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Tribunale di Reggio Emilia, 13 giugno 2006 - G.U. dott. Stefano Scati
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 26 ed il 29 marzo 2001 A.A. e B.B. convenivano in giudizio
l’Azienda Ospedaliera- Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia e il dr. YY attribuendo
loro profili di responsabilità in relazione alla nascita del figlio X il quale, a seguito del parto
verificatosi alle ore 19,25 del 2 aprile 1996, aveva riportato la paresi del plesso brachiale sinistro
conseguente ad una distocia di spalla.
A sostegno della domanda deducevano che le difficoltà di progressione del travaglio avrebbero
dovuto denotare l’insorgenza della complicanza, che tale circostanza avrebbe dovuto indurre
all’effettuazione del taglio cesareo e che il dr. YY aveva, per contro, indotto il parto naturale.
Sulla scorta di tali premesse gli attori, agendo in proprio e nella qualità di genitori esercenti la
potestà sul minore, chiedevano la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti.
I convenuti, con separate comparse sottoscritte dal medesimo procuratore, chiedevano il rigetto
della domanda evidenziando, fra l’altro, che gli attori non avevano contestato né al dr. YY né
agli altri sanitari specifici profili di responsabilità. Il YY deduceva inoltre di essersi limitato a
prescrivere alle ore 10,30 del 2 aprile dei farmaci antispastici e di non essere stato più in servizio
al momento del parto.
La causa veniva istruita mediante produzioni documentali, l’effettuazione di CTU medico legale
e l’audizione a chiarimenti del CTU per essere poi decisa sulle conclusioni formulate dai
procuratori delle parti all’udienza del 2 marzo 2006.
Motivi della decisione
B.B. venne ricoverata alla ore 22 del 31 marzo 1996 presso il reparto di ostetricia del locale
nosocomio alla quarantesima settimana di gestazione ed il giorno successivo venne sottoposta
agli esami del caso. Alle ore 10, 30 del 2 aprile il dr. YY somministrò una dose di Syntocinon al
fine di stimolare le contrazioni uterine; alle ore 18 si verificò la dilatazione completa; alle ore
19,25 la B.B. partorì con l’assistenza del ginecologo dr. L.S. e dell’ostetrica A.C.; nacque un
bambino del peso di 3980 grammi il quale riportò la paralisi del plesso brachiale sinistro
conseguente alla complicanza denominata distocia di spalla.
Gli attori addebitano ai sanitari dell’azienda ospedaliera di non aver proceduto al taglio cesareo
pur in presenza di fattori di rischio per un parto naturale fra i quali il diabete della gestante e la
lunghezza del travaglio; contestano in particolare al convenuto YY di aver indotto (rectius:
pilotato) il parto mediante la somministrazione del farmaco Syntocinon quando poteva già essere
diagnosticata la distocia di spalla; rilevano che la cartella clinica non contiene alcuna indicazione
della condotta tenuta dai sanitari per risolvere la complicanza e lamentano l’incongruità della
manovra ostetrica effettuata al momento del parto.
Il CTU prof. Valerio Maria Jasonni, ordinario di ginecologia ed Ostetricia presso l’università di
Modena e Reggio Emilia, ha rilevato che la gestante aveva avuto un normale decorso della
gravidanza con diabete chimico ben compensato; che al momento dell’ingresso in ospedale il
peso fetale era stato stimato superiore al 90° percentile ma senza le caratteristiche della
macrosomia; che il peso rilevato al momento della nascita (grammi 3980) aveva confermato tale
diagnosi in quanto in letteratura viene definito macrosoma il feto di peso oltre i 4000 grammi e,
segnatamente, quello di peso superiore ai 4500 grammi; che il travaglio si è svolto regolarmente
con la dovuta assistenza; che il tempo di somministrazione del farmaco per favorire le
contrazioni uterine fu corretto come comprovato dalla rapida dilatazione del collo uterino e dalla
normale durata del periodo espulsivo, inferiore alle due ore; che dalla ordinaria durata del
periodo espulsivo si può desumere che la partoriente aveva un bacino di larghezza adeguata.
