MATTEO PERRINI AUSCHWITZ, LE IDEE CHE HANNO APERTO

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MATTEO PERRINI
AUSCHWITZ, LE IDEE CHE HANNO APERTO LA VIA ALL'ORRORE1
I
Un'idea perversa di nazione, la crisi morale dell'Europa e la perdita del concetto di famiglia
umana
Il genocidio degli ebrei in Europa negli anni della seconda guerra mondiale, tra il 1939 e il 1945,
supera ogni altro che si sia verificato nella storia e fa di Auschwitz qualcosa di unico. Il calcolo più
cauto delle vittime, confermato dalle stesse fonti naziste, è il seguente: furono eliminati nei campi di
sterminio 4 milioni di ebrei e altri 2 furono fucilati in Polonia e in territorio sovietico, o perirono di
fame e di malattie nei ghetti dell'Europa Orientale. La «pulizia etnica» hitleriana cancellò due terzi
della popolazione ebraica europea, cioè un terzo di quella mondiale. Né si deve dimenticare che al
conto occorre aggiungere 5 milioni di non ebrei.
L'interrogativo di fondo che si affaccia, quando ci si avvia a considerare quell'orrore immane che
designiamo con la parola «Auschwitz», è: com'è stato possibile che in un Paese di tradizioni religiose e
culturali come la Germania sia giunto ad imporsi vittoriosamente, con la seduzione e con il terrore, il
regime dittatoriale che ha gettato il mondo nella seconda guerra mondiale e che ha prodotto l'inferno di
Auschwitz? Vi sono nella storia di quel Paese premesse politiche che, in qualche modo, offrirono
all'hitlerismo un «terreno di coltura»?
Nel nostro Risorgimento la lotta per le libertà costituzionali precedette ed accompagnò la lotta per
l'indipendenza e l'etica cristiana costituì la premessa – ora esplicita, ora sottaciuta – per collegare
nazione e umanità, rivendicazione dei propri diritti e riconoscimento dei diritti degli altri. Così fu per
Santorre di Santarosa e per Mazzini, per Cesare Balbo e Cavour, Gioberti, Rosmini.
Lo slargamento dello statuto carloalbertino in regime parlamentare fu opera geniale di Cavour e
costituì il suo lascito, la via aperta ad ogni sviluppo progressivo; ciò rese possibile nel nostro Paese, pur
nella stretta di difficoltà gravissime di ogni tipo, un sistema politico liberale prima e democratico poi,
che trovò sempre in sé, fino alla prima guerra mondiale, la forza di precludere ogni sbocco autoritario.
Altrove non fu così. In Germania il fallimento della rivoluzione del 1848 ebbe come conseguenza
la prussianizzazione della politica di unificazione nazionale e il trionfo della «rivoluzione dall'alto» di
Bismarck. La borghesia tedesca capitolò dinanzi alla famosa asserzione bismarckiana che i grandi
problemi dell'epoca non si sarebbero risolti con i discorsi o con le decisioni delle maggioranze
parlamentari, ma col ferro e col sangue. Sotto l'impressione dei successi bismarckiani, vasti strati del
popolo tedesco accettarono la concezione cinica della Realpolitik che si appellava solo alla forza e non
al diritto e alla morale. Disprezzando la rivoluzione liberale, la democrazia e il movimento socialista,
Bismarck fece entrare nell'anima tedesca il duplice veleno dell'incondizionata esaltazione dell'autorità
statale e della politica di potenza. «In queste condizioni – ha scritto Karl D. Bracher – Treitschke
poteva affermare con grande successo che l'individuo... non possedeva alcun diritto di opporsi
all'autorità statale, anche quando questa veniva sentita come immorale» (La dittatura tedesca, trad. it. Il
Mulino, Bologna, 1983, p. 36).
