LEGALIZZARE L’ EUTANASIA? ROCCA HA AFFRONTATO SUL NUMERO 10 LE RAGIONI DI CHI E’ PRO E DI CHI E’ CONTRO CON QUESTO ARTICOLO DI PIETRO GRECO CHE TI PROPONIAMO COME BASE DI DISCUSSIONE 15 MAGGIO 2002 Pietro Greco Nei giorni scorsi i giudici della Prima Corte d’Appello del Tribunale di Milano hanno mandato assolto l’ingegner Ezio Forzatti, l’uomo che nel mese di giugno del 1998 aveva «staccato la spina» della macchina che teneva in vita la moglie, in stato di coma. L’ingegnere era accusato di omicidio volontario ed era stato condannato in primo grado a sei anni di carcere. La Prima Corte d’Appello ha stabilito che il «fatto non sussiste». Molti hanno criticato la sentenza, sostenendo che la Corte non avrebbe fatto altro che giustificare e persino legalizzare l’eutanasia. Un po’ come avrebbe fatto l’Alta Corte di Sua Maestà Britannica quando, nelle settimane scorse, ha dato il proprio consenso alla «dolce morte» di una signora in stato di paralisi e priva di una capacità autonoma di respirare che ha chiesto le venga concesso di porre fine con dignità alla propria vita. E questo proprio mentre un’altra signora inglese, Diane Pretty, è andata a Strasburgo per chiedere che la Corte dei diritti umani riconosca a tutti i cittadini dell’Unione Europea quello che l’Olanda ha di recente riconosciuto di recente: il diritto, ordinato, a scegliere se e come morire. L’argomento è, dunque, sul tappeto: è possibile ed è giusto legalizzare l’eutanasia? Le risposte a queste domande sono diverse. E la diversità, irriducibile, delle risposte è una caratteristica dei nostri tempi. Conseguenza, parziale, di un’altra caratteristica dei nostri tempi: la diversità, articolata, e l’ambiguità del concetto di morte. vivo o morto? Come rileva Roberto Satolli nel «Dizionario di storia della salute» scritto insieme a Giuseppe Gaudenzi e Giorgio Cosmacini e pubblicato presso Einaudi, per molti secoli la morte era considerata un evento unitario locale e privo di sfumature. Una persona o era viva o era morta. Oggi dobbiamo distinguere almeno tra due diversi tipi di morte. La morte biologica, intesa come il processo che conduce alla distruzione di un organismo e la morte cerebrale, intesa come l’evento che conclude l’esistenza di un individuo dal punto di vista sociale, etico e, persino, giuridico. In tutto il mondo, salvo poche eccezioni, una persona viene considerata morta quando l’attività cerebrale è cessata in maniera irreversibile a livello di corteccia (stato di incoscienza e assenza di segnali elettrici rilevabili con un encefalogramma) e a livello di tronco cerebrale (assenza di riflessi dei nervi della testa e del respiro spontaneo), anche quando il cuore continua a battere e il corpo a vivere. Insomma, oggi consideriamo la morte cerebrale come la «vera» morte di una persona, mentre consideriamo meno decisiva la morte biologica. Di più. Possiamo avere condizioni di morte cerebrale in assenza di morte biologica. E dal corpo (non più persona) che si trova in questo stato di ambiguità è possibile trarre organi che possono essere trapiantati, consentendo la vita di un’altra persona. A questo punto diventa più chiara la decisione della Corte d’Appello del Tribunale di Milano. L’ingegnere Forzatti è stato assolto perché nel momento in cui «ha staccato la spina» a sua moglie, la donna era in condizione di morte cerebrale. Era già morta e non poteva essere uccisa di nuovo. Ergo, «il fatto non sussiste». L’ingegner Forzatti non è stato, dunque, protagonista di un episodio di eutanasia. Anche se il suo gesto ha contribuito a rilanciare il problema irrisolto della «dolce morte» per malati terminali. È legittimo provocare l’interruzione deliberata della vita di persone che si trovano in condizioni di salute gravi e irreversibili? E se sì, in quali casi? quale eutanasia? In realtà queste domande, come sostiene Carlo Alberto Defanti in un libro «Vivo o morto?» pubblicato presso l’editore Zadig, vanno ulteriormente articolate. Bisogna distinguere tra l’eutanasia volontaria, in cui l’interruzione deliberata della vita è richiesta dal paziente stesso, e l’interruzione non volontaria, in cui il malato non è in condizioni di decidere e sono altri ad avanzare, nel suo presunto interesse, la richiesta di interruzione deliberata della vita. Ancora, bisogna distinguere tra eutanasia attiva – in cui l’interruzione deliberata della vita è provocata come mezzi e strumenti specifici (per esempio con una iniezione letale) – ed eutanasia passiva, in cui vengono più semplicemente sospesi i trattamenti di sostegno vitale (come l’alimentazione artificiale o la ventilazione meccanica) ma non vengono intraprese azioni dirette per interrompere la vita. Le richieste di «suicidio medicalmente assistito» o, più in