I cristiani e la globalizzazione (Andrea Riccardi) La globalizzazione

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I cristiani e la globalizzazione
(Andrea Riccardi)
La globalizzazione è sulla bocca di tutti: nelle biblioteche si allineano testi su testi che ne
discutono. Difficile definirla, ma la nostra generazione ha un privilegio: l'ha incontrata
personalmente, perché, a un certo punto, è entrata nella vita di tutti. La prossima
generazione, nata globalizzata, non potrà avere vivida percezione della novità. La
globalizzazione è apparsa, tra un coro di evviva, come la realizzazione del lungo processo
della modernità. Ma è emersa oggi in modo chiaro la sua problematicità, ma soprattutto la
difficoltà ad abitarla. Quantomeno va abitata in modo nuovo. Sono caduti i confini di un
universo diviso, lungo frontiere chiare, tra l'impero d'Oriente e d'Occidente, mentre nel
Sud del mondo era apparso - secondo l'intuizione del demografo Alfred Sauvy nel 1952 il Terzo Mondo, area magmatica, attraversata dalle influenze dell'Est e dell'Ovest. I
confini sono un limite, ma anche proteggono e delimitano un orizzonte. Il pensiero del
futuro ha bisogno di un orizzonte: futuro e speranza per chi? Ci si è trovati in mare
aperto. Francis Fukuyama, per citare un autore noto, ha visto nella globalizzazione la
vittoria del mercato, che portava pace e libertà dovunque: insomma la fine della storia.
Che il mercato abbia vinto è indubbio; è indubbio che l'aspetto economico-finanziario
abbia acquisito un carattere prevalente. Ma l'ottimismo di una provvidenziale
globalizzazione è stato smentito duramente. Economicamente, come mai nella storia, il
mondo si è unificato. Anche come comunicazioni di ogni tipo, per cui è sempre più
difficile esercitare una dittatura totale su una parte del mondo. Il caso della Corea del
Nord, chiusa nelle sue frontiere, è raro.
In questo mondo globalizzato, l'uomo e la donna, i popoli, vivono la condizione che
Todorov indica come "spaesamento". Davvero mancano frontiere che delimitino lo
spazio e punti di orientamento. Zigmunt Bauman ha dedicato varie riflessioni alle
conseguenze della globalizzazione sulle persone. Provo a ricordarne rapidamente alcune:
la prevalenza della dimensione del consumatore sul cittadino, l'affievolimento della
dimensione nazionale, la crisi della rappresentanza politica, la crisi stessa della città, la
solitudine. Mancano sicuri punti di riferimento, anche se viviamo sugli stessi scenari e
sulle stesse terre di ieri (e tutti con gli stessi nomi e le stesse istituzioni). Ma non siamo
più protetti dai muri di ieri, come mostra la crisi economica.
Per questo, prevale un senso di insicurezza di fronte a venti freddi che vengono da lontano
(siano essi le crisi finanziarie o i migranti, o altro). Si moltiplica la mole delle informazioni,
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ma prevale il senso di non guidare il proprio presente: "l'insicurezza odierna - afferma
Bauman - assomiglia alla sensazione che potrebbero provare i passeggeri di un aereo
nello scoprire che la cabina di pilotaggio è vuota…”. L'autore allude all'assenza di un
progetto condiviso, quale avevano i mondi ideologici prima dell'89. Manca un pilota del
mondo globale. La stessa politica internazionale non ha più una superpotenza o due che
la pilotino. Alain Touraine nel 2004 ha pubblicato un libro, dal titolo significativamente
tradotto in italiano: La globalizzazione e la morte del sociale. Un effetto della
globalizzazione è la crescita del senso individuale della vita, che ha allentato legami
sociali e comunitari e ha sradicato movimenti di massa (tipici del XX secolo).
Vicinanza fisica non significa prossimità, tanto che un acuto psicanalista italiano, Luigi
Zoja, parla giustamente di "morte del prossimo". E' la crisi di tante forme comunitarie,
dagli storici partiti di massa, alla città, alla famiglia come dimensione dell'esistenza. La
forma normale di vita diventa individuale. E' certo solo una tendenzialità nella società,
capace di convivere con istituzioni e modelli di ieri, senza scardinare i quadri legali e
vissuti del sociale. Insomma una silenziosa ma profonda rivoluzione antropologica.
