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Cicerone e Antonio
Le vicende di Marco Antonio (83-30 a.C.) si legano per un certo periodo a
doppio filo a quelle di Giulio Cesare, di cui era nipote e sotto le cui ali iniziò la
sua carriera politica: fu questore nel 52, tribuno della plebe e augure nel 50;
quando Cesare, con cui in Gallia aveva partecipato alla presa di Alesia, passò il
Rubicone, si oppose col veto a che venisse dichiarato nemico della patria; fu
presente a Farsalo nel 48 contro Pompeo e dal 47 fu magister equitum. Nel 44
fu nominato da Cesare suo collega nel consolato: fu così che all’uccisione di lui
il 15 marzo, le famose Idi, si trovò a ricoprire un ruolo di primaria importanza in
un momento delicatissimo e cruciale. Infatti il cesaricidio, lungi dal risolvere
problemi, rischi e attriti, non solo non ebbe i risultati sperati dai congiurati, ma
disorientò e divise ulteriormente l’opinione pubblica romana. Antonio fece leva
su questo clima di delusione, indignazione, deplorazione e sospetto e, abile e
deciso, distribuì larghe elargizioni ai soldati e al popolo per attirarsene il favore.
Durante i funerali di Cesare, il 20 marzo, oltre a tesserne le lodi, con gesto
plateale ed eclatante lesse pubblicamente nel Foro il testamento del dittatore,
che conteneva molte disposizioni di stampo prettamente democratico,
entusiasmando chi l’ascoltava e acquistandosi una vasta popolarità. Era come
se avesse dato fuoco a una miccia: la folla si turbò e si commosse, si sentì
eccitata in modo irrefrenabile, sparpagliandosi poi alla ricerca spasmodica dei
congiurati. In questo modo Antonio aveva fatto sì che si andasse consolidando
la sua posizione di erede politico dell’ucciso, sollevando un moto di reazione
contro i congiurati, moto di cui si farà promotore e capo. Nello stesso tempo non
volle forzare troppo la mano con loro, ma cominciò ad usare con molta
disinvoltura i documenti che erano stati di Cesare e fece in modo di evitare
l’intervento di un organismo che lo controllasse nel suo operato. Si stava
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dunque avviando a dominare di fatto la vita politica e militare di Roma, sulla scia
proprio del suo predecessore assassinato.
Questa sua azione rapida e decisa non poteva non scontrarsi con il senato,
preoccupato e insospettito: fu così che quando Ottavio, il futuro Ottaviano, figlio
adottivo di Cesare, venne a Roma, rappresentò per l’oligarchia senatoria lo
strumento chiave per frenare l’avanzata pericolosa dell’ambizioso Antonio, a cui
venne opposto e che si rivelò rivale alla pari.
In questa sorta di gioco delle parti, era naturale che Cicerone, così come aveva
esultato all’uccisione di Cesare, prendesse posizione a favore di Ottaviano (che
vedeva illusoriamente come uomo dell’oligarchia) contro Antonio, «omnium
turpissimus et sordidissimus» (ad Att.
IX 9, 3), «perditissimus homo et
turpissimus» (ad Brutum II 7). In un primo tempo egli aveva deciso di andarsene
dall’Italia in Oriente, in attesa della fine del consolato di Antonio, per tornare
poco dopo, quando si rese conto che non solo il partito repubblicano riprendeva
vigore, ma anche che una parte dei cesariani stentava a riconoscere in lui il loro
capo indiscusso.
Cicerone vedeva in lui il nemico pubblico per eccellenza, il traditore della patria
(ad Brutum I 3); anzi a più riprese ci fa intravedere nell’epistolario a Bruto la
linea di condotta del cesaricida e dei suoi troppo «morbida», improntata alla
mitezza e alla clemenza, dopo che Antonio era stato temporaneamente
sconfitto. Da parte sua invece ribadisce con convinzione che non condivide tale
linea e sostiene l’utilità del rigore e della severità. È come se vedesse rivivere lo
«spauracchio» o il fantasma del tiranno in Antonio (ad Brutum I, 16), quasi un
Cesare redivivo, il cui operato è scelus e dementia (ad Brutum I, 15), che tiene
schiava la città di Roma. Il suo stesso propendere verso il giovane Ottavio, oltre
a dipendere da una indiscussa abilità del diciannovenne, rappresenta quasi un
«riflesso condizionato» o un meccanismo naturale, data la sua ostilità verso il
rivale.
È in questo clima e con questo stato d’animo che ha inizio la composizione di
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quelle che vengono considerate il capolavoro oratorio del nostro: le quattordici
Filippiche, che segnano le fasi salienti del confronto Cicerone-Antonio e che fin
dalla prima risultano una ferma presa di posizione atta a denunciare gli abusi di
potere del cesariano e la minaccia da lui rappresentata. Di solito ad ogni
Filippica la reazione non si faceva attendere: dopo la prima per esempio
l’avversario accusò pubblicamente l’oratore di essere stato ispiratore e
responsabile morale del cesaricidio. Così si innescava un meccanismo
irreversibile di ostilità, in un crescendo di veemenza. Fino a un certo momento
Cicerone poté contare sull’appoggio da parte del senato ed ebbe l’impressione
di essere tornato indietro nel tempo, nella dignità, nella fierezza, nel potere. Gli
eventi però stavano precipitando con un ritmo molto rapido e in forme inattese:
non solo era in atto una nuova guerra civile, ma Ottavio, poi Ottaviano, futuro
Augusto, sentitosi messo da parte per diffidenza dall’oligarchia senatoria, operò
una manovra di avvicinamento ad Antonio, sfociata nel cosiddetto secondo
triumvirato (ottobre 43), una nuova magistratura ufficiale dotata di pieni poteri
che non tarderà a dare i suoi frutti. In poco tempo la situazione sembrava, ed
era, totalmente sovvertita e gli unici vincitori apparivano i cesariani. Si può
dunque immaginare lo stupore, la perplessità, lo sconcerto, il disorientamento
che produssero queste notizie in Cicerone: dopo aver tanto disperato delle sorti
della repubblica, dopo essere tornato a sperare e a muoversi da protagonista
della vita politica, dopo essersi illuso di aver salvato la sua patria dalla tirannide,
si trovò disilluso e isolato. Portò tuttavia avanti fino in fondo con forte veemenza
e furore polemico la lotta verbale frontale già ingaggiata con le sue Filippiche,
per le quali dovette pagare il prezzo della vita. Finì infatti sotto i colpi dei sicari
di Antonio, vittima di una sete di vendetta che si scatenò in varie direzioni e in
maniera sfrenata e spesso gratuita (si dice che la strage coinvolse circa
trecento senatori e duemila cavalieri), colpevole certo di non aver capito che la
sua era una battaglia perduta in partenza, perché la libertà repubblicana era
davvero finita per sempre.
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