Trombino - Identità della Filosofia e

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Trombino - Identità della Filosofia e comunicazione filosofica: I. Le origini
Mario Trombino
Lezioni sulla identità della Filosofia e sulle forme di comunicazione filosofica. I. Le origini
Per il corso completo di lezioni si veda l'Indice delle Lezioni
"L'occhio si unì in società con l'orecchio, e vi è sempre rimasto senza mai sostituirlo."
Eric A. Havelock, Dike (1)
Nel libro primo della sua celebre indagine sulla Paideia greca, dedicato al periodo arcaico, Werner Jaeger tratta dei filosofi
presocratici nel Capitolo IX, intitolato Il pensiero filosofico e la scoperta del cosmo. La filosofia quindi, nel suo panorama generale
dell'epoca, occupa un posto a sé, distinto dagli altri. Tuttavia una parte notevole delle riflessioni di Jaeger è dedicata proprio a
identificare che tipo di uomo fosse ciascuno dei filosofi rispetto ai poeti e agli scrittori, quale figura professionale e sociale ciascuno
incarnasse: il che si rivela compito tutt'altro che agevole. E tutta la sua indagine connette in modo talmente fine la figura dei filosofi
e le loro idee alla cultura della loro epoca che i contorni di ciò che si chiamerà filosofia sono appena distinguibili dalla generale sfera
della visione del mondo che di quell'età ci è stata tramandata.
La stessa impressione è possibile ricavare da altri studi sul periodo arcaico. Nel celebre libro di Eric R. Dodds, I Greci e l'Irrazionale,
la trama delle indagini testuali alla ricerca dell'approccio greco all'irrazionale si rivolge del tutto indifferentemente a poeti, a filosofi,
a storici. A fatica si distingue la natura non filosofica della concezione dell'"invidia degli dèi" di Erodoto dalla natura filosofica di
altre e parallele concezioni (2). La trama qui è talmente fine che la filosofia di Platone appare nelle pagine di Dodds emergere in
continuo dialogo con il mondo delle credenze, della cultura dei secoli precedenti, come un evento evolutivo interno, quasi senza
fratture.
Il punto è che i filosofi hanno costruito una loro identità in quest'epoca, ma è soltanto a partire dal tempo di Anassagora, di
Democrito, dei Sofisti e di Socrate che i contorni precisi del loro operare si autodefiniscono con consapevolezza metodologica e
critica. Quando Aristotele si volge al passato per misurare le proprie ricerche sul metro della tradizione di pensiero che identifica
come filosofica, può costruire la prima "storia della filosofia" perché è ormai in possesso di una idea sulla identità della filosofia (3).
Ora, questa idea deve essere distinta dalla filosofia aristotelica, ed anche da quella platonica, perché Aristotele è in grado di
identificare come appartenenti ad una storia che porta alla filosofia - che la costruisce come identità - anche figure del tutto diverse
dalla sua, e identifica come filosofiche idee che poco hanno a che vedere con i suoi metodi, le sue ricerche, le sue conclusioni. E
questo benché tenda a ricostruire la "storia della filosofia", come spesso hanno poi fatto i filosofi, "entro uno schema in cui si traduce
la sua personale concezione della natura della filosofia". (4)
Al tempo di Aristotele - nel momento in cui l'età classica diviene età ellenistica, secondo una partizione della storia greca codificata
dal tempo e influenzata dall'espandersi della grecità all'Oriente - l'identità della filosofia è già qualcosa di autonomo rispetto a questa
o a quella concezione filosofica. In quel momento il filosofo del passato ha una sua identità riconoscibile, sia egli qualcosa di simile
ad uno sciamano (5) come Empedocle o qualcosa di simile ad un professore come Aristotele.
Che cosa, dunque, identifica la filosofia e i filosofi nel panorama del mondo arcaico, visto che è a quel tempo che si è formata quella
tradizione che da Platone in poi si chiamerà filosofia?
Omero ed Esiodo: leggere il mondo attraverso un racconto
Si è spesso notato che già in Omero, che appartiene senza ambiguità al mondo del mito - del "racconto" come forma di
comprensione e interpretazione del mondo - è all'opera lo stesso principio di selezione e di riflessione razionale che porta i filosofi a
purificare l'idea che gli uomini si fanno degli dèi. Omero, come poi farà Esiodo, seleziona fortemente le credenze del suo tempo e le
pratiche rituali. (6) E se Omero fa questo rivolto ad un mondo che non è popolare, ma aristocratico, Esiodo si rivolgerà,
selezionando con la fermezza di un "teologo" le credenze e le pratiche religiose, proprio al mondo contadino. Sicché la visione di
dike del suo poema sulle Opere e Giorni la ritroveremo in elegie politiche con Solone, in frammenti filosofici con Anassimandro, in
aforismi con Eraclito, e così via. In piena continuità.
E tuttavia leggere il mondo attraverso un racconto - anche se continueranno a farlo Platone e tanti altri filosofi in maniera più o
meno consapevole dopo di lui - non è una operazione in sé filosofica: non è questo che identifica i filosofi, anche se anch'essi lo
fanno. (7)
Vale la pena di affrontare il tema dell'identità della filosofia e dei filosofi attraverso l'ottica dei generi letterari e delle forme della
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scrittura, perché attraverso questa via potranno essere fatte precisazioni interessanti.
I poeti e i primi filosofi
Nel mondo arcaico, erede di tradizioni per noi in gran parte perdute, sono molto chiare la figura e il ruolo sociale dei poeti: è a loro
che spetta di ammaestrare il popolo attraverso i canti, è compito loro la primaria funzione sociale della trasmissione dei valori e delle
tradizioni che garantiscono continuità alla vita civile e religiosa, che tengono insieme un popolo garantendo i fondamenti della vita
collettiva. (8) Il mito ha una precisa funzione sociale riconosciuta come tale nella figura professionalmente molto ben identificata dei
poeti.
