I PRECEDENTI STORICI DEL DIRITTO PARLAMENTARE VIGENTE

CAPO III
I PRECEDENTI STORICI
DEL DIRITTO PARLAMENTARE VIGENTE IN ITALIA
di Paolo Ungari
CAPO
III.
I PRECEDENTI STORICI DEL DIRITTO PARLAMENTARE
VIGENTE IN ITALIA
1. Storia e storiografia del diritto parlamentare. — 2. Gli antichi
parlamenti italiani. — 3. Dalle Repubbliche giacobine ai Regni Napoleonici. — 4. Esperienze e dibattiti risorgimentali. — 5. Il Parlamento
subalpino. — 6. Il diritto parlamentare italiano nell'età liberale. — 7. La
guerra mondiale e la proporzionale. — 8. Le Camere nel periodo fascista. — 9. Il regime costituzionale transitorio e la Consulta. — 10. Continuità del diritto parlamentare italiano.
SOMMARIO:
1. - Secondo la classica definizione data in età giolittiana dal Miceli,
per diritto parlamentare si intende « il complesso dei rapporti politicogiuridici che si sviluppano all'interno di una assemblea politica, o tra
le assemblee politiche esistenti in uno Stato, o fra esse e gli altri pubblici poteri - quindi le norme che formulano e regolano tali rapporti, e
la scienza che le studia » (1910).
Ribaltando su un piano diacronico questa linea di visuale, si ha
subito la misura dell'insufficienza di una mera storia dei regolamenti
scritti delle Camere, come successione cronologica empirica di meccanismi di procedura, eventualmente ravvivata da cenni sulle relazioni o discussioni che abbiano preparato l'adozione o il rigetto dei singoli congegni. Per raggiungere l'effettivo piano storiografico, dove quella successione viene ad atteggiarsi come svolgimento e processo, si dovrà allargare lo sguardo all'intero orizzonte delle fonti, dirette e indirette, del
diritto parlamentare : costituzione scritta, consuetudini di diritto pubblico,
norme di correttezza costituzionale, leggi ordinarie, consuetudini interne
delle Assemblee ed anche mere prassi applicative.
Su questo sfondo, l'apparente immobilità delle norme regolamentari cede alla visione di un effettivo e continuo sviluppo del diritto parlamentare, che non si può pensare storicamente isolato dall'organismo
della costituzione ed è nella sua vicenda quotidiana, come law in action,
sensibilissimo al mutare degli equilibri costituzionali e politici. Tale
vicenda va dunque letta come capitolo di una storia costituzionale
d'Italia: non solo nel senso di un continuo riferimento al quadro costi-
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tuzionale che presuppone, ma anche nell'altro, che proprio il jus Parliamenti - campo magnetico di tensioni che provengono da tutti i settori
dell'ordinamento, e parte delicatissima della trama dei raccordi fra le
istituzioni pubbliche, nonché fra apparato statale e società civile - concorre a definire il profilo della costituzione e può identificare tratti salienti dell'effettivo regime politico.
Il senso di una tale sua rilevanza è oggi acuito sia dal corso che ha
preso il dibattito politico-istituzionale, sia da quegli orientamenti di indagine nel diritto pubblico che pongono l'accento sulla prassi costituzionale e sulla possibilità stessa di modificazioni tacite alla Costituzione attraverso il diritto parlamentare. Tema dommatico che ha alle spalle una
lunga storia, e che a sua volta può essere fermento di interessi e problemi storici, tanto più se riferiti ad epoche a costituzione non rigida,
ma flessibile. A cominciare da quel punto di partenza obbligato, nella
storia del regime e del diritto parlamentare italiano sotto l'impero dello
Statuto albertino, che è l'interpretazione di quest'ultimo in senso « parlamentare » anziché « costituzionale puro » che prevalse fin dai primi
anni, con i suoi corollari. Caso esemplare di un jus Parliamenti contra
Constitutionem che si affermò come uno dei pilastri dell'edificio costituzionale, al punto da far apparire per questa parte eversiva la parola d'ordine « Torniamo allo Statuto », lanciata nel 1897 da Sidney Sonnino.
Ma la storia del diritto parlamentare italiano non ha il suo termine a
quo nei regolamenti delle Camere albertine. Come storia di istituti, essa
deve considerare anche quelli inscritti nelle costituzioni "giacobine" del
triennio rivoluzionario 1796-1799, e nelle costituzioni e statuti della Repubblica italiana, dei Regni napoleonici, del 1820-21, del '31, del '48-49:
ora rimasti sulla carta, ora invece articolati in regolamenti assembleari
o sviluppati attraverso più o meno durevoli pratiche parlamentari. Essi
rientrano, in ogni caso, di pieno diritto in una storia a largo raggio dell'esperienza costituzionale degli italiani moderni.
In senso ancora più ampio, vi rientra tutto quel processo culturale
attraverso il quale, mentre il mito del Parlamento si radica nelle coscienze, si forma nelle élites dirigenti del moto risorgimentale, attraverso
viaggi, letture, progetti, dibattiti su modelli istituzionali, una cultura
tecnica e una mentalità parlamentare. Senza risalire all'« anglomania »
italiana del Settecento, e senza ripercorrere itinerari degli esili del secolo seguente, già un Cattaneo che negli Annali universali di statistica
dà conto al pubblico lombardo dei dibattiti della Camera dei Comuni,
o un De Sanctis che nei gabinetti di lettura di Napoli si esalta alla
lettura, nel Journal des Debats, di quelli francesi sotto la Monarchia di
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Luglio indicano la diffusione di questo interesse. In una cerchia appena
più tecnica, non si può sottovalutare la fortuna europea di testi come
la Tattica parlamentare, nella quale il Bentham aveva delineato una
codificazione degli usi non scritti del Parlamento inglese destinandola
agli Stati Generali francesi del 1789: edito poi dal Dumont a Ginevra,
e letto, tradotto e citato spesso in Italia come vero e proprio book of
authority.
Quelle vicende e questa cultura formano il grande retroterra dell'esperienza parlamentare retta dallo Statuto albertino. Esperienza che
era poi mentalità radicata negli anziani uomini politici che giunsero
a sedere alla Consulta, alla Costituente, nelle prime Camere repubblicane, e presso i più giovani vi faceva autorità. Fu così possibile l'innesto
del regolamento in vigore nel 1922, che era poi quello del 1900 adattato al nuovo regime proporzionalistico, sul tronco della nuova Costituzione. La Camera vi tornò, il Senato, costruito su altri presupposti
da quelli del Senato del Regno, prescelse la stessa base per elaborare il
suo regolamento. Era la via già indicata dalla Costituente e prima ancora, come si vedrà nell'ultimo paragrafo, dalla Consulta : « dimostrazione vivente - è stato scritto - della continuità del diritto e del regime
parlamentare in Italia » (B. BUCCIARELLI Ducei).
2. - Non hanno invece che scarsa o indiretta attinenza al tema gli
antichi Parlamenti o, secondo altra terminologia, « preparlamenti » italiani, che pure si ricollegavano a quelle stesse formule istituzionali tardomedievali europee da cui nasce il Parlamento inglese. Non solo perché a fine Settecento l'istituto appare quasi in ogni parte d'Italia estinto,
non resistendo alla pressione livellatrice dell'assolutismo, così come del
resto dagli inizi del Seicento non si adunavano più gli Stati Generali
di Francia. E neppure tanto perché si trattasse di « assemblee di Stati »
- fondate sulla rigida divisione di ordini sociali ancien regime nobiltà
feudale o braccio militare, clero, borghesia privilegiata delle città regie
o demaniali - e non già di forme di rappresentanza politica generale.
Quanto, e soprattutto, perché non appaiono organi della sovranità,
investiti di una autonoma potestà legislativa e di indirizzo politico, ma
parti di un rapporto contrattuale improprio con il Principe (« leggi
pazionate ») o più spesso organi di rimostranza, di consultazione e di
petizione posti in certo modo al di fuori della struttura essenziale dello
Stato. Nulla che in essi anche lontanamente arieggi il principio che
contemporaneamente si afferma invece in Inghilterra della responsabilità
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dell'esecutivo nei confronti delle assemblee, tanto meno quello americano del Parlamento titolare del potere legislativo nel quadro di una
higher Law irremovibile. Mancano, soprattutto, del potere di autoconvocarsi: anche quando per le loro adunanze è prevista una periodicità annuale, più spesso triennale o decennale, non esiste mezzo legale
per riparare al difetto di convocazione. La certificazione dei loro atti
e deliberazioni è spesso affidata a un funzionario del principe, il Regio
Protonotaro in Sicilia, il Reggente la Reale Cancelleria in Sardegna.
« Nessun nostalgico o romantico amore del passato può farci dimenticare che nella loro concezione e funzione istituzionale, nella loro struttura, in toto insomma, essi fossero ormai, al termine del periodo considerato, poco meno che un'anticaglia, anzi avanzi davvero, come aveva
detto il marchese Domenico Caracciolo, di medio evo » (Marongiu).
Se l'Italia di fine Settecento appare un cimitero di Parlamenti, un
primato in materia spetta certamente alla casa di Savoja, posta di fronte
a più gravi problemi di amalgama e unificazione interna di domini
acquistati in tempi e a titoli diversi. Già nel Cinquecento, Emanuele
Filiberto aveva spento quelli delle due « patrie » di Savoja e di Piemonte, e alla fine Seicento risalivano ormai le ultime tornate del Parlamento di Saluzzo e degli « Stamenti » sardi; finalmente, nel 1766,
cessano di adunarsi anche gli « Stati » della Val d'Aosta. Che in circostanze eccezionali, e dopo aver respinto un tentativo di invasione francese, lo « Stamento » militare sardo presieduto dalla sua « prima voce »,
il marchese di Laconi, si autoconvochi e reclami da Vittorio Amedeo III nel 1793 il ristabilimento delle forme parlamentari, e che per
circa due anni una « deputazione » stamentaria assuma di fatto la direzione dell'amministrazione dell'isola, è vicenda effimera e presto chiusa.
Nel 1799, riparando in Sardegna, i Savoja accantonano le promesse
sessioni parlamentari, come avrebbero voluto fare anche i Borboni riparati in Sicilia se non lo avesse impedito la volontà dell'onnipotente
alleato inglese.
Dovunque le monarchie acquistassero forza, i Parlamenti scomparivano. Dopo l'ultima sessione del 1642, e dopo la rivolta di Masaniello, non si era più adunato quello del Regno di Napoli. Con il 1754
finivano, per volontà di Maria Teresa d'Austria, quelli di Gorizia e di
Gradisca. Solo Venezia, mantenendo immobile la sua struttura oligarchica di patriziato cittadino contro ogni tentativo di riforma (come
quella, proposta nel suo Consiglio politico da Scipione Maffei, di ammettere una limitata rappresentanza delle città di Terraferma avviandosi alla lontana verso forme all'inglese), consentiva però che si adu-
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nasse ogni anno il secolare Parlamento della « Patria friulana » in
Udine, nel quale aveva il maggior peso l'elemento feudale. Ma quanto
alla sostanza ancora racchiusa in queste forme, ha valore di giudizio
storico un passo assai noto delle Confessioni del Nievo : a Tutto adunque concorda a stabilire che quando il Magnifico General Parlamento
della Patria supplicava da sua serenità il Doge la licenza di giudicare
intorno a una data materia, il tenor della legge fosse già concertato
minutamente fra sua eccellenza il Luogotenente e l'eccellentissimo Consiglio dei Dieci [...]. Il magnifico General Parlamento invocava poi dalla
Serenissima dominante la conferma di quanto aveva discusso, deciso
ed approvato; e giunta la conferma, il trombetta nel giorno festivo gridava ad universale notizia e per inviolabile esecuzione la Parte presa
dal magnifico General Parlamento ».
In questo quadro generale, anche particolarità interessanti di procedura, come ad esempio il fatto che gli « Stamenti » sardi si reggessero secondo lo « stile » delle Cortes di Catalogna, e derivassero poi
da quelle d'Aragona l'istituto di una speciale commissione per i gravami o greuges per giudicare sugli abusi e illegalità degli organi e agenti
dell'amministrazione; o che in vari Parlamenti le tre « prime voci » di
ciascun ramo o braccio, o un'apposita deputazione, fossero sentiti dall'esecutivo nei lunghi intervalli fra due convocazioni - pèrdono nettamente importanza. Nulla di ciò passerà nell'esperienza parlamentare del
nuovo ciclo napoleonico e risorgimentale. Né le Restaurazioni del 18141815 restituiranno in vita queste forme esauste, tanto più in quanto
la chiusura di quella pagina ha segnato nuovi passi avanti sulla via
del rafforzamento strutturale delle amministrazioni centrali, recando a
compimento il vecchio sogno livellatore dell'assolutismo. L'affermazione di un sistema tributario più moderno era un altro acquisto importante, e toglieva ogni residuo significato alla sola competenza di
vero rilievo politico delle vecchie assemblee dello " Stato a ceti " fondato
su ordini sociali privilegiati (Standen-Staat) : quello di consentire i « donativi » della nazione al principe e le imposizioni straordinarie.
Il solo caso che meriti considerazione a parte, rappresentando un
anello di congiunzione fra i « preparlamenti » ancien regime e l'esperienza del Risorgimento, è quello della Sicilia, che sotto l'unico scettro
dei Borboni di Napoli costituiva però da secoli e restò fino al 1816
un Regno separato, con distinta amministrazione e proprie rappresentanze risalenti fino al Regno normanno-svevo di Federico IL La nobiltà, il clero, le città isolane avevano tenacemente difeso in ogni tempo
i privilegi e prerogative parlamentari, e ancora per tutto il Settecento
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le convocazioni avvenivano ogni tre anni. Quando i Borboni riparano
nell'isola si ha una crescente tensione fra il Parlamento e la monarchia, finché per la determinante pressione del rappresentante inglese,
lord Bentinck, si passa all'elaborazione di una nuova Costituzione, quella
del 1812. Benché posta nel nulla solo quattro anni dopo, con il recupero del Regno di Napoli e la fusione nell'unico Regno delle Due
Sicilie che pone termine alla secolare corona isolana, questa Costituzione assume eccezionale rilievo e significato sia perché codifica adattandoli alla realtà siciliana diritti e consuetudini del Parlamento inglese (del quale, retoricamente, si ricordava la matrice normanna comune a quello dell'isola); sia, in un secondo tempo, come mito del movimento costituzionalistico in Sicilia, e anche fuori di questa come
modello costituzionale che si propone alle classi dirigenti risorgimentali in alternativa a quelli della Charte francese e delle Cortes spagnole. Essa dà vita a una struttura bicamerale all'inglese, con commissioni miste dei due rami per comporre le divergenze su temi legislativi; vieta al re, sulla linea di precedenti inglesi e spagnoli, di recarsi
fuori dell'isola senza il consenso del Parlamento; accorda alla Camera
dei Comuni l'iniziativa esclusiva in materia di imposizioni, e a quella
dei Pari spirituali e temporali (ecclesiastici e baroni) quella di leggi
che incidano sul regime della Paria, l'altro ramo potendo nell'uno o
nell'altro caso solo accettare o respingere in blocco. Per ogni legge, il
re deve articolo per articolo concedere il suo placet, od opporre il veto
(e già in sede di sanzione della Costituzione, tra molti articoli respinti,
figura quello che accordava ad ogni siciliano il diritto di petizione,
rimostranza o presentazione di progetti di legge al Parlamento). La
disciplina delle prerogative e procedura delle Camere, e persino del
loro personale, è minutissima e ispirata a diffidente e gelosa garanzia
nei confronti dell'esecutivo: il Parlamento giudica i suoi membri anche per reati comuni; la stamperia è posta all'interno del suo edificio,
e il suo direttore dipende esclusivamente dai due presidenti; la convocazione deve avvenire ogni anno, anziché ogni tre, e ciascuna Camera può illimitatamente aggiornare le proprie discussioni e deliberazioni; nessuna ingerenza regia in tema di potestà disciplinare, e ai
presidenti sono concessi energici poteri per il buon andamento dei lavori; nessuna truppa può essere levata, introdotta o mantenuta dal re
nell'isola, senza il consenso del Parlamento. I ministri sono responsabili di fronte al Parlamento, che ha anche il potere di processarli e
punirli nella forma britannica dell''impeachment. Soluzioni di estremo
interesse, ma che durano nell'isola tanto quanto il protettorato di fatto
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inglese, la guerra europea contro Napoleone e lo stato di necessità dei
Borboni. Con la Restaurazione, ogni forma di rappresentanza, vecchia
o riformata, verrà travolta anche qui.
Poco resta da dire sull'Italia prerivoluzionaria. Aspirazioni costituzionali che pure circolano nel pensiero dell'Illuminismo italiano non
ne costituiscono però certo il tema e la rivendicazione dominante. La
linea di governo dell'assolutismo illuminato solo in casi eccezionali,
mentre spezza o cancella i privilegi dei vecchi Parlamenti, può orientarsi verso forme rappresentative nuove. Così Leopoldo, Granduca di
Toscana, che prima di essere chiamato al trono di Vienna fa elaborare
dai suoi funzionari un progetto di costituzione sulla base di rappresentanti eletti a livello provinciale dalle comunità locali, con poteri
consultivi e solo limitatamente deliberativi (i funzionari, del resto, propendono per attribuzioni meramente consultive, se non per la vecchia
forma di assemblee separate di ceti o « Stati »). Solo in una sua
ultima fase, per lo più successiva alla rivoluzione francese, il pensiero
dell'Illuminismo italiano si orienta nettamente verso forme di rappresentanza politica, e diviene più acutamente consapevole dei pericoli di
arbitrio dell'assolutismo illuminato. Così Pietro Verri nei Pensieri sullo
stato politico del milanese (1790): «Una Costituzione finalmente convien cercare, cioè una legge inviolabile anche nei tempi avvenire [che]
assicuri ai nostri cittadini un'inviolabile proprietà, essendo questo il
fine di ogni Governo. Conviene che tale Costituzione venga garantita
e difesa da un corpo permanentemente interessato a custodirla, e di
cui le voci possono liberamente e in ogni tempo avvisare il monarca
degli attentati che il ministero con l'andare del tempo potesse promuovere per invaderla » : corpo eletto da tutti i censiti in catasto, che dia
il suo parere su tutte le leggi. La sussistenza intatta delle leggi fondamentali, e fra queste dei principi-cardine del diritto privato, richiede
ormai in questa visione un corpo politico costituito sulla nuova base
dell'universalità dei cittadini: ma è facile vedere come, quanto alla
struttura dei suoi poteri e al suo ruolo nell'organismo statale, si sia ancora lontani dalle nuove formule di diritto pubblico che con l'arrivo delle
armate rivoluzionarie francesi si faranno strada nella penisola.
