Caterina Verbaro Il paradigma della memoria: la riscrittura di Marianno e la sua datazione Nel disorganico repertorio testuale che, negli anni del dichiarato esilio dalla letteratura, prelude alla Coscienza di Zeno, Marianno è spesso stato segnalato dalla critica come avamposto di motivi freudiani, attestanti le prime letture psicoanalitiche di Svevo e la loro immediata e un po’ meccanica trasposizione narrativa. Tra i motivi riconducibili a un palinsesto psicoanalitico, che palesano un’“utilizzazione della teoria freudiana come serbatoio di temi e come espediente stilistico” (Nardi 1994, 213), colpisce in particolare il sogno, o più propriamente il “delirio” (Svevo 2004b, 332; 2004c, 344) dovuto alla febbre, del piccolo Marianno, da poco adottato dalla famiglia Perdini, uno dei più classici “sogni di nascita” (Freud 1914, 368), che applica alla lettera il principio onirico freudiano dell’inversione; ma anche la natura ambiguamente erotica del rapporto del protagonista con la sorellastra Adele, riconducibile ai Tre saggi sulla sessualità (Freud 1905), e le sue fantasie filiali, che sembrano echeggiare il Romanzo familiare dei nevrotici (Freud 1909)1. Si tratta di tracce freudiane così scoperte e invadenti da aver predestinato questo breve racconto incompiuto a una rilevanza più documentaria, relativa alla mappa delle letture e competenze psicoanalitiche di Svevo, che non effettivamente letteraria. Accanto al retaggio psicoanalitico, la critica corrente ha a lungo letto la novella dentro l’ambigua cifra, inaugurata dall’edizione curata da Gabriella Contini (Svevo 1985), delle “novelle muranesi”, associata dunque ai due più esili cartoni lagunari Cimutti e In Serenella, in base a un generico nesso di tipo ambientale2, laddove una lettura unitaria del trittico muranese, come ad esempio quella proposta da Moloney (1998b), pur con l’indubbio merito di aver rilevato le affinità compositive joyciane legate in particolare al modello policentrico dei Dubliners, rischia di omologare il più moderno fra i tre racconti entro topoi non particolarmente pregnanti. La non riducibilità del racconto al gruppo dei muranesi ci è oggi confermata dalla revisione filologica compiuta da Clotilde Bertoni per l’edizione critica diretta da Mario Lavagetto nel 2004 (Svevo 2004a), che attesta come ultima stesura di Marianno una redazione finora pubblicata, tanto su rivista che nelle edizioni curate da Umbro Apollonio e Bruno Maier, solo in forma di frammento al testo (cfr. Svevo 1946; 1949b; 1969b). È su quest’ultima redazione del racconto (Svevo 2004b), che per semplicità chiameremo talvolta Marianno 2, che intendiamo qui soffermarci, osservando che ci troviamo di fronte a una situazione testuale del tutto nuova, non ancora meditata dalla critica, che a nostro avviso cambia completamente la fisionomia del racconto, da “muranese” bozzetto incompiuto in cui si tenta con dubbio successo l’innesto di svariati motivi freudiani in un contesto sociale popolare, ad abbozzato tentativo di una narrazione memoriale e, più precisamente, di ricostruzione del trauma della separazione simbiotica. Particolarmente utile appare la possibilità di confrontare le due successive stesure, se pensiamo che la riscrittura sveviana è solitamente costruita sul modello della “copiatura correttiva” (Tortora 2003, 49; cfr. Carrai 1983; 2010), che spesso, come accade ad esempio per la prima parte di Corto viaggio sentimentale, ci priva dei testimoni antecedenti. Nel caso invece delle due stesure qui in questione, la loro stessa incompiutezza e provvisorietà si fa probabile motivo del mancato cestinamento del primo testimone, poiché l’autore non è evidentemente confortato dall’approdo a Si rimanda all’Apparato genetico e commento al testo curato da Bertoni 2004a, 1060, 1068, 1072. Per una lettura del sogno di Marianno secondo parametri freudiani, si veda Dradi 1996. 2 Il terzo capitolo, comprendente Marianno, Cimutti e In Serenella, si intitola appunto Novelle muranesi (cfr. Svevo 1985, 145-190), una sigla da quel momento adottata dalla critica e ripresa anche nel titolo di una più recente raccolta novellistica, Racconti di Murano e altri racconti (cfr. Svevo 2004e), in cui tuttavia il curatore conduce di Marianno una lettura molto più ampia e approfondita rispetto agli altri “muranesi”: cfr. Fontanella 2004, 9-13. 