Storia 3 – I secoli d’oro di Olympia Sport o politica? Dopo il trionfo di Koroibos di Olympia nella prima edizione, nella terza la corsa fu vinta da un abitante della vicina Messene, Androklos, il quale aprì un lungo periodo di dominio di questa città: l’unica eccezione fu rappresentata da Oibotas di Dime (in Acaia) nei sesti Giochi del 756 a.C. Solo nei dodicesimi del 732 a.C., la vittoria toccò ad un concorrente di provenienza piuttosto remota, Oxythemis di Kléon (tra l’altro, la località dell’Argolide nel cui territorio dal VI secolo si sarebbero svolti i Giochi Nemei). Sulla scorta delle informazioni che ci sono giunte, è perciò facile escludere per queste prime edizioni significati che vadano oltre il semplice confronto agonistico, anche se magari acceso, tra gli abitanti di una piccola regione. Come logica conseguenza, appaiono dunque innegabili sia i significati religiosi dell’appuntamento sia la forte impronta di valori etici che retrostavano alla celebrazione delle gare. Questa situazione, senza dubbio riconducibile ad una società austera e non ancora cambiata dal benessere, cioè in definitiva arcaica, non poteva rimanere immutata con l’evolversi della civiltà greca. Un’alternativa pacifica I Giochi Olimpici assunsero infatti con rapidità un’importanza del tutto particolare all’interno della vita complessiva del mondo ellenico, trasformandosi già qualche decennio dopo la nascita in un momento di periodico confronto e di comune espressione etnica tra le pòleis. L’appuntamento olimpico parve in quest’epoca voler costituire una sorta di alternativa pacifica, e in un certo modo complementare, alla serie di guerre intestine che caratterizzò tutta la storia delle città-stato. A livello pratico, è però difficile nascondere che i Giochi, ampliandosi a livello regionale, avevano assunto anche un elevatissimo valore politico. Ora il trionfo olimpico, ed in misura più relativa quello ottenuto nelle altre feste panelleniche e sacre (le Istmiche, le Pitiche e le Nemee), conferiva al vincitore la statura di prediletto dagli dei, e alla sua città prestigio in tutto il mondo ellenico. La vittoria ad Olympia rivestiva ormai un valore immenso per il singolo e per la collettività, paragonabile con vantaggio ad una vittoria ottenuta in battaglia. Che i Giochi Olimpici non fossero più un fatto agonistico esclusivamente improntato ad aspetti religiosi, lo si può comprendere, ancora una volta, dal semplice elenco dei vincitori. La coincidenza tra l’introduzione della corsa lunga (il dólichos) e la vittoria di un atleta di Spártā; il ripetersi della cosa riguardo al pentathlon e alla lotta (introdotti nel 708 a.C.); ed ancora alla lotta dei ragazzi (svoltasi comunque nella sola edizione del 628 a.C.), sembrano confermare una forte influenza della città lacedemone sui progressivi ampliamenti del programma. In realtà, più che una pressione politica diretta, che del resto non risulta in alcun modo dalle fonti letterarie o archeologiche (e che avrebbe persino potuto divenire controproducente, poiché ne sarebbe risultato in un certo senso sminuito il valore delle vittorie spartane), si trattò probabilmente di una forma di sudditanza psicologica, per usare un termine molto di moda ai nostri giorni, verso la potenza sportiva (e militare) dominante e meglio organizzata. Il primato agonistico di Spártā nel periodo non può infatti sfuggire ad un parallelo con l’egemonia della stessa Spártā sul Peloponneso, soprattutto se posto in relazione Storia 3 – I secoli d’oro di Olympia all’importanza rivestita dall’esercizio fisico nella rigida educazione militare dei giovani spartani. Primeggiare nei Giochi come in guerra costituiva in effetti per Spártā un eccezionale veicolo di propaganda all’interno del mondo greco, ed è perfettamente comprensibile che i suoi governanti tenessero in maniera quasi ossessiva al mantenimento di questa invidiabile posizione politico-agonistica. Anche nei secoli seguenti, quelli che preludevano al periodo di massimo splendore delle Olimpie, all’instaurarsi dell’egemonia di una pòlis fece riscontro con puntualità un crescente uso politico delle vittorie agonistiche. È nota la vicenda di Cimone, che ebbe luogo durante la seconda parte (dal 546 al 528 a.C.) della lunga tirannide di Pisistrato su Atene. Cimone era un ricco ateniese, costretto all’esilio dalla situazione politica. Proprietario di un grande allevamento di cavalli, partecipò ai Giochi del 536 a.C., vincendo la gara delle quadrighe. Quattro anni dopo, gli stessi cavalli arrivarono nuovamente al primo posto, ma un estemporaneo accordo tra Cimone e il tiranno ateniese fece risultare proprietario e vincitore Pisistrato, il quale ebbe così la gloria di un trionfo olimpico. Tutti capirono cosa si nascondesse dietro l’episodio, ma non fu possibile provare quando ed in cambio di che cosa fosse avvenuta la cessione, e di conseguenza non ci furono squalifiche né sanzioni dei giudici. Pisistrato dal canto suo fece un accorto uso pubblicitario della