3. - Le « prime manifestazioni di un moderno diritto parlamentare italiano » (C. Ghisalberti) si avranno, invece, nel quadro dei nuovi
ordinamenti repubblicani del triennio rivoluzionario 1796-1799, sorti sul
cammino dell'armata d'Italia del generale Bonaparte. Prima ancora che
nei regolamenti o in leggi, linee essenziali di questo diritto parlamen-
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tare sono fissate nelle Costituzioni delle repubbliche di Bologna (1796),
Cispadana, Cisalpina e Ligure (1797), seconda Cisalpina e Romana
(1798), di Lucca e Napoletana (1799).
Benché in ragione di certi caratteri, che appartengono piuttosto
alla storia politica o all'ideologia, si sia mantenuto l'uso di parlare
(magari tra virgolette) di Repubbliche e di costituzioni « giacobine »,
non è però dubbio che esse si modellino piuttosto sulla costituzione
direttoriale francese dell'anno III, dettata da un preciso spirito di reazione antigiacobina. Questa faceva ritorno ad un suffragio largo sì,
ma censitario, e soprattutto introduceva il nuovo principio strutturale
del bicameralismo, attribuendo al ramo più numeroso del Corpo Legislativo, il Consiglio dei Cinquecento, l'iniziativa esclusiva delle leggi,
e all'altro, il Consiglio degli Anziani, il potere di accettarle o respingerle in blocco sia per motivi di merito, sia per averne ritenuto l'incostituzionalità. Poco meno di cento articoli, a parte quelli dedicati al
procedimento elettorale, disciplinavano il Legislativo, sui 377 di cui
constava l'intera Costituzione. Alle regole di procedura da valere per
entrambi i suoi rami fissate a questo livello, si aggiungevano le altre,
del pari comuni, fissate in via legislativa il 3 Fruttidoro dello stesso
anno (1795) nell'intento di assicurare una sostanziale stabilità del diritto parlamentare col porlo al riparo dai colpi di maggioranza che
a questo riguardo avevano punteggiato la vita della Convenzione giacobina.
Le Repubbliche italiane fecero proprie le linee essenziali di questa disciplina con pochi adattamenti, ora derivati da spirito di combinazione con qualche raro e sparso precedente degli ordinamenti patrizi cittadini (Bologna, Genova, Lucca, Municipalità provvisoria di
Venezia), ora in ragione del fatto stesso che, toltane l'eccezione di Bologna che pur aveva trecentosessanta rappresentanti in confronto ai
settecentocinquanta del Corpo legislativo francese, si tendeva in Italia
ad assemblee molto più ristrette: da quarantotto a centoventi rappresentanti in un ramo, e da ventiquattro a sessanta nell'altro. Ciò non
andava senza riflessi sulla disciplina normativa e, più ancora, sulla
prassi. Come in Francia, si tornava in parte allo spirito di Mirabeau,
che invano alla Costituente aveva difeso contro Sieyés, in sede di elaborazione del regolamento 27 luglio 1789, un sistema di tipo inglese
con maggiori poteri al Presidente dell'Assemblea, minori concessioni all'individualismo, e salvaguardie contro le prassi tumultuarie, le pressioni psicologiche del pubblico, le petizioni esposte direttamente in forme intimidatorie in faccia all'Assemblea: le sanzioni contro i membri
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indisciplinati potevano spingersi fino al carcere. Come in Francia, il
metodo di deliberazione sulle leggi era quello inglese delle tre letture,
salva la procedura d'urgenza. Come in Francia, la persistenza ideologica del mito della « volontà generale », della quale i pubblici funzionari sedenti nelle assemblee erano considerati gli organi e gli annunciatori, faceva ricondurre ogni manifestazione legislativa o di indirizzo
politico al momento generale assembleare, escludendo ogni delegazione
legislativa ed ogni formazione di commissioni permanenti, anche prive
di poteri di decisione, che potessero arieggiare ai comitati della Convenzione giacobina. L'ostilità ad ogni cristallizzazione di posizioni dirigenti all'interno delle assemblee politiche era spinta al punto, che
anche presidenti e segretari erano assoggettati ad una rapida rotazione.
Come in Francia, infine, erano garantite l'inviolabilità dei membri del
Corpo legislativo e, quasi sempre, la sua sicurezza riposante su un proprio corpo armato e sulla clausola che ne richiedeva l'autorizzazione
per far transitare o mantenere truppe entro un certo raggio dalla sua
sede (nelle piccole Repubbliche italiane, varranno gli stessi confini del
territorio, confluendovi differenti motivazioni). Altre disposizioni assicuravano la pubblicità e la stampa dei processi verbali, e le comunicazioni fra i due rami dei Corpi legislativi e con l'esecutivo, affidati
di norma a « messaggeri di Stato » posti alla dipendenza diretta delle
Assemblee.
Accanto alle affinità - o meglio, e più spesso, alle riprese testuali
di disposizioni - vanno registrate le differenze. Meno importanti, forse,
quelle che rappresentavano residui o ricordi di istituti della tradizione
comunale italiana, come il sindacato sugli eletti allo scadere della carica sancito, ad esempio, dalla Costituzione bolognese, per la quale
(art. 59) « Ciascun membro del Corpo legislativo è responsabile di ciò
che ha operato nel tempo della sua carica per un anno intero dal giorno
in cui uscì d'uffizio. Non può in tale anno partirsi dallo Stato della
Repubblica senza permesso del Corpo legislativo ». Meno importante,
certamente, la terminologia diversa dalla francese che tratto tratto affiora, e si rifa ancora alla tradizione comunale, o a Roma, o alla
Grecia. Ma assumono un sicuro significato certi svolgimenti che riflettono esperienze, o mancate esperienze italiane, a partire dal fatto stesso
che molte di queste Assemblee si dessero propri regolamenti, con una
manifestazione di autonomia normativa che corrispondeva alla meno
sentita necessità di prevenire eccessi assembleari. Anche questa, naturalmente, è una pura generalità, perché la Repubblica romana si diede
a sua volta invece, sull'esempio francese, una « Legge sopra l'organiz4.
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zazione dei consigli legislativi e sopra l'ordine delle loro deliberazioni ».
Che, poi, la giustificazione teorica di tali regolamenti si trovasse nella
teoria già enunciata nell'89 da Mirabeau del pouvoir constituant - nell'esercizio del quale ogni Assemblea stipulava il proprio « patto sociale » su un piano ben distinto da quello dell'attività legislativa ordinaria, che era esercizio di potere costituito, non costituente - e fosse in
tutto e per tutto congruente con il sistema di diritto pubblico desumibile dal complesso delle Costituzioni « giacobine », è altra e diversa
questione. Qui è solo il caso di registrare la conclusione della storiografia, ormai stabilita nel senso che essi, precisando e svolgendo la
disciplina delle Assemblee già largamente enunciata a livello costituzionale, da un lato si presentavano come un felice corollario della concezione illuministica delle fonti del diritto tuttora prevalente, ispirata
a netta diffidenza verso la consuetudine e la prassi non scritta; dall'altro,
contribuirono a consentire un ordinato e proficuo esplicarsi dell'attività
legislativa in un paese, come l'Italia, che non poteva rifarsi a una
propria esperienza parlamentare in senso moderno. Va anche detto che
il regime di semiprotettorato francese nel quale ebbero vita questi esperimenti era ben più efficace delle stesse salvaguardie costituzionali e regolamentari nel senso di prevenire i temuti sviluppi verso il « regime di
assemblea ».
Alcune specifiche novità italiane meritano, in ogni caso, attenzione.
Nella Costituzione della Repubblica napoletana, per merito soprattutto
di Mario Pagano, che su questo e su altri temi faceva valere una sua
originale visione costituzionale, l'iniziativa delle leggi è attribuita al
corpo più ristretto e di età più adulta, il Senato, considerando « oltre
l'esempio delle antiche repubbliche, nelle quali un ristretto senato proponeva le leggi, e numerosa assemblea popolare le rigettava o approvava », che « proporre le leggi è più l'effetto della fredda analisi che
dell'ardito genio, richiede più estensione di lumi che voli di spirito.
Ritrovare la propria, esatta e chiara forma di legge, è più l'opera del
riserbato giudizio che dell'audace invenzione. Ond'è che pochi, ed uomini
maturi, vi riescono meglio che audace moltitudine di giovani », guardando essi più all'organicità e coerenza del sistema giuridico che ai
pregi o agli incomodi della legge singola, che un'assemblea di molteplici voci è invece meglio in grado di apprezzare. Ancora a Pagano
si deve l'assai notevole istituzione dell'Eforato, che nella sua Costituzione doveva assicurare nello stesso tempo quel controllo di costituzionalità formale delle leggi che nel testo francese dell'anno III era
attribuito agli Anziani, ed uno, duplice, di costituzionalità sostanziale,
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consistente da un lato nel cassare e annullare gli atti emanati da
ciascun potere ultra vires (ad esempio, atti materialmente amministrativi o giudiziari emessi dal legislativo, come le odierne « leggi-prowedimento »), dall'altro nel « rappresentare al Corpo legislativo l'abrogazione di quelle leggi che sono opposte ai principi della Costituzione »
nel loro contenuto (art. 368, n. 5). Un'altra novità tecnica di rilievo
fu introdotta nella Repubblica romana, nell'intento di accelerare il
lavoro legislativo e prevenire insabbiamenti di riforme: il ed. silenzioapprovazione degli atti legislativi approvati dal Tribunato, che un mese
dopo aver trasmesso una risoluzione al Senato poteva richiamarlo al
suo dovere di pronunciarsi; decorso inutilmente un secondo mese
« senza che il Senato abbia decretato definitivamente, il Tribunato può
dichiarare che il Senato col suo silenzio ha approvato la risoluzione.
Egli può in conseguenza mandarla al Consolato per farla eseguire
come una legge: ed è tenuto di avvisarne il Senato con un messaggio » (art. 99). Lo stesso accade nella seconda Costituzione Cisalpina
(artt. 98-101). Il Governo, che in omaggio alla divisione dei poteri
manca in tutti questi testi l'iniziativa delle leggi, alla cui promulgazione è chiamato a provvedere, deve però esso « invitare » o « proporre » quando si tratti di abrogazione a norma di queste due Costituzioni, e per l'abrogazione in nessun caso è ammessa la procedura
d'urgenza. L'« invito » a legiferare era del resto nella Costituzione dell'anno III: « Il direttorio può in ogni tempo invitare in iscritto il consiglio de' juniori e quello degli anziani a prendere un oggetto in considerazione: può loro proporre misure, ma non dei progetti stessi in
forma di leggi» (art. 166: cfr. gli artt. con lo stesso numero delle Costituzioni della seconda Cisalpina e Romana, e il 162 della Napoletana).
Se le Costituzioni « giacobine » rispecchiano, con le modificazioni
accennate, il sistema di quella francese dell'anno III, dopo l'invasione
degli austro-russi in Italia e la nuova conquista o liberazione francese
il paesaggio istituzionale italiano viene ad essere dominato da un nuovo
modello autorevole: la Costituzione francese dell'anno Vili (13 dicembre 1799), quella cioè del Consolato che succede al Direttorio dopo il
colpo di Stato del 18 Brumaio, elaborata da Sieyés. Carattere essenziale
del nuovo regime per quanto riguarda le Assemblee parlamentari è
che l'iniziativa delle leggi passa al Governo : « Non saranno promulgate nuove leggi salvo il caso in cui il progetto sarà stato proposto dal
Governo, comunicato al Tribunato, e decretato dal Corpo legislativo »
(art. 25). Tribunato e Governo, mediante i loro oratori, sostengono o
contrastano i vari progetti di fronte a tale corpo sovrano (rimarrà fa-
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mosa l'opposizione del Tribunato, e alla sua testa di Benjamin Constant,
al Codice civile: per averne ragione, Napoleone si induce a un ulteriore colpo di Stato); l'uno o l'altro, rimasto soccombente, può ancora
adire il Senato conservatore per il giudizio di costituzionalità. Va notato che a breve distanza dal 18 Brumaio la legge del 5 Nevoso dell'anno Vili riconosce tanto al Corpo legislativo quanto al Tribunato
una autonoma potestà regolamentare nella materia che sotto il Direttorio era stata invece definita con la legge già rammentata, che aveva
valore di legge costituzionale complementare. Dopo il « giro di vite »,
un Senato-consulto organico dell'anno XII (20 dicembre 1803), esteso
l'anno dopo al Tribunato, toglie però al Corpo legislativo una delle
più gelose attribuzioni della legge del '95, la nomina della commissione amministrativa interna, alla quale subentrano i Questori, nominati
dal Primo Console su liste formate dall'Assemblea. Lo stesso avviene
per i « Pretori », il Cancelliere e il Tesoriere del Senato conservatore,
al cui consiglio di amministrazione annuale, che pianifica ogni genere
di spese, partecipano i tre Consoli, cioè l'intero vertice dell'esecutivo.
Si possono collocare sulla linea francese dell'anno Vili le nuove
costituzioni delle Repubbliche di Lucca (1801) e Ligure (1802), nonché
quella della Repubblica italiana discussa ai Comizi di Lione (1802),
che prende il posto della Cisalpina con Napoleone presidente. Se non
si è più di fronte a calchi in senso tecnico del modello francese, con
più o meno estese modificazioni, è anche perché Napoleone ha ora
maggiore libertà di iniziativa in Italia, teatro e campo sperimentale
dei suoi effettivi orientamenti costituzionali. In tutte e tre le Repubbliche, intanto, si ha una nuova base della rappresentanza : « possidenti »
(fondiari), « dotti » e « mercanti » (negozianti e fabbricanti), ora designati a vita dall'esecutivo, ora cooptati dai colleglli, ora eletti da speciali assemblee territoriali. I loro « collegi », dichiara la Costituzione
della Repubblica italiana, « sono l'organo primitivo della sovranità nazionale » (art. 10), e come tali procedono alla nomina di tutta una
serie di cariche statali, inclusi i membri del Corpo legislativo. Sempre
riferendosi all'ordinamento di questa Repubblica, che mutatis mutandis
trova riscontro nelle due minori, « Il Presidente ha l'iniziativa di tutte
le leggi » (art. 45), sia pure con la premessa di una certa disciplina
della fase pre-legislativa del procedimento. Altri strumenti, già previsti
nella Costituzione francese dell'anno Vili, o introdotti successivamente
ad essa, fanno la loro apparizione: esame congiunto dei progetti da
parte di una commissione del Corpo legislativo e di consiglieri del
Governo (Repubblica italiana, art. 87; Lucca, art. 16); successivo di-
La storia del diritto parlamentare
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battito in contraddittorio davanti al Corpo legislativo fra oratori del
Governo e della commissione (rispettivamente artt. 88 e 19); forme di
senato-consulto improprio, come quella dell'art. 4 della Costituzione Ligure : « Ne' casi urgenti e impensati, e soprattutto se la tranquillità pubblica è compromessa, il Senato con due terzi de' voti può provvisoriamente ordinare l'esecuzione dei progetti di legge ». Le sole imposte sono
eccettuate da questo tipo di disposizione (cfr. Lucca, art. 21). Ancora
nella Costituzione Ligure è attribuita al Senato l'emanazione dei regolamenti esecutivi, nella sua doppia veste di organo di governo e legislativo (artt. 4 e 7).
Tratti ancor più originali potrebbero essere rilevati in queste repubbliche, e nei successivi Regni napoleonici, da uno studio condotto
sui regolamenti assembleari. In quello del Senato ligure, ad esempio,
« Nessun Senatore presente alla seduta può abbandonarla senza la permissione del Doge » (art. IV); si ha una figura particolare del Segretario generale, con specifiche attribuzioni in tema di ordine del giorno
(art. VII : « Il Segretario generale riconosce sopra il registro delle aggiornazioni le pratiche delle quali cade l'aggiornazione, e le propone,
in nome del Doge, alla discussione del Senato»; art. VIII: «Il Doge
può sospendere la proposizione delle pratiche aggiornate, se vi sono
degli oggetti, a suo giudizio, più gravi ed urgenti da portarsi alla cognizione del Senato »). Mentre altrove di norma il « comitato segreto »
era ammesso solamente per le discussioni, ma non per le deliberazioni,
qui « sono oggetti di Comitato generale le materie dette di Stato, e
che interessano la sicurezza della Repubblica, a giudizio del Doge. La
discussione delle leggi organiche si fa in Comitato generale » (articolo XXIII) con la sola presenza, di norma, del Segretario generale,
incaricato della formazione del processo verbale del Comitato, e degli
altri due Segretari solo con il consenso del Senato: questi e quello
tenuti in ogni caso con giuramento, come il Doge e i senatori, al segreto su quanto discusso (art. XXIV-XXVIII). È notevole, ancora, che
il richiamo al regolamento fatto da un singolo non fosse subordinato
a decisioni di maggioranza : « Ciascun Senatore ne domanda l'osservanza in caso d'inesecuzione, e il Doge lo fa eseguire » (art. XXXI).
Gli ordinamenti dei Regni napoleonici della fase successiva (Statuti costituzionali del Regno d'Italia degli anni 1805-1810; del Regno
di Napoli e Sicilia del 1808; del Principato di Lucca del 1805; Costituzione murattiana di Napoli del 1815) si discostano ancor più, nonostante alcune precise analogie, dall'ordinamento imperiale francese che
prendeva le mosse dal Senato-consulto organico dell'anno XII, e incon-
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La storia del diritto parlamentare
trò maggiori opposizioni in Consiglio di Stato che nello stesso Senato.
È mantenuta, rispetto alla fase precedente, la formazione della rappresentanza sulla base di notabilità: se il Regno Italico conserva i tre
collegi dei possidenti, dei dotti e dei mercanti, che ancora nel 1832,
nella sua critica del Reformbill inglese, formeranno l'ammirazione di
Hegel, il Regno di Napoli e Sicilia prevedeva un Parlamento nazionale
formato da cinque « sedili » come nella Napoli ancien regime, ma ora
sorgenti rispettivamente dal clero, dalla nobiltà, dai possidenti, dai
dotti e dai commercianti; la Costituzione murattiana del 1815, infine,
affiancava al Senato vitalizio un « consiglio dei notabili » formato da
deputati espressi dai sindaci delle province, dai contribuenti delle città
maggiori, da un collegio vitalizio di commercianti napoletani, dalle università e dalle corti di appello del Regno. Egualmente mantenuta l'iniziativa delle leggi nelle mani dell'esecutivo, generalizzando il metodo
delle « conferenze » fra consiglieri di Stato e commissioni dei due rami
del Corpo legislativo nella formazione delle leggi, metodo già sperimentato sia nella Repubblica di Lucca, sia nell'elaborazione del Codice
Napoleone in Francia, che lo aveva poi consacrato nel Senato-consulto
organico del 19 agosto 1807 (art. 4).