Per conseguenza, quando i primi filosofi della Ionia scrivono in un dialetto locale e in prosa, piuttosto che in poesia nella lingua di
Omero e di Esiodo, compiono una probabilmente ben consapevole operazione culturale, per noi certo difficile da valutare in ragione
della estrema esiguità dei frammenti rimasti, ma percepita comunque in maniera chiara dai Greci stessi, come Aristotele. Ora, perché
in prosa?
Si ponga attenzione a due testi in cui è riscontrabile - pur in contesti profondamente diversi, su cui gli interpreti non concordano (9) una concezione arcaica comune, l'antica idea di dike come legge inesorabile di equilibrio tra gli elementi: le Elegie di Solone (per
esempio la sua Elegia alle Muse) e il celebre frammento di Anassimandro. Un testo poetico e un testo filosofico. Se è al lavoro la
stessa antica concezione arcaica, è davvero netta la differenza tra poesia e la prosa filosofica? Non si tratta forse soltanto di una
differenza di genere letterario, tutto sommato secondaria?
Si osservi che in Solone l'antica concezione è posta al servizio di una radicale novità, le sue riforme politiche ad Atene. Non siamo
davanti ad un uomo della tradizione e ad un innovatore, ma a due uomini che hanno saputo sfidare il tempo e proporre, nella
tradizione, il nuovo, ciascuno nel proprio campo.
Ma Solone, scegliendo la poesia, sceglie per ciò stesso di proporsi come maestro così come avevano fato gli antichi poeti - anche se
in una forma che si distacca nettamente dall'epica (10) - mentre Anassimandro sceglie una via di ricerca nuova. Si osservi che
quest'ultima è una scelta assai radicale, perché limitava di fatto l'influenza che il filosofo poteva avere sulla cultura del suo tempo.
Scrivendo in prosa (per noi la cosa è un po' paradossale) Anassimandro poteva parlare ai pochi, non a tutta l'Ellade (11): la scelta era
per il registro della scrittura (12), mentre Solone, che noi leggiamo per iscritto come Anassimandro, stava invece scegliendo il
registro dell'oralità, con quello che questo significa in una società dominata dall'oralità, non dalla scrittura. Ma non si trattava affatto
di una scelta aristocratica: è la poesia, semmai, ad appartenere alla visione aristocratica del mondo. Quella di Anassimandro è,
semplicemente, l'apertura di una nuova via (13).
Eraclito e il genere letterario dell'aforisma
Del resto, che i primi filosofi stessero rivolgendosi ai pochi e non ai molti risulta ben chiaro da Eraclito, l'"oscuro" già in fonti
antiche. In effetti, che cos'è dal punto di vista che stiano esaminando il genere letterario che egli usa, l'aforisma? Resterà per tutta la
sua storia un genere molto amato dai filosofi, ma certo la sua natura getta una luce inquietante sulla identità della filosofia (non sarà
così anche con Nietzsche?).
L'aforisma conserva elementi formali della poesia. Ha qualcosa del verso e della sua sonorità, conserva un elemento legato
all'oralità, come i proverbi che hanno però tutt'altra origine. Ma ha in comune con la poesia anche qualcosa di più profondo. Come la
poesia, l'aforisma è ricco di figure retoriche, di similitudini, di metafore, fa largo uso di quel pensiero per immagini che diverrà una
costante della scrittura filosofica, come vedremo.
Eppure è prosa. E già questo permette a Eraclito di allontanare la propria figura da quella del poeta della tradizione omerica ed
esiodea e di presentarsi in termini nuovi, come prima di lui avevano fatto i milesii. In Eraclito è presente quella che diverrà una
costante, la volontà di precisare la propria figura, per essere identificati: contrapporsi ai dormienti, rivendicare il lavoro del proprio
io (14) , e così via. Analoga attenzione al presentarsi, definendo l'identità del proprio ruolo, è presente in figure nuove della filosofia,
a volte con tratti di ambiguità ancora ai nostri occhi, come Empedocle, come i Sofisti. Ma il problema tornerà in Socrate, ed è
altissimo il numero di pagine dedicate da Platone allo studio dell'identità del filosofo e della filosofia - questa volta con
consapevolezza chiara, anche per la presenza della stessa parola "filosofia" all'interno di una tradizione ormai consolidata.
L'aforisma di Eraclito si caratterizza per una estrema concisione, e più esattamente per una particolare forma di concisione, che
ritroveremo in altri aforismi nella storia della filosofia, in cui nella stessa parola, o breve espressione, si uniscono senza sovrapporsi
del tutto due linee di pensiero. I giochi di parole, il ricorso al pensiero per immagini, non hanno la stessa funzione che nella poesia
epica: non hanno un funzione narrativa, non servono al "racconto". Servono ad esprimere il pensiero intuitivo rispettandone la
complessità (15). Un pensiero che non si serve più del racconto, ma della contrapposizione tra intuizioni per farne scaturire una tesi.
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È ancora da osservare, perché questo sarà importante nella futura storia dell'aforisma, che quando con Eraclito questa forma di
espressione del pensiero compare in filosofia non serve ad esprimere un pensiero concluso, il risultato di una ricerca, un dato o un
fatto, una verità. Serve ad esprimere un movimento del pensiero, anzi ad esprimere più movimenti contemporanei, più linee di
pensiero. Ritroveremo questo carattere nell'uso che Hegel a volte fa dell'aforisma, e in Nietzsche. Questo carattere differenzia invece
molto l'aforisma di Eraclito dalla successiva tradizione delle scuole ellenistiche, basata non su aforismi, ma su detti, sentenze e
"pensieri". Che hanno in comune con l'aforisma eracliteo di fatto soltanto l'essere in prosa, con elementi poetici, e la brevità.
L'aforisma è dunque mezzo adeguato per esprimere una filosofia del movimento, ed in particolare una filosofia in cui il Logos
garantisce l'ordine del pensiero e delle cose agendo non come un ordinatore esterno, ma - come fuoco - dall'interno attraverso lo
scontro fecondo degli opposti. Scontro che l'aforisma, nella parola singola o nella brevità della frase, rende bene: non in quanto mero
espediente letterario, ma diretta espressione della realtà del pensiero che tenta di comprendere in sé la parallela realtà delle cose.
