Franz Rosenzweig Una introduzione Francesco Valerio Tommasi e Angelo Tumminelli Franz Rosenzweig Una introduzione Francesco Valerio Tommasi e Angelo Tumminelli 50anni:Layout 1 16/11/16 20.31 Pagina 1 1967-2017 la forza dell’unione La stampa di quest’opera si avvale del contributo finanziario 1 della Federazione delle Banche di Credito Cooperativo del Lazio, Umbria, Sardegna Indice Profilo di una esistenza filosofica 1. Vita 1.1 Famiglia, anni giovanili e studi 1.2 Desiderio di conversione e riscoperta dell’ebraismo 1.3 L’esperienza della guerra 1.4 Per una formazione ebraica: il progetto culturale del Lehrhaus 1.5 La traduzione di Yehudah Ha-Lewi e della Bibbia 1.6 La malattia, la morte e la porta dell’eternità 2. Il pensiero e l’opera 2.1 Hegel, lo Stato e la storia 2.2 Hermann Cohen e Martin Buber 2.3 Il “nuovo pensiero” 2.4 La stella della redenzione 2.5 Gli scritti tardi 3. Attualità della proposta 3.1 Lo sguardo della rivelazione 3.2 Differenza e relazione 3.3 Il mondo plurale e la via del dialogo 4. Brani antologici 4.1 “Resto ebreo” 4.2 La verità solo in parte 4.3 Il “crollo” della scienza e “il mio ebraismo” 4.4 Un pensiero della parola e nel tempo 5. Bibliografia essenziale in italiano - Opere di Franz Rosenzweig - Letteratura secondaria 1 1. Profilo di una esistenza filosofica Una personalità poliedrica e profonda come quella di Franz Rosenzweig (1886 – 1929) non può essere compresa se non alla luce di un intimo intreccio tra biografia e percorso filosofico, tra la concretezza delle scelte individuali e l’elaborazione di un pensiero incentrato sull’esistenza e sulla realtà immediata della situazione. Ed è proprio l’orizzonte filosofico dell’intreccio e della congiunzione di dimensioni tra loro polarmente situate che costituisce lo sfondo teorico entro cui matura ed emerge il “nuovo pensiero”, la proposta filosofica rosenzweighiana la cui lungimiranza teorica e pratica non smette ancora oggi di offrire preziosi orientamenti per la comprensione del tempo presente e per la lettura della contemporanea realtà storica. Quando si pensa alle novità teoriche introdotte da Rosenzweig e al capovolgimento del punto di vista rispetto alla precedente tradizione ontologica da lui operato, non si possono infatti trascurare alcune scelte radicali con le quali il filosofo ha orientato il percorso integrale della sua esistenza e del suo pensiero: il rifiuto dell’attività accademica, la scelta del matrimonio e l’impegno culturale nella direzione del Freies Jüdisches Lehrhaus, l’istituzione francofortese per la formazione rivolta agli adulti e per la promozione dello studio della cultura ebraica, sono solo alcuni esempi della costante dedizione con la quale Rosenzweig ha speso la sua esistenza. In lui, inoltre, il desiderio di riscoperta dell’identità e delle radici bibliche della storia ebraica si è accompagnato all’esigenza di incarnare un fecondo dialogo tanto con la cultura tedesca, entro la quale egli si forma, quanto con quella cristiana dalla quale sarebbe rimasto sempre affascinato. Insomma, l’esistenza filosofica di Rosenzweig mostra significativamente come l’istanza teorica del filosofare giunga alla sua piena espressione quando instaura un dialogo con la vita e con il contesto materiale in cui essa si colloca: in questo senso, l’eccedenza propria della filosofia rosenzweighiana va compresa all’interno della connotazione comunitaria e dialogica in cui matura e si forgia, costituendosi quindi come un pensiero della relazione e dell’evento sempre incardinato nella situazione e aperto all’esperienza dell’alterità e della reciprocità. Così inteso, il progetto speculativo di Rosenzweig si incentra sulla realtà propria dell’esistenziale rivelando l’essere, diversamente dalla tradizione ontologica precedente, non più come un’entità a-temporalmente presente ma come una rivelazione ogni volta nuova che lascia spazio alla voce dell’alterità che interpella. Si comprende, allora, come un ruolo preminente, nel pensiero di Rosenzweig, assuma il tema della rivelazione religiosa che offre la possibilità di ripensare l’impianto filosofico non più a partire da un’essenza