A. Bartoloni, G. Corti, L. Zammarchi CAPITOLO Infezioni dell’apparato urogenitale VULVOVAGINITI Le vulvovaginiti sono infezioni assai frequenti, per lo più benigne, in cui coesiste – in ragione della contiguità anatomica – l’interessamento di vulva e vagina. Sono causate essenzialmente da batteri, funghi del genere Candida e protozoi (Trichomonas vaginalis). Eziologia ed epidemiologia. Gli agenti eziologici sono numerosi. I più comuni sono descritti di seguito. Gardnerella vaginalis, un piccolo coccobacillo pleiomorfo, immobile, aerobio facoltativo, è di gran lunga il più frequente responsabile di una particolare tipologia di vulvovaginite che va sotto il nome di vaginosi batterica; altri possibili agenti causali sono rappresentati da Mycoplasma hominis e da batteri anaerobi (Bacteroides spp. diverse da B. fragilis, Atopobium vaginae, Mobiluncus spp., Prevotella spp., peptostreptococchi). Tra i miceti del genere Candida predomina, in oltre il 90% dei casi, C. albicans, essendo fortunatamente molto più rare le specie (in particolare C. glabrata e C. krusei, nonché C. lusitaniae, C. parapsilosis e C. tropicalis) meno sensibili ai farmaci antifungini azoli (fluconazolo e itraconazolo). T. vaginalis è un protozoo delle dimensioni di circa 7-8 10-25 m, che esiste soltanto in forma di trofozoite, estremamente mobile in virtù di quattro flagelli anteriori liberi e di uno posteriore integrato in una membrana ondulante. Queste patologie costituiscono le condizioni cliniche per cui una donna, non solo in età fertile, ricorre spesso a visita ambulatoriale. Mentre la prevalenza della tricomoniasi sembra essere in riduzione, le forme di natura fungina (che rappresentano la maggioranza delle vulvovaginiti, in particolare tra quelle recidivanti) e quelle di origine batterica (dal 10 al 30% del totale) appaiono in costante aumento. La vagina è normalmente colonizzata da una varietà di batteri, principalmente aerobi facoltativi e anaerobi obbligati, tra i quali soprattutto i lattobacilli, gli streptococchi “viridanti” e di gruppo B e gli stafilococchi. I motivi alla base del fatto che in talune situazioni la flora vaginale endogena va incontro a modifiche tali da favorire la proliferazione di agenti patogeni causa di vulvovaginite non sono del tutto compresi. Tra i principali fattori di rischio vanno annoverate la carenza di 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 641 15 estrogeni, la promiscuità e la frequenza dei rapporti sessuali, la preesistente condizione di irritazione chimica favorita da scarsa igiene intima e/o dall’impiego di abiti aderenti e di vari prodotti (detergenti, assorbenti, tamponi, profilattici, diaframmi), la coesistenza di patologie responsabili di difetti immunitari (infezione da HIV, diabete mellito) e a trasmissione sessuale e la precedente assunzione di antibiotici ad ampio spettro. Patogenesi. Nella vaginosi batterica causata da G. vaginalis il microrganismo, in virtù di modifiche sostanziali del milieu vaginale, tende a sostituire la flora protettiva costituita dai lattobacilli – che abitualmente ne limitano la crescita – probabilmente producendo perossido d’idrogeno. La natura venerea della tricomoniasi è universalmente riconosciuta: il protozoo sembra ledere l’epitelio vaginale per contatto diretto, cui fanno seguito l’attivazione del complemento e il richiamo di granulociti neutrofili nonché di cellule monocito-macrofagiche che determinano l’instaurarsi di un processo infiammatorio. Il contributo della trasmissione sessuale è invece modesto nella candidosi, dove sono importanti alcuni fattori già ricordati tra cui, in particolare: 1) cicli di terapia antibiotica ad ampio spettro che sopprimono i lattobacilli, ma anche preparati antinfettivi locali usati per trattare vaginosi batterica e tricomoniasi; 2) impiego di abiti aderenti, che determinano un microclima vulvare caldo-umido favorevole allo sviluppo dei miceti; 3) alterazioni della fagocitosi e/o dell’immunità cellulomediata osservabili in condizioni quali trapianti d’organo, chemioterapia, infezione da HIV; 4) elevati livelli di estrogeni, soprattutto in virtù dell’uso di contraccettivi orali, che predisporrebbero alla candidosi attraverso un’aumentata disponibilità di glicogeno vaginale, l’abbassamento del pH vaginale, o in seguito a modifiche delle cellule epiteliali vaginali che favorirebbero l’aderenza dei miceti. Sintomatologia. Il quadro clinico è caratterizzato dall’assenza di sintomi generali, mentre è dominato dalla presenza di irritazione vulvare e soprattutto di abbondanti secrezioni vaginali, aventi caratteristiche ben distinte tra le tre forme batterica, fungina e protozoaria (Tab. 15.1). 13/01/14 12:24 642 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale Tab. 15.1 Caratteristiche distintive delle vulvovaginiti. Vaginosi batterica Candidosi Tricomoniasi Irritazione vulvare ± ++ ++ Eritema delle piccole labbra – + ± Disuria – + ± Prurito – + + Dolorabilità vaginale – + + Dolorabilità annessiale – – ± Colore Bianco-grigiastro Biancastro Giallo-verdastro Consistenza Schiumosa Compatta Cremosa Odore sgradevole ++ (“di pesce”) – ± pH >4,5 <4,5 >4,5 Aderenza alla vagina + + – Cellule epiteliali Con batteri adesi Normali Normali Granulociti neutrofili Scarsi Variabili Numerosi Sintomi e segni Secrezioni vaginali Esame microscopico Diagnosi. Al di là delle varie caratteristiche riassunte nella Tab. 15.1, che possono essere di ausilio nella diagnosi differenziale – ancorché di non sempre facile interpretazione – tra le varie forme di vulvovaginite, alcune metodiche di laboratorio sono in grado di fornire un’accurata diagnosi eziologica; tra queste, soprattutto l’esame microscopico dell’essudato a fresco o dopo colorazione con varie tecniche, oppure l’isolamento in coltura da tampone vaginale, in particolare per i miceti. Nelle vulvovaginiti causate da T. vaginalis, inoltre, è possibile l’identificazione mediante tecniche di biologia molecolare quale la reazione a catena della polimerasi (PCR). Prognosi. È generalmente buona, anche se in taluni casi si possono verificare alcune complicanze: per esempio, la vaginosi batterica può determinare la comparsa di un’endometrite e/o di una salpingite, soprattutto in gravidanza, provocando così aborto e amniosite, oppure favorendo il travaglio anticipato e il parto prematuro. Le forme da Candida spp. mostrano la tendenza ad andare incontro a recidive frequenti e, nelle pazienti immunocompromesse, possono rappresentare il punto di partenza per infezioni sistemiche; la tricomoniasi può complicarsi con una vaginite enfisematosa e, in gravidanza, determinare parto prematuro con basso peso alla nascita. Terapia. Per il trattamento delle diverse forme di vulvovaginite si dispone di preparati per uso sistemico (orale) e topico. Nella vaginosi batterica si ricorre all’impiego di un preparato nitroimidazolico; per esempio metronidazolo, 500 mg due 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 642 volte al giorno per os (o per applicazione di gel intravaginale in monodose giornaliera) per 7 giorni, oppure tinidazolo per os, 2 g in unica somministrazione. In alternativa può essere utilizzata clindamicina per os, 300 mg due volte al giorno o la formulazione topica (crema od ovuli) per 7 giorni. Non è indicato il trattamento del partner, a meno che quest’ultimo presenti un quadro di balanite. I medesimi farmaci nitroimidazolici (metronidazolo e tinidazolo) possono essere usati nella terapia della tricomoniasi in monosomministrazione (2 g per os). Per questa patologia, a differenza di quanto avviene nella vaginosi batterica, è sempre raccomandato il concomitante trattamento del partner sessuale. Nel caso di fallimento terapeutico è possibile utilizzare gli stessi farmaci per più giorni (3-5). La terapia della candidosi si fonda sull’impiego degli azoli somministrati per via orale per un solo giorno (itraconazolo, 200 mg per due dosi o fluconazolo, 150 mg in monodose da ripetere eventualmente dopo una settimana). Va ricordato che entrambi sono efficaci soprattutto nei confronti di C. albicans (che rappresenta il principale agente causale) e meno attivi su altre specie di Candida. Come alternativa si possono impiegare creme per uso topico a base di miconazolo o di clotrimazolo. INFEZIONI DELLE VIE URINARIE Infezione delle vie urinarie (IVU) e batteriuria sono termini spesso usati come sinonimi, anche se la batteriuria è una semplice e frequente colonizzazione (in particolare nei soggetti 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale cateterizzati) del tratto urinario senza invasione tessutale e quindi clinicamente silente, mentre l’IVU si manifesta con la comparsa di sintomi a carico delle alte (rene, bacinetto) o basse vie urinarie (vescica, uretra). Infezioni delle basse vie urinarie Le infezioni delle basse vie urinarie sono patologie relativamente frequenti che possono interessare l’uretra (uretrite), la vescica (cistite) o entrambe (cistouretrite). Eziologia. I bacilli aerobi gram-negativi appartenenti alla famiglia Enterobacteriaceae, in particolare Escherichia coli, sono responsabili della maggior parte delle IVU contratte in ambito nosocomiale e tale eziologia è ancor più rilevante nelle forme comunitarie (Tab. 15.2). Staphylococcus saprophyticus è riconosciuto come frequente agente di infezioni delle basse vie urinarie in giovani donne, ove risulta il secondo patogeno in causa dopo E. coli; miceti del genere Candida sono riscontrabili quasi esclusivamente in pazienti immunocompromessi, soprattutto diabetici. Altre Enterobacteriaceae, quali Proteus mirabilis e soprattutto P. vulgaris, Morganella morganii e Providencia spp., Citrobacter spp. e bacilli del gruppo KES (Klebsiella-Enterobacter-Serratia), costituiscono microrganismi di raro isolamento nelle forme comunitarie, ma divengono rilevanti in quelle nosocomiali, dove possono determinare problemi terapeutici di non facile soluzione, qualora siano in causa ceppi antibiotico- o multiantibiotico-resistenti. È il caso dei sempre più diffusi microrganismi produttori di -lattamasi a spettro esteso (extended spectrum b-lactamases, ESBL), che Tab. 15.2 Principali agenti eziologici delle infezioni a carico delle vie urinarie. Comunitarie Nosocomiali Bacilli gram-negativi >85% 70-80% Escherichia coli 60-80% 30-60% Proteus mirabilis 5-10% 5-10% P. vulgaris, Morganella morganii, Providencia spp. Molto rari 5% Gruppo KES Raro 10% Pseudomonas aeruginosa Rara 10% Citrobacter spp. Molto rare Rare Cocchi gram-positivi <15% 15-25% Staphylococcus aureus Molto raro Molto raro Stafilococchi coagulasi-negativi Rari Rari Streptococchi Rari Molto rari Enterococchi Rari 15-20% Altri 1% 1% Candida spp. – 5% 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 643 643 nella maggior parte dei casi conservano una suscettibilità quasi esclusivamente ai carbapenemi. A complicare ulteriormente il panorama già fosco, si è assistito negli ultimi anni all’emergere di Enterobacteriaceae, soprattutto Klebsiella pneumoniae, produttrici di carbapenemasi e pertanto resistenti agli antibiotici disponibili di questa classe (ertapenem, imipenem, meropenem e doripenem), e di bacilli non fermentanti (Acinetobacter spp., Pseudomonas aeruginosa) di per sé intrinsecamente resistenti a un gran numero di antibatterici. Tra i cocchi gram-positivi responsabili di IVU, sia in ospedale sia a domicilio, soprattutto negli anziani affetti da iperplasia prostatica, vanno annoverati gli enterococchi. Enterococcus faecium è il più temibile in quanto multifarmaco-resistente, ma anche E. faecalis, il cui impianto a livello urinario è facilitato da diversi fattori di rischio (immunocompromissione, pregresse terapie antibiotiche, presenza di catetere vascolare e/o urinario) spesso mostra profili di antibiotico-resistenza complessi. Variazioni relative agli agenti eziologici di più frequente riscontro possono dipendere dal tempo di permanenza del catetere vescicale; per esempio, nei pazienti ospedalizzati in cui il catetere vescicale viene mantenuto per periodi di tempo inferiori a un mese, l’eziologia è prevalentemente monomicrobica, con preponderanza soprattutto di Enterobacteriaceae “facili” (E. coli, K. pneumoniae, P. mirabilis), Staphylococcus epidermidis e miceti (C. albicans), mentre soggetti cateterizzati per periodi di tempo superiori a un mese vanno generalmente incontro a batteriurie polimicrobiche in cui il ruolo principale è svolto da Providencia stuartii e altre specie di Proteus indolo-positive, bacilli gram-negativi non fermentanti (Acinetobacter spp., P. aeruginosa), enterococchi (compresi ceppi vancomicino-resistenti) e specie di Candida non-albicans. Alcune cistouretriti riconoscono un’eziologia virale. Tra queste, le cistiti emorragiche acute, più comuni nei bambini, sono provocate da alcuni sierotipi di adenovirus umani. Gravi cistiti emorragiche virali possono essere osservate anche nei pazienti immunocompromessi (soprattutto, ma non esclusivamente, i trapiantati renali) e riconoscono nei polyomavirus (BK e JC) gli agenti eziologici. In particolare, il polyomavirus BK nei trapiantati renali può causare gravi quadri di nefropatia responsabile di rigetto nel 50% dei casi. Epidemiologia. Le IVU, in generale, e quelle a carico delle basse vie, in particolare, rappresentano un’entità assai comune; dati epidemiologici statunitensi calcolano in oltre 6 milioni le visite ambulatoriali che vengono effettuate annualmente per questa patologia, seconda soltanto alle infezioni delle vie respiratorie. Inoltre, in ambito nosocomiale sono le più frequenti in assoluto e costituiscono da sole oltre un terzo di tutte le infezioni. I tassi di prevalenza delle cistiti e uretriti nei neonati sono dello 0,1-5,5%, con un rapporto maschi/femmine pari a 1,6:1; nei prematuri la prevalenza può superare il 10% in entrambi i sessi. A partire dall’età prescolare e fino all’età adulta queste infezioni sono da 10 a 30 volte più frequenti nel sesso femminile, in particolare in gravidanza (con percentuali superiori al 5% e conseguente rischio di pielonefrite acuta del 20-40%). Nella popolazione anziana possono raggiungere una prevalenza del 10% tra gli uomini e del 20% tra le donne. 13/01/14 12:24 644 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale In queste ultime si concentrano oltre i due terzi delle visite ambulatoriali per IVU e, nell’arco della propria vita, oltre il 40% delle donne va incontro ad almeno un episodio infettivo delle vie urinarie, con un rischio di recidiva del 20%. I motivi di tali elevate prevalenze risiedono soprattutto in quei fattori di rischio riassunti nella Tab. 15.3 e discussi esaurientemente nel paragrafo sulla patogenesi. La prevalenza di batteriuria asintomatica, definita come la positività per due urinocolture consecutive caratterizzate dalla crescita dello stesso microrganismo – con conte di 105 unità formanti colonia (ufc)/mL) – varia in misura notevole: dall’1% delle ragazze in età scolare a quasi il 100% tra i portatori di catetere vescicale a lungo termine. Questa condizione è tuttavia di riscontro più frequente nei pazienti con malformazioni delle vie urinarie o a seguito di manovre urologiche e, soprattutto, nei pazienti anziani. In generale, il posizionamento di un catetere vescicale rappresenta di gran lunga il più importante fattore di rischio per lo sviluppo di un’infezione delle vie urinarie nosocomiale o contratta in ambiente sanitario (per esempio, negli individui che soggiornano in case di riposo per anziani). Negli Stati Uniti vengono registrati ogni anno circa mezzo milione di episodi di infezioni a carico delle vie urinarie. Di queste, circa l’80% è correlato alle pratiche di cateterizzazione urinaria, il 15-20% ad altre manovre che comportino una manipolazione dell’apparato genitourinario e la rimanente quota a cause sconosciute. Poiché oltre il 10% dei soggetti cateterizzati per almeno un giorno va incontro a batteriuria e tale percentuale aumenta mediamente del 5% per ogni giorno di permanenza in situ del catetere urinario (fino a raggiungere il 100% entro un mese), la durata della cateterizzazione costituisce il principale fattore predisponente di batteriuria ospedaliera e ne condiziona anche l’eziologia. Altri fattori di rischio rilevanti sono rappresentati dal tipo di drenaggio (quello chiuso è indicato ormai da decenni come il più sicuro), da errori tecnici nella gestione del catetere stesso e da condizioni preesistenti quali insufficienza renale e diabete mellito. Tab. 15.3 Fattori di rischio correlati all’insorgenza di cistouretriti. Sesso femminile t Aborto/gravidanza/parto t Assunzione di contraccettivi orali (estrogeni) t Caratteristiche anatomiche dell’uretra t Scarsa o, al contrario, eccessiva igiene intima t Rapporti sessuali Sesso maschile t Iperplasia prostatica In entrambi i sessi t Cateterizzazione vescicale t Malformazioni/anomalie funzionali (cistocele, stenosi cicatriziali, uretrocele, vescica neurogena) t Patologie/terapie immunodepressive (diabete mellito, epatopatie, neoplasie, farmaci biologici, corticosteroidi) t Indagini strumentali endoscopiche t Tumori dell’apparato urogenitale t Urolitiasi 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 644 Patogenesi. I batteri possono invadere le vie urinarie attraverso due modalità: ascendente ed ematogena. A livello delle basse vie, la quasi totalità delle infezioni si verifica a seguito del meccanismo ascendente, rendendo ragione dell’elevata frequenza di isolamento di Enterobacteriaceae, soprattutto E. coli. L’infezione iatrogena che avviene a seguito di manovre strumentali costituisce in ordine di frequenza una modalità di infezione che è seconda soltanto a quella ascendente nella donna. Nel sesso femminile l’uretra, normalmente colonizzata da batteri, in virtù delle ridotte dimensioni (non più lunga di 4 cm) e dell’ubicazione anatomica in prossimità della vulva e della regione perianale, è facilmente predisposta alla contaminazione, permettendo inoltre un rapido accesso dei microrganismi alla vescica, dove possono moltiplicarsi e, in taluni casi, risalire fino alla pelvi e al parenchima renale attraverso gli ureteri. Piccole quantità di batteri entrano spesso in vescica, per esempio in seguito al massaggio uretrale che avviene durante l’atto sessuale. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, la carica microbica è modesta e i batteri vengono rapidamente eliminati per mezzo del flusso urinario. La minzione postcoitale, comunque, riduce il rischio di cistite, mentre l’uso di diaframmi o spermicidi altera notevolmente la normale flora batterica dell’ostio vaginale con marcato aumento della colonizzazione e rischio di IVU. L’uomo è relativamente resistente alle infezioni ascendenti per la differente anatomia dell’uretra maschile e anche in virtù delle secrezioni prostatiche, che sembrano possedere una seppur modesta attività antibatterica. La colonizzazione delle aree periuretrali e la successiva infezione dipendono, inoltre, da un’interazione tra il microrganismo infettante e i meccanismi di difesa dell’ospite. Diversi ceppi uropatogeni di E. coli, microrganismo responsabile della grande maggioranza delle IVU, possiedono fattori di virulenza che permettono sia la colonizzazione e l’invasione dell’apparato urinario, sia la capacità di causare malattia. I principali di questi fattori sono adesine di superficie di natura fimbriale che conferiscono al batterio un’aumentata adesività alle cellule uroepiteliali. Con la sola eccezione della mucosa uretrale, l’apparato urinario è resistente alla colonizzazione batterica grazie alla presenza di numerosi meccanismi di difesa delle basse vie urinarie. Batteri anaerobi ed altri microrganismi che compongono la maggior parte della flora uretrale generalmente non si moltiplicano nell’urina, in quanto gli estremi dell’osmolarità, l’alta concentrazione di urea e i bassi livelli di pH inibiscono la loro crescita. Il pH e l’osmolarità urinari nella donna gravida sembrano essere invece più adatti alla crescita batterica rispetto alle donne non gravide. Anche un aumento del pH vaginale, con conseguente aumentata suscettibilità alla colonizzazione perineale, favorirebbe l’ingresso di agenti uropatogeni nelle basse vie urinarie. In condizioni normali, a livello della mucosa vaginale e del meato uretrale esterno è presente una flora saprofitica che svolge un importante ruolo protettivo: lattobacilli e S. epidermidis hanno dimostrato, infatti, un’elevata capacità di aderire in vitro a cellule vaginali ed uroepiteliali, competendo efficacemente con E. coli ed altre Enterobacteriaceae per i siti recettoriali. Anche il meccanismo del lavaggio vescicale sembra esercitare un effetto protettivo: normalmente piccole quantità di 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale batteri sono incapaci di aderire all’urotelio, restano sospesi nelle urine e sono rimossi con lo svuotamento, ma in caso di ostruzione al flusso urinario per vari motivi (anomalie congenite dell’uretra, calcoli, compressioni estrinseche, iperplasia prostatica), la stasi conseguente aumenta la suscettibilità all’infezione. Sintomatologia. Il quadro clinico delle IVU inferiori si estrinseca con modalità diverse a seconda dell’età. Nei neonati e nei bambini di età inferiore a 2 anni, per esempio, si osservano in genere sintomi aspecifici quali ritardo della crescita, vomito e febbre. Nei bambini di età superiore (soprattutto dopo i 5 anni) e negli adulti prevalgono i sintomi locali provocati dalla flogosi a carico delle mucose uretrali o vescicali: emissione frequente (pollachiuria), urgente (stranguria) e dolorosa (disuria) di piccole quantità di urine torbide, talvolta maleodoranti, espressione di piuria. Può accompagnarsi senso di tensione nella regione sovrapubica o dolore localizzato all’addome o al fianco. Occasionalmente si osserva ematuria, che è macroscopica in circa un terzo dei casi. La febbre è in genere assente o comunque modesta; talora, tuttavia, compaiono puntate febbrili elevate e improvvise precedute da intenso brivido, espressione di occasionali batteriemie. L’esame obiettivo è spesso negativo e il paziente a volte accusa solo dolorabilità sovrapubica. La maggior parte dei soggetti anziani affetti da IVU inferiori è asintomatica e la piuria può essere assente. Peraltro, laddove presenti, i sintomi in alcuni casi non risultano diagnostici, poiché in questa popolazione non è infrequente la presenza di pollachiuria, disuria ed incontinenza urinaria. Diagnosi. Confermare in laboratorio la presenza di un’IVU, con l’identificazione del microrganismo responsabile e relativo antibiogramma, è di grande importanza, anche negli episodi di cistite non complicata della donna. Come è noto, i classici sintomi di pollachiuria e disuria vengono osservati anche in altre condizioni cliniche quali vaginiti ed uretriti (queste ultime da agenti resistenti agli antibiotici normalmente impiegati nella terapia delle IVU), flogosi provocate da agenti fisici o chimici e traumi uretrali. La diagnosi di laboratorio delle IVU si avvale principalmente di due indagini: l’esame delle urine con studio del sedimento e l’urinocoltura. Tali indagini permettono di accertare, rispettivamente, la presenza di piuria (granulociti neutrofili) e di batteriuria, consentendo di formulare la diagnosi anche in assenza di sintomatologia. L’osservazione in microscopia ottica di 5-10 granulociti neutrofili per campo a medio ingrandimento, in specie se giovani e ben conservati, è espressione di infezione in atto. Tuttavia, la presenza di piuria non è di per sé specifica, in quanto anche in assenza di piuria può essere identificata un’IVU e viceversa; è altresì vero che la maggior parte dei pazienti con infezione sintomatica va incontro a una piuria significativa. Una piuria cosiddetta “sterile” (cioè in assenza di batteriuria) viene talora osservata in corso di tubercolosi renale, neoplasie delle vie urinarie, infezioni di eziologia non batterica dell’apparato genitale, di traumi e così via. Una piuria in assenza di batteriuria in un paziente sintomatico deve far pensare ad un’uretrite da patogeni quali Chlamydia trachomatis, Mycoplasma spp. e Neisseria gonorrhoeae. 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 645 645 L’urinocoltura è l’esame fondamentale per una corretta diagnosi eziologica di IVU e consta di tre fasi: l’identificazione del microrganismo, la sua quantificazione e le prove di sensibilità agli antibiotici. L’urina presente in vescica è normalmente sterile: poiché l’uretra e l’area periuretrale sono molto difficili da sterilizzare, anche campioni raccolti con la maggiore accuratezza possibile sono frequentemente contaminati. Tuttavia, con la quantificazione dei batteri nelle urine raccolte dal mitto intermedio in contenitore sterile, dopo detersione accurata dei genitali esterni e della regione perineale e previa adeguata igiene delle mani, è possibile discriminare una contaminazione da un’infezione. I campioni prelevati devono essere esaminati immediatamente o, nell’impossibilità, refrigerati a 4 °C ma per non più di 6 ore. La diagnosi di IVU si basa sulla dimostrazione di almeno 105 ufc/mL di una singola specie per mL di urina. Conte microbiche comprese fra 104 e 105 ufc/mL hanno significato dubbio, tranne che per patogeni altamente virulenti (P. aeruginosa), e consigliano la ripetizione dell’esame. Titoli inferiori a 104 ufc/mL non sono generalmente significativi, sebbene in un paziente sintomatico con piuria documentata si debba ritenere significativa anche una conta di 102 ufc/mL se in presenza di un solo agente patogeno urinario. Nei casi dubbi, o se è presente una flora batterica mista, è consigliabile ripetere l’esame. Un’urinocoltura con conta ≥105 ufc/mL è dunque diagnostica di IVU: in particolare, la probabilità che si tratti di un’infezione è dell’80% se il rilievo deriva da un’unica coltura, del 91% se le colture positive sono due e del 95% se sono tre. I falsi positivi dell’urinocoltura sono espressione della contaminazione o dall’incubazione delle urine prima di esaminarle, mentre i falsi negativi possono conseguire all’uso di antibiotici o saponi, ad un’ostruzione totale al di sotto dell’infezione, a infezioni causate da microrganismi di difficile isolamento, a tubercolosi renale e a diuresi abbondante. La raccolta dell’urina mediante puntura percutanea sovrapubica offre maggiori garanzie in tema di contaminazione, ma la tecnica richiede una certa manualità ed è invasiva, pertanto resta limitata all’ambito ospedaliero per casi selezionati. Nelle urine ottenute mediante questa manovra ogni microrganismo (ad eccezione dei saprofiti cutanei) che si sviluppi indipendentemente dalla concentrazione è indicativo di IVU. Altra tecnica da riservare a casi selezionati è il cateterismo vescicale. Può essere indicato nei bambini e nelle donne non collaboranti (anziane, allettate), non esclude completamente il rischio di contaminazione ed è gravato da una certa percentuale di infezioni secondarie alla manovra stessa. Nei campioni prelevati mediante catetere un numero di colonie >102 ufc/mL è da considerare significativo se il patogeno urinario è singolo o predominante. Prognosi. Un singolo episodio infettivo o anche una breve sequenza di episodi sono eventi comuni (soprattutto nelle donna), assai sensibili alla terapia e abitualmente privi di conseguenze. Essi non richiedono, pertanto, particolari accertamenti oltre l’esame batteriologico delle urine e giustificano una prognosi buona. Le complicanze, in particolare la diffusione alle alte vie urinarie in un quadro di pielonefrite, 13/01/14 12:24 646 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale possono essere osservate nelle forme ricorrenti e in gravidanza, situazioni che meritano particolare attenzione alla gestione dell’IVU. Altre condizioni in cui le cistouretriti possono determinare quadri più o meno complicati sono le forme contratte in ospedale. Queste ultime rappresentano un importante problema di sanità pubblica, poiché hanno un notevole impatto sia sulla morbosità (il 30 ed il 3% circa delle batteriurie asintomatiche, rispettivamente, tendono a trasformarsi in infezione conclamata ed in batteriemia, e quest’ultima può evolvere, seppur solo nello 0,5-2%, in sepsi grave e shock settico), sia sulla letalità (rischio triplicato rispetto ai soggetti non batteriurici). Anche i costi economici sono rilevanti: ogni IVU può costare fino a 750 euro al giorno a causa dell’antibioticoterapia e, soprattutto, della prolungata degenza ospedaliera. Le IVU contratte da anziani degenti in residenze assistenziali, spesso a eziologia polimicrobica per il notevole ricorso alla cateterizzazione a lungo termine, sono contraddistinte da un’ancor maggiore tendenza alle complicanze, in particolare all’evoluzione batteriemica o francamente setticemica con conseguente incremento del rischio di morte. Terapia. Nella scelta di un adeguato trattamento chemioterapico delle cistouretriti, che è quasi sempre empirico, soprattutto a domicilio, il medico deve prendere in considerazione tre fattori relativi a: t l’agente patogeno, in particolare la sua prevalenza nell’eziologia di un’IVU e il suo grado di sensibilità agli agenti antimicrobici; t l’antibiotico, in relazione alle sue caratteristiche microbiologiche (attività in vitro, resistenza all’inattivazione enzimatica, induzione di resistenze batteriche), farmacocinetiche (diffusibilità tessutale e/o eliminazione urinaria, emivita, via di somministrazione), tossicologiche ed economiche; t l’ospite, con tutta una serie di sottogruppi di pazienti che, in base a sesso, condizioni preesistenti e storia clinica, meriteranno un trattamento differenziato gli uni dagli altri, come la batteriuria asintomatica, la cistite acuta non complicata della donna, l’IVU ricorrente (da mancata risoluzione o da reinfezione), l’IVU correlata alla cateterizzazione e l’IVU complicata per la presenza di condizioni preesistenti. Quest’ultima viene più spesso osservata in soggetti di sesso maschile con svariati fattori di rischio (omosessualità, mancanza di circoncisione, infezione da HIV), diabetici, anziani, pazienti immunocompromessi per varie cause o con anomalie ostruttive delle vie urinarie. Una lista degli antibiotici utilizzabili nella terapia delle uretrocistiti con le posologie indicate è riassunta nella Tab. 15.4. La batteriuria asintomatica non richiede uno specifico trattamento antibiotico, tranne in occasione di manovre urologiche invasive (per esempio, inserimento di un catetere di Foley), laddove è sufficiente l’uso di cotrimoxazolo, 960 mg per os ogni 12 ore per 3 giorni, ed in gravidanza, quando è consigliabile un ciclo terapeutico di 3-7 giorni con una beta-lattamina (amoxicillina, cefalosporine orali) o, nei soggetti allergici, con nitrofurantoina. Nella cistite acuta non complicata della donna è in genere sufficiente una monodose di fosfomicina/trometamolo 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 646 Tab. 15.4 Antibiotici prescrivibili nella terapia orale delle cistouretriti. t t t t t t t t t t Amoxicillina-acido clavulanico, 1 g ogni 12 ore Cefuroxima axetil, 500 mg ogni 12 ore Cefpodoxima proxetil, 200 mg ogni 12 ore Cefixima, 400 mg/die Ceftibuten, 400 mg/die Cotrimoxazolo, 960 mg (trimetoprim, 160 mg + sulfametoxazolo, 800 mg) ogni 12 ore Nitrofurantoina, 100 mg ogni 12 ore Ciprofloxacina, 250 mg ogni 12 ore Levofloxacina, 250 mg/die Moxifloxacina, 400 mg/die da 3 g, sebbene talvolta associata a una minor efficacia e a un maggior tasso di ricorrenze, o il trattamento breve di 3 giorni con cotrimoxazolo o con amoxicillina-acido clavulanico oppure con nitrofurantoina per 5 giorni. Queste opzioni terapeutiche sono caratterizzate da una bassa prevalenza di effetti collaterali e di resistenze batteriche, da un’elevata adesione al trattamento da parte della paziente e dall’estrema economicità. Valide alternative (sempre per cicli di 3 giorni), seppur più costose, sono rappresentate dalle cefalosporine di II (cefuroxima axetil) e III generazione (cefixima, cefpodoxima proxetil, ceftibuten). In quest’ambito è preferibile non impiegare in prima istanza i fluorochinoloni (ciprofloxacina, levofloxacina, moxifloxacina) in considerazione della crescente resistenza di E. coli e K. pneumoniae, che ha quasi raggiunto il 40%, e per la capacità di questi farmaci di selezionare altri patogeni resistenti quali S. aureus meticillino-resistente (MRSA) ed enterococchi vancomicino-resistenti (VRE). La terapia antibiotica delle IVU inferiori può rivelarsi inadeguata ad arrestare la moltiplicazione batterica nelle vie urinarie e la relativa sintomatologia. La causa più frequente della recidiva consiste nella presenza di microrganismi resistenti alle beta-lattamine o ai sulfamidici; altre cause di mancata risoluzione di un’IVU nonostante una corretta terapia antibiotica sono l’eziologia polimicrobica e la presenza di insufficienza renale, che comporta una ridotta eliminazione urinaria degli antibiotici, o di calcoli urinari, che possono presentare sulla propria superficie elevate concentrazioni batteriche. Tuttavia, oltre il 90% delle IVU ricorrenti propriamente dette è dovuto a reinfezione esogena, che può manifestarsi anche a distanza di mesi: viene infatti definita ricorrente un’IVU che si presenta con una frequenza di tre o più episodi in un anno. Laddove non si riesca ad eradicare l’infezione, trova giustificazione l’assunzione di una singola dose di cotrimoxazolo (320 mg di trimetoprim + 1.600 mg di sulfametoxazolo) all’esordio dei sintomi del nuovo episodio, eventualmente seguita dalla somministrazione a lungo termine (mesi) di una dose giornaliera di 480 mg da assumere prima di coricarsi, poiché durante la notte l’accumulo e la conseguente stasi di urine predispongono alla moltiplicazione batterica. Il trattamento di un’IVU dovuta alla cateterizzazione è consigliato in tutti i pazienti sintomatici, in particolar modo in presenza di segni e sintomi di sepsi, nonché in quelli asintomatici a rischio di gravi complicanze (pazienti immunocompromessi, sottoposti ad interventi di chirurgia 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale urologica o ad impianto di dispositivi protesici, portatori di infezioni causate da patogeni altamente virulenti). Gli schemi di terapia, in questi pazienti, come nel caso delle IVU inferiori complicate, sono gli stessi che saranno citati nel paragrafo successivo a proposito della pielonefrite grave e/o batteriemica, a cui si rimanda. Nei pazienti portatori di catetere, che ormai da molti anni prevede l’uso di sistemi a drenaggio chiuso, trovano ragionevole indicazione la rimozione o sostituzione dello stesso e, in generale, la massima igiene nella sua gestione. Infezioni delle alte vie urinarie Le infezioni a carico delle alte vie urinarie (pielite e pielonefrite) sono patologie infiammatorie acute o croniche, relativamente rare, che interessano il parenchima e la pelvi renale, bilateralmente o, più spesso, monolateralmente. Eziologia. Analogamente a quanto descritto per le infezioni delle basse vie urinarie, i membri della famiglia Enterobacteriaceae sono gli agenti eziologici più frequenti di pielite/pielonefrite, sebbene E. coli ne causi una frazione sensibilmente più bassa (30-40% dei casi). Tra gli altri enterobatteri prevalgono i bacilli del gruppo KES, Citrobacter spp., P. mirabilis e soprattutto specie indolo-positive (M. morganii, P. vulgaris, Providencia rettgeri e P. stuartii) e bacilli non fermentanti (Acinetobacter spp., P. aeruginosa). Cocchi gram-positivi, quali enterococchi e stafilococchi (VRE e MRSA, in ambito nosocomiale), si dimostrano in genere responsabili in seguito a diffusione rispettivamente ascendente ed ematogena. Epidemiologia. Anche queste localizzazioni sono più comuni nella donna e