Tribunale di Reggio Emilia, 13 giugno 2006 - G.U. dott. Stefano Scati Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 26 ed il 29 marzo 2001 A.A. e B.B. convenivano in giudizio l’Azienda Ospedaliera- Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia e il dr. YY attribuendo loro profili di responsabilità in relazione alla nascita del figlio X il quale, a seguito del parto verificatosi alle ore 19,25 del 2 aprile 1996, aveva riportato la paresi del plesso brachiale sinistro conseguente ad una distocia di spalla. A sostegno della domanda deducevano che le difficoltà di progressione del travaglio avrebbero dovuto denotare l’insorgenza della complicanza, che tale circostanza avrebbe dovuto indurre all’effettuazione del taglio cesareo e che il dr. YY aveva, per contro, indotto il parto naturale. Sulla scorta di tali premesse gli attori, agendo in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sul minore, chiedevano la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti. I convenuti, con separate comparse sottoscritte dal medesimo procuratore, chiedevano il rigetto della domanda evidenziando, fra l’altro, che gli attori non avevano contestato né al dr. YY né agli altri sanitari specifici profili di responsabilità. Il YY deduceva inoltre di essersi limitato a prescrivere alle ore 10,30 del 2 aprile dei farmaci antispastici e di non essere stato più in servizio al momento del parto. La causa veniva istruita mediante produzioni documentali, l’effettuazione di CTU medico legale e l’audizione a chiarimenti del CTU per essere poi decisa sulle conclusioni formulate dai procuratori delle parti all’udienza del 2 marzo 2006. Motivi della decisione B.B. venne ricoverata alla ore 22 del 31 marzo 1996 presso il reparto di ostetricia del locale nosocomio alla quarantesima settimana di gestazione ed il giorno successivo venne sottoposta agli esami del caso. Alle ore 10, 30 del 2 aprile il dr. YY somministrò una dose di Syntocinon al fine di stimolare le contrazioni uterine; alle ore 18 si verificò la dilatazione completa; alle ore 19,25 la B.B. partorì con l’assistenza del ginecologo dr. L.S. e dell’ostetrica A.C.; nacque un bambino del peso di 3980 grammi il quale riportò la paralisi del plesso brachiale sinistro conseguente alla complicanza denominata distocia di spalla. Gli attori addebitano ai sanitari dell’azienda ospedaliera di non aver proceduto al taglio cesareo pur in presenza di fattori di rischio per un parto naturale fra i quali il diabete della gestante e la lunghezza del travaglio; contestano in particolare al convenuto YY di aver indotto (rectius: pilotato) il parto mediante la somministrazione del farmaco Syntocinon quando poteva già essere diagnosticata la distocia di spalla; rilevano che la cartella clinica non contiene alcuna indicazione della condotta tenuta dai sanitari per risolvere la complicanza e lamentano l’incongruità della manovra ostetrica effettuata al momento del parto. Il CTU prof. Valerio Maria Jasonni, ordinario di ginecologia ed Ostetricia presso l’università di Modena e Reggio Emilia, ha rilevato che la gestante aveva avuto un normale decorso della gravidanza con diabete chimico ben compensato; che al momento dell’ingresso in ospedale il peso fetale era stato stimato superiore al 90° percentile ma senza le caratteristiche della macrosomia; che il peso rilevato al momento della nascita (grammi 3980) aveva confermato tale diagnosi in quanto in letteratura viene definito macrosoma il feto di peso oltre i 4000 grammi e, segnatamente, quello di peso superiore ai 4500 grammi; che il travaglio si è svolto regolarmente con la dovuta assistenza; che il tempo di somministrazione del farmaco per favorire le contrazioni uterine fu corretto come comprovato dalla rapida dilatazione del collo uterino e dalla normale durata del periodo espulsivo, inferiore alle due ore; che dalla ordinaria durata del periodo espulsivo si può desumere che la partoriente aveva un bacino di larghezza adeguata. In presenza di un benessere fetale accertato, di un normale decorso della gravidanza, di