PRIMA COLONNA di Ivo Vidotto Destinato a scomparire Nazim Hikmet DEL POPOLO ce vo /la .hr dit w.e ww Il bacino adriatico ha delle caratteristiche geologiche e morfologiche del tutto particolari: più di un terzo dei suoi fondali non supera infatti la profondità di 50-60 m, al contrario dei bacini ionici, dove si osservano le maggiori profondità del Mediterraneo. Il bacino dell’Adriatico si trova tra la catena appenninica e l’area dei Balcani: è una zona in forte compressione, con il margine della placca europea che scende al di sotto della placca di Adria. È un mare poco profondo, rapidamente riempito dai sedimenti che provengono dall’erosione delle due catene che si fronteggiano e in un prossimo futuro geologico è destinato a scomparire. Non si tratta di un fenomeno che ci riguarda direttamente, magari, ma fino alla sua scomparsa dovremmo fare in modo che viva in maniera degna. L’estate scorsa, un team internazionale di scienziati ha compiuto verso la metà di agosto una ricerca incentrata sulla fauna abissale, finora non sufficientemente studiata, nelle parti più profonde della depressione del sub bacino meridionale dell’Adriatico, da 1.100 a 1.200 metri di profondità. Oltre ad aver constatato l’elevato valore biologico dell’area, con una grande varietà di specie abissali, specialmente pesci e cefalopodi, gli esperti hanno dovuto constatare pure che la depressione a sud della Soglia di Pelagosa ha l’aspetto di una grande discarica, con un’enorme quantità di rifiuti antropogeni, in particolar modo di plastica. Avanti di questo passo, si rischia di uccidere l’Adriatico ben prima che si verifichi la sua scomparsa. In questo numero dedichiamo ampio spazio all’ambiente marino, alle sue prospettive, ai rischi che si possono evitare... Nel corso dell’evoluzione climatica, milioni di specie si sono estinte e altre sono comparse sulla scena della vita in rapporto (anche) a conseguenze climatiche di eventi cosmici, ma ora si ha l’impressione che tutto accada molto più velocemente e che siamo proprio noi, uomini, a contribuire in maniera determinante a questi cambiamenti così repentini. Il riscaldamento globale del nostro pianeta si fa sentire in maniera molto più marcata in un mare chiuso come quello Mediterraneo, dove si verificano i fenomeni della “meridionalizzazione” e della “tropicalizzazione”, che portano nei nostri mari specie animali che solitamente abitano mari ben più caldi, per cui non ci deve sorprendere se nelle reti dei pescatori si impigliano pesci che in passato non avevamo mai visto. Il nostro è stato sempre un mare molto ricco, ma anche particolarmente vulnerabile. Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti arrivederci fratello mare mi porto un po’ della tua ghiaia un po’ della tua luce e della tua infelicità. Ci hai saputo dir molte cose sul tuo destino di mare eccoci con un po’ più di speranza eccoci con un po’ più di saggezza e ce ne andiamo come siamo venuti, arrivederci fratello mare. An no IV mare 8 200 e r • n. 3 mb 5 • Mercoledì, 12 nove 2 mare Mercoledì, 12 novembre 2008 UN TUFFO NEL PASSATO Storie e vicende di un periodo turbolento Uomini e navi: un legame indissolubile per evitare l’oblio di Lorenzo Pellegrini N avigando per i vasti oceani dell’oblio, ci imbattiamo sempre in qualche “isola” interessante, quasi a testimoniare l’inscindibilità del legame che esiste sempre tra le navi e gli uomini, che spesso contribuisce a salvare, sia navi che uomini, dall’“affondamento” in questo mare dell’oblio. Quanti nomi sono stati strappati, così, dal dimenticatoio, continuando ad affrontare i mari del mondo sulla prua e sulla poppa di qualche nave. Ci sono navi il cui nome, col passare degli anni, sbiadisce e finisce veramente per essere dimenticato, finendo nei reconditi meandri della storia e riaffiorando, magari dopo decenni di oblio forzato, da qualche schedario, registro o documento tirato fuori da qualche polveroso scantinato o magazzino abbandonato. Sono pochi, pochissimi, quelli che ricorderanno le navi che portavano i nomi di Enrico Baroni, Bruno Caleari, Vincenzo Ciaravolo, Mario Ruta, e tanti altri, eppure si tratta di navi il cui legame con Fiume e Sušak è inscindibile. Un legame storico. Si tratta di unità che in base alla Circolare No. 44, firmata dal Commissario Straordinario per la gestione della “Jadranska plovidba”, tale Simeone, il 6 agosto 1941, hanno cambiato nome, pur rimamendo, nella flotta della compagnia armatoriale Jadranska plovidba con sede a Sušak. Mario Ruta e Costantino Borsini Andiamo per ordine: la nave “Sušak” è stata ribattezzata in “Mario Ruta”, in onore di un tenente di vascello nato a Napoli e caduto al posto di comando in plancia della torpediniera “Ariel”, affondata il 12 ottobre 1940 nel Canale di Sicilia dall’incrociatore inglese “HMS Ajax”. La nave “Srbin” è diventata “Costantino Borsini” in onore del capitano di corvetta, medaglia d’oro al Valor Militare La “Ante Starčević” navigò per la “Jadrolinija” con il nome di “Podhum” alla memoria, comandante di cacciatorpediniere. Durante un attacco a un grosso convoglio, dopo che la nave fu colpita, Borsini aveva provveduto alla salvezza dell’equipaggio, rifiutando di abbandonare la nave. La nave in questione fu costruita in Scozia nel 1913, presso i cantieri “Hall Russell & Co. Ltd.” di Aberdeen, su commessa della società “Ungaro-Croata di Navigazione Marittima a Vapore” di Fiume con il nome di “Sparta”. La sua navigazione “pacifica” è stata interrotta bruscamente nel 1917, quando è stata requisita dalla “Kriegsmarine-Seetransportleitung” come nave da trasporto. Ministero dei trasporti bellici di Londra, il quale la assegna in gestione alla società “H. Hogarth & Sons” di Londra. Nel 1945 l’unità viene restituita alla “Jadranska plovidba”, l’anno successivo viene nazionalizzata e nel 1947 entra a far parte della flotta della “Jadrolinija”. Il suo ultimo viaggio risale al 6 giugno del 1947, quando incappò in una mina magnetica nei pressi di punta Glavotok, sull’isola di Veglia, quando da Spalato stava rientrando a Fiume. La nave si spezzò in due e affondò. Morirono nella circostanza 19 membri dell’equipaggio e quat- tro passeggeri. La parte poppiera della nave venne recuperata il 10 agosto dello stesso anno e rimorchiata a Malinska. Una nave-ospedale Bruno Caleari è invece il nome dato alla nave “Šumadija”, in onore dell’omonimo sotto- Una mina vagante nel Quarnero Dopo la Grande guerra, nel 1921, la nave, ribattezzata in “Srbin”, passa in proprietà alla società di navigazione fiumana e l’anno successivo, con