Narrarne la novità non è facile. Insiste Bauman: "Non lo stare insieme, ma l'evitarsi e lo
star separati sono diventate le principali strategie per sopravvivere nelle megalopoli
contemporanee...".
Proprio nella città si sviluppa l'insicurezza di cui parla Bauman: "le città sono divenute
delle discariche per i problemi causati dalla globalizzazione" - conclude. La città ritorna
protagonista della storia. Le città globalizzate alzano i muri tra i compound. La nuova
città - la grande megalopoli - a differenza della tradizione europea è senza centro e senza
piazza. Da qui il problema delle periferie, l'habitat di milioni di persone e il luogo
dell'emigrazione. Giustamente papa Francesco ha parlato delle periferie come sfida del
cristianesimo. Infatti le grandi città perdono il loro centro e diventano periferie. Direi che
il mondo urbano si periferizza.
Il mondo globale non ha creato una cosmopoli. Nemmeno una società peggiore di quella
della guerra fredda, così conflittuale. Non è però una società ordinata o controllabile. A
fronte di un'economia globalizzata, il mondo appare multipolare, senza un impero
regolatore, articolato. All'ottimismo della vittoria della libertà, ha corrisposto negli anni
Novanta un pessimismo realista, di cui Samuel Huntington si è fatto banditore: il mondo,
per sua intima composizione, sarebbe destinato allo scontro tra universi caratterizzati
dalla religione e dalla storia. Insomma la ben nota teoria dello scontro di civiltà e
religione che, l'11 settembre 2001, avrebbe avuto un'impressionante conferma dalla sfida
del terrorismo islamico globale all'Occidente. Va detto che la teoria dello scontro di
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civiltà è stata un tentativo di spiegare la complessità del mondo globale, riprendendo tesi
già espresse tra le due guerre (basti pensare al Tramonto dell'Occidente di Oswald
Spengler, dopo la prima guerra mondiale, ma anche lo storico Arnold Toynbee). Il
momento in cui Huntington ha proposto la sua tesi era gravido di bisogno di
orientamento. Di fronte a un campo aperto, da dove viene la minaccia? Molti volevano
sentirsi dire quel che ha scritto. Lo desideravano gli orfani della lotta al comunismo alla
ricerca di un nuovi barbari. Il mondo globale non ha creato lo scontro di civiltà, ma ha
realizzato una società complessa, molto individuale e conflittuale.
Nello scontro di civiltà, l'Occidente dalle radici cristiane si sarebbe compattato contro
l'islam? In realtà - spiega Olivier Roy - la globalizzazione ha indotto una frammentazione
nel mondo islamico: non solo lo scontro tra sunniti e sciiti. Il mondo sunnita - si pensi
all'Egitto - è diviso in numerosi corpi in conflitto, dai Fratelli Musulmani (anch'essi
frammentati), ai salafiti, a Al Azhar e ancora... Il ritorno dell'islam (segnalato da vari
decenni) si accompagna a processi individuali, a una crisi d'autorità e a un bricolage di
posizioni. La religione mussulmana ha cessato di essere un fatto unitario politicamente.
In Egitto i Fratelli Musulmani sono falliti politicamente. Non basta dire: l'islam è la
soluzione! Anche nell'islam c'è una forte frammentazione del legame, anche se noi la
percepiamo poco.
Vorrei ricordare che la globalizzazione non è la prima della storia, seppure così originale
e vasta. Altre ce ne sono state. Altre ne ha conosciute la Chiesa, che è strutturalmente
un'organizzazione globale. Ricordo la conquista delle Americhe con i suoi effetti di
meticciato culturale, come ha spiegato Todorov. A sua maniera, il cristianesimo nasce
come globalizzazione della fede al di là delle frontiere etnico-linguistiche-culturali.