Nuove, invece, le disposizioni che configurano quello che modernamente si chiamerebbe un domaine de la hi ristretto ad alcune materie enumerate, attribuendo le rimanenti al domain du réglement. A parte
il Codice Napoleone, richiamato da norme costituzionali sia nel Regno
Italico sia in quello di Napoli e Sicilia, nel Regno Italico erano di competenza del potere legislativo il bilancio dello Stato, la coscrizione militare, l'alienazione dei beni nazionali, il sistema monetario, le nuove
imposte o tariffe d'imposta e le leggi civili, di « alto criminale » e commerciali : « Tutt'altro oggetto è di competenza della pubblica amministrazione » (art. 47). Nel Regno di Napoli e Sicilia la materia coperta
da riserva di legge appare ancora più ridotta: oltre al bilancio, vi figurano « la ripartizione delle contribuzioni fra le province, i cambiamenti notabili da farsi al codice civile e al codice penale, al sistema
delle imposizioni o al sistema monetario » (art. 27); ma competeva al
Consiglio di Stato « compilare » i regolamenti generali di pubblica amministrazione e i progetti di leggi civili e criminali (art. 5). Spettava al
re, svincolato da questo limite di procedimento, la normazione minore,
e di fatto egli provvide anche a quella coperta da riserva di legge sulla
base di una specifica autorizzazione costituzionale valida fino alla prima
riunione del Parlamento, che non ebbe luogo mai. Nel Principato di
Lucca il Senato, formato anch'esso da possidenti, commercianti e « let-
La storia del diritto parlamentare
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tori », è competente per il bilancio, la vendita delle proprietà nazionali,
il sistema tributario, la legislazione civile, commerciale e penale:
« Ogni altro oggetto è di competenza dell'Amministrazione interna »
(art. 12). Solo nella Costituzione murattiana la legiferazione torna in
ogni caso di competenza parlamentare, sulla base dell'iniziativa del Re
e dell'esame previo da parte delle commissioni in cui si divide ciascuna
Camera : « Insorgendo obiezioni al Parlamento sui progetti presentati
per ordine del Re, o proponendosi delle modificazioni, le commissioni
[reali, N. d. R.], se ve ne sono, o i consiglieri [di Stato, N. d. R.] che
hanno presentato i progetti, possono sull'autorizzazione del Re concertarsi colle commissioni di ambo le Camere, al fine di appianare le
difficoltà, e di concorrere ad una redazione, che secondi le vedute del
Parlamento » (art. 150). Con che non tanto si riprende una linea precedente di collegamenti e organi misti fra i due rami del Parlamento,
quanto si mira ad una limitazione sostanziale del diritto di emendamento.
Si accentua ulteriormente, in tutta questa fase, la tendenza dell'esecutivo a uno stretto controllo della vita delle assemblee, sull'esempio dei precedenti francesi già richiamati. Nel Regno Italico, Napoleone si riserva il diritto di nomina del presidente del Corpo legislativo
e dei due Questori di due in due anni, sia pure sulla base di un bilancio fisso ripartito ogni due anni dall'Assemblea in comitato segreto.
Nel Regno di Napoli e Sicilia il Re nomina il presidente del Parlamento sulla base di una terna elettiva (artt. 22-23), mentre l'autonomia
di quest'ultimo di fronte alla Corona è limitata dall'abbandono del sistema delle sedute pubbliche : anzi « Le opinioni e le deliberazioni
non debbono essere né palesate né impresse. Qualunque pubblicazione
per via di stampa o di affissi, che si faccia dal Parlamento nazionale
o da uno dei suoi membri, è considerata un atto di ribellione »
(art. 26). Ancora nella Costituzione murattiana del 1815 il Re nomina
presidente e vicepresidente del Senato e del Consiglio dei notabili, in
quest'ultimo caso tra cinque nomi a lui sottoposti (artt. 97 e 121).
Va, infine, tenuto presente che il Corpo legislativo del Regno Italico poteva soltanto accettare o respingere in blocco i progetti di legge
dell'esecutivo, ciò che non era previsto nel Regno di Napoli e Sicilia
perché l'ottanta per cento dei membri del Parlamento era di nomina
regia, mentre nella Costituzione murattiana fu contemplato un Senato
egualmente di nomina regia, oltre al ricordato dispositivo a limitazione
del diritto di emendamento. Ma soprattutto occorre ricordare che nessuno dei Parlamenti napoletani potè aver vita, il primo per volontà
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La storia del diritto parlamentare
della Corona, il secondo per la fine della dinastia. Quanto al Corpo
legislativo del Regno Italico, due mesi dopo l'incoronazione Napoleone,
contrariato dalle critiche e dalle resistenze su un progetto di legge in
tema di atti di registro, lo sospendeva e poi ne paralizzava la vita col
semplice espediente di cancellare lo stanziamento necessario a farlo
funzionare dal bilancio dello Stato, nonostante che il suo ammontare
fosse fissato dalla Costituzione. Nel marzo 1808 Napoleone attribuiva
al « Senato consulente » alcune prerogative legislative : deliberare a
maggioranza di due terzi sugli statuti costituzionali e a maggioranza
semplice sui progetti di aumenti di imposte : « Sopra qualunque altro
progetto di legge il Senato può presentare al Re le sue deliberazioni
dieci giorni dopo la comunicazione che glie ne viene fatta » (art. 13).
Aveva poi attribuzioni consultive in materia di trattati internazionali,
altre deliberative (eventuali) sull'incostituzionalità degli atti dei collegi
elettorali, sui ricorsi per eccesso o abuso della giurisdizione ecclesiastica, sulla rimozione dei giudici, e poteva annualmente presentare al
Re le sue osservazioni sul conto dei ministri, e rappresentargli i bisogni
e i voti delle popolazioni. Se è forse improprio un accostamento con le
prerogative di « interinazione » e di rimostranza dei Parlamenti francesi o dei Senati italiani ancien regime, che erano corpi giudicanti e
per altro verso amministrativi, resta in ogni caso che si trattava di
un'assemblea parte composta di membri di diritto e di altri nominati
dal Re, parte scelta sopra liste formate dai soliti collegi dei possidenti, dei dotti e dei mercanti. Ovunque, del resto, nei Regni napoleonici italiani come in Francia, le attribuzioni dei Consiglio di Stato in
ordine all'elaborazione e a tutta la fase che precede la vera e propria
deliberazione legislativa ebbero, in concreto, assai maggiore importanza, non appena si consideri « un poco più da vicino anche l'interno
dei solenni e pomposi edifizi costituzionali, d'architettura napoleonica,
fin qui specificati » (Marongiu).
A conclusione del ciclo rivoluzionario-napoleonico, su un punto
va soprattutto richiamata l'attenzione, anche tenendo presente il passaggio dalle « lunghe » Costituzioni « giacobine », prossime ai quattrocento articoli, a testi costituzionali più brevi. Questo punto è la potestà
regolamentare delle Camere, affermata come si è visto in via di principio e tradotta in appositi regolamenti anche quando il modello francese si imperniava su una disciplina posta in via di legge, integrata da
più rare disposizioni interne. In ogni caso, fosse a livello costituzionale,
legislativo o regolamentare (tutti e tre i livelli giocano, volta a volta,
nelle esperienze caratteristiche di questo ciclo di avvenimenti), l'eredità
La storia del diritto parlamentare
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consegnata al futuro è quella di un'aperta e metodica codificazione
scritta delle regole di procedura parlamentare, con particolare riguardo
al procedimento legislativo ed alle garanzie dei rappresentanti: antitesi
alla tradizione inglese, con il suo insieme fluttuante di principi consuetudinari, di conventions of the Constitution e di temporanei, ma
solidi e rispettati agreements. Ciò che del resto, come si è veduto, avveniva anche nell'« altra Italia », l'Italia legittimista, ad opera del Parlamento siciliano. Né a diverso segno aveva mirato il Bentham con la
sua Tattica parlamentare, solo più tardi edita : innestare su una « adunanza ancora giovane », ma con gli opportuni adattamenti, quanto fosse
accettabile degli usi del Parlamento inglese: « Questo sistema di interna polizia [che] non è racchiuso in un codice scritto, ma è una semplice abitudine che si formò coll'uso, fu conservata dalla tradizione, e
da quasi un secolo non soffrì alcun notevole cangiamento » (Dumont).
4. - Mentre la Restaurazione francese trova il suo assetto istituzionale nella Charte del 6 aprile 1814, con Senato di Pari ereditari e
Camera censitaria (avrà linea assai simile, nei « cento giorni », YAtto
addizionale alle Costituzioni dell'Impero, emanato dall'Imperatore il
22 aprile dell'anno seguente, su progetto del neo-consigliere di Stato
Benjamin Constant), i principi italiani restaurati né accèdono all'idea
di nuove carte costituzionali, né fanno poi rivivere gli antichi Parlamenti prerivoluzionari. La Costituzione siciliana del 1812 non venne
abrogata espressamente, ma Ferdinando II rientrando in possesso del
Regno di Napoli cancellò addirittura il Regno separato di Sicilia con
atto del 1816, concedendo all'isola solo alcuni particolari diritti e privilegi amministrativi, completati formalmente nel 1824 dalla « Legge
organica della Consulta generale del Regno ». Di fronte all'assolutismo
ristabilito, e in molti domini italiani reso più completo dall'acquisizione dei risultati dell'accentramento e livellamento napoleonici, si delinea il nuovo movimento costituzionale, che si fa forte della discrasia
(e della conseguente necessità di riconciliazione) fra ordine politico
ancien regime e moderni ordini civili e amministrativi. Nella rappresentanza parlamentare esso avrà una delle sue grandi idee-forza.
Tre sono i modelli costituzionali che tengono il campo dalla Restaurazione fino all'età delle riforme e al '48-'49. Quello anglo-siciliano,
bandiera dei movimenti isolani fino al 1848 - allora però anche la seconda Camera viene resa elettiva, come la prima, fra determinate categorie - che per il suo spirito più che moderato raccoglie simpatie anche
in altre regioni e ad esempio in Piemonte (Santorre di Santarosa). Quel-
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La storia del diritto parlamentare
lo delle Cortes spagnole del 1812, la cui Costituzione viene proclamata
nel 1820 nel Regno delle Due Sicilie e nel 1821 in Piemonte, salve le
modificazioni da apportare dal Parlamento che seguirono, ma minime,
solo nel primo caso. Per quanto riguarda la rappresentanza, in luogo
del bicameralismo all'inglese si ritorna qui al monocameralismo roussoviano della Convenzione, sulla base però di un suffragio universale
dei capofamiglia, alfabeti e no, mediato in due gradi, a livello parrocchiale e provinciale. L'iniziativa della legislazione, o della deroga straordinaria alle leggi vigenti, spetta al Parlamento, che procede con il metodo delle tre letture: il silenzio del Re si ha per sanzione; la sanzione
può essere rifiutata, ma dopo la terza approvazione parlamentare in tre
anni distinti il progetto ha ugualmente forza di legge (artt. 135-145 Due
Sicilie e 132-142 Piemonte). Una « deputazione permanente del Parlamento » siede negli intervalli tra le sessioni annuali, può convocare un
Parlamento straordinario, e deve fra l'altro « invigilare sulla osservanza
della Costituzione e delle leggi, onde dar conto al prossimo Parlamento
delle infrazioni che avessero [sic] osservate » (art. 153 Due Sicilie, e>cfr.
160 Piemonte). Il Re abbisogna del consenso delle Cortes per varcare i
confini del Regno, come effettivamente avvenne da parte di Ferdinando I, che ne approfittò però per recarsi al congresso di Lubiana e ottenere dalla Santa Alleanza i mezzi per schiacciare le forze liberali e
annullare la Costituzione; deve farvi approvare annualmente il contingente militare consentito, il cui ordinamento è competenza delle Cortes;
queste scelgono il successore al Trono, nel caso di estinzione della linea
maschile principale dei successibili, e hanno poi tutta una serie di altre
attribuzioni, ad esempio in materia di controllo. Il fatto che questi due
testi abbiano avuto limitata o nessuna applicazione, nulla toglie al valore di punto di riferimento che la Costituzione di Cadice ebbe nei dibattiti della Restaurazione, quale modello fra tutti gli altri più avanzato in senso democratico.
Il modello che avrà però decisiva influenza è quello franco-belga.
La Charte borbonica del 1814 era stata modificata nel 1830 all'avvento
della Casa di Orléans, fra l'altro, nel senso di rendere da segrete pubbliche le adunanze e deliberazioni della Camera dei Pari, e di attribuire alla Camera dei deputati la nomina del proprio presidente in apertura di ogni sessione, in luogo dell'indicazione di cinque suoi membri
per la nomina da parte del Re. Rimaneva ferma la priorità della Camera dei deputati per l'esame dei progetti d'imposta, così come la
clausola che l'imposta fondiaria, a differenza di quelle indirette, non
poteva essere consentita in via pluriennale, ma solo di anno in anno
La storia del diritto parlamentare
59
(artt. 47 e 49). Facendo alcuni passi più in là, la Costituzione belga del
1831 rendeva elettivo anche il Senato, con durata di otto anni e diritto di nominare il proprio presidente, vicepresidente e bureau; sanciva espressamente il diritto d'inchiesta parlamentare, e quello di votare per divisione articoli e emendamenti agli articoli di legge (artt. 40
e 42); escludeva o sospendeva dal mandato parlamentare gli impiegati
pubblici (art. 36). Il modello franco-belga si completa opportunamente,
per la parte che qui interessa, con le disposizioni del nuovo regolamento
19 luglio 1839 della Camera francese, adottato su relazione Vivien, che
disciplinava fra l'altro il quorum delle sedute, le petizioni, la presentazione ed esame dei bilanci, Yadresse di risposta al Re, l'imparzialità
del Presidente, le modalità del procedimento legislativo. Tale regolamento verrà rimaneggiato con tutta una serie di modificazioni dalla Costituente del 1848 (che nel testo costituzionale introduce l'indennità parlamentare per i membri delle due Camere, e statuisce all'art. 28, portando avanti la linea belga, che « ogni funzione pubblica retribuita è
incompatibile con il mandato di rappresentante del popolo ») nel Regolamento 19 maggio 1848, ripreso poi dalla Legislativa. Il secondo Impero annullerà la potestà legislativa delle Camere, attribuendola con il
1852 a decreti del Capo dello Stato e tornando al Senato nominato dall'alto e sedente in segreto, al mandato parlamentare senza indennità,
alla nomina presidenziale del presidente e dei vicepresidenti del Corpo
legislativo, a limitazioni - in forma nuova - del diritto di emendamento.
Una correzione « liberale » si avrà già con i Senato-consulti organici
del 1869, promossi da Napoleone III, che regola fra l'altro gli « uffici »:
ma più ampiamente, ormai sotto la Terza Repubblica, con i nuovi regolamenti della Camera e del Senato nel 1876, a seguito delle prime elezioni indette sulla base delle leggi costituzionali del 1875. Ma per tornare al modello 1814-1830-1839 e alla sua avanzata versione belga, occorre appena ricordare che sotto i Borboni restaurati manca, e del resto
neppure è prevista dalla Charte, la responsabilità politica dei ministri
di fronte alle Camere. Soprattutto la Camera dei Deputati cercò via via
di sfruttare in questo senso gli strumenti legali di cui disponeva - indirizzo al Re, esame di petizioni, messa in stato di accusa dei ministri, voto
dei bilanci, lo stesso esame delle leggi -, nonché di azionare strumenti
di controllo non previsti in Costituzione, come le interrogazioni (questions) e le inchieste parlamentari. Dopo la rivoluzione di luglio si forma
invece una vera e propria tradizione parlamentare, sulla base dell'iniziativa legislativa che la Charte riformata riconosce alle Camere, e l'avvìo ad una effettiva responsabilità politica dei ministri quale si delinea
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La storia del diritto parlamentare
con il diritto di interpellanza e con la stessa nuova importanza e
funzione dell'indirizzo di risposta al discorso della Corona, che viene
quasi a configurare un'annua interpellanza globale sul complesso dell'azione di governo. Nonostante vari inconvenienti, come il numero dei
deputati impiegati, « la macchina legislativa funzionava sotto la Monarchia di luglio in modo quasi perfetto » (Deslandres). Quasi contemporaneo è il Reformbill inglese del 1832, premessa a un rinnovamento
profondo del lavoro parlamentare. In Francia, nel 1842 si propone di
distribuire i comptes-rendus delle sedute a tutti gli elettori, sia pure
nel quadro di un elettorato strettamente censitario; altre interessanti
proposte regolamentari non hanno sèguito. Ma nella Repubblica del
1848, sulla base di una migliore organizzazione dei resoconti e della
stenografia, si cerca di risolvere in modo organico il problema dei rapporti fra stampa e Parlamento. La Costituzione poi, a parte le norme già
ricordate, conferisce ad un apposito organo dell'Assemblea sedente nell'intervallo delle sessioni il potere di convocarla in caso di urgenza, e fa
obbligo al Presidente della Repubblica, in un quadro di netta divisione
dei poteri, di presentare ogni anno, sull'esempio americano, « con un
messaggio all'Assemblea nazionale, l'esposizione generale degli affari
della Repubblica » (art. 52).
Su questo sfondo europeo vengono a proiettarsi (prescindendo dall'ordinamento provvisorio della « Costituzione delle province unite italiane » sorta dai moti del '31 a Bologna e nelle Romagne, con la sua
Consulta legislativa) gli statuti e costituzioni del 1848-49, e i regolamenti relativi. Non va dimenticata, anche a questo riguardo, una certa
differenza fra statuti octroyés dai Principi e testi elaborati da Assemblee,
come la Costituzione della Repubblica romana e lo Statuto del Regno
autonomo di Sicilia, la cui Corona venne offerta al primogenito di Carlo
Alberto, Alberto Amedeo duca di Genova. Ma qui, « mentre si può e si
deve parlare di un movimento costituzionale, soltanto con molte riserve è possibile parlare anche di un movimento « costituente » del '48
italiano: e comunque di un movimento costituente strozzato quasi sul
nascere, che non è riuscito cioè, per le sue vicende esterne e per le sue
interne contraddizioni, ad essere veramente e pienamente tale » (Crisafulli). In ogni caso, è possibile discernere alcuni tratti comuni alla maggior parte di questi documenti, quale che ne sia l'origine: la Costituzione del Regno delle Due Sicilie, e gli statuti del Regno di Sicilia,
dello Stato della Chiesa, del Granducato di Toscana e del Regno di Sardegna (1848) nonché il progetto dello stesso anno per uno statuto del
ducato di Modena; l'atto costituzionale di Gaeta per la Sicilia e la Co-
La storia del diritto parlamentare
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stituzione della Repubblica romana (1849). Altro carattere hanno le
« basi costituzionali » per il Ducato di Parma (1848), mentre rimasero
sulla carta il progetto di una Costituzione italiana a base confederale elaborato dal congresso giobertiano di Torino (1848) e quello democratico
toscano per una Costituente italiana (1849): in Toscana, peraltro, come
subito dopo nella Repubblica romana, si passò a un sistema monocamerale, sulla base del suffragio universale.