l’istituzione della “Jadranska plovidba” con la fusione di tanti piccoli armatori, entra nella sua flotta. Dopo la capitolazione dell’Italia, nel 1943, le viene restituito il vecchio nome “Srbin” e viene prelevata dal La nave “Srbin” è stata ribattezzata in “Costantino Borsini” La “Ante Starčević” venne costruita a Chioggia nel 1904 La “Šumadija” venne trasform mare 3 Mercoledì, 12 novembre 2008 La “Godollo”, diventata poi “Zagreb”, “Enrico Baroni”, “Dalmacija” e infine “Cres”, incagliatasi nel gennaio del 1913 presso l’isola di Murter tenente di vascello, medaglia d’oro al Valor militare alla memoria, caduto come osservatore a bordo di un idrovolante in ricognizione strategica, attaccato da tre velivoli caccia. Dopo la capitolazione dell’Italia, la nave viene requisita dai tedeschi e viene ribattezzata in “Bonn”. Sopravvive alla guerra e nel 1945 e si riprende il vecchio nome, cambiato poi nel 1948 in “Kotor”. Un anno prima di finire al cantiere di demolizione, nel novembre del 1966, cambia ancora una volta nome e diventa “Karlobag”. È interessante il fatto che i tedeschi avevano trasformato l’unità in nave-ospedale. Da «Godollo» a «Cres» La nave “Zagreb” è diventata “Enrico Baroni”. Il suo primo nome, però, è stato “Godollo”. È stata costruita nel 1902 presso i cantieri “Wigham Richardson” a Low Walker per la società “Ungaro-Croata di Navigazione Marittima a Vapore” di Fiume. Con il suo ingresso nella “Jadranska plovidba” nel 1923, cambia il nome in “Zagreb”. Due anni dopo la guerra, nel 1947, entra nella flotta della “Jadrolinija” prendendo il nome “Dalmacija”, mantenuto fino al 1964, quando diventa “Cres”. Navigherà ancora tre anni, prima di finire, nel dicembre del 1967, al cantiere di demolizione di Spalato. I tanti volti della «Ante Starčević» La nave “Ante Starčević” venne costruita nei cantieri “Giovanni Poli” di Chioggia nel 1904, per conto della società di navigazione di Segna. Ha navigato in tutta tranquillità fino al febbraio del 1916, anno in cui è stata requisita dalla “Kriegsmarine-Seetransportleitung”, per diventare nave da trasporto e, in seguito, dragamine e poi cacciasommergibili. Nell’estate del 1918 l’esercito la impiega per il trasporto di legname ad Antivari (Bar), mentre nel 1923 entra a far parte della flotta della “Jadranska plovidba”. Gli italiani la ribattezzano poi in “Vincenzo Ciaravolo”, in onore all’omonimo marinaio, nato a Torre del Greco e imbarcato sul cacciatorpediniere “Francesco Nullo”, che nell’ottobre del 1940 affondò nel Mar Rosso. Volendo seguire la sorte del comandante, Ciaravolo rimase sulla nave e morì. Nel 1946 l’unità venne nazionalizzata e assegnata alla “Jadrolinija” con il nome di “Podhum”. È rimasta in servizio fino al 1965, quando venne trasformata in ferrovecchio al cantiere di demolizione di Spalato. ata dai tedeschi, che la ribattezzarono in “Bonn”, in nave-ospedale PESCE La Passera pianuzza, frequente nell’Alto Adriatico Un predatore in... tuta mimetica La Passera di mare, o Passera pianuzza (Platichthys flesus) è un pesce che vive sui fondali, soprattutto di sabbia e di ghiaia. È un pesce piatto, con corpo tozzo di forma ovale, coperto da piccole squame cicloidi profondamente inserite nel derma. La testa è relativamente piccola e gli occhi sono generalmente situati sul lato destro (circa l’80 per cento dei campioni), mentre la bocca è in posizione terminale. Dallo spazio interorbitale si origina una cresta longitudinale leggermente rilevata, che raggiunge la zona opercolare, dove termina con un tubercolo. La colorazione del lato superiore è bruno-oliva, brunogrigia o tendente al nero, con presenza di macchiette rossastre disposte irregolarmente. Talvolta si possono notare macchie irregolari scure. Ha una notevole capacità mimetica, grazie a dei cromatofori epidermici in grado di cambiare velocemente in risposta agli stimoli visivi, per imitare la colorazione del substrato. Il lato cieco è bianco, ma si possono incontrare esemplari che presentano estese macchie di color grigio scuro. Le pinne hanno colorazione eguale a quella del lato corrispondente, la dorsale e l’anale sul lato superiore possono avere il margine biancastro. La passera pianuzza vive lungo le coste marine e in ac- que interne. In mare frequenta di preferenza fondali sabbiosi o melmosi di scarsa profondità, si sposta in acque più profonde durante i mesi invernali. Frequente, nell’Alto Adriatico, in acque lagunari e negli estuari, soprattutto durante la stagione estiva. La passera pianuzza risale i fiumi anche per notevoli distanze dal mare. È una specie carnivora predatrice, cattura le prede tendendo agguati seppellita nella sabbia. La componente principale della sua dieta è costituita da invertebrati, anche se spesso cattura anche piccoli pesci. Si nutre di molluschi, crostacei, anellidi, platelminti, larve d’insetti e pesci. La specie non sembra essere particolarmente minacciata, anche se in alcune località il progressivo deterioramento dell’habitat dovuto a inquinamento, eccessivo prelievo idrico e alterazione degli alvei, ne riduca la consistenza numerica. La risalita in acque dolci è sempre più frequentemente impedita dalla costruzione di dighe e arginature in prossimità della foce dei fiumi. La passera pianuzza ha un discreto interesse commerciale. Viene commercializzata fresca o refrigerata, intera o a filetti. Nelle lagune e negli estuari dell’Alto Adriatico, la passera pianuzza è uno dei pesci più frequenti e maggiormente pescati dai pescatori professionisti. La specie è apprezzata anche dai pescatori sportivi che la insidiano principalmente con attrezzature da fondo. La pesca professionale viene esercitata con bilance, reti fisse o a strascico. 