
I capitoli nei quali il volume si articola, dei quali si trascrivono i titoli
e si forniscono i nomi degli estensori, sono i seguenti nove: «I conti
pubblici: un faticoso rientro», di Giuseppe Pisauro; «Regole per il
controllo della spesa pubblica: come far sì che Achille raggiunga la tartaruga», di Fabrizio Baldassone, Daniele Franco e Stefania Zotteri;
«Erosione ed evasione delle imposte: alla ricerca del gettito perduto»,
di Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra; «Pensioni pubbliche e pensioni private e adeguatezza delle prestazioni: le conseguenze della variabilità dei rendimenti», di Carlo Mazzaferro e Alessandro Magi;
«Ammortizzatori sociali e spesa per assistenza: l’impatto della crisi e
le risposte di policy», di Massimo Baldini e Stefano Toso; «La sanità
tra conservazione, innovazione e incertezze normative», di Enza
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Caruso e Nerina Dirindin; «Povera università: il governo degli atenei
in epoca di tagli», di Paolo Silvestri; «Federalismo fiscale: prove di
attuazione», di Alberto Zanardi; «Servizi di pubblica utilità e interventi infrastrutturali», di Alberto Cavaliere e Alessandro Scarioni.
Sono tutti contributi, quelli menzionati, consegnati dagli autori per
la stampa nell’arco di tempo che corre fra metà marzo e inizio aprile del
2010: essi non tengono né avrebbero potuto tener dunque conto di
quanto è accaduto successivamente. Del resto, questo non è e non vuol
certo essere un instant book, e sarebbe invero assai strano se si pretendesse che lo fosse. Tutt’altra, infatti, è la sua dichiarata finalità: sottoporre ad esame critico le politiche pubbliche adottate dal governo nel
corso del 2010, con particolare riferimento a quei rilevanti ambiti di intervento che già i menzionati titoli dei saggi si incaricano di porre in
evidenza: conti pubblici, fisco, previdenza, politiche sociali, servizi di
pubblica utilità, finanza decentrata, sanità e via discorrendo. E tuttavia,
qualche squarcio su ciò che è accaduto nei primi mesi del 2011 viene
nell’introduzione timidamente aperto: segnatamente sul terreno
dell’evoluzione nel coordinamento delle politiche europee e nella
programmazione degli obiettivi nazionali. C’è di più: pur se l’anno di
riferimento è il 2010, le analisi offerte in qualche misura di fatto lo
trascendono, ché restano attuali le problematiche su cui ci si concentra:
il controllo dei conti pubblici, il processo di attuazione del federalismo
fiscale, le risposte delle politiche a una crisi economica che, mordendo
sempre più, obbliga ad effettuare scelte sempre più incisive.
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a cura di antonio maria Fusco
PIETRO ICHINO
Inchiesta sul lavoro
Milano, Mondadori Editore, 2011
pp. 240, € 18
Mi accingo a scrivere questa «scheda» mentre in Italia infuria il dibattito su una riforma, quella del mercato del lavoro, che il governo sta faticosamente cercando di far digerire sia a sindacati incerti o riottosi
(alcuni già sul piede di guerra), sia a forze politiche smarrite o in ambasce (alcune già pronte a dar battaglia in parlamento). Né c’è poi da
stupirsi delle resistenze a cui su questo terreno si va incontro: mai,
infatti, le «cose guaste» si riformano con «universal contento». Anche perché, difesa di interessi corporativi a parte, non a tutti appare
«guasto» ciò che ad altri sembra invece tale. Di qui, a voler semplificare, due schiere contrapposte, pur se tutt’altro che compatte al loro
interno: da una parte, quella dei conservatori, fautori di uno status quo
che, perno il mitizzato articolo 18 dello statuto dei lavoratori, andrebbe
quasi cristallizzato à jamais, a dispetto di esigenze nuove che finiscono
coll’essere così lasciate tranquillamente disattese; dall’altra, quella dei
progressisti, patrocinatori di svolte che da un lato attenuino il dualismo
oggi esistente tra lavoratori protetti (dunque privilegiati: gli occupati,
cioè, in imprese con più di quindici dipendenti) e lavoratori non protetti
(dunque sacrificati: precari e disoccupati, cioè, privi di tutele e coperture assicurative), e dall’altro favoriscano la nascita di un mercato
più flessibile, premessa irrinunciabile per l’auspicata crescita di una
domanda di lavoro che privilegi non la provvisorietà nei rapporti che
si instaurano, ma una stabilità che dovrebbe essere non il giudice (fatto
salvo il caso di palesi discriminazioni) a garantire nelle affollate aule di
tribunali nei quali il tempo sembra essersi arrestato.