L'aforisma eracliteo, a ben vedere, tenta di rendere lo stesso carattere di movimento del Logos, e questo carattere fa sì che il lettore
non "dormiente" sia sorpreso, che il suo pensiero sia scosso, mediante lo scontro armonico delle parole e dei pensieri, sicché questa
armonia dei contrari sia feconda anche per lui. A dimostrazione del fatto di quanto antichi siano i problemi sulla comunicazione
filosofica - tema questo che tornerà coi Sofisti e poi con Socrate, nei magistrali passi platonici in cui Alcibiade ed altri descrivono
l'effetto delle sue parole.
Parmenide ed Empedocle: il poema filosofico
Con Eraclito è quindi ben visibile - cosa che non poteva dirsi con chiarezza per gli Ionici, a ragione della scarsità dei frammenti
pervenuti - il legame tra le forme di espressione, e i loro effetti, e le forme stesse del pensiero: dunque il legame tra ciò che oggi
chiamiamo filosofia teoretica e comunicazione filosofica. In Eraclito la forma prescelta serve da barriera tra la propria identità
culturale (ben differenziata rispetto ai poeti che "raccontano") e i dormienti, e quindi è piegata alla definizione della propria
orgogliosa indipendenza.
Ma negli anni successivi una diversa poesia, non la prosa, sarebbe stata la forma propria della nuova filosofia: con il poema
filosofico Parmenide ed Empedocle hanno creato non solo nuove vie alla ricerca filosofica, ma anche una nuova forma di
espressione. La ritroveremo in forme rinnovate in Lucrezio, poi in filosofi rinascimentali come Bruno, e la sua influenza si potrà
osservare nella grande poesia di tutti i tempi. Ma nelle forme in cui compare in Parmenide e in Empedocle, rimane una caratteristica
del loro tempo.
Come è noto, l'uso della poesia in questi autori ha un senso generale, e non potrebbe non averlo visto che alla loro epoca erano
ancora i poeti, e non i filosofi, i "maestri della Grecia". Parmenide ed Empedocle dichiarano per il fatto stesso di scrivere in poesia ed in una forma di poesia che ha rapporti con la tradizione omerica - di essere gli eredi degli antichi poeti. E di esserlo, qui è la loro
radicale novità, come filosofi. Dunque la loro poesia ha la forma del poema, ben nota al loro tempo, ma del poema filosofico, il che
è un inedito. Una loro creazione (16).
Erano stati preceduti in questo dalla poesia di Senofane, che aveva trasposto nella lingua comune dell'epica, e dunque nelle forme
dell'oralità, le nuove idee filosofiche della Ionia (17), dando loro veste panellenica, com'era la lingua di Omero, piuttosto che la veste
di un particolare dialetto. Si deve infatti prestare attenzione al fatto che la scelta tra prosa e poesia non riguarda soltanto l'uso di
questo o quel genere letterario, ma di un diverso strumento di comunicazione. La poesia della tradizione omerica è legata agli aedi,
alla loro precisa e codificata figura professionale, caratterizzata da un proprio ruolo riconosciuto nella società e da tempo
tradizionale. La poesia dell'epos è legata ad un mondo in cui le tradizionali distinzioni tra aristocratici e popolo permangono, sia pure
tra tensioni crescenti, ad un mondo in cui il potere delle tradizioni è nelle mani degli aristocratici (tutto diverso è il caso della poesia
tragica del V secolo, che ha un significato filosofico di primaria importanza). E questo mondo sfrutta gli stili, le forme e le
potenzialità dell'oralità in una società ancora fortemente dominata dalla parola detta e non scritta, dai contatti personali e diretti,
dalle tradizioni direttamente tramandate a voce (18). In questa tradizione si inseriscono, per rinnovarla con un innesto filosofico,
Parmenide ed Empedocle.
La forma scritta del poema di Parmenide è particolarmente lontana dalla sensibilità moderna: il Proemio, in particolare, ha dato
luogo a molte interpretazioni e davvero è una sfida per il lettore moderno, soprattutto se posto a confronto con la lucida razionalità
del principio parmenideo - razionalità che già uno studente al primo anno di filosofia a scuola percepisce come a sé vicina, anche se
con grande meraviglia per la tesi sostenuta sull'essere e sul nulla.
Senza entrare nello studio delle interpretazioni, non essendo questa la sede, va però notato che il genere letterario della "rivelazione"
era ben noto ad un ascoltatore (ripeto, ascoltatore, non soltanto lettore) antico. E allo stesso modo era nota la forma poetica e il
linguaggio parmenideo, essenzialmente appartenente alla tradizione degli antichi poeti. Per un uomo del suo tempo, Parmenide stava
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facendo un'operazione culturale comprensibile, stava proclamandosi erede dei "maestri della Grecia" proponendo una nuova dottrina
in forme antiche. La forza dell'operazione parmenidea risiede anche nel fatto che gli elementi che compongono la sua
argomentazione - comprese le parole chiave che dal suo poema in avanti entreranno nel lessico comune della filosofia appartengono anch'essi alla consolidata tradizione. (19)
Naturalmente per lui, come per Eraclito, la forma letteraria era uno strumento per fissare l'identità del filosofo come sapiente, e
dunque anche uno strumento per isolarsi e definirsi rispetto agli ascoltatori. Vi sono però importanti differenze nel rapporto tra
forma del pensiero e forma espressiva.
Intanto nella scrittura parmenidea non vi sono sovrapposizioni tra diverse linee di pensiero, ma lo sforzo di fissare il pensiero su un
principio e di scorgere tutti i possibili caratteri per comprenderne la natura, e questo si esprime in una completa assenza del modello
aforistico (restano, naturalmente, i caratteri propri della tradizione poetica dell'epos, che è fondata sull'oralità e quindi si esprime
facilmente per sentenze) (20). Anche in Parmenide, certo, troviamo l'opposizione tra due vie, ma non tra due forze, come in Eraclito:
in Parmenide, infatti, la forza è tutta interna ad una via, e questo definisce l'altra come mera apparenza (evanescente opinione, doxa).
