INTERNO CON FIGURE E PAESAGGIO Una promenade nell’arte contemporanea fra natura e cultura di Leo Guerra Per tutti quelli che percorrono la pista convessa della tangenziale est di Milano, il Quartiere Feltre non è altro che una “zona rossa”, compresa fra lo svincolo di Lambrate e l’uscita per l’aeroporto. Rossa perché popolare; rossa perché fatta di mattoni a contrastare il grigiore tutto milanese di ciò che resta degli stabilimenti Innocenti e dei palazzi costruiti a ridosso negli ultimi anni. Per gli architetti del Politecnico – con residenza stile Liberty e lampada “Arco” sul tavolo da disegno –, Quartiere Feltre è un Progetto Insediativo Sperimentale degli anni ’50, tutto mattoni rossi attraversati da sottili linee bianche, filanti verso un futuro luminoso e progressivo, capace di restituire alla comunità operaia l’identità perduta nell’alienazione del lavoro in fabbrica. Per chi ama lo sport, è la sede del Tennis Club Ambrosiano, società sportiva dall’aspetto esclusivo opportunamente separata da quell’oscuro polmone verde che è il Parco Lambro, area metropolitana negletta per il convergere di memorie storiche famigerate, quali: paradiso dello spaccio di droga, status di “fiume più inquinato d’Europa” – per il rigagnolo che lo attraversa e ne fornisce il nome –, location del Festival Proletario Giovanile del 1975 con tutti nudi nelle foto d’epoca, pugni alzati, bandiere, rock duro e tutto il resto. Visto dall’interno del nuovo centro direzionale del gruppo Credito Valtellinese – d’ora in avanti Creval Headquarters – il quartiere si trasforma immediatamente in paesaggio; nella sua accezione più nobile e distesa, con ampi – e forse ovvi – richiami alla pittura di Giorgione e all’ineffabile classicità delle prospettive palladiane: un paesaggio ricomposto per frammenti e articolato, all’interno, da inquadrature selezionate dell’ambiente circostante. Il grande foyer a quadrupla altezza, infatti, altro non è che una scatola ottica, la cui spazialità ascendente – scansita dalla rampa elicoidale che conduce ai piani alti – vive di continui scambi con l’esterno, di attraversamenti fra la natura del parco e le sistemazioni del giardino, fra la piazza pedonale e i brani di città che circondano l’edificio. Anche la “lama” perentoria, che, all’estremità opposta, fa convergere le fronti principali dell’edificio sul filo di un’immaginaria prora nautica lanciata verso oriente, funziona da grande elemento di ripartizione del paesaggio, separando, di fatto, il parco urbano dai grandi fabbricati del quartiere e istituendo un’interessante contrapposizione dialettica fra i volumi che lo costituiscono: quello cavo dell’interno e quello affilato e rettilineo dell’esterno. In tale dialettica, arricchita da un sapiente montaggio di frammenti – quelli della memoria, ravvisabili nell’utilizzo di rivestimenti in laterizio che rimandano alla struttura materica dell’attiguo quartiere sperimentale, e quelli dell’architettura, esplicitamente riferita alle tramature epidermiche di Renzo Piano e Mario Botta, come alle modulazioni volumetriche di Wiel Arets e Werner Tscholl – trova spazio un’affascinante promenade artistica fatta di opere disposte in aperto dialogo, o al contrario in aperta opposizione, con gli spazi dell’edificio. Questa promenade, questo “viaggio attraverso” la natura traguardata del paesaggio e quella “materiata” nell’architettura, si arricchisce così di situazioni, installazioni, gesti inattesi e visioni ambigue in grado di illustrare certo il tempo del lavoro – le giornate di chi vive nell’Headquarters – senza rinunciare ad offrire anche al visitatore meno accorto un insolito spunto all’esperienza del luogo. Il grande lampadario orbitale sospeso nel foyer del Centro Servizi Creval di via Feltre. Un esempio su tutti: l’imponente lampadario sospeso nel vuoto del foyer è un gomitolo di anelli luminosi, orbitali e disassati, che solo possiede l’autorità di contraddire l’algida scansione curvilinea delle rampe su cui si “avvita” l’intera spazialità dell’ambiente di maggior rappresentanza dell’edificio. È un pezzo di design, che rimanda alle ricerche neo-optical e analitiche di Olafur Eliasson e, più indietro, a Lucio Fontana e agli esperimenti sullo “Spazio Continuo” degli anni ’50. Si chiama “Tourbillon” e costa molto meno di un Fontana, ma la sua aura, la dissonanza che istituisce all’interno dell’ambiente, agisce da rafforzativo immediato per