nell’anziano, seppur con una prevalenza nettamente inferiore rispetto alle cistouretriti. Rappresentano soprattutto la conseguenza della diffusione al rene di processi infettivi recidivanti delle vie urinarie: l’abituale eziologia, pertanto, è batterica (prevalentemente bacilli gram-negativi ad habitat intestinale), ma possono essere causate anche da virus e miceti. Più raramente, i microrganismi raggiungono il parenchima renale per via ematogena come forme metastatiche conseguenti a batteriemie provocate da microrganismi relativamente virulenti quali S. aureus a partenza da focolai ossei, cutanei o endocarditici. Esse sono più frequenti in pazienti sottoposti a terapie immunodepressive o nei soggetti debilitati per malattie croniche. Tra i fattori favorenti l’insorgenza di una pielite/pielonefrite, vanno annoverati la gravidanza, le anomalie anatomiche o funzionali delle vie urinarie, alcune nefropatie croniche (nefroangiosclerosi, rene policistico, amiloidosi renale, idronefrosi), il diabete mellito e la cateterizzazione urinaria. La pielonefrite cronica è una delle principali cause di insufficienza renale cronica. Espressione quasi sempre di un’infezione persistente (forma attiva) o trascorsa (forma inattiva), l’evoluzione in cronicità è più frequente in seguito a nefropatia ostruttiva e nei pazienti diabetici o vasculopatici. Patogenesi. L’uretra è normalmente colonizzata da batteri, ed il fatto che le IVU siano più comuni nel sesso femminile 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 647 647 dà sostegno all’importanza della via ascendente. L’uretra femminile, grazie alla sua localizzazione anatomica in prossimità delle aree caldo-umide vulvari e perianali, è più predisposta alla contaminazione; inoltre, la sua brevità permette un rapido accesso alla vescica. È stato notato, infatti, che i microrganismi che determinano IVU nelle donne colonizzano l’ostio vaginale e l’area periuretrale prima che si determini l’infezione. Una volta all’interno della vescica, i batteri possono moltiplicarsi e poi passare oltre gli ureteri fino alla pelvi ed al parenchima renale. E. coli è responsabile della maggioranza delle pielonefriti, tuttavia solo alcuni sierotipi, in particolare O1, O2, O4, O6, O7, O18 e O75, determinano un’alta percentuale di infezioni. Questi ceppi di E. coli sono selezionati dalla flora fecale per la presenza di fattori di virulenza, tra cui l’aumentata adesività alle cellule uroepiteliali. È stato dimostrato, infatti, che ceppi di E. coli isolati da pazienti con pielonefrite aderiscono meglio degli stipiti responsabili di cistite, e che i ceppi uropatogeni tendono ad aderire alle cellule uroepiteliali più strettamente che non i ceppi di E. coli isolati casualmente dalle feci. I tipi più importanti di adesine superficiali tra gli stipiti di E. coli uropatogeno sono di natura fimbriale. Anche per altre specie batteriche è stata dimostrata l’importanza dell’adesività nella patogenesi delle IVU: per esempio, P. mirabilis aderisce alla mucosa renale grazie alla presenza di fimbrie. Altre caratteristiche batteriche possono essere importanti nel determinare una pielonefrite. Batteri mobili possono risalire l’uretere in senso contrario al flusso urinario e le endotossine dei bacilli gram-negativi diminuiscono la peristalsi ureterale e contribuiscono alla risposta infiammatoria del parenchima renale con l’attivazione delle cellule fagocitiche. Inoltre, la produzione di ureasi da parte dei microrganismi infettanti quali quelli del genere Proteus è stata messa in relazione con la capacità di causare pielonefrite. Infine, anche il reflusso vescicoureterale, sia esso dovuto ad anomalia congenita, a sovradistensione della vescica o ad eziologia sconosciuta, contribuisce all’insorgenza di pielonefrite per via ascendente. Pazienti con incompleto svuotamento della vescica sia per ragioni meccaniche (ostruzione del collo vescicale, valvole uretrali, restringimenti uretrali, iperplasia prostatica), sia per disfunzioni neurologiche (poliomielite, tabe dorsale, neuropatia diabetica, danno midollare) sono infatti inclini a frequenti infezioni, poiché il reflusso tende a perpetuare l’infezione mantenendo in vescica un residuo di urine infette dopo lo svuotamento. Sintomatologia. Il quadro clinico tipico della pielonefrite acuta comprende febbre elevata preceduta da brivido, malessere generale, dolore al fianco e alla regione lombare e costovertebrale, per lo più associata a sindrome cistitica. Il dolore renale è occasionalmente riferito alla regione epigastrica e può essere irradiato ad uno dei quadranti inferiori, ponendo talora problemi di diagnosi differenziale con le patologie a carico delle vie biliari e con l’appendicite. All’esame obiettivo risulta in genere positivo il segno di Giordano: la percussione della regione lombare dal lato interessato dall’infezione, effettuata con il taglio della mano, evoca intenso dolore. La pielonefrite cronica può far seguito a forme acute manifeste o rivelarsi come tale, espressione di pregresse infezioni 13/01/14 12:24 648 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale asintomatiche. Gli aspetti clinici appaiono sfumati, di rado specifici, e quindi la diagnosi è spesso difficile; non è rara l’evoluzione in rene grinzo pielonefritico senza che sia stato possibile riconoscere in precedenza la nefropatia in atto. Predominano sintomi sistemici come febbricola, astenia, dimagrimento, anemizzazione, ai quali possono accompagnarsi dolori lombari e vaghi disturbi minzionali. Diagnosi. L’esame delle urine e del sedimento evidenzia tipicamente la presenza di cilindruria ialina o leucocitaria, nonché di piuria e batteriuria e spesso proteinuria, con pH generalmente alcalino. Anche nelle pielonefriti l’urinocoltura rappresenta l’esame microbiologico imprescindibile. Allo scopo di evidenziare la diminuita efficacia dell’emuntorio renale, è opportuno studiare i parametri ematici ed urinari di funzionalità renale (azotemia, creatininemia, clearance della creatinina), mentre tra le indagini radiologiche l’ecografia ha ormai soppiantato l’urografia quale mezzo per documentare il grado di sofferenza del parenchima renale, sia nelle forme acute sia in quelle croniche. Prognosi. Il singolo episodio isolato di pielonefrite acuta in un soggetto senza significativi fattori di rischio ha una prognosi eccellente e solo rarissimamente evolve in pielonefrite cronica oppure si complica con una necrosi papillare renale o con ascessi renali o perirenali, evenienze invece ben più frequenti in soggetti predisposti (per anomalie delle vie urinarie, nefropatie preesistenti, diabete mellito, vasculopatie) o nelle donne gravide. Terapia. In passato i pazienti con pielonefrite acuta venivano ospedalizzati per effettuare una terapia antibiotica endovenosa ad ampio spettro per settimane. Da tempo è possibile trattare forme non complicate – in particolare le pielonefriti non batteriemiche – anche in ambito domiciliare, impiegando antibiotici somministrabili per via orale per 5-7 giorni (fluorochinoloni) o per 14 giorni (amoxicillina-acido clavulanico, cefalosporine orali, cotrimoxazolo). Nelle forme gravi, nonché in presenza di batteriemia, è invece consigliabile l’ospedalizzazione del paziente per intraprendere una terapia parenterale. In attesa dell’antibiogramma e qualora non vi siano fattori di rischio per infezioni causate da microrganismi multiresistenti, si impiegano regimi che comprendono il ceftriaxone associato ad un aminoglucoside (amikacina, gentamicina), oppure una penicillina protetta (piperacillina-tazobactam o ticarcillina-acido clavulanico, preferibili rispetto ad amoxicillina-acido clavulanico e ampicillina-sulbactam) o ancora un fluorochinolone, fino ad avvenuto miglioramento clinico. In base al principio della terapia sequenziale, è possibile prevedere il passaggio a terapie orali con una cefalosporina orale di III generazione, nel caso che sia stato impiegato il ceftriaxone, oppure con cotrimoxazolo per complessivi 14-21 giorni. In aree ad elevata frequenza di ceppi di Enterobacteriaceae ESBL-produttori si rende in genere necessario il ricorso ad un carbapeneme (ertapenem, imipenem, meropenem). Nella Tab. 15.5 sono riportati gli antibiotici prescrivibili nella terapia delle pielonefriti. La pielonefrite acuta in gravidanza deve essere trattata in ambito nosocomiale con l’iniziale somministrazione ev di ceftriaxone nelle forme lievi-moderate o di un carbapeneme in quelle gravi, con eventuale passaggio ad una cefalosporina orale quando il miglioramento del quadro clinico lo consenta. La terapia antibiotica della pielonefrite cronica ha la sua validità nei periodi di attività della malattia, sulla base dei risultati dell’urinocoltura e relativo antibiogramma. L’evoluzione in rene grinzo bilaterale potrà rendere necessari trattamenti sostitutivi quali emodialisi e dialisi peritoneale. PROSTATITI BATTERICHE Le prostatiti batteriche sono infezioni relativamente comuni nel soggetto adulto e anziano; possono manifestarsi in forma acuta (e in tal caso la diagnosi clinica è agevole) o cronica, di più difficile riconoscimento. Le ipotesi relative alle modalità con cui i batteri raggiungono la prostata includono la via ematogena, la via ascendente dall’uretra e la via linfatica dal retto. Le manovre invasive e gli interventi chirurgici possono rappresentare fattori di rischio. Le forme croniche o acute cronicizzate costituiscono la più frequente causa di infezioni ricorrenti delle vie urinarie in assenza di anomalie anatomofunzionali; sono di assai arduo trattamento, poiché la maggior parte dei chemioantibiotici non penetra adeguatamente nei liquidi prostatici. Eziologia. I bacilli aerobi gram-negativi (E. coli, Proteus spp., patogeni del gruppo KES) sono responsabili della maggioranza degli episodi di prostatite batterica, sia acuti che croni- Tab. 15.5 Antibiotici prescrivibili nella terapia delle pielonefriti*. Forme non complicate (per os) Forme complicate (ev) t t t t t t t t t t t Ceftriaxone, 2 g/die + amikacina, 15 mg/kg/die (o gentamicina 3-5 mg/kg/die) t Piperacillina-tazobactam, 4,5 g ogni 6-8 ore t Ticarcillina-acido clavulanico, 3,2 g ogni 6 ore t Ciprofloxacina, 400 mg ogni 12 ore t Levofloxacina, 750 mg/die t Ertapenem, 1 g/die t Imipenem, 500 mg ogni 6 ore t Meropenem, 1 g ogni 8 ore Ciprofloxacina, 500 mg ogni 12 ore Levofloxacina, 750 mg/die Moxifloxacina, 400 mg/die Ofloxacina, 400 mg ogni 12 ore Amoxicillina-acido clavulanico, 1 g ogni 8 ore Cefuroxima axetil, 500 mg ogni 12 ore Cefpodoxima proxetil, 200 mg ogni 12 ore Cefixima, 400 mg/die Ceftibuten, 400 mg/die Cotrimoxazolo, 960 mg ogni 12 ore *Dosi giornaliere in soggetti adulti con funzionalità renale normale. 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 648 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale ci, mentre N. gonorrhoeae, prevalente in era preantibiotica, è attualmente una causa infrequente di prostatite acuta. E. coli è responsabile di circa l’80% dei casi; il 10-15% è dovuto a P. aeruginosa, Serratia spp. Klebsiella spp. e Proteus spp., mentre nel restante 5-10% dei casi sono in causa gli enterococchi. Dal punto di vista anatomopatologico, le lesioni appaiono aspecifiche, inizialmente focali e quindi diffuse, consistenti in iperemia, edema, infiltrazione linfoplasmacellulare con presenza anche di macrofagi e granulociti neutrofili. Talora si formano numerosi piccoli ascessi. Nella prostatite cronica le lesioni sono focali, con scarsa flogosi. Sintomatologia. La sintomatologia della prostatite batterica acuta è rilevante, con febbre elevata preceduta da brivido, tensione o dolore perineale, disturbi della minzione; le manifestazioni cliniche appaiono talvolta di estrema gravità con un quadro di tossiemia. La prostatite cronica è caratterizzata da un’estrema variabilità clinica, potendo risultare del tutto asintomatica o presentarsi con senso di peso perineale, lombosacralgia, disuria e febbricola con ricorrenti episodi di IVU causati sempre dallo stesso microrganismo. Diagnosi. Nella prostatite acuta l’esplorazione rettale evidenzia una prostata dolente, ingrossata ed edematosa, con area fluttuante in caso di evoluzione ascessualizzante, tutti reperti che vengono confermati dallo studio radiologico effettuato mediante ecografia e, solo nei casi meno evidenti, tomografia computerizzata e risonanza magnetica. L’esame standard delle urine mostra generalmente piuria. Per la diagnosi microbiologica è di fondamentale importanza l’esecuzione di un’urinocoltura da mitto intermedio (essendo il massaggio prostatico gravato da un inaccettabile rischio di disseminazione ematogena), di una spermiocoltura e talvolta di emocolture. La diagnosi di prostatite cronica, meno agevole rispetto a quella della forma acuta, è basata sul riscontro di frequenti e ricorrenti batteriurie imputabili allo stesso microrganismo, sull’esame microbiologico delle urine da mitto intermedio e del secreto prostatico ottenuto mediante massaggio e sull’indagine ecografica, che documenta le ridotte dimensioni del parenchima ghiandolare e l’eventuale presenza di calcificazioni. Prognosi. Possibili complicanze di una prostatite acuta sono rappresentate dalle recidive, dalla cronicizzazione del processo e da ascesso ed infarto prostatici, soprattutto in soggetti immunocompromessi, quali i diabetici, o in pazienti con corpi estranei (calcoli) od ostruzione urinaria. La guarigione di una prostatite cronica, una volta ritenuta praticamente impossibile se non attraverso l’intervento chirurgico per i motivi che verranno esposti a proposito della terapia antibiotica, è oggi resa possibile dalla disponibilità di agenti, quali i fluorochinoloni, dotati di eccellente penetrazione nel parenchima prostatico anche in condizioni di ridotta vascolarizzazione, come in questa forma. Terapia. La prostata è uno dei cosiddetti santuari farmacologici, poiché il suo parenchima è difficilmente raggiungibile da parte degli antibiotici, in particolare in caso di prostatite 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 649 649 cronica, ossia quando la vascolarizzazione è molto ridotta, oppure in caso di alterazioni del pH del secreto prostatico o in presenza di calcoli prostatici. Nella prostatite acuta, invece, l’intensa flogosi favorisce la soddisfacente diffusione di numerosi agenti antimicrobici: il regime terapeutico consiste, in questo caso, nella somministrazione orale per 14-28 giorni di cotrimoxazolo, 960 mg ogni 12 ore o di un fluorochinolone ai dosaggi riportati nella Tab. 15.5. Il drenaggio di un eventuale ascesso, da effettuarsi per via perineale o transuretrale, è di fondamentale importanza non solo a scopo terapeutico, ma anche diagnostico, permettendo così l’esecuzione di un’adeguata coltura in modo da isolare il microrganismo responsabile ed effettuare una terapia antibiotica mirata. Nella prostatite cronica i farmaci di scelta sono costituiti dai fluorochinoloni, che raggiungono livelli terapeutici efficaci assai superiori a quelli ottenibili con il cotrimoxazolo: dopo 12 settimane di terapia con quest’ultimo al dosaggio di 960 mg 2 volte al giorno è stato osservato un successo clinico nel 30-40% dei pazienti trattati, mentre la percentuale supera il 90% in caso di trattamento con un fluorochinolone (ciprofloxacina, levofloxacina) per 4 settimane. I fallimenti terapeutici vengono osservati prevalentemente in pazienti con calcoli prostatici infetti. INFEZIONI A TRASMISSIONE SESSUALE Le infezioni o malattie a trasmissione sessuale sono un gruppo di patologie di interesse multidisciplinare che colpiscono soprattutto giovani adulti sessualmente attivi. Alcuni gruppi di popolazione, per la frequenza dei comportamenti a rischio (maschi che hanno rapporti sessuali con maschi, soggetti che si prostituiscono) e/o per una maggiore suscettibilità biologica (donne, adolescenti e pazienti con infezione da HIV), mostrano un’aumentata prevalenza di queste patologie. Si tratta di infezioni frequentemente silenti o paucisintomatiche anche per lunghi periodi di tempo durante i quali, tuttavia, il paziente è contagioso. Accanto alle malattie tradizionalmente riconosciute come sessualmente trasmissibili (sifilide, gonorrea, ulcera molle, linfogranuloma venereo), negli ultimi anni è emersa una serie di infezioni che possono riconoscere anche la via sessuale come modalità di trasmissione (Tab. 15.6). Le principali sindromi con le quali le infezioni a trasmissione sessuale si manifestano sono riassunte nella Tab. 15.7. La gestione del paziente con diagnosi di una particolare infezione a trasmissione sessuale deve sempre prevedere la ricerca di altre infezioni acquisite tramite la medesima via e la valutazione e trattamento del partner. Di seguito vengono trattate solo alcune di queste infezioni. Si rimanda agli specifici capitoli per le infezioni da virus dell’epatite B e C, virus dell’immunodeficienza umana (HIV), papillomavirus umano e virus herpes simplex (HSV). Sifilide La sifilide, o lue, è una malattia sistemica causata da Treponema pallidum, un batterio a prevalente trasmissione sessuale. Dal punto di vista clinico viene classicamente suddivisa in 13/01/14 12:24 650 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale Tab. 15.6 Agenti patogeni a potenziale trasmissione sessuale. Batteri Virus Altri* Trasmessi prevalentemente attraverso rapporti sessuali t Neisseria gonorrhoeae t HIV-1 e HIV-2 t Trichomonas t Chlamydia trachomatis t HSV-2 vaginalis t Treponema pallidum t HBV t Phthirus pubis t Haemophilus ducreyi t Papillomavirus t Klebsiella t Virus del mollusco granulomatis contagioso t Ureaplasma t HTLV-1 urealyticum t Mycoplasma genitalium Trasmissione sessuale, descritta ma non prevalente t Mycoplasma hominis t CMV t Candida albicans t Gardnerella vaginalis t HCV t Sarcoptes scabiei t Streptococchi t HDV di gruppo B t HHV-8 t Mobiluncus spp. t HTLV-2 t EBV Trasmissione sessuale per