«Un capolavoro rimasto senza eredi Verdi dimostra tutta la sua

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i bis chiesti la sera della prima: il
coro Fuoco di gioia (primo atto), il
Credo (secondo atto, ma non fu
accordato), l’Ave Maria e l’interludio
dei contrabbassi (quarto atto)
10
gennaio 1884: viene rappresentato
alla Scala Don Carlo, la revisione
dell’opera del 1867 scritta su testo
francese per l’Opéra di Parigi.
Verdi la riduce in quattro atti
3
le voci tenorili nei personaggi
dell’opera: Otello, Rodrigo e Cassio.
Jago è baritono, Montano e Ludovico
sono bassi. Desdemona è soprano,
Emilia mezzo-soprano
L’ESPLOSIONE DEL «FUROR» Otello esasperato da Jago lo atterra nel grande duetto verso la fine del secondo atto
(per concessione Museo Teatrale alla Scala)
L’INTERVISTA IL MUSICOLOGO JULIAN BUDDEN SPIEGA LE INFLUENZE E GLI SLANCI INNOVATIVI DELL’OPERA
«Un capolavoro rimasto senza eredi
Verdi dimostra tutta la sua modernità»
Alessandro Cannavò
sservato, analizzato, «dissezionato», esplorato a fondo, nota per
nota. E infine rivalutato e nuovamente amato. Se fosse in vita,
Verdi dovrebbe forse dire grazie a Julian
Budden per la passione e la meticolosità
spese in tanti anni di studi e ricerche su
di lui. E per aver contribuito in buona
parte a quel «riscatto» nello scenario musicale mondiale, cominciato negli anni Settanta. Di certo, il monumentale libro in tre
volumi di Budden «Le opere di Verdi»
(ed. Edt/Musica) pone questo musicologo
inglese che vive spesso a Firenze, (in
passato è stato anche produttore radiofonico della Bbc) tra i massimi esperti del
compositore di Busseto e, più in generale,
della musica operistica italiana dell’Ottocento. «L’ho scritto tra il ’73 e l’81. Inizialmente doveva essere solo un volume, ma
nel frattempo sono usciti altri libri sull’argomento. E allora ho capito che sarei dovuto andare più in profondità degli altri. In
inglese erano complessivamente 1500 pagine. Tradotte in italiano, molte di più»,
dice lo studioso con una flemma e un
understatement tipicamente britannici.
Professor Budden, la grandezza e la
fama di «Otello» sono pari alla lunga
attesa che si ebbe per vedere nascere quest’opera, nel 1887. Era infatti
dal 1871 con «Aida» che Verdi non
componeva un nuovo lavoro operistico...
«I sedici anni che intercorrono tra le due
opere non sono un periodo di inattività.
Bisogna considerare che agli inizi di questa fase Verdi è totalmente occupato nella
realizzazione del Requiem. Ho trovato indizi che spiegano come l’idea di questa
composizione risalga agli anni Sessanta,
all’epoca del rifacimento del Macbeth, prima cioè dell’aver definito la sua natura di
Messa in onore di Rossini, che poi, com’è
noto, viene battezzata nel primo anniversario della morte di Manzoni. Da quel
momento, è il 1874, c’è effettivamente un
periodo di pausa che dura cinque anni in
cui Verdi, rifugiato nella villa di sant’Agata, compone soltanto un’Ave Maria e un
Pater Noster. Ma dal ’79, quando Giulio
Ricordi e Arrigo Boito gli propongono
l’idea di Otello, io penso che Verdi abbia
sempre lavorato per l’opera. In quest’ottica si può vedere la revisione del Simon
Boccanegra del 1881 che già anticipa,
per esempio nel nuovo finale, il linguaggio stilistico di Otello. E la stessa cosa si
può dire della versione italiana, nel
1884, del Don Carlos, come dimostra il
duetto tra Rodrigo e Filippo».