assoluta e sovra-temporale ma a partire da una relazione dialogica tra enti posti in una reciproca tensione tra loro. Lo stesso tema dell’identità personale e collettiva si caratterizza nella riflessione di Rosenzweig in senso marcatamente dinamico e relazionale per il fatto stesso che egli crea una tensione reciproca tra due polarità in stretto e sinergico contatto tra loro: sono esse, ad esempio, la storia e la filosofia, la filosofia e la rivelazione, l’ebraismo e il cristianesimo. A partire dall’intreccio di vita e pensiero, si cercherà allora, attraverso questa essenziale introduzione al filosofo, di esplicitare la dialettica interna alle sue riflessioni mostrando come a partire da un’ontologia della differenza il pensatore giunga infine ad elaborare 2 1 una normativa dell’evento relazionale il cui andamento è sempre ritmico e bifasico, legato cioè all’incontro tra due differenti poli teorici o tematici. Un pensiero del salto e della congiunzione la cui forza teorica si regge sull’esperienza di una vita profondamente vissuta nell’ascolto delle situazioni concrete e nel dialogo con le diversità, una vita autenticamente dispiegata alle cui principali vicende si intende dedicare la prima parte di questa introduzione. 2. Vita 2.1 Famiglia, anni giovanili e studi Quando nasce Franz Rosenzweig, a Kassel, il 25 dicembre del 1886, la Germania guglielmina procedeva nel suo sviluppo politico ed economico con il decisivo contributo di quella generazione di ebrei tedeschi che, dopo l’acquisizione dei diritti di cittadinanza, poteva mettere a frutto le proprie energie e la propria creatività. Gli stessi genitori di Franz Rosenzweig appartenevano a quella generazione di ebrei commercianti benestanti che si erano perfettamente integrati nel contesto politico e culturale tedesco; proveniente da una famiglia alto-borghese, il giovane Franz a partire dall’estate del 1905 può intraprendere gli studi di medicina frequentando le lezioni fra Gottinga, Monaco di Baviera e, a partire dall’autunno del 1906, Friburgo. È proprio nel contesto accademico friburghese che Franz Rosenzweig può respirare quell’atmosfera intellettuale effervescente e dinamica che lo porterà a spostare gradualmente i suoi interessi dall’area medico-scientifica a quella umanistica. Il cammino filosofico rosenzweighiano non prende dunque le mosse da una facoltà di filosofia ma dall’ambito delle scienze naturali, alle quali egli si era inizialmente accostato sia per un’autentica passione accademica, sia forse anche per sollecitazione familiare. Tuttavia, proprio a Friburgo gli studi nel campo delle scienze naturali erano già diretti in modo da connettere l’istanza propria della biologia alla matrice filosofica: il docente di fisiologia a Friburgo era il prof. Johannes von Kries il quale impostava le sue lezioni a partire dalla relazione dialettica tra il punto di vista filosofico e quello proprio della fisiologia. Secondo von Kries, infatti, lo sfondo epistemologico degli studi di fisiologia era una teoria gnoseologica autonoma ma impostata sulla base della teoria trascendentale kantiana. Non stupisce, così, che un giovane studente di medicina come Franz Rosenzweig potesse frequentare, già al suo primo semestre a Friburgo, anche un seminario sulla Critica della ragion pura di Kant tenuto dal prof. Jonas Cohn. Sarà alla scuola di questo vivace contesto accademico che Rosenzweig, dopo aver sostenuto nel febbraio del 1906 il Physikum (l’esame di medicina al termine del primo biennio di studi), può passare definitivamente alla facoltà filosofica dei Südwestdeutsche friburghesi. Dapprima egli si dedica agli studi storici guidato dalla straordinaria figura di Friedrich Meinecke (1862 – 1954): è quindi a partire dalla storia che il giovane Franz può individuare l’indirizzo vero e proprio del suo filosofare poiché all’epoca essa era intesa, in continuità con le tesi dell’idealismo, come la scienza della vita umana nella 3 2 sua totalità. È, perciò, attraverso la redazione della sua tesi di dottorato, sotto la direzione di Meinecke, che Rosenzweig si allontana dalla prospettiva storicista pervasa da un