esposizione fecale-orale t Shigella spp. t HAV t Entamoeba t Campylobacter spp. histolytica t Giardia lamblia *Inclusi miceti, ectoparassiti e protozoi. stadi le cui manifestazioni possono in parte sovrapporsi le une con le altre. Le donne in gravidanza affette da sifilide possono trasmettere l’infezione al prodotto del concepimento, se non adeguatamente trattate. Eziologia. L’agente eziologico della sifilide è T. pallidum sottospecie pallidum, microrganismo appartenente all’ordine Spirochaetales, famiglia Spirochaetaceae, genere Treponema. Ha una lunghezza di 5-15 m, forma sottile ed elicoidale, e nei campioni biologici può essere identificato all’esame microscopico in campo oscuro o tramite immunofluorescenza grazie al suo movimento “a cavatappi”. È estremamente labile al di fuori dei tessuti umani e viene facilmente inattivato dal calore, dall’essiccamento, dai saponi e dall’acqua, ragioni per cui non è possibile coltivarlo in vitro. Inoltre, è indistinguibile morfologicamente e con le indagini sierologiche dagli altri treponemi agenti responsabili delle treponematosi endemiche. Epidemiologia. La sifilide si trasmette principalmente attraverso i rapporti sessuali in presenza di una lesione cutanea o mucosa attiva, mentre sono eccezionali i casi di contagio per contatti affettuosi (baci). È possibile anche la trasmissione accidentale al personale sanitario per contatto della cute con secrezioni infette. La trasmissione tramite emotrasfusione è molto rara, perché T. pallidum non sopravvive per tempi prolungati alle temperature di conservazione del sangue. L’infezione può essere trasmessa per via transplacentare qualora la madre non venga trattata: ciò si verifica nel 60100% dei casi in corso di sifilide primaria o secondaria, nel 40% durante la sifilide latente precoce e nell’8% nella forma latente tardiva. La trasmissione verticale può essere prevenuta nella maggioranza dei casi se in gravidanza viene 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 650 somministrata una terapia adeguata e tempestiva. Più rare sono la trasmissione perinatale, dovuta a contatto del neonato con lesioni luetiche perineali della madre durante il passaggio attraverso il canale del parto, e quella postnatale nel corso dell’allattamento per la presenza di lesioni localizzate ai capezzoli. Annualmente, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si verificano circa 12 milioni di nuove infezioni da T. pallidum, la maggior parte delle quali nell’Africa subsahariana, in America Latina e in Asia. A partire dagli anni Novanta, in molte nazioni dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti, in Canada e in Australia si è assistito a un nuovo incremento del numero di casi di sifilide osservati, come conseguenza sia della liberalizzazione dei costumi sia dell’aumento dei comportamenti a rischio soprattutto tra i maschi omosessuali. Un incremento dei casi è stato osservato anche in Europa orientale a seguito dalla disgregazione dei sistemi sanitari successiva alla caduta dell’Unione Sovietica e, in tempi più recenti, in Cina per i profondi mutamenti sociali indotti dalla crescita economica, con diffusione del fenomeno della prostituzione. Patogenesi. Al momento del contagio, T. pallidum invade la barriera mucosa o cutanea replicandosi rapidamente. Nel sito d’inoculo, dopo alcuni giorni appare il sifiloma, la lesione caratteristica della sifilide primaria da cui il microrganismo si dissemina, tramite i vasi linfatici, per poi raggiungere il torrente circolatorio localizzandosi nei vari organi. La presenza del microrganismo induce la risposta immune, responsabile di processi flogistici endoarteritici e perivascolari e successivi fenomeni di fibrosi e necrosi simil-caseosa, mentre il ruolo patogenetico diretto di T. pallidum diventa più marginale con il passare del tempo. Questi eventi si riflettono clinicamente nei successivi stadi di sifilide secondaria, latente e terziaria. Va ricordato che la risposta immunitaria non genera immunità protettiva nei confronti di reinfezioni. Nel caso della sifilide congenita, T. pallidum raggiunge il feto direttamente per via ematogena tramite i vasi del funicolo, durante le fasi di spirochetemia materna. Anche nell’infezione congenita il ruolo del sistema immunitario è fondamentale, in quanto è stato osservato che il feto, sebbene possa essere infettato già nelle prime settimane di gravidanza, non sviluppa danni tessutali fino al II trimestre, momento in cui l’immunità fetale inizia a costituirsi. Sintomatologia. La sifilide è denominata “la grande imitatrice” per le molteplici manifestazioni alle quali può dare luogo rendendone non agevole la diagnosi. Sifilide primaria. Segue al contagio, con un periodo di incubazione compreso tra 10 e 90 giorni (in media 21 giorni). La lesione primaria appare nel sito d’inoculo come una maculopapula di colore rosso scuro che si erode in superficie, dando luogo a una formazione ulcerata detta sifiloma. Questa si presenta a margini netti e regolari, di dimensioni variabili da qualche millimetro a qualche centimetro, ricoperta da scarso essudato sieroso; presenta una base dura e infiltrata e non è dolente. In genere la lesione è singola e può essere accompagnata da linfoadenopatia locoregionale. Il sifiloma è frequentemente misconosciuto nella donna a causa della sua 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale 651 Tab. 15.7 Agenti eziologici ed elementi di diagnosi differenziale delle principali sindromi a trasmissione sessuale. Agenti eziologici Elementi clinici distintivi Esami diagnostici per la diagnosi differenziale 1. Sindrome caratterizzata da ulcere genitali Treponema pallidum Ulcera (5-20 mm) non dolente, infiltrata RPR (o VDRL) + TPHA (o FTA-ABS o T. pallidum IgG-IgM EIA) + indagine al microscopio a campo oscuro Virus herpes simplex tipo 1 e tipo 2 Vescicole o ulcere (<8-10 mm) multiple dolenti PCR per HSV-1 e HSV-2 da tampone + sierologia per HSV-1 e HSV-2 tipo-specifica Chlamydia trachomatis (sierotipi L1-L3) Piccola ulcera (2-10 mm) genitale autolimitante Sierologia per C. trachomatis, esecuzione Presenza di linfoadenopatia inguinale e/o proctite di NAAT per ricerca di C. trachomatis da lesioni ulcerate o aspirato linfonodale Haemophilus ducreyi Ulcera dolente, non infiltrata, facilmente sanguinante al contatto Considerare epidemiologia. Coltura e PCR specifica, se disponibile. Esclusione di sifilide e HSV-1 e HSV-2 Klebsiella granulomatis Ulcera cronica deturpante Considerare epidemiologia. Dimostrazione dei corpi di Donovan tramite scraping, esame microscopico o biopsia 2. Sindrome caratterizzata da secrezione uretrale nel maschio Neisseria gonorrhoeae Abbondante secrezione uretrale purulenta Esame microscopico per ricerca di diplococchi gram-negativi nel secreto uretrale. Esame colturale da tampone e/o NAAT per ricerca di N. gonorrhoeae su urine o tampone uretrale Chlamydia trachomatis (sierotipi D-K) Scarsa secrezione uretrale mucopurulenta NAAT per ricerca di C. trachomatis su urina o tampone uretrale Mycoplasma genitalium o Ureaplasma urealyticum resistenti a doxiciclina, Trichomonas vaginalis Persistenza di segni e sintomi dopo trattamento efficace per N. gonorrhoeae e C. trachomatis Diagnosi clinica, NAAT su urina o tampone uretrale 3. Sindrome caratterizzata da secrezioni vaginali anomale* Cervicite da N. gonorrhoeae Segni di flogosi cervicale, sanguinamento intermestruale, segni e sintomi di PID Esame colturale e/o NAAT per ricerca di N. gonorrhoeae su tampone vaginale, cervicale o urine Cervicite da C. trachomatis Segni di flogosi cervicale, sanguinamento intermestruale, segni e sintomi di PID NAAT per ricerca di C. trachomatis su tampone vaginale, cervicale o urine EIA, Enzyme Immunoassay; FTA-ABS, Fluorescent Treponemal Antibody Absorption Test; NAAT, Nucleic Acid Amplification Test; PCR, Polymerase Chain Reaction – reazione a catena della polimerasi; PID, Pelvic Inflammatory Disease – malattia infiammatoria pelvica; RPR, Rapid Plasma Reagin; TPHA, Treponema Pallidum Hemagglutination Assay; VDRL, Venereal Disease Research Laboratory. *La sindrome caratterizzata da secrezioni vaginali anomale può essere dovuta anche alle vulvovaginiti. Altri possibili quadri sindromici sono: linfoadenopatia inguinale (H. ducreyi, C. trachomatis sierotipi L1-L3); tumefazione scrotale (N. gonorrhoeae, C. trachomatis, batteri gram-negativi, M. tuberculosis, Brucella spp.); dolore addominale dei quadranti inferiori nella donna (agenti eziologici della PID). localizzazione intravaginale o a livello di cervice, perineo, piccole labbra. Nell’uomo il sifiloma è generalmente localizzato sul pene. I sifilomi extragenitali colpiscono la cavità orale, le zone periorali, la regione perianale, la cute vicino al capezzolo e le mani. Il sifiloma guarisce spontaneamente in media entro 4-6 settimane (limiti 2-12 settimane), ma la linfoadenite satellite può persistere per diversi mesi. Sifilide secondaria. A distanza di 4-8 settimane dalla comparsa della lesione primaria si possono osservare i segni e i sintomi dello stadio secondario. L’80% circa dei pazienti mostra lesioni a carico della cute e delle mucose; l’eruzione cutanea può presentarsi con morfolo- 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 651 gia variegata (macule, papule, maculopapule, pustole, talvolta con elementi squamosi); le lesioni sono diffuse, simmetriche (Figg. 15.1 e 15.2), non pruriginose, con evoluzione centrifuga e possono interessare le palme delle mani (Fig. 15.3) e le piante dei piedi. Quando le lesioni coinvolgono le pieghe cutanee e le regioni umide (zona perianale, vulva, scroto, solco sottomammario) a volte confluiscono in placche di colorito roseo o bianco-grigiastro, indolenti, note come condylomata lata. A livello mucoso talora compaiono, in modo simile, placche ed erosioni indolenti. Sia le lesioni cutanee sia quelle mucose sono ricche di treponemi e perciò molto contagiose. Più raramente l’eruzione cutanea va incontro ad evoluzione necrotica (lue maligna), un fenomeno osservato in particolare 13/01/14 12:24 652 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale FIG. 15.1 - Sifilide secondaria con lesioni al volto. FIG. 15.2 - Sifilide secondaria: lesioni papulopustolose diffuse al tronco. FIG. 15.3 - Eruzione palmare in corso di sifilide secondaria. 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 652 nei pazienti HIV-sieropositivi. A carico degli annessi piliferi possono evidenziarsi alopecia (diffusa o areolare temporoparietale) e caduta dei peli in regione sopraccigliare, mentre le unghie presentano l’onichia e la paronichia luetica. Il secondo organo bersaglio più frequentemente colpito in corso di sifilide secondaria è il sistema nervoso centrale (neurosifilide), con sintomi di meningite a liquor limpido o coinvolgimento dei nervi cranici. Appare significativo (5-10%) anche l’interessamento oculare con uveite anteriore o neurite ottica e quello epatico (circa il 25% dei pazienti mostra alterazioni delle transaminasi sieriche), mentre è rara l’epatite luetica; il rene, a seguito della deposizione di immunocomplessi, può essere coinvolto con quadri di glomerulonefrite e sindrome nefrosica. Tutte le manifestazioni d’organo della sifilide secondaria possono accompagnarsi a manifestazioni sistemiche che includono febbre (5-8%), malessere generale (25%), cefalea (10%), faringodinia (15-30%), calo ponderale (2-20%) e artralgie; nella maggior parte dei casi si rileva una linfoadenopatia generalizzata (che interessa anche le stazioni epitrocleari) e nel 15-30% degli individui è osservabile la lesione primaria in fase di guarigione. Sifilide latente. In assenza di trattamento, lo stadio secondario evolve in sifilide latente, definita come condizione di positività ai test sierologici in assenza di evidenza clinica di infezione da T. pallidum. Nei primi anni dell’infezione latente (in genere nei primi 4 anni), possono ricomparire alcuni sintomi e segni della sifilide secondaria. In accordo con la definizione dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), entro il primo anno dall’infezione primaria si parla di sifilide latente precoce, mentre successivamente viene utilizzata la denominazione sifilide latente tardiva. In corso di sifilide latente tardiva è consigliabile l’esecuzione di una radiografia del torace per escludere un coinvolgimento asintomatico dell’aorta (sifilide terziaria cardiovascolare). I pazienti con sifilide latente tardiva sono usualmente non contagiosi, con l’eccezione delle donne gravide, che possono trasmettere l’infezione al feto anche a distanza di molti anni. Sifilide terziaria. Il mancato riconoscimento e trattamento è il motivo per cui circa il 20-30% dei pazienti con sifilide latente va incontro a distanza di alcuni anni o decenni alle manifestazioni tipiche della sifilide terziaria o tardiva. Si osserva in questi casi la formazione di lesioni nodulari dette “gomme”, che possono interessare qualsiasi organo o apparato, ma più frequentemente si localizzano alla cute, alle ossa e all’encefalo. Poiché le gomme rispondono alla terapia con penicillina, questo stadio viene indicato come sifilide tardiva benigna. Le gomme sono granulomi infiammatori di dimensioni variabili da alcuni millimetri a diversi centimetri. A livello cutaneo danno origine a noduli duri alla palpazione ma indolenti, che possono ulcerarsi guarendo con una cicatrice atrofica a bordi iperpigmentati. Devono essere distinte dalle analoghe manifestazioni indotte dalla lebbra, da infezioni da micobatteri e miceti. Quando vi è un coinvolgimento scheletrico, questo predilige le ossa lunghe, quelle del cranio e le clavicole; è caratteristico il dolore notturno, mentre i quadri radiologici includono periostite e lesioni litiche o sclerotiche. La presenza 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale delle gomme a livello dello stomaco può simulare un carcinoma o un linfoma gastrico. Infine, l’interessamento delle vie aeree superiori e dell’orofaringe può essere responsabile di perforazione del setto nasale e del palato. Neurosifilide. Il coinvolgimento del sistema nervoso centrale può avvenire sia negli stadi iniziali della sifilide (si veda paragrafo sulla sifilide secondaria), sia negli stadi tardivi. La tabe dorsale, la sifilide meningovascolare e la demenza paralitica (o paralisi generale) costituiscono le manifestazioni tipiche del coinvolgimento neurologico tardivo, anche se questa suddivisione non è assoluta e si può assistere ad una sovrapposizione dei quadri clinici. La forma meningovascolare è contraddistinta da una vasculite a carico dei vasi di qualsiasi calibro associata a infiammazione meningea. Esordisce in genere entro 5-10 anni dall’infezione primaria con un quadro di accidente cerebrovascolare, spesso preceduto da una fase prodromica encefalica (insonnia, cefalea, vertigini, alterazioni psichiche). La paralisi generale consegue a un danno parenchimale diffuso con progressiva perdita delle funzioni corticali superiori. Viene osservata a distanza di 10-20 anni dall’infezione primaria. Il processo patologico è contraddistinto da una reazione infiammatoria cronica meningea e perivascolare con ispessimento delle meningi, ependimite granulare e degenerazione del parenchima cerebrale. Clinicamente è responsabile della comparsa di disturbi delle funzioni intellettive superiori (perdita della memoria a breve termine, delle capacità di calcolo, orientamento e giudizio, afasia); neurosensoriali (allucinazioni, illusioni) e motorie (paralisi). La tabe dorsale è la manifestazione più tardiva (osservata in genere dopo 20-30 anni dall’infezione iniziale); il processo degenerativo provoca demielinizzazione a carico dei cordoni posteriori e delle radici nervose dorsali con abolizione dei riflessi periferici, parestesie, atassia progressiva, dolori lancinanti soprattutto agli arti inferiori. Nel 90% dei pazienti si evidenzia assenza del riflesso pupillare fotomotore agli stimoli luminosi, mentre è conservato quello all’accomodazione (pupilla di Argyll Robertson); il 20% dei soggetti con tabe dorsale presenta atrofia ottica. Sono inoltre descritte alterazioni degenerative a carico delle articolazioni (articolazioni di Charcot), impotenza, incontinenza urinaria e ulcerazioni perforanti alle piante dei piedi. Sifilide cardiovascolare. Le due manifestazioni cardiovascolari più frequenti della sifilide tardiva sono l’insufficienza aortica e l’aneurisma dell’aorta ascendente (soprattutto dell’arco aortico). In era preantibiotica queste complicanze venivano osservate nel 10% circa dei pazienti, mentre oggi nei paesi industrializzati sono rare. Sifilide in gravidanza e sifilide congenita. L’infezione materna non trattata, durante la gravidanza può essere responsabile della comparsa di diverse complicanze: aborto spontaneo, morte fetale intrauterina, idrope fetale non immune, morte perinatale, prematurità, ritardo di crescita intrauterina, basso peso alla nascita e, infine, sifilide congenita. Come già riportato nel paragrafo sull’epidemiologia, la probabilità di trasmissione materno-fetale dipende dallo stadio dell’infezione materna. 