Dunque la fecondità del pensiero razionale non nasce dallo scontro tra forze.
In secondo luogo anche Parmenide utilizza tutto un mondo di immagini, ma esse hanno un valore simbolico e sono nettamente
separate rispetto al nucleo dell'argomentazione filosofica. C'è pensiero filosofico, ci sono immagini che rivestono ed esprimono
pensieri, ma non c'è pensiero per immagini in senso forte, com'è in molti aforismi eraclitei, non essendo in Parmenide la
forma-immagine la forma propria del pensiero. (21)
Parmenide non ha bisogno di far vivere due linee di pensiero in una sola immagine. Nel suo poema compare piuttosto per la prima
volta in modo chiaro (per noi che di quest'età abbiamo perso moltissimo) la forma dell'argomentazione razionale, destinata ad avere
un'importanza decisiva in filosofia (e di cui subito Zenone darà una versione densa di fecondi sviluppi, come vedremo). Certamente
essa appartiene - stando al poco che ci è stato tramandato - alla prosa filosofica ionica, ma è difficile comprenderne la forma per la
scarsità dei frammenti. In Parmenide essa ha invece una forma chiaramente visibile, anche se priva di quella enunciazione teorica
che avrà con Aristotele (e cioè la definizione del principio di non-contraddizione e della dialettica come metodo di ricerca della
filosofia). Parmenide fissa il suo principio sull'essere, e dalla natura propria di questo pensiero - dalla sua forza razionale interna scaturisce la chiave argomentativa del discorso. (22)
Certo, questo non risolve i problemi interpretativi posti dal testo. Ma nostro compito qui non è esaminare questi problemi. I fatti
nuovi che ci interessano qui sono due: adesso c'è una figura filosofica chiara, quella dell'erede degli antichi poeti che sa parlare col
loro linguaggio e si propone come maestro della Grecia al loro posto; c'è una scrittura, concepita per un uso legato all'oralità, che
nelle antiche forme introduce un elemento che sostituisce il "racconto": l'argomentazione nata dalla forza stessa del pensiero. (23)
Più complessa e sfuggente è la figura di Empedocle, che ha ben potuto dar vita a più di un mito romantico. Certo, la sua figura è per
noi il frutto della lettura dei suoi due poemi - o meglio di quel che ne rimane, che non è pochissimo - e dunque le interpretazioni che
di Empedocle sono state date si basano anche sulla presentazione che egli stesso ha fatto di sé. (24) L'identità del filosofo è un'altra
volta consapevolmente in questione. (Si osservi, per inciso, che sino all'età dei Sofisti e poi di Platone, ad essere in questione in
modo consapevole e dichiarato è soprattutto l'identità dei filosofi e il loro ruolo nella società; solo dopo sarà in questione con la
stessa consapevolezza l'identità della filosofia.)
Ora, Empedocle compie la stessa operazione - dal punto di vista formale - compiuta da Parmenide, avendo anch'egli scritto poemi
filosofici. Ma il suo mondo è diverso. Empedocle recupera davvero qualcosa delle tradizioni poetiche antiche (quanto antiche?),
presentandosi come una sorta di reincarnazione divina di anime già vissute nel passato, e allo stesso tempo come filosofo "che
argomenta". L'accostamento così difficile per noi da comprendere appare invece naturale in un'età in cui le figure non si sono ancora
fissate in tipi precisi e il filosofo tenta di proporsi come erede dei poeti. Empedocle aveva infatti un preciso precedente, Pitagora,
anch'egli legato al mondo della trasmigrazione delle anime e alla sfera del sacro, e allo stesso tempo indagatore razionale della
struttura matematica del mondo.
Rispetto a Parmenide la scrittura filosofica di Empedocle presenta alcune particolarità assai nette. Innanzitutto c'è in quest'ultimo un
elemento poetico che è connesso alla sfera del sacro, ma che è anche rivolto alla natura, il che lo apparenta in modo più diretto ai
filosofi ionici (e da questo elemento poetico che connette filosofia e natura prenderà moltissimo Lucrezio); in secondo luogo, in
Empedocle il ricorso alle immagini (la "veste" mitologica di realtà come l'Amicizia o l'Odio) fa sì che l'elemento di rottura
rappresentato dalla filosofia rispetto alla tradizione sia meno marcato, il passaggio caratterizzato da maggiore continuità. (25) E
questo in piena coerenza con le diverse figure dei due filosofi consegnateci dalla tradizione antica, sulla base delle loro stesse parole
e della loro stessa volontà di presentarsi così.
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Zenone e l'origine della dialettica
Il filosofo che permette di comprendere il passaggio da questo mondo filosofico alla rivoluzione sofista, e poi alla codificazione del
metodo con Socrate, è forse Zenone, le cui teorie ci sono tuttavia note per lo più indirettamente. E' comunque chiaro almeno questo,
che a Zenone va fatta risalire quella forma di argomentazione che consiste nel derivare le conseguenze assurde da una tesi
apparentemente corretta, in modo da mostrarne la falsità. Questa argomentazione, che apparentemente è solo negativa, può essere
usata in senso positivo nel caso che le tesi possibili siano soltanto due: mostrare la falsità dell'una significa per ciò stesso mostrare la
verità dell'altra.
È quanto fa Zenone a proposito della realtà del movimento, tesi che porta a conseguenze assurde, mostrandosi quindi falsa: si tratta
quindi di una procedura di argomentazione a favore della concezione parmenidea dell'essere.
In mancanza di testi di Zenone, ecco le parole che Platone, subito in apertura del Parmenide, fa dire a Zenone:
"I miei scritti sono un aiuto alla tesi di Parmenide contro coloro che cercano di ridicolizzarlo sulla base dell'affermazione che, se
l'Uno è, da questa asserzione derivano innumerevoli conseguenze ridicole e contraddittorie. I miei argomenti, opponendosi a coloro
che sostengono il molteplice, rendono loro la pariglia con gli interessi, dimostrando che, se si accetta la loro ipotesi che esiste la
molteplicità, ne conseguono effetti ancora più ridicoli che dalla tesi dell'esistenza dell'unità, qualora si sia capaci di sviluppare
adeguatamente il ragionamento. Con tale spirito polemico scrissi da giovane questo testo" (26).
