Aristofane Le rane Statua di Dioniso Ambientazione: nell`Ade Prima

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Aristofane
Le rane
Statua di Dioniso
Ambientazione: nell'Ade
Prima assoluta: 405 a.C.
Premio: Vittoria alle Lenee del 405 a.C.
Personaggi:
Dioniso
Xantia
Eracle
Euripide
Eschilo
Caronte
Plutone
Eaco
Un morto
Un servo
Due ostesse
Coro di iniziati ai culti misterici
Coro di rane
N.B.: come per la Pace, anche per le Rane un evento imprevisto venne a guastare la messa in
scena della commedia ormai pronta: la morte improvvisa di Sofocle, avvenuta nel 406. Questa
volta però Aristofane rinunciò del tutto a stravolgere la struttura della commedia, saldamente
imperniata sul contrasto Eschilo-Euripide, e si limitò a citare Sofocle in un paio di battute che
alludono al suo enorme prestigio artistico (Eschilo, quando se ne va, cede a lui il suo posto) ed
al suo ottimo carattere: infatti, quando Xantia gli chiede perché Sofocle non partecipi alla
contesa per il miglior tragediografo, Eaco, il portinaio dell'Ade, gli risponde che è stato Sofocle
stesso a lasciare il campo libero ad Eschilo:
XANTIA:
E come mai Sofocle non ha accampato pretese?
EACO:
Chi, lui? Appena giunto, ha stretto la mano ad Eschilo e lo ha baciato!
La commedia fu replicata più volte negli anni successivi, fatto atipico per quei tempi, sia per il
suo valore artistico, sia per la sua importanza socale: ricordava agli Ateniesi i tempi d'oro
della Paidèia e i suoi splendidi campioni.
Trama:
Prologo:
Dioniso, dio del teatro, è caduto in depressione: tanto Sofocle quanto Euripide, infatti, sono
morti (entrambi erano deceduti nel 406 a.C.), Eschilo è morto da cinquant'anni (456) e i
tragediografi più giovani non hanno la stessa creatività e lo stesso genio.
Debosciato com'è, Dioniso predilige ovviamente Euripide, il più bizzarro e il meno "serio" dei
tre. Nella sua disperazione, il dio decide quindi di riportare Euripide in vita: è l’unico modo
per salvare la tragedia dal declino. Si prepara quindi a raggiungere l’Ade per riportare in vita
l'amato-odiato tragediografo, accompagnato dal fedele servo Xantia.
Dioniso e Xantia chiedono ad Eracle, esperto dell'Ade, quale sia la strada più rapida per
giungervi; il semidio risponde che è necessario attraversare una palude, l'Acheronte. Quando i
due giungono laggiù, il traghettatore Caronte fa salire Dioniso sulla sua barca per portarlo
sull’altra riva, mentre Xantia è costretto a girare intorno alla palude a piedi. Durante la
traversata, Dioniso e Caronte incontrano il coro delle rane (che Caronte chiama rane-cigni),
che col loro brekekekèx koàx koàx assordano i presenti. Esse, creature ottuse ed ostinate,
intonano un canto in onore di Dioniso senza nemmeno accorgersi che il dio è lì con loro.
Dioniso, infastidito dal loro stupido canto, protesta ad alta voce, ma le rane continuano ad
invocarlo, non riconoscendolo. Alla fine il dio, profondamente seccato, imita il loro verso con
un'idonea parte del corpo, e questo le tramortisce: finalmente le rane tacciono.
Dioniso e Xantia si rivedono alle soglie dell’Ade, dove incontrano un gruppo di anime, gli
iniziati ai culti misterici, che costituiscono il secondo coro e cantano in onore di Iacco (che poi
è lo stesso Dioniso, da essi non riconosciuto: si ripete ironicamente il meccanismo già visto
con il primo coro, quello delle rane).
Poco dopo i due incontrano Eaco, il portinaio dell'Ade, che scambia Dioniso per Eracle (il
primo infatti si era vestito a imitazione del semidio) e comincia a insultarlo e minacciarlo,
furioso com'è nei confronti di Eracle, che aveva rubato il suo cane Cerbero. Spaventato, il dio
esce e scambia i suoi abiti con Xantia. Questa volta viene ad aprire una serva che accoglie
"Eracle" a braccia aperte e gli dice di avere appena preparato un pranzetto con i fiocchi per lui.
Subito Dioniso chiude la porta e scambia nuovamente i suoi abiti con Xantia, ma ad aprire
questa volta è un'ostessa che minaccia di spaccargli le ossa. Alla fine i due vengono entrambi
frustati, ma poi l’equivoco è chiarito.
Postisi alla ricerca di Euripide, lo trovano nel bel mezzo di un litigio con Eschilo a proposito di
chi meriti di sedere sul trono di miglior tragediografo di tutti i tempi: ognuno dei due si ritiene
il migliore, mentre Sofocle si limita ad assistere alla contesa, pronto per subentrare al posto di
Eschilo nel caso in cui perdesse.
Comincia allora una gara, con Dioniso come giudice: i due autori si misurano in una serie di
prove una più bizzarra dell'altra che costituiscono l'agone.
1. La prima parte della sfida ha come oggetto la situazione di Atene ed il ruolo paideutico
svolto dai due poeti. Euripide critica lo stile complesso e oscuro di Eschilo;
quest’ultimo risponde che attraverso le sue tragedie, per esempio I sette contro Tebe o
I Persiani, ha dato il suo contributo a formare dei buoni cittadini, mentre Euripide,
mettendo in scena personaggi che non erano certo modelli di virtù, ha contribuito alla
decadenza della città. Euripide critica i luoghi comuni e i paroloni gonfi che costellano i
versi del rivale; si vanta di aver snellito la tragedia, di aver insegnato a parlare alla
gente, di aver rappresentato il “quotidiano”. Eschilo si gloria della grandezza dei propri
eroi, contesta all’avversario la rappresentazione di eroine perverse, di re straccioni, di
chiacchiere a vanvera.
