26. Cicerone e Antonio Le vicende di Marco Antonio (83-30 a.C.) si legano per un certo periodo a doppio filo a quelle di Giulio Cesare, di cui era nipote e sotto le cui ali iniziò la sua carriera politica: fu questore nel 52, tribuno della plebe e augure nel 50; quando Cesare, con cui in Gallia aveva partecipato alla presa di Alesia, passò il Rubicone, si oppose col veto a che venisse dichiarato nemico della patria; fu presente a Farsalo nel 48 contro Pompeo e dal 47 fu magister equitum. Nel 44 fu nominato da Cesare suo collega nel consolato: fu così che all’uccisione di lui il 15 marzo, le famose Idi, si trovò a ricoprire un ruolo di primaria importanza in un momento delicatissimo e cruciale. Infatti il cesaricidio, lungi dal risolvere problemi, rischi e attriti, non solo non ebbe i risultati sperati dai congiurati, ma disorientò e divise ulteriormente l’opinione pubblica romana. Antonio fece leva su questo clima di delusione, indignazione, deplorazione e sospetto e, abile e deciso, distribuì larghe elargizioni ai soldati e al popolo per attirarsene il favore. Durante i funerali di Cesare, il 20 marzo, oltre a tesserne le lodi, con gesto plateale ed eclatante lesse pubblicamente nel Foro il testamento del dittatore, che conteneva molte disposizioni di stampo prettamente democratico, entusiasmando chi l’ascoltava e acquistandosi una vasta popolarità. Era come se avesse dato fuoco a una miccia: la folla si turbò e si commosse, si sentì eccitata in modo irrefrenabile, sparpagliandosi poi alla ricerca spasmodica dei congiurati. In questo modo Antonio aveva fatto sì che si andasse consolidando la sua posizione di erede politico dell’ucciso, sollevando un moto di reazione contro i congiurati, moto di cui si farà promotore e capo. Nello stesso tempo non volle forzare troppo la mano con loro, ma cominciò ad usare con molta disinvoltura i documenti che erano stati di Cesare e fece in modo di evitare l’intervento di un organismo che lo controllasse nel suo operato. Si stava 1 dunque avviando a dominare di fatto la vita politica e militare di Roma, sulla scia proprio del suo predecessore assassinato. Questa sua azione rapida e decisa non poteva non scontrarsi con il senato, preoccupato e insospettito: fu così che quando Ottavio, il futuro Ottaviano, figlio adottivo di Cesare, venne a Roma, rappresentò per l’oligarchia senatoria lo strumento chiave per frenare l’avanzata pericolosa dell’ambizioso Antonio, a cui venne opposto e che si rivelò rivale alla pari. In questa sorta di gioco delle parti, era naturale che Cicerone, così come aveva esultato all’uccisione di Cesare, prendesse posizione a favore di Ottaviano (che vedeva illusoriamente come uomo dell’oligarchia) contro Antonio, «omnium turpissimus et sordidissimus» (ad Att. IX 9, 3), «perditissimus homo et turpissimus» (ad Brutum II 7). In un primo tempo egli aveva deciso di andarsene dall’Italia in Oriente, in attesa della fine del consolato di Antonio, per tornare poco dopo, quando si rese conto che non solo il partito repubblicano riprendeva vigore, ma anche che una parte dei cesariani stentava a riconoscere in lui il loro capo indiscusso. Cicerone vedeva in lui il nemico pubblico per eccellenza, il traditore della patria (ad Brutum I 3); anzi a più riprese ci fa intravedere nell’epistolario a Bruto la linea di condotta del cesaricida e dei suoi troppo «morbida», improntata alla mitezza e alla clemenza, dopo che Antonio era stato temporaneamente sconfitto. Da parte sua invece ribadisce con convinzione che non condivide tale linea e sostiene l’utilità del rigore e della severità. È come se vedesse rivivere lo «spauracchio» o il fantasma del tiranno in Antonio (ad Brutum I, 16), quasi un Cesare redivivo, il cui operato è scelus e dementia (ad Brutum I, 15), che tiene schiava la città di Roma. Il suo stesso propendere verso il giovane Ottavio, oltre a dipendere da una indiscussa abilità del diciannovenne, rappresenta quasi un «riflesso condizionato» o un meccanismo naturale, data la sua ostilità verso il rivale. È in questo clima e con questo stato d’animo che ha inizio la composizione di 2 quelle che vengono considerate il capolavoro oratorio del nostro: le quattordici Filippiche, che segnano le fasi salienti del confronto Cicerone-Antonio e che fin dalla prima risultano una ferma presa di posizione atta a denunciare gli abusi di potere del cesariano e la minaccia da lui rappresentata. Di solito ad ogni Filippica la reazione non si faceva attendere: dopo la prima per esempio l’avversario accusò pubblicamente l’oratore di essere stato ispiratore e responsabile morale del cesaricidio. Così si innescava un meccanismo irreversibile di ostilità, in un crescendo di veemenza. Fino a un certo momento Cicerone poté contare sull’appoggio da parte del senato ed ebbe l’impressione di essere tornato indietro nel tempo, nella dignità, nella fierezza, nel potere. Gli eventi però stavano precipitando con un ritmo molto rapido e in forme inattese: non solo era in atto una nuova guerra civile, ma Ottavio, poi Ottaviano, futuro Augusto, sentitosi messo da parte per diffidenza dall’oligarchia senatoria, operò una manovra di avvicinamento ad Antonio, sfociata nel cosiddetto secondo triumvirato (ottobre 43), una nuova magistratura ufficiale dotata di pieni poteri che non tarderà a dare i suoi frutti. In poco tempo la situazione sembrava, ed era, totalmente sovvertita e gli unici vincitori apparivano i cesariani. Si può dunque immaginare lo stupore, la perplessità, lo sconcerto, il disorientamento che produssero queste notizie in Cicerone: dopo aver tanto disperato delle sorti della repubblica, dopo essere tornato a sperare e a muoversi da protagonista della vita politica, dopo essersi illuso di aver salvato la sua patria dalla tirannide, si trovò disilluso e isolato. Portò tuttavia avanti fino in fondo con forte veemenza e furore polemico la lotta verbale frontale già ingaggiata con le sue Filippiche, per le quali dovette pagare il prezzo della vita. Finì infatti sotto i colpi dei sicari di Antonio, vittima di una sete di vendetta che si scatenò in varie direzioni e in maniera sfrenata e spesso gratuita (si dice che la strage coinvolse circa trecento senatori e duemila cavalieri), colpevole certo di non aver capito che la sua era una battaglia perduta in partenza, perché la libertà repubblicana era davvero finita per sempre. 3