Sono comunque per Verdi anni di studio, di osservazione, di sperimentazione. Quali influenze di altri compositori si trovano in Otello? Dopo la prima
scaligera si parlò subito di un’opera,
priva di strutture chiuse, con caratte-
O
ristiche di scrittura wagneriana...
«Ci sono punti in cui Otello svela un’ispirazione alla musica del Settecento. Si pensi al terzetto Jago-Cassio-Otello della famosa scena del fazzoletto dove c’è un chiaro
richiamo a Scarlatti. Quanto a Wagner,
credo che sia stata esagerata la sua influenza. Certo, il duetto tra Otello e Desdemona, la sua struttura, il progredire della
melodia deve qualcosa al duetto Lohengrin-Elsa nel terzo atto di Lohengrin, opera che Verdi cominciò a conoscere a Bologna sin dal suo arrivo in Italia nel 1871.
All’inizio era un po’ dubbioso, col tempo
riuscì ad apprezzarla sempre di più. Già
in Aida, nel duetto di Radames e Amneris
del quarto atto, questa presenza è evidente. Sono particolari che però testimoniano
un’influenza un po’ superficiale. Piuttosto
sono da notare i tocchi moderni dell’opera. Il primo accordo di Otello è una undice-
sima di dominante non risolta (la sovrapposizione di tutte le note della scala, tranne
il la, ndr) una dissonanza molto particolare che Mascagni tre anni dopo riprende
anche nella stessa tonalità per l’inizio della Cavalleria Rusticana. Ma lui, a differenza di Verdi, poi sente più tradizionalmente
il dovere di risolvere questa dissonanza. Il
Verdi ultrasettantenne dà, invece, uno straordinario esempio di sperimentazione. La
verità è che capolavori come Otello o
Falstaff restano isolati nel tempo, non hanno eredi veri e propri. Ma forse è proprio
questa la caratteristica dei capolavori».
Il valore dell’«Otello» sta anche nel
soggetto scespiriano e nel raffinato libretto di Boito...
«In tutta la sua attività, Verdi non ha mai
messo mano a un soggetto che non lo
convincesse in pieno. Con la vecchiaia poi
era diventato più simpatico, meno permalo-
«Le idee musicali di "Otello"
sono già anticipate nella
revisione del "Simon
Boccanegra" e nel
rifacimento del "Don Carlos".
A differenza che nel
"Macbeth", si coglie, grazie
anche a Boito, la poesia
scespiriana. Desdemona si
riscatta e diventa ideale di
femminilità»
La Tempesta e il «demone» di Kleiber
Paolo Isotta
uant’è brutta la cosiddetta Tempesta
dell’Otello. Verdi è così furbo, lì, da
simulare una scrittura, a dir così,
«sperimentale» perché la grande pagina
sinfonica «descrittiva», con una sua forma, non
gli riusciva. Meglio, non gli riusciva alla
moderna, e in quest’opera Egli vuole mostrarsi
l’aggiornato degli aggiornati che finge di
nasconderlo al suo pubblico. La Tempesta è quasi
un insieme di suoni disposti a mo’ di effetti senza
causa. Ne ascoltai un’esecuzione diretta da uno
specialista della musica
contemporanea che ne aveva
fatto un tale ammasso di suono,
con la percussione che copriva
tutto il resto, che quasi era
riuscito ad assimilare Verdi ai
suoi amati Varèse, Manzoni...