2. Poi si passa ai prologhi. Euripide ridicolizza i prologhi di Eschilo, incongrui e pieni di
pesanti ripetizioni. Eschilo passa in rassegna i prologhi di Euripide, tanto pedestri e
prevedibili che possono sempre concludersi con l'espressione "perse la boccetta".
3. Tocca quindi alle parti liriche. Euripide fa una gustosa caricatura dei pezzi musicali di
Eschilo, pesanti e monotoni, accompagnandoli con il ritornello onomatopeico
tophlàttothrat, tophlàttothrat. Eschilo, a sua volta, crea una irresistibile parodia delle
parti liriche di Euripide, frivole, svenevoli e piene di fronzoli musicali, cantando la
memorabile aria del gallo rapito.
4. Infine Dioniso propone la gara decisiva: la pesa dei versi. Fa entrare in scena una
bilancia: ognuno dei due autori viene invitato a recitare un suo verso sul piatto; al
"Cucù!" di Dioniso i due molleranno il piatto, e la citazione che "pesa" di più farà
pendere la bilancia in favore del proprio autore. Eschilo esce vincitore da questa gara.
5. Dioniso entra in crisi: è sceso nell'Ade per salvare Euripide, ma ora si accorge che
Eschilo lo sta convincendo di più. Decide quindi di proporre una quinta ed ultima
prova: sceglierà l’autore che darà il miglior consiglio su come salvare Atene dal declino.
Euripide dà una risposta di stampo sofistico, mentre Eschilo dà un consiglio pratico.
A questo punto Euripide, spazientito, interrompe la gara e ricorda a Dioniso che è sceso
nell'Ade per riportare in vita lui. Ma Dioniso, citando un suo verso, gli risponde "Giurò la
lingua... e io mi piglio Eschilo!". Atene infatti è in condizioni di gravissima crisi dopo la
battaglia delle Arginuse ed ha bisogno di veri educatori, gente che prenda sul serio il compito
paideutico.
Euripide va su tutte le furie e protesta: "Hai il coraggio di lasciarmi fra i morti, disgraziato?!";
Dioniso gli risponde beffardo con un suo verso: "E chissà se la vita non è morte?".
Prima di andarsene, Eschilo cede il trono di miglior tragediografo a Sofocle, raccomandandogli
di non cederlo mai ad Euripide.
Commento:
La battaglia delle isole Arginuse (406 a.C.) aveva rivelato fino a che punto di irrazionalità fosse
giunta la pòlis ateniese: la flotta ateniese aveva ottenuto un’importante vittoria, ma a causa del
maltempo non era stato possibile recuperare gli equipaggi delle navi affondate (circa 5000
persone). Quando la flotta vittoriosa tornò ad Atene, i comandanti, accusati di aver
abbandonato i naufraghi, vennero processati e condannati a morte per alto tradimento.
Questo privò Atene dei suoi migliori comandanti e rese vana la vittoria ottenuta.
Nelle Rane si fa più volte riferimento a questo episodio (vedi ad es. vv. 190-192 e 693-694),
che doveva aver colpito Aristofane come una manifestazione di quella conclamata e
inarrestabile follia collettiva alla quale fa spesso riferimento anche l'ultimo Euripide.
Nel 405 a.C., perciò, Atene stava attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia: la
guerra del Peloponneso stava per finire e la pòlis era sul punto di perdere la guerra e la sua
supremazia sul mondo greco (soltanto un anno dopo, infatti, Atene si sarebbe arresa a Sparta
dopo la battaglia di Egospotami). La città viveva una situazione di forti tensioni interne,
poiché varie fazioni si combattevano per ottenere il potere. La decadenza di Atene è così
evidente che gli iniziati dell'Ade chiamano gli Ateniesi "i morti di lassù", affermando che la
città è caduta nelle mani di persone malvagie e inaffidabili.
Non solo: i due più grandi tragediografi ancora in vita, Sofocle ed Euripide, erano entrambi
morti nel 406 a.C., cosicché sembrava che Atene fosse ormai destinata a perdere anche il suo
primato culturale, oltre a quello politico. In quest’atmosfera Aristofane scrive una commedia
che vive di una profonda nostalgia, in cui riportare in vita i morti è l’unico modo per ridare ad
Atene gli splendori del passato: nostalgia a quanto pare condivisa dal pubblico, che decretò un
successo straordinario per quest'opera.
Il viaggio di Dioniso ha dunque una doppia valenza di possibilità di salvezza per il teatro e per
Atene, ed è lo stesso Dioniso a dirlo: "Statemi a sentire: io sono sceso quaggiù a cercare un
poeta. Per farne che, direte voi? Perché la nostra città possa salvarsi e mantenere il suo
teatro". E qual è il motivo per cui un poeta dovrebbe essere preferito ad un altro nell’ottica
della salvezza della città? Paradossalmente, è lo stesso Euripide a dirlo, decretando così la
propria sconfitta: "Per la sua capacità e i suoi ammonimenti, e perché noi rendiamo migliori i
cittadini nelle loro comunità".
Forte è tuttavia anche il significato metateatrale e metapoetico dell'opera: quando infatti
avviene il confronto tra Eschilo ed Euripide, si ha una sorta di critica letteraria in chiave
comica, dove molte delle caratteristiche principali dei due autori sono analizzate con finezza.