la comprensione del funzionamento logico del centro direzionale. Un po’ come una stella polare a luce artificiale. O una bussola molto architettonica e molto dolce, gestuale e morbida. Abbassando lo sguardo, dove origina l’infilata minimalista di spazi dentro altri spazi – una teoria di piccoli uffici e ambienti riservati, contenuti in un involucro vetro e acciaio a doppia altezza – e dove la nuova extension si raccorda funzionalmente con la sede preesistente, il visitatore è attratto dall’episodio intimo di una danzatrice “morena” colta nell’istante di una torsione, congelata nella raffinata plasticità vitrea della terracotta. Un’opera dello scultore “pardo” Daniel Maillet1, ebreo-svizzero trapiantato a Cuña (Brasile) e cantatore di abbagli e suggestioni sub tropicali: notti all’erta a inseguire le figure indecifrabili del Nôvo Continente e grande nostalgia delle Alpi. A metà del corridoio, dove un sistemista informatico cerca di far dialogare due macchine, – che non dialogheranno – per la gestione della sicurezza interna, lo sguardo rimbalza fra complicate articolazioni pittoriche su tela di Roberto Crippa, in un confronto fra astrazioni geometriche post-guerra e il pixel frame da deframmentazione elettronica che attraversa alcuni perentori schermi al plasma. Ma è nell’ala opposta che il gioco dei rimandi si fa davvero enigmatico, mostrando tutta l’ambiguità reticente che le forme, Roberto Crippa, “New York”, 1951. Olio su tela. 70x100 cm. quelle dell’architettura (ospitante) e quelle della pittura (ospitata), sono in grado di trasmettere, facendo esplodere sinonimi e contrari, simbologie metafisiche e certezze costruttive, metafore, anacoluti e metonimie proprie dei due linguaggi, ora leggibili come in un doppio testo. Si tratta di alcune prospettive berlinesi di Arduino Cantàfora, il maggior ritrattista di quella Neue Sachlichkeit, che fece delle città prussiane a cavallo delle avanguardie un baluardo cristallino per visioni architettoniche – e in seguito, ahinoi, anche sociali - di purezza assoluta e di supremazia culturale sul mondo conosciuto. Prospettive elegantemente rifinite queste, quasi cesellate a pennello punta zerosette, su tela di lino finissima, messe a confronto con il gesto plastico, polimaterico e sfaccettato di una “piramide” di Antonia Campi2, che, invece, ci parla con l’effetto babelico di una torre poliglotta, una “stupa” indiana solcata da lettere alfabetiche incise a caso nella terracotta, nella ceramica a gran fuoco, nel gesso effetto craquelè: sempre lo stesso da duemila anni. Dopo la Campi, dama novantaduenne della ceramica, con un passato di tutto rispetto alla Pozzi-Ginori a fare “cessi per l’arte e arte per i cessi” (l’antitesi è sua), la nostra promenade prende la strada dei piani alti e finalmente lo sguardo si innalza su vedute più luminose; si svela la geometria perfetta dei campi da tennis del Club Ambrosiano, le chiome dei bagolari si diradano verso la skyline delle Prealpi, si scopre cosa c’è dentro il palazzo sbrecciato che costeggia via Feltre, offrendo il suo malandato retro a chi mangia alla mensa, a chi manda una mail, a chi ha tolto le scarpe sotto la scrivania. Daniel Maillet, “Ninfa #3. Georgia on the Cuhion”, 2009. Terra a gran fuoco. 68x124x44 cm. Ed è di quassù che si ricompone la “geometria delle posizioni” prescritta alle sculture sistemate nella piazza esterna, geometricamente lastricata ed elveticamente pedonale: “Le Minotando” di Sebastián Matta3, una fusione in bronzo da lamine vegetali, legni e foglie secche di Guido Lodigiani e un volume compatto, sempre bronzeo e un po’ indecifrabile, di Mario Negri, che forse si trasferirà altrove. Ora, il lampadario-gomitolo del foyer si scorge dall’alto e sembra schiacciarsi sulla scena brulicante ed elettrica degli uomini Creval, che attraversano freneticamente la piazza interna, sbucando ora da ovest per sparire a sud, ora da est per imbucarsi a nord, dove sono le meeting rooms illustrate da Nuele Diliberto e da Ophra; rispettivamente un informale palermitano con studio a Manhattan e un’algerina Kabil con proprietà immobiliari fra Parigi e Lione. (L’arte si sa, ha i suoi nascondigli). Ha inizio alla quota del terzo piano, quello riservato agli uffici e alle sale di rappresentanza del top management, la massima espressione di ciò che lungo l’intera promenade accompagna il visitatore: la sottile sensazione di stare in un interno che è