un diabete chimico ben controllato, di esami ecografici che non denotavano la macrosomia del feto e di un travaglio svoltosi regolarmente non vi era quindi, ad avviso del CTU, alcuna ragione per ricorrere alla tecnica operatoria del taglio cesareo; tanto più che l’adozione di tale tecnica comporta un rischio di mortalità materna di sette-cinque volte superiore a quello del parto naturale. Tanto premesso in punto di fatto, occorre in diritto osservare che la Corte di Cassazione, a mezzo della recente sentenza n. 10297 del 28 maggio 2004 , ha sottoposto a revisione l’orientamento giurisprudenziale maturato in tema di responsabilità del medico e dell’ente ospedaliero - con particolare riguardo alla distribuzione dell’onere della prova a seconda della natura routinaria o meno della prestazione sanitaria - alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite, con la sentenza 30 ottobre 2001 n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento. Come è noto, le Sezioni Unite hanno enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo costituito dall’avvenuto adempimento. Ed analogo principio è stato affermato con riguardo all'inesatto adempimento, mediante il rilievo che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento. L’applicazione di tale principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale comporta - secondo quanto affermato dalla Corte nella già menzionata sentenza n. 10297/2004 che il paziente il quale deduce l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del sanitario mentre resta a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento. Il paziente deve provare, in particolare, l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento restando a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale è stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più, contrariamente a quanto affermato nelle precedenti pronunce di legittimità, quale criterio di distribuzione dell'onere della prova, ma deve essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa; resta comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà. Del resto, osserva la Corte, "porre a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova dell'esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno a quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla. Infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell'inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l'oggetto è l'attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia "vicina" a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto" Ciò posto il giudicante osserva quanto segue. Il primo profilo di responsabilità contestato dagli attori si è rilevato infondato all’esito degli accertamenti effettuati dal CTU prof. Iasonni dai quali è risultato, come si è già detto più diffusamente nelle pagine precedenti, che non sussistevano fattori di rischio per un parto naturale e, in altri termini, che non vi erano ragioni per procedere al parto mediante la tecnica operatoria del taglio cesareo. Il che comporta il rigetto della domanda proposta nei confronti del convenuto M. il quale andrebbe ad ogni modo esente da ogni responsabilità in considerazione del ruolo ricoperto durante il travaglio della B.B.. Premesso che il dr. YY si è limitato a prescrivere alle ore 10,30 del 2 aprile una dose di Syntoncinon al fine di favorire le contrazioni uterine, è sufficiente osservare che la somministrazione di tale farmaco non impediva certo ai vari sanitari che monitorarono il travaglio sino al momento del parto avvenuto alle ore 19,25 di effettuare il taglio cesareo ove ne avessero ritenuto l’opportunità. Né rileva che il dr. YY, il quale terminò il proprio turno lavorativo alle ore 16,45, abbia sottoscritto la cartella clinica non potendo tale sottoscrizione essere intesa come assunzione di responsabilità di tutto quanto avvenuto durante il ricovero della B.B.. Quanto al secondo profilo di responsabilità, occorre premettere che nelle conclusioni formulate nell’atto introduttivo gli attori hanno espressamente chiesto