A quale dei due vada la preferenza di Aristofane è arduo stabilire: da un punto di vista
squisitamente artistico, probabilmente il prescelto è l'innovatore Euripide, ma dal punto di
vista etico e paideutico non c'è dubbio che sia di gran lunga superiore Eschilo: quando infatti
Euripide critica lo stile ardito ed oscuro di Eschilo, quest’ultimo risponde che attraverso le sue
tragedie ha dato il suo contributo a formare dei buoni cittadini, mentre Euripide, mettendo in
scena personaggi assurdi ed irrazionali, ha contribuito alla decadenza della città. Ed è inutile
affermare che mettere in scena il male serve da deterrente, ché anzi, come afferma Eschilo
stesso, è vero il contrario: «Il poeta deve nascondere il male, non rappresentarlo e insegnarlo.
Come c’è il maestro per i ragazzi, così c’è il poeta per gli adulti. È del bene che bisogna
parlare» (Rane, vv. 1053-1056). Mettere in scena il male, quindi, equivale ad insegnarlo.
Infine, c'è da riflettere sul titolo e sul ruolo del coro. Quando Dioniso e Caronte incontrano le
rane, succede qualcosa di strano: gli anfibi cantano in onore di Dioniso, ma non lo riconoscono
neanche e lo considerano solo un seccatore. Secondo alcuni studiosi ciò avviene perché,
amando Euripide, Dioniso sta tradendo il suo ruolo di dio del teatro, sicché anche le creature
che lo amano non lo riconoscono. La tesi tuttavia appare un po' forzata: forse si tratta
semplicemente di un riuscito spunto comico, che precorre alcune trovate degli odierni
cartoons, ove spesso compaiono animaletti ottusi e monomaniaci, del tutto sordi a qualsiasi
suggestione che non sia collegata con la loro fissazione (si pensi allo scoiattolo Scrat dell'Era
Glaciale).
Certamente, però, il titolo della commedia è alquanto atipico: l'incontro di Dioniso con le rane,
che cantano il loro amore per la poesia, è un singolo episodio che non lascia tracce nel
prosieguo della storia: perché dunque intitolare agli anfibi l'intera commedia, che in realtà è
imperniata sul contrasto tra Eschilo ed Euripide?
Di questo titolo fuorviante sono state tentate molte spiegazioni, spesso in contraddizione le
une con le altre. Capita comunque spesso, nelle opere letterarie in genere, che un episodio, per
quanto poco importante, diventi il simbolo dell’intera storia. Il significato degli eventi si
cristallizza su questo simbolo, che acquista così importanza a prescindere da quanto spazio
abbia nella vicenda. Le rane, che cantano incessantemente ed inneggiano a Dioniso senza
riconoscerlo, potrebbero quindi simboleggiare la thèia manìa di cui Platone parlerà nel
Simposio e nel Fedro: la divina follia, la forza della poesia che non riconosce altro potere che
quello della propria ispirazione e che più di ogni razionalismo sofistico può portare la
salvezza agli uomini.
Non si deve dimenticare, poi, che il coro principale della commedia è quello degli iniziati ai
culti misterici (anche se non viene detto esplicitamente quali siano tali culti, è evidente che il
riferimento è ai Misteri eleusini, violati, secondo la tradizione, proprio da Eschilo). È proprio
questo coro che più stigmatizza la situazione sociale ed i problemi di Atene, e questo non è un
caso: come iniziati, si suppone che essi abbiano una relazione più stretta con gli dei e una
maggiore saggezza ed intelligenza nel vedere i problemi dei vivi, siano cioè dotati di quella
facoltà màntica (= profetica) che è un'altra forma della thèia manìa. Questo coro, quindi, è una
sorta di variante "seria" del coro comico delle rane, e potrebbe significare esattamente la
stessa cosa.
BRANI
DIONISO (avvicinandosi alla casa di Plutone):
Allora, come dovrò bussare a questa porta: che ne so io? Come bussa la gente, quaggiù?
XANTIA:
Non perdere tempo, accarezzala come farebbe Eracle: coraggio e sangue freddo!
DIONISO (bussando):
Schiavo, schiavo!
EACO:
Chi è?
DIONISO:
Eracle, il fortissimo!
EACO:
Schifoso, insolente, sfacciato, delinquente il più delinquente, delinquentissimo! Ci hai fregato il
cane, il povero Cerbero: un salto al collo e lo hai trascinato via, ladro! A me era affidato! Ti ho
acchiappato, finalmente!
Così la roccia dal tenebroso
cuore di Stige e il sasso
di Acheronte che goccia
sangue ti incatenino
e le cagne randage
del Cocìto: e la serpe
dalle cento teste
le viscere dovrà sbranarti.
Ai polmoni ti si deve
attaccare una murena
di Tartesso: i testicoli
insanguinati con tutte
le budella ti devono
strappare le Gòrgoni
Titrasie cui subito
muovo il piede corsiero.
(Esce)
XANTIA (a Dioniso, imbrattatosi per la paura e crollato per terra):
Animale, che hai combinato?
DIONISO:
Mi è scappata: alla faccia del dio!
XANTIA:
Buffone, alzati subito: non farti vedere dalla gente.
DIONISO:
Svengo: passami la spugna sul… corazòn!
XANTIA:
Eccola: sèrviti.
DIONISO:
Ma dove…
XANTIA:
Dèi beati, il cuore ce l’hai in quel posto??
DIONISO:
Per la paura m’è scivolato sotto la pancia!
XANTIA:
Vigliacco come te nessuno: né dio né uomo!
DIONISO:
Io vigliacco? Ma se ti ho chiesto la spugna! Chi mai avrebbe avuto la forza di farlo?
XANTIA:
Ma come?
DIONISO:
Restava per terra ad annusarla, da buon vigliacco: io mi sono alzato e me lo sono perfino
pulito!
XANTIA:
Un atto di valore, per Posidone!
DIONISO:
Si capisce: non ti ha fatto paura, a te, quel terremoto di parole, le minacce?
XANTIA:
Neanche per sogno.
DIONISO:
Facciamo così, giacché vanti coraggio e sangue freddo: tu fai la mia parte, pigliati la clava e la
pelle di leone, eccola! Hai una pancia senza paura. Io ti faccio da facchino, questa volta.