In presenza di un benessere fetale accertato, di un normale decorso della gravidanza, di un
diabete chimico ben controllato, di esami ecografici che non denotavano la macrosomia del feto
e di un travaglio svoltosi regolarmente non vi era quindi, ad avviso del CTU, alcuna ragione per
ricorrere alla tecnica operatoria del taglio cesareo; tanto più che l’adozione di tale tecnica
comporta un rischio di mortalità materna di sette-cinque volte superiore a quello del parto
naturale.
Tanto premesso in punto di fatto, occorre in diritto osservare che la Corte di Cassazione, a mezzo
della recente sentenza n. 10297 del 28 maggio 2004 , ha sottoposto a revisione l’orientamento
giurisprudenziale maturato in tema di responsabilità del medico e dell’ente ospedaliero - con
particolare riguardo alla distribuzione dell’onere della prova a seconda della natura routinaria o
meno della prestazione sanitaria - alla luce del principio enunciato in termini generali dalle
Sezioni Unite, con la sentenza 30 ottobre 2001 n. 13533, in tema di onere della prova
dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.
Come è noto, le Sezioni Unite hanno enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce
per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare
la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della
circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato
dell'onere della prova del fatto estintivo costituito dall’avvenuto adempimento. Ed analogo
principio è stato affermato con riguardo all'inesatto adempimento, mediante il rilievo che al
creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per
violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza
dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora
una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento.
L’applicazione di tale principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale
comporta - secondo quanto affermato dalla Corte nella già menzionata sentenza n. 10297/2004 che il paziente il quale deduce l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il
contratto e allegare l'inadempimento del sanitario mentre resta a carico del debitore l’onere di
provare l’esatto adempimento.
Il paziente deve provare, in particolare, l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione
patologica o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento restando a carico del
sanitario o dell'ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale è stata eseguita in modo
diligente e che quegli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto e
imprevedibile.
La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di
problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più, contrariamente a quanto
affermato nelle precedenti pronunce di legittimità, quale criterio di distribuzione dell'onere della
prova, ma deve essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente
grado di colpa; resta comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di
particolare difficoltà.
Del resto, osserva la Corte, "porre a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova
dell'esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno a quella linea evolutiva della
giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza
della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di
offrirla. Infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non
consiste nell'inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente
esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l'oggetto è l'attività, l'inadempimento
coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio
che la prova sia "vicina" a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di
obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche
che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto"
Ciò posto il giudicante osserva quanto segue.
Il primo profilo di responsabilità contestato dagli attori si è rilevato infondato all’esito degli
accertamenti effettuati dal CTU prof. Iasonni dai quali è risultato, come si è già detto più
diffusamente nelle pagine precedenti, che non sussistevano fattori di rischio per un parto naturale
e, in altri termini, che non vi erano ragioni per procedere al parto mediante la tecnica operatoria
del taglio cesareo.
Il che comporta il rigetto della domanda proposta nei confronti del convenuto M. il quale
andrebbe ad ogni modo esente da ogni responsabilità in considerazione del ruolo ricoperto
durante il travaglio della B.B.. Premesso che il dr. YY si è limitato a prescrivere alle ore 10,30
del 2 aprile una dose di Syntoncinon al fine di favorire le contrazioni uterine, è sufficiente
osservare che la somministrazione di tale farmaco non impediva certo ai vari sanitari che
monitorarono il travaglio sino al momento del parto avvenuto alle ore 19,25 di effettuare il taglio
cesareo ove ne avessero ritenuto l’opportunità.
Né rileva che il dr. YY, il quale terminò il proprio turno lavorativo alle ore 16,45, abbia
sottoscritto la cartella clinica non potendo tale sottoscrizione essere intesa come assunzione di
responsabilità di tutto quanto avvenuto durante il ricovero della B.B..
Quanto al secondo profilo di responsabilità, occorre premettere che nelle conclusioni formulate
nell’atto introduttivo gli attori hanno espressamente chiesto di accertare che "a seguito di
manovre incongrue effettuate all’atto del parto della veniva procurato al nascituro X. un trauma
da stiramento sull’arto superiore sinistro con conseguente paralisi del plesso brachiale" (cfr. il
punto n. 3 dell’epigrafe).