Diversi interpreti tendono a vedere in questa forma di argomentazione una delle forme originarie da cui si è poi sviluppata la pratica
sofistica della contrapposizione delle argomentazioni e quindi la dialettica come metodo rigoroso in Socrate, poi in Platone, poi
ancora in Aristotele (27). A noi interessa sottolineare due punti.
- Innanzitutto l'operazione di Zenone appare consapevolmente metodologica (o così ci viene presentata da Platone) e dunque questa
tecnica di argomentazione viene realmente elaborata allo scopo di persuadere, all'interno di una comunicazione filosofica che è già
dialettica almeno in questo senso, che prevede un dialogo autentico (carattere, questo, assai meno marcato nel poema parmenideo
dove prevale la logica della "rivelazione", cioè di un dialogo in cui una verità viene manifestata e non scaturisce da contrapposizioni
di posizioni, non essendo tale la via della doxa, inconsistente non alla fine dell'argomentazione, ma già al suo principio). E questo ha
fatto sì che diversi interpreti abbiano visto in Zenone uno dei filosofi da cui i sofisti derivano le loro tecniche di argomentazione
attraverso discorsi contrapposti.
- In secondo luogo, del passo di Platone ci interessa sottolineare l'aspetto emotivo, quello spirito polemico che caratterizzerebbe
l'operazione filosofica di Zenone. Con questa forma dello spirito la filosofia avrà molto a che fare nella sua storia, e in questa chiave
può essere ancora letta una parte notevole della filosofia del XX secolo. Compare qui un tratto che ha qualcosa di universale, e che
Huizinga, in un passo famoso, considera addirittura una delle matrici dello stesso spirito filosofico (28).
I Sofisti
In ogni caso, questo spirito polemico va compreso tenendo presente sullo sfondo il gusto tipicamente greco del trasformare tutto in
gara (giochi sportivi, tragedie e commedie, e così via). E con i sofisti fa la sua comparsa l'elemento del gioco dialettico come tecnica
di argomentazione, di cui ci rimangono pochi esempi originali e molti esempi in opere, come quelle di Platone, che alla sofistica
tendono a contrapporsi. (29)
Che i discorsi contrapposti dei sofisti come tecnica di argomentazione abbiano a che fare con le forme stesse del pensiero, è di per sé
evidente. Qui il legame tra espressione e comunicazione filosofica da un lato, e ricerca teorica dall'altro, è trasparente. I sofisti
stanno consapevolmente spostando dall'uomo come elemento di un cosmo ordinato popolato dagli dèi all'uomo che possiede in sé la
fonte della propria razionalità l'asse portante della ricerca filosofica (il loro interesse per la conoscenza della natura è di tipo
scientifico, richiama Anassagora e Democrito, non i filosofi precedenti) (30), e per conseguenza studiano i generi letterari che
rendano ragione di questo spostamento. La scrittura filosofica dei sofisti ne deriva direttamente, sicché non ci soffermeremo su
questo, perché ripeteremmo quanto è scritto in qualsiasi manuale di storia della filosofia. (31)
Si osservi, tuttavia, che anche i sofisti fanno uso del mito, restano nell'universo dei racconti. Ma nel loro "illuminismo", come s'è
detto, ne trasformano completamente lo spirito. Operazione trasparente nei poeti dei loro anni, per esempio in Euripide. Ma occorre
dire che tutto il V secolo è età di profonda riflessione sul mito. Ad esempio, in direzioni assai diverse tra loro e del tutto diverse dai
Sofisti e da Euripide, la stessa operazione di riflessione profondamente sentita è propria della poesia di Eschilo prima e di Sofocle
poi.
La filosofia al tempo dei sofisti, quindi, così come la poesia, opera con gli strumenti culturali della tradizione. La rivoluzione del
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pensiero avviene all'interno delle forme del pensiero della cultura greca. Si pensi al modo in cui Gorgia ha trattato "per gioco" il
mito di Elena.
Ai fini della storia delle forme della comunicazione filosofica - nella loro connessione con le forme della ricerca - è poi necessario
sottolineare che i sofisti hanno dedicato grandissima attenzione agli effetti della parola sull'ascoltatore e sul lettore. Proprio
nell'Encomio di Elena è la celebre affermazione che accosta la forma della parola a quella degli antichi incantesimi della tradizione
popolare:
"Grande padrone è la parola, che pur con un corpo microscopico e del tutto invisibile riesce però a compiere opere assolutamente
degne degli dèi: infatti può placare il timore, eliminare il dolore, infondere la gioia, accrescere la pietà. (?) Gli incantesimi di
ispirazione divina attraverso le parole inducono il piacere, rimuovono il dolore; infatti diventando una sola cosa con l'opinione
dell'anima, con il suo potere l'incantesimo la affascina, la seduce e la trasforma con il suo potere magico. La magia e l'incanto hanno
trovato due mezzi per raggiungere il loro scopo: gli errori dell'anima e gli inganni dell'opinione".
E in Gorgia queste affermazioni, celeberrime, sono poste direttamente in connessione con la situazione umana di ignoranza ("non c'è
modo di ricordare il passato, né di osservare il presente né di prevedere il futuro", scrive Gorgia poco dopo il passo citato) e con
l'opinione che per forza di cose ci governa, nell'incertezza del nostro sapere (32). Analisi teoretica e comunicazione sono
direttamente accostate. Anche se all'interno di un discorso scritto solo "per gioco".
È poi probabile che ai Sofisti, e non ad Aristotele, vada fata risalire l'origine della figura del professore di filosofia. Almeno nel
senso che certamente i Sofisti erano dei professionisti dell'insegnamento, perché chiedevano compensi regolari per corsi regolari,
anche di lunga durata (fino a tre o quattro anni, a quanto pare).