Giovanni Crisostomo così commenta il Vangelo di Giovanni: "Ma che significano le
parole: per ridurre all'unità quelli che sono vicini e quelli che sono lontani? Li rese un
corpo solo. Chi sta a Roma considera gli indiani parte del suo corpo. Cosa può stare alla
pari di questo sodalizio?". Nei suoi cromosomi il cristianesimo non è un "sodalizio"
estraneo o avverso alla globalizzazione. Padre de Lubac, parlando del significato di
"cattolico", diceva: "non è questione di geografia o di cifre... è prima di tutto qualcosa di
intrinseco alla Chiesa". La vita cattolica è stata spesso una pulsione al di là delle frontiere
di un mondo. Sant'Agostino polemizzava con i donatisti, che trascuravano il mondo
considerando "quasi perdute le altre genti" e riducendo la vita al Nord Africa: "non so diceva- chi pone in Africa le frontiere della carità". Nel mondo dei cristiani - Paolo VI ne
parlava come "esperti di umanità" - c'è stata una percezione delle trasformazioni del
mondo in senso globale. Il grande patriarca di Costantinopoli Athenagoras nel 1968, in
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un importante libro con Clément, un capolavoro umanistico del Novecento, afferma che il
mondo contemporaneo si va unificando (è la parola usata): "Da una parte c'è
l'avvenimento dell'uomo planetario, in una storia divenuta mondiale. Ma d'altra parte
ciascun popolo, forse per sfuggire all'impersonalità della civiltà industriale, si radica nella
sua originalità...". C'è una grande sfida da accogliere per il patriarca, definito da Clément
"amoureux de l'universel": "Oggi il lontano diventa fisicamente vicino. Bisogna che lo
diventi spiritualmente". E' una spiritualità da creare, non angusta, ma capace di
rispondere alla sfida dell'uomo planetario e di nuove prossimità. Athenagoras, guardando
alle divisioni cristiane e a quelle nazionali tra gli ortodossi, esclamava: guai se il mondo
andrà verso la sua unificazione senza l'unità dei cristiani! La divisione tra i cristiani ha
legittimato - e guardo al nuovo mondo neoprotestante – il fatto che si può dirsi cristiani e
divisi... Vent'anni dopo il card. Lustiger scriveva: "Noi viviamo in una società che si è
mondializzata e che nello stesso tempo si segmenta, mano a mano che va unificandosi, in
culture che si contrappongono. In passato le culture differivano le une dalle altre perché
non si conoscevano e non volevano conoscersi; oggi rischiano di arrivare allo scontro
proprio perché si conoscono e divengono comunicanti". Il nostro cattolicesimo ha fatto a
lungo i conti con la realtà e la categoria della secolarizzazione proprio in tutte le
direzioni, quasi niente con la globalizzazione. Daniéle Hervieu-Léger, prendendo atto
della secolarizzazione del cattolicesimo, dichiarava qualche anno fa: Catholicisme, la fin
d'un monde. Il senso di un inevitabile declino ha percorso il nostro cattolicesimo europeo,
dopo i primi tempi di fervore postconciliare. Più modernità meno religione: questa è
sembrata la legge della storia. Eppure - mi preme dirlo - il problema oggi non è tanto la
secolarizzazione che privatizza il cristianesimo nei margini della vita sociale: quel mondo
che - come dice Poulat - è uscito da Dio. Anzi si potrebbe parlare, nonostante la
secolarizzazione, di una revanche de Dieu, come afferma Gilles Kepel con tanti altri pur
in una società uscita da Dio. Non ha in Dio, nel Dio della Chiesa, il suo riferimento da
più di due secoli. Eppure è abitata da tanto religioso e da tante religioni. L'Europa è
sicuramente il continente più secolarizzato del mondo, ma lo è in maniera meno radicale
di quanto non lo si dica. Ma basta guardare fuori dal mondo europeo e si scopre che c'è
un linguaggio religioso comune che permea intere società, anche se non nel senso delle
Chiese tradizionali. In realtà nel Novecento è avvenuto un cambiamento radicale nel
mondo cristiano: in cento anni la comunità religiosa pentecostale e indipendente è passata
da zero fedeli a mezzo miliardo, mentre nel XXI secolo globalizzato sta vorticosamente
crescendo. Il pluralismo pentecostale, come comunità, teologie e strutture, si basa
sull'autonomia
dell'individuo,
con
forme
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congeniali
alla
globalizzazione.
L'individualismo fa sì che si cerchi la felicità "religiosa" in una comunità rispondente, in
un vero e proprio mercato delle religioni. Questo mondo religioso vuole rispondere ai
bisogni dell'individuo, proponendo una specie di religione della prosperità. Lo si vede nel
Sud del mondo con il grande sviluppo delle nuove religioni a sfondo cristiano, in realtà
caratterizzate spesso dal consumismo religioso. Al di là dell'unità dei cristiani, è giunto
un drammatico processo di frammentazione che usa il linguaggio cristiano, in un mondo
religioso che forse non può nemmeno dirsi cristiano.