Gli attori, a mezzo delle osservazioni critiche redatte dal loro consulente dr. Bonfiglio Gambarini
alla relazione di CTU, hanno poi lamentato che nella cartella clinica non erano state descritte le
manovre poste in essere, dai sanitari, per risolvere la complicanza, le quali, ove errate, potevano
di per se stesse essere la causa del danno neurologico. E su tale questione e sul correlato
problema relativo alla mancata effettuazione della episiotomia è stato sentito il CTU nel
contraddittorio con i consulenti delle parti (cfr. il verbale della udienza del 10 febbraio 2004).
Il profilo di colpa relativo alla mancata o errata esecuzione delle manovre per risolvere la
complicanza è stato pertanto introdotto in nuce sin dall’inizio della causa per essere poi
sviluppato nel prosieguo del giudizio in contraddittorio fra le parti; il che consente di superare i
rilievi formulati dai convenuti nella memoria di replica.
Sgombrato il campo da tale questione, occorre dire che - come si evince dalle premesse di
carattere generale contenute nella relazione di CTU - il trattamento elettivo della distocia di
spalla presuppone l’esecuzione della episiotomia (id est: l’ampliamento chirurgico dell’anello
vulvare), la determinazione dell’orientamento del diametro bisacromiale rispetto al bacino e la
rotazione del diametro bisacromiale secondo uno dei diametri obliqui del bacino con pressione
sulla parte posteriore della spalla posteriore e pressione sulla parte anteriore della spalla
anteriore. Se tale manovra fallisce può essere impiegata la tecnica di McRoberts e, cioè, una forte
flessione delle cosce materne verso l’addome in modo da portare la spalla anteriore sotto la
sinfisi pubica. In caso di fallimento di tale manovra si può provare a far scendere lungo il
promontorio la spalla posteriore facendo trazione sull’ascella fetale (manovra di Jacquemier). Se
si determina la discesa della spalla posteriore lungo il promontorio senza però ottenere il
disimpegno della spalla anteriore si può ricorrere alla manovra di Varnier: rotazione di 180°
gradi del diametro bisacromiale in modo da portare, analogamente alla prima manovra descritta,
la spalla posteriore sotto la sinfisi pubica. Si possono infine tentare la (non facile) frattura
intenzionale della clavicola fetale ovvero la manovra di Wood: rotazione di 180° del diametro
bisacromiale in modo da portare la spalla posteriore in anteriore impegnandola sotto il pube.
Ciò posto il giudicante osserva quanto segue.
La paresi del plesso brachiale è stata cagionata dalle manovre ostetriche compiute per estrarre il
feto dall’alveo materno sì che, contrariamente a quanto sostenuto dai convenuti nella memoria di
replica, sussiste il nesso causale fra la condotta dei sanitari e l’evento dannoso. Né appare
pertinente il precedente di legittimità (Cass. 11 novembre 2005, n. 22894) menzionato dai
convenuti in detta memoria in quanto relativo da una fattispecie del tutto diversa da quella di
causa: si discuteva, infatti, della sussistenza del nesso eziologico fra una condotta colpevolmente
omissiva ravvisata in capo alla struttura ospedaliera (l’aver trasferito con un ritardo di 24 ore nel
reparto pediatrico un neonato che aveva manifestato sofferenza per cianosi) e l’insorgenza di una
patologia cerebrale (meningite manifestatasi dopo due mesi dalla nascita).
Sgombrato il campo da tale questione, occorre dire che l’azienda ospedaliera, in ossequio al
principio posto dalla Corte di Cassazione con la citata sentenza n. 10297 del 2004 (resa proprio
nell’ambito di un giudizio per danno iatrogeno da distocia di spalla), avrebbe dovuto dimostrare
di aver esattamente adempiuto alla propria obbligazione e che il danno lamentato dagli attori era
stato determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile.