1 1 una versione avvertita come definitiva3. Cosa c’è dunque di nuovo, di diverso e soprattutto di rilevante nella nuova versione di Marianno? A differenza che nella vecchia stesura, fin dall’incipit la scansione dell’enunciato è interamente costruita non già come naturalistica narrazione di eventi, bensì come un serrato catalogo della memoria e della consapevolezza, che intende mettere a fuoco l’esatto momento coscienziale vissuto dal giovane protagonista. Leggiamo: La mente di Marianno s’aperse il giorno in cui abbandonò l’ospizio. Da quel giorno ricordò. Non il caso aveva portato a maturità il fanciullo proprio in quell’istante tanto importante; ma l’avvenimento che sconvolgeva la sua giovine esistenza lo aveva spinto violentemente alla consapevolezza. Aveva aperto gli occhi dal sonno dell’infanzia come li apre il dormente se viene strappato dal suo giaciglio. E quel giorno restò nel suo ricordo come una muraglia. Al di là non un bagliore: la cieca vita della pianta (Svevo 2004b, 329)4. A differenza che nella vecchia stesura, nelle prime pagine del nuovo racconto il protagonista è sempre colto nello sforzo di ricordare (“ricordò”, “credeva di ricordare”, “ricordava”, “si alterò nel ricordo”, “un’altra cosa Marianno ricordò”, Svevo 2004b, 329-331), acquisendo in ciò un’attitudine riflessiva e memoriale che lo apparenta ai personaggi dell’ultimo periodo sveviano. Il narratore sembra così voler riformulare la scena mitica del suo ingresso nel mondo – il momento in cui Marianno abbandona l’ospizio degli orfani ed è accolto dal bottaio Alessandro Perdini – ricostruendo a posteriori un tracciato memoriale dell’avvenimento, che comprenda ciò che il personaggio ricorda e ciò che non ricorda, come in una mappa di chiaroscuri memoriali: La vita cosciente cominciò così: Una grande sala oblunga oscura con un Crocifisso in pietra in mezzo ai cui piedi ardeva un lumicino circondato da fiori freschi. Altri oggetti non vide. Dovevano poi esserci molte persone in quella sala ma egli non ne vide che una, Alessandro. […] Marianno credeva di ricordare anche delle parole mentre non ricordava oggetti e persone, ma poteva ingannarsi. […] Non era del tutto esatto di considerare quell’importante giornata quale un muro che dividesse nettamente la sua vita. Al di là di quel muro non c’era infatti niente che fosse ricordato ma al di qua certi tratti e non brevi scomparvero anch’essi dal ricordo e avrebbero appartenuto piuttosto al di là. Intanto subito le ore e i giorni che immediatamente seguirono a quella giornata! Egli non ricordava il suo ingresso in casa Perdini, né la prima volta in cui entrò nella bottega del bottaio. Gli parve di aver conosciuto sempre la signora Berta, Adele, la bottega, gli ordigni del mestiere, le doghe di resina ruvide e nodose, e la sua stanzetta, la più oscura della casa, priva di finestre, funestata dalle zanzare d’estate e dal freddo glaciale d’inverno. 3 Le due stesure del racconto, insieme a una serie di frammenti ad esso riconducibili designati in Bertoni 2004a con le sigle A¹, A² e A³,sono conservate presso il Museo sveviano di Trieste. La versione più ampia e antica, M¹, è interamente manoscritta in inchiostro nero, in undici fogli doppi; al contrario, l’autografo della seconda e più breve stesura, M², è per sette pagine e mezza dattiloscritto in inchiostro rosso, mentre la seconda metà dell’ottava e la prima metà della nona pagina (quest’ultima scritta su una facciata dell’autografo di M¹) sono manoscritte in inchiostro nero. Rispetto ai dati materiali del manoscritto, ci sembra importante rilevare che la macchina da scrivere con l’inchiostro rosso con cui Svevo scrive la seconda redazione di Marianno è quella il cui utilizzo è attestato a partire dal 1915 (cfr. Tortora 2003, 46). Sui testimoni di Marianno, si veda anche Bertoni 2004a, 1049-1051. 