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 653 653 Nel caso l’infezione venga trasmessa, solo un terzo dei bambini presenterà manifestazioni cliniche di sifilide congenita alla nascita, mentre i restanti due terzi potranno sviluppare problemi negli anni a venire. Per una trattazione dettagliata dell’infezione congenita, si veda a pag. 938. Sifilide e infezione da HIV. In considerazione della comune via di trasmissione sessuale, la coinfezione sifilide-HIV è piuttosto frequente. La presenza di sifiloma o di altra lesione mucocutanea aumenta di 3-5 volte il rischio di trasmissione di HIV. La sifilide nei soggetti HIV-sieropositivi, soprattutto nello stadio secondario, presenta un decorso più aggressivo e prolungato con imponente eruzione cutanea e frequente coinvolgimento oculare e neurologico. I soggetti coinfetti presentano spesso titoli elevati ai test non treponemici, ma non è chiaro se questo fenomeno sia ascrivibile ad alterazioni nella risposta immunitaria indotte da HIV o una maggiore virulenza e minor risposta terapeutica della sifilide in questi soggetti. Diagnosi. L’isolamento colturale di T. pallidum, come è stato ricordato in precedenza, non è possibile: pertanto la diagnosi di sifilide si avvale di metodi di identificazione diretta (microbiologici), in realtà poco utilizzati nella pratica clinica e di metodi indiretti (sierologici). Le prove microbiologiche possono essere eseguite sul materiale prelevato da tessuti in cui si sospetta la presenza di T. pallidum. L’osservazione microscopica in campo oscuro è di rapida esecuzione ed economica, ma la sua sensibilità non supera il 70-80%. La PCR è una tecnica sensibile, ma non è ancora impiegata nella pratica clinica ed è costosa. Infine, è possibile identificare T. pallidum su preparati istologici utilizzando specifiche colorazioni (Warthin-Starry) o mediante immunofluorescenza diretta. Le prove sierologiche sono di due tipi: “test treponemici” e “non treponemici”, entrambi necessari per porre una corretta diagnosi. I primi accertano la presenza dell’infezione da T. pallidum, mentre i secondi valutano l’attività della malattia. Uno schema interpretativo della sierologia per sifilide è riportato nella Tab. 15.8. I test non treponemici più utilizzati sono la prova di flocculazione VDRL (Venereal Disease Research Laboratory) e quella di agglutinazione RPR (Rapid Plasma Reagin); entrambi rilevano con l’uso di un antigene cardiolipinico-lecitinico la presenza di anticorpi IgG ed IgM. I risultati dei test possono essere espressi in termini qualitativi o quantitativi (titolazione), con quest’ultima opzione preferibile. Il titolo (alla più alta diluizione positiva) riflette l’attività della malattia e la sua determinazione seriata permette di individuare il successo o, viceversa, il fallimento della terapia e le reinfezioni. In alcuni pazienti, dopo trattamento adeguato, VDRL e/o RPR possono rimanere positivi a basso titolo senza essere necessariamente indicativi di fallimento terapeutico. I limiti delle prove non treponemiche sono rappresentati da sensibilità e specificità non elevate. La determinazione può risultare falsamente negativa in corso di sifilide precoce se eseguita nel periodo di finestra sierologica (solitamente 1-3 settimane); per il fenomeno di prozona (falsa negatività del test a basse diluizioni in presenza di titoli anticorpali elevati) o per una 13/01/14 12:24 654 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale Tab. 15.8 Schema esemplificativo per l’interpretazione dei test sierologici per sifilide. Test non treponemico (RPR o VDRL) Test treponemico (TPHA, EIA, FTA-ABS) (1) Possibili interpretazioni (2) Positivo (per esempio, RPR 1:4) Positivo (per esempio, TPHA 1:640) t Sifilide confermata t Falso positivo dovuto a treponematosi endemica Positivo (per esempio, RPR 1:4) Negativo (per esempio, TPHA negativo) t Falsa positività dell’RPR (gravidanza, malattie autoimmuni, età avanzata) t Falso negativo TPHA per periodo finestra (TPHA si positivizza dopo RPR) Negativo (per esempio, RPR negativo) Positivo (per esempio, TPHA 1:640) t Se storia di sifilide adeguatamente trattata, è da considerarsi una “cicatrice” sierologica t In assenza di storia di sifilide adeguatamente trattata, possibile diagnosi di sifilide latente tardiva (circa il 25% dei casi ha RPR negativo) Negativo (per esempio, RPR negativo) Negativo (per esempio, TPHA negativo) t Sifilide esclusa t Possibile finestra sierologica in caso di contagio avvenuto meno di 90 giorni prima EIA, Enzyme Immunoassay; FTA-ABS, Fluorescent Treponemal Antibody Absorption Test; RPR, Rapid Plasma Reagin; TPHA, Treponema Pallidum Hemagglutination Assay; VDRL, Venereal Disease Research Laboratory. (1) Un secondo test treponemico deve essere eseguito per confermare la positività del primo test treponemico (per esempio, molti laboratori utilizzano l’indagine EIA come primo esame, confermando i test EIA positivi con il TPHA). Un secondo metodo treponemico deve essere usato anche in caso di negatività del primo test treponemico a fronte di un esame sierologico non treponemico positivo (per escludere una falsa negatività del primo test treponemico). (2) Vengono elencate solo le più probabili interpretazioni. Per un’accurata interpretazione delle prove si deve tener conto di una serie di altre variabili tra cui i dati anamnestici, il quadro clinico, le precedenti terapie per sifilide eseguite ed i precedenti esami sierologici per sifilide eseguiti. negativizzazione spontanea dopo alcuni anni, in assenza di trattamento, come si osserva in circa il 25% dei pazienti con sifilide latente tardiva non trattata. Anche i falsi positivi sono piuttosto frequenti e si riscontrano in corso di infezioni virali (epatiti, mononucleosi infettiva) e batteriche (febbre tifoide, infezione da micoplasmi), patologie neoplastiche, malattie autoimmuni, gravidanza, età avanzata. Le prove sierologiche treponemiche impiegano T. pallidum come antigene, dimostrando quindi gli anticorpi antitreponemici. I più utilizzati sono il TPHA (Treponema Pallidum Hemagglutination Assay), il TPPA (Treponema Pallidum Particle Agglutination Assay) e l’FTA-ABS (Fluorescent Treponemal Antibody Absorption Test), cui si sono aggiunti, più recentemente, anche test immunoenzimatici (per esempio l’Enzyme Immuno Assay, EIA). Sono prove sensibili e specifiche, utilizzabili come indagini sierologiche di massa per l’elevata possibilità di automazione (EIA) o come conferma (TPHA, TPPA, FTA-ABS). Per queste caratteristiche, un test treponemico positivo, confermato da un secondo test treponemico di differente tipologia, consente di porre diagnosi di infezione da T. pallidum. Tali prove, con la sola eccezione dell’FTA-ABS, divengono positive più tardivamente (da 1 a 5 settimane dopo il contagio) rispetto a quelle non treponemiche. La positività, inoltre, permane anche nei casi di lue trattati, rendendole non idonee per la diagnosi di reinfezione e per il monitoraggio della terapia. La ricerca mirata di IgM con metodica di Western blot o FTA-ABS è importante principalmente in caso di sifilide congenita. Gli anticorpi di classe IgM, infatti, non sono in grado di attraversare la placenta, perciò la loro presenza su sangue neonatale è testimone di 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 654 produzione fetale di anticorpi, ovvero di infezione congenita. Poiché il sistema nervoso centrale può essere interessato in qualsiasi stadio, l’esame del liquor è indicato in presenza di sintomi neurologici compatibili con neurosifilide oppure nel caso di coinvolgimento oculare o uditivo o, infine, qualora si sospetti il fallimento terapeutico. Taluni esperti, inoltre, ritengono che tutti i pazienti HIV-sieropositivi con valori dei linfociti CD4+ <350/ L e RPR >1:32 vadano sottoposti a rachicentesi. Sul liquor, oltre all’esame chimico-fisico, vanno effettuati sia un test treponemico sia il test non treponemico (la VDRL è l’unica a essere validata in quest’ambito). La diagnosi di neurosifilide può essere esclusa in caso di negatività dei test treponemici su liquor; è confermata in presenza di positività della VDRL oppure di pleocitosi liquorale (>5 cellule/ L) associata a una prova treponemica positiva. Qualora non ricorrano le situazioni sopra ricordate, ma il sospetto di neurolue permanga, è d’ausilio il cosiddetto “TPHA index Vienna 2000”, ossia il rapporto TPHA su liquor/ (albumina su liquor 103/albumina sierica). Un valore di TPHA index >70 e un TPHA su liquor >1:320 sono considerati indicativi di neurosifilide. La diagnosi di sifilide congenita è molto complessa e non sempre è possibile giungere ad una conclusione certa. Ogni bambino nato da madre con sierologia positiva, anche se asintomatico, deve essere valutato attentamente tenendo conto della presenza di eventuali segni e sintomi clinici, dell’adeguatezza del trattamento materno e del risultato dei test sierologici (effettuati al momento del parto su neonato e madre). In particolare, sono considerati indicativi di infezione neonatale la positività per IgM nel neonato o un rapporto tra RPR 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale del neonato e RPR materno ≥4:1. In base al quadro clinicolaboratoristico emerso, potranno essere opportuni ulteriori accertamenti quali una rachicentesi, una radiografia delle ossa lunghe, un’ecografia addominale e transfontanellare. Come diagnostica prenatale, l’amniocentesi per escludere la trasmissione per via verticale della sifilide non è consigliata. L’esecuzione di accertamenti ecografici ostetrici può trovare giustificazione al fine di evidenziare anomalie fetali, se la diagnosi di sifilide è posta nella seconda metà della gravidanza, in modo da esprimere con maggiore esattezza la prognosi fetale e, secondo alcuni esperti, guidare il trattamento. L’ecografia può rilevare alcuni segni di sifilide fetale come polidramnios, idrope fetale, placenta ingrandita, epatosplenomegalia, dilatazione ed iperecogenicità dell’intestino. Diagnosi differenziale. La sifilide primaria può essere confusa con le altre infezioni a trasmissione sessuale; la sifilide secondaria, con patologie che provocano eruzioni cutanee (diverse malattie esantematiche), l’infezione acuta da HIV e le reazioni allergiche; la neurosifilide, con meningiti, meningoencefaliti o patologie neurodegenerative. La sifilide congenita va differenziata dalle altre infezioni congenite. Prognosi. In caso di trattamento precoce la prognosi è favorevole. La terapia antibiotica, tuttavia, non è efficace nel favorire la regressione delle sequele ormai stabilite della sifilide congenita o alcune manifestazioni di neurosifilide e sifilide terziaria. La terapia adeguata e tempestiva in gravidanza previene le manifestazioni della sifilide congenita nella quasi totalità dei casi. 655 Terapia. La penicillina è il farmaco di scelta: fino ad oggi non ne è mai stata documentata la resistenza da parte di T. pallidum. Esistono varie formulazioni di penicillina, tra cui la benzilpenicillina (detta anche penicillina G) benzatinica, formulazione a lunga durata d’azione a somministrazione intramuscolare. In corso di neurosifilide e sifilide congenita deve essere invece utilizzata la benzilpenicillina per via ev. Lo scopo del trattamento è duplice: da un lato curare il paziente evitando l’evoluzione verso gli stadi successivi, dall’altro renderlo non contagioso. In assenza di una precedente terapia adeguata, qualsiasi paziente con diagnosi di sifilide dovrebbe essere trattato indipendentemente dai risultati del test non treponemico, che può risultare negativo in caso di sifilide latente tardiva non curata. Nella Tab. 15.9 sono sintetizzati gli schemi di terapia consigliati dai CDC statunitensi: va sottolineato che soltanto la penicillina è raccomandata per la sifilide congenita e la sifilide in gravidanza. Un trattamento adeguato durante la gravidanza si definisce come una terapia a base di penicillina al dosaggio appropriato per lo stadio di malattia, somministrata almeno 30 giorni prima del parto (idealmente, prima della gravidanza o, preferibilmente, entro il I trimestre). In caso di allergia alla penicillina, le donne gravide con sifilide che necessitano di trattamento dovranno essere sottoposte ad un protocollo di desensibilizzazione. Nei casi in cui la storia di allergia sia dubbia, è possibile eseguire i test allergologici per confermare o escludere l’allergia. In ogni caso, l’esecuzione delle prove allergologiche non deve ritardare eccessivamente l’inizio della terapia. Dopo il trattamento, è indicato un controllo sierologico e clinico ogni 3-6 mesi per 1-2 anni. I test sierologici da valutare nelle Tab. 15.9 Schemi terapeutici consigliati per la sifilide (adattati dalle linee guida dei CDC, 2010). Stadio della sifilide Prima scelta Paziente allergico a penicillina (escluse donne in gravidanza) Sifilide primaria, secondaria, latente precoce Benzilpenicillina benzatinica, 2,4 mU im (50.000 U/kg nei bambini) in singola dose* Doxiciclina, 100 mg per os ogni 12 ore per 14 giorni oppure Azitromicina, 2 g per os in singola dose Sifilide latente tardiva Benzilpenicillina benzatinica, 7,2 mU im (150.000 U/kg nei bambini) in 3 dosi da 2,4 mU ciascuna (50.000 U/kg nei bambini) a distanza di 1 settimana l’una dall’altra Doxiciclina, 100 mg per os ogni 12 ore per 28 giorni Sifilide terziaria (esclusa la neurosifilide) Benzilpenicillina benzatinica, 7,2 mU im in 3 dosi da 2,4 mU ciascuna a distanza di 1 settimana l’una dall’altra I CDC non forniscono raccomandazioni Neurosifilide (incluso il coinvolgimento oculare ed acustico) Benzilpenicillina, 18-24 mU/die ev in dosi di 3-4 mU ogni 4 ore (o in infusione continua) per 10-14 gg; successivamente può essere considerato un ulteriore trattamento come per la sifilide latente tardiva Ceftriaxone, 2 g /die ev (o im) per 10-14 giorni (od eventuale desensibilizzazione e trattamento con benzilpenicillina) Congenita (età <1 mese) Sifilide congenita certa od altamente probabile: benzilpenicillina, 50.000 U/kg ev 2 volte al giorno per i primi 7 gg di vita, poi 3 volte al giorno per 10 gg totali di terapia Sifilide congenita possibile: benzilpenicillina benzatinica, 50.000 U/kg im in singola dose Congenita (età >1 mese) Benzilpenicillina, 200.000-300.000 U/kg/die ev, in dosi da 50.000 U/kg ogni 4-6 ore per 10 gg *Alcuni esperti consigliano di ripetere una seconda dose da 2,4 mU di benzilpenicillina benzatinica im dopo 1 settimana in donne gravide per le possibili alterazioni farmacocinetiche legate alla gestazione. 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 655 13/01/14 12:24 656 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale visite sono l’RPR o la VDRL. Per essere paragonabili, i test andrebbero eseguiti sempre nello stesso laboratorio e con la stessa metodica. Una riduzione del titolo di quattro diluizioni in 6-12 mesi (per esempio, da 1:8 a 1:2) è indicativa di risposta terapeutica. Al contrario, un incremento del titolo di almeno 4 diluizioni è considerato segno di fallimento terapeutico o di reinfezione. In caso di neurosifilide con pleocitosi liquorale, i controlli prevedono anche l’esecuzione seriata di rachicentesi fino alla normalizzazione del quadro liquorale. Per quanto riguarda i neonati di madre sifilitica, se il bambino non è infetto i test sierologici devono negativizzarsi entro 6 mesi (per i test non treponemici) o 18 mesi (per i test treponemici). In circa il 50% dei pazienti con sifilide recente (primaria, secondaria o latente precoce) si manifesta, dopo 2-24 ore dall’inizio della terapia, la reazione di Jarisch-Herxheimer, dovuta probabilmente alla lisi massiva delle spirochete con le prime dosi di penicillina. La reazione è caratterizzata da malessere generale, febbre, cefalea, sudorazione profusa, brividi o temporanea esacerbazione delle lesioni sifilitiche. Essa scompare abitualmente in 24 ore, ma talvolta può provocare eventi gravi in pazienti con localizzazione oculare, cardiovascolare o al sistema nervoso centrale, per cui è consigliabile trattare questi pazienti in regime di ricovero ospedaliero somministrando un breve ciclo preventivo di prednisone. Nella seconda metà della gravidanza la reazione di Jarisch-Herxheimer può portare a contrazione delle pareti uterine, parto prematuro o morte fetale; pertanto, è indicato idratare la paziente, monitorare il feto ed utilizzare paracetamolo. I partner di soggetti con sifilide in qualsiasi stadio vanno sottoposti a valutazione clinica e sierologica per stabilire le relative indicazioni terapeutiche. In caso di paziente con sifilide recente (primaria, secondaria o latente precoce) il trattamento del partner viene raccomandato anche a fronte di sierologia negativa se i rapporti sessuali si sono verificati nei 3 mesi precedenti la diagnosi. Infezione gonococcica La gonorrea è un’infezione batterica a trasmissione sessuale causata da N. gonorrhoeae. Nei pazienti di sesso maschile, viene facilmente diagnosticata per il quadro di uretrite acuta con disuria e secrezione purulenta. Nella donna, l’infezione determina una cervicite la cui la sintomatologia è spesso sfumata fino alla comparsa delle complicanze tra le quali la più temibile è la malattia infiammatoria pelvica, dovuta alla diffusione dell’infezione in senso ascendente. Negli ultimi anni si è assistito a una drammatica diffusione a livello mondiale di ceppi di N. gonorrhoeae antibiotico-resistenti, che ha reso necessarie nuove strategie terapeutiche. Eziologia. N. gonorrhoeae è un diplococco gram-negativo delle dimensioni di 0,8 0,6 m, aerobio, immobile, privo di capsula, intracellulare, che fermenta il glucosio, ma non il maltosio e il lattosio. Possiede fattori di virulenza e patogenicità, come i pili (che facilitano l’adesione alle mucose e inibiscono l’attività dei granulociti neutrofili), le cosiddette opacity-associated proteins (OPA), che facilitano l’invasione delle cellule bersaglio, e le porine (note in precedenza come 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 656 proteina I), che conferiscono resistenza al siero umano. Queste ultime permettono la sierotipizzazione del microrganismo e sono associate a infezione disseminata (porB.1A) o localizzata a livello genitale (porB.1B). Epidemiologia e patogenesi. L’uomo è l’unico serbatoio di N. gonorrhoeae e la fonte dei microrganismi sono le secrezioni infette degli organi colpiti (secrezioni uretrali, endocervicali, congiuntivali). La trasmissione avviene per contatto interumano di tipo sessuale o, nel caso del neonato, al momento del passaggio all’interno del canale del parto. L’OMS stima che annualmente si verifichino 106 milioni di nuove infezioni, la maggior parte delle