E viene a questo punto naturale chiedersi, dopo aver tutto ciò
sommariamente ricordato: in quale delle due schiere sopra richiamate
si colloca l’autore del libro che qui si segnala? La risposta è agevole,
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segnalazioni
limpida essendo la sua posizione: non nella schiera che mi sono lasciato
andare a definire dei conservatori, bensì in quella dei progressisti. Pietro
Ichino è insomma ben lungi dall’erigersi a difensore di quell’articolo 18
dello statuto dei lavoratori che alcuni ambienti della sinistra politica e
sindacale hanno tutta l’aria di vivere come la linea del Piave del nostro
sistema di relazioni industriali. La qual cosa spiega, ma certo non giustifica, perché siano a sinistra molti di coloro che hanno finito col prendere
le distanze dalle sue prese di posizione: a volte se mai con rammarico,
quasi egli fosse persona smarritasi strada facendo, altre volte andando
molto al di là del civile dissenso, tanto da giungere a rivolgergli l’accusa
di «intelligenza col nemico»: vale a dire col padronato, con la destra,
con le forze (sempre in agguato, a quanto pare) della reazione. Qualcuno, è noto, ha addirittura pensato che Ichino fosse per ciò stesso persona da zittire. E dal momento che il verbo è stato coniugato in passato,
un passato neppure troppo remoto, in modo niente affatto rassicurante,
anzi più volte tragico, egli si è trovato costretto, suo malgrado, a vivere
sotto scorta. Ma, non essendo uomo da arrendersi, ha continuato a
guardare al mercato del lavoro portando avanti le sue idee, idee che
trovano in questo libro nuovo spazio e vi vengono enunciate con rinnovato vigore.
La formula adottata è accattivante. Siamo infatti in presenza di un
immaginario dialogo con una persona chiamata, per così dire, a fargli
«da spalla»: e dunque intenta a porre quesiti (che ricevono risposte
articolate), ad avanzare obiezioni (che stimolano puntualizzazioni chiarificatrici), a rinvangare accuse (debitamente rinviate al mittente). Fra
le tante, anche quella, sopra richiamata, di «intelligenza col nemico».
Che cessa, però, di essere «infamante» e può venire addirittura ritenuta, osserva l’autore, non del tutto priva di un qual certo fondamento:
se, beninteso, la si priva del carattere di condanna personale, con
sentenza passata in giudicato, pur se non suffragata da convincenti
prove, e la si legge come addebito frutto di una «concezione vecchia»
delle relazioni industriali. In fondo, osserva Ichino, ciò che propongo è
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a cura di antonio maria Fusco
un rovesciamento di quella concezione: gli è che, si precisa, «il nemico
non sta più dove fino a ieri lo abbiamo visto o creduto di vederlo»: sta
altrove. Si nasconde, fra l’altro, «nelle incrostazioni delle vecchie
tecniche di protezione», alle quali si fa fatica a rinunciare. Bisogna
dunque cercarlo là dove si cela. Ed è superfluo aggiungere che questo
libro vuol esserci d’aiuto, vuol darci una mano a «identificarlo»: per
poterlo poi combattere alfine con successo.
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L’Italia
in cifre
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I rischi
L’Italia in cifre
Gli investimenti diretti esteri (IDE)
Sempre più rilevanti. Il fenomeno degli IDE è andato crescendo negli ultimi 15 anni:
nel 2010 il loro stock nel mondo valeva quasi il 30% del Pil mondiale.
Andamento dello stock di IDE nel mondo in % del Pil mondiale, 1996-2010
Fonte Banca dati Unctadstat
Definizioni e note
IDE – Investimenti Diretti Esteri: gli IDE sono investimenti realizzati per stabilire un rapporto di lungo termine
o acquisire una posizione durevole in imprese registrate all’estero con l’obiettivo di avere voce in capitolo
nella gestione dell’impresa. In genere, all’investimento corrisponde l’acquisto di azioni o quote societarie
con una soglia minima fissata convenzionalmente al 10%. Altre forme di investimento, oltre all’acquisto di
quote, che vengono classificate come IDE sono il reinvestimento degli utili e la stipula di prestiti a lungo o
breve termine tra casa madre e controllata.
Investimenti Greenfield: gli investimenti greenfield (a prato verde) sono IDE che comportano l’apertura o
costruzione ex novo di uffici, edifici, stabilimenti e imprese. L’investimento può avvenire tramite l’apertura
di una filiale, di un’unità locale o operativa o di una società.
Nota: C’è una notevole discrepanza tra i dati globali dei flussi IDE in entrata e di quelli in uscita, dovuta a
diversi fattori. Il primo è che le stesse transazioni registrate dal paese origine e quello destinatario dell’investimento possono differire per classificazione della transazione, metodo di raccolta dei dati o tasso di cambio
applicato. Il secondo fattore è la continua evoluzione dei tipi di transazione utilizzati e il loro divenire sempre
più sofisticati. Infine, può essere complicato distinguere tra investimento diretto e investimento di portafoglio.
Le discrepanze sono più rilevanti per i paesi in via di sviluppo.
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Ma non per l’Italia. Al contrario degli altri principali paesi europei l’Italia non figura nei primi 20 paesi destinatari di
investimenti diretti esteri.
I primi 20 paesi destinatari di IDE, 2010 (mld di USD)
Fonte World Investment Report 2011, Unctad, Ginevra, 2011
Un basso stock di IDE. Il nostro paese è al 26° posto nella classifica europea per stock di IDE in entrata rispetto al Pil.