4 mare Mercoledì, 12 novembre 2008 Mercoledì, 12 novembre 2008 5 AMBIENTE Gli effetti bruschi e imprevedibili del «fattore umano» sulle sorti del pianeta Mediterraneo, il più colpito dal surriscaldamento globale Così ricco e così vulnerabile Barracuda mediterraneo (Sphyraena sphyraena) Mille anni per il degrado di una bottiglia di vetro La Caulerpa taxifolia, un’alga-killer Una distesa di Caulerpa racemosa I tempi medi di degrado dei rifiuti gettati in mare? Un fazzoletto di carta ci mette tre mesi, un fiammifero sei, un mozzicone di sigaretta da uno a cinque anni, la gomma da masticare cinque, una busta di plastica da 10 a 20 anni, un cotton fioc da 20 a 30, e i prodotti di nylon dai 30 ai 40 anni! Basta a far riflettere, certamente. Ma ora viene il peggio. A un accendino di plastica per il degrado in mare servono dai 100 ai mille anni! Altri mille per polistirolo e una comunissima bottiglia di vetro, mentre una bottiglia di plastica non si degrada mai completamente. È bene ricordarsi, dunque, che le orme che ci lasciamo dietro sono spesso millenarie... Pesce palla (Arothron meleagris) Pesce flauto (Fistularia commersonii) Pesce scorpione (Pterois volitans) di Daria Deghenghi G eneralmente parlando, non c’è nulla nei cambiamenti climatici del nostro pianeta che non si possa considerare naturale. La terra e il clima sono in continua evoluzione e le caratteristiche che presentano oggi non vanno assolutamente considerate alla stregua di un punto d’arrivo, di una condizione definitiva. Sono soltanto una delle infinite fasi transitorie del processo evolutivo, proprio come lo erano state le glaciazioni in epoche anteriori. Nel corso dell’evoluzione climatica, milioni di specie si sono estinte e altre sono comparse sulla scena della vita in rapporto (anche) a conseguenze climatiche di eventi cosmici quali l’oscillazione dell’asse terrestre, gli sbalzi d’intensità delle radiazioni solari, i cambiamenti nella composizione dell’atmosfera e via elencando. Lo stesso Mediterraneo ha vissuto profonde trasformazioni: nella sua storia ricorda, infatti, anche un tempo in cui era completamente in secca, ridotto a una distesa di sale senza fine. Un surriscaldamento poco naturale Ciò a cui si pensa oggi quando si parla di “cambiamenti climatici”, sono invece quelle modifiche che il clima e di conseguenza la vita sulla terra subiscono in rapporto ad un fattore se non proprio estraneo al lento corso naturale dell’evoluzione climatica, allora almeno brusco e imprevedibile negli esiti del suo influsso sul futuro del pianeta: il “fattore umano”. Sta di fatto, che gli ultimi mutamenti climatici, ormai chiaramente percettibili anche a memoria d’uomo, si stanno verificando con una velocità tale che difficilmente potrebbero consentirci di adattarci per tempo in risposta a quanto sta avvenendo in natura. Tra gli scienziati dell’Intergovernmental Panel of Climate Change (IPCC), costituito nel 1998 dalle Nazioni Unite per monito- rare il corso dei cambiamenti climatici, è radicata ormai la convinzione che il pianeta stia attraversando una fase di repentino surriscaldamento, attribuibile a nient’altro se non all’azione dell’uomo. I fatti: il XX secolo è stato il più caldo da quando si registrano i dati climatici, mentre i suoi anni Novanta costituiscono il decennio di gran lunga più caldo degli ultimi mille anni! La NASA riferisce inoltre che quattro dei cinque anni più caldi risultano, nell’ordine, il 2005, il 2002, il 2003 e il 2004. Il più caldo in assoluto dall’inizio delle misurazioni, istituzionalizzate nel 1861? Il 1998! Coincidenza? Macché. Gli scienziati concordano che la causa del surriscaldamento globale accelerato risiede nel ben noto effetto serra, lo stesso che si verifica sotto le serre per la coltivazione degli ortaggi, le cui coperture trasparenti garantiscono all’interno una temperatura superiore a quella dell’ambiente circostante senza apporto aggiuntivo di energia. La natura in una grande serra L’effetto serra è dovuto a una concentrazione gradatamente maggiore nell’atmosfera dei gas serra quali il biossido di carbonio (CO2) e il metano, liberati da attività esclusivamente antropiche tra cui l’utilizzo dei combustibili fossili, la deforestazione, l’agricoltura intensiva ecc. I gas serra si comportano esattamente come le pareti trasparenti delle serre agricole: lasciano passare la luce visibile, ma fanno da scudo ai raggi infrarossi e il processo determina un aumento percettibile della temperatura al suolo. Dati alla mano, la concentrazione di CO2 è aumentata da 290 a 380 parti per milione in volume dal 1880 al 2006 e continua ad aumentare anche oggi a un ritmo di 1,4 p.p.m.v. Preso atto della situazione, i paesi industrializzati sono corsi ai ripari impegnan- dosi, con il Protocollo di Kyoto del 2005, a ridurre tra il 2008 e il 2012 il totale delle emissioni dei gas serra di un minimo del 5 per cento in rapporto al 1990. C’è da ribadire comunque che tra i paesi non aderenti figurano gli Stati Uniti, i responsabili del 36,2 per cento del totale delle emissioni atmosferiche inquinanti globali stando a dati che risalgono al 2001. Un mare di guai... Ovviamente il cambiamento climatico ha gravi conseguenze anche sull’ecosistema marino. Ne risente tanto più il Mediterraneo che, essendo un bacino semichiuso, risulta più colpito dal fenomeno del surriscaldamento accelerato che gli altri mari. Sono due in particolare i fenomeni che ne derivano: quello della “meridionalizzazione” e quello di “tropicalizzazione” del Mediterraneo. Di cosa si tratta esattamente? In conseguenza all’aumento della temperatura del mare, specie termofile hanno ampliato i rispettivi areali, espandendosi in più estese porzioni del Mediterraneo rispetto a prima. Non si tratta ancora di specie, per così dire, aliene: quelli termofili, sono comunque organismi tipici del nostro mare. Stanno semplicemente conquistando nuovi territori in seguito al suo graduale riscaldamento, come ad esempio il barracuda del Mediterraneo e il pesce pappagallo. Diverso è il fenomeno della tropicalizzazione. Negli anni particolarmente caldi, in determinati punti le acque superficiali del Mediterraneo sono arrivate a sfiorare i 30 gradi! Proprio come in Polinesia. Niente di sorprendente, dunque, se oggi si assiste a un processo di graduale “importazione” delle specie alloctone, di origine tropicale o subtropicale, provenienti da mari più caldi del nostro e penetranti dallo stretto di Gibilterra o dal Canale di Suez, chiaramente con la complicità dai trasporti (le acque di zavorra navali ne sono un veicolo di propagazione eccellente) e da altre attività prettamente umane in mare. Secondo l’ICRAM (Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare), le specie non native che hanno sinora conquistato il Mediterraneo sarebbero oltre 700. Si tratta di vari tipi di barracuda (Sphyraena sphyraena), del pesce palla (Arothron meleagris), del pesce scorpione (Pterois volitans), del pesce flauto (Fistularia commersonii), ma anche di altri organismi marini, invertebrati compresi, e ovviamente di alghe di provenienza indopacifica. Caulerpa taxifolia l’alga assassina Temuta a ragione è Caulerpa taxifolia (da taxus, tasso: caulerpa dalle foglie di tasso), appartenendo la specie a quel gruppo di alghe che si espandono con rapidità estrema minacciando la stabilità degli ecosistemi autoctoni. Il meccanismo dell’invasione è