4 Si osservi nell’incipit della prima stesura, che pure percorre la medesima traccia tematica, l’assenza di una precisa e intenzionale connotazione memoriale e coscienziale: “Quando si domandavano a Marianno particolari della sua gioventù egli ben poco ne sapeva dire. Del suo soggiorno all’Ospizio egli poco ricordava. La mente dovette aprirglisi il giorno in cui lasciò l’Ospizio. Alessandro il suo futuro padrone vestito a festa era venuto a prenderlo ed egli lo ricordava come prometteva di aver cura di lui con quel suo sorriso bonario e affettuoso. Poi di quello stesso giorno ricordava qualche cosa d’altro ma come parlarne quando non sapeva di chi si trattava? Ecco! Qualcuno staccandosi da lui aveva pianto. Egli che anelava di esser fuori di quel povero luogo era stato stupito al sentirsi bagnare la faccia da lagrime. Chi poteva aver pianto per lui?” (Svevo 2004c, 343). 2 Poi sorgevano dall’oblio delle isole che gli lascia[va]no scorgere ogni dettaglio di avvenimenti che invero non sembravano tanto importanti. […] Uno di questi avvenimenti fu la sua prima uscita in barca con Alessandro. […] Doveva aver dedicata tutta la sua attenzione al suo ufficio perché il ricordo fu esclusivamente di barca, di remo e di forcola. Il silenzioso rio e il rumoroso Canalazzo per cui dovevano essere passati non esistettero (Svevo 2004b, 329-331). Questo modulo narrativo fondato sulla scansione memoriale, in positivo e in negativo, degli avvenimenti, è del tutto assente nella prima stesura di Marianno, in cui l’episodio dell’uscita dall’ospizio è risolto in termini tendenzialmente bozzettistici5. È piuttosto un altro il testo gemello della seconda stesura di Marianno, il racconto incompiuto L’avvenire dei ricordi, anch’esso scandito dal catalogo chiaroscurale di ciò che il protagonista Roberto ricorda e di ciò che invece è svanito dalla sua coscienza, un “accumulo di negazioni, che trasforma il regesto della memoria in un elenco di assenze” (Stasi 2011, 65): Ricordava l’arrivo e la partenza e non il soggiorno, probabilmente una notte dal sonno profondo dopo la giornata di ferrovia. […] La notte passata ad Innsbruck non esisteva più di quella di Verona. […] Non fu obliato quel soggiorno su quella piattaforma non riempito da nessuna parola, nessun avvenimento memorando. […]. Di quell’arrivo, di tutta quell’ora egli non ricordò né il signor Beer, né tutti i suoi compagni di viaggio e alcun loro atteggiamento, vestito o parola. L’erta, la cittadina, il fiume non erano di quell’ora. Egli ricordava solo con piena sicurezza il facchino del collegio, un ragazzotto un po’ zoppo che pochi giorni appresso doveva abbandonare il luogo senza ch’egli più lo rivedesse. (Svevo 2004d, 431-436). Che la somiglianza tra i moduli narrativi dei due racconti non sia una semplice coincidenza, lo conferma l’uso in entrambi i testi di un identico riferimento metaforico, le “isole della memoria”, che allude a una personale teoria della memoria su cui Svevo sta evidentemente riflettendo in quel periodo. Si legge infatti nell’Avvenire dei ricordi: “Bisognava continuare a ricercare in quel mare le poche e piccole isole emergenti e rivederle attentamente quanto era possibile per ritrovarci qualche comunicazione fra l’una e l’altra” (ibid., 438); e in Marianno: “Poi sorgevano dall’oblio delle isole che gli lasciavano scorgere ogni dettaglio di avvenimenti che invero non sembravano tanto importanti” (Svevo 2004b, 331)6. E nella costruzione narrativa dei due racconti incompiuti, tali “isole” sono appunto gli episodici ricordi a cui il personaggio si appiglia per tentare di ricostruire la propria vicenda. Probabile referente teorico di tale sveviano concetto di “isole di memoria”, che con tutta evidenza accomuna L’Avvenire e la seconda redazione di Marianno, è il trattato di Ribot del 1881, Les maladies de la mémoire, tradotto in italiano già nel 1905, in cui si individua, accanto alla memoria organica, una memoria coscienziale o psichica, definita “localizzazione nel tempo” (Ribot 1881, 39; cfr. Bertoni 2004, 1058-59; Benussi 2007, 183). Secondo Ribot esistono dei “punti di riscontro” (Ribot 1881, 43) che consentono di “ricordarsi che il tale fatto ci accadde in quella data epoca ed in quel luogo” (ibid., 38) e la cui funzione è quella di “semplificare il meccanismo di localizzazione” (ibid., 44), come “termini chilometrici o punti indicatori messi sulle strade” (ibidem). Così come le “isole” sveviane, anche i punti di riscontro di Ribot sono dunque veri e propri regolatori della memoria e della coscienza, che rendono possibile la relazione tra il presente e Si pensi ai racconti sulla presunta medaglia d’oro di Marianno all’osteria, topos tipicamente ottocentesco, ben appropriato a quel sentore dickensiano che Moloney (1998b, 130-132) ha riscontrato nella sequenza relativa al pegno di riconoscimento che, così come accade nell’Oliver Twist, la madre avrebbe lasciato a Marianno. Si noti che la nuova stesura di Marianno abolisce entrambi gli elementi, a conferma che il progetto narrativo procede ora in tutt’altra direzione. 