L’azienda ospedaliera avrebbe dovuto quindi dimostrare, in prima battuta, quale condotta hanno
tenuto i propri dipendenti (l’ostetrica A.C. ed il ginecologo dr. L.S.) per fronteggiare la
complicanza e, segnatamente, quali manovre costoro hanno eseguito al fine di ottenere il
disimpegno delle spalle del feto; in seconda battuta che la paresi brachiale si sarebbe egualmente
verificata nonostante il compimento di adeguate manovre ostetriche.
Orbene, la cartella clinica non contiene alcuna annotazione e tale circostanza si risolve in un
difetto di prova sulla idoneità (astratta) della condotta tenuta dai sanitari a risolvere la
complicanza oltre ad essere, di per se stessa, indice di un comportamento assistenziale negligente
ed imperito. Né l’azienda ospedaliera ha provato o chiesto di provare in altro modo - e cioè, a
mezzo di testimoni- il tipo di manovre effettuate dai propri sanitari durante il parto.
Manca quindi la prova (e la mancata annotazione in cartella costituisce, anzi, indizio in senso
negativo) dell’esecuzione della episiotomia che costituisce fondamentale approccio al
trattamento della distocia della spalla nel senso che non è possibile effettuare le manovre
ostetriche sopra descritte se prima non si è operato un taglio a livello della forchetta vaginale sì
da ampliare l’anello vulvare. Né rileva che l’utilizzo di tale metodica avrebbe potuto comportare
rischi sia per la madre che per il bambino (come affermato dal CTU in sede di chiarimenti) sia
perché la episiotomia è uno degli interventi più frequentemente utilizzati durante il parto
vaginale come mezzo di prevenzione di lacerazioni maggiori e di danni al neonato sia perché
trattatasi di scelta elettiva - se non obbligata - in presenza del fenomeno di distocia di spalla.
Manca inoltre la prova del tipo di manovre compiute dai sanitari per estrarre il neonato e tale
omissione non può essere superata mediante il richiamo al compimento di non meglio definite
"manovre manuali di espulsione" (cfr. quanto dichiarato dal CTU in sede di chiarimenti). Ed
invero, come si evince dai contributi scientifici riportati nella parte generale della relazione
peritale, non tutte le manovre sono adatte al singolo caso sì che occorreva accertare il tipo di
manovra eseguita per poi valutarne la sua correttezza. E tale considerazione costituisce lo spunto
per osservare che la valutazione del grado di diligenza degli assistenti al parto - eventualmente
anche a mezzo del parametro di cui all’art. 2236 c.c. - non può prescindere dalla dimostrazione
delle modalità con le quali è stata eseguita la prestazione sanitaria. Il trattamento della distocia di
spalla comporta infatti un danno al neonato limitato al 39% dei casi - con un danno neurologico
ristretto al 10% dei casi- sì che occorre necessariamente aver riguardo ai mezzi e ai metodi
utilizzati dal sanitario per verificare se l’esito negativo è ascrivibile all’uso di una diligenza
inadeguata ovvero a fattori non attribuibili al prestatore d’opera
A conclusione di quanto sin ora detto deve quindi ribadirsi che parte convenuta, in applicazione
del criterio di "vicinanza" della prova, avrebbe dovuto dimostrare in primo luogo che erano state
praticate manovre ostetriche adeguate al caso concreto e, in secondo luogo, che la paralisi
dell’arto superiore del neonato era stata determinata da un evento imprevisto ed imprevedibile.
E poiché, come si è visto, non è stato soddisfatto (neppure) il primo tema probatorio, deve essere
affermata la responsabilità della azienda ospedaliera di Reggio Emilia per i danni riportati da
(omissis) X. nel corso del parto.
Venendo ora alla tematica del quantum debeatur, occorre dire che il medico legale dr. Giorgio
Gualandri, nominato ausiliare del CTU prof. Iasonni, ha dato atto che X. "frequenta la scuola
elementare, ha amici, una vita socio-relazionale che i genitori definiscono regolare, fa nuoto,
presenta buone condizioni generali e non ha turbe di interesse psichiatrico". Residuano,
peraltro, postumi permanenti che, in considerazione del riscontrato deficit complessivo della
funzionalità dell’arto superiore sinistro e delle ovvie ripercussioni psichiche di tale condizione,
comportano una invalidità permanente del 20% (oltre ad invalidità totale di giorni 90 e ad
invalidità parziale di giorni 60).