XANTIA:
Passamele, spicciati. Mi tocca starci! Vedrai come si comporta questo Eracle-Xantia: niente
vigliaccate, non ho la tua testa.
DIONISO:
No perdio: quel farabutto di Mèlite in persona. Ecco, i bagagli me li carico io.
SERVA (esce dalla casa di Plutone):
Oh Eracle, ben tornato! Vieni, entra. La dea, appena saputo che arrivavi, ci ha subito fatto
infornare il pane, mettere a bollire due o tre pignatte di fagioli sbucciati, ci ha fatto arrostire
un bue intero e mettere al fuoco le focacce, le torte. Dài, entra!
XANTIA:
Grazie mille: non posso.
SERVA:
No, per Apollo, che non ti lascio andare: ora che ha messo a rosolare anche le galline, ha fatto
arrostire le fave, ha preparato certo vino dolcissimo! Entra con me!
XANTIA:
Grazie, no!
SERVA:
Continui a fare lo scemo: ma non ti mollo! Sapessi che bellissima flautista aspetta dentro,
proprio te. Senza dire delle ballerine, due o tre…
XANTIA:
Che dici, ballerine?
SERVA:
…fior di ragazze, depilate un momento fa! Entra, ti prego: il cuoco stava per levare il pesce dal
fuoco, mettevano la tavola.
XANTIA:
Corri, avverti subito le ballerine che stanno dentro: arrivo! Domestico, seguitemi coi bagagli.
DIONISO (lo afferra):
Fermati, imbecille. Non farai sul serio? Scherzavo, quando ti ho travestito da Eracle! Non fare
l’idiota, Xantia: prendi un’altra volta i bagagli, portali tu!
XANTIA:
Che succede? Ti vorresti ripigliare quello che mi hai dato, tu stesso?
DIONISO:
Senza «vorresti»: immediatamente. Levati la pelle!
XANTIA:
Chiamo testimoni, quanto è vero dio!
DIONISO:
Quale dio? Che idea imbecille, stupido: ti credi figlio di Alcmena, tu servo, e per giunta
mortale!
XANTIA:
Calmati, basta così. (Si spoglia) Tie’, piglia. Se dio vuole, prima o poi avrai bisogno di me!
CORO:
Così si comporta
un uomo che ha buon senso
e molto ha navigato:
buttarsi sempre
dalla parte più sicura
invece di starsene impalato
come una statua
in una sola posizione.
Buttarsi sempre
dalla parte più comoda
significa destrezza:
un Teràmene nato.
DIONISO:
Non sarebbe ridicolo
che Xantia, uno schiavo
stravaccato su tappeti
di Mileto si sbatte
una ballerina e poi
mi chiede l’orinale?
Mentre io lo sto a guardare
e mi meno la fava.
È un delinquente
in persona: se gli riesce
questo mi farà pure saltare
dalla bocca a suon di pugni
tutti i denti davanti!
(Bussa alla porta)
OSTESSA:
Plàtana, Plàtana, vieni qui: eccolo, il mascalzone! È lui, la volta che entra nell’albergo e giù
sedici delle pagnotte nostre…
PLATANA:
Perdio, proprio lui: in persona!
XANTIA:
Brutto vento, per qualcuno!
OSTESSA:
…e oltre a queste, i tocchi di bollito, una ventina, un obolo e mezzo l’uno…
XANTIA:
Qualcuno la sconta!
OSTESSA:
…e l’aglio, una quantità!
DIONISO:
Femmina, sei pazza: non sai che dici!
OSTESSA:
Credevi che non ti riconoscessi per via dei coturni? Stai fresco! Per non parlare di tutto il
baccalà…
PLATANA:
Perdio, e il formaggio fresco, povera te? Con tutte le forme, se l’è ingozzato!
OSTESSA:
Poi, quando porto il conto, mi guarda storto e si mette a muggire!
XANTIA:
La sua abitudine: fa così dappertutto.
OSTESSA:
Con la faccia da pazzo, tira fuori anche il pugnale!
XANTIA:
Povera donna!
OSTESSA:
Noi due, mezze morte di paura, un salto e ci rifugiamo in soffitta: lui arraffa perfino il
materasso, e via come un fulmine!
XANTIA:
La sua abitudine, anche questa.
OSTESSA:
Una cosa dovremmo fare: corri, chiamami Cleone come difensore…
DIONISO:
E a me Ipèrbolo, se lo incocci. Gli facciamo vedere noi!
Esce Platana.
OSTESSA:
Accidenti, che bocca: mi piacerebbe spezzarteli con una pietra quei denti, ci mangiasti la roba
mia!
DIONISO:
E io ti butterei nel baratro!
OSTESSA:
Ah, pigliare la falce e tagliartela, quella gola: s’è divorata le trippe… Vado a chiamare Cleone: la
sbroglia in giornata, una bella querela.
(Esce)
DIONISO:
Accidenti a me, se non voglio bene a Xantia!
XANTIA:
Ho capito l’antifona. Piantala con questo discorso, finiscila: neanche morto, torno a fare Eracle.
DIONISO:
No, Santiuccio mio!
XANTIA:
Come farei a diventare il figlio di Alcmena: io servo, per giunta mortale?
DIONISO:
Lo so, lo so, sei arrabbiato. Hai ragione, del resto: anche se me le dai, non dirò niente. Ma se mi
venisse in testa di levarteli di dosso di nuovo, devo crepare, sradicato in tutto: io, mia moglie, i
figli e quel cisposo di Archedemo.
XANTIA:
Il giuramento va proprio bene: accetto!
CORO (a Xantia):
Tocca a te adesso:
una volta ripreso il costume
che avevi ritornare
un’altra volta giovane
fare di nuovo la faccia terribile.