di accertare che "a seguito di manovre incongrue effettuate all’atto del parto della veniva procurato al nascituro X. un trauma da stiramento sull’arto superiore sinistro con conseguente paralisi del plesso brachiale" (cfr. il punto n. 3 dell’epigrafe). Gli attori, a mezzo delle osservazioni critiche redatte dal loro consulente dr. Bonfiglio Gambarini alla relazione di CTU, hanno poi lamentato che nella cartella clinica non erano state descritte le manovre poste in essere, dai sanitari, per risolvere la complicanza, le quali, ove errate, potevano di per se stesse essere la causa del danno neurologico. E su tale questione e sul correlato problema relativo alla mancata effettuazione della episiotomia è stato sentito il CTU nel contraddittorio con i consulenti delle parti (cfr. il verbale della udienza del 10 febbraio 2004). Il profilo di colpa relativo alla mancata o errata esecuzione delle manovre per risolvere la complicanza è stato pertanto introdotto in nuce sin dall’inizio della causa per essere poi sviluppato nel prosieguo del giudizio in contraddittorio fra le parti; il che consente di superare i rilievi formulati dai convenuti nella memoria di replica. Sgombrato il campo da tale questione, occorre dire che - come si evince dalle premesse di carattere generale contenute nella relazione di CTU - il trattamento elettivo della distocia di spalla presuppone l’esecuzione della episiotomia (id est: l’ampliamento chirurgico dell’anello vulvare), la determinazione dell’orientamento del diametro bisacromiale rispetto al bacino e la rotazione del diametro bisacromiale secondo uno dei diametri obliqui del bacino con pressione sulla parte posteriore della spalla posteriore e pressione sulla parte anteriore della spalla anteriore. Se tale manovra fallisce può essere impiegata la tecnica di McRoberts e, cioè, una forte flessione delle cosce materne verso l’addome in modo da portare la spalla anteriore sotto la sinfisi pubica. In caso di fallimento di tale manovra si può provare a far scendere lungo il promontorio la spalla posteriore facendo trazione sull’ascella fetale (manovra di Jacquemier). Se si determina la discesa della spalla posteriore lungo il promontorio senza però ottenere il disimpegno della spalla anteriore si può ricorrere alla manovra di Varnier: rotazione di 180° gradi del diametro bisacromiale in modo da portare, analogamente alla prima manovra descritta, la spalla posteriore sotto la sinfisi pubica. Si possono infine tentare la (non facile) frattura intenzionale della clavicola fetale ovvero la manovra di Wood: rotazione di 180° del diametro bisacromiale in modo da portare la spalla posteriore in anteriore impegnandola sotto il pube. Ciò posto il giudicante osserva quanto segue. La paresi del plesso brachiale è stata cagionata dalle manovre ostetriche compiute per estrarre il feto dall’alveo materno sì che, contrariamente a quanto sostenuto dai convenuti nella memoria di replica, sussiste il nesso causale fra la condotta dei sanitari e l’evento dannoso. Né appare pertinente il precedente di legittimità (Cass. 11 novembre 2005, n. 22894) menzionato dai convenuti in detta memoria in quanto relativo da una fattispecie del tutto diversa da quella di causa: si discuteva, infatti, della sussistenza del nesso eziologico fra una condotta colpevolmente omissiva ravvisata in capo alla struttura ospedaliera (l’aver trasferito con un ritardo di 24 ore nel reparto pediatrico un neonato che aveva manifestato sofferenza per cianosi) e l’insorgenza di una patologia cerebrale (meningite manifestatasi dopo due mesi dalla nascita). Sgombrato il campo da tale questione, occorre dire che l’azienda ospedaliera, in ossequio al principio posto dalla Corte di Cassazione con la citata sentenza n. 10297 del 2004 (resa proprio nell’ambito di un giudizio per danno iatrogeno da distocia di spalla), avrebbe dovuto dimostrare di aver esattamente adempiuto alla propria obbligazione e che il danno lamentato dagli attori era stato determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile. L’azienda ospedaliera