Per me, e fino a quando non
troverò un interprete capace di
PODIO Carlos Kleiber trascendere il cattivo gusto della
pagina e dei cosiddetti Fuochi
di gioia, i due pezzi resteranno sempre legati a
una serata indimenticabile, quel 7 dicembre del
1976 Carlos Kleiber sul podio! Lo rividi, poi,
quando trasmisero in televisione la serata: quindi,
inquadrato di prospetto. Certi magnetismi
personali fanno sì che tu riesca a vedere gli occhi
di qualcuno anche se ti dà le spalle. I guizzi dei
fulmini, molto più del rombo del tuono: quello
contenevano, o da quegli occhi straripavano. Il
volto di Carlos Kleiber aveva assunto
un’espressione demonica, non demoniaca, il che
vediamo in talune fotografie di Victor De Sabata,
Q
il direttore al quale sotto alcuni profili lo si
accosterebbe di più. Aveva un volto cattivo,
tant’era posseduto da quella cattiva musica. Che
rese buona: possente, spogliandola della
grossolanità. Incredibile, avrei scommesso qualsiasi
cosa che avrebbe dato l’attacco senza, per aiutare
l’orchestra, battere la «misura a vuoto»: fece così,
invece, quasi umile gregario del mestiere, ma i
guizzi e i trilli si scatenarono vieppiù. Aguzzo, me
lo ricordo quell’Otello: perché sempre riflesso
dall’espressione demonica di quel volto, di quel
naso grifagno... Ma soprattutto ricordo questo:
altri l’avrà diretto meglio, altri l’avrà cantato
meglio, sebbene il grande Domingo, il grande
Cappuccilli non siano sostituibili. Ma Carlos, le
scelte musicali del quale sono un mistero e
segnano, purtroppo, lo scompenso di una
personalità, Carlos dirigeva creando e ricreando
la pagina di Verdi. Perché ci credeva con
un’intensità disumana. Il tormento d’essere alfiere
e non capitano; l’insicurezza d’essere negro;
l’amore per la dolcissima che l’ammirava e
insieme gli portava pietà; l’essere legato alla
croce per la gelosia; il disperato dialogo del Moro
con Dio; la stretta fatale al collo, poi l’ultimo
bacio sulle zuccherose armonie: tutto provava
Kleiber, perché lo riviveva istante per istante. Il
Padreterno, solitamente parsimonioso, in questo
caso ha dato troppo a questo direttore: si capisce
che non salga quasi mai più sul podio, tanto
ogni volta gli costa. Ma perché il Padreterno
ascolta così benevolmente il Diavolo al quale sta
a cuore il benessere dei colleghi di Carlos
Kleiber?
so, più aperto alle idee altrui. Qui naturalmente si confronta con la grandezza di
Shakespeare, ma non è la prima volta. Se
nel caso di Macbeth Verdi era riuscito a
cogliere l’essenza del dramma ma non la
sua atmosfera notturna, con Otello sa assimilare anche la poesia del grande drammaturgo inglese. E qui risplende tutto il merito di Boito. Essendo un musicista, Boito
capisce che nel testo bisogna dar spazio a
Verdi per cercare nella frase musicale la
poesia. Ci sono così passaggi in cui i versi
scespiriani diventano più ampi per questo
fine, come nella seconda scena del terzo
atto quando Otello, ormai sicuro del tradimento di Desdemona, la insulta come vil
cortigiana».
Da Tamagno che lo interpretò per
primo a Del Monaco, Otello ha rappresentato uno stile ben definito, quello del tenore eroico. Poi nell’era Domingo si è acquistata una maggiore
introspezione...
«Io penso che la statura eroica, il titanismo vocale, siano in qualche misura necessari ed è per questo che tenori di prima
grandezza come Bergonzi non hanno osato
cimentarsi con quest’opera. Domingo non
ha forse queste caratteristiche ma ha una
intelligenza interpretativa tale da apparirmi convincente».
Quali sono le differenze tra Shakespeare e Verdi nel tratteggiare la personalità di Jago, il motore negativo di tutta
la vicenda?
«Per Shakespeare Jago è il male assoluto.
Il drammaturgo lascia oscuri i motivi della
sua azione, secondo lui non si può ragionare sul male, considerato un mero istinto.
Invece il Credo di Jago nel secondo atto
dell’opera verdiana è una sorta di giustificazione della negatività: una differenza
sostanziale».
Qual è la vera personalità di Desdemona? Perché Verdi e Boito la «fotografano» solo mentre si rivolge alla Madonna nell’atto finale?