Limitando l'analisi ai testi costituzionali, quasi in tutti ricorre una
seconda Camera vitalizia sul modello francese (con le due eccezioni ora
ricordate), dove presidente e vicepresidente sono di nomina della Corona, mentre quelli della Camera bassa sono elettivi; le sedute sono pubbliche, salvo il diritto per un certo numero di rappresentanti di chiedere il comitato segreto; le garanzie dei parlamentari e il procedimento
di accusa nei confronti dei ministri da parte della Camera bassa, con
giudizio della Camera alta, sono egualmente comuni, più o meno sulla
linea della Charte. Un ventaglio più largo di soluzioni si ha per quanto
riguarda l'eleggibilità dei pubblici funzionari, ora preclusa in ogni caso,
ora esclusa solo nel territorio in cui si esercitasse la loro giurisdizione,
ora assoggettata all'onere di una rielezione, mentre qualche testo ne
tace. L'indennità parlamentare, gran novità belga del 1831 e francese
del 1848, viene introdotta in via generale solo nella Repubblica romana, mentre in Sicilia e nel Granducato di Toscana la si accorda, a
carico dei comuni, solo ai rappresentanti residenti fuori delle capitali
e in misura modesta, e altrove ci si attiene al sistema francese della
gratuità del mandato, denunciata dai democratici come un « censo elettorale larvato ». Dove poi la divergenza è massima è nella disciplina
dell'iniziativa legislativa, per la quale alcuni testi (Due Sicilie, Granducato di Toscana, Stato della Chiesa) tornano alla Charte del 1814 che la
riserva all'esecutivo, o accordano ai suoi progetti una priorità procedurale. Altrove, essa spetta tanto alle Camere quanto all'esecutivo, mentre
dove esiste una Camera alta vitalizia è logico, e viene spesso sancito, che
alla Camera bassa spetti la priorità nell'esame dei bilanci e delle leggi
di spesa, e dunque un ruolo preminente nel sindacato parlamentare sull'azione di governo. Nello statuto siciliano, in quello pontificio e nell'Atto
addizionale di Gaeta la Corona si riserva un potere di veto, che per gli
Stati della Chiesa si esercita udito il Concistoro, e non è superabile da
una seconda o terza deliberazione.
Fra le disposizioni singolari, che si discostano dai modelli francobelgi o britannici (il costituzionalismo « giacobino » o direttoriale, e
62
La storia del diritto parlamentare
quello spagnolo di Cadice, quasi non hanno più udienza in questo tornante del secolo), almeno due vanno ricordate. Lo Statuto del Regno
autonomo di Sicilia, elaborato sotto la direzione di Ruggero Settimo,
non solo prevede una seconda Camera elettiva; non solo per quanto riguarda le leggi finanziarie o militari accorda al Senato il semplice diritto di accettare o respingere in blocco; non solo mira a tutelare l'autonomia delle assemblee statuendo che i deputati e i senatori, se eletti
ministri, sono sospesi per la durata della carica dalle loro funzioni parlamentari; ma (punto che può apparire più attuale) ipotizza organi misti
dei due rami del Parlamento : « Nel caso che le due Camere siano d'accordo in alcuni punti, e discordi in altri dello stesso progetto di legge,
potranno deputare un numero uguale dei rispettivi membri perché sedendo insieme procurino di conciliare le differenze, e ridurre le Camere
alla conformità dei voti. Il nuovo progetto sarà recato alla discussione
delle Camere. Una proposta definitivamente rigettata non può riprodursi
che alla nuova sessione » (art. 27). Altra disposizione notevole, questa
volta in tema di controllo, è quella per cui « Appartiene a ciascuna Camera il diritto di fare rimostranze e indirizzi per qualunque atto del
potere esecutivo » (art. 31). Nello statuto di Pio IX, isolato fra gli altri,
è limitata in certe materie l'iniziativa legislativa : i due consigli « non
possono mai proporre alcuna legge: 1) che riguardi affari ecclesiastici
o misti; 2) che sia contraria ai canoni o disciplina della Chiesa; 3) che
tenda a variare o modificare il presente Statuto » (art. 36). Negli affari
misti potevano essere sentiti in via consultiva: ma era poi vietata, in
ogni caso, « ogni discussione che riguardi le relazioni diplomatichereligiose della Santa Sede all'estero » (art. 38). L'imposta diretta, come
in altri testi, poteva essere consentita solo per un anno, le indirette per
più, con evidenti riflessi sui rapporti fra esecutivo e legislativo.
Un ultimo punto va considerato nell'esperienza del '48-49, ed è
l'affermazione costituzionale della potestà regolamentare delle Camere,
desunta dalla Costituzione belga del 1831, all'articolo 46: «ogni Camera determina, col suo regolamento, il modo con il quale esercita le
sue attribuzioni » (nei limiti cioè della Costituzione e delle leggi, non
più alla stregua della dottrina di Mirabeau circa il « patto sociale »
di ciascuna assemblea politica quale manifestazione del pouvoir constituant). Sono su questa linea lo statuto siciliano (art. 25) e quello granducale toscano (art. 48), mentre la Costituzione del Regno delle Due
Sicilie si spinge sino a precisare che « Ciascuna delle due Camere legislative formerà il suo regolamento interno, in cui verrà determinato il
modo e l'ordine delle sue discussioni e delle sue votazioni, il numero e
La storia del diritto parlamentare
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gli incarichi delle commissioni ordinarie in cui deve distribuirsi e tutto
ciò che concerne l'economia del suo servizio interno » (art. 42).
La clausola che quasi sempre ricorre, a tenore della quale « i ministri sono responsabili » non implica (come non implicherà nella lettera dello Statuto albertino) il principio del governo di Gabinetto o
parlamentare, ma solo la possibilità di messa in stato di accusa dei ministri stessi, o la predisposizione di strumenti di sindacato parlamentare,
quali quelli già ricordati. Solo nella Repubblica romana del 1849 l'assemblea unica elegge essa a maggioranza di due terzi tre Consoli, ai
quali spettano la nomina e revoca dei ministri (i quali poi, a differenza
da altri ordinamenti del 1848-49, formano un consiglio), l'esecuzione
delle leggi e la condotta della politica estera. Un supergoverno, insomma, con mandato triennale, sostituzione annuale di un membro, precostituzione di responsabilità, e di mezzi legali per vincerne l'eventuale inerzia : « Le leggi adottate dall'Assemblea vengono senza ritardo
promulgate dal Consolato in nome di Dio e del popolo. Se il Consolato indugia, il presidente dell'Assemblea fa la promulgazione » (art. 32).
È questo, nel segno mazziniano di « Dio e popolo », il momento di massima affermazione, configurabile peraltro solo nel quadro di un sistema
monocamerale, dei poteri del Presidente di Assemblea.
5. - Lo Statuto albertino, octroyé dopo due mesi di discussioni del
Consiglio di conferenza il 3 marzo 1848, dedicava una ventina dei suoi
83 articoli alla disciplina delle assemblee legislative. Si era ben lontani,
quanto ad ampiezza di testo, dai tre-quattrocento articoli e più delle
Costituzioni « giacobine ». Ma ancor più, quanto a disciplina concreta
della funzione parlamentare, dal contemporaneo svolgimento democratico-repubblicano francese, con l'Assemblea nazionale unica fondata sul
suffragio universale, il potere di revisione costituzionale attribuito a una
assemblea ad hoc eletta nelle stesse forme, l'indennità ai deputati, l'incompatibilità assoluta con altre funzioni pubbliche retribuite, il ritorno
infine al metodo delle « tre letture » in luogo di quello degli « uffici »
per l'esame delle leggi, introdotto dalla Charte del '14. A quest'ultima,
invece, e solo in parte alla sua versione riformata del 1830 ed a quella
belga del 1831, si ispirava complessivamente lo Statuto albertino, anche
in ordine alla funzione parlamentare.
Senza dubbio, esso configurava un modello di istituzioni pubbliche
che appariva arretrato rispetto ai livelli segnati dalla contemporanea
rivoluzione europea. Non va però dimenticato che gli Stati di terraferma uscivano allora dal regime delle Regie Costituzioni del 1770, e la
64
La storia del diritto parlamentare
Sardegna da una condizione giuridica sotto più di un aspetto ancor
più arretrata. Solo tre mesi prima dello Statuto, la richiesta di estendere
all'isola le prime riforme amministrative e il Codice albertino del 1837
era stata avanzata da una delegazione degli antichi « Stamenti » guidata
dalla loro prima « voce », il marchese di Laconi. La componevano le
prime « voci » degli altri due « bracci », l'arcivescovo e il sindaco di
Cagliari, ed altri elementi acclamati in una manifestazione locale, posto
che adunanze degli « Stamenti » non si tenevano ormai più dalla fine
del secolo precedente. Eppure, la legalità formale continuava a risiedere
in questa « Corte generale del Regno » (cioè il Regno autonomo di Sardegna, unito nella sola persona del sovrano agli altri domini sul continente), nella quale i tre a Stamenti » confluivano. Sebbene ridotta di
fatto a un'ombra, sebbene anche in linea di diritto fosse venuto meno
quell'esercizio di poteri di sovranità da parte dei feudatari che legittimava l'esistenza dello « Stamento » militare, attribuendo loro una sorta
di rappresentanza necessaria o, in termini dominatici moderni, istituzionale dei territori soggetti alla loro giurisdizione, un estremo residuo- di
ancien regime qui persisteva. Ad esso si aggrappava negli ultimi mesi
del 1847 il partito avversario delle riforme, facendo leva sul sentimento
isolano per difendere, in Sardegna e presso la Corte di Torino, la pregiudiziale « che l'unica salute per la Sardegna era nella convocazione
degli « Stamenti », e che senza di essa nulla era da sperare, nulla si
poteva fare » (Baudi di Vesme).
Realizzata la fusione giuridica con la terraferma, e proclamato lo
Statuto, anche la Sardegna inviò propri rappresentanti fra i 204 che
formavano la prima Camera subalpina (anche qui, per un raffronto, si
ricordi la cifra-limite di 120 nelle assemblee delle Repubbliche « giacobine » a fine Settecento, e quella di 508 sulla quale si assesterà il Parlamento italiano con l'entrata a Roma: la consistenza numerica delle assemblee non è senza influenza sulla funzionalità concreta di più di uno
strumento di procedura parlamentare). Come per il Senato, così anche
per la Camera il governo Balbo, seguendo il suggerimento dato da Cavour in un articolo del giornale // Risorgimento, aveva provveduto a
compilare un regolamento: desumendolo quasi letteralmente da quello
francese del 1839, già ricordato, ma in più punti optando anche per le
diverse soluzioni adottate da quello belga del 1831, che pure si ricollegava ad uno stesso tronco comune. Poiché lo Statuto, come altri del
'48, riconosceva e insieme garantiva alle due Camere una autonoma potestà regolamentare (art. 61), quel testo fu adottato da entrambe in via
provvisoria nella prima seduta. Mentre però il Senato, su iniziativa dei
La storia del diritto parlamentare
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senatori Alfieri di Sostegno e Cibrario, già nel successivo luglio 1850
provvedeva a darsi un regolamento definitivo, per la Camera subalpina
si mantenne sino all'Unità quello provvisorio, con secondari adattamenti,
e ad una revisione organica si verrà solo nel 1863. Ma come lo Statuto
albertino, per il suo doppio connotato tecnico di flessibilità e di elasticità, potè negli anni successivi prestarsi a modificazioni anche incisive del regime, vuoi per il sopravvenire di leggi ordinarie costituzionalmente rilevanti vuoi per l'affermarsi di nuovi principi costituzionali
non scritti, così anche il regolamento del 1848 risultò profondamente
influenzato nell'applicazione da massime generali di diritto pubblico patrio e da precedenti stranieri variamente autorevoli, dando luogo a una
prassi che venne a mano a mano configurandosi secondo uno schema suo
proprio, e che sarà alla base della sistemazione post-unitaria. L'esempio
più noto è nei rapporti fra esecutivo e legislativo, non chiaramente regolati dallo Statuto, il quale in ogni caso non prevedeva la responsabilità politica del Gabinetto nei confronti delle Camere. Invece, dopo soli
quattro mesi dalla sua concessione il governo Balbo si dimetterà in
seguito alla caduta di un proprio emendamento a un disegno di legge
di netto rilievo politico, avviando sul terreno del diritto parlamentare
una consuetudine di diritto pubblico tale, da qualificare il regime
statutario in uno dei suoi elementi-cardine. Nelle discussioni del Parlamento subalpino è continuo, del resto, il richiamo a regole non scritte
di correttezza costituzionale, e a principi di diritto parlamentare generalissimi ricavati non tanto dagli articoli del regolamento, quanto dalla
stessa idea e natura del « governo parlamentare », cioè da tendenze del
diritto pubblico comuni, o ritenute comuni, all'Europa del tempo. Ad
essi si riconducono anche le proposte di riforma, come quella più avanzata, sostenuta da Cavour, di rendere elettiva anche la seconda Camera,
prendendo a modello per alcuni aspetti il Senato belga e per altri quello
degli Stati Uniti, secondo uno schema del pari e anzi meglio adatto,
a suo giudizio, al fine sostanziale di « dividere il potere legislativo tra
due assemblee, nell'una delle quali l'elemento popolare, la forza motrice
predomini, mentre nell'altra l'elemento conservatore, coordinatore eserciti una larga influenza. Respingiamo l'idea dell'equilibrio, vogliamo
costituire la grande macchina politica in modo che l'impulso acceleratore sia combinato con la forza moderatrice, vogliamo, accanto alla molla che spinge, il pendolo che regola e rende il moto uniforme ».
Quanto al regolamento della Camera in senso stretto, la dottrina
prevalente ne desumeva la natura dal principio dell'equilibrio, dell'indipendenza e del mutuo rispetto fra i corpi dello Stato, nonché dalla
5.
66
La storia del diritto parlamentare
massima generalissima « cui jurisdictio data est, ea quoque concessa
esse videntur, sine qui bus jurisdictio explicari non potest ». I punti essenziali erano regolati, in modo uniforme per i due rami del Parlamento,
dallo Statuto: ma la disciplina ulteriore della loro attività non avrebbe
potuto essere dettata con legge senza implicare un'influenza dell'una
(nonché di altre istituzioni costituzionali: il Governo del Re e, in sede
di promulgazione, la Corona) sull'ordinamento interno dell'altra e sull'interpretazione delle sue prerogative. Un corollario di questa posizione
di autonomia fu la sistemazione data ai problemi del bilancio e della
gestione finanziaria. Il primo progetto di legge presentato dal Ministero
costituzionale Balbo fu quello che stanziava sul bilancio del dicastero
degli interni per il 1848 « una categoria con l'indicazione: Spesa per il
Senato e la Camera dei Deputati », determinata rispettivamente in centomila e duecentomila lire. Ciò implicava però una limitazione grave
dell'autonomia delle Camere, i cui Questori nelle prime legislature subalpine non potevano emettere mandati di pagamento, ma solo richiederne l'emissione da parte dell'Intendente generale dell'« azienda » degli
interni (fino alla legge sarda del 1853, che riveste la massima importanza per l'esercizio concreto del controllo parlamentare sull'esecutivo,
e che dall'esigenza di tale controllo fu principalmente ispirata, i ministri
non erano i capi gerarchici delle amministrazioni, le quali restavano organizzate in « aziende » e corpi autonomi, sui quali essi, assistiti da un
piccolo staff, avevano poteri di vigilanza e di indirizzo), e ad esso intendente dovevano poi in ogni caso rendere conto della gestione. Ma
con l'esercizio finanziario 1851 le dotazioni dei due rami del Parlamento
trovarono posto fra le spese generali dello Stato, a fianco della dotazione
della Corona, e ciascuna Camera ebbe un proprio bilancio interno approvato in seduta segreta, non sottoposto al voto dell'altro né alla sanzione sovrana. In virtù di una regola non scritta, l'altra Camera non
muoveva osservazioni all'ammontare globale da iscrivere nel bilancio
dello Stato, mentre poi l'esame dei consuntivi era egualmente di competenza delle assemblee in seduta segreta: la Giunta del bilancio della
Camera, ad esempio, rifiutò fin dagli inizi di entrare nel merito sindacando le erogazioni avvenute. Che in queste materie deliberasse la Camera riunita in comitato segreto fu dapprima solo una consuetudine:
la Giunta del bilancio provvedeva poi a sostituire alla cifra fissata nel
disegno di legge sul bilancio delle spese generali, quella eventualmente
diversa che il comitato segreto avesse riconosciuto necessaria. Sempre
per una consuetudine che faceva capo a un precedente del 27 febbraio
La storia del diritto parlamentare
67
1851, erano materia di comitato segreto i problemi dei servizi e del personale della Camera: già nello Statuto, del resto, non era ammesso il
voto per alzata e seduta né quello per divisione, ma solo lo scrutinio segreto « per la votazione del complesso di una legge, e per ciò che concerne il personale » (art. 63), introducendo un preciso elemento di garanzia nello status dei dipendenti delle assemblee legislative.
Il tema regolamentare che sia nel Parlamento subalpino, sia poi
nei primi decenni di vita del Parlamento italiano diede luogo ai più
acuti contrasti, fu il sistema degli « uffici » per l'esame preliminare
delle leggi, derivato dalla Francia della Restaurazione e della monarchia di luglio. Per verità l'articolo 55 dello Statuto parlava di « Giunte
che saranno da ciascuna Camera nominate per i lavori preparatorii » :
ma il testo francese, pubblicato per la contea di Nizza e il Ducato di
Savoja, e che faceva egualmente fede, traduceva tale articolo con le
parole : « Toute proposition de hi doit d'abord ètre examinée par les
Bureaux qui seront nommés ecc. ». Alla Camera, gli uffici erano sette
(diverranno nove nel 1860), formati per sorteggio ogni mese (più tardi
ogni due) fra tutti i deputati in seduta pubblica; non era previsto, come
invece in Senato, che potessero sedere insieme nella o conferenza degli
Uffici riuniti », sorta di « comitato generale » all'uso inglese. Ciascun ufficio esaminava separatamente gli stessi progetti absque formis, senza
procedure definite di discussione e di voto, rimesse alla discrezione del
suo Presidente; quando almeno quattro sui sette uffici avevano esaurito
l'esame, uno o più raramente due commissari designati da ciascuno di
essi andavano a formare una commissione unica (in Senato, l'Ufficio
centrale); questa designava il relatore o i relatori per la stesura di un
rapporto a stampa destinato all'Assemblea e la sua illustrazione, e poteva anche autorizzare una relazione a parte della minoranza; ma prima
di concludere ascoltava l'autore della proposta, o qualsiasi deputato volesse sottoporre sue considerazioni o suggerire emendamenti e aggiunte.