avrebbe dovuto quindi dimostrare, in prima battuta, quale condotta hanno tenuto i propri dipendenti (l’ostetrica A.C. ed il ginecologo dr. L.S.) per fronteggiare la complicanza e, segnatamente, quali manovre costoro hanno eseguito al fine di ottenere il disimpegno delle spalle del feto; in seconda battuta che la paresi brachiale si sarebbe egualmente verificata nonostante il compimento di adeguate manovre ostetriche. Orbene, la cartella clinica non contiene alcuna annotazione e tale circostanza si risolve in un difetto di prova sulla idoneità (astratta) della condotta tenuta dai sanitari a risolvere la complicanza oltre ad essere, di per se stessa, indice di un comportamento assistenziale negligente ed imperito. Né l’azienda ospedaliera ha provato o chiesto di provare in altro modo - e cioè, a mezzo di testimoni- il tipo di manovre effettuate dai propri sanitari durante il parto. Manca quindi la prova (e la mancata annotazione in cartella costituisce, anzi, indizio in senso negativo) dell’esecuzione della episiotomia che costituisce fondamentale approccio al trattamento della distocia della spalla nel senso che non è possibile effettuare le manovre ostetriche sopra descritte se prima non si è operato un taglio a livello della forchetta vaginale sì da ampliare l’anello vulvare. Né rileva che l’utilizzo di tale metodica avrebbe potuto comportare rischi sia per la madre che per il bambino (come affermato dal CTU in sede di chiarimenti) sia perché la episiotomia è uno degli interventi più frequentemente utilizzati durante il parto vaginale come mezzo di prevenzione di lacerazioni maggiori e di danni al neonato sia perché trattatasi di scelta elettiva - se non obbligata - in presenza del fenomeno di distocia di spalla. Manca inoltre la prova del tipo di manovre compiute dai sanitari per estrarre il neonato e tale omissione non può essere superata mediante il richiamo al compimento di non meglio definite "manovre manuali di espulsione" (cfr. quanto dichiarato dal CTU in sede di chiarimenti). Ed invero, come si evince dai contributi scientifici riportati nella parte generale della relazione peritale, non tutte le manovre sono adatte al singolo caso sì che occorreva accertare il tipo di manovra eseguita per poi valutarne la sua correttezza. E tale considerazione costituisce lo spunto per osservare che la valutazione del grado di diligenza degli assistenti al parto - eventualmente anche a mezzo del parametro di cui all’art. 2236 c.c. - non può prescindere dalla dimostrazione delle modalità con le quali è stata eseguita la prestazione sanitaria. Il trattamento della distocia di spalla comporta infatti un danno al neonato limitato al 39% dei casi - con un danno neurologico ristretto al 10% dei casi- sì che occorre necessariamente aver riguardo ai mezzi e ai metodi utilizzati dal sanitario per verificare se l’esito negativo è ascrivibile all’uso di una diligenza inadeguata ovvero a fattori non attribuibili al prestatore d’opera A conclusione di quanto sin ora detto deve quindi ribadirsi che parte convenuta, in applicazione del criterio di "vicinanza" della prova, avrebbe dovuto dimostrare in primo luogo che erano state praticate manovre ostetriche adeguate al caso concreto e, in secondo luogo, che la paralisi dell’arto superiore del neonato era stata determinata da un evento imprevisto ed imprevedibile. E poiché, come si è visto, non è stato soddisfatto (neppure) il primo tema probatorio, deve essere affermata la responsabilità della azienda ospedaliera di Reggio Emilia per i danni riportati da (omissis) X. nel corso del parto. Venendo ora alla tematica del quantum debeatur, occorre dire che il medico legale dr. Giorgio Gualandri, nominato ausiliare del CTU prof. Iasonni, ha dato atto che X. "frequenta la scuola elementare, ha amici, una vita socio-relazionale che i genitori definiscono regolare, fa nuoto, presenta buone condizioni generali e non ha turbe di interesse psichiatrico". Residuano, peraltro, postumi permanenti che, in considerazione del riscontrato deficit complessivo della funzionalità dell’arto