Ma la globalizzazione è una sorpresa così grande? Credo i cristiani non siano stati così
impreparati. La globalità del Vaticano II si spiega solo superficialmente con le
provenienze geografiche dei padri dell'Est comunista, dell'Ovest e del Terzo Mondo,
superando la logica della guerra fredda in nome della comunione. Ma tale globalità si
riscontra anche nell'interesse ad extra del Concilio, quello verso l'altro: il non cattolico, il
non cristiano, l’ebreo, il musulmano, la persona di un’altra religione, il non credente…
entrano nell'orizzonte cattolico come non mai. Un Concilio per "aggiornare" - uso il
termine di Giovanni XXIII - la Chiesa a vivere con gli altri in un mondo complesso in cui
matura una teologia positiva dell'altro. ll card. Lustiger, in una conferenza del 2005,
metteva in rapporto la Nostra Aetate e la globalizzazione. Bisognerebbe leggere il
Vaticano II anche nella prospettiva della preparazione alla mondializzazione. Idee come
l'ecumenismo, il dialogo, la missione stessa, la pace, l'unità delle genti, l'universalismo
sono state rivisitate e riproposte, approntando strumenti inediti.
In realtà il seguito del Vaticano II è stato troppo a lungo vissuto nella polarizzazione
all'interno della Chiesa, poco consapevole delle dimensioni universalistiche. Nel 1967,
Joseph Ratzinger scriveva acutamente: "il Concilio segna il passaggio da un
atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario, ed il concetto conciliare
contrario a 'conservatore' non è `progressista', ma 'missionario'." Giovanni Paolo II ha
incarnato questa visione globale e estroversa del Vaticano II. La recezione di questo
Concilio non può essere disgiunta dalla sua figura, che ha rappresentato un cattolicesimo
a confronto con gli scenari del mondo. C'è qui l'idea del ripensamento di quel che vuol
dire missione per un cristianesimo in un mondo globale e diverso: estroversione oltre le
frontiere tradizionali, il contrario di un arroccamento. L'operazione è spiegata da Paolo
VI nell'enciclica Ecclesiam suam fin dal 1964, quando ripropone l'identità e universalità
della Chiesa: "Nessuno è estraneo al suo cuore – scrive. Nessuno è indifferente per il suo
ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia esserlo. Non indarno si dice cattolica;
non indarno è incaricata di promuovere nel mondo l'unità, l'amore, la pace". Un
cattolicesimo giunto alla sua massima crescita negli anni Sessanta - si pensi in Africa - si
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dichiara interessato a tutte le dimensioni del mondo, anche non riconducibili a sé. Se la
globalizzazione dopo l'89 non ha del tutto sorpreso la Chiesa, è chiaro che é un'altra
globalizzazione rispetto al cattolicesimo globale. Nel 2001 Giovanni Paolo II afferma:
"La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne
faranno... Il mercato come meccanismo di scambio è divenuto lo strumento di una nuova
cultura. Molti osservatori hanno colto il carattere intrusivo, perfino invasivo, della logica
di mercato, che riduce sempre più l'area disponibile alla comunità umana...".
E' una grande sfida, che non si supera ignorandola o prescindendo. E' il senso della
riflessione che conduciamo, perché la globalizzazione è una caduta di muri che cambia e
allarga le prospettive dell'esistenza. La Chiesa ha riflettuto sulla globalizzazione? Dopo
tanto parlare nel postConcilio di "segni dei tempi", mi pare che sia stata un po' distratta su
un "segno dei tempi" maggiore. Quest'atteggiamento non è frutto di preconcetta
contrarietà, ma lo si deve piuttosto a una caduta di chiavi interpretative e di cultura nella
Chiesa, molto concentrata in un discorso ecclesiastico, sostanzialmente autocentrata,
anche perché in tante parti del mondo sfidata nella sua sopravvivenza. Occorrerebbe un
dibattito storico, sociologico, teologico, perché la storia ha corso in fretta.
