Categorie e nozioni, un terreno di confronto tra le lingue

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R. Solarino, Categorie e nozioni, un terreno di confronto tra le lingue, in
A. Colombo ( a cura di) Progetto ALICE (Educazione linguistica integrata
nel biennio), volume I, Contributi teorici, IRRSAE Emilia-Romagna, 1995,
pagg. 21-31.
Premessa
Che cosa significa fare delle categorie delle nozioni un terreno di
confronto tra le lingue? O, in altri termini, che vuol dire fare grammatica
nozionale in un’ottica di educazione linguistica integrata? Per capirlo
occorre ripercorrere la storia del termine nozionale, con l’avvertenza che
– alla grammatica nozionale (GN) è toccata una sorte singolare, che
peraltro non sembra rara nella storia delle scienze, vale a dire quella di
essere data per scontata, e per così dire canonizzata, prima ancora di
avere avuto un completo sviluppo teorico. Specialmente nel campo
dell’insegnamento delle lingue straniere capita sovente di incontrare
lavori che si ispirano auna non meglio identificata GN, ma se si va a
ricerca quali sono i fondamenti di essa e la coscienza operativa che se ne
ha, si rimane sconcertati: una grammatica nozionale, come base teorica
di riferimento largamente accettabile, di fatto non esiste 1.
La storia del termine ‘nozionale’ non è infatti del tutto lineare:
intorno all’dea di nozione – formulata inizialmente da Jespersen negli
anni venti2 - si è sviluppata nel tempo una direzione di ricerca che ha
avuto (e in parte ha tuttora) grande fortuna in glottodidattica, ma che
presenta due grossi difetti: il primo è quello di banalizzare quell’idea
1
R. Simone, “Per una grammatica nozionale”, in L’Educazione Linguistica dalla
scuola di base al biennio della superiore, Atti del Convegno CVIDI-LEND, marzo
1983, B. Mondadori, Milano, 1984, p. 131.
2
O. Jespersen, The Philosophy of Grammar, London 1924, pp. 53 e ss..
Traduzione dalla edizione francese, La philosophie de la grammaire, Paris 1972,
pp. 60-66.
1
riducendola ad un elenco di significati’ più o meno importanti ed
elementari della lingua (e associandoli a una serie di ‘scopi’ linguistici, da
cui l’etichetta di approccio nozional-funzionale); il secondo è quello di
dare per acquisite una serie di ricerche e di descrizioni delle lingue che
solo parzialmente posso dirsi arrivate a conclusioni di una certa
importanza per merito congiunto del rinnovato interesse per gli studi di
tipologia linguistica, sugli universali del linguaggio e sull’acquisizione3. Lo
scopo di questa relazione è quindi quello di tentare di ripercorrere, a
partire da Jespersen, i fondamenti teorici di una ‘grammatica nozionale’
e di indicare alcune possibili direzioni di riflessione (meta)linguistica
integrata, orientata in questo senso.
Segni, categorie sintattiche e nozioni
Come sappiamo, uno degli assiomi della linguistica moderna è
quello saussuriano della biplanarità del linguaggio: il significato si
esprime solo a patto di associarsi al significante e il significante si
giustifica solo in quanto è espressione di un significato. Il significato del
segno linguistico saussariano è però un significato che è ritagliato a
misura del significante a cui è associato, e che viene definito attraverso
3
Le tre prospettive hanno trovato un’utile integrazione nelle ricerche del
cosiddetto ‘progetto di Pavia’ i cui risultati si possono leggere in: A. Giacalone
Ramat (a cura di) L’apprendimento spontaneo di una seconda lingua, Il Mulino,
Bologna, 1986, A. Giacalone Ramat (a cura di) L’italiano tra le altre lingue:
strategie di acquisizione Il Mulino, Bologna, 1988 e G. Bernini & A. Giacalone
Ramat (a cura di) La temporalità nell’acquisizione di lingue seconde, Milano,
Angeli, 1990. Il progetto tende a descrivere l’acquisizione dell’italiano con L2 in
contesto naturale per fini teorici, in particolare quello di “…individuare e
possibilmente distinguere l’azione di principi generali, che riflettono
caratteristiche neurobiologiche e cognitive dell’uomo (gli “Universali”)
dall’azione di principi locali, specifici di una particolare lingua (Giacalone Ramat
1990, p. 13). I risultati di tali ricerche hanno però, potenzialmente, anche un
grande interesse applicativo.