vittoria così ottenuta, cosa che giovò non poco alla sua immagine tra i concittadini e nell’intera Grecia; Cimone, oltre a riavere presto la proprietà dei cavalli, vide terminare il suo esilio da Atene. La questione non si concluse comunque qui, perché la solita quadriga vinse anche i Giochi del 528 a.C., questa volta a nome di Cimone. Il terzo trionfo non portò però molta fortuna al proprietario: essendo morto poco dopo Pisistrato, il figlio ed erede Hyppias vide nell’olimpionico un pericoloso rivale in grado di oscurarlo con la sua fama e lo fece quindi uccidere in un agguato notturno. Con buona pace del barone Pierre de Coubertin, alla crescente politicizzazione dei Giochi (e al correlativo crescere del loro prestigio e della loro importanza) corrispose il contemporaneo aumentare delle aspettative dei concorrenti. Ora che da tempo non si gareggiava più per motivi solo simbolici, la molla che spingeva i più dotati atleti del mondo greco ai sacrifici fisici e psicologici della competizione olimpica (e degli appuntamenti consimili) era naturalmente diventata il denaro. La quantità di giochi che si svolgevano in tutta la Grecia consentiva del resto a molti di vivere in maniera anche piuttosto agiata di solo agonismo. I compensi che le municipalità riconoscevano più o meno apertamente ai trionfatori dei giochi sacri erano infatti piuttosto alti, e ad essi andavano aggiunti i premi dei giochi pecuniari. Dalle Vite Parallele di Plutarco sappiamo ad esempio che Solone stabilì un premio statale di cento dracme per una vittoria ai Giochi Istmici, mentre un trionfo olimpico valeva cinquecento dracme. Abbastanza, se lo stesso Plutarco indica il valore di una pecora per sacrifici in una dracma e quello di un bue in cinque. Storia 3 – I secoli d’oro di Olympia Del resto, è risaputo che alcuni atleti si arricchirono enormemente con la partecipazione e la vittoria in un numero talvolta incredibile di competizioni. È il caso di Diagoras di Rhodes, il pugile vincitore dei Giochi del 464 a.C. Nel suo prestigiosissimo curriculum, oltre alle vittorie a Delfi, Corinto e Nemea, figurano premi in molte altre celebrazioni, tra cui quelle di Atene, Argo, Tebe, Egina e Megara: un vero superman dell’epoca. Ancora più calzante è l’esempio di Theogenes di Taso, riguardo al quale si può persino ipotizzare il professionismo puro. Di lui si ricordano infatti ben milletrecento vittorie, di cui ventiquattro in giochi panellenici. In ventidue anni di carriera, e considerato che Theogenes gareggiò nelle due discipline di pancrazio e pugilato, si può calcolare una media di circa trenta diverse partecipazioni all’anno. Tenuto poi presenti i tempi necessari agli spostamenti dall’una all’altra città, non è un azzardo pensare che quasi tutto il suo tempo fosse in un modo o nell’altro impegnato nell’attività agonistica, e si può anche ventilare la presenza di uno o più allenatori costantemente impegnati al suo fianco. Naturalmente, i due non furono i soli ad approfittare delle possibilità offerte all’epoca. Senza dover ricordare la carriera del notissimo Milon di Kroton (di cui si è già parlato in questa sede), basterebbe riandare alle tante epigrafi ritrovate o alle fonti letterarie per avere un’idea della dimensione del fenomeno. Un’invettiva famosa Non deve quindi stupire che nel pieno del V Secolo a.C., al culmine cioè della parabola dei giochi agonistici, un grande autore come Euripide (480-406 a.C.) iniziasse il suo Autolykos con un’invettiva rimasta famosa: «Tra gli infiniti mali che assillano la Grecia, il peggiore è la classe degli atleti, che non fanno nessuno sforzo per vivere come si deve e neppure ne sono capaci […] Allo stesso modo, disprezzo l’abitudine dei Greci di organizzare feste per loro e di compensarli favorendone i vani piaceri. Quale forte lottatore, quale corridore veloce, quale discobolo o pugile ha mai contribuito a difendere la patria vincendo una corona?». Queste ombre che andavano addensandosi sui Giochi, al momento non influivano sulla loro capacità di attrazione. Folle immense, provenienti da tutta la Grecia e da tutto l’universo ellenico si riversavano ogni quinto anno sulle rive del fiume Alpheiós per assistere al confronto tra i più celebrati campioni del momento. Le città facevano a gara per offrire doni al Tempio di Zeus Olimpio, ed ostentare così la propria ricchezza, il proprio potere, la propria generosità. Olympia (come in misura neanche troppo minore Delfi, Corinto, Nemea) era davvero il centro di una Grecia faro del Mediterraneo, la cui civiltà illuminava l’intero mondo conosciuto. Purtroppo, le lotte politiche e militari stavano per spezzare lo splendido equilibrio che aveva permesso la fioritura ellenica: la terribile guerra del Peloponneso diede avvio dal 431 a.C. ad un declino che avrebbe presto portato alla fine dell’indipendenza greca. E fatalmente, anche per i giochi ebbe inizio la lunghissima, anche se non priva di luci, stagione della decadenza. Danilo Francescano © Riproduzione Riservata