vivo hegelismo per abbracciare un pensiero dell’individualità che facesse emergere il valore del singolo nel processo di accadimento della storia. La dissertazione, intitolata Hegel e lo Stato, riguardava, nello specifico, la storia della dottrina hegeliana dello Stato alla quale veniva applicato il metodo di studio proprio delle nascenti scienze dello spirito e, in modo particolare, di Dilthey. La familiarità di Rosenzweig con l’idealismo tedesco è poi documentata dai verbali delle sedute della Heidelberger Akademie der Wissenschaften alla quale il filosofo partecipava con assiduità e varietà di contributi. Nel 1913, anno in cui conclude la sua dissertazione di dottorato, Franz Rosenzweig è ancora collocato, da un punto di vista teorico e metodologico, nell’esatta mediana tra la pretesa di Hegel di conoscere la verità assoluta e il relativismo proprio del metodo storico da lui applicato. Tuttavia, già nella sua dissertazione la varietà di temi filosofici affrontati, primo fra tutti quello della storicità della storia, lasciava già presagire una nuova svolta nell’itinerario intellettuale rosenzweighiano: il passaggio cioè, da una prospettiva storicista e ancora legata al metodo delle scienze dello spirito, ad una prospettiva apertamente filosofica capace di mettere a tema la domanda metafisica sull’uno e sull’essere. Sono gli anni della profonda riflessione spirituale, del cammino verso il cristianesimo e poi del ritorno all’identità ebraica; sono anche gli anni della definizione di una identità filosofica non più orientata allo storicismo idealistico ma aperta ad un metodo fenomenologico e al tema religioso della rivelazione e della relazione tra l’umano e il divino. È infatti del 1914 un articolo di Rosenzweig dal titolo Teologia atea che affronta il tema della rivelazione inaugurando così la fase più estesa e feconda del suo itinerario intellettuale. In questo testo emergono già i temi di fondo che orienteranno la riflessione rosenzweighiana successiva fino all’opera principale La stella della redenzione: fra tutti, viene tematizzata la questione della pensabilità della rivelazione biblica, in opposizione alla teologia mitica della nazione che, agli occhi del filosofo, si rivela come una teologia atea e incapace di cogliere la profonda realtà di Dio e dell’essere. 4 3 Edifici della città vecchia di Kassel, ai primi del Novecento, prima delle distruzioni della seconda guerra mondiale 2.2 Desiderio di conversione e riscoperta dell’ebraismo Sempre negli anni universitari, tra il 1910 e il 1913, Franz Rosenzweig frequenta un gruppo di dibattito e riflessione costituito per la maggior parte da giovani ebrei convertiti poi al cristianesimo. In questo contesto informale di discussione e reciproca formazione, Franz Rosenzweig matura feconde relazioni di amicizia e si interroga seriamente sulla propria identità religiosa. Egli vive una profonda crisi esistenziale in intimo dialogo con alcuni amici del gruppo e, in particolare, con Eugen Rosenstock il quale aveva preso la decisione di convertirsi al cristianesimo. Il confronto con Rosenstock è documentato da una drammatica conversazione in cui Rosenzweig viene posto di fronte alla contraddittorietà della sua posizione sul divino, visto ora gnosticamente come un assoluto posto al di fuori della storia e del mondo, ora come il Dio creatore della tradizione ebraica capace di comunicarsi all’uomo per mezzo della rivelazione biblica. Posto di fronte alla polarità di queste posizioni, Rosenzweig assume senza riserve il punto di vista biblico accogliendo l’idea di un Dio fedele all’umanità e coinvolto nelle trame della storia e del tempo. Il pensiero di una necessaria relazione visibile non solo tra l’umano e il divino ma anche tra la cultura e la rivelazione conduce 5 4 Rosenzweig all’ipotesi, vissuta in modo personalmente tragico, di abbandonare l’ebraismo per accogliere il Dio del cristianesimo, un Dio che, pur incarnandosi nella storia dell’umanità, mantiene la differenza tra la terra e il cielo, tra il finito e l’infinito. Nel cristianesimo, però, i rischi di una immenentizzazione del divino legata alla dottrina