Ricordati quale dio stai imitando.
Se ti acchiappassero
a fare lo scemo
e comportarti da vigliacco
allora ti toccherebbe prendere
di nuovo i bagagli.
XANTIA:
Non è cattivo amici
il vostro consiglio:
neanche a farla apposta
stavo pensando anch’io
la stessa cosa. Il fatto
è che questo appena
succede una cosa buona
tenta un’altra volta
– sono sicuro – di levarmeli.
Però vi faccio vedere
che ho un cuore valoroso
e una faccia
aspra come l’aglio.
Ci voleva proprio: ho sentito
la porta che fa rumore.
EACO (entra seguito dalle guardie):
Legatelo subito, questo ladro di cani: la deve pagare. Spicciatevi!
DIONISO:
Brutto vento, per qualcuno…
XANTIA:
Andate a farvi fottere: non avvicinatevi!
EACO:
Ah sì: resisti pure! Dìtila, Sceblia, Pàrdoca, correre qua, affrontatelo!
Si scontrano.
DIONISO:
Una vera indegnità! Ruba le cose degli altri e poi le suona alle guardie!
EACO:
Cose dell’altro mondo!
DIONISO:
La peggio delinquenza: incredibile!
XANTIA:
Perdio, voglio crepare se mai sono capitato qua, se ti ho rubato niente: fosse anche un capello.
Anzi, con te mi voglio comportare da galantuomo: acchiappa il mio servo e mettilo alla prova!
Se scopri che ho torto, accoppami pure!
EACO:
Come, alla prova?
XANTIA:
In qualunque modo: mettilo sulla croce o appendilo, frustalo, sferzalo, scuoialo, torturalo.
Buttagli l’aceto nel naso, dagli i mattoni roventi, quello che vuoi. Solo una cosa: suonalo senza
contorno di tartufi o cipolline.
EACO:
Giusta idea: ti dovessi stroppiare il servo, a furia di mazzate, risarcimento assicurato.
XANTIA:
Non ce n’è bisogno: prendilo e fa’ la prova!
EACO:
Qua stesso, però: deve parlare in faccia a te. (A Dioniso) Tu, scarica subito la roba e cerca di
non dire bugie!
DIONISO:
Diffido chiunque da questa prova: sono immortale! (Ad Eaco) Se no, me la piglio con te!
EACO:
Che vai dicendo?
DIONISO:
Affermo che sono immortale: Dioniso, figlio di Zeus. Il servo è lui!
EACO (a Xantia):
Lo senti?
XANTIA:
Come no! Anche di più, lo devi frustare. Visto che è un dio, non se ne accorge…
DIONISO:
Eh no: se dici pure tu che sei un dio, devi pigliarti le stesse mazzate!
XANTIA:
Giusta idea: chi di noi vedi che piange prima, sotto le mazzate, o più si scansa, significa che
non è un dio.
EACO:
Non c’è che dire, sei un galantuomo: punti diritto alla giustizia. Spogliatevi, allora.
XANTIA:
Come pensi di fare questa prova, senza ingiustizie?
EACO:
Facile! Una frustata per uno!
XANTIA:
Benissimo.
EACO (lo frusta):
Ecco!
XANTIA:
Vedrai se mi scanso!
EACO:
Ma se te l’ho data!
XANTIA:
Quando mai!
EACO:
A vederti, mai. Una frustata a quest’altro, andiamo!
DIONISO:
Quando?
EACO:
Ma se te l’ho data?
DIONISO:
Neanche il solletico…
EACO:
Che ne so: provo un’altra volta con lui.
XANTIA:
Cerca di spicciarti! (Riceve una frustata più vigorosa) Ahio!
EACO:
Come ahio? Fatto male?
XANTIA:
Macché: mi arrabbio che la festa di Eracle, a Diomìa, non la fanno più.
EACO:
Santissimo uomo! Torniamo da quest’altro.
DIONISO:
Oooh, oooh!
EACO:
Che c’è?
DIONISO:
Arriva la cavalleria!
EACO:
E c’è da piangere?
DIONISO:
E' che sento puzza di cipolle.
EACO:
Allora, non ti scansi?
DIONISO:
Neanche per sogno!
EACO:
E torniamo adesso da quest’altro!
XANTIA:
Ahimè!
EACO:
Che succede?
XANTIA:
Una spina! Levamela.
EACO:
Che balla! Torniamo da quell’altro.
DIONISO:
Apollo mio!… «che Delo o Pito reggi»!
XANTIA:
Hai sentito male?
DIONISO:
Io? No! Mi ripassavo un giambo di Ipponatte.
XANTIA:
Perdi tempo: pestagli la trippa, invece!
EACO:
Sì perdio: qua la pancia.
DIONISO:
Posidone mio!
XANTIA:
Non è dolore?
DIONISO:
«…tu che negli abissi
il Capo egeo governi
o la glauca…»
EACO:
Per Demetra, non ce la faccio a capire chi è dio, fra voi due! Entrate, adesso. Vedrà di
riconoscervi il padrone, e sua moglie Persefassa: sono dèi pure loro.
XANTIA:
Hai ragione. Per me, però, facevi meglio a pensarci prima: mi risparmiavo le mazzate.
(Escono)
[…]
CORIFEO (ad Eschilo ed Euripide):
Cominciate subito, spicciatevi. Attenti a dire cose fini: niente baggianate, o roba che chiunque
è buono.
EURIPIDE:
Va bene: io quello che valgo come poeta, ve lo faccio vedere da ultimo. Prima devo
smascherare lui, che sonoro imbroglione è stato, come ingannava gli spettatori innocenti,
ereditati da Frìnico: li imbottiva di scemenze! Per cominciare, ti metteva a sedere un
personaggio imbacuccato, Achille magari o Niobe, senza farne vedere la faccia: l’anticamera
della tragedia, non sputavano mezza parola.