L'alternativa a questo sistema era quello inglese delle « tre letture »,
che era stato accolto nelle assemblee rivoluzionarie francesi ed anche in
alcune costituzioni italiane: la Camera dei Comuni, cioè, in prima lettura ammetteva semplicemente il provvedimento all'esame, ciò che non
veniva mai rifiutato, analogamente alla « presa in considerazione » continentale; in seconda lettura si pronunciava invece sulle sue linee generali, cioè sul principio informatore e sull'opportunità politica, e se il
voto non era favorevole il bill era caduto per la durata di quella sessione; se il voto era favorevole, si passava a un esame libero, absque
formis, da parte del « Comitato generale » o privato, cioè di un mi-
68
La storia del diritto parlamentare
nimo di venti deputati selezionato dalla spontanea astensione dei non
competenti o non interessati alla materia, che lavoravano sotto la direzione non più dello Speaker dei Comuni, ma di un Chairman, su un
piano quasi di conversazione, allontanato il pubblico dalle tribune e
senza resoconto; il progetto, con gli eventuali emendamenti, era discusso
sempre in sede di seconda lettura articolo per articolo dai Comuni; la
terza lettura, a distanza di tempo, era per il coordinamento e il voto
finale. Il sistema mirava a riunire i vantaggi di un esame meditato a
più riprese e quelli di una discussione informale e quasi confidenziale,
ma sulla base di un chiaro e precostituito indirizzo politico dell'assemblea sul fondo del problema esaminato. Come tale, ebbe sostenitori già
nel Parlamento subalpino, e per la sua adozione si impegnarono allora
e poi tenaci battaglie parlamentari. Vi era poi anche un'altra alternativa
teorica, quella dei comitati permanenti del Congresso americano, con
competenza specializzata per singole materie: ma si temeva che espropriassero l'assemblea dei suoi poteri, divenendo arbitri della sorte dei
progetti di legge. Di fatto, nei due progetti organici di riforma deb regolamento discussi alla Camera, l'uno e l'altro su relazione Torelli, nel
1850 e 1856 ma mai giunti al voto, proposte in questo senso non furono
accolte, orientandosi invece per contaminazioni del sistema inglese, o
per la nomina di commissioni ad hoc che esaurissero il proprio compito
nell'esame di un singolo progetto. Va ricordato invece che un deputato
e giurista fra i più attivi anche in tema di regolamenti, Matteo Pescatore, avanzò il 3 novembre 1848, e riprese più volte in seguito, l'idea di
un'unica Commissione permanente di legislazione (alla quale il Guardasigilli Pinelli oppose che avrebbe fatto concorrenza per un verso agli
Unici, per l'altro al Consiglio di Stato), atta a promuovere e seguire un
programma a lungo termine di riforme nei vari settori dell'ordinamento,
che era da adattare parte a parte ai nuovi principi affermati dallo Statuto. « È d'uopo, dunque - sosteneva -, che una commissione permanente
tenga l'occhio fisso all'insieme della legislazione, ed a tale progresso sociale, prima che la società la quale sorte dalle mani del despotismo possa
paragonarsi a una città regolarmente costrutta. Sappiamo per riformare poi queste città come se la piglia un governo: concepisce idealmente, che queste società siano tutte spianate al suolo, ne fa un piano
generale, e quindi a mano a mano si presentano le occasioni si ingiunge
ai proprietari di costruire secondo il lineamento, e ne riforma una interamente. Ma in entrambe le ipotesi è pur d'uopo conoscere il piano
generale, altrimenti si procede a caso, e dopo mille ricostruzioni la città
sarà ancora irregolarmente ricostrutta ».
La storia del diritto parlamentare
69
6. - L'assunto stesso di un'esposizione dei « precedenti » del vigente
diritto parlamentare italiano esclude di per sé una considerazione tutta
storicizzante dei vari periodi interni nei quali si potrebbe suddistinguere,
ad esempio, il ciclo che dall'unità nazionale conduce fino alla crisi delle
libertà statutarie. Ne uscirebbe, è vero, singolarmente illustrata quella
costante « correlazione fra eventi politici e vicende regolamentari » (Tosi)
in forza della quale queste ultime ora riflettono sensibilmente, ora precisano modificazioni del regime politico e dei rapporti interorganici ai vertici
dello Stato. Ma, da un lato, si deve trascurare qui quanto ha ormai interesse meramente storico, come le lunghe controversie sulla preferibilità
del metodo degli « uffici » o di quello delle « tre letture » o quelle, più
strettamente collegate ai presupposti costituzionali del tempo, sul giuramento dei deputati di indirizzo antimonarchico, sui conflitti fra Camera
e Senato, sul Senato costituito in Alta Corte di Giustizia, o sui diversi
criteri volta a volta suggeriti per una riforma di tale consesso. Dall'altro
lato, si dovrebbe inevitabilmente ricorrere a periodizzazioni diverse per
questo o quel « blocco » di istituti, e ciò aprirebbe la via a discorsi di
complessità anche maggiore sulla natura e gli sviluppi successivi del regime costituzionale retto dallo Statuto albertino. Mancano quasi del tutto,
del resto, ricerche condotte con criterio storico sul vario destino, e la
diversa interpretazione che norme regolamentari, regole di correttezza
costituzionale e politica e l'intero complesso delle pratiche parlamentari affermatesi nel Parlamento subalpino subirono nel « salto » ad un
organismo parlamentare anche numericamente tanto dilatato, e chiamato
a esprimere l'indirizzo politico e a provvedere alle necessità legislative
di uno Stato tanto più vasto.
Una esposizione per problemi, e con riferimento a quei principi e
istituti che in qualche modo pur si ricollegano alla situazione odierna,
appare dunque preferibile. Del resto., mentre richiami al più lontano
punto d'appoggio storico delle varie regole nella tradizione parlamentare italiana si trovano sia nel classico lavoro di Mancini e Galeotti (1887)
sia ora in quello di Longi e Stramacci (1958): una « Storia dei regolamenti dal 1848 ad oggi » condotta come storia esterna delle fonti sia
per la Camera sia per il Senato si può trovare nel commentario di
Astraldi e Cosentino (1950). Queste tre opere rappresentano strumenti
di consultazione essenziali per chiunque intenda orientarsi sui precedenti storici del diritto parlamentare vigente: molti richiami di precedenti, pure anteriori al 1948, si troveranno del resto anche nei diversi capitoli e sezioni del presente lavoro collettivo. Quanto alle date
essenziali, gioverà solamente ricordare che la nuova base del diritto
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La storia del diritto parlamentare
della Camera nello Stato unitario si fissò con i regolamenti del 1863
e del 1868, che fra l'altro creava la giunta delle elezioni sul modello
inglese (ma proprio in quell'anno, con il Parliamentary Elections Act,
l'organo corrispondente veniva abolito in seno alla Camera dei Comuni,
attribuendo la competenza in materia ai giudici ordinari); che dopo
l'avvento della Sinistra al potere e il trasformismo, la costituzione con
il 1887 di una commissione per il regolamento quale organo permanente
segna il passaggio dall'idea di una riforma d'insieme a quella di successive modificazioni alla legge interna della Camera; che a seguito
degli avvenimenti politici degli anni 1898-1900 e del prolungato ostruzionismo parlamentare si ha dapprima il regolamento restrittivo imposto con un colpo di forza dal Pelloux e poi, nel corso dello stesso
anno 1900, quello liberale approvato sotto gli auspici del governo Zanardelli-Giolitti. Redatto sulla scorta delle più avanzate esperienze
parlamentari straniere, meglio studiate e conosciute negli anni precedenti specialmente per merito di un funzionario parlamentare e poi deputato giolittiano, il Brunialti, segnò una tappa decisiva nella precisazione dei diritti delle opposizioni e per la sua organicità forma tuttora
la « base del nostro diritto parlamentare scritto » (Tosi); che infine, con
il suffragio universale, fu introdotto nel 1912 il principio dell'indennità
per i deputati (alquanto più tardi, anche per i senatori). Parallelamente, si
ha anche uno sviluppo di conoscenze e di elaborazioni teoriche che
accanto agli studi comparativi del Brunialti e a quelli che oggi hanno
un grande valore di testimonianza storica di altri due funzionari della
Camera, il Galeotti e il Mancini, registra almeno altri due contributi
di notevole importanza sui rispettivi piani: i classici Principi del
Miceli (1910, 2a ediz. 1913) e l'acutissimo scritto di teoria generale di
Santi Romano « Sulla natura dei regolamenti delle Camere parlamentari » (1906).
Durante l'età statutaria, per lunghi periodi il Presidente della Camera fu eletto da una maggioranza politica in contrasto con il candidato
dell'opposizione. Lo stesso Presidente del Senato parve a lungo quasi
un « ministro per i rapporti con il Parlamento » della Corona (si veda
il Diario di fine secolo del Farini), senza dire che lo stesso Governo
ebbe una sempre più netta influenza sulla sua scelta. I due Presidenti,
in ogni caso, non rappresentando consigli di Presidenza multipartitici,
assicuravano essi stessi un costante collegamento con l'azione del governo, che non si pose mai il problema di un organo apposito al proprio
interno bensì quello di un Ministero della Presidenza del Consiglio,
lungamente invocato e progettato, che avrebbe potuto disporre anche
La storia del diritto parlamentare
71
di funzionari che seguissero in modo più organico le questioni e i rapporti parlamentari.
In ordine invece alla questione di fiducia alcuni punti sono da sottolineare. E innanzitutto la stessa linea di politica istituzionale, che veniva dal Parlamento siciliano ma trovò sostenitori anche nell'età della
Destra, secondo la quale nelle questioni che importassero fiducia i membri del Governo dovevano astenersi dal voto. Benché per ragioni ovvie
prevalesse l'opposta consuetudine, tuttavia restò almeno ferma la regola di correttezza costituzionale per la quale i ministri si astenevano
sempre, nella Camera alla quale appartenessero, sulle delibere che
riguardavano la costituzione o le prerogative della Camera stessa. Si
discuteva poi se avesse carattere fiduciario il voto sui bilanci (e la questione ha un'ampia letteratura in questo dopoguerra, sia in rapporto alle
Camere del Parlamento, sia ad esempio al Parlamento della Regione siciliana): si ebbe in effetti un caso nel quale la reiezione di un singolo
stato di previsione importò le dimissioni del singolo ministro, senza investire la compagine del Ministero.
Su due punti peraltro (che, senza che se ne facesse una vera e propria tesi giuridica, sono però tornati ad affiorare anche in questo dopoguerra) l'esperienza statutaria si definì in modo assolutamente univoco.
Il primo, che fosse illimitato il diritto delle Camere di provocare un
voto di fiducia, come era insindacabile quello del Governo di porre la
questione di fiducia su qualsiasi risoluzione considerata tale da investire il suo indirizzo politico-amministrativo. La formula « tale da investire » rinviava peraltro ad una norma non scritta che sconsigliava come
parlamentarmente e costituzionalmente non corretto il ricorso allo strumento della questione fiduciaria su disposizioni o temi marginali e in
modo sistematico. Il secondo, che non si potesse riconoscere alle commissioni, e in particolare alla più potente tra esse, quella del bilancio,
la possibilità di promuovere voti di sfiducia o comunque indirizzi che
includessero esplicitamente sentimenti di sfiducia: e ciò per una ragione
che va ancora considerata, e cioè che il carattere non pubblico delle
discussioni in seno agli « uffici », giunte e commissioni, temporanee o
permanenti toglieva al Capo dello Stato, all'intera Assemblea e alla opinione pubblica un essenziale termine di apprezzamento dei motivi dell'eventuale crisi. Per analoghi motivi si sosteneva che persino in tempo
di guerra un eventuale mutamento di Governo non avrebbe potuto
nascere da un voto di sfiducia né perfezionarsi con un voto di fiducia
da parte del « comitato segreto ».
72
La storia del diritto parlamentare
Quella che è stata considerata la più nefasta conseguenza dell'istituto della sessione in età statutaria, la caducazione cioè dell'intero lavoro
parlamentare precedente secondo il sistema inglese e americano (ma
contrariamente al sistema belga), aveva però anche un aspetto che può
presentare oggi un qualche interesse: quello cioè di rendere più realistico l'ordine del giorno, richiedendo ad ogni inizio di sessione un nuovo
e positivo atto di volontà del Governo o dei membri delle Camere perché una questione figurasse sull'agenda generale dei lavori, e soprattutto che l'esame di ogni provvedimento dovesse essere portato a termine oppur no nell'ambito di un ciclo temporale ben definito. È
quanto dire che si approdava ad un calendario legislativo e parlamentare di lungo periodo, con una sua tendenziale organicità, e ad uno
sgombero periodico di progetti destinati in caso diverso a trascinarsi figurativamente nell'o.d.g. delle Camere da un capo all'altro della legislatura. Il che valeva, inoltre, per l'esame delle petizioni, e secondo
un'opinione diffusa, delle stesse registrazioni con riserva della Corte dei
conti, nonché per bloccare l'attività di speciali Commissioni nei periodi
di sessione chiusa (esiste peraltro qualche raro precedente del Senato,
che deliberò di riprendere l'esame di dati provvedimenti nello stato e
grado in cui si trovavano nella legislatura precedente, e ciò in ragione
della sua composizione che restava immutata: ma a parte la infrequenza del procedimento e le contestazioni di cui fu oggetto, questa stessa
ragione rende tali precedenti meno invocabili oggi).
Quanto alla formazione dell'ordine del giorno delle singole sedute,
alcuni punti dell'esperienza statutaria vanno senz'altro attentamente
considerati. In primo luogo, i rapporti del Presidente con gli esponenti
parlamentari e con il governo per la sua determinazione (articolo 10 del
regolamento del 1863: «Il Presidente della Camera tiene gli opportuni
concerti coi Presidenti dei singoli uffìzi e coi ministri affinché siano portate in discussione le leggi proposte dalla Camera »). In particolare,
verso fine sessione o fine legislatura più volte si ricorse a contatti fra
Presidenti dell'una e dell'altra Camera e Presidente del Consiglio per
determinare quali argomenti dovessero avere la precedenza, e il Presidente della Camera si faceva in tale sede interprete anche delle istanze
dell'opposizione. Altra norma di semplice correttezza che tutelava i diritti della opposizione era quella, più volte invocata dai Presidenti, che
una semplice e contingente convenienza di maggioranza non dovesse
autorizzare l'inversione dell'ordine del giorno, alterando precedenze stabilite con evidente maggior riguardo a quest'ultima, la quale essendo già
in ciò favorita non poteva poi (tanto meno sistematicamente) revocare
La storia del diritto parlamentare
73
in dubbio quanto alla minoranza era stato nella stessa sede assicurato.
Una terza regola, sia di delicatezza sia di economia dei lavori legislativi, precludeva poi in massima che un tema legislativo in discussione
in una Assemblea fosse contemporaneamente affrontato per la deliberazione anche dall'altra, sia pure sulla base di progetti diversi: ciò, ovviamente, con riferimento alla sola aula, e non anche alle giunte e uffici,
o - più vicino a noi - alle Commissioni referenti.
Ma soprattutto avevano importanza le regole consuetudinarie che
fissavano la precedenza di certi argomenti rispetto ad altri: e così ad
esempio i bilanci, la votazione dei progetti di legge già approvati, la
discussione di quelli per i quali fosse stata chiesta e ottenuta l'urgenza,
nonché poi ogni genere di questioni attinenti la costituzione e le prerogative delle Camere, le autorizzazioni a procedere, la verifica dei poteri ecc. (nonché, all'epoca, la relazione sul numero dei deputati impiegati, vincolato nel massimo, e le conseguenti deliberazioni).
L'imparzialità del Presidente della Camera, nonostante il fatto dell'elezione a maggioranza talora ristretta, fu ripetutamente affermata in
linea di principio: il che non toghe che nella prassi fosse una lenta conquista, e che solo ad esempio nel 1876 il primo Presidente eletto dopo
la caduta della Destra, Crispi, disponesse la cancellazione del suo nome
dall'elenco per la chiama nelle votazioni. Per converso va osservato che
molte delle questioni agitate in quel tempo inerivano ad aspetti dell'azione del Presidente strettamente connessi con l'attuazione del programma legislativo del Governo, aspetti che l'attuale dottrina è tornata
a considerare come necessari, e perfettamente conciliabili con l'osservanza dei doveri di imparzialità. Il parametro dello speaker della Camera dei Comuni, con le sue peculiari caratteristiche, faceva qui necessariamente perdere di vista la diversa funzione che il Presidente poteva
assumere in altro sistema, senza con ciò ferire i principi liberali.
In età statutaria venne, in genere, esclusa un'attività di controllo
da parte degli uffici, riservandola all'aula: ma non mancano le esperienze in senso contrario. Le più importanti sono la Giunta per l'esame
delle registrazioni con riserva della Corte dei Conti alla Camera e la
Commissione di finanza al Senato: benché i risultati della loro attività non si possano dire estremamente penetranti, giunsero però a occasionare proposte di un certo interesse, come quella che la trasmissione
da parte della Corte fosse quindicinale anziché annuale, e che questa
attività di controllo avesse carattere continuativo senza arrestarsi di
fronte alla chiusura delle sessioni.
5*.
74
La storia del diritto parlamentare
La questione dell'organizzazione dei servizi parlamentari ebbe raramente in età statutaria l'onore di una discussione in seno alle Camere.
La circostanza ha una sua spiegazione nel fatto che sembrava trattarsi
in larghissima misura di questioni pratiche ed empiriche da lasciare alla
prudente discrezione dei Questori e, per alcune questioni, della Presidenza delle due Assemblee. L'ottica del tempo era quella di una buona
cura della verbalizzazione, del cerimoniale, della polizia interna e di
alcune infrastrutture materiali delle Camere, mentre da un lato non
emergevano (per meglio dire, non si aveva intera coscienza della loro
emersione) i compiti poi così rapidamente sviluppati di consulenza e assistenza tecnico-legislativa; dall'altro funzioni poi passate in parte alla
burocrazia erano disimpegnate in più larga misura e direttamente da
membri dell'Assemblea.
Merita solo attenzione la circostanza che in diversi periodi - alla
Camera dal 1868 al 1927 - la nomina di certi funzionari (ad es., Estensore del processo verbale e Bibliotecario) era di competenza delle Assemblee. Ma le norme relative erano poi solo il correlato della parziale
e imperfetta affermazione della concezione garantista della funzione presidenziale, essendo rimasta a lungo l'elezione del Presidente un fatto
di maggioranza politica, fino al punto di motivare le dimissioni del
Governo in caso di insuccesso del candidato da esso appoggiato. Solo
nel 1876, si è detto, con l'avvento della Sinistra al potere il nuovo Presidente della Camera, Crispi, si fece cancellare dall'elenco per la chiama
nelle votazioni, intendendo affermare un ruolo del Presidente sotto più
aspetti affine a quello dello Speaker inglese: ma a tale configurazione
propriamente non si giunse mai. Parve dunque per lungo tempo naturale che, non trovandosi collocato il Presidente in tutto e per tutto super
partes (e d'altro canto essendo il Presidente in Senato di nomina regia),
le due Assemblee rafforzassero le proprie garanzie a livello burocratico
mediante designazioni sì elettive, ma per loro natura spoliticizzate, e
che in ogni caso offrivano ai funzionari che ne fossero investiti una base
morale e giuridica di indipendenza. Via via però che la Presidenza accentuava il suo carattere imparziale, tali norme sembrarono sempre più
anacronistiche: si addivenne a deleghe dei propri poteri in materia,
e la stessa figura dell'Estensore del processo verbale perse rilievo.