dell’incarnazione del Verbo si fanno molto più alti allorquando, a partire dallo stesso Vangelo di Giovanni, viene proclamata la fine del dualismo tra cielo e terra. Se il cristianesimo, per via dell’idea dell’incarnazione, può inclinarsi verso una teologia immanentista, solo l’ebraismo, agli occhi di Rosenzweig, riesce a mantenere la rigorosa affermazione della trascendenza di Dio rispetto al mondo e alla storia degli uomini. Alla luce di questa nuova consapevolezza che vede nella tradizione ebraica il custode dell’assoluta trascendenza divina, Rosenzweig decide di rimanere ebreo rifiutando definitivamente l’ipotesi di una conversione al cristianesimo. Questa matura scelta religiosa è documentata dalle lettere che il filosofo scrisse nei mesi di ottobre e novembre del 1913 a Rudolf Ehrenberg nelle quali si racconta la vicenda attraverso la quale l’autore, rifiutando di aderire ad ogni forma di gnosticismo e storicismo, si consegna alla tradizione biblica prima guardando alla rivelazione cristiana ma ritornando poi, in modo ancora più consapevole, all’ebraismo. La volontà rosenzweighiana che emerge da queste lettere è quella di mantenere la trascendenza di Dio senza però cadere in una forma di dualismo metafisico che accoglie la contrapposizione radicale tra il mondo e il divino. In realtà, a ben guardare, in tutta le trama delle riflessioni filosofiche di Rosenzweig sul divino, la tensione tra una prospettiva dualistica e una immanentistica non verrà mai esplicitamente risolta, aprendo piuttosto la strada a profondi interrogativi filosofici e teologici sulla rappresentabilità di Dio, sulla relazione tra il divino e il mondo e sul tema mai più abbandonato della rivelazione. Infatti, al rapporto tra la rivelazione e la filosofia Franz Rosenzweig dedica le sue riflessioni negli anni dal 1913 al 1917 fino a giungere alle conclusioni poi esposte nel capolavoro La stella della redenzione: in questi anni il filosofo distingue, anche da un punto di vista epistemologico, la prospettiva della rivelazione che guarda a Dio da quella della filosofia che guarda al mondo, reinterpretando questo rapporto dialettico anche nei termini della tensione tra ebraismo e cristianesimo. Non manca, sempre in questo frangente della sua esistenza, un confronto serrato con la filosofia medievale, sia con pensatori di matrice cristiana (come Tommaso d’Aquino o Dante Alighieri) sia con autori della tradizione ebraica medievale. Attraverso lo studio dei pensatori medievali, Rosenzweig è infine orientato ad affermare la precedenza della rivelazione sulla filosofia, ovvero la priorità del rapporto tra Dio e l’uomo rispetto al rapporto tra l’uomo e il mondo. Egli giunge così alla consapevolezza che l’ebraismo, a differenza del cristianesimo, implica in modo radicale la distanza tra il Dio legislatore e il popolo che riceve la legge ed è chiamato a metterla in pratica. Eliminando, invece, la distanza tra il divino e l’umano nella dottrina dell’incarnazione, il cristianesimo dissolverebbe, allo stesso tempo, la rivelazione nella filosofia attribuendo una priorità metafisica al pensiero piuttosto che all’atto della rivelazione. 6 5 La Teshuvà rosenzweighiana, ovvero il suo ritorno all’ebraismo, è stato certamente segnato dall’incontro che il filosofo ebbe con due importanti esponenti della cultura ebraica a lui contemporanea: a Berlino, presso la Lehranstalt für die Wissenschaft des Judentmus, Rosenzweig frequenta le lezioni di Hermann Cohen dedicate al rapporto tra il sistema di filosofia e la religione; inoltre, nel 1914 egli fa anche la conoscenza di Martin Buber con il quale stringe da subito una feconda amicizia che porterà i due pensatori a collaborare nel progetto di una nuova traduzione in lingua tedesca della Bibbia ebraica. Tuttavia, né Cohen né tantomeno Buber riescono, agli occhi di Rosenzweig, a conciliare in modo efficace l’istanza filosofica con il tema della rivelazione rinunciando o all’idea ebraica di Dio (come fa Cohen) o alla concezione ebraica del patto tra Dio e Israele (come farebbe Buber). Insomma, se questi due importanti interlocutori non riescono a sciogliere