2
un gioco di opposizioni e complementarietà con quello degli altri segni
linguistici con cui è in relazione: la nozione a cui si rifà Jespersen è invece
un significato per così dire primordiale, ineludibile perché strettamente
legato alle ragioni stesse del comunicare, ma che non è ancora associato
a un preciso segno linguistico; si potrebbe definire un significato in cerca
di espressione nella lingua.
Non tutti i significati primordiali e ineludibili dal punto di vista
comunicativo, però, secondo Jespersen sono delle nozioni: hanno questo
statuto solo quelli di un certo tipo, e cioè quelli, tra tutti i significati
teoricamente esprimibili attraverso la lingua, che hanno trovato
espressione in una categoria o funzione sintattica.
Una categoria sintattica (o funzione) è per Jespersen una classe di
‘oggetti’ linguistici formalmente diversi che hanno comportamenti
sintattici omogenei in una data lingua. Per esempio alle categorie
singolare, plurale, femminile, maschile ecc. (che possono presentarsi
isolatamente o possono anche amalgamarsi insieme) corrispondono
delle classi di oggetti linguistici che possono presentare delle forme
superficiali anche profondamente diverse: in latino il maschile singolare
di un nome può presentarsi in –a, in us, in is e in tante altre forme
ancora; tuttavia tutti gli oggetti ‘nomi singolari maschili’ avranno
comportamenti sintattici omogenei, per esempio richiederanno
l’accordo di un aggettivo o di un pronome maschile. Su questa base
Jespersen traccia un primo elenco di categorie sintattiche, che contiene:
1) le parti del discorso, 2) il numero (singolare e plurale, ai quali si può
aggiungere il duale), 3) i casi, 4) i tempi, 5) i modi, 6) le voci (attiva,
passiva e media), 7) la persona, 8) il genere.
Definite le categorie sintattiche, Jespersen si domanda che cosa
esse rappresentino, uscendo così dal campo del linguaggio per entrare
in quello extralinguistico. Tra il campo della lingua e quello della realtà,
egli dice, esistono certamente dei legami: per esempio alla differenza tra
uno e più di uno, al tempo reale, alla differenza tra i sessi che osserviamo
3
nella realtà naturale corrispondono le categorie sintattiche del numero,
del tempo, del genere. Tra i due ordini di cose non esiste però affatto
una corrispondenza prevedibile e regolare:
La realtà linguistica come si riflette nello spirito umano appare
estremamente complessa, e non bisogna affatto aspettarsi che gli uomini
siano sempre riusciti a trovare la maniera più semplice o più precisa di
esprimere le miriadi di fenomeni e le relazioni complesse che li collegano
e che bisogna comunicare. Non ci può essere dunque una corrispondenza
perfetta tra le categorie grammaticali e le categorie della realtà
extralinguistica: ci sono continuamente tagli e sovrapposizioni, le più
strane e inattese.4
Solo dunque le nozioni del mondo reale che sono diventate
categorie sintattiche – oppure, potremmo dire, che hanno trovato
espressione grammaticale in una lingua – sono pertinenti dal punto di
vista nozionale:
La nostra decisione di considerare questa o quella categoria nozionale
deve essere sempre guidata dall’idea che essa deve avere un valore
linguistico: sono dei fenomeni linguistici, precisamente grammaticali,
che oi vogliamo chiarire e sarebbe un errore procedere come se il
linguaggio non esistesse e classificare gli oggetti e le idee senza
5
preoccuparsi del modo in cui sono espresso in quello.