DIONISO:
Vero, perdio, neanche mezza!
EURIPIDE:
Il coro poi infilava quattro cantate intere, una dietro l’altra: e quelli, sempre zitti.
DIONISO:
A me, il silenzio, mi piaceva: mi divertiva, almeno quanto le chiacchiere che fanno oggi.
EURIPIDE:
Perché eri un imbecille. Impara!
DIONISO:
Hai ragione: ma perché faceva così, questo signore?
EURIPIDE:
Per fare colpo: e lo spettatore ad aspettare come un idiota, che Niobe si decidesse a parlare. La
tragedia intanto traccheggiava.
DIONISO:
Che stupidaccio, quante me ne ha fatte bere! (A Eschilo) Perché ti contorci, che ti piglia?
EURIPIDE:
Perché lo smaschero! Dopo tutte queste scemenze, arrivato il dramma a metà, sparava
all’improvviso una dozzina di parole grosse come buoi, accigliate e impennacchiate: certi
spauracchi, mai sentiti dagli spettatori!
ESCHILO:
Povero me!
DIONISO:
Zitto!
EURIPIDE:
Mai detta una cosa chiara…
DIONISO (a Eschilo):
Non ti mordere le labbra!
EURIPIDE:
E sempre lo Scamandro e le trincee e i grifoni scolpiti nel bronzo degli scudi: parole da
rompicollo, bravo chi le capiva.
DIONISO:
Accidenti, «una volta per lungo tempo il sonno mi lasciò»: cercavo di capire, la notte, che
uccello è il «fulvo ippogallo»!
ESCHILO:
Lo stemma delle navi, ignorante: c’è scolpito!
DIONISO:
Credevo che era il figlio di Filòsseno, Erissi.
EURIPIDE:
Che bisogno c’era, comunque, di infilarci anche i pollastri, nelle tragedie?
ESCHILO:
E tu, Dio ti maledica, cos’è che sapevi fare?
EURIPIDE:
Né ippogalli, perdio, né ircocervi, come facevi tu: anche se li ricamano sui tendaggi persiani.
Appena presa la tragedia dalle mani tue, gonfia di parole boriose e insopportabili, l’ho fatta
subito dimagrire, calare di peso, con versicoli, piroette…
ESCHILO:
… e bietole bianche: le davi decotti di chiacchiere, spremute di libretti.
EURIPIDE:
Poi l’ho rinforzata, a furia di serenate…
ESCHILO:
…e la mandavi a letto con Cefisofonte.
EURIPIDE:
Comunque, non parlavo a vanvera, né mi buttavo in scena alla cieca. Il primo che usciva, gli
facevo subito dire che razza di dramma trattava…
ESCHILO:
Sempre meglio della tua, perdio!
EURIPIDE:
Poi, fin dal primo verso, non lasciavo niente in sospeso: parlavano tutti nella mia tragedia,
donna o schiavo che fossero, padrone, ragazza o vecchia, non importa!
ESCHILO:
Svergognato, e non ti dovevano accoppare?
EURIPIDE:
No, per Apollo: ero un poeta democratico, io!
DIONISO:
Lascia correre, amico. Meglio non toccare questo tasto.
EURIPIDE:
Comunque, gli ho insegnato come si chiacchiera, a questi qui… (indica gli spettatori).
ESCHILO:
Dovevi schiattare, prima di insegnarlo!
EURIPIDE:
…a infilarci regole sottili, a squadrare le parole: riflettere, tramare, frodare, amare, intrigare,
quindi a sospettare, pasticciare tutto…
ESCHILO:
Sfido io!
EURIPIDE:
Mettevo in scena cose di tutti i giorni, che ci capitano normalmente. E affrontavo il rischio di
essere contestato: esperti, invece, di che si trattava, davano la colpa alla mia arte. Ma non
sparavo all’impazzata, non cercavo di impressionarli, inventando i vari Cicni e Mèmnoni a
cavallo di giumente, con piastre e sonagli. Prova a vedere che discepoli abbiamo, io e lui: i suoi
sono Formisio e Megèneto detto il Maniaco, baffi lance trombette, ridicoli fanfaroni. I miei,
Clitofonte e Teràmene, raffinatissimo.
DIONISO:
Teràmene? Sì, proprio un dritto, capace di tutto: se sbatte in un guaio e sta per restarci, un
salto e fuori. Beato lui!
EURIPIDE:
Con tale sistema
io costringevo a meditare
tutta questa gente introducendo
nella tragedia logica
e riflessione. Ne consegue
che oggi tutto sanno sviscerare
razionalmente amministrare
meglio la casa che nel passato
indagando: «Come è questa cosa?».
«Dov’è andata quell’altra:
chi se l’è presa?».
DIONISO:
Sì per gli dei. Adesso
non c’è Ateniese che rientrando
non si metta a cercare e gridi
con gli schiavi: «Dov’è la pignatta?»
Chi s’è fottuta la testa
delle acciughe? E il piatto
dell’altro anno è defunto?
L’aglio di ieri dov’è?
Le olive chi se l’è spazzolate?».
Prima erano dei pezzi d’imbecilli
cocchi di mamma
bocche aperte
accucciati lì come idioti.
[…]
ESCHILO:
Ma tu i Prologhi, come li facevi?
EURIPIDE:
Te lo spiego subito. E se dico due volte la stessa cosa, o se vedi zeppe che non c’entrano,
sputami in faccia!
DIONISO:
Dài, parla: crepo dalla voglia di sentire come sono azzeccate, le parole dei tuoi Prologhi.
EURIPIDE:
«Una volta era uomo felice Èdipo…»
ESCHILO:
Neanche per sogno: sfortunato dalla nascita! Quando a uno, prima di nascere, Apollo gli
predice che deve ammazzare il padre ancora prima di vedere la luce, come fa ad essere stato
felice un uomo simile, «una volta»?