noto: l’introduzione di una specie aliena, che non ha predatori o competitori nel nuovo ambiente, è libera di espandere il suo dominio a dismisura. Se lo fa a scapito degli organismi nativi, comporta l’estinzione delle specie autoctone, perdita di biodiversità e drammatici squilibri nell’ecosistema. La Caulerpa taxifolia è considerata giustamente un’alga killer: è ricca di tossine e come alimento è poco appetibile. Come le “sorelle” racemosa e prolifera è un’alga verde (le alghe più evolute) che avanza rapidamente. Molto probabilmente si è insediata nel Mediterraneo grazie a frammenti di filtri sfuggiti in mare dall’acquario di Monaco, tanto è vero che è stata avvistata la prima volta proprio nelle acque antistanti l’acquario nel 1984. All’epoca copriva una superficie di un solo metro quadrato. Dopo vent’anni scarsi, nel Mediterraneo è ormai onnipresente. A tutto svantaggio delle nostre autoctone praterie di Posidonia oceanica, che nella battaglia per l’habitat sembrano proprio destinate a soccombere, specie in condizioni di inde- bolimento della pianta determinate da erosioni dei fondali dovute a insistente ancoraggio e pesca a strascico oltremodo invasiva. L’uomo favorisce, insomma, l’annientamento di una specie autoctona da parte di una estranea all’ambiente mediterraneo! Posidonia oceanica praterie in estinzione Poco male – si pensa comunemente – se un’alga rimpiazza un’altra. Errore madornale. Intanto, la Posidonia è una fenerogama e non un’alga, quindi una pianta con fusto, foglie e fiori a tutti gli effetti. In secondo luogo, una prateria non vale l’altra: quelle di Caulerpa taxifolia sono tutt’altro che biofile, anzi, sono vere e proprie distese di morte. Nelle praterie di Posidonia, al contrario, la vita e la biodiversità pullulano in un centinaio di specie di animali e di piante marine diverse che le abitano, vi trovano nutrimento e si riproducono perfettamente al riparo. Tra queste anche specie rigorosamente protette, come la Pinna nobilis, il bivalve più grande del Mediterraneo, ma anche commestibili, che hanno grande importanza economica. Le praterie di Posidonia sono, infatti, le aree di più elevata variabilità biologia del nostro mare. E stanno scomparendo. Anche nel nostro piccolo. In Istria resistono ancora soltanto lungo le coste all’estremo meridione della penisola. La velocità con cui scompaiono non ha confronti con i tempi necessari alla sua rigenerazione: il fusto della Posidonia cresce lentamente, in pratica un centimetro all’anno. Ovviamente, con questo potenziale di espansione estremamente ridotto, la pianta non ha speranze contro taxifolia e sorelle nella lotta per la luce, l’ossigeno, la vita... Latte materno ai... policlorobifenili L’uomo sta forzando la natura. Fin qui niente di nuovo, a quanto pare. Il punto è: la natura può tollerare l’uomo a lungo andare? Secondo le Nazioni Unite, l’80 per cento di tutto l’inquinamento marino proviene da attività svolte a terra. Solo un 20 per cento in media è costituito da sorgenti marine ed è comunque dovuto soprattutto al trasporto marittimo. Il Piano d’azione Mediterraneo delle Nazioni Unite rivela che ogni anno nel Mediterraneo finiscono da 100 mila a 150 mila tonnellate di idrocarburi. Si aggiungano al quadro pesticidi e fertilizzanti dell’agricoltura intensiva, medicinali scaduti, detersivi e altri prodotti per la pulizia, ma anche ciò non salta immediatamente nell’occhio come le sostanze isolanti o ritardanti antifiamma delle apparecchiature elettroniche come i policlorobifenili (BCP), sostanze estremamente persistenti con tendenza al bioaccumulo di cui troviamo traccia persino nel latte materno, e delle quali non conosciamo ancora gli effetti sulla nostra salute! E veniamo ai macro rifiuti: plastica, polistirolo, lattine, bottiglie di vetro. Secondo l’UNEP, ogni anno ne finiscono in mare 6,4 milioni di tonnellate o 8 milioni di pezzi al giorno, di cui 5 milioni provenienti dalle navi. Scienziati tedeschi hanno contato 110 pezzi di rifiuti solidi per chilometro quadrato nel Mare del Nord. La plastica è il male peggiore. La produzione annuale è pari a dieci milioni di tonnellate. Il 10 per cento finisce in mare. Le conseguenze? Secondo le Nazioni Unite, ogni anno la plastica gettata in mare uccide fino a un milione di uccelli, circa 100 mila mammiferi marini e un numero incalcolabile di pesci. Sempre secondo le Nazioni Unite, su ogni chilometro quadrato dei mari del mondo galleggiano 13 mila pezzi di plastica che, in assenza di venti e correnti, tendono a concentrarsi creando “isole” o concentrazioni tali che per ogni chilogrammo di plancton si contiamo 6 kg di immondizia! L’impronta ecologica: un pianeta non basta Tornando alla tolleranza della natura, alla sua capacità di reggere il peso dell’azione umana, un metodo interessante di “calcolo” dell’impatto della nostra specie sul pianeta è quello dell’impronta ecologica, che sostanzialmente risponde alla domanda: quanta “terra” serve a un individuo per sopravvivere? Il concetto da comprendere è che ogni bene prodotto, ogni attività svolta, comporta dei costi per l’ambiente. Costi quantificabili in ettari di terreno, volendo. Attualmente l’impronta ecologia della specie a livello mondiale equivale a 2,2 ettari pro capite mentre la capacità sostenibile del pianeta è di 1,9 ettari pro capite. In altri termini, stiamo consumando più risorse di quante la Terra sia in grado di fornirci. Non tutti in uguale misura, però. L’impronta ecologica di un individuo cambia, ovviamente, da paese a paese. In vetta alla classifica c’è l’americano medio. Per sostenerne i consumi, ci vogliono ben 9,6 ettari di terra. In confronto, un ettaro solo di cui necessita un indiano oppure lo 0,7 di ettaro dell’etiope, sono esempi di un impatto ambientale irrilevante per il futuro della Terra. In Europa i dati differiscono ulteriormente: l’impronta ecologica di un italiano equivale a 4,2 ettari, quella di un francese a 5,3, quella di uno svedese, invece, a 6 ettari. Come dire, un certo tenore di vita e la produzione di rifiuti vanno a braccetto. Un pianeta di queste dimensioni e con questo stesso numero di abitanti tutti aventi lo stesso il tenore di vita di un cittadino statunitense medio, se anche fosse possibile da un punto di vista economico e sociale, di certo non avrebbe speranze in termini ecologici: ce ne vorrebbero due di pianeti, a quel punto, per sostenere un’umanità che non distingue più il necessario dal superfluo... «Li voglio vivi» compie dieci anni “Li voglio vivi”, una delle “storiche” campagne di