Al sistema bipolare di Saussure, Jespersen sostituisce quindi un
sistema a tre membri, composto di forma, funzione e nozione:
Otteniamo dunque tre livelli nel trattamento grammaticale di uno stesso
fenomeno, tre punti di vista differenti sui fatti di grammatica, che
possiamo descrivere come:
A.
La forma
B.
La funzione
C.
La nozione
4
5
O. Jespersen, cit. p. 62.
O. Jespersen, cit. p. 66.
4
A. Forma
-ed (handed)
-t (fixed)
-d (showed)
-t+ alternanza vocalica (left)
radice immutata (put)
alternanza vocalica (drank)
altre radici (was)
B. Funzione
SIMPLE
PAST
C. Nozione
passato
irreale nel presente (if we knew)
futuro (if is time you went to bed)
presente in un contesto passato
(concordanza: How did you know I was a
Dane?)
intemporale (Men were deceivers ever)
Prendiamo ora una data classe funzionale, o sintattica, ed
esaminiamo i suoi rapporti con la forma da una parte e la nozione
dall’altra. Il passato inglese può prendere delle forme differenti, e,
benché si tratti sempre di una sola categoria sintattica, il suo contenuto
logico può variare, come mostra lo schema alla pagina precedente.
Come Giano, le categorie sintattiche si aprono da una parte sulla forma
dall’altra sulla nozione. Esse sono situate in mezzo e legano l’universo
dei suoni a quello delle idee. Quando parliamo o scriviamo, nei termini
del nostro schema, noi partiamo da C per arrivare all’espressione
formale A passando attraverso la sintassi B; quando ascoltiamo o
leggiamo seguiamo il cammino inverso, da A a C passando per B.
Il processo si può quindi rappresentare così6:
parlante
ascoltatore
C
nozione ->
B
funzione - >
A
forma
forma - >
B
funzione ->
C
nozione
Resta chiaro, dunque, che per Jespersen le nozioni che hanno
diritto ad essere considerate pertinenti da un punto di vista linguistico
sono quelle che hanno ricevuto o ricevono un’espressione grammaticale
in qualche lingua naturale.
6
O. Jespersen, cit. pp. 64-65.
5
Grammaticalizzazione e lessicalizzazione
Strettamente legati alla prospettiva nozionale appaiono i concetti
di grammaticalizzazione e lessicalizzazione7: se infatti i meccanismi
grammaticali di una lingua reagiscono diversamente ai significati, ciò
vuol dire che per ciascuna lingua alcuni significati trovano espressione
grammaticale, cioè rientrano in una di quelle categorie di cui parlavamo
prima e vengono grammaticalizzati, altri invece trovano espressione non
nel canale grammaticale, ma in quello lessicale e vengono lessicalizzati.
Pensiamo ad esempio ad una delle caratteristiche dei tempi imperfettivi
italiani, quella di poter alludere ad evento abituale, ripetuto un numero
indefinito di volte (“A quel tempo frequentavo un circolo culturale”):
quello che in italiano è espresso con una forma grammaticalizzata,
specializzata nell’espressione dell’imperfettività nelle sue diverse
sfumature, in inglese, che non ha un tempo corrispondente
all’imperfetto viene espresso attraverso il canale lessicale con un
avverbio (usually) oppure con una perifrasi lessicale, I used to. D’altra
parte mentre il francese (come, del resto, l’inglese) conosce due modi
grammaticalizzati per esprimere l’idea del futuro, l’italiano che ha un
solo futuro è costretto ad esprimere con mezzi lessicali quello che il
francese esprime con Je vais + inf: “sono in procinto di partire”, “sto per
partire”.