la dialettica tra religione ebraica e pensiero filosofico, il problema della relazione tra questi due poli della cultura europea diverrà l’oggetto principe della successiva riflessione rosenzweighiana. La Sinagoga eretta a Kassel nel 1839 2.3 L’esperienza della guerra Con lo scoppio del primo conflitto mondiale, Franz Rosenzweig, che sentiva radicale il suo legame con la patria tedesca, decide di arruolarsi come volontario dell’esercito vivendo in prima linea la drammatica esperienza delle trincee e della guerra. Egli si riconosce perfettamente in quella componente ebraica liberale della popolazione tedesca la cui fedeltà alla nazione era un ideale indiscusso e un fine da perseguire con tutte le forze. A partire dall’autunno del 1914, Rosenzweig è dapprima impegnato in Belgio e Francia per poi trasferirsi sul fronte balcanico dove rimarrà fino all’autunno del 1917. In questo periodo così significativo e delicato della sua esistenza, il filosofo si lascerà 7 6 interrogare dalla precarietà degli eventi e manterrà costante la sua riflessione intellettuale disseminandola nei suoi diari, negli appunti dal fronte e, principalmente, nelle cartoline postali che andava via via inviando in Germania nella consapevolezza di un’eventuale caduta in guerra. Proprio in questo contesto così tragico e precario, la riflessione rosenzweighiana raggiunge l’apice della profondità teorica e della chiarezza speculativa: a questi anni, infatti, risalgono le principali intuizioni che, raccolte nelle cartoline postali, confluiranno nel libro La stella della redenzione che vide la luce solo nel dopoguerra. In questi appunti, redatti nei momenti di tregua dal fronte balcanico, ancora una volta il tema di fondo è quello della rivelazione, indagato a partire dalla concretezza delle situazioni storiche e politiche. Non mancano poi i riferimenti alla storia della cultura europea e alla situazione ebraica dell’epoca rispetto alla quale Rosenzweig denuncia l’incapacità di esprimere in modo intimo il significato proprio dell’ebraismo distinguendolo così dalla tradizione razionalistica del pensiero tedesco. Nelle lettere che egli scriveva all’amico Rosenstock nel 1916 si riflette adesso non tanto sulla determinazione della differenza fra ebraismo e cristianesimo quanto piuttosto sulla possibilità di pensare un nuovo sistema filosofico a partire dall’evento della rivelazione e, quindi, dalla centralità della relazione fra infinito e finito. Il vecchio sistema filosofico incentrato sul Logos greco, poi espresso in età moderna dalle filosofie di Kant e Hegel, si fondava sulla necessità di riconoscere nella ragione il principio dominante e il criterio esclusivo della conoscenza umana. Nonostante la divergenza di vedute, soprattutto circa la differenza fra ebraismo e cristianesimo, Rosenzweig e Rosenstock riconoscono entrambi la crisi della filosofia del Logos e condividono l’esigenza di rifondare il pensiero filosofico sulla peculiare esistenza del singolo, sulla sua fede e sulla sua affettività. Altri documenti di estremo interesse risalenti al periodo della guerra sono poi le lettere inviate a Gertrud Oppenheim nel maggio del 1917 dove ritorna il problema del rapporto tra rivelazione e filosofia a partire, però, da una prospettiva intrinsecamente ebraica. L’insieme delle lettere e degli appunti redatti sul fronte rendono l’idea di come il filosofare rosenzweighiano si lasci profondamente interrogare dal dramma degli eventi orientandosi verso un progetto filosofico che possa tematizzare da un lato la relazione dell’essere umano con l’eterno, dall’altro il camminare proprio dell’uomo nella finitezza e nella precarietà esistenziale. Non è quindi un caso che l’incipit della Stella rivolga la sua attenzione al tema della morte e del suo timore come origine possibile di ogni conoscenza. Così Rosenzweig apre la sua opera: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché accresce il numero di ciò che deve morire (…). Ma la filosofia nega queste paure della terra. Essa strappa oltre la fossa che si spalanca ad ogni passo. Permette che il corpo sia consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo» (Rosenzweig, La