«In realtà la Desdemona verdiana è molto
più nobile e di spessore rispetto a quella
scespiriana che risulta un figura non risolta, piuttosto stupida. Qui invece c’è un’ideale di femminilità di cui Verdi parla in
una lettera alla sua confidente, la contessa
Maffei, durante la lunga elaborazione dell’opera: donne come Desdemona sono rare
da trovare, non di meno esistono davvero.
E la musica avvalora questa visione, essendo lei accompagnata da note miti, accarezzanti».
In conclusione, professor Budden. In
una classifica delle opere verdiane, in
quale posto collocherebbe Otello?
«Molto difficile da dire, ogni volta che
ascolto una grande opera subito dopo è
già in testa alla mia graduatoria. Diciamo
che Otello è un capolavoro. E questo basta».
SCALA
2001-2002
CORRIERE
EVENTI
3
LO SCENARIO
74
gli anni di Giuseppe Verdi quando
debutta l’Otello alla Scala. «Il posto
che teneva in me era così grande
che ne sento ora il vuoto enorme»
confessa il maestro
Le fasi
La creazione
Penultima opera
dopo 16 anni
Otello va in scena il 5
febbraio 1887, è la
penultima opera di
Verdi. Dalla sua
creazione precedente,
«Aida» (Il Cairo, 24
dicembre 1871) sono
passati quasi sedici
anni. Verdi in quel
periodo rimette mano
a due suoi precedenti
lavori: «Simon
Boccanegra» del 1857
(che va in scena nel
rifacimento alla Scala
il 24 marzo 1881) e
«Don Carlos» (1867)
presentato al pubblico
scaligero nella
versione italiana il 10
gennaio 1884. Verdi,
inoltre, lavora alla
«Messa di requiem».
Gli anni comunque
passano e il maestro
non esce dal suo ritiro
nell’amata casa di
Sant’Agata.
Il progetto
Ricordi, artefice
dietro le quinte
Gli editori Ricordi sono
sempre stati legati da
amicizia con Verdi.
Giulio Ricordi conosce
l’ammirazione del
compositore per
Shakespeare e pensa
a un «Otello», da lui
musicato su libretto di
Boito. Cogliendo
l’occasione della
presenza a Milano di
Verdi nel 1879 per
dirigere la «Messa di
requiem» per le
vittime dell’alluvione,
Ricordi organizza una
cena invitando il
compositore, la moglie
e Franco Faccio. La
proposta piace a Verdi
che però non si
sbilancia. Prima vuole
vedere la stesura
completa del poema.
Tra lui e Boito ci sono
antichi malintesi che
la suscettibilità di
Verdi non è riuscito
ancora a perdonare.
Comunque tra la
discreta insistenza di
Ricordi, la diplomazia
di Boito, la
sollecitudine di Faccio
ormai designato a
direttore d’orchestra,
la collaborazione tra
Boito e Verdi si
rinsalda (grazie anche
alla sua revisione del
«Simon Boccanegra»).
La stesura
Tempi lunghi
per stupire
Il libretto dell’Otello è
consegnato nel 1879
al compositore che lo
apprezza. I tempi
saranno ancora
lunghissimi. Fino al
1884 Verdi non scrive
nemmeno una nota. Si
limita a lavorare con
Boito ad alcune
modifiche del libretto.
La lunga attesa fa
preoccupare Ricordi
che non perde la
speranza. Ogni Natale
dal 1881 invia ai
coniugi Verdi un
panettone con un
«moretto» di
cioccolata. Lo scherzo
piace al musicista
che, per mantenere il
segreto sulla sua
creazione, la comincia
a chiamare
cioccolatte. Il titolo a
cui pensa Verdi
inizialmente è «Jago»,
poi accetta la sfida
del confronto con
l’opera di Rossini e
decide per «Otello».
Dall’84 Verdi, sia pur
con alcune pause, non
si ferma più. L’86 è
dedicato alla
strumentazione, il 18
dicembre dello stesso
anno consegna il
manoscritto a un
copista inviato da
Ricordi. Si è già
occupato di nominare
la compagnia di canto
e sceglie di persona
lo scenografo Ferrario
e il costumista Alfredo
Edel.