Questo è il caso più semplice di asimmetria tra le lingue: una
lingua grammaticalizza quello che un’altra lingua affida al lessico. Può
capitare però che la stessa nozione in una lingua abbia più di una
grammaticalizzazione e un’altra ne abbia una sola: in questo caso molto
probabilmente la prima lingua presenterà una distribuzione
complementare tra le diverse forme grammaticali, vale a dire che
ognuna di esse si userà solo in certi casi. Per esempio – sempre restando
7
R. Simone, Fondamenti di linguistica, Laterza, Bari, 1990, pp. 268-272.
6
nel campo dell’aspetto – l’aspetto imperfettivo progressivo8 può contare
in italiano su due diverse grammaticalizzazioni, una affidata al semplice
imperfetto (“Durante la riunione ascoltavo distrattamente quello che
diceva il capufficio quando mi vennero a chiamare”), una alla perifrasi
facoltativa stare+gerundio (“Durante la riunione stavo ascoltando
distrattamente quello che stava dicendo il capufficio quando mi vennero
a chiamare”). La facoltatività della perifrasi in italiano fa sì che il suo uso
sia caratterizzato da certe restrizioni: per esempio non la si può usare
con verbi stativi (“*Carlo stava essendo scemo”), nei tempi perfettivi
(“*Ero stata leggendo tutto il pomeriggio”), all’imperativo (“*Quando
viene, sta’ leggendo questa lettera!”), alla forma passiva (“*La sedia sta
essendo costruita dal falegname”), in unione con avverbiali di durata e
‘di continuità’ (“*Per tutta quella settimana stavo lavorando in
continuazione”); l’inglese, invece, dove la nozione di progressività è
affidata solo alla forma to be+gerundio, non può permettersi certi lussi e
infatti ammette tranquillamente espressioni come “Charles was being
silly”, “I was being reading all the afternoon”, “When he comes, be
reading this letter”, “The chair is being made by the carpenter”, “I was
working non-stop all the week”9.
I significati che non trovano espressione grammaticale in una
lingua cercano dunque manifestazioni lessicali. Non solo: il modo in cui i
meccanismi grammaticali delle lingue esprimono i significati è arbitrario,
sia in sincronia che in diacronia, può variare in altri termini la porzione di
significato grammaticalizzato che una lingua presenta in confronto ad
altre lingue contemporanee, oppure può cambiare nel tempo la
8
Sulla questione dell’aspetto verbale e delle modalità azionali dei verbi si cfr.
P.M. Bertinetto Tempo, aspetto e azione nel verbo italiano. Il sistema
dell’indicativo, Accademia della Crusca, Firenze, 1986, e, dello stesso autore, il
capitolo “Il verbo” in Renzi L. e Salvi G. (a cura di), Grande grammatica italiana
di consultazione, II, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 13-62.
9
Cfr. Bertinetto 1986 cit., pp. 138-139, pp. 174-175 e passim.
7
proporzione tra grammaticalizzazione e lessicalizzazione in una stessa
lingua: ciò che rimane stabile è il potenziale di significato che le lingue
esprimono. «La grammatica nozionale adotta quindi a fondamento l’idea
di una lingua come dotata di una continua morfogenesi, non
specificamente tendente ad un fine (…) al di sotto del quale la quantità di
significato complessivo rimane tendenzialmente stabile»10.
Scale di grammaticalizzazione
A prima vista i concetti di grammaticalizzazione e lessicalizzazione
sembrano di facile impiego, in realtà le cose non sono così semplici.
Spesso infatti i limiti tra i due campi non possono essere tracciati in
modo netto e la grammaticalizzazione più che un fatto ‘discreto’, si/no,
appare come un fatto scalare, dipendente dalla posizione di un certo
fenomeno in un ‘continuum’ che da un polo di grammaticalizzazione
trascorre verso l’opposto polo della lessicalizzazione. In questo caso si
deve ricorrere a criteri di ordinamento di due diversi segni linguistici dal
punto di vista della loro grammaticalizzazione relativa. Stabilito per
esempio che la grammaticalizzazione di un segno gli sottrae autonomia,
si può affermare che un segno linguistico che tende ad occupare una
posizione fissa nella frase sarà più grammaticalizzato di un altro segno
linguistico di significato affine al precedente che non ha lo stesso
comportamento. E’ il caso dei pronomi clitici in rapporto ai pronomi
tonici nelle lingue romanze, che hanno restrizioni di posizione molto
maggiori che le corrispondenti forme toniche: per esempio non possono
seguire il verbo finito (a meno che non si tratti di imperativo), ma
devono precederlo: si dice lo prese, ma non si può dire *preselo, mentre
è possibile dire questo, prese e prese questo. Un altro criterio di
grammaticalizzazione è la perdita del significato autonomo delle parole
che compongono una perifrasi: per esempio il futuro inglese I shall/will
10
Simone “Per una grammatica nozionale”, cit., p. 138.