Due punti speciali dell'esperienza statutaria meritano ancora considerazione. Il primo, la compilazione dei bilanci da parte dei Questori
e la loro discussione in Comitato segreto, consentiva un più penetrante
esame della gestione interna e la formulazione di rilievi e censure destinati almeno ad attenuarsi quando li si sapesse destinati non solo ai col-
La storia del diritto parlamentare
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leghi chiamati a deciderne, ma all'opinione, pubblica nazionale. In regime di pubblicità della discussione sui bilanci è invece naturale che
essa acquisti un diverso pregio, e si converta in un dibattito sugli indirizzi di organizzazione dei servizi e sulla stessa funzionalità delle Camere, perdendo invece rilievo l'esame analitico delle poste di bilancio
e dei consuntivi.
Un capitolo a sé meriterebbero le norme sui controlli amministrativi e contabili interni della Camera e del Senato in età statutaria. Valgano per tutte quelle del « Regolamento di amministrazione e contabilità
del Senato » (approvato il 2 luglio 1876) a tenore del quale sia il rendiconto degli esercizi scaduti sia il progetto di bilancio di quelli futuri
dovevano essere inoltrati dai Questori con motivata relazione alla Presidenza, e da questa trasmessi con le eventuali osservazioni ad altro organo, la Commissione di contabilità interna eletta dal Senato, che a sua
volta li sottoponeva all'Assemblea convocata in seduta segreta corredati di propria relazione, come in Francia. In corso d'esercizio, poi,
ogni nuova spesa eccedente la disponibilità del fondo per spese impreviste doveva essere a sua volta autorizzata dall'Assemblea.
Uno dei temi più discussi in età statutaria fu quello del regime
speciale delle « leggi organiche », stante la constatazione che con pochissime eccezioni i codici, le grandi leggi amministrative e le leggi angolari in materie importanti e di rilievo anche costituzionale che fossero di qualche mole e complessità tecnica non potevano essere opera
del Parlamento. Di fatto, si era ricorso ai pieni poteri (leggi del '59) o
alla delega al governo (leggi del '65) o comunque a procedure anomale
che evitassero la discussione e gli emendamenti articolo per articolo.
Quando non si ricorresse a questi mezzi, le Camere riuscivano incapaci
a far procedere l'opera delle leggi organiche oltre i primi articoli, e finivano col ricorrere a « stralci ». In qualche caso (codice di commercio
in Senato nel 1880, codice della marina mercantile alla Camera nel
1877) poteva soccorrere l'espediente di porre in discussione solo quegli
articoli, sui quali fossero state avanzate proposte di emendamento; o
anche all'altro di proporre un articolo unico e il codice in allegato, volando solo gli emendamenti all'allegato; in ogni caso era spesso giocoforza delegare il Governo a far norme transitorie e di attuazione e a
procedere al coordinamento con altre leggi e istituti. Ma, si notava
« questa specie di disinteresse delle Assemblee legislative nei lavori di
codificazione trascina seco peraltro la necessità di accordare al Governo
delle facoltà eccezionali » (Mancini e Galeotti).
76
La storia del diritto parlamentare
Già Pellegrino Rossi nel suo Traité de droit penai (1829) suggeriva
un dibattito generale e di principi da parte del Parlamento, che prefiggesse criteri direttivi ad una commissione (o anche a un singolo codificatore) nominata dall'esecutivo. La verifica della conformità dei suoi lavori ai criteri fissati doveva essere opera di una Commissione parlamentare ad hoc che procedesse di concerto con la prima ai necessari aggiustamenti e li sottoponesse all'Assemblea per un voto capitolo per capitolo, così da non porre a rischio l'organicità del sistema legislativo da
introdurre.
Verso la fine del secolo si portò l'attenzione sul metodo adottato
per la compilazione del Codice civile spagnolo del 1889, per il quale
le Cortes avevano votato una « legge delle basi » dopo aver preso conoscenza dell'avanprogetto governativo, restando demandato ad una Commissione costituita presso l'esecutivo, ma con particolari garanzie, di sottoporre al Parlamento un progetto definitivo conforme a tale espressione
di volontà: procedimento ritenuto superiore a quello di delegazione legislativa al governo, in ragione sia della previa conoscenza della portata
che questo intendeva dare ai principi legislativi enunciati, sia della maggior ampiezza e precisione delle « basi » rispetto alle ordinarie leggi di
delega (non assoggettate in regime statutario all'onere di una precisa
definizione di criteri, e di fatto spesso con indicazione più che generica
dell'oggetto), sia infine della speciale composizione delle commissioni di
redazione che garantiva una certa autonomia anche nei confronti dell'esecutivo, implicita del resto nel fatto stesso di appoggiare le proprie
conclusioni alle « basi ». Ancora nel 1923, discutendosi una legge di
delega in materia di codici, la speciale Commissione della Camera italiana presieduta dal Meda si dichiarerà favorevole a tale procedura.
Tutte queste restarono, ad ogni modo, proposte. In linea di fatto
sembrano da ricordare almeno due vicende esemplari riguardanti le due
massime tra le leggi organiche, i Codici civile e penale. Il primo venne
discusso nei due rami del Parlamento e l'apposita Commissione del Senato ne stilò anche apposita relazione: ma la Camera, anche in ragione
del trasferimento della capitale a Firenze (1865), che creava una ragione
assoluta di urgenza, dovette limitarsi a un esame di principi informatori. Con leggi di delega si autorizzò il Governo a pubblicare i codici
e alcune grandi leggi organiche, specialmente amministrative, e a ciò
esso provvide avvalendosi di una Commissione formata di parlamentari,
magistrati, consiglieri di Stato e giuristi a livello universario, articolata
in singole sottocommissioni, ma con diritto di ogni membro a sottoporre
proposte e rilievi a ciascuna di esse. Si ebbe così in pratica a titolo tem-
La storia del diritto parlamentare
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poraneo, ma per un complesso di leggi fondamentali che sotto molti
aspetti integrarono o modificarono la costituzione dello Stato, un ufficio
di drafting di tipo abbastanza moderno. La garanzia del Parlamento risiedeva qui nel fatto che - ad esempio - la sottocommissione più importante, quella per il Codice civile, fosse presieduta dallo stesso Presidente della Camera, mentre fra i membri a titolo pieno figuravano tre
deputati e sei senatori (alcuni dei quali erano poi anche magistrati ordinari e amministrativi) su quattordici membri complessivi. L'articolazione ulteriore era data da uno staff tecnico di membri segretari, e dall'eventuale utilizzazione di esperti (ad esempio, di un gruppo di ingegneri per la materia dell'alluvione), oltre alla possibilità per singoli corpi
e cittadini di inviare memorie e suggerimenti.
In difetto di una procedura speciale, si può considerare esemplare
la vicenda del Codice penale del 1889, il primo che avesse vigore nell'intero territorio del Regno, Toscana inclusa. Per condurre a termine
l'impresa, il Governo fece ricorso (come altre volte, prima e in seguito) all'espediente di minacciare il ritiro dell'intero progetto se fossero stati mantenuti emendamenti della prima Camera, dopo che ne
aveva già introdotti il Senato. La Camera allora si piegò limitandosi a raccomandazioni per il coordinamento e ad ordini del giorno,
ma 1) il deputato Chimirri, per riaffermare in via teorica i diritti del
Parlamento, ne mantenne a titolo figurativo uno, facendolo respingere;
2) la legge fu approvata autorizzando il Governo non solo al coordinamento, ma a modificare l'allegato in cui consisteva il Codice come
tale, « tenendo conto delle discussioni parlamentari ». Si ottenne così
un risultato sotto molti aspetti analogo a quello testé ricordato del
1865, e che offrì un ulteriore argomento a quanti sostenevano che solo
per queste vie si sarebbe potuto dare al paese una serie di grandi corpi
organici di leggi, e che meglio fosse per il Parlamento garantirsi istituzionalmente circa determinate procedure di drafting anziché attenderle
di volta in volta dal senso di equilibrio e di correttezza costituzionale
del Governo cui si accordasse la delega. Va anche ricordato che gli
emendamenti del Senato non avevano, all'epoca, valore analogo a
quelli odierni, trattandosi di un corpo di alti magistrati in esercizio
di funzioni, consiglieri di Stato, servitori attuali e in quiescenza dello
Stato, ecc., che da tale sua particolare composizione faceva discendere
una sorta di specializzazione, ancora una volta, nel drafting. Pertanto
i progetti presentati dal Governo originariamente in quella sede per un
verso vi ricevevano una miglior veste tecnica, per l'altro, stante la prevalenza politica della Camera elettiva, vi subivano spesso modifiche che
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La storia del diritto parlamentare
avevano, mutatis mutandis, un valore intermedio fra quelle che oggi
risulterebbero dalla consultazione governativa del Consiglio di Stato
e da quella del C.N.E.L. La specializzazione tendenziale del Senato suppliva così doppiamente (e di qui l'autorità sostanziale e il riconosciuto pregio tecnico delle relazioni del suo Ufficio centrale) alla mancanza di un efficiente organo di consulenza e redazione legislativa che il Governo fosse
tenuto ad utilizzare, e a quella presso le Camere di qualcosa di paragonabile a ciò che oggi sono il Legislative Council statunitense e il Legislative Referenze Service britannico. Il Parlamento disponeva cioè
istituzionalmente, nella sua complessiva organizzazione, di un organo in
grado di assicurare tale essenziale funzione ed anche di compensare
l'affievolimento, che si registrò in più periodi, dello stesso coordinamento dell'iniziativa legislativa del Governo.
7. - L'ingresso dell'Italia nella guerra europea, voluto contro la
maggioranza parlamentare da un Governo che aveva però il sostegno
attivo della piazza, segnò anche il vero inizio di una fase di grandi
trasformazioni nel funzionamento del sistema parlamentare, e di tutta
una nuova fase dei dibattiti ad esso relativi. Sotto il profilo del fondamentale rapporto politico fiduciario fra Parlamento e Governo, si può
dire che restassero ferme le regole non scritte consolidate al riguardo
nell'età precedente, con la conseguenza dapprima della formazione del
Ministero Boselli di unità nazionale in luogo del Ministero Salandra
e poi, dopo il formale voto di sfiducia della Camera del 25 ottobre
1917, del Ministero Orlando. Anche i verbali dei « Comitati segreti *
di Montecitorio sulla condotta di guerra, recentemente pubblicati dalla
Camera stessa, mostrano come il Parlamento sapesse rivendicare, e potesse concretamente esercitare in tali occasioni, le sue fondamentali prerogative politiche.
Le alterazioni o piuttosto, come è stato detto, disfunzioni del sistema parlamentare nel corso della guerra (Perticone) riguardano piuttosto l'attività legislativa e quella di controllo sull'amministrazione. Si
verifica qui un processo che non ha riscontro nei grandi Parlamenti
delle nazioni alleate, vuoi in ragione di un mancato e pur necessario
aggiornamento dei congegni di procedura parlamentare, e vuoi per un
diverso uso degli strumenti procedurali esistenti. In Francia, in Inghilterra, si manifestò l'orientamento a sedere quasi in permanenza, per
offrire una costante collaborazione ai rispettivi Governi impegnati nello
sforzo di guerra e controllarne l'attività: riferendosi alle sole sedute
d'aula, fra il 1915 e il 1917 la Camera italiana ne tenne 150, quel'a
La storia del diritto parlamentare
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francese 371, la Camera dei Comuni 423; la proporzione fu analoga
per le rispettive Camere alte (Tittoni). Ma, soprattutto, il Parlamento
italiano definì su base diversa fin dall'inizio i suoi rapporti con l'esecutivo, votando - con 407 voti contro 74 alla Camera - la legge sui
pieni poteri 22 maggio 1915, per la quale « il Governo del Re ha facoltà, in caso di guerra e durante la guerra medesima di emanare disposizioni aventi valore di legge per quanto sia richiesto dalla difesa
dello Stato, dalla tutela dell'ordine pubblico e da urgenti e straordinari
bisogni dell'economia nazionale ». Tale delegazione di poteri legislativi da un lato ebbe rilievo ben diverso da quelle analoghe, il cui uso
fu del pari soggetto a censure di incostituzionalità, avutesi in occasione di campagne di guerra nel 1848, nel 1859 e nel 1866, e ciò,
s'intende, a causa della lunga durata della guerra. Dall'altro, Governo
e burocrazia diedero alla delega significato amplissimo, fino a legiferare in materie che avevano scarso o nessun collegamento con la situazione bellica. La possibilità di controllo e di intervento del Parlamento
era tanto più ridotta, in quanto esso non poteva contare sull'attività
metodica e articolata delle commissioni del Congresso americano, né di
quelle della Camera francese, o delle quasi trecento commissioni ad hoc
per speciali argomenti, eventualmente integrate da tecnici, che furono
nominate dal Parlamento inglese in occasione della guerra. Anzi, lo stesso
controllo esercitabile fino allora in base alle registrazioni con riserva
della Corte dei Conti venne semiparalizzato a causa dell'impossibilità
per quest'ultima di far fronte alla situazione determinata dall'economia
bellica e dal nuovo regime normativo, ostacolo ai controlli e strumento
della « dittatura di guerra » (Maranini) o « dell'esecutivo » (Perticone).
Anche in Italia, riprendendo una vecchia proposta avanzata dal
senatore Nigra in sede di discussione sui poteri straordinari per la prima guerra di indipendenza, nel giugno 1916 una commissione di senatori e deputati si recò dal Presidente del Consiglio Salandra chiedendo
instantemente la creazione di Commissioni parlamentari: fu anche
per non averle accettate che il Salandra cadde. Sembrò però che con
la costituzione di un Ministero « nazionale » a larghissima base di rappresentatività fossero assorbite le esigenze cui si era pensato di far
fronte mediante speciali Commissioni tecniche investite di un potere
di controllo (e, si noti, in via eccezionale con riferimento alla straordinaria situazione di guerra, non come riforma permanente). Nel giugno
1917 il Governo, presentandosi al Parlamento riaperto, annunciò il
suo proposito di formare una grande Commissione, ed anzi con successivo decreto luogotenenziale ne venne anche nominato il Presidente,
80
La storia del diritto parlamentare
ma differendo nomina e insediamento della Commissione ad un futuro,
che non venne mai. Nel mese successivo, le Camere votarono addirittura una legge che istituiva una Commissione speciale per collaborare
con il Governo per i provvedimenti urgenti in materia doganale: ma
la legge rimase lettera morta, né si procedette all'elezione dei commissari. Tutt'altro carattere ebbe la Commissione « per i problemi del dopoguerra » formata ad iniziativa del Governo, seppure con larga presenza di elementi parlamentari delle più varie tendenze.
Sostanzialmente, il regolamento della Camera, così come quello del
Senato, non subì alterazioni; le stesse riunioni in « comitato segreto »
convocate nel giugno e nel dicembre del 1917 per discutere le comunicazioni del Governo su questioni militari e di politica estera, sull'esempio di quanto si era praticato in Inghilterra, non diedero luogo a
inconvenienti gravi sotto il profilo procedurale. Venne in luce, però,
l'antica lacuna di una disciplina di questo tipo di sedute, che non si
tenevano da cinquantun anni se si astrae da quelle, consuetudinarie, per
i bilanci. Ma proprio per queste ultime una relazione Brunialti del
1907 aveva denunciato che « La discussione segue disordinata e confusa. Si direbbe che per essa sono sospese tutte le norme del regolamento, e menomata persino l'autorità del Presidente. Le proposte più
arrischiate possono così trovare accoglienza, senza alcuna di quelle
guarentigie che il regolamento ha sancite, e ne derivano, come qualche
volta è avvenuto, tali conseguenze che la Presidenza della Camera neppure si è trovata in grado di eseguirne le deliberazioni » : laddove invece,
ad esempio, la Camera dei Comuni prevedeva per tali occasioni uno
speciale presidente e apposite norme di procedura. Il lamento per la lacuna era, del resto, anche più antico. Prima ancora che finisse la guerra,
la Giunta del regolamento presentò alcune proposte per regolamentare
la materia: altre di carattere più generale, che tenevano conto delle
critiche e dei suggerimenti avanzati in quegli anni da diversi parlamentari, ne presentò il 30 novembre 1918. Ma, nonostante la XXIV legislatura fosse stata prorogata oltre il termine di cinque anni fissato
dall'art. 42 dello Statuto, mancarono il tempo e l'attenzione necessari
per deliberare in materia.
L'intero problema del regolamento della Camera era posto del
resto implicitamente su nuove basi dalla riforma della legge elettorale
politica che introdusse la proporzionale per le elezioni del 1919, e più
in generale dalla stessa atmosfera nella quale i partiti di sinistra e la
Confederazione del lavoro reclamavano una Costituente, ed anche esponenti della classe di governo tradizionale come Giolitti volevano, ad
*
La storia del diritto parlamentare
81
esempio, una revisione dell'art. 5 dello Statuto che rimuovesse i limiti
alla sovranità parlamentare nella sfera della politica estera (già durante la guerra reiteratamente era stata proposta una Commissione parlamentare permanente che affiancasse il Governo in questa speciale
materia). La proporzionale, come subito notarono i più sagaci osservatori della costituzione materiale, aveva come immediato riflesso una
trasformazione di fondo del Governo di Gabinetto, per la quale il Presidente del Consiglio non era più il capo della maggioranza parlamentare, ma piuttosto l'arbitro di una coalizione formata sulla base di programmi precostituiti dai partiti, i quali designavano le proprie delegazioni nel Governo facendo cadere l'elemento di intuitus personae
fiduciario fra Presidente e personalità chiamate a far parte del Governo.
Già allora la prassi delineò l'istituto non scritto del comitato parlamentare di maggioranza, quale organo di collegamento fra i direttivi
dei gruppi parlamentari e l'esecutivo, e di controllo su quest'ultimo per
l'attuazione del programma concordato.
Ma se « la trasformazione del regime parlamentare era, dunque,
già avvenuta con la semplice adozione della rappresentanza proporzionale del corpo elettorale, divenne più marcata e definitiva con la riforma dell'ordinamento interno della Camera » (Ambrosini), la quale
seguì con le modificazioni discusse il 24 e 26 luglio e il 6 agosto 1920.