anche un po’ esterno, di portare con se un’esperienza vagamente naturale, quasi vegetale; certamente gradevole se si considera il fatto che l’intero edificio è in realtà un involucro ben sigillato, a temperatura e clima costanti, schermato da brise-soleil a protezione della luce solare e controllatissimo rispetto a possibili intrusioni di qualsiasi agente esterno. L’esperienza verde – potremmo chiamarla così – è prodotta certamente dalle vedute sul parco che, a questa quota, appaiono davvero maestose, ma è rafforzata anche in questo caso, dalla contrapposizione dialettica fra finiture architettoniche e temi pittorici a composizione dello spazio interno: Qui a lato, due delle opere d’arte che arricchiscono culturalmente il Centro Servizi Creval di via Feltre a Milano. A sinistra, Arduino Cantàfora con il quadro “E’ delirante sogno”, del 1987. Accanto, Sebastiàn Matta Echaurren, con la scultura bronzea “Le Minotando”, posizionata all’esterno dell’edificio, sul piazzale di ingresso. la tonalità dominante è il grigio tortora, che investe pareti, che inquadra porte e scorrevoli molto sottili e stupendamente filanti, che delinea modanature rarefatte e sofisticate, degne degli involucri minimalisti di Donald Judd o di Frank Stella. Il piano di calpestio non è un pavimento: è un settore orizzontale a campitura omogenea, giallo paglia composto a listoni in rovere spazzolato. Il suo gioco è un contrasto perfettamente complementare con tutto ciò che è verticale, inclusi gli infissi delle grandi vetrate e le trame vibranti ed elettriche dei frangisole appesi all’esterno. Ogni seduta, ogni area di incontro e discussione – che immaginiamo sussurrata e tranquillizzante – è delimitata dal catalogo del miglior design razionalista: dalle poltroncine di Breuer ai tavolini di Noguchi e ai divani di Josef Hoffmann. Un clima Wiener Secession si svolge senza fretta in un padiglione sospeso sopra il Parco Lambro e tutt’intorno si accendono superbi paesaggi acquatici, foliage autunnali fissati all’encausto da Frances Lansing4, racchiusi in cornici ebano venate verde chiaro. Quasi come se il muschio o uno stillicidio naturale li stia riportando alla loro dimensione originaria e arcaica, immota e surreale. Frances, l’autrice, è un’artista americana che da vent’anni vive nel “Bosco della Ragnaia”, un podere nelle Crete Senesi disseminato da piccole sculture mimeticamente inserite fra lecci, antichi bagolari e nervosi ailanti. Di questa “impressione di natura” è riuscita a investire anche i luoghi austeri dove si disegnano le strategie di un’azienda e il futuro di chi vi lavora e investe. Fuori, ora, calpestiamo le foglie. NOTE 1. Si tratta di “Ninfa #3. Georgia on the Cuhion” (2009), frutto di un’acquisizione ongoing exhibition del Credito Valtellinese, a beneficio dell’artista, finalizzata alla produzione della mostra “La Vaccara / Maillet” tenutasi a Sondrio alla galleria di Palazzo Sertoli nel 2012. Questa forma di mecenatismo si è profilata quale pratica frequente nell’ambito delle produzioni editoriali del Gruppo, a partire dal 1987, e rappresenta una delle azioni di maggior concretezza per il sostegno dei giovani artisti. 2. E’ una stele in ceramica montata su struttura di ferro intitolata “Totem” (2010). L’opera è stata realizzata dal duo ANTO’ (Antonia Campi e Antonella Ravagli) presso il Laboratorio del Mulino a Faenza, in occasione della rassegna “Geometrie impossibili” (Sondrio, Palazzo Sertoli e MVSA). 3. Oltre alla scultura di S. Matta Echaurren la Collezione Creval vanta altre notevoli opere riferibili al Surrealismo e alla Nuova Figurazione; fra gli autori principali in essa individuabili, citiamo: V. Brauner, M. Ernst, M. Oppenheim, D. Spoerri, S. Dangelo, N. Finotti. Il corpus proviene dalla raccolta personale dell’architetto tiranese Giovanni Quadrio Curzio, direttore artistico del Refettorio delle Stelline (1987-2010) e per anni collaboratore di Alexandre Iolas. Iolas è stato il principale mercante mondiale dei surrealisti. 4. La Lansing, assieme a R. Barni, R. Bueno, G. Gattuso Lo Monte e J. Ragusa, è associata alla fine degli anni ’80 al cosiddetto “Gruppo degli Etruschi” dal critico Philippe Daverio. Una selezione di dipinti degli autori citati, collocata al terzo piano di Creval Headquarters, è affiancata a opere di Dangelo, Balderi, Diliberto, Savinio, Mangù. Frances Lansing, “Paesaggio d’acqua”, 1991. Encausto su tavola. 130x145 cm.