Legambiente, avviata in difesa del mare Mediterraneo, ha compiuto dieci anni e si è conclusa proprio a coronamento dell’anniversario con la raccolta, la riorganizzazione e Il risultato tangibile della campagna in un volume che insegna a rispettare il mare la redazione del materiale scientifico accumulato nel suo corso: il risultato tangibile dell’opera è un libro dalle finalità divulgative e didattiche intitolato “Li voglio vivi – il libro del mare”, un volume che non presenta pretese di sorta se non quella di imprimere (specie tra chi cresce e studia, ma non solo) quel sentimento di amore e di rispetto profondo per il mare e per le sue risorse, che scarseggia invece tra le menti miopi dei suoi sfruttatori più imperterriti. Come rileva nella prefazione il Responsabile Mare di Legambiente Sebastiano Venneri, il volume consentirà al lettore di approfondire in modo sistematico la conoscenza del mare e di apprendere, oltre ai pericoli che ne minacciano il futuro, anche i comportamenti virtuosi che ognuno di noi potrà in prima persona praticare. In questo servizio ne proponiamo un assaggio. Circoscritto da oltre 46.000 chilometri di coste, isole comprese, e racchiuso fra tre continenti, il Mar Mediterraneo è di fatto il più grande bacino semichiuso del pianeta. Ciò a significare che è caratterizzato da uno scarso ricambio delle acque, che infatti hanno un tempo di rinnovamento di cent’anni nel caso delle sole acque superficiali, mentre ci vogliono ben 7.000 anni per un ricambio totale delle acque dell’intero bacino. Secondo alcuni oceanografi, infatti, una goccia d’acqua proveniente dall’Oceano Atlantico, entrata attraverso lo stretto di Gibilterra, impiegherebbe più di 150 anni a compiere tutto il giro del Mediterraneo! Questa sua proprietà specifica si deve alla forma e alle dimensioni del mare, che presenta difatti una lunghezza massima misurabile tra Gibilterra e la Siria di 3.800 km, e una larghezza massima di 900 km tra Francia e Algeria, fermo restando che la “porta” del mare – lo stretto di Gibilterra – si apre all’Atlantico per una larghezza che varia dai 14 a non più di 44 km. Ancora: la profondità media si attesta sui 1.500 metri, ma vanno rilevate le sue oscillazioni notevoli tra le punte di 4.000 metri dello Ionio e la bassa profondità che invece caratterizza l’Adriatico, dove, eccezion fatta per la depressione del sub bacino meridionale, che raggiunge i 1.230 metri di profondità, non supera i 200 metri (nella sua parte settentrionale nemmeno i 50 metri). Inoltre, il Mediterraneo è un mare oligotrofico, ossia ricco di ossigeno ma povero di sostanze nutrienti. La sua temperatura media annuale è di 15 gradi nel bacino occidentale e di 21 in quello orientale. La salinità media varia tra il 36,2 e il 39 per mille: in parole povere, è un mare piuttosto salato. Un fatto questo, derivante anche dal suo bilancio idrico marcatamente negativo: difatti, l’apporto d’acqua dei fiumi che vi trovano sbocco è insufficiente a rimpiazzare le perdite dovute a un elevato tasso di evaporazione, che con l’aumento delle temperature è destinata a crescere. Pur occupando soltanto lo 0,7 per cento di tutte le superfici marine del pianeta, il Mediterraneo racchiude in sé la bellezza del 7 per cento di tutte le specie marine conosciute al mondo! Vi sono presenti infatti oltre 580 specie di pesci (ben 48 tipi di squali e la bellezza di 36 tipi diversi di razze), 21 specie di mammiferi e 5 di tartarughe, senza dire dell’abbondanza di vegetali, che sfiorano le 1.300 specie. Si tratta infatti di un serbatoio di biodiversità più unico che raro ed è proprio per la sua straordinaria ricchezza e l’elevata presenza di specie endemiche che il “mare nostrum” è stato qualificato dall’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) come “global biodiversity hot spot”, vale a dire uno dei posti non solo più ricchi di varietà biologica ma anche uno dei più vulnerabili. Emblematica è in tal contesto la fenerogama posidonia (Posidonia oceanica), una specie endemica del Mediterraneo che con le sue “praterie” copre una superficie di ben 37.000 kmq, rappresentando al contempo uno degli ecosistemi più importanti del bacino ma anche l’anello debole della catena, essendo minacciata tanto dall’uomo direttamente quanto da specie “aliene” che la stanno letteralmente soffocando. Lo stretto di Gibilterra 6 mare Mercoledì, 12 novembre 2008 AMBIENTE Spedizione scientifica nella depressione del sub bacino meridionale Dalla Soglia di Pelagosa un mond di Ivo Vidotto U n team internazionale di scienziati, del quale facevano parte pure due esperti dell’Istituto di oceanografia di Spalato – il dott. Nedo Vrgoč e il prof. Igor Isajlović –, ha compiuto verso la metà di agosto una ri- cerca incentrata sulla fauna abissale, finora non sufficientemente studiata, nelle parti più profonde della depressione del sub bacino meridionale dell’Adriatico, da 1.100 a 1.200 metri di profondità. Fin da subito, gli esperti sono giunti a due importanti conclusioni. La prima è quella che tutti si aspettavano, ossia l’elevato valore biologico dell’area, con una grande varietà di specie abissali, specialmente pesci e cefalopodi. La seconda conclusione, però, lascia l’amaro in bocca. “Abbiamo dovuto constatare – ha dichiarato il dott. Nedo Vrgoč – che la depressione a sud della Soglia di Pelagosa ha l’aspetto di una grande discarica”. È stata segnalata, infatti, un’enorme quantità di rifiuti antropogeni, in particolar modo di plastica, “decisamente superiore alla quantità di rifiuti che riscontriamo lungo la costa”, ha puntualizzato Nedo Vrgoč. Un mare destinato a scomparire Il bacino adriatico ha delle caratteristiche geologiche e morfologiche del tutto particolari: più di un terzo dei suoi fondali non supera infatti la profondità di 50-60 m, al contrario dei bacini ionici, dove si osservano le Il prof. Igor Isajlović (a sinistra) e il dott. Nedo Vrgoč maggiori profondità del Mediterraneo. Il bacino dell’Adriatico si trova tra la catena appenninica e l’area dei Balcani: è una zona in forte compressione, con il margine della placca europea che scende al di sotto della placca di Adria. È un mare poco profondo, rapidamente riempito dai sedimenti che provengono dall’erosione delle due catene che si fronteggiano e in un prossimo futuro geologico è destinato a scomparire. La Soglia di Pelagosa È distino in tre bacini diversi. La parte settentrionale, o Alto Nella depressione, a oltre 1.000 metri di profondità, una quan Vieste e sullo sfondo Pelagosa La Soglia di Pelagosa segna il confine tra