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Una volta individuati alcuni presupposti, o se si vuole «nessi evolutivi», della politica
antidemocratica in Germania, dobbiamo stare attenti, però, a non trasformarli meccanicamente in una
sorta di «predestinazione»: non era scritto, infatti, in nessun luogo che il Reich fondato da Bismarck
sarebbe ignobilmente sfociato nello Stato razziale di Hitler. E, d'altra parte, bisogna riconoscere che la
1
Giornale di Brescia, 16, 17 e 19 gennaio 2001.
crisi politica e morale della Germania, pur avendo una sua tragica peculiarità, va, anch'essa,
inquadrata nella crisi politica e morale dell'Europa. Ebbene, una delle espressioni più rivelatrici della
crisi spirituale europea è costituita dalla perversione dell'idea di nazione. E in questo processo di
perversione il XX secolo è andato ben oltre i fattori negativi che rendevano pericolose alcune
teorizzazioni precedenti. La confusione delle idee e il disorientamento degli spiriti sono giunti al punto
di identificare coscienza nazionale e nazionalismo, mentre bisogna opporre fermamente, con estremo
rigore, patriottismo e nazionalismo, essendo questo la corruzione dei valori propri di quello e non certo
la loro affermazione a un più alto livello. La coscienza nazionale è senso di appartenenza a una
comunità di origine, di lingua, di cultura e di popolo, ed è una cosa nobile e grande; ma essa è
saldamente inserita nell'idea universale di umanità.
Per il nazionalismo imperialistico è esattamente l'opposto: vi è scissione, frattura, opposizione
insanabile fra nazione e umanità. Per questa fondamentale ragione la coscienza nazionale è un valore e
il nazionalismo un disvalore. La prima deve coniugarsi sia con una visione etica dell'ordine
internazionale, da costruire senza lasciarsi fermare da difficoltà oggettive e da egoismi, sia con una
filosofia dei diritti umani. Il secondo, invece, è una forma di darwinismo politico che proclama il diritto
del più forte, rifiuta ogni prospettiva universalistica ed è violentemente ostile al liberalismo e alla
democrazia. Benché l'esaltazione fanatica della «tradizione religiosa» nazionale sia una costante del
suo repertorio, il nazionalismo è nella sua essenza una forma di neopaganesimo anti-cristiano, perché
rinnega l'unità della famiglia umana e l'idea stessa della fratellanza tra i popoli. Esso ha, pertanto, del
fatto religioso ed ecclesiastico una visione meramente strumentale,per cui la religione è solo un
elemento di coesione della nazione, che rimane il solo valore primario e assoluto. Fu una tragedia che,
fatte le debite nobilissime eccezioni, si fosse oscurata nella politica e nella cultura dei Paesi europei la
consapevolezza della differenza tra patriottismo e nazionalismo. Differenza per lungo tempo ignota
anche alla cultura di sinistra, considerata nel suo insieme, come ha dimostrato lo storico di
orientamento marxista Eric J. Hobsbawn in Nazioni e nazionalismo dal 1780 (trad. it. Einaudi, Torino
1991). Uno dei pochissimi a comprendere quanto, invece, fosse necessaria l'integrazione morale della
coscienza di nazione fu il socialista cristiano Charles Péguy.
Dal punto di vista ideologico, il nazionalismo fa della nazione e dello Stato nazionale l'assoluto
terreno e il motore della storia, perseguendo, all'interno, una politica di compattezza che cancella il
pluralismo democratico e che, nell'agone internazionale, è finalizzata alla guerra imperialistica. In
Europa nel secolo XX il nazionalismo come ideologia politica è stato elaborato soprattutto in Francia,
Italia e Germania. In Francia l'esponente più noto è Charles Maurras, che fondò e diresse il quotidiano
Action française (1908 – 1944), da cui prese nome anche il movimento politico. Maurras nel 1944 fu
condannato all'ergastolo per collaborazionismo con l'invasore nazista. In Italia il maggior teorico del
nazionalismo fu Enrico Corradini (1865 – 1931), il quale nel 1903 fondò la rivista Il Regno e nel 1910
costituì l'Associazione nazionalistica italiana. Corradini nello scritto programmatico Nazionalismo e
democrazia, che è del 1913, dichiarava: «Il nazionalismo sa che la morale guerresca, e soltanto la
morale guerresca, ci necessità perché noi possiamo fiduciosamente prendere la via del nostro fine
nazionale e perciò l'essenza del nazionalismo consiste nella propaganda che si fa della morale
guerresca». I nazionalisti italiani assursero alla leader-ship dell'opinione pubblica del Paese durante la
guerra di Libia (1911 – 1912) e nel 1923 confluirono nel fascismo.
