INTERVISTA A FLAVIA VILLEVIEILLE BIDERI Presidente di ACTO Onlus (Alleanza Contro il Tumore Ovarico) Confusione e inconsapevolezza, è questa la percezione che si coglie parlando di tumore ovarico tra la popolazione femminile? Carcinoma ovarico e carcinoma dell’utero sono spesso confusi, ritenuti a torto due nomi differenti per parlare di un’identica realtà quando invece si tratta di patologie completamente diverse, con manifestazioni e decorsi che nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro. E’ davvero ridottissimo il numero di donne che conosce il tumore ovarico quando invece rappresenta il sesto cancro femminile più frequente a livello mondiale, con la più alta percentuale di morte fra i tumori ginecologi. Le donne affette da questa malattia sono molte: solo in Italia all’incirca 4.500 vengono colpite ogni anno e nel 75% dei casi la diagnosi arriva troppo tardi quando la malattia è al III o IV stadio, dunque in condizione molto avanzata e con una bassa percentuale di curabilità e di guarigione. Le motivazioni di questa situazione sono molteplici e credo che l’impegno oggi debba essere rivolto proprio ad affrontare con più determinazione il problema. Quali potrebbero essere le ragioni? La prima causa di una situazione così grave è data dal fatto che il tumore ovarico è spesso asintomatico; può restare silenzioso e latente per molto tempo e quando compaiono le prime manifestazioni le sue dimensioni sono già avanzate, in alcuni casi con localizzazioni metastatiche. Il secondo aspetto, non meno importante, è la scarsissima conoscenza della malattia da parte delle donne che spesso le porta ad ignorare sintomi che se persistenti nel tempo o se in presenza di specifici fattori di rischio, dovrebbero indurre ad indagini più approfondite. A ciò si aggiungono informazioni troppo nebulose da parte degli organi preposti alla comunicazione di massa o da parte del personale sanitario stesso il che fa si che le conoscenze su questa neoplasia restino frammentarie o inadeguate. Infine la ricerca che procede molto a rilento e con risultati del tutto marginali per le oggettive difficoltà di indagine e per la sostanziale inadeguatezza dei fondi. Come intervenire a questo punto? Come ho già detto nuove risorse devono essere destinate alla ricerca. Oltre a questo occorre migliorare la comunicazione e rendere le informazioni oggi note patrimonio non soltanto di chi vive la malattia, ma di tutte le donne. È con questo intento che esattamente un anno fa è nata ACTO Onlus, un'associazione che si configura come un'alleanza di pazienti, clinici, ricercatori e di chiunque voglia partecipare al progetto comune di ridurre la mortalità del carcinoma ovarico e migliorare la qualità delle cure e della vita delle pazienti. Questo significa per le pazienti, anche riconciliazione con la propria immagine e femminilità, consapevoli di poter vivere un’esistenza attiva senza sentirsi diverse o condizionate dalla malattia. Quali sono i programmi di ACTO? Ci stiamo muovendo su tre fronti: il primo è quello della prevenzione attraverso una campagna informativa per favorire sia tra le donne che tra i medici di base una maggiore conoscenza e consapevolezza di questa malattia. Il secondo fronte riguarda l’accesso alle cure; i centri specialistici sono oggi ancora pochi e il nostro intendimento è far sapere dove orientarsi e a chi rivolgersi ai primi segnali di malattia. Il passo successivo vuole essere lo stimolo a creare nuovi centri specialistici sul territorio in modo da ridurre i disagi e le trasferte delle pazienti. Il terzo filone riguarda la ricerca e in particolare la raccolta e la destinazione di fondi e finanziamenti per nuovi studi e progetti, attraverso l’organizzazioni di convegni mirati passando dalla voce dei massimi esperti ma, ed è questa la novità, con un coinvolgimento diretto delle pazienti. Attualmente abbiamo in atto una collaborazione con tre dei più grandi centri italiani che oggi si occupano di tumore ovarico: l’Istituto Europeo di Oncologia, l’IFOM e il Mario Negri. Infine una cosa che reputiamo molto importante è la creazione di un rapporto più stretto con i medici perché comprendano che oltre la malattia c’è la persona, con i suoi bisogni e le sue paure.