l’Adriatico centr La specie più diffusa e comune nell’Adriatico Quanti nuovi pesci nel nostro mare? La presenza di nuove specie di pesci – e non soltanto pesci – nell’Adriatico non ci dovrebbe sorprendere più di tanto. È la conseguenza di mutazioni climatiche che inevitabilmente incidono sull’ambiente, rendendolo più accogliente per determinate specie e meno per altre. Secondo molti esperti, alla fine del secolo la temperatura media dell’Adriatico aumenterà di almeno 1,8 gradi, ritornando a valori di 120.000 anni fa, quando il livello del mare era di 5-8 metri più elevato. Tre milioni di anni fa, il livello del mare superava di 25 metri quello attuale, ma la temperatura del mare era superiore di 2-3 gradi, per cui un nuovo incremento delle temperature farà aumentare anche il livello del mare. Quanto tempo ci vorrà? Secondo la maggior parte degli scienziati, ci vorranno ancora diversi secoli, mentre altri sostengono che la cosa potrebbe interessarci molto prima del previsto. Si tratta sempre e comunque di valutazioni e come tali vanno trattate. Molto dipenderà da noi e da come sapremo atteggiarci verso il pianeta che ci ospita. Che gli animali vadano sempre in cerca di ambienti più accoglienti, è un dato scontato, ed è scontato pure che le specie migranti costringono a cambiare vita quelle che invece da secoli o millenni vivevano in un determinato ambiente. “È difficile prevedere la capacità di adattamento delle specie animali a nuove condizioni di vita, dovute ai cambiamenti climatici – sostiene il prof. Jakov Dulčić, esperto dell’Istituto di Oceanografia di Spalato, che abbiamo contattato –. Gli spostamenti migratori quali condizioni ideali di sopravvivenza non sempre sono possibili, a causa di nicchie ecologiche Donzella pavonina isolate e di barriere naturali e artificiali. I fattori antropogeni – ossia l’uomo – riducono ulteriormente le possibilità di sopravvivenza di determinate specie, ostacolando le migrazioni e frammentando il loro habitat. Le fluttuazioni e i cambiamenti delle caratteristiche oceanografiche e idrografiche dell’Adriatico incidono in maniera determinante sulla biodiversità dell’ittiofauna. Negli ultimi anni siamo stati testimo- ni di un’estensione degli areali di specie termofile, provenienti dal Mar Rosso (i cosiddetti migranti lessepsiani), nonché dall’area indo-pacifica, dall’Atlantico e dal Mediterraneo”. “In virtù di questi cambiamenti, nell’Adriatico è stata notata, ad esempio, la presenza del Pesce lucertola (Saurida undosquamis), che viene pescato nell’Egeo, ma anche del Pesce pony (Leiognathus klunzingeri), che ne rappresenta l’ali- mare 7 Mercoledì, 12 novembre 2008 do da scoprire Adriatico, è coperta interamente dai depositi alluvionali dei grandi fiumi del Nord-est e, soprattutto del Po ed è caratterizzata da fondali che lentamente digradano fino a una profondità massima di 75 m. La parte centrale è una depressione chiusa più articolata, la cosiddetta Fossa del Medio Adriatico, profonda 266 m. La parte più meridionale costituisce il Basso Adriatico ed è caratterizzata da una piana – la depressione del sub bacino meridionale, infatti – profonda in media 1.000 m, dove si raggiunge la massima profondità del bacino (1.230 m) al largo delle coste pugliesi. La depressione del sub bacino meridionale dell’Adriatico inizia a sud della Soglia di Pelagosa, che segna il confine tra l’Adriatico centrale e quello meridionale, e si protende fino allo stretto di Otranto. La superficie dei fondali a più di 1.000 metri di profondità supera i 10.000 chilometri quadrati. Verso Sud i fondali risalgono fino alla profondità di 800 ntità incredibile di rifiuti ale e il Basso Adriatico m in corrispondenza dello Stretto di Otranto, che separa l’Adriatico dal Mar Ionio. Gli scienziati, che per una settimana hanno preso parte al progetto comune di ricerca AdriaMed, eseguito da esperti dei Paesi adriatici sotto il patrocinio della FAO, sostengono che la causa può essere individuata nelle caratteristiche geomorfologiche di questa parte dell’Adriatico e dalle forti correnti marine che in un certo senso trasportano e concentrano i rifiuti galleggianti nella depressione del sub bacino meridionale. Trascurando le “scoperte” ecologiche, la spedizione ha avuto un grande successo, in quanto gli scienziati sono ritornati con una trentina di specie diverse di pesci abissali, crostacei e cefalopodi. La campionatura è stata effettuata a bordo della nave scientifica da pesca “Andrea”, proprietà dell’Università degli studi di Bologna, con diversi tipi di reti, palangari e nasse. Gli esemplari catturati sono stati poi inviati a diversi istituti scientifici che avranno poi il compito di analizzarli e catalogarli. Durante le ricerche non sono state individuate specie commercialmente interessanti, ma dal punto di vista scientifico si è trattato indubbiamente di una spedizione molto importante e il numero di specie individuate a profondità superiori ai 1.000 metri è tale da giustificare ulteriori studi, ma anche interventi per tutelare un delicatissimo ecosistema già compromesso da fattori antropogeni. Tra i pesci catturati dalla nave scientifica “Andrea” figurano anche due specie molto rare nell’Adriatico, ossia il Pesce vipera (Chauliodus sloani) e la Chimera (Chimaera monstrosa), che presentiamo a parte. Pesce pappagallo mento principale. La migrazione lessepsiana – ha spiegato il prof. Dulčić – è l’ingresso e la stabilizzazione di specie animali e vegetali dal Mar Rosso nelle acque del Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. Il nome deriva da quello di Ferdinand de Lesseps, progettista del canale che unisce i mari Rosso e Mediterraneo”. Per le sue carni, considerate di buona qualità, il Pesce lucertola potrebbe anche venir com- Pesce vipera: il predatore degli abissi Un ecosistema da proteggere mercializzato in un futuro, ma non prima che ne venga studiato il comportamento nei confronti delle specie autoctone, specialmente della Sardina (Sardina pilchardus) e dell’acciuga (Engraulis encrasicolus). “C’è poi il Pesce serra (Pomatomus saltator), che fino a poco tempo fa si poteva pescare soltanto nel Sud Adriatico e ora spostatosi verso il Medio Adriatico – ci ha detto ancora il prof. Jakov Dulčić –. Alcuni esemplari I l pesce vipera (Chauliodus sloani), detto anche vipera di mare, è un pesce d’acqua salata che appartiene alla famiglia degli Stomiidae. È uno dei più feroci predatori degli abissi e vive nelle acque tropicali e temperate di tutti gli oceani. È stata riscontrata la sua presenza nel Mediterraneo