Ciò posto il giudicante osserva quanto segue.
Le prove orali dedotte dagli attori al fine di dimostrare le conseguenze negative sulla qualità di
vita di X. appaiono superflue alla luce di quanto direttamente accertato dal dr. Gualandri nel
corso della visita medico legale.
Non può essere, del resto, riconosciuta una autonoma voce (di danno esistenziale) ove, come
nella specie, l’evento dannoso abbia inciso sulla integrità psico-fisica del soggetto leso con
conseguente diritto al risarcimento del danno biologico e di quello morale.
Nel primo, inteso come danno biologico in senso lato o dinamico, vengono infatti ricompresi
tutti i riflessi negativi che la lesione dell’integrità psicofisica normalmente comporta sul piano
della esistenza della persona, inducendo un peggioramento della complessiva qualità della vita.
Nel secondo vengono inglobati, oltre al transeunte turbamento dell’animo determinato dal fatto
illecito, anche gli ulteriori riflessi pregiudizievoli (rinunce e sofferenze cagionate da
quest’ultime) che normalmente conseguono per tutta la durata della vita a seguito della
menomazione della integrità psico-fisica.
Risulta pertanto evidente che il riconoscimento del danno esistenziale quale dedotto da parte
attrice (impossibilità di praticare taluni sports e le sofferenze connesse alla rinuncia a tali attività
nonché una situazione generale di disagio nelle relazioni interpersonali) comporterebbe il
risarcimento di un pregiudizio già oggetto di tutela sotto il profilo del danno biologico e di quello
morale soggettivo.
Conforta tale assunto il fatto che il danno esistenziale è stato riconosciuto dai vari giudici di
merito e dalla Corte di Legittimità (cfr., in particolare, Cass. 7 giugno 2000, n. 7713 ) in
fattispecie del tutto diverse da quella di causa e, segnatamente, allorché la condotta illecita non
aveva comportato una lesione della integrità psico-fisica ( in tema, ad esempio, di lesione alla
riservatezza e alla reputazione commerciale, di privazione del rapporto parentale, di
sottoposizione ad immissioni acustiche non integranti, però, l’insorgenza di una malattia, di
vacanza rovinata ecc. ecc) .
Né vale il richiamo al noto arresto della Corte di Cassazione la quale, affermando da un lato la
necessità di risarcire "i pregiudizi diversi ed ulteriori" ed evidenziando, dall’altro,
l’inopportunità di ritagliare all’interno della nozione di danno non patrimoniale inteso come
danno da lesione di valori inerenti alla persona "specifiche figure di danno, etichettandole in
varie modo", sembra aver ripudiato il danno esistenziale quale autonoma categoria di danno (cfr.
Cass. 31 maggio 2003, n. 8828 e n. 8827).
Ciò posto, si rileva che nella valutazione del grado di invalidità il CTU ha tenuto espressamente
conto sia delle limitazioni funzionali dell’arto sia delle ripercussioni psichiche. In considerazione
di quanto sopra e del fatto che la paresi del plesso brachiale è coeva alla nascita di X. non
sussistono gli estremi per una "personalizzazione" del danno mediante il riconoscimento di un
grado di permanente superiore a quello determinata all’esito della CTU medico legale.
Orbene, in applicazione delle tabella redatta per l’anno 2005 dal Tribunale di Milano, deve
essere riconosciuta la somma di Euro 53.837,00 a titolo di danno biologico permanente.
Il danno biologico temporaneo ammonta a complessivi Euro 4.800,00 sulla base di una indennità
giornaliera pari ad Euro 40,00.
Tenuto conto delle sofferenze patite dal minore anche a seguito dei due interventi chirurgici cui
si è dovuto sottoporre per migliorare la funzionalità dell’arto si stima equo liquidare, a titolo di
danno morale, la somma di Euro 29.318,50 , pari alla metà del danno biologico complessivo.
Sono inoltre dovute le spese per le cure e le terapie e l’intervento chirurgico effettuato nell’anno
2000 presso una clinica di Vienna le quali, detratto quanto erogato dal Servizio Sanitario
Nazionale per l’assistenza all’estero in forma indiretta, ammontano a complessivi Euro 6.500,00
(cfr. la documentazione da 34 a 40).