Per esse, la vecchia e ormai di fatto archiviata controversia tra i
fautori del sistema degli uffici e di quello delle « tre letture » veniva
definitivamente a cadere. In luogo dei nove « uffici », rinnovati a sorte
ogni due mesi, si istituivano altrettante Commissioni parlamentari con
competenza specializzata per una serie di materie [1): affari interni,
ordinamento politico e amministrativo, igiene e sanità; 2): rapporti
politici con l'estero e le colonie; 3): finanze e tesoro; 4): esercito e marina militare; 5): lavori pubblici e comunicazioni; 6): economia nazionale; 7): legislazione di diritto privato, affari di giustizia e culto,
autorizzazioni a procedere; 8): istruzione pubblica e belle arti; 9): legislazione sul lavoro, emigrazione, previdenza sociale]. Esse apparivano
inoltre dotate di maggiore stabilità, essendo nominate per un anno
sulla base di designazioni dei gruppi parlamentari, che prendevano il
nome di « uffici », con un « ufficio promiscuo » per i gruppi che non
raggiungessero venti aderenti e gli isolati. È notevole però che il limite
fosse abbassato a dieci per i « partiti » (figura da noi per la prima volta
costituzionalmente rilevante) ai quali si riconoscesse una organizzazione
unitaria nel paese, norma di favore della quale beneficiarono allora
i socialisti riformisti e i repubblicani. Le attribuzioni delle Commis-
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La storia del diritto parlamentare
sioni concernevano essenzialmente l'esame preventivo dei disegni e delle
proposte di legge: ma nella prassi, attraverso il cosiddetto « diritto di
notizie », esse si orientarono immediatamente nel senso di un controllo
metodico sui vari rami dell'azione di Governo, configurandosi, come fu
detto, quali « organi intermedi di collegamento fra Camere e Governo ».
Collaborando con essi, si costituivano come suoi interlocutori necessari : « Il Governo, in sostanza, si trova ora di fronte le Commissioni
e non solamente l'Assemblea, anzi le Commissioni prima dell'Assemblea
e come avanguardia dell'Assemblea, che riproduce le divisioni e gli
atteggiamenti dell'Assemblea su scala ridotta, ma con ogni chiarezza »
(Perticone). Ancora una volta, si attuava così o si concretava sul terreno dei regolamenti parlamentari (anzi di quello delia sola Camera,
perché il Senato si limitò a introdurre, finalmente, gli istituti dell'interrogazione e della mozione in Aula, e ad istituire una Commissione
per la politica estera) una rilevante modificazione dell'ordinamento costituzionale per quanto attiene al tema vitale dei rapporti fra esecutivo
e legislativo.
L'esperienza del nuovo sistema portò a un primo aggiornamento
di queste disposizioni aggiuntive, consegnato in 10 articoli, già dopo
un anno e mezzo dal primo insediamento delle Commissioni permanenti, che si era avuto il 30 novembre 1920. Con deliberazione del
22 giugno 1922, la V Commissione fu suddivisa in due, rispettivamente
per i lavori pubblici e per le comunicazioni, e la VI in altre due per
l'agricoltura, e per l'industria e commercio. Ne fu aggiunta, infine,
una a carattere transitorio per le terre liberate e redente, con che il
numero delle Commissioni saliva a dodici, e furono rafforzati i poteri
della Commissione finanze e tesoro. Tutti i deputati dovevano ora far
parte di una Commissione, e a questo scopo il numero dei componenti
di ciascuna (tolta quella degli esteri) era portato a circa 44, elevando
contemporaneamente da un quinto ad un quarto il quorum necessario
per autoconvocazioni su determinati argomenti consentite già nel 1920,
parallelamente all'introduzione di un procedimento di autoconvocazione
dell'Assemblea ad iniziativa della maggioranza dei suoi componenti, o
di cinque Commissioni. La Commissione finanze e tesoro assumeva
un ruolo centrale e dominante, dovendo esaminare tutti i progetti di
legge, nonché gli emendamenti, che comunque implicassero nuove entrate e spese, o loro aumenti e diminuzioni. Il quadro di questo nuovo
avvio del diritto parlamentare italiano non sarebbe completo, se non si
aggiungesse che ad iniziativa del Presidente del Consiglio Giolitti si
ebbe nel 1920 la formazione di una Commissione parlamentare di in-
La storia del diritto parlamentare
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chiesta sul complesso delle pubbliche amministrazioni, fatto senza precedenti nella storia parlamentare italiana, e che consentì un'ampia e
globale rilevazione di fatti e la formulazione di proposte organiche
che saranno in parte riprese, dopo la marcia su Roma, nel nuovo
quadro dei pieni poteri per la riforma burocratica.
Modificazioni di portata minore, ma non indifferenti, furono introdotte dalla Giunta del regolamento nella stessa giornata del 22 e
nella successiva del 23 giugno 1922. Esse sono importanti perché fissano l'ultimo stato del regolamento della Camera elettiva prima degli
avvenimenti dell'ottobre 1922: quello cui si riferiranno sia la Consulta,
sia l'Assemblea costituente sia, da ultimo, la Camera dei deputati nella
prima legislatura repubblicana per riaffermare in modo concreto la propria continuità con il regime liberale prefascista. Fra l'altro, per riparare a un inconveniente rivelato dall'esperienza dell'anno e mezzo trascorso, venne fissato alle Commissioni un termine di due mesi entro
il quale riferire all'Assemblea, e contro le deliberazioni di sorpresa in
materia legislativa fu attribuito al Governo, alla Commissione competente o a dieci deputati il diritto di richiedere il rinvio al giorno successivo della discussione di emendamenti o articoli aggiuntivi. Vi fu
però scarso campo a verificare la funzionalità concreta del nuovo sistema perché, con la delega legislativa conferita al Governo sorto dai
fatti dell'ottobre, l'attività delle Commissioni venne subito a ridursi a
ben poca cosa. Resta, in ogni caso, che questo delle Commissioni permanenti, collegato con il riconoscimento formale dei gruppi parlamentari, fu l'ultimo ed unico aggiornamento in profondità del diritto parlamentare in età liberale, anche se formalmente non potè concretarsi
in un nuovo testo regolamentare organico, ma fu attuato con singole
modificazioni.
Il nuovo sistema non venne condotto fino alle sue naturali conseguenze almeno in due punti essenziali. Non ebbe vita, infatti, un organo simile a quella « conferenza dei Presidenti » che la vicina Francia
conosceva già dal 1911, e che appartiene in Italia all'esperienza del
secondo dopoguerra. Venne, d'altra canto, mantenuto contraddittoriamente l'istituto degli ordini del giorno al termine della discussione generale in Aula dei progetti di legge, che aveva un qualche senso solo
con il sistema delle tre letture (del quale costituiva una reminiscenza
storica) ma non ne manteneva alcuno nel quadro di quello degli uffici,
e in ogni caso era perfettamente incompatibile con quello delle Commissioni permanenti. Esso dava luogo, del resto, a gravissimi dubbi
costituzionali in relazione al principio stesso del bicameralismo: nel
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La storia del diritto parlamentare
sistema delle tre letture, infatti, un ordine del giorno poteva vincolare
l'ulteriore esame da parte della stessa Camera e quello del comitato
generale, fissandone una direttiva politica. In ogni altro contesto poteva
assumere un certo valore morale e anche politico nei confronti del
Governo, che non poteva non tenere conto, seppure in debolissima misura, del voto di un ramo del Parlamento; ma non concorrendovi l'altro
ramo, non poteva certo assurgere a quel significato quasi di previa
interpretazione autentica delle leggi che spesso i parlamentari proponenti, e molto più raramente la dottrina, volevano accordargli. È
appena il caso di ricordare che con le Commissioni permanenti veniva
a subire un ulteriore e forse definitivo colpo l'idea di un qualsiasi significato e valore interpretativo, rilevante per l'interprete e in particolare pei tribunali, del complesso dei lavori preparatori delle leggi. Idea
del resto da tempo discreditata in dottrina, in ragione del tramonto
déìYécole de l'éxégèse e in Italia, in particolare, sull'autorità dello
scritto assai penetrante di uno dei maggiori civilisti, nonché senatore
del Regno, Vittorio Polacco, intitolato « Penombre e sorprese nella
formazione delle leggi » (1912, ma pubbl. nel 1914).
8. - Le vicende del diritto parlamentare fra il 1922 e il 1943 non
si possono mettere interamente fra parentesi, come vorrebbe certa
storiografia, tra perché alcuni istituti allora introdotti, e principalmente
il sistema decentrato di approvazione delle leggi in Commissione e il
carattere non pubblico delle sedute relative, nonché modificazioni di
un certo rilievo dell'ordinamento dei servizi interni, furono mantenuti
o ripresi nel periodo costituzionale transitorio e poi dalle Camere repubblicane; e tra perché alcune riforme di quegli anni possono ricollegarsi con dibattiti e progettazioni attuali. D'altra parte, sarebbe improprio e non utile dilungarsi in questa sede su pur incisive modificazioni del regolamento della Camera che hanno una grandissima importanza per la storia costituzionale del periodo fra le due guerre, ma
essenzialmente sono poi da ricondurre ai nuovi presupposti di regime
allora posti in essere, primo fra tutti lo spostamento del centro di gravitazione del sistema non tanto dalle Camere al Governo, quanto e
proprio al Capo del Governo, e la correlativa degradazione del Parlamento ad organo secondario e periferico nel sistema, con compiti
di collaborazione tecnica alla formazione delle leggi, restando la consulenza politica riservata semmai al Gran Consiglio del fascismo. Così,
ad esempio, le modificazioni elettorali che dapprima introdussero il
premio di maggioranza accordando il 60 per cento dei seggi alla Ca-
La storia del diritto parlamentare
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mera alla lista che avesse riportato almeno il 26 per cento dei voti
(legge Acerbo); poi reintrodussero sulla carta il collegio uninominale
sostituendolo, prima che avesse attuazione, con un collegio unico nazionale sulla base di una sola Usta formata dal Gran Consiglio del
fascismo sulla base di designazioni del P.N.F. e di associazioni e categorie diverse; e infine dettero vita alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, non hanno lasciato traccia alcuna di sé nel nuovo ordinamento repubblicano. Alla stessa stregua, è da considerare al più una
curiosità storica il fatto che fino all'ultimo continuasse a funzionare
in seno alla seconda Camera un gruppo parlamentare di partito, Y Unione
fascista del Senato, regolato dall'allegato n. 5 allo statuto del P.N.F.:
organo o, secondo altre interpretazioni, ente pubblico a sé, la cui
esistenza si rendeva necessaria in ragione di poche decine di senatori
privi della tessera del partito. Essa provvedeva a indicare i nominativi per ogni genere di designazioni di spettanza dell'Assemblea, nonché
più tardi, quando con il 1939 si adottò anche in Senato il sistema delle
Commissioni legislative, a indicarne i componenti, ottenendo il pratico risultato dell'esclusione anche formale dell'elemento afascista dalla
maggior parte dell'attività legislativa.
Altre vicende possono essere invece utilmente ricordate. E prima
in ordine di tempo quella applicativa della legge 31 gennaio 1926,
n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche,
che mentre da un lato codificava la pratica dei decreti-leggi, dall'altro
tentava anche di limitarne il campo di applicazione mediante una procedura che si direbbe oggi di « delegificazione », configurando un vero
e proprio domaine du réglement anche in materie precedentemente regolate con legge. Si rovesciava così la linea patrocinata da autorevoli
parlamentari dell'età precedente, e in particolare dal Sonnino, che per
frenare la continua espansione degli uffici e servizi pubblici si erano
battuti non senza successi per la necessità dell'approvazione con legge
dei relativi provvedimenti: linea che aveva ovviamente perduto quasi
ogni senso con la pratica bellica ed anche post-bellica del ricorso su
larga scala ai decreti-legge, di sostanziale emanazione burocratica. Oltre
ai regolamenti di esecuzione di leggi, anche quelli indipendenti e interni,
o di organizzazione, sempre più spesso fino allora sostituiti da
leggi, erano ricondotti alla potestà regolamentare dell'esecutivo : « Se
si sfoglia infatti la Gazzetta ufficiale, i nove decimi dei decreti-legge
che vi sono pubblicati concernono appunto l'ordinamento degli uffici,
gli organici, l'esercizio delle aziende statali, le loro tariffe, ecc.: tutte
materie che in un grande Stato, che è anche in pratica una grande
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La storia del diritto parlamentare
amministrazione, non è concepibile che siano regolate con legge. Neanche in una grande società anonima l'ordinamento degli uffici, il trattamento del personale, i prezzi delle merci vendute o dei servizi resi al
pubblico sono sottoposti all'assemblea dei soci, ma sono, di regola,
materie riservate alla Direzione o, al più, al Consiglio di amministrazione » (relazione del Guardasigilli Rocco alla Camera). Per questa
via, dunque, si pensava a limitare l'area della legge, e in concreto del
decreto-legge. Solo che la pratica dei vari Ministeri si orientò allora
e poi nel senso opposto, per due decisive ragioni. La prima, che per
l'esercizio della potestà regolamentare era prescritto il parere di corpi
consultivi dell'amministrazione, e soprattutto del Consiglio di Stato,
che per le circostanze politiche di questa fase era praticamente più
temibile, e tecnicamente fondato su un esame più approfondito, che
non la sanzione delle Camere legislative. La seconda è che i regolamenti, come fonte formale subordinata, dovevano poi ricondursi in via
interpretativa nei limiti segnati dalle leggi vigenti, mentre con i decjetilegge, muniti della forza formale di legge, era dato travolgere norme
e principi previgenti. Le ripetute circolari e richiami del Capo del Governo e del Guardasigilli non sortirono effetto, tanto che con legge 4 settembre 1940, n. 1547, fu necessario emanare una ulteriore norma di
delegificazione, con riferimento anche alle leggi emanate nel frattempo
(Aquarone).
Una seconda novità tecnica di rilievo fu data dall'apparizione nell'ordinamento italiano della categoria delle leggi costituzionali in senso
formale, che si ebbe con la legge del 1928 sul Gran Consiglio del fascismo. Alla vaga e fluttuante categoria delle « leggi organiche », che
in età statutaria liberale erano considerate connesse con la costituzione fondamentale, ma al pari di questa erano poi modificabili nelle
forme del procedimento legislativo ordinario (tutt'al più si poneva in
dottrina, e in sede politica, la questione se ne fosse lecita l'emanazione o la modifica sulla base di poteri straordinari delegati al Governo)
si sostituiva così un definito catalogo di materie nelle quali il Governo e il Parlamento non potevano legiferare se non seguendo un procedimento « aggravato », che esigeva un parere del Gran Consiglio
del fascismo. Tali erano: 1) la successione al Trono e le attribuzioni
e prerogative della Corona; 2) la composizione e il funzionamento
del Gran Consiglio, del Senato del Regno e della Camera dei deputati; 3) le attribuzioni e prerogative del Capo del Governo; 4) la facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche; 5) l'ordinamento sindacale e corporativo; 6) i rapporti tra lo Stato e la Santa
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Sede; 7) i trattati internazionali che importassero variazione al territorio dello Stato o delle colonie, ovvero anche rinuncia all'acquisto di
territori. È appena il caso di ricordare che questo procedimento si
inseriva nel quadro dell'altro, per il quale in ogni caso il Capo del
Governo doveva a autorizzare » l'ordine del giorno delle Camere, nel
quale nessun argomento poteva essere inserito senza il suo consenso.
Con successiva legge del 1939 si precisò che la menzione del parere
reso dal Gran Consiglio doveva essere inclusa nella formula di promulgazione delle leggi costituzionali, e precedere quella dell'approvazione da parte delle due Camere.
Dopo la riforma regolamentare del 1924, seguita alle elezioni indette con il sistema del premio di maggioranza, e che fra l'altro segnò
l'accantonamento anche formale del sistema delle Commissioni permanenti per tornare a quello degli uffici (mai abbandonato dal Senato),
e dopo il nuovo regolamento del 1929 che si uniformava al principio
della lista unica di partito adottato per la Camera della XXVIII legislatura (mentre il Senato introduceva più limitate modifiche, abolendo
però a sua volta l'unica Commissione in precedenza istituita, quella per
gli affari esteri), la vera riforma di grande momento nelle procedure parlamentari si ebbe a seguito della creazione nel 1939 della Camera dei fasci
e delle corporazioni, i cui membri erano tali ope legis e ratione muneris in virtù delle posizioni ricoperte nel partito e nelle organizzazioni del regime, senza più bisogno di periodico rinnovo. Maggior significato giuridico, anche in relazione all'attualità, ha il sistema unico
al mondo delle Commissioni deliberanti in sede legislativa, con esclusione per altro del voto segreto anche in questa sede. Le Commissioni,
nominate direttamente dal Presidente della Camera senza alcuna designazione, erano come nel 1922 dodici, ma con diversa competenza per
materia [1) affari esteri; 2) affari interni; 3) Africa italiana; 4) giustizia; 5) forze armate; 6) educazione nazionale; 7) lavori pubblici e comunicazioni (di nuovo riunite); 8) agricoltura; 9) industria; 10) scambi
commerciali e legislazione doganale; 11) cultura popolare (distinta dall'educazione nazionale); 12) professioni ed arti]. Vi era nel regolamento
una sorta di riserva di legge d'aula, che sottraeva una serie di materie enumerate alla competenza legislativa delle Commissioni, singole
o riunite: ma anche questa limitazione era superabile con decisione
del Capo del Governo per qualsiasi legge, anche costituzionale. La
riunione congiunta di più Commissioni doveva essere presieduta dal
Presidente o da un Vicepresidente della Camera; una volta esaurito
Yiter legislativo, la formula di promulgazione doveva menzionare espres-
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samente l'approvazione da parte della Camera dei fasci e delle corporazioni e del Senato « a mezzo delle loro Commissioni legislative »
(art. 2 della legge 5 maggio 1939, n. 660).
Con le leggi e i regolamenti del 1939, che ebbero per altro limitata applicazione a causa del sopravvenire dello stato di guerra, furono apportate modificazioni di rilievo al regime della produzione normativa, talune tuttora in vigore, altre a vario titolo interessanti. L'ordinamento della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato, già nella
legge del 1926 coperto da riserva di legge, fu presidiato dall'ulteriore
garanzia di un iter legislativo proceduralmente aggravato dalla necessità del preventivo parere di questi due corpi, emesso rispettivamente
a sezioni riunite o in adunanza generale. La sia pur relativa riserva
di legge d'aula sopra indicata venne in ogni caso ad includere le
leggi costituzionali, l'ordinamento giudiziario, la competenza dei giudici, l'ordinamento del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, le
garanzie dei magistrati e degli altri funzionari inamovibili, le deleghe
legislative a carattere generale, « i progetti di bilancio e i rendiconti
consuntivi dello Stato, delle Aziende autonome di Stato e degli enti
amministrativi di qualsiasi natura », nonché tutti gli altri provvedimenti
per i quali tale sede fosse richiesta dalle Commissioni, che avevano
al riguardo compiti istruttori, dalle Assemblee delle due Camere o dal
Governo stesso, e fosse autorizzata dal Capo del Governo. Per contro,
le « norme corporative » e gli accordi economici collettivi che importassero contribuzioni a carico delle categorie potevano essere sottoposti
dal Capo del Governo, dopo l'esame dell'organo corporativo di vertice, alle Commissioni legislative competenti perché li approvassero, o
proponessero a loro volta emendamenti da votarsi dalle Assemblee. In
questo caso come in quello di progetti di legge vere e proprie, qualora
le Commissioni non deliberassero nel termine assegnato, il Governo poteva provvedere con decreto-legge.