occidentale e ora anche nell’Adriatico. Durante il giorno staziona fra i -500 e i -3000 m di profondità; durante la notte nuota vicino alla superficie. È munito di un’enorme bocca disarticolabile che gli consente di afferrare grandi prede. I denti ricurvi sono così lunghi che gli impediscono di chiudere la bocca. Le sue squame sono azzurrine, più scure sul dorso e sul ventre. I fotofori, oltre che nella boc- ca, sono disposti in doppie file anche sui fianchi, sul ventre e alcuni pure sulla testa. La lunghezza del pesce vipera va dai 30 ai 60 cm. Il pesce vipera fa parte di quegli animali marini bioluminescenti, ovvero che producono luce o per delle reazioni chimiche che avvengono all’interno del loro organismo o per mezzo di alcuni batteri, ospitati in appositi organi, i fotofori. La bioluminescenza, ovvero l’emissione biologica di luce, serve per comunicare, per catturare prede, per difendersi o mimetizzarsi. Il pesce vipera, in particolare, attira le proprie prede con circa 350 organi luminosi all’interno della bocca. Si nutre di crostacei e pesci. È predata normalmente dai delfini, da alcuni squali, nonché da altri pesci, come merluzzi e lampughe. Chimera: la «cugina» degli squali L a Chimera (Chimera monstrosa) è uno dei pesci cartilaginei più curiosi che si conoscano. È infatti un pesce atipico in quanto appartiene alla classe dei Condroitti, ma le sue caratteristiche fisiche e abitudini si allontanano molto da quelle degli squali e delle razze. Prima di tutto mancano in questo pesce le squame placoidi che ricoprono i suoi “cugini” squali. La pelle della Chimera, infatti, è completamente nuda. Ha un corpo compresso, assai allungato ed assottigliantesi progressivamente in direzione antero-posteriore. È una specie dotata di capo grande e di forma bizzarra. Ha una bocca piccola, situata in basso, collegata alle narici da due solchi profondi, munita di 2 piastre dentarie sulla mascella Pesce lucertola sono stati pescati anche nell’Alto Adriatico, più precisamente nella baia di Torre, in Istria, nel dicembre del 2003. Con le acque entranti nell’Adriatico, è aumentata la presenza di altre due specie, ossia la Corifena cavallina Coryphaena hippurus) e il Pesce nastro (Trachypterus trachypterus). Ci sono stati, negli ultimi anni, anche altri cambiamenti, come l’estensione del periodo riproduttivo della Sardina, che dura da settembre a superiore e di una su quella inferiore. La Chimera è dotata di una prima pinna dorsale provvista di aculeo velenifero seghettato. La seconda dorsale forma un orlo dorsale che si protende nella pinna caudale, terminante a forma di frusta. I maschi sono dotati di organi copulatori claviformi situati sui lati interni delle pinne ventrali; presentano inoltre un’appendice frontale che probabilmente viene utilizzata durante l’accoppiamento per tenere la femmina. È un pesce bentonico lento che vive a profondità da 200 a 1000 m. È presente solo nel Mediterraneo centrale e occidentale. Fino alla spedizione scientifica della nave “Andrea”, c’era stato un solo ritrovamento (due piccoli esemplari) nell’Adriatico. Corifena cavallina giungo, anziché da ottobre a maggio. La Papalina Sprattus sprattus), inoltre, si è spostata dal Quarnero verso sud, mentre l’Alaccia (Sardinella aurita) ha esteso il proprio habitat anche all’Alto Adriatico, addirittura in quantità commerciabili”. L’esperto dell’Istituto di Oceanografia di Spalato ci ha detto, inoltre, che determinate specie vengono usate come indicatori biologici proprio per studiare i cambiamenti delle caratteristiche idrografiche del mare. Tra questi nuovi abitanti dell’Adriatico figurano la Donzella pavonina (Thalassoma pavo), il Pesce pappagallo (Sparisoma cretense), il Centrolofo viola (Schedophilus ovalis), il Pesce serra (Pomatomus saltator) e la Leccia stellata (Trachinotus ovatus). L’aumento della loro presenza è stato notato tra il 2002 e il 2003 e ora viene seguito il loro spostamento verso Nord. (iv) 8 mare Mercoledì, 12 novembre 2008 UN TUFFO NEL PASSATO Il principale artefice dello sviluppo della marina austroungarica L’arciduca Massimiliano e un uomo in mare di Giacomo Scotti I n quelle acque meridionali sotto i raggi del sole, l’arciduca marinaio tornò con la mente a uno “stupendo e allegro Viaggio in Oriente” compiuto qualche anno prima e rimase assorto “nella contemplazione del mare che si stendeva infinito e di un profondo azzurro davanti a me”. L’ indomani, 3 agosto, aggiunse la seguente profonda considerazione: “Cosa può la natura, con quali forze può governare e distruggere, come danzano le acque, come lottano aria e nubi, questo lo si può osservare solo sulle Alpi presso un terribile lago alpestre, oppure sulla vasta e infinita arena del mare. Qui l’animo scosso percepisce quanto sia piccolo e insignificante l’uomo; eppure il suo coraggio e orgoglio crescono quando considera che è il suo ingegno che solca le onde, che sa governare i lampi del cielo. Un tale momento che commuove cuore ed anima noi vivemmo questa notte e ne gioimmo”. Lasciamo alla penna di Massimiliano di descriverlo: “Fu un’immensa lotta degli elementi; i lampi risplendevano più penetranti che la luce del giorno, i tuoni rombavano a colpi secchi più forti del suono del più potente cannone; e brevi, violente raffiche di vento si intromettevano con fischi acuti; la pioggia si rovesciava dal cielo. Mi alzai verso le 4, mi vestii in fretta e mi recai per un momento in coperta a godermi lo spettacolo insolito. La messa, stabilita per le 10, non ebbe luogo, perché il cappellano era indisposto ed il rollio era troppo forte”. «Pittoresche alture rocciose e brulle» Ci fu però la rivista seguita dalla musica. Nel pomeriggio, cessato il maltempo, la nave si accostò a due miglia dalla terraferma italiana, sicché i marinai poterono distinguere bene la cit- momenti di terribile pena ed orrore; ci domandammo se il povero uomo avesse la forza di resistere ai flutti. Finalmente i remi si mossero, la scialuppa si avvicinò sempre di più allo sfortunato e infine lo vedemmo aggrapparsi ad essa e, grazie a Dio, fu tratto in salvo”. La fiera Messina illuminata dal sole rovente Una cabina della “Novara” Il turno di guardia dalle 4 alle Stromboli ancora fumante. Oltre8 antimeridiane si ripeté per l’ar- passato il faro, il comandante della ciduca Massimiliano anche il 5 fregata -tramite segnali-prese conagosto: “furono senz’altro le quat- gedo dalla nave a vapore “Lucia” tro ore più interessanti nelle quali che prese la via del ritorno verso mi passarono davanti immagini di Trieste