EURIPIDE:
«…poi divenne il più sventurato
dei mortali».
ESCHILO:
No perdio, niente «divenne»: lo è sempre stato! Eccome! Per cominciare, appena nato lo
esposero che era inverno, in una giara: volevano evitare che diventato grande uccidesse il
padre. Poi si trascinò da Pòlibo e gli vennero i piedi gonfi. Poi, giovane com’era, sposò una
vecchia, che per giunta era sua madre. Per finire, si accecò!
DIONISO:
Più fortunato, se avesse combattuto con Erasìnide [generale giustiziato dopo le Arginuse,
N.d.R.]!
EURIPIDE:
Idiozie: io non so fare i Prologhi?!
ESCHILO:
Perdio, non te li voglio straziare verso per verso, ma se Dio vuole, te li distruggo con una
boccetta, i tuoi Prologhi!
EURIPIDE (beffardo):
Tu, con una boccetta: i miei!
ESCHILO:
Una sola! Il sistema tuo è questo: qualunque cosa scrivi, uno straccetto, una boccetta, un
sacchetto, ci stanno sempre bene nel verso. Te lo dimostro subito.
EURIPIDE:
Sì? Dimostrarlo tu…
ESCHILO:
Vedrai!
EURIPIDE:
Ne recito uno:
«Egitto – è la storia più diffusa –
che con cinquanta figlie su un naviglio
stava per approdare ad Argo…»
ESCHILO:
«…perse la boccetta».
EURIPIDE:
Che c’entra la boccetta? Lo sistemo io!
DIONISO:
Recitagli un altro Prologo: vediamo un’altra volta!
EURIPIDE:
«Dioniso con tirsi e pelli
di cerbiatte rivestito
tra le fiaccole giù per il Parnaso
saltando e danzando… »
ESCHILO:
«…perse la boccetta».
DIONISO:
Dio che strazio, ancora la boccetta!
EURIPIDE:
Altro che scocciare: a questo Prologo qua, ha voglia di affibbiarci la boccetta!
«Non v’è uomo che in tutto
possa dirsi felice: chi nacque bene
gli mancano i mezzi
chi nacque male…»
ESCHILO:
«…perse la boccetta».
DIONISO:
Euripide…
EURIPIDE:
Che c’è?
DIONISO:
Meglio ammainare: la bufera che scatena, questa boccetta…
EURIPIDE:
Per Demetra, non ci penso neanche: vedrai, tra poco gli scoppia in mano!
DIONISO:
Va bene, recitane un altro: e piantala con la boccetta.
EURIPIDE:
«La sidonia città abbandonata
un tempo Cadmo di Agènore il figlio… »
ESCHILO:
«…perse la boccetta».
DIONISO (a Euripide):
Benedetto uomo, ricompragli questa boccetta, così non ci strazia più i Prologhi.
EURIPIDE:
Cosa? Comprargliela io?
DIONISO:
Se mi dessi retta!
EURIPIDE:
Niente affatto: un sacco di Prologhi gli posso recitare, dove la boccetta vedremo se ce
l’affibbia.
«Pèlope di Tàntalo stirpe
a Pisa movendo su veloci cavalle…»
ESCHILO:
«…perse la boccetta».
DIONISO:
Lo vedi? Un’altra volta la boccetta ci ha affibbiato! Pagagliela, sei ancora a tempo: con un
obolo, ne compra una meravigliosa!
EURIPIDE:
Neanche per sogno: sapessi quanti ne ho ancora!
«Un tempo Èneo in campagna…»
ESCHILO:
«…perse la boccetta».
EURIPIDE:
E lasciami almeno recitare tutto!
«Un tempo Èneo in campagna
una immensa spiga afferrando
per sacrificarla primizia agli dei…»
ESCHILO:
«…perse la boccetta!».
DIONISO:
In mezzo al sacrificio? E chi gliel’ha fottuta?
EURIPIDE:
Lascia stare, amico! Che ci provi con questo:
«Zeus che come in verità si dice… »
DIONISO:
Sei fottuto. Subito dirà: «…perse la boccetta!». Quest’accidente di boccetta, ci sta sui tuoi
Prologhi come un orzaiolo. Passa alle parti liriche, ti prego!
EURIPIDE:
Vi posso dimostrare facilmente che è un cattivo poeta lirico: sempre la stessa musica! […]
«Come degli Achei la possa
dal duplice trono ellenica
giovinezza…»
parapàm papàm parapàm papàm.
«La Sfinge cagna patrona
di sventurati giorni invia…»
parapàm papàm parapàm papàm.
«…impugnando l’asta della vendetta
l’impetoso uccello…»
parapàm papàm parapàm papàm.
«…combinando un incontro
con le sfrontate cagne
che vagano nell’aere…»
parapàm papàm parapàm papàm.
«le parti che per Aiace inclinano…»
parapàm papàm parapàm papàm.
DIONISO:
Che è questo «parapàm papàm»? Dove le hai scovate musichette simili, a Maratona o in bocca
a un facchino?
ESCHILO:
Ma io le ho perfino perfezionate: se no pareva che mietessi lo stesso campo, sacro alle Muse, di
Frìnico. Lui, invece, i canti li copia da per tutto: in bocca alle sgualdrine, dagli stornelli di
Melèto, sentendo fischiettare i servi, dai mortori, dalle tarantelle. Lo smascheriamo subito:
portatemi la mia lira! Del resto, che bisogno c’è della lira, per roba simile? Dov’è quella con le
nacchere?
(Alla danzatrice accorsa)
Vieni, musa di Euripide, i suoi canti li devi accompagnare tu!
DIONISO:
Una musa così, neanche a Lesbo: sai le ciucciate!