6 Le “isole” sono citate anche in uno dei frammenti che compongono la costellazione testuale del racconto, A³: “Una di queste isole fu la sua prima uscita in barca con Alessandro” (Bertoni 2004a, 1056). 5 3 quel determinato punto del passato, mentre la maggior parte degli eventi accaduti viene a essere cancellata: per Ribot come per Svevo non potremmo ricordare se non dimenticando gran parte del passato e conservandone in compenso questi nuclei salienti. Ad accreditare l’ipotesi che Svevo volesse sperimentare narrativamente il funzionamento della memoria e della coscienza studiato da Ribot, concorre lo stesso paradigma narrativo elencativo e paratattico che accomuna Marianno 2 e L’avvenire dei ricordi. Se nell’Avvenire tale paradigma è evidenziato dal ricorso al topos del viaggio, anche in Marianno 2 si procede scandendo le sequenze memoriali sulla base di una precisa sequenza di “isole” o “punti di riscontro” cronologicamente allineati: “Questa prima persona che Marianno vide”, “Ma un’altra cosa Marianno ricordò di quella scena”, “Uno di questi avvenimenti fu la sua prima uscita in barca con Alessandro”, “Poi una malattia creò una sequela di ricordi” (Svevo 2004b, 330-331). Le tracce intertestuali tra Marianno 2 e L’avvenire dei ricordi comprendono inoltre un ricco e comune tessuto simbolico che non si limita alle già notate “isole della memoria”; e se in alcuni casi si tratta di simbologie piuttosto consuete, come nel caso della luce intesa come epifania memoriale, in altri casi tali simboli sono molto specifici e indicativi di una sicura interconnessione tra i due racconti. Pensiamo in particolare al simbolo della “muraglia”, del tutto assente nella prima stesura di Marianno, che allude alla separazione dal passato incombente sui due protagonisti, Marianno e Roberto7. Ricordiamo infatti che i due ragazzi, gli unici protagonisti adolescenti del macrotesto sveviano, hanno nei due racconti la stessa età anagrafica, 12 e 13 anni8, ma che di entrambi il narratore intende focalizzare un momento cruciale della vita, quello della separazione dalla madre: una separazione più apertamente dichiarata nel caso di Roberto, affidato insieme al fratello dai genitori all’educatore che lo condurrà in collegio; più ambigua e fantasmatica, nel caso di Marianno, che nell’ospizio sembra lasciare un’imprecisata figura materna, dal cui strappo riterrà soltanto il ricordo di un’ombra dolorosa, la sensazione “che qualcuno aveva pianto, forse però in modo da non farsi vedere che da Marianno stesso”(Svevo 2004b, 330). È chiaro dunque che quando Svevo si dedica alla prima stesura di Marianno, in un’epoca fissata dai diversi esegeti tra il 1911 e il 19149, in immediata successione agli altri due racconti muranesi, ha in mente un progetto narrativo di tipo completamente diverso da quello che oggi si palesa leggendo l’abbozzo di Marianno 2. Al centro del ‘vecchio’ Marianno troviamo non solo temi ricorrenti nello Svevo precedente alla Coscienza di Zeno, come la rivalità con l’altro e la relazione In Marianno 2 si legge: “E quel giorno restò nel suo ricordo come una muraglia”; e ancora: “Non era del tutto esatto di considerare quell’importante giornata quale muro che dividesse nettamente la sua vita” (Svevo 2004b, 329 e 331). E in L’avvenire dei ricordi: “Curioso! Non fu obliato quel soggiorno su quella piattaforma non riempito da nessuna parola, nessun avvenimento memorando. Ma può essere che Roberto avesse sentito di aver varcato le Alpi e di trovarsi al di là della muraglia che chiudeva la sua patria” (Svevo 2004d, 432). Quanto alla luce, ci sembra interessante rilevare che nel passaggio dalla prima alla seconda redazione di Marianno, nella sequenza relativa al racconto onirico e al suo seguito, si accentua notevolmente proprio l’elemento simbolico della luce: “Usciva dal rio stretto e arrivava al Canalazzo inondato da luce e calore. Troppa luce, troppo calore! […] Per Marianno, uscito da tanta luce abbacinante e da tanto pericolo, quella stanza oscura […] fu un grande conforto […]” (Svevo 2004b, 332-333). 