Di che tipo di insegnamento si trattasse, non è chiaro nei dettagli, e purtroppo non possiamo ricostruire con il dettaglio tecnico che
sarebbe desiderabile i loro metodi di insegnamento. Nasce con loro, però, la filosofia come oggetto di insegnamento all'interno di
corsi regolari, e poiché ancora noi possediamo una forma di filosofia di questo tipo è per noi una perdita grave non potere ricostruire
per mancanza di dati sufficiente la storia della sua origine (33).
Album di famiglia
Avviamoci alla conclusione. All'inizio di questa lezione ho ricordato che Platone e Aristotele disponevano ormai al loro tempo di
una idea di filosofia, che non si identificava con la loro, ma che permetteva di riconoscere come "filosofiche" posizioni e ricerche
precedenti, di uomini che non si erano definiti filosofi e non avevano detto di svolgere un'attività filosofica, ma altro (ad esempio
un'indagine, una historia). Potevano farlo perché la parola filosofia aveva acquisito un significato indipendente dalle singole
ricerche, posizioni o stili di vita, un significato che poteva essere applicato ad una molteplicità di tutto questo e servire per
identificare qualcosa che fosse in comune. Hadot in un recente saggio a proposito dell'attività filosofica, fierezza di Atene, scrive:
"Gli ateniesi del V secolo erano fieri dell'attività intellettuale, dell'interesse per la scienza e la cultura che fiorivano nella loro città.
Nell'orazione funebre che Tucidide gli fa pronunciare in memoria dei soldati caduti nella guerra del Peloponneso, Pericle, uomo di
stato ateniese, usa le seguenti parole per elogiare il modo di vivere che si pratica ad Atese: 'Noi coltiviamo il gusto della bellezza con
semplicità e filosofiamo senza mancare di fermezza'. I due verbi utilizzati sono composti di philo-: philokalein e philosophein. Si
può notare qui, per altro, come venga proclamato implicitamente il trionfo della democrazia. Non sono più soltanto i personaggi
d'eccezione o i nobili ad essere in grado di raggiungere l'eccellenza (arete); tutti i cittadini possono raggiungere una simile meta,
nella misura in cui amano la bellezza o si dedicano all'amore per la sophia. All'inizio del IV secolo, l'oratore Isocrate riprenderà nel
suo Panegirico il medesimo tema: Atene ha rivelato al mondo la filosofia.
Questa attività comprende tutto ciò che è inerente alla cultura intellettuale e generale: speculazioni dei presocratici, scienze
emergenti, teorie della lingua, tecniche retoriche, arte del persuadere" (34).
Ora, noi sappiamo quanto ancora adesso sia difficile definire cosa sia la filosofia, e paghiamo spesso in prima persona i problemi
sull'identità del filosofo. Né per un Greco del IV secolo le cose erano più semplici. Ma poteva già volgersi alla tradizione dei secoli
precedenti e trovare là precise figure e ricerche da iscrivere nel proprio album di famiglia.
Note
Per le citazioni si veda, dopo le note, la Nota Bibliografica
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(1) Erik A. Havelock, p. 278.
(2) Cfr. Dodds 1951, pp. 34 ss.
(3) È anche in possesso di un significato ormai consolidato della parola filosofia. Bastino su questo punto le sintesi di Jaeger e di
Pohlenz: "La parola filosofia che in origine significava cultura (Bildung, Culture) e non una scienza e disciplina razionale, prese poi
il significato ulteriore nella cerchia di Socrate e Platone, che partendo dal problema della virtù (areté) e della educazione umana
trassero da esso un nuovo metodo razionale di educazione. La filosofia, questa perfetta identità di cultura e disciplina intellettuale,
non esisteva al tempo dei Presocratici, che chiamarono la loro attività historia o sapienza (sophia)" (Jaeger, p. 284, nota 2). Pohlenz
ricorda che la parola filosofia è andata incontro ad una evoluzione parallela al termine sophia, passata dal senso di un sapere tecnico
in Omero a quello di saggezza. Quanto a filosofia, "è vero che già Eraclito parla di uomini filosofici, che aspirano ad una più
profonda intelligenza del mondo, per la quale non bastano molte cognizioni particolari; ma nell'uso comune la parola designava
semplicemente lo studium, una superiore cultura spirituale, e solo Platone la usò come termine specifico per indicare lo sforzo, qual
era compiuto nell'Accademia, per raggiungere un sapere che vada alle radici prime di ogni essere e per conoscere il vero, come
termine, insomma, per designare quella dialettica che conduce al regno dell'essere immateriale" (Pohlenz, p. 363).
(4) Kerferd, p. 37.
(5) Così Dodds, p. 185.
(6) Non è utile riportare passi critici su questa tesi. È tesi comunemente accettata, la si ritrova in tutti gli studiosi che qui stiamo
utilizzando, indicati nella bibliografia di questa lezione.
(7) "Già in Omero, dunque, si manifesta una larga veduta filosofica della natura umana e delle leggi eterne che reggono il corso del
mondo" (Jaeger, p. 108 - ma si vedano le pp. 108-110), laddove l'espressione "veduta filosofica" non va certo intesa in senso tecnico.
(8) Cfr., ad esempio, Jaeger p. 85 e 93 ss. Ma c'è in realtà pieno accordo tra gli interpreti su questo. Vale la pena qui ricordare il
giudizio di Platone che in Repubblica 606e, in un contesto fortemente polemico con i poeti, scrive che Omero "ha educato l'Ellade".
Jaeger, in riferimento tanto a Omero quanto a Esiodo, parla di "elemento normativo" e di "uso normativo" del mito, e Havelock di
"guida della cultura" (p. 152).
(9) Una breve ricostruzione di questo disaccordo è in L'Apologia di Socrate di Platone e il problema della giustizia da Omero a
Platone, a cura di M. Pancaldi e M. Trombino, Paravia, Torino 1991, pp. 125 ss.
(10) Cfr. Cambrige University, p. 269. Si ricordi che il mondo poetico di Solone, anche se Atene è in Attica, richiama la Ionia: cfr.