quali in Asia, nell’Africa subsahariana e nelle Americhe. In Europa, negli ultimi anni, si è assistito a un notevole incremento dei casi segnalati, soprattutto nei giovani sessualmente attivi (il 40% dei casi viene diagnosticato in individui di età inferiore a 25 anni) e nei maschi omosessuali, che da soli rappresentano circa un quarto dei casi. L’infezione gonococcica non soltanto aumenta la probabilità di trasmissione dell’infezione da HIV, ma incrementa anche la suscettibilità individuale all’acquisizione di HIV. Il gonococco aderisce alle cellule epiteliali delle mucose grazie ai pili e alle OPA. Successivamente, penetra all’interno delle cellule epiteliali provocandone la morte, per raggiungere poi il tessuto connettivo sottomucoso, evocando un’importante reazione infiammatoria con accumulo di granulociti neutrofili e formazione di microascessi il cui contenuto purulento si riversa quindi nel lume dell’organo interessato (per esempio, dell’uretra o della cervice uterina). L’infezione può diffondersi per contiguità (dall’uretra maschile all’epididimo o dalla cervice verso l’utero e gli annessi) o per via ematogena (sepsi, artrite, meningite). Sintomatologia. Il periodo di incubazione è solitamente compreso tra 2 e 6 giorni e tende ad essere più lungo nelle donne rispetto agli uomini. I soggetti di sesso maschile sono sintomatici nella maggior parte dei casi (oltre il 90%), mentre nella donna l’infezione è più spesso asintomatica o paucisintomatica fino alla comparsa di complicanze. Nell’uomo eterosessuale l’infezione determina l’uretrite gonococcica, caratterizzata da disuria, stranguria, arrossamento del meato uretrale esterno e fuoriuscita di materiale purulento. Se non trattata, può risolversi spontaneamente nel volgere di diverse settimane. Se l’infezione si estende ai tessuti e agli organi circostanti, possono comparire complicanze locali come balanite, epididimite, ascessi periuretrali, linfangite del pene o prostatite acuta. Nei soggetti di sesso femminile la localizzazione iniziale provoca una cervicite: la cui sintomatologia è costituita da secrezioni vaginali (più o meno abbondanti), disuria e sanguinamenti intermestruali, specialmente dopo i rapporti sessuali. Nel 10-20% delle donne l’infezione gonococcica può assumere un andamento ascendente responsabile di malattia infiammatoria pelvica (endometrite, salpingite, ascessi tubarici, peritonite o periepatite). La vaginite gonococcica viene osservata raramente e per lo più in ragazze in età prepubere o in donne in menopausa; la mucosa vaginale intensamente eritematosa ed edematosa, con abbondante secrezione purulenta, è difficilmente esaminabile per l’intensa sintomatologia dolorosa. 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale L’infezione può localizzarsi a livello anale, sia nelle donne sia negli uomini, a seguito di rapporti anali ricettivi o, nel sesso femminile, per estensione dalla cervice. Spesso questa localizzazione è asintomatica, ma può manifestarsi con i sintomi della proctite. La localizzazione faringea sintomatica (faringite gonococcica) o asintomatica può colpire uomini e donne in seguito a rapporti sessuali orali. La congiuntivite gonococcica nell’adulto è di rara osservazione e spesso consegue ad autoinoculazione in paziente con infezione a livello genitale. La disseminazione ematogena rappresenta la forma più grave dell’infezione gonococcica: viene osservata soprattutto nel sesso femminile (con frequenza tre volte maggiore rispetto all’uomo) e negli individui con difetti del complemento (C5-C9). Essa è contraddistinta da febbre elevata con brividi e comparsa (nel 75% dei casi) di manifestazioni cutanee polimorfe (papule, pustole, petecchie, lesioni necrotiche) e artrite settica (artrite gonococcica). Quest’ultima interessa in genere una o più articolazioni, soprattutto ginocchia, polsi, caviglie e gomiti (in ordine decrescente di frequenza). Rare complicanze sono l’endocardite e la meningite gonococcica. Nei neonati la forma di gonorrea di più frequente osservazione è l’ophthalmia neonatorum, che consegue all’esposizione alle secrezioni cervicali infette durante il passaggio attraverso il canale del parto. Le manifestazioni cliniche divengono evidenti 2-5 giorni dopo la nascita con una congiuntivite inizialmente aspecifica, ma che rapidamente diviene sieroematica con copiosa secrezione, chemosi ed edema delle palpebre. Le ulcerazioni corneali inducono la formazione di sinechie anteriori, panoftalmite e conseguente cecità. Per questo motivo, dopo la nascita viene effettuata di routine la profilassi mediante instillazione di nitrato d’argento all’1% oppure con unguenti a base di eritromicina o tetracicline. La colonizzazione faringea viene osservata nel 35% dei neonati con gonorrea oftalmica ed è responsabile della comparsa di tosse. Nelle infezioni sistemiche i neonati sviluppano un’artrite settica con interessamento poliarticolare a distanza di 3-21 giorni dalla nascita. Diagnosi. L’esame microscopico diretto delle secrezioni uretrali dopo colorazione di Gram è attendibile solo in caso di localizzazione uretrale nel maschio sintomatico (specificità >99%, sensibilità >95%). All’indagine microscopica si osservano diplococchi gram-negativi sia all’interno dei numerosi granulociti neutrofili, sia in posizione extracellulare. In tutte le altre circostanze i test di riferimento sono rappresentati dalle prove colturali (impiegando terreni selettivi come il ThayerMartin) o dalle tecniche di rilevazione degli acidi nucleici (Nucleic Acid Amplification Test, NAAT). L’esame colturale può essere eseguito su tamponi da diverse sedi: uretra nel maschio, cervice nella femmina, faringe, ano e congiuntiva per entrambi i sessi; il vantaggio dello studio colturale consiste nella possibilità di eseguire il test di sensibilità agli antibiotici. Le ricerche molecolari possono essere effettuate su tamponi uretrali (nell’uomo), cervicali e vaginali (nella donna) e su urina (in entrambi i sessi, ma nelle donne hanno minor sensibilità rispetto all’esame su campioni cervicali o vaginali). In caso di infezione disseminata è presente una leucocitosi neutrofila e N. gonorrhoeae può essere isolata da emocolture e (ove presente) 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 657 657 dall’essudato articolare o dalle lesioni cutanee, nonché dalla sede mucosa da cui ha avuto origine la batteriemia. Qualora venga posta la diagnosi di gonorrea, è opportuno sottoporre il paziente anche alle analisi per altre infezioni a trasmissione sessuale, in particolare C. trachomatis, sifilide ed HIV. Prognosi. È generalmente buona, ma l’infezione gonococcica in gravidanza è associata ad aborto spontaneo, parto prematuro, rottura precoce delle membrane, aumentata mortalità perinatale ed infezione neonatale. Il neonato può acquisire l’infezione al momento del passaggio nel canale del parto. Terapia. La resistenza agli antibiotici è uno dei principali problemi emergenti per la cura e il controllo della gonorrea. La penicillina e le tetracicline non sono più raccomandate da tempo. In Europa il 63% circa dei ceppi isolati è resistente alla ciprofloxacina, il 13% all’azitromicina e il 5% mostra una ridotta sensibilità alla cefixima. A fronte di questo quadro, le più recenti raccomandazioni europee consigliano un trattamento antibiotico di combinazione anche per le infezioni non complicate. Per le localizzazioni uretrale, cervicale e rettale il trattamento di scelta è con ceftriaxone, 500 mg im in unica somministrazione, associato ad azitromicina, 1 g per os in dose unica, oppure a doxiciclina, 100 mg per os ogni 12 ore per 7 giorni. Questo schema, includendo azitromicina o doxiciclina, garantisce un’efficacia terapeutica anche nei confronti di C. trachomatis, che è presente contemporaneamente in circa il 30% dei pazienti con gonorrea. In caso di allergia alle cefalosporine, è possibile utilizzare la spectinomicina (non più in commercio in Italia), 2 g im in unica somministrazione. Per verificare l’efficacia del trattamento, è indicato ripetere un test di amplificazione molecolare per N. gonorrhoeae a distanza di 2 settimane dalla fine della terapia e, nel caso di positività, eseguire l’esame colturale per determinare il profilo di sensibilità dell’isolato. Una terapia di più lunga durata con ceftriaxone è indicata nelle infezioni disseminate con localizzazioni a carico di articolazioni, meningi ed endocardio. A seconda della localizzazione, potrà essere impiegato ceftriaxone, 1-2 g ev ogni 12 ore per un periodo variabile da 7 a 28 giorni. La terapia sistemica con ceftriaxone (25-50 mg/kg im in singola dose, massimo 125 mg) è indicata anche in caso di ophthalmia neonatorum. Il partner sessuale di un paziente con gonorrea deve essere valutato e trattato empiricamente per N. gonorrhoeae e C. trachomatis. Il trattamento di una donna gravida con gonorrea rappresenta la misura più efficace per prevenire l’infezione neonatale. Uretriti non gonococciche Il termine uretriti non gonococciche indica le infezioni a trasmissione sessuale per le quali sia stata esclusa l’eziologia gonococcica. Nel maschio, l’infiammazione dell’uretra si manifesta con secrezione mucopurulenta o purulenta dal meato uretrale esterno, disuria o prurito uretrale. Tuttavia, in molti casi – soprattutto nel sesso femminile – l’infezione può rimanere asintomatica. 13/01/14 12:24 658 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale Eziologia ed epidemiologia. L’agente eziologico principale è C. trachomatis, responsabile di circa il 30-50% delle uretriti infettive non gonococciche. C. trachomatis è un batterio intracellulare di cui sono stati identificati molteplici sierotipi responsabili non solo di infezioni genitali, ma anche di differenti sindromi (Tab. 15.10). Altri agenti responsabili di uretriti non gonococciche sono Mycoplasma genitalium (15-25%), Ureaplasma urealyticum (15-40%), alcuni batteri gram-negativi della flora enterica (in caso di rapporti anali insertivi), T. vaginalis, HSV-1 e HSV-2 e gli adenovirus umani. La successiva trattazione verterà soprattutto sull’infezione da C. trachomatis, in considerazione della maggiore rilevanza epidemiologica. Tutti gli agenti eziologici delle uretriti non gonococciche si trasmettono per via venerea e colpiscono soprattutto la popolazione giovane e sessualmente attiva. Per quanto riguarda C. trachomatis, l’OMS stima che ogni anno si verifichino oltre 100 milioni di nuove infezioni nella popolazione adulta, la maggior parte delle quali concentrate in Asia e nelle Americhe. La patologia ha comunque una notevole rilevanza anche negli Stati Uniti e in Europa, dove studi di sorveglianza mostrano una prevalenza nei giovani sessualmente attivi fino al 10%. Va ricordato che, in considerazione della comune via di trasmissione, circa il 30% dei pazienti con gonorrea presenta anche un’infezione da C. trachomatis. Questo spiega l’origine del termine “uretrite post-gonococcica” ad indicare un’uretrite dovuta a C. trachomatis che compare in seguito al trattamento di un’uretrite gonococcica in assenza di trattamento specifico per C. trachomatis. Il secondo episodio di uretrite è spiegato dal fatto che C. trachomatis ha un più lungo periodo di incubazione (7-21 gg. vs 2-6 giorni nel caso del gonococco) e non è sensibile alla maggior parte dei farmaci utilizzati per il trattamento di N. gonorrhoeae. Patogenesi. C. trachomatis si caratterizza per l’elettivo tropismo nei confronti dell’epitelio di rivestimento dell’uretra maschile e femminile, per l’epitelio della cervice uterina e per quello delle alte vie genitali femminili, per la congiuntiva oculare, per la mucosa rettale, per l’epitelio delle vie respiratorie del neonato e, probabilmente, anche per la prostata e l’epididimo. La prima infezione non produce un’immunità Tab. 15.10 Correlazione tra sierotipo di Chlamydia trachomatis e manifestazione clinica. Sierotipo di C. trachomatis Manifestazione clinica Modalità di trasmissione A, B, Ba, C Tracoma Contatto con secrezioni oculari, mosche, fomiti D, Da, E, F, G, Ga, H, I, Ia, J, K Uretrite, cervicite, Rapporti sessuali malattia infiammatoria pelvica, proctite D, E, F, G, H, I, J, K Congiuntivite da inclusi, polmonite neonatale Passaggio nel canale del parto L1, L2, L2a, L2b, L3 Linfogranuloma venereo Rapporti sessuali 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 658 protettiva; al contrario, le reinfezioni sono contraddistinte da una più intensa risposta flogistica con successiva cicatrizzazione, responsabile di danno tessutale. Sintomatologia. L’infezione da C. trachomatis è asintomatica in circa il 70% delle donne e nel 50% degli uomini. Nei casi manifesti il periodo di incubazione varia da 7 a 21 giorni. L’uretrite si manifesta con scarsa secrezione biancastra di aspetto mucoso o mucopurulento dal meato uretrale esterno, disuria o prurito uretrale. La secrezione uretrale può talora essere dimostrabile solo al mattino o dopo spremitura del glande. Nella donna, in caso d’interessamento della cervice (cervicite) si può osservare una secrezione vaginale anomala o un sanguinamento intermestruale, tipicamente osservabile dopo i rapporti sessuali. Nel 20-40% dei casi non trattati, nella donna si verifica un interessamento ascendente delle vie genitali con quadri di salpingite, endometrite e peritonite, ovvero l’evoluzione verso la malattia infiammatoria pelvica (vedi paragrafo successivo). La sindrome di Fitz-Hugh-Curtis, originariamente descritta come complicanza della malattia infiammatoria pelvica di origine gonococcica, è stata associata più recentemente alle infezioni da clamidie. Nel maschio, l’infezione da C. trachomatis può coinvolgere l’epididimo, costituendo, insieme con N. gonorrhoeae, la più frequente causa (50-70% dei casi) di epididimite nei giovani di età inferiore a 35 anni, mentre successivamente i batteri della famiglia Enterobacteriaceae divengono i microrganismi prevalenti. Clinicamente l’epididimite si manifesta con dolore scrotale acuto, tumefazione solitamente monolaterale del didimo e dell’epididimo, talvolta accompagnata a disuria e febbre. In entrambi i sessi, C. trachomatis può determinare una proctite sia per inoculazione diretta (rapporti anali ricettivi) sia per estensione dalla cervice uterina al retto. Sono generalmente in causa i sierotipi oculogenitali D-K e L1-L3, responsabili del linfogranuloma venereo. I sintomi sono rappresentati per lo più da tenesmo, prurito e secrezione anale mucopurulenta o mucoematica. Qualora siano coinvolti i sierotipi di C. trachomatis responsabili del linfogranuloma venereo, il quadro è più grave, con una proctocolite ulcerativa che deve essere distinta dalle infezioni erpetiche e dalla malattia di Crohn. Se l’infezione è stata acquisita tramite un rapporto sessuale orale si può osservare la faringite. C. trachomatis, infine, può causare una congiuntivite da inclusi, a decorso subacuto, solitamente unilaterale. L’infezione è acquisita dall’adulto per via sessuale o tramite autoinoculazione nel caso di infezione a livello genitale. Diagnosi. La diagnosi di uretrite può essere confermata dal solo riscontro obiettivo di secrezione uretrale, oppure basarsi su alcuni dati di laboratorio (presenza di 5 o più leucociti per campo microscopico all’esame del secreto uretrale; positività dell’esterasi leucocitaria su campione di urina del primo mitto; piuria, ovvero 10 o più leucociti per campo microscopico nel sedimento dell’urina del primo mitto). Il riconoscimento della cervicite si pone in virtù delle secrezione endocervicale mucopurulenta o in presenza di sanguinamento prolungato ed indotto facilmente dal delicato passaggio di un tampone nell’orifizio cervicale. 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale La precisazione eziologica si fonda sugli accertamenti microbiologici. La metodica più utilizzata consiste nella ricerca del genoma di C. trachomatis tramite NAAT. Nella donna il campione di scelta per la diagnosi è il tampone vaginale, anche autonomamente raccolto, mentre nell’uomo è preferibile utilizzare l’urina di prima emissione. Le tecniche NAAT vengono impiegate anche per campioni endocervicali, congiuntivali, faringei ed anali. Altre metodiche per la ricerca diretta del microrganismo (coltura, immunofluorescenza diretta, saggi immunoenzimatici, tecniche di ibridazione con acidi nucleici) sono meno usate perché più complesse o meno sensibili rispetto a quelle molecolari. L’utilità della sierologia è essenzialmente limitata alle forme cliniche invasive (linfogranuloma venereo e polmonite neonatale), dove mostra un buon valore predittivo positivo e negativo. Prognosi. L’infezione da C. trachomatis può complicarsi, soprattutto nell’uomo, con un’artrite reattiva asettica a patogenesi immunomediata, che insorge solitamente alcune settimane dopo l’infezione. Il quadro sintomatologico prende il nome di sindrome di Reiter se accompagnato anche da congiuntivite e lesioni cutanee. L’infezione in gravidanza è stata associata a prematurità, rottura precoce delle membrane e infezione perinatale. Quest’ultima, acquisita durante il passaggio all’interno del canale del parto, può manifestarsi come congiuntivite da inclusi o polmonite interstiziale tipicamente in assenza di febbre, che esordisce nei primi 3 mesi di vita (vedi pag. 461). Il tracoma è una particolare manifestazione oculare da C. trachomatis che colpisce la popolazione pediatrica di aree a limitate risorse igienico-sanitarie, rappresentando tuttora un’importante causa di cecità. È dovuta a ripetute infezioni da sierotipi A, B, Ba e C trasmessi principalmente attraverso contatto manoocchio tra bambini o tra i bambini e i genitori, ma anche per mezzo di veicoli come mosche e suppellettili (vedi pag. 916). Terapia. Gli schemi di prima scelta per il trattamento delle infezioni non complicate da C. trachomatis (uretrite, cervicite, proctite, congiuntivite) prevedono l’impiego di azitromicina, 1 g per os in singola somministrazione o doxiciclina, 100 mg ogni 12 ore per os per 7 giorni. In alternativa, si possono utilizzare l’eritromicina (500 mg per os ogni 6 ore per 7 giorni) e la levofloxacina (500 mg/die per os per 7 giorni). Nella donna gravida, le attuali raccomandazioni indicano l’azitromicina, 1 g per os in singola dose o l’amoxicillina, 500 mg 3 volte al dì per os per 7 giorni. In tutti i casi, deve essere consigliata l’astensione dai rapporti sessuali fino a 7 giorni dopo l’inizio della terapia. Un esame NAAT di controllo per accertare la guarigione è indicato soltanto in caso di gravidanza, 3 settimane circa dopo il termine della terapia. M. genitalium ed U. urealyticum sono generalmente sensibili agli antibiotici utilizzati per il trattamento delle uretriti da C. trachomatis; alcuni ceppi, tuttavia, possono essere resistenti alla doxiciclina. Per questo motivo, in caso di uretrite persistente o recidivante si consiglia di trattare il paziente con azitromicina qualora, per il precedente episodio, sia stata utilizzata doxiciclina. Inoltre, nel paziente maschio deve essere considerata la possibilità di un’uretrite da T. vaginalis, e quindi va aggiunto metronidazolo (o tinidazolo), 2 g in singola dose orale. 