8 Nella prima stesura di Marianno si diceva che il ragazzo “era entrato in casa a 12 anni” e il tempo della storia è di circa due anni (“dopo due anni di pratica Marianno ancora non aveva capito di tener giuste le misure”, Svevo 2004c, 346 e 345). Invece in Marianno 2, nella fase della controversa relazione con la sorellastra Adele, si dice che Marianno ha 13 anni e la sorella 14 (cfr. Svevo 2004b, 338). Il narratore ci fa però capire che al momento del sogno-delirio Marianno, a differenza che nella prima versione, è un bambino: “L’odio dovette essere nato nella primissima infanzia, dopo di quella febbre, quando vide la differenza tra la sua convalescenza e quella della bambina” (ibidem). Le incongruenze cronologiche sono d’altronde compatibili con lo stato di incompiutezza del testo. 9 Pur nella complessiva incertezza sui tempi di composizione, Clotilde Bertoni postula una possibile gestazione delle due redazioni di Marianno intorno al 1911, anno di intense letture freudiane, e una loro ravvicinata stesura tra il 1913 e il 1914, forse dopo la riedizione della Traumdeutung freudiana del 1914 che recepisce gli studi onirici di Stekel (1911) (cfr. Bertoni 2004a, 1051-52 e 1060). Moloney (1998b, 130-132) invece fa coincidere la stesura di Marianno con il centenario della nascita di Charles Dickens nel 1912, anno in cui, anche grazie alla mediazione joyciana, Svevo ha probabilmente avuto modo di leggere Oliver Twist. Tortora (2003, 50), soprattutto in base alle condizioni materiali dei testimoni, ritiene che la prima stesura di Marianno sia precedente al 1913, mentre sposta a dopo il 1915, ma senza ulteriori precisazioni, la seconda stesura del racconto. 7 4 forte-debole che si esplica nel rapporto con l’amico Menina, l’attenzione alle tematiche sociali ed economiche che emerge dal racconto della decadenza del lavoro artigianale, ma anche una certa tonalità feuilletoniste del racconto sociale ottocentesco che indulge alla compassione per il personaggio dell’orfano Marianno “scelto come al mercato” (Svevo 2004c, 344). Di tutto questo non resta traccia nel secondo Marianno. Allo stesso modo, è abolita l’eccessiva esibizione del sottotesto freudiano, a vantaggio di una più meditata dimensione analitica. Tutto ciò, unito alle forti tracce intertestuali che associano la seconda stesura di Marianno all’Avvenire dei ricordi e di cui si è visto qualche esempio, ci porta a dissentire da quanto afferma Clotilde Bertoni (2004a, 1051) a proposito dei tempi ravvicinati delle due stesure di Marianno, e a ritenere piuttosto che Marianno 2 sia redatto in un periodo prossimo a quello della composizione dell’Avvenire dei ricordi. Infatti, se Svevo avesse davvero scritto Marianno 2 intorno al 1914, e considerando che L’avvenire dei ricordi è uno dei pochissimi racconti il cui manoscritto contiene una data autografa e dunque pressoché inoppugnabile, indicante la data 1.5.1925, come sarebbe stato possibile recuperare dopo più di dieci anni non solo un tessuto simbolico, semantico e concettuale così preciso e coincidente, ma anche un modello e un’intenzione narrativa così palesemente simili? C’è invece a nostro avviso un determinato momento, che in base alla datazione autografa dell’Avvenire dei ricordi si colloca intorno al 1925, in cui Svevo lavora a un progetto narrativo poi abbandonato, che prevede in sequenza la riscrittura di Marianno e la stesura dell’Avvenire, su una base teorica fornita dalle letture di Ribot e, come vedremo in seguito, dal repertorio onirico di Stekel. Quello che Svevo vuole scrivere, in quel preciso periodo del suo percorso creativo, sembra essere un racconto sulla memoria traumatica della separazione dalla madre, di cui è chiara la sottotraccia autobiografica e autoanalitica. E possiamo ipotizzare che questa idea sia perseguita prima recuperando il suo vecchio racconto Marianno, nel cui protagonista orfano Svevo avvertiva giustamente molte potenzialità inespresse; e che poi, fallito anche il secondo tentativo di scrittura di Marianno, il progetto narrativo di memoria della separazione dal materno venga recuperato a quella dimensione autobiografica a cui con tutta evidenza appartiene, dando origine a L’avvenire