Pohlenz, pp. 262-263.
(11) "La nuova prosa, che viene dalla Ionia, non estende che a poco a poco il proprio campo e non trova la stessa risonanza (della
poesia), non foss'altro perché vincolata dal dialetto a una cerchia più ristretta che la poesia, la quale si serve della lingua d'Omero ed
è quindi panellenica" (Jaeger, p. 317). "Quei primi che nell'area ionica scrissero di filosofia in prosa non potevano aspettarsi una
vasta cerchia di lettori. Ponendo sulle pagine le loro considerazioni di cosmologia, devono senz'altro avere scritto per gruppi esigui
di intenditori. Si può invece pensare che chi di filosofia poetava puntasse ad ottenere plateee più vaste" (Cambridge University, p.
438)
(12) Jaeger osserva che scrivere i propri pensieri in prosa significava esprimerli "a quel modo che un legislatore scriveva le sue
leggi" e invocare il diritto di un soggetto individuale di parlare delle proprie idee a tutti (cfr. Jaeger, p. 291).
(13) E tuttavia non vanno sopravvalutati gli elementi di rottura: "È difficile segnare nel tempo la linea limite corrispondente
all'affacciarsi della riflessione razionale; essa taglierebbe a mezzo l'epos omerico; ma la compenetrazione di elementi razionali col
pensiero mitico vi è ancora così intima, che una netta separazione appare impossibile. Un'analisi dell'epos condotta secondo tale
criterio mostrerebbe come la riflessione razionale investa per tempo il mito, cominciando a trasformarlo. La filosofia naturale ionica
si riallaccia all'epos senza soluzione di continuità" (Jaeger, p. 285; ma si vedano anche le pp. 286/287).
(14) Si ricordi il suo fr. 101:"Io ho indagato me stesso" (cfr. su questo punto Jaeger, p. 332-336 e Pohlenz, p. 370-371).
(15) "Natura e Vita sono un griphos, un enigma, un oracolo delfico, una sentenza sibillina; bisogna saperne decifrare il senso.
Eraclito si sente il solutore d'enigmi, l'Edipo filosofico, che strappa alla Sfinge il segreto; perché La Natura ama nascondersi (fr.
123)" (Iaeger, p. 336)
(16) "L'eredità omerica ed esiodea in autori come Parmenide ed Empedocle è formale e stilistica, più che di contenuti concettuali. In
quel loro esteriore modellarsi su Omero ed Esiodo, i poeti filosofi non fanno che attingere elementi funzionali alle esigenze proprie.
La forma dei loro poemi è per il lettore, o per l'uditore, un eloquente manifesto: il contenuto dell'opera s'annuncia come materia
d'alto respiro, del significato più profondo. Quel loro continuo presentarsi come depositari della verità implica una rivelazione, un
messaggio: che cioè Omero, Esiodo e altri poeti non sono che maestri illusori, usurpatori d'una fama di sapienza immeritata"
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(Cambridge University, p. 438). Cfr. anche Jaeger p. 331.
(17) Cfr. Jaeger, pp. 320 ss.; Lesky, p. 279.
(18) Si osservi come Senofane, poeta della tradizione degli aedi, nel rinnovare la cultura della Grecia usi le forme della poesia epica
per scagliarsi contro gli antichi poeti: ad es. nei fr. 11 e 12. Cfr. Jaeger, p. 318-319. Non diversamente Eraclito.
(19) Dei frammenti rimastici dell'opera di Parmenide, "meno del dieci per cento delle sue parole non appartiene al vocabolario
dell'antico epos, e molti dei suoi termini, in apparenza originali, sono coniati su modelli della poesia eroica. Ma la maggior parte
dell'opera parmenidea non va letta come l'epos omerico o i versi esiodei. Ciò dipende, naturalmente, dal soggetto, ma - e questo è
ancor più significativo - dal più insistito uso che Parmenide fa delle proposizioni subordinate, specie di quelle introdotte dalla
congiunzione poiché? L'aver sviluppato una metodologia filosofica integralmente nuova nei rigidi confini della poesia
convenzionale è parte non piccola della statura culturale e delle conquiste intellettuali di Parmenide" (Cambridge University, p. 444).
(20) Cfr. Havelock, pp. 269 ss. Le sentenze tipiche della tradizione orale non sono aforistiche nel senso eracliteo, anche se vi si
apparentano per vari elementi, come la concisa brevità, la forza espressiva, a volte l'uso delle immagini, e così via. Ma di questo
altrove.
(21) Meglio chiarire la terminologia utilizzata. L'espressione pensiero per immagini, in senso proprio, descrive qui una forma del
pensiero prima che della sua espressione, una forma che per strutturarsi dinamicamente utilizza un'immagine o una serie concatenata
di immagini; ma il pensiero, già strutturato in altra forma - intuitiva, discorsiva, concettuale, e così via - può comunque rivestirsi di
immagini ed essere espresso mediante esse, senza che questo significhi, in senso proprio, che il pensiero abbia in sé una struttura per
immagini. Questo principio di differenza non va però enfatizzato, perché quando il pensiero si "veste" di immagini, nella scrittura
filosofica può essere osservata l'introduzione di elementi di pensiero per immagini. Una nuova linea tende, in altri termini, ad
installarsi nella purezza del pensiero già formato. Ma anche di questo altrove.
(22) "Non a caso i frammenti superstiti dell'opera sua sono la prima serie di proposizioni filosofiche ampie e concatenate che
possediamo in greco" (Jaeger, p. 326). Una analisi su questo punto, in rapporto alla questione dell'oralità, è in Havelock, p. 331 ss.