dove contava di arrivare una parte importante e significati- in cinque o sei giorni. Verso sera, va della storia del mondo”, quel- invece, la “Novara” fece rotta per lo dell’antica civiltà ellenica, della Napoli. La “Novara” Magna Grecia. Il vulcano Etna ne Col tempo bello e il mare calcon le vele ammainate era stato il testimone, ai suoi piedi mo, però, il grande veliero rimatà di Otranto e il suo promonto- ebbe luogo “più di qualche genoci- se fermo quasi tutta la giornata rio. Per l’arciduca “ambedue non dio”. Grande impressione lasciò la del 6 agosto sempre in vista dello offrono nulla di eccezionale”: le visione della “fiera Messina” illu- Stromboli lasciato alle spalle. Dusolite torri a difesa dai pirati del minata dal “sole rovente, italiano, rante la notte non aveva fatto nepmare, una terra di “un desolante avvelenatore del sangue siciliano”, pure un miglio di cammino. “Nel colore terreo”. una città “le cui torri, i palazzi e corso della mattina vedemmo la Al tramonto la “Novara” ol- la fortezza appaiono ora nel loro costa di Policastro”. Il turno di trepassò il Capo di Santa Maria di Leuca, e al cospetto dello “spettacolo meraviglioso offerto dal tuffo del sole nel mare” il cuore dell’arciduca gioì. Alzatosi alle 3, l’arciduca fece il suo turno di guardia del 4 agosto dalle 4 dell’alba alle 8. Quel giorno la nave navigò al largo delle coste della Calabria offrendo allo sguardo “pittoresche alture, rocciose e brulle” trasformate “in quadri meravigliosamente poetici” dallo sfarzo del sole. La bella visione fu interrotta alle 11,30 da un improvviso tonfo nell’acqua del corpo di un maNapoli, la fine del viaggio di Massimiliano rinaio. “Mi precipitai sul cassero di poppa e vidi la pietosa e com- splendore fra il verde di lussureg- guardia del principe-marinaio fu movente scena di un povero ma- gianti giardini”. dalle 18 alle 20. “Il tramonto era L’arciduca volse poi gli occhi stato splendido, la palla di fuoco, rinaio che era caduto dalla coffa del pennone e che lottava con le a Reggio Calabria e la sua penna avvolta di incandescenza dorate onde per avvicinarsi alla nave, sciolse altri inni alle bellezze di quel affondò sontuosamente nel mare ma che ne veniva sempre più al- “suolo antico”. Dedicò l’attenzione tranquillo; le montagne di Salerlontanato. Il cavo di rimorchio anche al “tanto decantato stretto di no si delineavano nettamente con venne calato, le vele ammaina- Scilla e Cariddi”, rievocò i canti di massicci grigi (...); avvolti parte, con la massima velocità fu in- Omero, citò Schiller. Ma quando la zialmente da pesanti nubi, mostraviata una scialuppa (...). Furono nave ebbe attraversato tranquilla- vano i monti di Policastro. Quanto mente quello “stretto di scarsa im- poetica fu questa scena per l’ocportanza”, l’imperiale cronista si chio, tanto triste essa fu per il mafece beffa del terrore provato da rinaio, poiché la bonaccia ci aveUlisse. E pur scoprendosi entusiasta va preso sotto le ali plumbee e la del paesaggio della Calabria e della nostra nave, si trovò sul mare liSicilia, affascinato dai miti, alla fine scio trasformata in un’isola”. Anche, il 7 agosto la nave refinì pur sempre per spegnere ogni proprio e altrui entusiasmo di fronte stò quasi ferma, con le vele flosce. al “paese dove fioriscono i limoni”. Dopo un’intera notte, al mattino Annotò: “Per quanto stupendo sia di quel giorno si constatò che lo il panorama di Messina, i golfi di Stromboli era sempre visibile viPatrasso e di Lepanto lo sono an- cino. Nel corso della mattinata, cora di più”. tuttavia, “il vento aumentò leggermente”, sicché verso le 3 e mezzo Napoli, fine del pomeriggio l’arciduca poté avvistare il Vesuvio. La speranza di del viaggio raggiungere presto il porto di NaLasciandosi sulla sinistra le poli, però, fu di breve durata. L’8 isole Vulcano, Lipari e Panaria, agosto il principe-marinaio scrisla “Novara” si trovò di fronte allo se: “Come i Greci accampavano davanti Troia, così noi eravamo fermi davanti all’ingresso di Napoli. Ogni giorno si pensava di raggiungerla, ma non soffiava mai un vento favorevole”. Quel giorno la nave era ferma all’altezza di Nicola, gli uomini soffrirono per il caldo torrido. Alle 7 e mezzo del 9 agosto l’arciduca poté ammirare “le forme splendidamente pittoresche dell’isola di Capri”. Furono avvisiate anche le isole di Ischia e Procida e iniziò l’ingresso della fregata tutta vele nel golfo “della tanto famosa Napoli”. Il permesso di sbarco negato La giornata era fosca. La fregata girò intorno al Castel dell’Ovo spinto avanti nel mare, poi apparve il Palazzo Reale massiccio e maestoso, l’arciduca cominciò a sentire “che Napoli è una grande città, che Napoli è bella” e tale apparve finalmente agli occhi di tutti quando il panorama cambiò con lo schiarirsi del cielo. A questo punto il diario è “sopraffatto” dal susseguirsi di alcune pagine di entusiastica descrizione di una delle città più belle e affascinanti del mondo. A titolo di cronaca: nonostante la presenza a bordo del fratello dell’imperatore austro-ungarico, le autorità di Napoli fecero attendere la fregata per diverse ore all’ancora, negando il permesso di sbarco all’equipaggio e allo stesso arciduca perché erano arrivati da Trieste senza alcun certificato di “buona salute”. Attesero dall’una alle cinque pomeridiane. Quando finalmente Massimilano, il comandante e alcuni ufficiali poterono sbarcare, furono salutati con 21 colpi a salve di cannone. “Saltammo a terra sulla banchina dopo nove giorni trascorsi sul mare e come per magia, fummo trasportati in un altro mondo, un mondo talmente confusionario che le nostre teste misero molto tempo per raccapezzarsi”. La folla in movimento per le strade era tale che in Austria si sarebbe presa per sommossa popolare, “qui era solo la vernice quotidiana”. Non è un racconto avventuroso, vero? Ma non succedeva spesso che un principe di casa imperiale fosse sottoposto alla disciplina e ai doveri di un semplice cadetto di marina. (2 e fine) Anno IV / n. 35 del 12 novembre 2008 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: MARE [email protected] Redattore esecutivo: Ivo Vidotto / Impaginazione: Vanja Dubravčić Collaboratori: Roberto Venturini, Giacomo Scotti, Daria Deghenghi, Danilo Prestint Foto: Ivo Vidotto, Lucio Vidotto, Goran Žiković La pubblicazione del presente supplemento viene supportata dall’Unione Italiana grazie alle risorse stanziate dal Governo italiano con la Legge 193/04, in esecuzione al Contratto N° 83 del 14 gennaio 2008, Convezione MAE-UI N° 2724 del 24 novembre 2004