superiore sinistro e delle ovvie ripercussioni psichiche di tale condizione, comportano una invalidità permanente del 20% (oltre ad invalidità totale di giorni 90 e ad invalidità parziale di giorni 60). Ciò posto il giudicante osserva quanto segue. Le prove orali dedotte dagli attori al fine di dimostrare le conseguenze negative sulla qualità di vita di X. appaiono superflue alla luce di quanto direttamente accertato dal dr. Gualandri nel corso della visita medico legale. Non può essere, del resto, riconosciuta una autonoma voce (di danno esistenziale) ove, come nella specie, l’evento dannoso abbia inciso sulla integrità psico-fisica del soggetto leso con conseguente diritto al risarcimento del danno biologico e di quello morale. Nel primo, inteso come danno biologico in senso lato o dinamico, vengono infatti ricompresi tutti i riflessi negativi che la lesione dell’integrità psicofisica normalmente comporta sul piano della esistenza della persona, inducendo un peggioramento della complessiva qualità della vita. Nel secondo vengono inglobati, oltre al transeunte turbamento dell’animo determinato dal fatto illecito, anche gli ulteriori riflessi pregiudizievoli (rinunce e sofferenze cagionate da quest’ultime) che normalmente conseguono per tutta la durata della vita a seguito della menomazione della integrità psico-fisica. Risulta pertanto evidente che il riconoscimento del danno esistenziale quale dedotto da parte attrice (impossibilità di praticare taluni sports e le sofferenze connesse alla rinuncia a tali attività nonché una situazione generale di disagio nelle relazioni interpersonali) comporterebbe il risarcimento di un pregiudizio già oggetto di tutela sotto il profilo del danno biologico e di quello morale soggettivo. Conforta tale assunto il fatto che il danno esistenziale è stato riconosciuto dai vari giudici di merito e dalla Corte di Legittimità (cfr., in particolare, Cass. 7 giugno 2000, n. 7713 ) in fattispecie del tutto diverse da quella di causa e, segnatamente, allorché la condotta illecita non aveva comportato una lesione della integrità psico-fisica ( in tema, ad esempio, di lesione alla riservatezza e alla reputazione commerciale, di privazione del rapporto parentale, di sottoposizione ad immissioni acustiche non integranti, però, l’insorgenza di una malattia, di vacanza rovinata ecc. ecc) . Né vale il richiamo al noto arresto della Corte di Cassazione la quale, affermando da un lato la necessità di risarcire "i pregiudizi diversi ed ulteriori" ed evidenziando, dall’altro, l’inopportunità di ritagliare all’interno della nozione di danno non patrimoniale inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona "specifiche figure di danno, etichettandole in varie modo", sembra aver ripudiato il danno esistenziale quale autonoma categoria di danno (cfr. Cass. 31 maggio 2003, n. 8828 e n. 8827). Ciò posto, si rileva che nella valutazione del grado di invalidità il CTU ha tenuto espressamente conto sia delle limitazioni funzionali dell’arto sia delle ripercussioni psichiche. In considerazione di quanto sopra e del fatto che la paresi del plesso brachiale è coeva alla nascita di X. non sussistono gli estremi per una "personalizzazione" del danno mediante il riconoscimento di un grado di permanente superiore a quello determinata all’esito della CTU medico legale. Orbene, in applicazione delle tabella redatta per l’anno 2005 dal Tribunale di Milano, deve essere riconosciuta la somma di Euro 53.837,00 a titolo di danno biologico permanente. Il danno biologico temporaneo ammonta a complessivi Euro 4.800,00 sulla base di una indennità giornaliera pari ad Euro 40,00. Tenuto conto delle sofferenze patite dal minore anche a seguito dei due interventi chirurgici cui si è dovuto sottoporre per migliorare la funzionalità dell’arto si stima equo liquidare, a titolo di danno morale, la somma di Euro 29.318,50 , pari alla metà del danno biologico complessivo. Sono inoltre dovute le spese per le cure e le terapie e l’intervento chirurgico effettuato nell’anno 2000 presso una clinica di Vienna