Unione Europea: stock di IDE in % del Pil, 2010
Fonte Banca dati Unctadstat
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Un paese che fa fatica ad attrarre. Nel decennio 2001-2010, l’Italia ha quasi sempre attratto meno investimenti
dei principali paesi europei.
Principali paesi UE: flussi di IDE in entrata, 2001-2010 (miliardi di USD a prezzi e tassi di cambio correnti)
Fonte Banca dati Unctadstat
Pochi greenfield, per valore… Il valore dei progetti di investimento greenfield realizzati in Italia tra il 2005 e il 2010
è stato inferiore a quello dei principali paesi europei.
Principali paesi UE: quota del valore dei progetti greenfield rispetto al totale UE, media 2005-2010
Fonte elaborazione su dati World Investment Report 2011, Unctad, Ginevra, 2011
L’ItALIA In CIfrE
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…e per numero. Lo stesso dicasi per il numero dei progetti di investimento.
Principali paesi UE: quota del valore dei progetti greenfield rispetto al totale UE, media 2005-2010
Fonte elaborazione su dati World Investment Report 2011, Unctad, Ginevra, 2011
Ma quando ci sono, sono investimenti consistenti. Il valore medio dei progetti di investimento è stato invece
superiore a quello dei principali paesi europei.
Principali paesi UE: valore medio dei progetti greenfield, media 2005-2010 (milioni di USD a prezzi e tassi di cambio correnti)
Fonte elaborazione su dati World Investment Report 2011, Unctad, Ginevra, 2011
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Chi è presente in Italia. Fatta eccezione per Lussemburgo e Belgio, il cui dato risente dell’offshoring di imprese
italiane, i principali paesi presenti in Italia sono Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Germania,
Stati Uniti, Svizzera e Spagna.
Italia: primi 15 paesi presenti in Italia (% sul totale dello stock di IDE), 2010
Fonte elaborazione su dati "Investment Country Profiles - Italy, 2012", UNCTAD, New York e Ginevra, Febbraio 2012, basati su dati Banca d'Italia
E chi investe di più. I paesi che hanno investito di più nel quinquennio 2006-2010 sono quasi gli stessi.
Manca la Francia che ha invece disinvestito in misura consistente.
I 15 paesi che investono di più in Italia: totale dei flussi IDE verso l'Italia nel periodo 2006-2010 (% sul totale dei flussi IDE verso l'Italia)
Fonte elaborazione su dati "Investment Country Profiles - Italy, 2012", UNCTAD, New York e Ginevra, Febbraio 2012, basati su dati Banca d'Italia
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Cosa cercano gli investitori… Un’indagine dell’Unctad ha confermato come il mercato sia di gran lunga il fattore
localizzativo principale, seguito dalla presenza di fornitori e partner, di un contesto favorevole e di manodopera qualificata.
Principali fattori che influenzano la scelta localizzativa degli IDE
Fonte “World Investment Prospects Survey 2009-11”, Unctad, New York e Ginevra, 2009, United Nations
…e verso quali settori si dirigono quando investono in Europa. I dati di fDI Market indicano come settore
particolarmente appetito quello delle energie rinnovabili, seguito dal settore immobiliare, da quello dei mezzi
di trasporto, quindi da quello dei servizi finanziari e alle imprese e, infine, da quello del software e ICT.
I principali settori di destinazione degli IDE in Europa nel 2011
Fonte “The fDI report 2012”, fDI Markets
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Nel prossimo numero in uscita a settembre
L’ITALIA NELL’ECONOMIA MONDIALE
Editoriale
Marcello De Cecco
In controluce
VIZI E VIRTÙ DEL DEBITO PUBBLICO
Antonio Pedone
Peter Praet
Tema di discussione
LA COLLOCAZIONE DELL’ITALIA NELL’ECONOMIA MONDIALE
La nuova competizione globale e la risposta italiana
Paolo Guerrieri e Piero Esposito
I sistemi di imprese guida nel processo di internazionalizzazione
dell’economia italiana
Fulvio Coltorti
L’effetto della Cina sui prezzi alle esportazioni italiane
Giorgia Giovannetti e Marco Sanfilippo
Studi e ricerche
Il sistema dei porti e della logistica in Italia
Rassegna della letteratura economica
A cura di Antonio Maria Fusco
L’Italia in cifre
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Economia Italiana
Direttore responsabile: Alessandro Spaventa
UNICREDIT Spa, via A. Specchi, 16 - 00186 Roma
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PERIODICA ITALIANA
Registrazione del Tribunale di Roma n. 43/1991 del 24.1.1991
Service editoriale:
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Fax +3906.8076.819
Copertina a cura di:
Roberto Steve Gobesso
Impaginazione:
Fabio Rizzo
In copertina:
View Pictures / UIG via Getty Images
London Bridge Tower, London Bridge Quarter,
Architect: Renzo Piano Building Workshop, 2012.
Printing: I.G.F. Industria Grafica Falciola -Torino
Finito di stampare: maggio 2012