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II
Lager, l'atroce unicità delle fabbriche di morte
In Germania l'aperta rottura tra nazione e umanità si era già consumata durante la seconda metà
dell'Ottocento, sì che il razzismo e l'antisemitismo erano divenuti, fin d'allora, aspetti costitutivi
dell'ideologia nazionalistica.
In questo avvelenamento della coscienza tedesca gravi responsabilità ebbero gl'intellettuali e i
professori di ogni ordine e grado, le classi dirigenti di quel Paese, per non parlare dell'imperatore
Guglielmo II e del suo entourage militare e politico.
Chi si assunse, però, il compito criminale di portare al parossismo la connessione tra nazionalismo
imperialistico, antisemitismo e razzismo biologico fu Adolf Hitler (1889 – 1945), fondatore e guida,
Führer, del nazionalsocialismo.
I capisaldi del nazionalsocialismo sono: l'esaltazione della presunta superiorità della razza ariana e
in essa del popolo tedesco, l'Urvolk, ossia «il popolo originario» per eccellenza; la dittatura del partito
nazista sullo Stato e la conseguente divinizzazione del Capo Salvatore; il postulato per cui si deve
vedere negli ebrei il nemico numero uno e nella loro distruzione – in Germania prima, in Europa poi –
l'obiettivo di fondo; infine, la necessità di assicurare alla Germania una potenza militare tale da rendere
vittoriosa la sua politica espansionistica e di persecuzione razziale su vasta scala.
L'ideologia nazista considera sin dalle origini indispensabile all'attuazione del suo disegno
l'assoggettamento dell'Est europeo, essendo la forza-lavoro degli slavi schiavizzati e le immense risorse
dei territori in cui essi sono stati necessari a garantire lo «spazio vitale» agli Herrenmeschen, al popolo
degli «uomini-signori».
Nel Mein Kampf, scritto in carcere nel 1924, Hitler aveva espresso a chiare lettere gli obiettivi
finali a cui tendeva il razzismo nazionalsocialista, pur tacendo sui mezzi che avrebbe usato per
raggiungerli.
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Vi è un principio-base comune alle tre diverse forme di totalitarismo – comunismo, fascismo,
nazismo – che hanno imbarbarito la civiltà europea: alla politica liberale e democratica del confronto
pubblico, della trattativa e dell'alternanza, il totalitarismo oppone l'ideologia terroristica del «principio
amico-nemico», per cui chi non accetta i dogmi e la prassi del regime al potere è un nemico da
annientare con ogni mezzo. Con una precisazione: nel totalitarismo hitleriano la contrapposizione
«amico-nemico» esige che il nemico assoluto sia individuato non in un'altra nazione, ma in un'altra
razza, a cui assegnare il ruolo di capro espiatorio, responsabile di ogni paura e di ogni scacco, ed
insieme di polo antagonista contro il quale occorre mobilitare tutte le forze in uno scontro decisivo per
la vita e la morte. Nel caso della Germania nazista il nemico metafisico non aveva che un nome: gli
ebrei. Sì che, mentre l'antisemitismo politico di un Bismarck era intermittente e sempre in funzione di
qualcosa d'altro – per combattere i liberali prima e dopo il 1878 per combattere i socialdemocratici –
con Hitler esso diventa lo scopo primario e permanente.
Se per andare al potere era necessario, dal punto di vista tattico, puntare ogni carta sulla paura del
bolscevismo e sulla lotta al bolscevismo, una volta padrone del potere Hitler addita nella lotta
all'ebraismo l'obiettivo strategico supremo del partito e dello Stato. È evidente che una politica
antiebraica, così concepita, doveva comportare necessariamente una soluzione radicale. Essa, infatti,
non aveva che due vie da percorrere: la persecuzione attraverso apposite leggi antiebraiche, che
rendessero obbligatoria l'espropriazione di beni e di diritti degli ebrei tedeschi e, ove fosse possibile, la
loro espulsione; dall'altra parte l'annientamento.
Fra il 1933 e il 1939 ci fu la persecuzione, crudele e senza scampo, degli ebrei in Germania, in
Austria e in Cecoslovacchia; nel corso della Seconda guerra mondiale, e più precisamente tra il giugno
1941 e la primavera del 1945, si passò all'annientamento. La distruzione degli ebrei in Europa fu
attuata in tempi distinti e con modalità diverse, congiungendo sempre massima efficienza e segretezza.