le quali, detratto quanto erogato dal Servizio Sanitario Nazionale per l’assistenza all’estero in forma indiretta, ammontano a complessivi Euro 6.500,00 (cfr. la documentazione da 34 a 40). Quanto alle voci di danno rivendicate in proprio, la B.B. deduce di aver dovuto cessare l’attività di operaia per assistere X. negli interventi chirurgici subiti e nella conseguente attività di riabilitazione e pretende un risarcimento del danno pari alle retribuzioni che avrebbe percepito sino all’avvenuto pensionamento. Osserva al riguardo al giudicante che le condizioni di salute del minore non erano di gravità tale da richiedere una assistenza continuativa e che la B.B. avrebbe potuto occuparsi dell’attività riabilitativa in orari diversi da quelli di lavoro e fruire dei vari congedi spettanti al lavoratore per accompagnare il figlio alle visite mediche e agli interventi chirurgici. Non vi è quindi un nesso causale fra l’evento dannoso e la cessazione dell’attività lavorativa -che appare, invero, frutto di una libera scelta della B.B.- e la relativa richiesta di risarcimento deve essere rigettata. Quanto poi al danno morale rivendicato da entrambi gli attori, occorre premettere che la Corte di Legittimità, innovando al precedente orientamento, ha affermato il principio che i prossimi congiunti del soggetto vittima di lesioni colpose hanno diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. Tale nuovo orientamento muove dalla ricomprensione del danno morale in questione nel danno non patrimoniale riflesso e considera, anche sulla scorta della giurisprudenza di legittimità formatasi in sede penale a proposito della legittimazione alla costituzione di parte civile, che è legittimato a richiedere i danni morali anche colui che non è il soggetto passivo del reato. La spettanza in concreto del diritto in questioni ai prossimi congiunti deve essere poi risolta "come per il danno patrimoniale o biologico riflesso degli stessi, non solo sulla base di una rigorosa prova dell'esistenza di questo danno, evitando il rifugiarsi dietro il notorio, ma anche alla stregua di un corretto accertamento del nesso di causalità, da intendersi come causalità adeguata o regolarità causale". (cfr. Cass. 23 aprile 1998, n. 4186; 19 maggio 1999, n. 4852 e 1° dicembre 1999 n. 13358). Orbene, è indubitabile che le gravi lesioni subite da X. al momento del parto abbiano arrecato sofferenza ai genitori (con particolare riguardo alla prospettiva di veder crescere un figlio affetto da una grave menomazione) così come è indubitabile che i postumi (pari al 20% di invalidità) turbino la loro attuale serenità facendo rivivere i momenti di ansia, tensione e sconforto successivi alla nascita nonché gli analoghi momenti che hanno preceduto le due operazioni chirurgiche (effettuate in anestesia generale) cui il minore è stato sottoposto. Sussistono pertanto gli estremi per il riconoscimento del danno morale che va ovviamente liquidato in misura minore rispetto a quello riconosciuto in capo al soggetto leso. Si stima pertanto equo attribuire a ciascuno dei genitori la somma di Euro 18.000,00, già comprensiva degli accessori maturati alla data odierna. La somma di spettanza del minore, pari a complessivi Euro 94.455,50 in moneta attuale, deve essere devalutata al momento del sinistro ( Euro 77.122,00) per poter conteggiare gli interessi legali via via rivalutati su base mensile per un ammontare di Euro 31.688,00. Ne discende che l’azienda convenuta deve essere condannata a pagare agli attori, in qualità di genitori esercenti la potestà sul minore, la complessiva somma di Euro 126.143,50 ( Euro 94.455,50 + Euro 31.688,00 ) nonché a ciascuno di essi la somma di Euro 18.000,00. Le spese seguono la soccombenza con l’effetto che l’azienda ospedaliera deve essere condannata a pagare le spese sostenute dagli attori (ivi comprese quelle di CTU e di CTP) e costoro debbono essere a loro volta condannati a pagare le spese sostenute dal convenuto YY che vengono liquidate come da dispositivo. documento tratto da GIURAEMILIA.IT (per gentile concessione)