dei ricordi, che com’è noto ripercorre un tratto della biografia del giovane Ettore Schmitz10. La postdatazione della seconda stesura di Marianno dovrà poi tenere conto di un episodio testuale sospetto che vale la pena di ricordare. Si tratta del più noto passaggio della prima stesura di Marianno, in cui il ragazzo domanda a se stesso e poi al padre adottivo Alessandro “sono io cattivo o buono?” (Svevo 2004c, 352)11. L’episodio verrà trasposto di lì a qualche anno nella Coscienza di Zeno, non solo a significare la fondamentale duplicità del soggetto, ma anche a legare il destino del bambino a quello dell’adulto: Il dubbio: ero io buono o cattivo? Il ricordo, provocato improvvisamente dal dubbio che 10 La nostra proposta di datazione cronologicamente differenziata per le due stesure del racconto, condotta su base interpretativa, è confermata anche dall’indagine sullo stato degli autografi, per la cui descrizione si rimanda alla nota 4. Non solo infatti tra le due stesure autografe conservate al Museo sveviano cambiano le prevalenti modalità materiali di scrittura, dal manoscritto al dattiloscritto, ma, per quanto poco oggettivi possano essere tali criteri, appaiono decisamente differenti gli stessi caratteri della grafia tra M¹ e la breve parte conclusiva manoscritta di M² (sulla grafia sveviana, cfr. Tortora 2003, 46-48). Inoltre, particolarmente importante ci appare il fatto che la macchina da scrivere usata da Svevo per la stesura di M² è la stessa utilizzata per gli autografi di molti dei racconti dell’ultimo periodo (cfr. ibidem). Infine, non appare filologicamente dirimente il fatto che le ultime venti righe di M² occupino il retro di un foglio di M¹. 11 “Mamma Berta gli diceva sempre ch’egli era cattivo mentre Alessandro e Adele gli dicevano ora ch’era cattivo ed ora ch’era buono. Un giorno fra doga e doga egli si domandò: ‘Sono io cattivo o buono?’. Non pensò neppure per sogno ch’egli avrebbe potuto essere quello ch’egli voleva. No! Si era cattivi o buoni come si era cane o gatto. […] Tentava di guardare se stesso come ci si guarda in uno specchio. Naturalmente vedeva di sé la grandezza, la grossezza e il colore ma non altro. – Vuoi andare avanti? – gli gridò Alessandro. E allora Marianno con gravità infantile gli disse esattamente i suoi pensieri: - Mamma Berta dice sempre che sono cattivo, Adele e tu lo dite talvolta. Sono io cattivo o buono? -. Alessandro si mise a ridere […]. Trascorsero molti anni prima ch’egli arrivasse a comprendere l’importanza della domanda ch’egli si era rivolta” (Svevo 2004c, 352-353). 5 non era nuovo: mi vedevo bambino e vestito (ne sono certo) tuttavia in gonne corte, quando alzavo la mia faccia per domandare a mia madre sorridente: “Sono buono o cattivo, io?” […] Oh incomparabile originalità della vita! Era meraviglioso che il dubbio ch’essa aveva già inflitto al bimbo in forma tanto puerile, non fosse stato sciolto dall’adulto quando aveva già varcata la metà della sua vita (Svevo 2004g, 974). Trattandosi di un passaggio così saliente, è legittimo chiedersi per quale motivo la riscrittura di Marianno decida di escludere questo brano. Pur tenendo presente che la natura di frammento del testo ci impone un sovrappiù di cautela, è sensato pensare che questo passaggio fosse diventato ormai inutilizzabile dopo l’uscita della Coscienza di Zeno. Tutto ciò significa in conclusione ascrivere Marianno 2 al manipolo di testi non precedenti ma successivi alla Coscienza di Zeno e più precisamente, per analogia con L’avvenire dei ricordi, ipotizzare che la sua data di composizione sia situabile intorno al 1925, che è peraltro l’anno in cui Svevo dichiara di dedicarsi alla lettura di Proust12. Per dare ulteriore fondamento alla nostra ipotesi cronologica, resta però da indagare brevemente il motivo profondo di tale operazione, chiedendosi perché mai Svevo possa aver deciso di recuperare, dopo dieci anni, lo scartafaccio della vecchia novella muranese e quale fosse il nucleo avvertito come essenziale e sospeso, attorno a cui edificare il nuovo racconto13. Se è vero che del tanto materiale freudiano accumulato nella prima stesura del racconto Svevo recupera solo il sogno-delirio, è su questo che converrà evidentemente soffermarsi: Vogava solo su un sandolo popparino di quelli che esigono dal