La Chiesa è una globalizzazione fondata sulla comunione di fede. L'Atlas hierarchicus,
curato dal Vaticano, mostra una mappatura del globo in diocesi territoriali, non
escludendo nessuna parte. La comunione - parola chiave nel pensiero del Vaticano II - ha
dimensioni locali e mondiali. Il cattolicesimo però non è universalismo generico: non si
dissolve nel virtuale o in un'internazionale di valori. E' anche una comunità concreta di
uomini e donne dalle relazioni personali e territoriali. L'Eucarestia, i suoi sacramenti
vivono in un noi, un rapporto io-tu. Παρoικία, da cui la “parrocchia”, vuol dire vicinato di
case. La Chiesa ha una casa e un volto sul territorio, che si chiama chiesa. E' famiglia. Le
comunità si raccolgono nell'identità primaria che é la Chiesa della città. In genere ogni
diocesi ha il nome della città. La Chiesa insiste sulla città.
E' connaturale al cristianesimo la prossimità umana, non episodica, fondata sulla gratuità.
La coscienza antica della Genesi afferma: "non è buono che l'uomo sia solo". La
domanda di Dio a chi uccide o elimina il fratello resta chiara: "Dov'è tuo fratello?". La
vita cristiana porta a trovare il fratello. Gesù spiega, con la parabola del buon samaritano,
mostra che il povero, inutile per definizione, s'impone nella geografia della prossimità: il
che fa emergere il valore della gratuità che impregna la vita del singolo e della comunità.
Non si dimentichi che Paolo VI, nella conclusione del Vaticano II, considerò la parabola
del buon samaritano come il paradigma della spiritualità conciliare.
La destrutturazione della prossimità, introdotta dalla globalizzazione, è inaccettabile per
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il cristianesimo: fraternità, prossimità ai poveri, comunione tra le persone, educazione dei
giovani sono valori irrinunciabili. La solitudine è un limite da superare per il
cristianesimo. Per questo la Chiesa è amica della famiglia, fondata sulla fedeltà tra donna
e uomo, aperta alle generazioni che vengono, come espressione di un destino familiare
dell'essere umano.
L'insistenza sulla famiglia non è frutto di arcaismo sociale, ma di connaturalità intima
con la cultura familiare, che non condivide un individualismo generalizzato. Non si vive
la globalizzazione - uso il termine benedettino - senza stabilitas loci. La Chiesa investe
sulla famiglia e sulla città, non per chiudere, ma come premesse ad aprirsi. E' convinta
del bisogno della polarità rappresentata dalla città, in un mondo in cui - nel 2007 - l'homo
urbanus, gli abitanti delle città hanno superato, per la prima volta, quelli delle campagne.
II cattolicesimo, anche per la sua storia, non è spaventato della vertigine della
globalizzazione, ma propone all'uomo planetario la stabilità fatta di famiglia, città,
comunità. Dalle prime riflessioni di Joseph Comblin sulla teologia della città, sul finire
degli anni Sessanta, arrivando a Carlos Galli e il suo Diòs vive en la ciudad (tanto
connesso alla vita dell'arcidiocesi di Buenos Aires del card. Bergoglio), c'è una traiettoria
di approfondimento. Nel postConcilio il problema posto - ad esempio da Harvey Cox era la città secolare, insomma la secolarizzazione della città e la perdita del riferimento in
Dio. Oggi la città, nelle sue nuove forme, specie nelle megalopoli, la realtà della città
globale che va paradossalmente dalla miseria delle sue periferie all'essere soggetto in una
rete transnazionale (una città senza un destino comune). Che vuol dire Chiesa, legame
ecclesiale, umano in una città sempre meno comunità? Se leggiamo la Evangelii gaudium
di papa Francesco, vi troviamo questa problematica, questi scenari e l'abbozzo di alcune
risposte. E' l'idea della predicazione di papa Francesco che rende "popolo" un mondo di
individui. Ma un "popolo di Dio", locale e globale, attraversa e si rapporta ad altri popoli
coinvolti dalla globalizzazione... Il mondo contemporaneo si presenta tra un movimento
di avvicinamento tra diversi e una differenziazione conflittuale sino all'individualismo
marcato. Eppure le spinte verso cosmopoli sono potenti: 50.000 aerei sorvolano il
pianeta, portando passeggeri e merci ovunque, 3500 miliardi di dollari sono scambiati dai
mercati alla velocità della luce, 2500 satelliti orbitano sulla terra veicolando notizie,
l'inglese è parlato da un miliardo è mezzo di persone. Secondo Jeremy Rifkin, in La
civiltà dell'empatia, viviamo il picco storico dell'empatia globale. A suo avviso, un
motivo di crescita - è l'ideologia della globalizzazione - sarebbe anche il superamento di
diversificazioni religiose in una spiritualità tollerante. Il movimento empatico sarà la
religione umanista del domani?