Si cominciò col rendere operante il principio: «Voi non avete il diritto di vivere tra noi» e si passò poi
ad attuare la più diabolica delle conseguenze che da quel principio derivava: «Voi non avete il diritto di
vivere».
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Dopo il vittorioso exploit delle forze armate tedesche sul fronte occidentale, nella primavera del
1940, occorreva far sì che la questione ebraica non venisse alla luce, perché avrebbe potuto costituire
un ostacolo all'agognato accordo con la Gran Bretagna, l'unico avversario rimasto in campo.
Si elaborò allora il cosiddetto «piano Madagascar» come soluzione finale territoriale della
questione ebraica: tutti gli ebrei d'Europa sarebbero stati deportati nel Madagascar, l'isola appartenente
alla Francia, che doveva essere ceduta alla Germania, e che sarebbe stata trasformata così in un
immenso lager alle dipendenze delle SS. Meglio la deportazione in Madagascar che il trasferimento in
Palestina, dove gli ebrei avrebbero potuto darsi uno Stato e cominciare una nuova storia. Poi, una volta
nel Madagascar, gli ebrei avrebbero potuto servire da ostaggi per garantire ai Governi nazisti la buona
condotta dei loro «compagni di razza» negli Usa. Il Piano Madagascar non ebbe esecuzione, ma fu
rimesso sul tappeto ancora una volta nel febbraio 1941, al quartier generale di Hitler. Hitler intendeva
affrontare la questione con i francesi, ma rifiutava di esporre gli equipaggi ai siluri dei sottomarini
nemici. «Bisognava pensare a tutti gli aspetti della questione, e non certo con maggior simpatia» concluse il Führer (Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, trad. it. Einaudi, 1995, vol. I, p.
422). Il piano fu definitivamente archiviato il 10 febbraio 1942.
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Quando il 22 giugno 1941 scattò l'operazione Barbarossa, le SS e opposti reparti della Wermacht
furono impegnati ad attuare le direttive precedentemente impartite ai loro alti comandi dal Führer per lo
sterminio sistematico degli ebrei in Polonia e in Unione Sovietica.
In concomitanza con l'apprestamento dell'Operazione Barbarossa, e in previsione di una guerralampo sul Fronte orientale, come già si era verificato in Occidente, Hitler decide la soluzione fisica
diretta e sistematica della questione ebraica nell'Europa orientale, fuori cioè dalla Germania e da occhi
indiscreti. Lo sterminio avviene in zone che erano state evacuate e mediante la fucilazione di massa,
alla quale seguiva il rogo dei cadaveri con la benzina. Le fosse comuni, a loro volta occultate con
scrupolo e inventiva, servivano a far sparire i resti non interamente distrutti dal fuoco.
Nell'estate del 1941 Hitler decide la soluzione finale anche se operativamente occorre, per ora,
limitarsi ad associare al destino degli ebrei orientali gli ebrei tedeschi e dei Paesi dell'Europa centrale.
Era giocoforza, infatti, escludere ancora dai piani di internamento e di distruzione fisica gli ebrei
dell'Europa occidentale, almeno finché rimaneva la possibilità di una pace con l'Inghilterra. Coloro che
hanno da Hitler l'ordine di organizzare, accelerare ed estendere il processo di distruzione degli ebrei
sono i suoi due più alti e diretti collaboratori Reinhardt Heydrich e Heinrich Himmler. Il primo era il
capo dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich nonché capo della Polizia segreta e dei Servizi
segreti. Il secondo era capo delle SS e capo della Polizia del Reich germanico, Heydrich e Himmler
erano, insomma, i soli a disporre, dopo Hitler, di apparati istituzionali che mettevano in ombra ogni
altra istanza dell'autorità statale e militare.
Verso la fine dell'estate del 1941, Adolf Eichmann fu convocato da Heydrich, il quale lo informò
che «Hitler aveva ordinato lo sterminio fisico degli ebrei».
