Milo Rau, di sinistra ma «old
style»
Per le sue controverse pièces il regista, saggista e giornalista bernese (classe 1977)
si ispira a una realtà sempre ricca di spunti violenti e scioccanti
/ 23.01.2017
di Giorgia Del Don
Svezzato da un patrigno musicista jazz e militante trotzkista, protetto da un nonno materno ben
conosciuto nel milieu culturale della Svizzera del Dopoguerra, di cui ha raccontato il quotidiano e le
leggende, ispirato da padri putativi quali il sociologo Pierre Bourdieu o l’emblematico Jean Ziegler,
in fuga da un padre biologico lontano anni luce dalla sua sensibilità ostinatamente rivolta verso un
«umanismo di sinistra old style» (come lui stesso lo definisce), Milo Rau va per la sua strada
trascinandosi dietro un bagaglio pesante. Figlio di una generazione idealista bagnata dalla speranza
di un domani più umano, pronta a tutto per concretizzare i propri sogni, e allo stesso tempo ancorato
a un presente disilluso e artificiale, Rau si nutre di contraddizioni, giocando con le illusioni che
alimentano il nostro quotidiano.
Se da un lato questo straordinario drammaturgo, regista, giornalista e molto altro ancora, si
aggrappa in modo viscerale al presente di cui vorrebbe ritrascrivere l’essenza, la verità spogliata
dall’egemonia mediatica, trasformandosi in una sorta di «cronista del suo tempo», dall’altro è
attraverso lo spazio simbolico della scena che ha deciso di intervenire. Il teatro insomma come atto
simbolico capace di aprirci gli occhi su una realtà diversa rispetto a quella che ogni giorno la nostra
società ben organizzata mastica per noi. Spinto da quello spirito rivoluzionario che ha marcato la sua
infanzia, Milo Rau usa la scena come fosse un ring sul quale si affrontano realtà possibili e si
rivisitano momenti storici tanto emblematici quanto dimenticati (per comodo, per codardia). Milo
Rau chiama in causa le nostre risorse nascoste, quel coraggio che potrebbe ribaltare il corso della
storia. Emblematica in questo senso The Moscow Trials (2013), in cui mette in scena il contestato
processo alle russe Pussy Riots, utilizzando i veri «attori» del processo (giudici, testimoni,…), per
trasformarne la sentenza iniettandogli una massiccia dose di giustizia sociale. In The Moscow Trials
Milo Rau fa pronunciare a una giuria popolare la liberazione delle Pussy Riots un anno prima che ciò
accadesse, interviene sulla realtà mostrandone una variante possibile, crea uno spazio utopico e
catartico dove la giustizia può trionfare.
Al di là della forma (che si adatta ad ogni fatto storico proposto e che differisce anche in modo
significativo da un’opera all’altra), la parola d’ordine che marca tutte le sue creazioni, da The Last
Days of the Ceausescus del 2009 (ricostruzione meticolosa e fedele del processo del temibile
dittatore e di sua moglie, messa in scena con attori rigorosamente rumeni) al recente ed inquietante
Five Easy Pieces del 2016 (che cerca di sondare il mistero del crudele pedofilo Marc Dutroux
attraverso la sensibilità di sette bambini belgi) è l’azione. Agire attraverso l’arte, che è la sua arma,
sul presente, che è il suo terreno di sperimentazione.
Grazie alla sua casa di produzione (teatrale e cinematografica) International Institute of Political
Murders che dirige dal 2007, Milo Rau crea le sue ricostruzioni storiche tendendo l’orecchio per
percepire suoni e voci che sembrano provenire dall’aldilà, da una realtà parallela soffocata, assetata
non tanto di vendetta quanto piuttosto di giustizia. «La miglior arte è la realtà stessa, copiata,
smontata e ricomposta, rispecchiata in se stessa, sottoposta allo spettatore affinché la riesamini»
dice lo stesso Rau prestando all’arte, e al teatro più in particolare, un potere estremamente forte,
quello di risvegliare (o per lo meno stuzzicare) le coscienze e contribuire così (forse) alla
trasformazione sociale. In modo semplice e allo stesso tempo magnifico gli spettacoli di Milo Rau
creano delle utopie effimere ma vissute, portatrici di nuovi schemi sociali, di nuove interazioni, di
nuovi automatismi, che dalla scena, si spera, si ripercuotano sul nostro quotidiano: formattato,
disfattista, timoroso.
A proposito di Five Easy Pieces Milo Rau parla chiaramente di catarsi (intesa come vera e propria
cerimonia di purificazione): «Il nostro approccio è poetico e metafisico. Le persone escono dallo
spettacolo colme di speranza. Si sono confrontate all’abietto, possono passare oltre. È ciò che
chiamiamo catarsi. C’è una forza vitale nella presenza di questi bambini capaci di giocare con i tabù
degli adulti». Gli attori che abitano letteralmente il presente storico di cui sono protagonisti,
incarnano un’illusione tanto effimera quanto potente e liberatrice, si trasformano in paladini di un
nuovo (e a tratti glaciale) realismo che ci fa pensare alla potenza di un Michael Haneke.
Gli attori diventano figure mitiche che evolvono sotto la lente di un microscopio, tanti piccoli
microcosmi che acquistano grazie alla messa in scena di Milo Rau uno straordinario valore
allegorico. Emblematica in questo senso The Civil Wars (2014) che, prendendo spunto dall’intimità
di quattro ragazzi (le cui testimonianze sono state raccolte minuziosamente dal regista) partiti per la
Jihad, si trasforma in racconto universale sullo stato attuale della nostra buona vecchia Europa. In
scena gli attori ci raccontano le loro storie, perseguitate dai fantasmi di coloro che sono passati
all’azione. Ancora una volta non è in modo frontale, esaustivo o moralizzante che Milo Rau accosta il
suo scottante soggetto, ma piuttosto attraverso le piccole grandi crepe che intaccano le nostre
corazze, che appartengono a tutti noi. Un dolore condiviso che prende corpo sulla scena.
Ben cosciente dell’impossibilità del teatro di essere documentario, è attraverso la forma (una
ricostruzione fedele e in presenza degli attori originali del processo per The Last Days of the
Ceausescus, o più fittizia, come nel caso di Hate Radio, che ricostruisce l’emittente radiofonica
Radio-Télévision Libre des Mille Collines, fomentatrice del genocidio dei Tutsi in Ruanda nel 1994)
che Milo Rau accede alla verità di un presente complesso, contraddittorio e sfuggente.
Milo Rau impersona la complessità che lo attornia trasformandosi in ricettacolo di un mondo che
sembra impazzito. Un’attitudine la sua che diventa vera e propria vocazione. Noncurante del
consenso generale, preferendo anzi fomentare la controversia e la discussione, Rau si è trasformato
in «uno dei registi attualmente più sollecitati e controversi della sua generazione» (come lo definisce
il «Tages-Anzeiger»). Che questa sua fiamma, così lontana da quel consenso tipicamente elvetico,
possa ancora brillare a lungo (e anche a Sud delle Alpi)!