È anche da segnalare che la legge istitutiva della Camera dei fasci e
delle corporazioni prescriveva, all'articolo 15, l'obbligo delle votazioni
palesi, contravvenendo così in modo formale alla regola dello Statuto
albertino per la quale era prescritto tassativamente il voto segreto per
i disegni di legge nel loro complesso.
Nel complesso, tutte queste regole procedimentali non configuravano limiti assoluti alla volontà dell'esecutivo, o meglio del Capo del
Governo, nel quale l'esecutivo politicamente e costituzionalmente si compendiava. Si trattava di limiti elastici, ma non privi di una loro effettività: tanto più se poi si aggiunge che il carattere non pubblico dei
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lavori delle Commissioni restituiva loro, nel quadro e nelle circostanze
dell'epoca, margini di autonomia che erano invece da considerare esclusi
per Assemblee tuttora sedenti e deliberanti in regime di pubblicità.
Di più, la stessa procedura decentrata di approvazione delle leggi si
configurava, in qualche modo, anche come una risposta del legislativo
alle necessità tecniche di dilatata e più articolata produzione normativa che erano state alla base della pratica dei decreti-legge. Né va
sottovalutata l'importanza, non fosse che tendenziale, dell'esame in
Commissione e dell'approvazione in Assemblea plenaria dei bilanci e
consuntivi delle aziende di Stato e degli enti pubblici.
Tutto ciò si dava nel quadro di una funzione parlamentare ridotta
a « collaborare » in senso tecnico con l'esecutivo, anche se « in modo
più proficuo e più serio » (Calamandrei) nelle commissioni, e se tornarono ad assumere una certa importanza in questa fase l'istituto dell'interrogazione ed altri strumenti di sindacato parlamentare. La coincidenza che si verificò da ultimo nella persona di Dino Grandi fra la
carica di Guardasigilli e quella di Presidente della Camera dei fasci
e delle corporazioni rende plasticamente evidente questo rapporto, né
fu priva di conseguenze quando una Commissione parlamentare prevista
da leggi di delega del 1923 e del 1925 venne nominata dal Presidente
della Camera per pronunciarsi su un'opera legislativa di grande respiro quale la nuova codificazione civile predisposta dal ministro Guardasigilli. La dottrina giuridica più autorevole del tempo invocava contro la tesi dell'incompatibilità, fra gli altri, il caso per verità alquanto
diverso del Vicepresidente degli Stati Uniti che presiede quel Senato,
ma concludendo con sostanziale esattezza, alla luce dei principi istituzionali del regime : « date certe premesse che delineano un istituto
giuridico, bisogna trarne le logiche conseguenze. Avrà il legislatore voluto marcare la fisionomia di un'Assemblea con un forte rilievo di autonomia ? E allora si arriverà fino al punto di lasciare affatto libera
l'Assemblea di scegliersi il Presidente senza influenze di nessun genere,
neanche politiche. Avrà inteso il legislatore di dare all'Assemblea una
autonomia limitata ? E allora sarà il Re che potrà scegliere il Presidente con vari sistemi di proposte di terne da parte dell'Assemblea,
e così via. Avrà infine creduto il legislatore di caratterizzare l'Assemblea come organo strettamente collegato al Governo, secondo che avviene nel presente caso ? E allora il Presidente sarà di liberissima
scelta del Governo; e in tale scelta, non legata da nessun principio
e da nessun criterio contrario, il Governo sarà libero di far cadere la
scelta anche su un suo membro, quando creda che ciò giovi al coordi-
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namento degli organi e delle funzioni, oppure ritenga che la persona
sia particolarmente adatta all'ufficio » (Luigi Rossi). Né mancava poi
la riprova storica: in regime liberale prefascista la nomina del Presidente e dei Vicepresidenti del Senato era stata dapprima di pertinenza
della Corona e più tardi - a far data almeno dal decreto ZanardelliGiolitti del 1901 sulle attribuzioni collegiali del Consiglio dei ministri
che, limitando la prerogativa regia, aveva rappresentato il « manifesto
normativo » del nuovo corso politico (De Cesare) - deliberata in Consiglio dei ministri.
Scompaiono, ovviamente, dal regolamento della Camera come da
quello del Senato (ma qui con l'eccezione del Segretario generale) le
norme sopra ricordate, che prevedevano la nomina da parte dell'Assemblea di determinati funzionari.
9. - A pochi giorni di distanza dal 25 luglio, con regio decreto
2 agosto 1943, n. 705, la Camera dei fasci e delle corporazioni era
sciolta. È notevole però la formula: «La XXX legislatura è chiusa»,
che inseriva quel ciclo di vita parlamentare affatto atipico nella serie
ordinaria delle legislature del Regno. Per quanto riguarda il Senato,
si ebbe a lungo una situazione di incertezza giuridica per quanto riguarda la permanenza se non delle sue attribuzioni (il decreto del '43
prevedeva la convocazione di una nuova Camera entro quattro mesi
dalla cessazione dello stato di guerra, e implicitamente confermava il
pieno diritto della seconda Camera), di una cittadinanza nell'ordinamento che, specialmente dopo il decreto legislativo luogotenenziale
25 giugno 1944, n. 151, che abrogava la statuizione relativa alla
nuova Camera per prevedere l'elezione di un'Assemblea Costituente
« per deliberare la nuova Costituzione dello Stato », diede luogo a curiose
controversie politiche, e poi anche giudiziarie.
Tuttavia a poche settimane di distanza il Governo Bonomi, nato
dal compromesso fra la Corona e i partiti del C.L.N., provvedeva a
invitare uno dei Presidenti della Camera prefascista, Vittorio Emanuele
Orlando, ad assumere i poteri presidenziali a norma dell'art. 16 del
suo Regolamento interno considerato, dunque, tuttora vigente. Era posto così il primo pilone del ponte di continuità che si voleva ricollegasse le nuove all'antica Assemblea. Resta tuttora dubbia la natura
di quella deliberazione 15 luglio 1944 del Consiglio dei ministri, che
secondo una possibile, ma alquanto riduttiva interpretazione si vorrebbe in sostanza ricondurre al tipo allora frequente della nomina di
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un commissario: nella specie, il commissario all'ente amministrativo
« Camera dei deputati », distinto dall'assemblea politica. È in ogni
caso certo che principi non solo amministrativi del regolamento della
Camera ebbero in quell'intermezzo applicazione ad opera del Presidente Orlando: il quale, in particolare, si appellò con successo alla
posizione di organo costituzionale sovrano della Camera per escludere
che collegi esterni fossero abilitati a procedere all'epurazione del suo
personale, rivendicando la competenza della Presidenza ad applicare
in questo ambito le leggi epuratrici, e in particolare il decreto legislativo luogotenenziale 9 marzo 1945, n. 716, relativo ai funzionari pubblici « anche se inamovibili, appartenenti ai primi cinque gradi della
classificazione del personale statale, e dei gradi corrispondenti delle
amministrazioni statali con ordinamento autonomo », che potevano essere collocati a riposo « a prescindere dalla pendenza o dall'esaurimento del giudizio di epurazione », senza che al riguardo fosse ammesso « alcun gravame, sia in via amministrativa, sia in via giudiziaria » (art. 1).
Con successivo decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1946,
n. 146, veniva istituita la « Consulta nazionale » con compiti di affiancamento consultivo del Governo. Le nomine a consultore avvennero
fra tre categorie : designati dai maggiori partiti politici antifascisti; esponenti di categorie e organizzazioni sindacali, culturali e di reduci;
ex parlamentari antifascisti, ai quali poi si aggiunsero antichi ministri,
sottosegretari ed alti commissari di governo dell'età prefascista. Specialmente quest'ultima categoria è da considerare, perché la sua autorità ed esperienza risultò per più punti, decisiva nel configurare la
nuova tradizione politico-parlamentare democratica. Molti fra questi
consultori vennero rieletti alla Costituente e nelle prime Camere repubblicane, altri entrarono a far parte, quali membri di diritto, del
Senato della Repubblica per gli anni 1948-1953, Si attuò per questa
via una ulteriore saldatura di generazioni, che dava un contenuto concreto alla riaffermata continuità regolamentare.
È ancora notevole il fatto che la Consulta, nonostante contrasti
e rimostranze in ordine all'esame consultivo in sede di Commissione
(e cioè, nuovamente, in sede non pubblica) dei progetti per i quali il
suo parere era obbligatorio, avesse dieci Commissioni permanenti. La
esperienza di queste Commissioni forma un importantissimo precedente
sia rispetto alle Commissioni dell'Assemblea Costituente che, restando
riservati per quasi tutte le materie i poteri legislativi al Governo, die-
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dero però vita ad una forma di legislazione sostanzialmente concertata
fra Commissioni e Governo; sia, soprattutto, alle ristabilite Commissioni permanenti del Parlamento repubblicano, che non ebbero, come
nel 1922, attribuzioni puramente consultive ma, come nel 1939, attribuzioni legislative. Per il momento, la Consulta si limitò a porre in
essere forme sperimentali ed empiriche di attività: furono riservate all'Aula, ad esempio, le leggi elettorali mentre restava affidata alle Commissioni la più minuta legislazione finanziaria; per i bilanci dello
Stato si fece ricorso all'esame consultivo congiunto da parte della
Commissione competente per lo specifico Ministero e di quella Finanze
e Tesoro. Le Commissioni potevano in ogni caso chiedere al Governo
di deferire all'Assemblea plenaria la discussione in ordine a dati pareri,
ma di fatto non si avvalsero mai di tale facoltà.
Per quanto riguarda i servizi, il decreto legislativo luogotenenziale
31 agosto 1945, n. 539, stabilì che « La Consulta, per il suo funzionamento, si avvale dei locali e dei servizi della Camera dei deputati. Agli
eventuali servizi che non possono essere prestati dalla Camera, provvede il Ministero per la Consulta nazionale» (art. 13), fermi restando
i poteri del Presidente della Camera dei deputati, Orlando. In relazione a tale disposizione, un apposito stanziamento doveva figurare nel
bilancio del Ministero per la Consulta nazionale, appena istituito con
il compito di elaborare e promuovere l'emanazione delle norme giuridiche regolanti la Consulta nazionale, e di « predisporre ed attuare
le misure necessarie per la costituzione e il funzionamento della Consulta, provvedendo all'organizzazione dei relativi servizi tecnici ed amministrativi » (art. 2 decreto legislativo luogotenenziale 31 luglio 1945,
n. 443). Di fatto, il ministro per la Consulta venne ad assumere un ruolo
sotto più aspetti simile a quello del ministro senza portafoglio per i rapporti con il Parlamento fiorito poi in periodo repubblicano, seppure per
il brevissimo periodo fino al dicembre dello stesso anno, quando venne
costituito presso la Presidenza del Consiglio un apposito « Ufficio per le
relazioni con la Consulta nazionale ».
Per l'articolo 29 del citato decreto legislativo dell'agosto, la Consulta disponeva tuttavia di potestà regolamentare, tuttoché subordinata a una approvazione del Governo: è del più alto interesse seguire
i modi e le forme in cui essa venne esercitata. L'articolo recitava:
« Fino a che la Consulta nazionale non avrà elaborato il proprio regolamento interno, per quanto non disposto dal presente decreto si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nel regolamento
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della Camera dei deputati in vigore prima del 28 ottobre 1922. Il regolamento interno previsto dal comma precedente sarà presentato al
Governo per l'approvazione ». Si gettava così un terzo pilone di continuità, creando una base sulla quale però si accesero subito vivaci contrasti. Già il 10 gennaio del 1946 un consultore del partito d'Azione,
il grande storico Adolfo Omodeo, chiedeva che la Consulta potesse
autoconvocarsi, e il giorno dopo impegnava uno scontro radicale in argomento con il ministro Lussu, che pur apparteneva allo stesso partito.
Era in gioco la risoluzione delle crisi di governo da portare di fronte
alla Consulta, ma Omodeo invocava anche la lezione delle assemblee
parlamentari ancien regime, progressivamente esautorate e poi soppresse dall'assolutismo precisamente sfruttando la mancanza di un tale
diritto. Il punto fu risolto negativamente, con 214 voti contro 89, schierandosi azionisti e demolaburisti a favore della tesi Omodeo, contro
tutti gli altri partiti dell'esarchia. La Consulta fu egualmente solidale
con il ministro Lussu nel respingere un emendamento all'articolo 76, che
intendeva introdurre il diritto di mozione, presentato dal consultore
repubblicano Boeri, ex-parlamentare prefascista.
Un'altra significativa battaglia si impegnò in quegli stessi giorni
sull'articolo 52, dove il consultore Fenoaltea fece prevalere di stretta
misura (127 voti contro 90) un emendamento per il quale « Nel concorso di diverse domande, quella dell'appello nominale prevale su tutte
le altre; quella dello scrutinio segreto prevale sulla domanda di votazione per divisione ». Così la Consulta, pur mantenendo la vecchia
regola dell'età statutaria, della votazione segreta finale sui progetti di
legge, faceva cadere il principio generale della prevalenza di questa
forma di scrutinio nel concorso di più richieste al riguardo. Furono favorevoli socialisti, comunisti, azionisti e demolaburisti, contrari democristiani e liberali (sia alla Costituente sia in Senato, invece, la democrazia cristiana avrebbe sostenuto la posizione contraria al voto segreto,
invertendo le parti rispetto all'opposizione di sinistra). La Consulta si
caratterizzò allora come l'unica assemblea parlamentare italiana, dove
il voto palese fosse affermato in via prioritaria.
Va da ultimo ricordato che in periodo repubblicano si sono avute
varie proposte tendenti a riconoscere la Consulta, per il contributo da
essa dato all'opera legislativa del primissimo dopoguerra, quale prima
legislatura della Repubblica. Fra l'altro, su relazione di V. E. Orlando,
essa approvò con 172 voti contro 50 lo schema di decreto legislativo
De Gasperi sul referendum istituzionale e l'attribuzione dei poteri normativi al Governo per la durata dell'Assemblea costituente, e la di-
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sciplina di quest'ultima. La replica finale di Orlando, per la quale tornò
a echeggiare il vecchio grido di « Affissione ! » del Parlamento prefascista, concludeva nell'invocazione: « Dio vi aiuti, Dio salvi l'Italia!».
La relazione alla proposta di legge presentata al riguardo nel ventennale della Consulta, il 20 aprile 1965, da esponenti dei principali gruppi
politici della Camera, così motiva conclusivamente : « È giusto e degno
che in quest'anno, ventesimo dalla Liberazione, il Parlamento repubblicano dia atto della natura e delle funzioni di quella prima assemblea popolare, ricollegandola formalmente, come idealmente e storicamente essa
è collegata, alle successive Assemblee parlamentari della Repubblica ».
10. - Ogni fase della storia unitaria dell'Italia, inclusa la parentesi
di regime fra le due guerre, ha dunque dato un suo apporto alla complessa stratificazione di norme, consuetudini, precedenti e regole di correttezza delle quali consta il diritto parlamentare vigente, molti punti del
quale solo storicamente possono ricevere una vera illuminazione. Anche
la Costituente - anticipando la successiva e analoga deliberazione formale della prima Camera repubblicana nonché, sostanzialmente, l'elaborazione regolamentare del primo Senato - volle ricollegarsi al regolamento della Camera del 1900, con le modifiche fino a tutto il 1922, non
tenendo anzi conto dei dibattiti e delle soluzioni della Consulta. Anche
la Costituente, mentre le era riservato l'esame dei disegni di legge in
materia costituzionale e assimilata, delle leggi elettorali e di quelle di
ratifica di trattati internazionali, affiancò con proprie commissioni l'opera legislativa che per il resto rimaneva affidata al Governo, sviluppando
ancor più che non avesse fatto la Consulta, sulla base del diritto di interpellanza, l'attività di sindacato politico. Anche alla Costituente ebbe
grande importanza l'autorità dei parlamentari provenienti dalle legislature prefasciste: non solo nella preparazione della Carta del '48 (dove
la loro mentalità normalmente bicameralista ebbe, ad esempio, un'influenza primaria), ma anche e più immediatamente nella formazione della nuova tradizione e stile parlamentare. Anche alla Costituente, infine,
fu rivendicato un diritto di intervento dell'assemblea nella soluzione
delle crisi di Governo.
Un cenno particolare merita il sistema delle Commissioni parlamentari, che esaminarono 1368 schemi legislativi del Governo, dando
parere favorevole per la loro emanazione, e altri quaranta circa ne rinviarono all'Assemblea. Benché ne fossero istituite ora solo quattro, con
competenza per gruppi di Ministeri (politici, finanziari, economici e
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« tecnici »), anche questa esperienza va considerata come preparatoria
a quella delle Commissioni della prima legislatura della Repubblica.
Si può concludere questo rapido ed essenziale profilo storico confermando il giudizio richiamato in apertura circa la continuità del regime e del diritto parlamentare in Italia. Il metodo dei cauti e progressivi innesti sul tronco del regolamento del 1900 ha dato in più tempi,
fino a quest'anno 1968, frutti notevoli consentendo sperimentazioni e
flessibili innovazioni. Il problema di un eventuale ripensamento organico del diritto parlamentare in funzione dei nuovi presupposti costituzionali e della nuova realtà dello Stato di partiti non appartiene alla
competenza dello storico, ma a quella del promotore di un eventuale
jus condendum. Ma qualsiasi riforma che prescindesse dalle molteplici
possibilità suggerite da una così ricca e autorevole tradizione parlamentare, in una parola dalla lunga lezione dell'esperienza, potrebbe anche
rischiare di non conseguire i benefici astrattamente sperati. Avvertimento, se ben si considera, che non contraddice ma piuttosto integra e
precisa quello che, secondo Chandernagor compendia tutta la lunga saggezza della « madre dei Parlamenti » : Non c'è che una tradizione parlamentare : l'adattamento.
[PAOLO UNGARI]
Per rispettare i limiti di spazio, e la natura stessa di questo profilo schematico, è parso opportuno non appesantirlo di note, rinviando anche per gli autori
citati nel testo, e in genere per la storiografìa sul Parlamento, all'ampia bibliografia
ragionata che si troverà al termine dell'opera. Sempre per ragioni di economia interna
dell'opera si è preferito insistere, soprattutto nel paragrafo 6, su quei temi, ai quali
non fossero già dedicati richiami storici nel quadro di altri capitoli. Le ragioni,
infine, del maggior rilievo dato ai precedenti della Camera rispetto a quelli del Senato regio sono accennate nel corso del capitolo, e del resto evidenti di per sé.