Nell'impartire quell'ordine Hitler, secondo quanto Heydrich disse ad Eichmann, era visibilmente
agitato. Nello stesso tempo Himmler convocava Rudolf Hoess, il comandante di Auschwitz, per dirgli
che Hitler aveva ordinato la soluzione finale del problema ebraico e per comunicargli che Auschwitz
doveva diventare l'epicentro di quella immensa operazione. Ad Auschwitz, infatti, per la sua vicinanza
a Katowice, si poteva accedere facilmente per ferrovia, e inoltre quel luogo, così esteso, offriva
abbastanza spazio per poter assicurare un adeguato isolamento. «È a noi, SS, che spetta l'esecuzione di
questi ordini» disse Himmler a Hoess. I dettagli dell'operazione potevano essere discussi e decisi tra
Hoess e Eichmann. E così fu (Hilberg, op. cit., pp. 936 – 957).
Himmler, però, sapeva molto bene – e con lui Hoess e Eichmann – che la soluzione finale fisica
non poteva continuare a essere praticata con il metodo della fucilazione in massa, con i massacri che
ponevano direttamente a contatto le vittime e i loro assassini. Quando lo sterminio sistematico degli
ebrei dell'Europa orientale entrò nella fase esecutiva, Eichmann e Hoess scartarono subito per
Auschwitz il sistema delle fucilazioni perché sarebbe stata una fatica troppo pesante per i militi delle
SS incaricati di eseguirle, data anche la presenza di donne e bambini.
«Ne avevo abbastanza ormai – scrive Hoess – delle esecuzioni di ostaggi, delle fucilazioni in
gruppo ordinate da Himmler o dall'alto Comando della Polizia del Reich. Ma ora ero tranquillo perché
questi bagni di sangue sarebbero stati evitati, e perché le vittime avrebbero potuto essere risparmiate
fino all'ultimo momento». Hoess attesta che tra i soldati delle Einsatzgruppen erano frequenti i suicidi e
la pazzia; la maggioranza si rifugiava nell'alcool. «Ma ora avevano scoperto il gas e il modo di usarlo».
In realtà la soluzione finale ora poteva avvenire mediante la camera a gas e i forni crematori. Quello
che sarebbe diventato il nuovo sistema entrò in funzione la prima volta nel dicembre 1941 a Chelmo
(Polonia) nella regione di Varsavia.
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III
Olocausto, i giorni decisivi per la «soluzione finale»
Le operazioni più segrete del processo di distruzione si svolsero in sei campi situati in Polonia, in
un'area che si estendeva dai territori incorporati fino al Bug. Questi campi erano i centri di
raggruppamento verso i quali convergevano migliaia di trasporti che arrivavano da tutte le direzioni. I
convogli ripartivano vuoti, e il loro carico scompariva all'interno. I campi di sterminio funzionavano
velocemente e bene. Il nuovo arrivato scendeva dal treno alla mattina e, se giudicato inidoneo al lavoro,
alla sera il suo cadavere era già bruciato, e i suoi abiti impacchettati e immagazzinati, pronti per essere
spediti in Germania. Questo tipo di operazione era il risultato di una complessa pianificazione; il campo
di sterminio, infatti, costituiva un complicato meccanismo nel quale un cospicuo esercito di specialisti
aveva il suo ruolo definito. In apparenza, l'organizzazione è di una semplicità inaudita, ma un esame
più attento rivela che le operazioni dei centri di sterminio si avvicinano, sottocerti aspetti, ai metodi di
produzione complessi di una moderna fabbrica.
La cosa più sconvolgente, nelle operazioni dei centri di sterminio, è che, a differenza della fasi
preliminari del processo di distruzione, questi non avevano precedenti. Mai, in tutta la storia
dell'umanità, si era ucciso a catena. Il centro di sterminio, come si potrà constatare, non ha alcun
prototipo, nessun precedente amministrativo. Questa caratteristica dipende dal fatto che esso era
un'istituzione composita che includeva due elementi: il campo propriamente detto, e le installazioni di
sterminio all'interno del campo. Ognuna di queste due parti aveva i suoi propri antecedenti
amministrativi. Nessuna era completamente nuova. Il campo di concentramento e la camera a gas
esistevano da un certo periodo di tempo, ma isolate. La grande innovazione fu di mettere in funzione i
due sistemi insieme
***
Quando la soluzione finale venne estesa anche agli ebrei dei Paesi dell'Europa Occidentale sotto
il dominio tedesco, essendo i campi di sterminio tutti nell'Europa Orientale, l'operazione fu presentata
come un trasferimento all'Est per il lavoro richiesto dall'economia di guerra. Questo terzo e ultimo
momento della soluzione finale fu attuato in massa solo a partire dal 1942.