generale, di eutanasia vengono in genere avanzate da (o per conto di) persone che si trovano in uno stato di salute grave, irreversibile, prossimo alla morte e in condizioni di dolore o di per dita personale Molti osservatori, per esempio alcuni religiosi e le stesse autorità della Chiesa cattolica, non hanno dubbi. L’eutanasia non va in alcun caso riconosciuta, perché semplicemente la vita è un bene indisponibile per l’uomo. Nessuno può disporre della vita, neppure della propria. Solo Dio dispone della vita. Naturalmente questa è una posizione legittima, ma non universale. I fautori di un’etica laica (ce ne sono anche di cattolici) obiettano che le affermazioni sulla disponibilità della vita attengono alla dimensione, privata, della fede e non a quella, pubblica, del diritto. inutile e impossibile Altri entrano nel merito del dibattito e sostengono che l’eutanasia legale è virtualmente inutile e praticamente impossibile. È inutile, perché con le cure palliative è ormai possibile lenire il dolore e rendere «dignitosa» anche la fase terminale delle malattie che conducono sicuramente alla morte. È praticamente impossibile, perché in ogni caso l’eutanasia dovrebbe essere affidata ai medici. E il medico non può provocare la morte, neppure la «dolce morte» per risolvere una vita ormai tutt’altro che dolce, perché il suo dovere professionale è quello di difendere la vita sopra ogni cosa e sopra ogni altra considerazione. Infine, l’eutanasia legale sarebbe socialmente pericolosa perché, oltre a corrompere l’integrità professionale del medico, finirebbe per esercitare una pressione più o meno velata su persone malate e finirebbe per svalutare la vita di soggetti, in genere anziani e/o handicappati, molto deboli. A queste considerazioni, avanzate per esempio da Sissela Bok nel libro «Eutanasia e suicidio assistito» scritto in collaborazione con Gerald Dworkin e Raymond Frey e pubblicato in italiano dalle Edizioni di Comunità, ribattono i fautori dell’eutanasia, distribuendosi peraltro lungo una serie di posizioni. L’argomento dell’inutilità è serio, ma non conclusivo. Le cause di molte richieste di eutanasia possono essere risolte con le cure palliative, ma non tutte. Per cui il problema di principio resta anche in una società che, a differenza della nostra, ha maturato una profonda «cultura del dolore» e pratica le cure palliative in maniera diffusa e al miglior livello possibile. Quanto al problema della impraticabilità per intimo contrasto con la missione medica, bisogna distinguere in primo luogo tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva. L’eutanasia passiva è, sarebbe, possibile senza contravvenire alla deontologia professionale del medico perché essa non provoca direttamente la morte. Si limita a evitare quell’accanimento terapeutico che è già oggi non un diritto, ma un dovere del medico. Quando alla eutanasia attiva, alcuni sostengono (per esempio Defanti) che per il medico essa non implica azioni diverse, in linea di principio, da quelle che consentono (obbligano) il medico a interrompere le cure quando esse risultano un mero accanimento. È facile dimostrare, sostiene Defanti, che l’intervento attivo del medico, cioè interrompere in modo istantaneo e indolore la vita a un paziente che lo richiede per gravi motivi, sia per lui, per il paziente, ben più benefica che non l’attesa passiva del compiersi «naturale» degli eventi. Il medico ha il dovere di portare il massimo beneficio possibile al paziente. E in alcuni casi l’eutanasia è il massimo beneficio. Non sostenibile, infine, secondo Defanti è anche l’ultimo argomento, quello della «china pericolosa». L’esperienza olandese dimostra che la pratica dell’eutanasia non mina né il rapporto di fiducia tra medico e paziente, né porta nella considerazione sociale allo svilimento della vita dei soggetti deboli. società multietica Queste, a grana grossa, sono le posizioni che si confrontano sul tema dell’eutanasia. Sono tutte posizioni legittime, anche se alcune sono del tutto antitetiche. Che fare, dunque? Contarsi in un referendum e decidere a maggioranza per il sì o per il no alla «dolce morte»? La via potrebbe rivelarsi inevitabile. E rischierebbe non solo di essere lacerante, ma anche di far perdere la complessità del nostro rapporto con la vita e con la morte. Probabilmente, il consiglio più utile viene da chi, come Tristram Engelhardt jr. («Manuale di bioetica», Il Saggiatore), ci ricorda che viviamo, ormai, in una società multietica. In cui la presenza di diverse posizioni etiche è ormai consolidata e la tolleranza per ciascuna di queste posizioni, quando non arreca danno alle altre, è l’unico modo per assicurare la libertà di ciascuno ed evitare il conflitto di tutti contro tutti. Pietro Greco