8
see, - ma anche le forme composte della coniugazione ‘regolare’ italiana,
(ho visto, ho chiuso ecc) – hanno acquistato un significato unico, globale,
in cui la funzione di tempo o di aspetto è introdotta da un verbo ausiliare
che viene ‘rianalizzato’ quasi come una marca morfologica. Per altre
perifrasi, però, non si può dire altrettanto e può essere difficile stabilire
quando una forma perifrasica sia completamente grammaticalizzata,
abbia cioè perso il suo significato ‘lessicale’ per assumerne uno
‘grammaticale’ – come pare stia accadendo per la forma stare+gerundio
italiana – e quando invece il processo è ancora incompleto, come accade
per altre perifrasi, come quelle ‘fasali’ (cominciare, continuare a +inf,
finire di+inf.). Anche in questi casi si deve ricorrere a criteri scalari, che
permettono di stabilire che lungo una scala di grammaticalizzazione
alcune di queste perifrasi si trovano più avanti in un processo di
grammaticalizzazione, altre meno11.
Morfologia lessicale e grammaticalizzazione
Finora abbiamo fatto esempi di grammaticalizzazione prendendoli
solo dal campo della cosiddetta morfologia grammaticale, quella che
interessa la flessione del nome, del verbo, dell’aggettivo ecc. Anche la
cosiddetta morfologia lessicale, quella derivazionale, rientra però nel
concetto di grammaticalizzazione: una regola di formazione delle parole
– per esempio quella che stabilisce che un nome di agente italiano può
terminare in –ista – ha complesse restrizioni di selezione sulla base: in
altri termini seleziona solo alcune basi e ne esclude altre, per cui per
esempio non si può formare un derivato in –ista da una base verbale, ma
solo da una base nominale, mentre viceversa un derivato in –tore, pur
avendo lo stesso significato ‘agentivo’, seleziona solo basi verbali: anche
11
Sull’argomento si veda P.M. Bertinetto, 1990, “Perifrasi verbali italiane di
identificazione e gerarchia di perifrasticità”, in Bernini G. & Giacalone Ramat A.,
La temporalità nell’acquisizione di lingue seconde, Franco Angeli, 1990, pp. 331350, e Bertinetto 1991 cit., pp. 129-161.
9
la formazione della parole ha dunque a che fare con regole obbligatorie,
che non possono essere violate: se dico bevista invece che bevitore in
italiano ho violato una regola12.
Anche per la morfologia lessicale vale l’alternativa tra
grammaticalizzazione e lessicalizzazione: per esempio se voglio
esprimere la reiterazione di un processo posso farlo aggiungendo il
prefisso re-/ri- al verbo, ma posso fare la stessa cosa dicendo di nuovo;
se voglio parlare di uno che vende la benzina posso dire benzinaio o
quello che vende la benzina e anche in questo caso ho potuto scegliere la
grammaticalizzazione e lessicalizzazione della stessa nozione, ‘quello che
fa l’azione di’.