Quanto alle voci di danno rivendicate in proprio, la B.B. deduce di aver dovuto cessare l’attività
di operaia per assistere X. negli interventi chirurgici subiti e nella conseguente attività di
riabilitazione e pretende un risarcimento del danno pari alle retribuzioni che avrebbe percepito
sino all’avvenuto pensionamento. Osserva al riguardo al giudicante che le condizioni di salute
del minore non erano di gravità tale da richiedere una assistenza continuativa e che la B.B.
avrebbe potuto occuparsi dell’attività riabilitativa in orari diversi da quelli di lavoro e fruire dei
vari congedi spettanti al lavoratore per accompagnare il figlio alle visite mediche e agli interventi
chirurgici. Non vi è quindi un nesso causale fra l’evento dannoso e la cessazione dell’attività
lavorativa -che appare, invero, frutto di una libera scelta della B.B.- e la relativa richiesta di
risarcimento deve essere rigettata.
Quanto poi al danno morale rivendicato da entrambi gli attori, occorre premettere che la Corte di
Legittimità, innovando al precedente orientamento, ha affermato il principio che i prossimi
congiunti del soggetto vittima di lesioni colpose hanno diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale. Tale nuovo orientamento muove dalla ricomprensione del danno morale in
questione nel danno non patrimoniale riflesso e considera, anche sulla scorta della
giurisprudenza di legittimità formatasi in sede penale a proposito della legittimazione alla
costituzione di parte civile, che è legittimato a richiedere i danni morali anche colui che non è il
soggetto passivo del reato. La spettanza in concreto del diritto in questioni ai prossimi congiunti
deve essere poi risolta "come per il danno patrimoniale o biologico riflesso degli stessi, non solo
sulla base di una rigorosa prova dell'esistenza di questo danno, evitando il rifugiarsi dietro il
notorio, ma anche alla stregua di un corretto accertamento del nesso di causalità, da intendersi
come causalità adeguata o regolarità causale". (cfr. Cass. 23 aprile 1998, n. 4186; 19 maggio
1999, n. 4852 e 1° dicembre 1999 n. 13358).
Orbene, è indubitabile che le gravi lesioni subite da X. al momento del parto abbiano arrecato
sofferenza ai genitori (con particolare riguardo alla prospettiva di veder crescere un figlio affetto
da una grave menomazione) così come è indubitabile che i postumi (pari al 20% di invalidità)
turbino la loro attuale serenità facendo rivivere i momenti di ansia, tensione e sconforto
successivi alla nascita nonché gli analoghi momenti che hanno preceduto le due operazioni
chirurgiche (effettuate in anestesia generale) cui il minore è stato sottoposto.
Sussistono pertanto gli estremi per il riconoscimento del danno morale che va ovviamente
liquidato in misura minore rispetto a quello riconosciuto in capo al soggetto leso. Si stima
pertanto equo attribuire a ciascuno dei genitori la somma di Euro 18.000,00, già comprensiva
degli accessori maturati alla data odierna.
La somma di spettanza del minore, pari a complessivi Euro 94.455,50 in moneta attuale, deve
essere devalutata al momento del sinistro ( Euro 77.122,00) per poter conteggiare gli interessi
legali via via rivalutati su base mensile per un ammontare di Euro 31.688,00.
Ne discende che l’azienda convenuta deve essere condannata a pagare agli attori, in qualità di
genitori esercenti la potestà sul minore, la complessiva somma di Euro 126.143,50 ( Euro
94.455,50 + Euro 31.688,00 ) nonché a ciascuno di essi la somma di Euro 18.000,00.
Le spese seguono la soccombenza con l’effetto che l’azienda ospedaliera deve essere condannata
a pagare le spese sostenute dagli attori (ivi comprese quelle di CTU e di CTP) e costoro debbono
essere a loro volta condannati a pagare le spese sostenute dal convenuto YY che vengono
liquidate come da dispositivo.
documento tratto da GIURAEMILIA.IT (per gentile concessione)