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 659 659 La terapia delle infezioni neonatali (congiuntivite e polmonite) si basa sulla somministrazione per via sistemica di eritromicina (base o etilsuccinato) o azitromicina. Come nelle altre infezioni a trasmissione sessuale, la gestione del paziente con infezione da C. trachomatis comprende la valutazione ed il trattamento del partner. La prevenzione delle infezioni neonatali si identifica nel trattamento della donna gravida. Malattia infiammatoria pelvica La malattia infiammatoria pelvica (o Pelvic Inflammatory Disease, PID) è dovuta a un’infezione ascendente a partenza da un focolaio vaginale o cervicale che coinvolge l’utero, le tube di Falloppio o l’ovaio determinando quadri di endometrite, salpingite, peritonite pelvica o generalizzata, ascessi tubo-ovarici, periepatite o perisplenite. L’eziologia include numerosi agenti patogeni che possono essere trasmessi per via sessuale o a seguito di manovre invasive (inserzione di contraccettivi intrauterini, isterosalpingografia). La PID si caratterizza per una notevole difficoltà diagnostica e per la possibilità di causare sequele come infertilità, gravidanza ectopica e dolore pelvico cronico. Eziologia ed epidemiologia. Tra gli agenti eziologici della PID, ricorrono più frequentemente due patogeni a trasmissione sessuale come Neisseria gonorrhoeae e Chlamydia trachomatis, nonché numerosi altri microrganismi quali batteri anaerobi (soprattutto Prevotella spp. e peptostreptococchi), bacilli enterici gram-negativi, Gardnerella vaginalis, Haemophilus influenzae, Streptococcus agalactiae, Mycoplasma genitalium, M. hominis, U. urealyticum e, ancora, una flora batterica mista. Mancano dati certi sull’incidenza, a causa delle difficoltà di una diagnosi accurata. Un recente studio inglese ha stimato un’incidenza compresa tra 281 e 1.117 nuovi casi per 100.000 donne all’anno in relazione al grado di certezza della diagnosi. La popolazione maggiormente colpita è quella giovanile sessualmente attiva. Fattori di rischio per lo sviluppo della PID sono l’utilizzo di dispositivi intrauterini, l’esecuzione di procedure chirurgiche in ambito ginecologico, la coinfezione con HIV, la giovane età, un elevato numero di partner sessuali, pregresse infezioni a trasmissione sessuale e la presenza di vaginosi batterica. Patogenesi. I microrganismi diffondono all’apparato genitale superiore partendo da un focolaio a sede cervicale o vaginale. Più raramente, la PID può essere conseguente alla localizzazione genitale di alcune patologie infettive sistemiche, come la tubercolosi e la schistosomiasi. Entrambe sono contraddistinte da flogosi granulomatosa cronica e devono essere sospettate soprattutto quando ricorrano dati anamnestici suggestivi (per esempio, provenienza da un paese ad alta incidenza di tubercolosi, pregresso contatto con soggetti con tubercolosi attiva o la storia di soggiorno in un’area endemica per schistosomiasi). Sintomatologia. Frequentemente, la sintomatologia è sfumata e dipende dall’estensione del processo flogistico, che può coin- 13/01/14 12:24 660 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale volgere l’endometrio, le tube uterine, le ovaie e il peritoneo. I sintomi indicativi di PID sono il dolore addominale localizzato ai quadranti inferiori, specie se di recente insorgenza, la dispareunia, il sanguinamento vaginale anomalo, talora dopo un rapporto sessuale, una secrezione cervicale o vaginale anomala (spesso mucopurulenta) e la febbre. La palpazione bimanuale può evocare dolore annessiale o della cervice uterina. In caso di complicanze quali la periepatite (o sindrome di Fitz-Hugh-Curtis) dovuta alla disseminazione del processo infettivo per via intraperitoneale, può comparire dolore all’ipocondrio destro causato dalla flogosi del peritoneo periepatico che porta alla formazione di aderenze. In alcuni di questi casi la sintomatologia riferita soprattutto nella regione epatica può indurre al sospetto di colecistite. Diagnosi. Non vi sono purtroppo elementi clinici o di laboratorio, a esclusione della laparoscopia, che permettano di riconoscere la PID con assoluta certezza. È quindi necessario valutare nell’insieme i dati epidemiologici, clinici, laboratoristici e strumentali. Per esempio, la diagnosi è più probabile nel caso di una giovane donna sessualmente attiva con numerosi partner. La sintomatologia e i reperti obiettivi, soprattutto la dolorabilità uteroannessiale alla palpazione bimanuale, sono fondamentali. Gli esami di laboratorio possono mostrare alterazione degli indici di flogosi (leucocitosi, aumento della velocità di eritrosedimentazione e della proteina C reattiva). L’esistenza di un’infezione a trasmissione sessuale (gonorrea o infezione da C. trachomatis) deve essere ricercata, poiché aiuta a confermare il sospetto. In presenza di dolore pelvico, un incremento dei granulociti neutrofili osservati nel muco della cervice (30 per campo microscopico a medio ingrandimento) o un loro numero superiore a quello delle cellule epiteliali nelle secrezioni vaginali (escludendo una vaginite da T. vaginalis) aumenta il valore predittivo di una diagnosi clinica di PID. Analogamente, l’insorgenza della sintomatologia in concomitanza con il ciclo mestruale, la presenza di contraccettivi intrauterini, un flusso mestruale alterato e un dato anamnestico di salpingite o di rapporti sessuali con maschi affetti da uretrite incrementano la probabilità di diagnosi di PID. Tra le indagini di secondo livello, è indicata l’esecuzione di ecografia transvaginale o di una risonanza magnetica nucleare della pelvi, volte alla dimostrazione di alterazioni flogistiche dell’endometrio e degli annessi. Talvolta è necessario ricorrere alla biopsia endometriale per documentare la presenza di endometrite, o alla laparoscopia. La diagnosi differenziale va posta con altre cause di dolore addominale nella donna giovane, quali l’appendicite, l’endometriosi, la rottura o torsione di una cisti ovarica, il sanguinamento di corpo luteo, l’infezione urinaria o la gravidanza ectopica. Prognosi. Dipende sempre dalla tempestività del trattamento. Le possibili sequele sono l’infertilità, la gravidanza ectopica e il dolore pelvico cronico. Terapia. Alla luce della gravità delle possibili complicanze in caso di mancato trattamento, la soglia decisionale per iniziare la terapia va mantenuta bassa, sebbene la diagnosi possa non 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 660 essere certa. La terapia antibiotica ad ampio spettro deve essere sicuramente efficace nei confronti di N. gonorrhoeae, C. trachomatis e degli altri possibili agenti eziologici. L’ospedalizzazione e il trattamento per via endovenosa sono da preferirsi nelle forme più gravi, per esempio in presenza di ascessi tubarici o di segni di peritonite. Nella PID grave si può effettuare un trattamento con cefoxitina, 2 g ev ogni 6 ore (o cefotetan, 2 g ev ogni 12 ore) associata a doxiciclina, 100 mg per os ogni 12 ore (efficace su C. trachomatis ed altri batteri intracellulari); tale regime va proseguito per almeno 48 ore dopo il miglioramento clinico della paziente e continuato con la sola doxiciclina per un totale di 14 giorni. In alternativa, può essere impiegata la clindamicina (900 mg ev ogni 8 ore) associata a gentamicina (2 mg/kg ev o im seguiti da 1,5 mg/kg ogni 8 ore); anche in questo caso la terapia per via endovenosa va proseguita per almeno 48 ore dopo il miglioramento del quadro clinico e completata con doxiciclina, 100 mg per os ogni 12 ore o clindamicina per os, 450 mg ogni 6 ore per complessivi 14 giorni. Nell’eventualità di gestione ambulatoriale viene prescritto il ceftriaxone, 500 mg im in singola dose, associato a doxiciclina (100 mg ogni 12 ore) e metronidazolo (500 mg ogni 12 ore) per os per 14 giorni. Infine, possono essere impiegati anche i fluorochinoloni (levofloxacina, 500 mg per os oppure ofloxacina, 400 mg per os ogni 12 ore), da soli o in combinazione con metronidazolo, ma si deve tener conto degli alti tassi di resistenza del gonococco a questa classe di farmaci. Il partner sessuale di una donna con malattia infiammatoria pelvica deve essere trattato empiricamente sia per N. gonorrhoeae sia per C. trachomatis. Linfogranuloma venereo Il linfogranuloma venereo è un’infezione sistemica a trasmissione sessuale causata da alcuni sierotipi particolarmente virulenti e invasivi di C. trachomatis. La malattia si presenta frequentemente con una linfoadenopatia inguinale associata o meno a un’ulcera sui genitali, oppure con un quadro di proctocolite. Eziologia ed epidemiologia. L’agente eziologico è costituito dai sierotipi L1, L2, L2a, L2b ed L3 di C. trachomatis. La trasmissione avviene prevalentemente per contatto sessuale. La malattia è diffusa soprattutto in Africa, Asia, Sudamerica e Caraibi. A partire dagli anni Duemila, in Europa, Nordamerica e Australia si è assistito a un incremento significativo dei casi di linfogranuloma venereo causati dal sierotipo L2b, soprattutto in maschi omosessuali di razza caucasica con concomitante infezione da HIV e HCV. Sintomatologia. Il microrganismo può penetrare le mucose o la cute abrasa, diffondendosi successivamente a distanza attraverso il sistema linfatico locoregionale. Dopo un periodo di incubazione di 3-30 giorni, si manifesta la prima fase dell’infezione, con la comparsa, nella sede d’ingresso (genitali, ano), di una piccola papula o pustola. La lesione si erode, ma guarisce rapidamente e spontaneamente, tanto da passare inosservata nella maggioranza dei casi. La seconda fase compare a distanza di 2-6 settimane ed è 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale caratterizzata da linfoadenopatia inguinale mono- o bilaterale dolente; i linfonodi interessati vanno a volte incontro a colliquazione e fistolizzazione con successiva guarigione per fibrosi cicatriziale o cronicizzazione della fistola. Soprattutto nelle donne, possono essere colpiti i linfonodi iliaci interni, in assenza di coinvolgimento di quelli inguinali: in questo caso la sintomatologia sarà caratterizzata da dolore addominale o lombare. La sindrome inguinale è spesso accompagnata da sintomi sistemici: febbre con brivido, malessere generale, cefalea, mialgie e artralgie; talora vengono interessati anche alcuni organi a distanza (polmoni, fegato, encefalo, articolazioni) con quadri di polmonite, meningite o meningoencefalite, epatite, artrite, congiuntivite. Dopo alcuni anni compare la fase terziaria, caratterizzata da proctite o proctocolite cronica che può simulare la malattia di Crohn, con possibile sviluppo di fistole (anali, rettovaginali, rettovescicali e ischiorettali) e stenosi. In questa fase i sintomi dominanti sono costituiti da dolore in sede perianale, perdite mucoematiche a livello anale, tenesmo e costipazione. In una piccola percentuali di casi, nei soggetti di sesso maschile, il linfogranuloma venereo dà origine a lesioni croniche infiltranti con formazione di ulcere o fistole a carico del pene, dell’uretra e dello scroto. Diagnosi. Viene abitualmente posta su base clinica, con successiva conferma diagnostica ottenuta con la dimostrazione di C. trachomatis nei campioni prelevati dai linfonodi, dal retto, dall’uretra o dalla cervice uterina. L’immunofluorescenza diretta e la coltura, quest’ultima un tempo considerata il metodo di scelta, sono oggi spesso sostituite dall’impiego dei test molecolari di amplificazione tramite NAAT. Se la tecnica NAAT per C. trachomatis risulta positiva, è possibile eseguire ulteriori test molecolari (PCR) per identificare il sierotipo di Chlamydia in causa. Anche una sierologia positiva ad alto titolo (per esempio, >1:64 con metodica di fissazione del complemento), può essere utilizzata per confermare la diagnosi. Terapia. La terapia di prima scelta è rappresentata dalla doxiciclina, 100 mg 2 volte al giorno per os per 3 settimane; il farmaco alternativo, impiegabile anche in gravidanza, è l’eritromicina, 500 mg 4 volte al giorno per os sempre per 3 settimane. Anche il partner sessuale, indipendentemente dalla presenza di sintomi, deve essere trattato con un regime efficace per C. trachomatis. 661 distanti. L’infezione è diffusa soprattutto in Africa, nei Caraibi e nel Sud-Est asiatico, mentre sono rari i casi segnalati negli Stati Uniti e in Europa. Rispetto agli anni Novanta, la percentuale delle ulcere veneree attribuite a H. ducreyi si sta riducendo, mentre in proporzione stanno aumentando quelle dovute al virus herpes simplex (HSV). La ragione di questo fenomeno non è nota, anche se è stato ipotizzato che tre fattori abbiano contribuito a questo fenomeno: la disponibilità di migliori tecniche diagnostiche per HSV basate sulla PCR, la diffusione dell’epidemia di HIV, che può aver dato luogo ad un aumento delle riattivazioni da HSV; il trattamento ad ampio spettro con antibiotici delle lesioni genitali come suggerito dall’OMS secondo il cosiddetto approccio sindromico, che può aver inciso maggiormente sulle malattie batteriche rispetto a quelle virali. Sintomatologia. Il periodo di incubazione varia da 1 a 14 giorni. Nella sede d’inoculo compare una papula che evolve in una pustola e successivamente in un’ulcera (Fig. 15.4). Le lesioni possono essere anche multiple. La localizzazione più frequente è costituita dal pene nell’uomo e dalla vagina o dalla vulva nella donna. L’ulcera è spiccatamente dolente, non ha una base infiltrata (caratteristiche che la distinguono dal sifiloma) e sanguina facilmente al contatto. Frequentemente è presente un’adenopatia inguinale, di solito monolaterale. Le lesioni tendono a guarire spontaneamente in qualche settimana. Diagnosi. La diagnosi definitiva di ulcera molle prevede l’identificazione di H. ducreyi, procedura non sempre attuabile. A tale scopo, può essere utilizzato l’esame colturale, per il quale sono necessari terreni specifici, non disponibili in tutti i laboratori e che comunque ha una sensibilità inferiore all’80%. In alternativa, viene usata la PCR, anche questa disponibile solo in pochi centri. Nell’impossibilità di eseguire un esame colturale o una PCR, la diagnosi deve essere fortemente sospettata in presenza di un’ulcera venerea dolente con linfoadenopatia, a fronte di negatività dei test sierologici per sifilide (eseguiti almeno ad 1 settimana di distanza dalla comparsa dell’ulcera) e di negatività della ricerca del DNA di HSV-1 o HSV-2 da tampone eseguito sull’ulcera. Ulcera molle L’ulcera molle è una malattia infettiva a trasmissione sessuale, causata da Haemophilus ducreyi e caratterizzata dalla presenza di un’ulcera dolente con base non infiltrata a livello genitale, spesso accompagnata da linfoadenopatia inguinale. La diagnosi differenziale si pone soprattutto con la sifilide primaria e le lesioni erpetiche. Eziologia. L’agente responsabile è H. ducreyi, bacillo gramnegativo aerobio facoltativo, non mobile, che cresce soltanto in terreni al sangue. La malattia si trasmette prevalentemente per via sessuale, anche se è possibile l’autoinoculazione in distretti cutanei 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 661 FIG. 15.4 - Ulcera molle. (Da: Esposito R. Manuale di parassitologia clinica e medicina tropicale. 2a ed. Milano: Masson; 1994.) 