Certamente la macchina di morte aveva raggiunto allora la massima efficienza e poteva assolvere
al nuovo compito che le veniva assegnato, ma la decisione nasce anche dalla mutata situazione politica
e militare. La fine di ogni remora per Hitler e per i suoi fedelissimi criminali si spiega solo con la fine
di due grandi illusioni. La guerra contro l'Unione Sovietica, col sopraggiungere in forte anticipo
dell'inverno, si rivelò non essere affatto una guerra lampo; anzi, il 6 dicembre 1941 Hitler registrò
dinanzi a Mosca la sua prima sconfitta. L'offensiva sovietica, dopo un terrificante susseguirsi di ritirate
e sconfitte, era finalmente vittoriosa. Ed ecco, due giorni dopo, l'8 dicembre, il Giappone distrugge la
flotta americana a Pearl Harbour e scende in guerra con gli Stati Uniti; l'11 dicembre l'Italia e la
Germania si schierano a fianco dell'alleato nipponico. Ma ciò significava anche la perdita definitiva
della madre di ogni illusione, quella che faceva da premessa a tutti i progetti e le speranze di Hitler. È
interesse vitale dell'Inghilterra – pensava Hitler – accettare l'offerta di pace che le fa la Germania
vittoriosa sulla base di una vera e propria partnership: l’Europa a Berlino, a Londra il dominio su tutto
il resto. Churchill non prese sul serio una così rozza, proterva e insistente proposta; e se non lo fece
quando era rimasto solo a tener testa al nemico, come avrebbe potuto farlo ora che al suo fianco
combattevano gli Stati Uniti?
Militarmente la potenza della Germania era ancora molto forte e il Giappone conseguiva un
successo dietro l'altro in Cina, nel Sud-Est asiatico, nel Pacifico; le sue conquiste sembravano
inarrestabili. Ma gli effetti dell'ingresso degli Stati Uniti nel conflitto si sarebbero visti in progresso di
tempo e sarebbero stati decisivi sia in Asia, sia in Europa.
Hitler reagì alla nuova situazione a modo suo, cioè non riconoscendo l'infondatezza dei suoi
calcoli, ma rifugiandosi nella più ossessiva delle sue manie: nell'ora della «guerra totale» il primo di
tutti i compiti era portare a termine la distruzione degli ebrei in Europa.
Il dogma razziale dominava ormai in maniera univoca la politica e la strategia militare del
dittatore. Persino nell'estate del 1941, quando sembrò che le speranze di vittoria del Reich germanico
stessero ancora una volta realizzandosi, Hitler non riuscì a prendere una decisione a favore della
priorità della guerra contro l'Unione Sovietica rispetto al genocidio razziale. nella fase culminante della
campagna di Russia, durante l'avanzata su Stalingrado, quando tutte le forze di lavoro e i mezzi di
trasporto dovevano essere indirizzati a quell'unico obiettivo, l'Europa intera era invece traversata con
una regolarità pianificata da lunghi convogli ferroviari carichi di ebrei dell'Europa Occidentale diretti ai
campi di concentramento in Oriente.
Il 24 febbraio 1942 Hitler riaffermò la cosiddetta «profezia» del 30 gennaio 1939: «Da questa
guerra non uscirà annientata la razza ariana, sarà l'ebreo invece ad esser sterminato. Qualsiasi
conseguenza avrà la lotta, o qualunque sia la sua durata, sarà questo il suo risultato finale». Così,
mentre nella seconda metà del conflitto il Terzo Reich cedeva inesorabilmente sul piano militare e
passava di sconfitta in sconfitta, la soluzione finale della questione ebraica veniva sempre più
accelerata. Pare proprio che alle sconfitte militari della Wehrmacht Hitler facesse corrispondere le sue
«vittorie» razziali. La distruzione degli ebrei in Europa doveva, insomma, prevalere su ogni
considerazione di salvezza del popolo tedesco.
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