vogatore tanta forza e destrezza. Usciva da un rio stretto e arrivava al Canalazzo inondato da luce e calore. Troppa luce, troppo calore! Il suo sandolo tagliava l’acqua come se fosse stato spinto da una forza sovrumana. E pescava troppo! Egli sciava, ma i suoi sforzi non servivano ed egli sapeva che l’acqua irruente gli avrebbe strappato di mano il remo e l’avrebbe ribaltato. Un vaporino s’avanzava proprio verso di lui e, accanto al suo sandolo, un gondoliere eretto e calmo sul suo remo diceva: - El voga inveze de tetar -. Marianno si mise ad urlare dallo spavento e dalla vergogna (Svevo 2004b, 332). Marianno sta sognando la propria nascita, secondo i più tipici dettami freudiani che Svevo ben conosce, rappresentata non solo dal passaggio dal “rio stretto” al “Canalazzo inondato da luce e calore”, ma anche dall’ingresso nelle acque tumultuose14. Una comparazione con la prima versione del narrato onirico ci fa notare un’accentuata trasparenza simbolica del segmento centrale dell’episodio, relativo all’irruenza dell’acqua e alla perdita di controllo (“Il suo sandolo tagliava Scrive Svevo (1965, 144) nella lettera a Montale del 17 febbraio 1926: “In quanto al Proust, m’affrettai a conoscerlo quando l’anno scorso il Larbaud mi disse che leggendo Senilità (ch’egli come Lei predilige) si pensa a quello scrittore”. 13 Ci sembra utile registrare due possibili precedenti di tale procedimento di ripresa a lungo termine. Il primo riguarda il racconto Argo e il suo padrone, degli anni 1925-1927, che presenta un testimone, il frammento La morte di Argo, secondo Tortora (2003, 59) precedente al 1913-14, sebbene di diverso avviso sia Bertoni 2004b, 862. Altro caso, ma non suffragato da documentazione, è relativo a La madre, racconto pubblicato in una prima versione in “La Sera della Domenica” il 7 dicembre 1924 e poi rivisto dall’autore e ripubblicato nel “Convegno” il 15 marzo 1927. Ma secondo la testimonianza di Livia Veneziani, negli anni Venti Svevo avrebbe ripreso una prima stesura risalente al 1910: “Sono del 1926 alcune novelle: La madre, di cui ricordo una prima stesura fatta già nel 1910, una specie di favola o apologo” (Veneziani Svevo 1976, 148). 14 Nella seconda edizione dell’Interpretazione dei sogni, Freud (1914) scrive che “alla base di numerosissimi sogni, che spesso sono colmi d’angoscia e hanno per contenuto il passaggio per ambienti stretti o la permanenza nell’acqua, stanno fantasie sulla vita intrauterina, sulla dimora nel ventre materno e sull’atto della nascita” (ibid., 367). Dopo aver raccontato il sogno di una paziente che presenta la situazione del gettarsi in acqua, afferma che, in base al meccanismo onirico dell’inversione, “sogni di questo genere sono sogni di nascita; alla loro interpretazione si giunge invertendo il fatto presentato nel sogno manifesto; dunque, anziché gettarsi in acqua, uscire dall’acqua, vale a dire nascere” (ibid., 368). La stessa inversione simbolica si riscontra nella mitologia: “Nei sogni come nella mitologia, la nascita di un bambino dal liquido amniotico viene rappresentata di solito mediante un’inversione, come entrata del bambino nell’acqua; con molti altri, ne sono esempi ben noti la nascita di Adone, di Osiride, di Mosè e di Bacco” (ibid., 369). 12 6 l’acqua come se fosse stato spinto da una forza sovrumana”, “i suoi sforzi non servivano”, “egli sapeva che l’acqua irruente gli avrebbe strappato di mano il remo e l’avrebbe ribaltato”). Crediamo che l’apporto maggiore a tale scenario immaginativo relativo alla perdita di controllo provenga non tanto da Freud, che nell’Interpretazione dei sogni cita il motivo dell’acqua corrente in modo piuttosto sobrio e sintetico, quanto dai numerosi e suggestivi casi clinici riportati da Wilhelm Stekel in Die Sprache des Traumes, un libro del 1911 che Svevo certamente conosceva15. Nei due capitoli intitolati Wasser-, Feuer- und Schwangerschaftsträume e Geburtsträume, Stekel documenta molti sogni riferiti dai pazienti, caratterizzati proprio dall’improvviso tumulto delle acque e dalla perdita di controllo dell’io, alcuni dei quali decisamente simili al racconto onirico di Marianno per dinamica e simbologia. Ne riportiamo uno come esempio: Ich schwimme in einem Flusse (Donau?) fröhlich hin und her. Besonders wundert es mich, daβ ich so leicht