(23) "Parmenide è il primo pensatore che abbia posto consapevolmente il problema del metodo filosofico, distinguendo chiaramente
le due vie principali, percezione e pensiero (?). La salvezza si fonda unicamente sul passaggio dal mondo dell'opinione a quello della
verità. Parmenide sentì personalmente tale trapasso come qualche cosa di violento e grave, ma grande e liberatore. Esso dà
all'enunciazione delle sue idee lo slancio grandioso e il pathos religioso che la rendono, oltre il campo della logica, umanamente
commovente. E' infatti lo spettacolo dell'uomo che lotta per la conquista della conoscenza, che per la prima volta si affranca
dall'apparenza sensibile della realtà e scopre nello spirito l'organo per abbracciare la totalità e l'unità dell'Essere. Per quanto questa
nozione sia ancora commista a molto di problematico, con essa spunta una delle attività fondamentali secondo cui i Greci
plasmarono il mondo e l'uomo. Ogni riga di Parmenide palpita dell'esperienza sconvolgente di tale indirizzarsi dell'indagine umana
verso i pensiero puro" (Jaeger, p. 330).
(24) Su questo punto, come su diversi altri, seguo Dodds (cfr. Dodds, pp. 182-185)
(25) Come Parmenide, Empedocle ha un corposo debito con Omero quanto a stile e lingua, e rivela inoltre un'affinità con l'epica che
Parmenide non dimostra. Non si tratta semplicemente del fatto che Empedocle è un maggior talento 'naturale' di poeta. Il suo poema,
a differenza del parmenideo, è una movimentata saga: ci narra azioni, quelle che Amore e Odio hanno compiuto, o attualmente
compiono. Empedocle recepiva la colma concretezza del movimento, e ciò si rispecchiava nel suo stile" (Cambridge University, p.
446).
(26) Parmenide, 128 c-d.
(27) Un esame di questo punto di vista - che risalirebbe allo stesso Aristotele, stando ad un suo frammento del dialogo perduto Il
sofista - è in Kerferd 1981, pp. 79 ss.
(28) Cfr. Huizinga, pp. 172 ss.
(29) Seguo qui l'idea, espressa con molta fermezza da Jaeger, da Dodds e da altri, che il cosiddetto "illuminismo greco" non abbia
affatto avuto inizio con una sorta di "rivoluzione" sofista, ma al contrario che esso "naturalmente è molto più antico: ha le sue radici
nella Ionia del VI secolo; opera in Ecateo, Senofane, Eraclito, e in una generazione posteriore progredisce grazie a scienziati-filosofi
come Anassagora e Democrito" (Dodds, p. 213).
(30) "Essi insegnano non soltanto ad apprendere la tecnica del discorso persuasivo, ma anche tutti gli strumenti che permettano di
acquisire quella disinvoltura dell'eloquio in grado di sedurre un uditorio; vale a dire: una solida base di cultura generale, che in
questo caso spazia dalla scienza alla geometria, dall'astronomia alla storia, dalla sociologia alla storia del diritto. Questi sono filosofi
che non fondano scuole permanenti, ma che propongono, dietro compenso, delle serie di corsi e che, al fine di suscitare interesse tra
i possibili clienti, si fanno pubblicità organizzando pubbliche conferenze nel corso delle quali fanno sfoggio del loro sapere e della
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loro abilità" (Hadot, p. 17). Le scienze, in altri termini, sono parte della cultura generale che un giovane deve acquisire per essere in
grado di farsi strada nella vita, nelle particolari condizioni in cui questo concetto riceve il suo significato per un greco del V secolo.
(31) Vale tuttavia la pena sottolineare come i sofisti abbiano dovuto operare in un contesto in cui era per loro necessario farsi
accettare e trovare forme di protezione: molti di loro subirono processi e suscitarono reazioni vivaci. Per essi - che formavano le
nuove generazioni ai compiti professionali della politica - parte integrante del lavoro intellettuale da compiere era inserirsi all'interno
delle trasformazioni culturali del loro tempo esercitando in prima persona il loro potere di convinzione. Mestiere non privo di
pericoli, quello del sofista. C'è veramente da riflettere, sul tema del "ruolo dei filosofi nella società", riguardo ai sofisti. Si vedano su
questo punto le importanti - e nella sostanza concordi - riflessioni di Dodds, pp. 229 ss, e di Kerferd (soprattutto il capitolo secondo
"I sofisti come fenomeno sociale", pp. 27-36).
(32) Quanto alla originalità di questa posizione, va tuttavia ricordato che certamente essa è centrale in Gorgia e presso i Sofisti in
generale, ed assume contorni nuovi, ma per un Greco era un'idea corrente che la parola avesse una funzione "psicagogica". Cfr. ad
esempio Hadot, p. 22.
(33) Una ampia ricostruzione di questo tema - ma i dati sono davvero pochi - è in Kerferd, nel capitolo terzo del suo studio.
(34) Hadot, p. 19-20
Nota bibliografica
Cambridge University
AA.VV., La letteratura Greca, I, Cambridge University, ed. it. a cura di E. Savino, Mondadori, Milano 1989 (ed. or. 1985)
Dodds
E.R. Dodds, I Greci e l'Irrazionale, trad. it. di V. Vacca De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1988 (ed. or. 1951, prima ed it. 1959)
Hadot
P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, trad. it. di E. Giovanelli, Einaudi, Torino 1998 (ed. or. 1995)
Havelock
E.A Havelock, Dike. La nascita della coscienza, trad. it. di M. Piccolomini, Laterza, Roma-Bari 1981 (ed. or. 1978)
Huizinga
Johan Huizinga, Homo Ludens, trad. it. di A. Vita, Torino, Einaudi 1973 (ed.or. 1939, prima ed. it. 1946)
Jaeger
W. Jaeger, Paideia, I, trad. it. di L. Emery, La Nuova Italia, Firenze 1984 (ed. or. 1944, prima ed. it. 1953)
Kerferd
G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it. di C. Musolesi, Il Mulino, Bologna 1988 (ed. or. 1981)
Lesky
A. Lesky, Storia della letteratura greca, I, trad. it di F. Codino, Il Saggiatore, Milano 1982 (ed. or. 1957-58)
Pohlenz
M. Pohlenz, L'uomo greco, trad. it. di B. Proto, La nuova Italia, Firenze 1989, (ed. or. 1947, prima ed. it. 1962)
Snell
B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. di V. Degli Alberti e A. Solmi Marietti, Einaudi, Torino 1963
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