13/01/14 12:24 662 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale Prognosi. Le uniche complicanze che possono sopraggiungere sono locali e costituite dalla perdita di tessuto e dallo sviluppo di fimosi nell’uomo. L’ulcera molle rappresenta un fattore di rischio per la trasmissione di HIV; inoltre, nei soggetti HIV-sieropositivi mostra un decorso più grave, con maggior frequenza di fallimenti terapeutici. Terapia. Gli schemi di trattamento efficaci sono numerosi: azitromicina, 1 g per os in singola dose; ceftriaxone, 250 mg im in singola dose; ciprofloxacina, 500 mg ogni 12 ore per os per 3 giorni; eritromicina base, 500 mg per os ogni 8 ore per 7 giorni. I contatti sessuali dei 10 giorni precedenti l’esordio della sintomatologia devono essere trattati presuntivamente. Donovanosi o granuloma inguinale La donovanosi, nota anche come granuloma inguinale, è un’infezione batterica cronica a trasmissione sessuale che si manifesta di solito con un’ulcerazione della cute o delle mucose nella regione genitale. Venne descritta per la prima volta a Calcutta nel 1882, mentre il microrganismo responsabile fu identificato da Charles Donovan nel 1905, a Madras. Eziologia ed epidemiologia. L’agente eziologico è attualmente classificato, in base alle analisi filogenetiche, come Klebsiella granulomatis comb. nov. (noto in passato come Calymmatobacterium granulomatis), anche se taluni esperti considerano la nomenclatura precedente (fondata sull’analisi della sequenza genica della subunità 16S) più appropriata. Si tratta di un batterio intracellulare (di 1,5 0,7 m) gram-negativo, capsulato (solo nelle forme mature), che può essere isolato esclusivamente in colture cellulari. Il microrganismo “giovane” e privo di capsula viene osservato soltanto in posizione intracellulare, entro vacuoli citoplasmatici delle cellule mononucleate, ove dà origine a vere e proprie colonie ben osservabili al microscopio ottico che vengono denominate corpi di Donovan; la capsula è legata alla maturazione dei batteri e ne permette la fuoriuscita dalle cellule e l’infettività. La malattia si trasmette per via sessuale, anche se la contagiosità è inferiore quando paragonata a quella delle altre più comuni infezioni veneree. Più raramente, l’infezione può essere acquisita dal neonato durante il passaggio attraverso il canale del parto. La malattia è diffusa in piccoli focolai endemici in molti paesi tropicali e subtropicali, mentre è piuttosto rara nei climi temperati; le nazioni dove la malattia è attualmente diffusa sono India, Vietnam, Papua-Nuova Guinea, Australia, Brasile, Guyana francese, Sudafrica e Zambia. Sintomatologia. Il periodo di incubazione è solitamente compreso tra 3 e 50 giorni, ma può arrivare ad alcuni anni. Nella sede d’inoculo, più frequentemente il prepuzio, il solco coronale, il frenulo e il glande nell’uomo, le piccole labbra e il fornice nella donna, compare un’ulcera non dolente a bordi rilevati che tende gradualmente ad estendersi (lesione ulcerogranulomatosa classica). A livello dei linfonodi regionali (inguinali) il processo infettivo determina una linfoadenite e periadenite con evoluzione verso la colliquazione e la fistoliz- 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 662 zazione seguita dallo sviluppo di un’ulcera in tale sede. Le lesioni così formatesi possono guarire spontaneamente, oppure persistere ed estendersi lentamente ai tessuti circostanti, con conseguenze deturpanti. La malattia può anche presentarsi come un’ulcera ipertrofica o verrucosa (soprattutto a livello anale) con margini sollevati e irregolari, oppure come un’ulcera necrotica destruente molto maleodorante o infine come una lesione sclerotica con importante retrazione fibrotica. Manifestazioni extragenitali vengono osservate nel 6% circa dei pazienti e possono interessare le labbra, le guance, il palato, la faringe e la laringe. È segnalata la possibile disseminazione ematogena del microrganismo con localizzazioni epatiche e ossee. In gravidanza la malattia evolve più velocemente e risulta meno responsiva alla terapia. Diagnosi. Oltre che sul quadro clinico, si basa sulla dimostrazione nei tessuti colpiti dei corpi di Donovan (corpuscoli gram-negativi, pleiomorfi) che corrispondono al microrganismo localizzato all’interno degli istiociti. L’esame viene effettuato allestendo un vetrino con materiale prelevato tramite raschiamento cutaneo da una lesione ed eseguendo un esame microscopico diretto dopo opportuna colorazione (Giemsa, Wright o Leishman). Un’altra possibilità prevede l’esecuzione di un’indagine istologica su biopsia. La coltura e l’utilizzo di metodiche di biologia molecolare sono disponibili solo in laboratori specializzati. La sensibilità delle tecniche microscopiche nel dimostrare la presenza di corpi di Donovan non supera il 60-80%. La diagnosi differenziale va posta con la lue (sifiloma primario e condylomata lata), l’ulcera molle, il linfogranuloma venereo, l’herpes genitale e l’amebiasi. Prognosi. Possibili complicanze sono l’emorragia, il linfedema genitale, gli esiti cicatriziali, l’evoluzione verso il carcinoma squamocellulare delle lesioni e, raramente, la diffusione per via ematogena con localizzazioni a distanza. Terapia. Il trattamento consiste nell’impiego di diversi antibiotici per una durata minima di 3 settimane o finché non sia stata ottenuta una guarigione completa. Si utilizzano: l’azitromicina (500 mg/die per os o 1 g una volta alla settimana per 4 settimane), il ceftriaxone (1 g/die im o ev), il cotrimoxazolo (960 mg per os ogni 12 ore), la doxiciclina (100 mg per os ogni 12 ore), l’eritromicina (500 mg per os ogni 6 ore) e la ciprofloxacina (750 mg per os ogni 12 ore). In assenza di risposta clinica nei primi giorni di terapia, è possibile aggiungere la gentamicina, 1 mg/kg ev ogni 8 ore. Il trattamento deve essere offerto ai soggetti che hanno avuto contatti sessuali con il caso indice nei 2 mesi precedenti la diagnosi, anche in assenza di sintomi. SCHISTOSOMIASI UROGENITALE La schistosomiasi urogenitale è un’infestazione causata dal trematode Schistosoma haematobium, diffuso in tutta l’Africa, in Medio Oriente e nelle isole dell’Oceano Indiano. I flussi migratori e i viaggi internazionali sono responsabili del fatto che questa patologia sia oggi frequentemente osservata anche 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale in paesi non endemici, come l’Italia. La malattia provoca molteplici quadri clinici cronici di interesse uroginecologico. Eziologia e ciclo biologico. S. haematobium è un elminta di piccole dimensioni (il maschio e la femmina adulti misurano rispettivamente 10-15 0,8-1 mm, 10-20 0,25 mm), appartenente alla classe dei trematodi, genere Schistosoma. Il ciclo biologico è analogo a quello di S. mansoni (vedi pag. 557). Le uova, fornite di un caratteristico sperone terminale (Fig. 15.5), hanno forma allungata e dimensioni di 110-170 40-70 m. Le uova vengono eliminate con le urine, dando origine – qualora raggiungano l’acqua dolce – a larve mobili per la presenza di ciglia (miracidi). Le larve, dopo essere penetrate in gasteropodi di genere Bulinus (ospite intermedio), si moltiplicano per riproduzione asessuata producendo, in 4-6 settimane, centinaia di cercarie mobili, lunghe circa 1 mm e dotate di una coda biforcuta. Queste, una volta abbandonato l’ospite intermedio, si rendono libere nelle acque e sono capaci di iniziare l’infestazione umana per penetrazione transcutanea (in occasione di balneazioni o anche semplice immersioni di una parte assai limitata del corpo). Durante la fase di invasione nell’ospite umano, le cercarie perdono la coda e si trasformano in schistosomuli. Questi ultimi guadagnano la grande circolazione, migrano al cuore destro e ai polmoni raggiungendo quindi i vasi portali. Qui, nello spazio di circa 6 settimane, avvengono la definitiva maturazione a vermi adulti e l’accoppiamento degli esemplari maschi e femmine. Gli elminti adulti, ancora accoppiati, raggiungono infine i plessi venosi perivescicali e perirettali dove la femmina inizia a deporre le uova dopo circa 2 mesi dall’infestazione. Le uova perforano le pareti dei capillari e vengono spinte verso il lume dei visceri cavi (vescica e retto), venendo escrete con le urine o con le feci, mentre una parte rilevante rimane intrappolata nei tessuti inducendo il danno d’organo. Alcune uova possono immettersi nella circolazione sistemica, giungendo ai polmoni e in diverse altre sedi. La sopravvivenza media degli schistosomi adulti nell’organismo umano è di 5-10 anni. Epidemiologia. Considerando la schistosomiasi urogenitale e quella epatointestinale nel loro insieme, l’OMS stima che siano circa 230 milioni le persone che necessitano annualmente del trattamento specifico, e che la malattia provochi FIG. 15.5 - Uovo di Schistosoma haematobium (sedimento urinario 1.000). 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 663 663 20.000 decessi ogni anno, dovuti a patologia d’organo terminale come il carcinoma della vescica, l’insufficienza renale e le complicanze dell’ipertensione portale. La maggior parte delle infestazioni da S. haematobium si concentra nell’Africa subsahariana, dove la prevalenza può superare il 50%. La malattia è comunque presente, anche se in misura più limitata, nell’Africa settentrionale (Algeria, Marocco, Tunisia), in Medio Oriente e nelle isole dell’Oceano Indiano. Al di fuori dei paesi endemici, la schistosomiasi viene osservata, oltre che negli immigrati, nei soggetti espatriati e nei viaggiatori. Patogenesi e anatomia patologica. In occasione della prima infestazione, il sistema immunitario reagisce alla penetrazione della cute da parte delle cercarie e alla successiva presenza in circolo dei giovani schistosomuli sviluppando una risposta che coinvolge principalmente i granulociti eosinofili, i macrofagi e le IgE. Questa prima fase è contraddistinta dalla possibile comparsa dei quadri di dermatite da cercarie (che compare entro le prime 72 ore dopo il contatto con l’acqua infestata) e della cosiddetta febbre di Katayama (che compare generalmente tra le tre settimane e i tre mesi dopo l’infestazione). Nelle infestazioni croniche, assume un ruolo patogenetico rilevante la formazione di granulomi intorno alle uova prodotte dai vermi femmina adulti. Le uova vengono rilasciate nei capillari dei plessi venosi, dove risiedono i vermi adulti. Da qui perforano le pareti dei capillari e sono spinte verso il lume dei visceri cavi (vescica e retto), ma solo una piccola quantità è eliminata con le urine o con le feci, mentre una gran parte rimane intrappolata nei tessuti, inducendo una flogosi granulomatosa e successivi fenomeni di fibrosi. Nella schistosomiasi da S. haematobium le alterazioni più significative sono quelle a carico della vescica. Macroscopicamente, la mucosa vescicale appare congesta, edematosa, cosparsa di piccole papule che si trasformano poi in noduli, e quindi si ulcerano o vanno invece incontro a sclerosi. Possono anche osservarsi manifestazioni iperplastiche, con formazione di polipi e, con il passare del tempo, calcificazioni, che danno luogo a un quadro anatomopatologico altamente caratteristico. L’esito a distanza consiste generalmente in sclerosi della mucosa, con riduzione della capacità della vescica. Non è raro lo sviluppo di una neoplasia vescicale ed è frequente l’estensione delle lesioni al terzo inferiore dell’uretere (che può determinare stenosi ureterale, idrouretere e idronefrosi), alle vescicole seminali e alla prostata nel maschio, al collo dell’utero e alla vagina nella donna. Sintomatologia. Il quadro clinico dipende dallo stadio dell’infestazione e dalla progressione delle lesioni d’organo. Le manifestazioni iniziali caratteristiche del periodo di invasione (dermatite da cercarie e febbre di Katayama) risultano comuni a tutte le specie di Schistosoma e sono state descritte nella schistosomiasi intestinale (vedi pag. 558). I sintomi urogenitali, caratteristici di S. haematobium, compaiono nella fase cronica, successivamente all’inizio della produzione di uova da parte dei vermi adulti. In caso di coinvolgimento vescicale l’ematuria, inizialmente solo microscopica e poi anche macroscopica, è il segno più comune, associata o meno a stranguria, disuria, pollachiuria o mitto ipovalido. 13/01/14 12:24 664 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale Parte di questi sintomi può essere correlata alle frequenti infezioni urinarie secondarie. L’interessamento dell’uretere determina sovente stenosi ureterale con successiva idronefrosi e coliche renali. Le lesioni dell’apparato genitale maschile (prostata, vescicole seminali, epididimo) si evidenziano spesso con ematospermia. La localizzazione alla cervice uterina è caratterizzata dalla presenza di chiazze granulose giallastre (sandy patches) ed aree mucose ipervascolarizzate che tendono al sanguinamento e facilitano la trasmissione di HIV. Il danno endometriale e tubarico è responsabile di un quadro simile alla PID e talora provoca infertilità. Nelle fasi avanzate possono presentarsi le complicanze dell’insufficienza renale, che riconosce una patogenesi sia ostruttiva (idroureteronefrosi) sia, più raramente, immunomediata (glomerulonefrite). A causa della migrazione ectopica delle uova, la schistosomiasi in alcuni casi cagiona una compromissione del sistema nervoso centrale, le cui manifestazioni più frequenti sono la mielite trasversa acuta e la mieloradicolite subacuta. Sia la schistosomiasi da S. mansoni sia quella da S. haematobium a volte si associano a infezioni croniche o recidivanti da Salmonella enterica sier. Typhi e salmonellosi minori, in quanto i batteri sono capaci di aderire alla superficie dei vermi adulti e divengono difficili da eradicare con la terapia antibiotica. La schistosomiasi genitourinaria deve essere differenziata principalmente dalle neoplasie e dalla tubercolosi. Diagnosi. Il sospetto diagnostico di schistosomiasi urinaria deve essere posto in presenza di un quadro clinico e di un contesto epidemiologico compatibili. Nell’infestazione cronica da S. haematobium talora si rilevano modesta eosinofilia, incremento delle IgE sieriche, proteinuria, micro- o macroematuria. L’ecografia dell’apparato urinario è molto utile sia nell’inquadramento iniziale sia nei controlli successivi, potendo documentare la presenza di lesioni aggettanti in vescica o di idroureteronefrosi e permettendo di stimare il residuo postminzionale. A completamento, riescono utili indagini di II livello come la cistoscopia, l’urografia, l’uro-TAC, la cistografia retrograda minzionale e l’esame citologico delle urine. Per quanto riguarda la diagnosi eziologica, questa si avvale di indagini parassitologiche e sierologiche. L’esame parassitologico, poco sensibile, consiste nello studio microscopico diretto effettuato su urine, feci o su campioni bioptici (prelevati con cistoscopia o rettoscopia) per la ricerca delle uova. Il primo si esegue sul sedimento delle urine raccolte nelle 24 ore; in alternativa, si possono utilizzare campioni di urine raccolti tra le 10 antimeridiane e le 2 del pomeriggio, poiché l’emissione di uova presenta un ciclo circadiano con picco in quella fascia oraria. In questo caso il paziente deve essere invitato ad eseguire una decina di piegamenti sulle ginocchia prima di iniziare la raccolta, per facilitare il distacco delle uova dalle pareti vescicali. Per quanto riguarda sia le urine sia le feci, è opportuno esaminare più campioni (almeno tre raccolti in giorni diversi) per aumentare la sensibilità dell’esame. Le biopsie della mu- 016_ch015_MORONI_0641_0666.indd 664 cosa vescicale e rettale (rectal snip) hanno una sensibilità più elevata nel rilevare le uova, ma sono ovviamente più invasive. Le ricerche parassitologiche devono essere ripetute dopo il trattamento per valutarne l’efficacia; tuttavia, uova non vitali possono essere emesse, anche dopo un trattamento efficace, per circa 1-2 mesi. In tal caso, se l’esame parassitologico fosse ancora positivo, è possibile eseguire il test di vitalità del miracidio per distinguere tra uova vitali e degenerate. Per l’identificazione di anticorpi anti-Schistosoma si dispone di diversi test: immunoenzimatici, di emoagglutinazione indiretta e Western blot. Le prove sierologiche si positivizzano solitamente entro 3 mesi dall’infestazione e possono rimanere positivi per tutta la vita senza risentire in modo sostanziale delle eventuali terapie. Le indagini sierologiche hanno una sensibilità del 70-85%, sicuramente superiore rispetto all’esame parassitologico, ed una specificità del 76-100% a seconda delle metodiche impiegate. La causa più frequente di falsi positivi è rappresentata dalla possibile reattività crociata con altri elminti, soprattutto cestodi. I test di determinazione degli antigeni degli schistosomi su sangue e urine (circulating catodic antigen o CCA, e circulating anodic antigen, o CAA) e i saggi molecolari sono disponibili solo in laboratori altamente specializzati. Prognosi. Dipende in larga misura dalla tempestività del trattamento antiparassitario, che, eliminando i vermi adulti, interrompe la produzione e l’accumulo delle uova responsabili del danno. Sebbene alcune lesioni iniziali, come gli pseudopolipi infiammatori vescicali, possano regredire con il trattamento antiparassitario, la maggior parte delle alterazioni fibrotiche è irreversibile. Terapia e profilassi. La cura della schistosomiasi genitourinaria si basa, da un lato, sul trattamento antielmintico specifico e, dall’altro, sulla correzione, spesso chirurgica, delle complicanze d’organo. Il farmaco di scelta è il praziquantel, attivo principalmente sui vermi adulti. Nella fase cronica, il dosaggio di praziquantel consigliato dalla maggior parte delle linee guida internazionali è di 40 mg/kg (suddivisi in due dosi) per os per 1 giorno. La singola dose è lo schema più utilizzato nelle aree endemiche, dove rappresenta un intervento con un rapporto costo-efficacia molto favorevole per ottenere il controllo della malattia. Nelle zone non endemiche, allo scopo di curare il singolo paziente, alcuni esperti consigliano di ripetere l’assunzione del farmaco più volte: per esempio, 40 mg/kg/die per 3 giorni consecutivi, oppure per 2 giorni a distanza di 2-4 settimane l’una dall’altra. L’unica misura sicuramente utile per non acquisire l’infestazione è quella di evitare il contatto della cute con acque dolci nelle regioni endemiche. Esistono alcuni prodotti che si sono dimostrati efficaci in profilassi, ma non sono ancora stati raccomandati dalle autorità competenti: tra questi, vi sono i derivati dell’artemisinina, da assumere per os, e prodotti topici a base di dietiltoluamide (DEET). 13/01/14 12:24 Capitolo 15 t Infezioni dell’apparato urogenitale 665 SELEZIONE BIBLIOGRAFICA Vulvovaginiti Infezioni a trasmissione sessuale Owen MK, Clenney TL. Management of vaginitis. Am Fam Physician 2004;70:2125-2132. Pappas PG, Kauffman CA, Andes D et al. Clinical practice guidelines for the management of candidiasis: 2009 update by the Infectious Diseases Society of America. Clin Infect Dis 2009;48:503-535. Sobel JD. Vulvovaginal candidiasis. Lancet 2007;369:1961-1971. Wendel KA, Workowski KA. Trichomoniasis: challenges to appropriate management. 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