gegen den Strom schwimme. Das dauert so längere Zeit. Plötzlich fühle ich, daβ die Fluten über meinem Kopf zusammenschlagen. Ich bekomme ein groβes Angstgefühl und klammere mich an einen Pfahl oder Stock (Weidengerte?). Ich erwache (Stekel 1911, 214)16. L’altro elemento che colpisce nel sogno di Marianno, e che costituisce probabilmente il vero motore profondo della decisione sveviana di riprendere questo racconto, è, in immediata successione a questa scena di nascita, il monito pronunciato dal gondoliere, “El voga inveze de tetar”, voga invece di succhiare, un chiaro richiamo a una necessaria e dolorosa abiura del materno (il “tetar”, la dimensione orale dell’infante), a favore del maschile e del paterno, alluso dal gesto e dalla simbologia del “vogare”. Marianno sogna insomma non tanto la propria nascita, ma più precisamente il proprio destino di rinuncia alla madre, di perdita simbiotica, di orfanità. È significativo che la scena del sogno duplichi perfettamente quella dell’uscita di Marianno dall’ospizio su cui ci siamo soffermati in precedenza: e ricorderemo che anche in quel caso Marianno, uscendo dall’utero-ospizio, trova ad attenderlo non la madre adottiva Berta, sempre connotata nel racconto da tratti di aridità e distanza, ma il ciarliero padre Alessandro. E ugualmente non è casuale che uno dei primi ricordi-isole di Marianno sia “la sua prima uscita in barca con Alessandro” (Svevo 2004b, 331) e l’orgoglio di avere imparato a remare.17 In questa figura dell’orfano adottato dal padre piuttosto che dalla madre, è presente con tutta evidenza un nodo sveviano di lunga data, se è vero che il fantasma materno attraversa tutta la sua opera, dalla lettera che apre Una vita fino alla madre cancellata dalla Coscienza di Zeno18. Il tema dell’orfanità, pur essendo un unicum nell’opera di Svevo, in realtà non fa che esplicitare una costellazione semantica fondamentale, traducendo in una sigla sinteticamente patetica tutto uno scenario psichico che è quello del soggetto modernista: il soggetto estraneo, esiliato, che ha abiurato le proprie radici, irrimediabilmente straniero alla propria origine19. Cosicché anche Marianno, che 15 Per una dettagliata ricostruzione dei rapporti tra Svevo e Stekel, si veda Accerboni Pavanello 2008. “Nuoto avanti e indietro serenamente in un fiume (Danubio?). Mi meraviglia soprattutto che io possa nuotare così leggero controcorrente. Ciò continua per parecchio tempo. All’improvviso sento che le onde si accavallano sopra la mia testa. Sono preso da una grande paura e mi aggrappo a un palo o a un bastone (una bacchetta di salice?). Mi sveglio” (trad. nostra). 17 Ancora più esplicitamente nel frammento A³ si legge: “Una di queste isole fu la sua prima uscita in barca con Alessandro” (Bertoni 2004a, 1056). Nel sistema semantico del racconto, l’uscita in barca è legata all’universo maschile e paterno: nella prima stesura di Marianno c’è una scena in cui la barca di Alessandro e Marianno, su cui è salito anche l’amico Menina, si incaglia sotto un ponte, acutamente letta da Cristina Benussi (2007, 142) come un anticipo simbolico di quella abiura del padre su cui si chiuderà il racconto. 18 Si segnala a questo proposito una lettura della Coscienza di Zeno come percorso di tentata integrazione col materno, alla luce dello Ione di Euripide: cfr. Palmieri 1996. Sulle madri sveviane si veda anche Francone 2007. 19 Tale tematica accomuna non a caso Svevo a Joyce, tanto che la questione dell’”esilio” è una delle chiavi della lettura sveviana di Joyce in occasione della conferenza tenuta a Milano l’8 marzo 1927, in cui, oltre all’essere “senza patria” di Joyce, si osserva anche il meccanismo di reciproca adozione di Bloom e Stephen nell’Ulisse, topos non estraneo al nostro racconto; cfr. Svevo 2004i. Sul tema del viaggio e dell’esilio, mi permetto di rimandare a Verbaro 2009. 16 7 nasce e rinasce ma sempre “in nomine patris” (Accerboni Pavanello 2008, 119), come tutti i grandi protagonisti sveviani da Zeno in poi, sarà costretto a inscenare un conflitto col padre che muove da una fondamentale condizione di esilio – quell’esilio dalla madre-terra che sarà di lì a poco esplicitato nel nome stesso del “viaggiatore” Aghios, α-γη, senza terra, senza madre. 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