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Per tornare ai cristiani e la globalizzazione, si registra una fragilizzazione della Chiesa
nelle aree sviluppate, frutto non solo della secolarizzazione, ma della globalizzazione che
porta all'individualizzazione. La secolarizzazione, non tanto quella delle culture laiche di
ieri, ma l'esistenza individuale nell'avventura dell'uomo globale. La forte identità e
struttura del cattolicesimo mal giocherebbero nel mondo del soft power per dirla con Nye.
Ma la Chiesa è un hard power? Quale il futuro? Torna in mente la frase che titola la
lettera pastorale del card. Suhard nel 1947, Essor ou déclin de l'Eglise?- Sviluppo o
declino della Chiesa? Era quell'arcivescovo che, di fronte alle grandi periferie di Parigi,
dove il cristianesimo vissuto sembrava spegnersi e dominava l'utopia comunista, lanciava
la Missione di Parigi.
La globalizzazione è molto differente dalla modernità secolarizzata con cui la Chiesa si è
incontrata/scontrata tra XIX e XX secolo. Non è ideologica, ma gravida di conseguenze
antropologiche. Il cattolicesimo poteva formulare piani di resistenza o di adattamento.
Oggi è diverso. Tuttavia il Concilio Vaticano II costituisce - a cinquant'anni - una grande
base nel mondo globale per un cattolicesimo, che voglia non essere una tra le grandi
spiritualità, ma coltivare un'identità teologica per custodire l'umano. In questa prospettiva
i cristiani ricordano che l'uomo sradicato non è il futuro. E' la vera custodia dell'umano.
Chi è aperto al futuro ha radici e limiti: "l'uomo è realmente uomo soltanto in virtù della
sua partecipazione a una tradizione" - afferma Hossein Nasr, studioso iraniano.
Essor ou déclin de l'Eglise?. Forse ai tempi del vecchio cardinale di Parigi era più
semplice. Non è facile nella complessità dell'oggi. Il declino è realtà, ma spesso scelta
della comunità che ragiona su numeri, vecchi schemi, logiche di ieri (non solo la logica
del vincere ma magari perdere restando pochi ma puri: "si alimenta la vanagloria di
coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di
eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a
combattere" - scrive papa Francesco). Il punto di partenza per il credente - permettete di
dirlo - è cambiare se stesso: la sola leva per trasformare il mondo che nessuno mi può
togliere (dice Martin Buber con tanti altri). Un santo ortodosso dell'Athos, Silvano,
affermava: "L'unità ontologica di tutta l'umanità è tale che ogni persona che supera in se
stessa il male, infligge anche una grande sconfitta al male cosmico, per cui le
conseguenze di questa vittoria si ripercuotono in modo benefico sul mondo intero." La
dimensione spirituale cristiana è profondamente connessa a una dimensione sociale, cioè
alla prossimità umana. C'è una postura spirituale e umana del cristiano nella
globalizzazione. La storia dei cristiani si sviluppa in tante dimensioni sotterranee o più
evidenti, ma, talvolta, si pone come proposta culturale al nostro tempo.
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E' il caso, per fare un esempio a me caro, del cosiddetto "spirito di Assisi", immagine
simbolica e reale delle religioni (e dei laici) gli uni accanto agli altri, non più gli uni
contro gli altri. In quella visione si compone la molteplicità del mondo, ma si propone di
stare insieme in pace non nel meticciato interreligioso e cosmopolita, ma fondati sulle
proprie radici spirituali. E' un'immagine, germinata dalla Chiesa di Giovanni Paolo II,
significativa nel tempo dello scontro: mostra che il futuro non è l'affermazione dell'una o
dell'altra civiltà, ma quella che io chiamo la civiltà del vivere insieme. Infatti, in questo
mondo globale, è evidente che non si può vincere, controllare, egemonizzare. La civiltà
del vivere insieme è nei cromosomi di quel cristianesimo che definisce Dio come amore.
Sono solo modeste riflessioni che vorrebbero accompagnarci, mentre siamo solo alle
soglie di un'età inesplorata.
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