Grammaticalizzazione e mutamento linguistico
Un secondo motivo per considerare interessanti i concetti di
nozione, di grammaticalizzazione e di lessicalizzazione nella riflessione
sulla lingua è che essi riescono a illuminare quanto è stato spesso
osservato in prospettiva diacronica, e cioè che il significato grammaticale
può svilupparsi da elementi lessicali. Fenomeni che sono lessicali in un
certo momento possono diventare successivamente grammaticali: il pas
negativo francese originariamente significava ‘un passo’; mica – forma
negativa grammaticalizzata almeno in alcune varietà regionali italiane –
significava originariamente ‘un pezzettino’; il suffisso –mente deriva da
un originario ablativo di mens-mentis e così via. In genere gli elementi
lessicali si trasformano in elementi grammaticali attraverso un processo
12
Esistono, naturalmente, numerose differenze tra le regole della flessione e
quelle della derivazione: la differenza più importante è che le regole flessive
sono generali, si applicano cioè a tutta la lingua, quelle di derivazione sono
‘regionali’ nel senso che si applicano solo a porzioni più o meno limitate della
lingua: si può dire altrimenti che le regole flessive hanno una produttività totale,
quelle derivazionali hanno una produttività più o meno ampia, che vaia con il
tempo: regole molto produttive un tempo non lo sono più oggi.
10
contemporaneo di indebolimento del contenuto semantico e della forma
fonetica, come è avvenuto per esempio nella nascita del futuro italiano,
canterò, sorto da una forma perifrastica cantare habeo, (‘l’ho da
cantare’) attraverso un processo di indebolimento fonetico.
In generale il mutamento linguistico si muoverebbe dal lessico
verso la grammatica, ma non è difficile trovare prove del contrario,
anche se in numero minore e prevalentemente nel campo della
morfologia derivazionale. Per esempio il suffisso latino –sco era
inizialmente molto produttivo – poteva cioè aggiungersi a moltissimi
verbi – e attribuiva un significato incoativo al verbo di base;
successivamente si è applicato a un numero di verbi sempre minore e ha
perso il suo significato. Altrettanto è accaduto per il suffisso iterativo –it: in entrambi i casi – «una potenzialità grammaticale si trasferisce
nell’area lessicale, al punto di non essere più riconoscibile come tale»13.
Grammaticalizzazione e apprendimento
Abbiamo dato esempi di come i concetti di grammaticalizzazione e
lessicalizzazione siano applicabili all’osservazione della lingua sia in
sincronia che in diacronia. Altrettanto interessanti però sono le loro
applicazioni allo studio dell’acquisizione della lingua materna e di una
seconda lingua. Come nel cambio storico i processi di
grammaticalizzazione muovono dal lessico e dalla sintassi verso la
grammatica, così durante l’acquisizione di una lingua l’apprendente
parte da elementi lessicali autonomi e gradualmente si inoltra nella
codificazione grammaticale del linguaggio bersaglio. Per esempio in fasi
iniziali di apprendimento un apprendente sia di L1 che di L2 preferisce
esprimere il tempo, l’aspetto o la modalità non con la morfologia
verbale, ma con avverbi (domani, ieri, sempre, forse) o invece di affidare
alla morfologia verbale l’indicazione della persona utilizza molto più di
13
R. Simone, Fondamenti cit., p. 272.
11
quanto faccia la lingua bersaglio i soggetti pronominali (io mangia,
invece di mangio). Ancora, sono stati trovati nelle prime fasi di
apprendimento numerosi mezzi lessicali per esprimere la modalità (verbi
di ‘pensare’ e di ‘credere’, verbi modali, avverbi), mentre risultano
assenti i modi congiuntivo e condizionale – che sono le forme
grammaticalizzate delle modalità – che appaiono in stadi molto più
avanzati14.
L’osservazione che l’apprendimento procede dal lessico verso la
grammatica può essere di una qualche utilità anche a scuola, nella
diagnosi dei livelli di competenza linguistica – in L2, ma la cosa è vera
anche per strutture ‘fini’ della L1: può aiutare per esempio a interpretare
certe forme linguistiche che sono prodotte dagli studenti
spontaneamente, quando cioè non sono costretti ad imitare strutture
grammaticalizzate che non sono ancora state organizzate nella loro
competenza, ma devono usare la lingua in maniera autonoma.