ESCHILO (parodiando Euripide):
Alcioni che sulle onde
perenni del mare squittite
le ali spruzzando lievemente
con umide stille imperlate
di rugiada, e voi ragni
che alle gronde dei tetti aggrappati
con le vostre dita
robuste tele avvo-vo-vo-volgete
cura di aedica spola
ove il musico delfino rimbalza
incontro alle prore
dal nero sprone presagi e corse…
Gioia della vite in fiore
una corolla di tralci
cingimi al collo
requie al dolore o figlio!
(Accennando ad un passo di danza)
Lo vedi questo passo?
DIONISO:
Lo vedo!
ESCHILO:
Allora, lo vedi questo?
EURIPIDE:
Lo vedo.
ESCHILO:
Fai passi come questi, e hai la faccia di criticare le mie liriche?? Le tue conoscono le dodici
mosse di Cirene la puttana!
Ed ecco sistemate le tue liriche! Ma voglio anche vedere che combini, coi tuoi famosi «assolo».
(Intona parodicamente)
Tenebra scintillante dell’oscura
Notte, qual mai sogno
angoscioso messaggero dell’Ade
senza luce mi invii?
Anima disanimata della nera
Notte, figlia raggelante
visione tetra dai funerei
panni. Sangue
minaccia dagli occhi
sangue: enormi ha gli artigli.
Ancelle, accendetemi un lume
rugiada attingete dai fiumi
con le brocche l’acqua:
scaldate per lavarmi
del sogno presago. Signore
del mare, tutto si spiega:
o familiari, qual prodigio,
guardate! Mi ha rubato
il gallo Glice
ed è sparita:
Ninfe figlie dei monti
e tu Manìa aiutami!
Io sventurata
badavo ai miei lavori
con queste mani un fuso
avvo-vo-vo-volgevo di molto lino
per farne gomitolo:
volevo andare a venderlo
prima di giorno al mercato.
Lui ha preso, ha spiccato
il volo su nell’Etere
librato sull’ali puntute
dolore dolore mi ha lasciato
lacrime lacrime dagli occhi
ho versate versate infelice!
E voi Cretesi figli
dell’Ida soccorretemi
con i vostri archi
le gambe agitando la casa
circondate! Assieme la vergine
cacciatrice Artemide
la Bella si precipiti
per tutte le stanze seguìta
dalle sue cagne. Tu figlia
di Zeus, levando doppieri
dalla fiamma aguzza,
Ècate, alla casa di Glice fammi
luce: voglio andare a ripescarlo!
DIONISO:
Finitela adesso con i pezzi lirici!
EURIPIDE:
Basta anche per me.
DIONISO:
Vi voglio trascinare sulla bilancia: l’unico modo per sapere quanto vale questa poesia. Avremo
il peso esatto dei versi.
Allora, venite qua. Mi tocca pure questo, pesare l’arte di due grandi poeti: manco vendessi il
formaggio!
Portano fuori una bilancia.
CORO:
Il genio è pazienza:
ecco un’altra sorpresa
nuovissima del tutto
inaspettata. Chi altro
avrebbe saputo inventarla?
Perdinci me l’avesse
detto il primo venuto
chi ci credeva? Avrei pensato
che dicesse panzane.
DIONISO:
Avanti: ognuno vicino a un piatto!
ESCHILO ED EURIPIDE:
Ecco!
DIONISO:
Prendetelo in mano, e dite un verso per ciascuno. Non lo mollate, prima che io dica "Cucù!"
ESCHILO ED EURIPIDE:
Lo teniamo!
DIONISO:
Allora, ognuno reciti il suo verso: sopra la bilancia!
EURIPIDE:
«Mai si fosse involata la nave d’Argo».
ESCHILO:
«Sperchèa riviera e pascoli bovini».
DIONISO:
Cucùùù!
ESCHILO ED EURIPIDE:
Mollato!
DIONISO:
Quello dell’ultimo va molto più giù.
EURIPIDE:
E la ragione, sarebbe?
DIONISO:
Sarebbe? Lui ci ha messo un fiume e il verso ha preso acqua: come la lana, dai mercanti. Tu
invece, ci hai messo un verso alato…
EURIPIDE:
Faccene dire un altro: la rivincita!
DIONISO (indicando i piatti della bilancia):
Prendeteli un’altra volta.
ESCHILO ED EURIPIDE:
Ecco fatto.
DIONISO:
Recita!
EURIPIDE:
«Altro tempio non ha Suggestione che la parola».
ESCHILO:
«La morte sola fra gli dei non ama doni».
DIONISO:
Mollate, mollate!
ESCHILO ED EURIPIDE:
Mollato!
DIONISO:
E' ancora il suo che scende: ci ha messo la morte, un guaio più pesante.
EURIPIDE:
E io invece la suggestione: mai parola più bella!
DIONISO:
La suggestione? Roba vuota, scriteriata. Perdio, cercane un altro, un peso massimo, da
schiantarla: grosso, robusto!
EURIPIDE:
Accidenti: dove la vado a pescare roba simile?
DIONISO:
La dico io:
(citando Euripide)
«Tirò i dadi Achille: un due e un quattro».
Su, recitate: un ultimo round!
EURIPIDE:
«Grave come ferro con la destra prese un tronco».
ESCHILO:
«Carro su carro e morto sopra morto».
DIONISO (a Euripide):
Te l’ha fatta un’altra volta!
EURIPIDE:
In che modo?
DIONISO:
Ci ha piazzato due carri e due cadaveri: neanche cento negri li solleverebbero!
ESCHILO:
Basta con la sfida dei versi. Ci vada a sedere lui stesso, i figli, la moglie con Cefisofonte, dentro
la bilancia, ci metta pure tutti i libri: a me, altri due versi dei miei, mi basta dire!
DIONISO (fra sé):
Due cari amici: come faccio a giudicare? Non mi voglio guastare con nessuno. La verità?
Questo mi pare bravo, l’altro mi piace.
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