Grammatica nozionale a scuola: come e perché
Vorrei adesso passare al secondo punto della mia relazione, che
tratterò molto brevemente perché la relazione precedente ha già offerto
molto alla nostra riflessione di insegnanti. Perché la grammatica
nozionale (questa grammatica nozionale, non quella confusa e
approssimativa nei suoi presupposti linguistici che è passata
nell’insegnamento delle lingue straniere sotto etichette di vario genere)
nella scuola? In primo luogo perché la persistenza della stessa nozione
dietro manifestazioni formali diverse permette un confronto
interlinguistico ‘profondo’ non basato su somiglianze superficiali o
casuali. E in secondo luogo perché essa consente un insegnamento di
‘filosofia’ grammaticale, per riutilizzare l’espressione di Jespersen: rende
14
A. Giacalone Ramat, “L’italiano parlato da stranieri immigrati, prime
generalizzazioni”, in Miscellanea in onore di G., Francescato, Trieste, Lint, 1992.
12
conto cioè delle ragioni più profonde dell’apparente capricciosità delle
lingue. E infine perché permette di sviluppare e rendere consapevole il
sostrato cognitivo che sta sotto o dietro la lingua: appare perciò
particolarmente adatta ad una riflessione ‘avanzata’ sul linguaggio (ma
forse non solo a quella: si vedano le considerazioni fatte da V. Deon 15 a
proposito della scuola media inferiore ed elementare). Quello che ci
preme sottolineare è dunque l’importanza cognitiva e metodologica di
un approccio che vede le lingue come degli strumenti per significare e i
due canali, quello grammaticale e quello lessicale, come due canali
interagenti per lo stesso scopo.
Ritornando ora ai presupposti di Jespersen e alla sua affermazione
che sono di interesse linguistico solo le nozioni che trovano espressione
grammaticale nelle lingue, diremo che, se questo è valido dal punto di
vista generale della linguistica, da punto di vista dell’educazione
linguistica integrata ciò vuol dire che sono suscettibili di essere usate in
prospettiva nozionale solo quelle nozioni che hanno trovato espressione
grammaticale in almeno una delle lingue che ‘entrano in contatto’
nell’insegnamento. Qualche esempio? Mi terrò necessariamente sulle
generali perché è proprio dall’apporto congiunto degli insegnanti di
lingua straniera e di italiano che possono essere definiti e circostanziati
percorsi nozionali, e questo è un lavoro che va fatto unitariamente, tra
tutti gli insegnanti delle lingue in gioco. Per ora mi limiterò ad indicare
alcuni dei prerequisiti necessari per impostare dei percorsi nozionali e ad
immaginare alcune direzioni di lavoro.
Innanzitutto un percorso di riflessione nozionale deve avere una
solida base scientifica, deve cioè poter contare, nelle singole lingue, su
ricerche che abbiano la stessa base teorica; in secondo luogo deve poter
contare su una seria base documentaria, cioè basarsi su dati chiari e
15
V. Deon, “La grammatica suggerita dai bambini”, Italiano e Oltre, 1993, pp.
238-246.
13
inoppugnabili, anche se inevitabilmente prototipici, che confermino la
efficacia dell’approccio; deve poi riuscire ad evitare lo specialismo e il
tecnicismo, e ridurre al minimo nuove terminologie, che vanno
introdotte, e senza timore, solo là dove sono realmente necessarie e
illuminanti, ma evitate dove rischiano di diventare solo un’inutile
esibizione classificatoria.
Quanto alle nozioni sulle quali sarebbe possibile lavorare, mi
sembra che si potrebbero indagare, oltre al campo del tempo e
dell’aspetto, su cui mi sembra che si stia già lavorando (campo he io, con
le opportune cautele, allargherei a quello dell’azione verbale), quello
della deissi e ella modalità. La deissi, per esempio, è una tipica nozione
che pur restando sostanzialmente identica (sempre trattando, cioè, i
fenomeni linguistici relativi alla situazione dell’enunciazione) può
incanalarsi nella grammaticalizzazione più stretta (i tempi e le desinenze
verbali), in forme intermedie, come i pronomi personali e dimostrativi,
gli avverbi di luogo e di tempo, o in forme lessicalizzate come le locuzioni
avverbiali in questo momento, in quel luogo ecc., o i verbi arrivare e
partire, venire e andare. Con dati omogenei si potrebbe organizzare un
percorso di riflessione sulla compatibilità o meno di espressioni deittiche
di vario tipo nelle diverse lingue in contatto, sulle trasformazioni che
intervengono nelle espressioni deittiche nel discorso indiretto, sulla
deissi testuale e su eventuali divergenze.
Anche per quanto riguarda la modalità si può partire dai
presupposti generali di ogni percorso nozionale, e cioè la possibilità che
le singole lingue hanno di grammaticalizzare o meno una nozione, la
compatibilità o meno di espressioni grammaticali e lessicali della
modalità, il repertorio delle risorse grammaticali e lessicali della modalità
a confronto nelle singole lingue. Successivamente ci si può concentrare
sulle simmetrie e asimmetrie nella grammaticalizzazione modale nelle
singole lingue: per esempio l’uso del condizionale di dissociazione (quello
di ‘L’incontro avverrebbe domattina?, che si usa quando il parlante non
14
sottoscrive la verità di un’affermazione) che accomuna il francese e
l’italiano, di contro all’inglese e al tedesco. Si tratta di organizzare queste
simmetrie e asimmetrie in un quadro nozionale unitario e di presentarle
in maniera graduale e ‘integrata’, tenendo conto della competenza
linguistica relativa nelle lingue straniere degli studenti e dell’azione dei
due principi della anticipazione e della retroazione16.
Vorrei fare però una raccomandazione alla fine di questa breve
illustrazione delle possibilità offerte alla Educazione Linguistica integrata
da un approccio nozionale, per tentare di scongiurare altre dannose
forme di ‘innamoramento’ esclusivo, come è avvenuto fin troppe volte
nella storia della didattica delle lingue. La prospettiva nozionale appare sì
stimolante e intelligente, ma non può – come nessun’altra, del resto –
diventare l’unico punto di osservazione della (o delle) lingue: certe
regioni della lingua andranno esplorate con procedimenti formali, in
altre ci si rifarà alle funzioni del linguaggio e agli atti linguistici, in altre a
prospettivi interculturali: inevitabilmente una grammatica pedagogica
deve essere sincretica, non può essere ricondotta ad un unico approccio.
In questo quadro di sincretismo pedagogico la grammatica nozionale
promette però di offrire un tassello utile e intelligente, e non è poco.
Bibliografia
Bernini G., Giacalone Ramat A. (a cura di), 1990, La temporalità
nell’acquisizione di lingue seconde, Franco Angeli, Milano.
Bertinetto P.M., 1986, Tempo, aspetto e azione nel verbo italiano. Il
sistema dell’indicativo, Accademia della Crusca, Firenze.
Bertinetto P.M., 1990, “Perifrasi verbali italiane: criteri di identificazione
e gerarchia di perifrasticità”, in Bernini G., Giacalone Ramat A., La
16
Cfr. M. Cavalli, “Tre lingue in Valle d’Aosta”, Italiano e Oltre, 993, pp. 31-35,
“In quelle classi le lingue sono tre”, Italiano e Oltre, 1993, pp. 262-271.
15
temporalità nell’acquisizione di lingue seconde, Franco Angeli, 331350.
Cavalli M., “Tre lingue in Valle d’Aosta”, Italiano e Oltre, 1993, 31-35, “In
quelle classi le lingue sono tre”, Italiano e Oltre, 1993, 262-271.
Deon V., 1993, “La grammatica suggerita dai bambini”, Italiano e Oltre,
238-246.
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