stella della redenzione, tr. it., p. 3). Di fronte al baratro della finitezza per 8 7 Rosenzweig è la filosofia che apre le porte ad uno spiraglio di eternità, strappando l’anima alla caduta nell’abisso del nulla. Animandolo di un desiderio di passione per la conoscenza e di ricerca della verità anche negli scenari più irragionevoli, la filosofia offre a Rosenzweig una via di redenzione e una possibilità per vivere in modo degno l’esperienza della guerra. Così nasce e prende forma il progetto filosofico della Stella, a partire da un’esperienza di morte e solitudine nella quale il filosofo si lascia abitare dalla passione del pensiero per trovare un senso al paradosso della situazione; nasce così un capolavoro che si presenta ebraico e universale allo stesso tempo poiché scorge dietro la condizione ebraica l’essenza dell’umanità intera. Nell’economia globale della Stella il fuoco e nucleo tematico centrale è rappresentato dal tema della rivelazione come “e” tra il finito e l’eterno, come congiunzione metafisica tra la creazione e la redenzione. La rivelazione, nel pensiero di Rosenzweig, rappresenta al tempo stesso la forza spirituale dell’amore che si riversa nella fragilità della situazione restituendola al suo valore eterno. La rivelazione, nucleo fondante della Stella, diventa allora l’evento vissuto per antonomasia, quello in cui l’essere umano si scopre orientato dall’amore verso Dio e abitato da un desiderio di dialogo e di incontro. In conclusione, l’opera rosenzweighiana vuole dare una risposta filosofica al dramma della situazione proponendo all’essere umano quella via indicata dall’amore e dalla rivelazione che porta a Dio partendo però dal dialogo inter-umano e dalle relazioni sociali fra gli individui in un percorso fatto di incontri umani orientati verso l’unica destinazione dell’amore divino. Franz Rosenzweig durante il primo conflitto mondiale 9 8 2.4 Per una formazione ebraica: il progetto culturale del Lehrhaus Al termine della guerra, l’impegno di Rosenzweig si concentra a favore della promozione della cultura e della formazione ebraica. Dopo una serie di incontri con personalità di spicco della cultura ebraico-tedesca, nel 1920 a Francoforte egli fonda il Freies Jüdisches Lehrhaus, un istituto superiore di studi ebraici destinato alla formazione degli adulti. Negli stessi anni, sempre a Francoforte, grazie a personalità del calibro di Max Horkheimer (1895 – 1973), Theodor W. Adorno (1903 – 1969) o Herbert Marcuse (1898 – 1979) si sviluppavano i dibattiti e le azioni della più celebre Scuola di Francoforte con la quale Rosenzweig cercherà di intessere un dialogo accogliendone alcuni esponenti nel suo Lehrhaus. L’attività presso il Lehrhaus si accompagna ad una serie di riflessioni, confluite poi in importanti saggi tematici, sul significato della Bildung ebraica e sulla necessità di un ritorno all’ebraismo come realtà vivente che si trasmette attraverso le generazioni. Oggetto specifico della riflessione di Rosenzweig diventa allora il tema dell’educazione dell’ebreo che si lascia orientare dall’insegnamento divino per imboccare la via della redenzione. Secondo il filosofo non vi può essere alcuna distinzione tra il problema ebraico e quello umano tout court poiché la descrizione del rapporto tra uomo e Dio descritta dalla filosofia coincide con la storia dell’anima raccontata dalle fonti bibliche. Identificando l’educazione dell’ebreo con l’educazione all’umanità, Rosenzweig intende universalizzare l’esperienza originaria della rivelazione come evento di amore che coinvolge ogni essere umano; così l’esistenza ebraica diviene, secondo il pensatore, l’emblema della possibilità di insegnamento ed educazione dell’umanità tutta. Affrontando in alcuni saggi tematici il problema pedagogico legato alle attività del Lehrhaus, egli offre una descrizione puntuale delle caratteristiche proprie della Bildung ebraica: essa prende il suo avvio dal momento presente e si fonda sulla datità immanente della situazione. Nell’immediatezza del presente l’esistenza ebraica rivela allora un eterno che non si identifica con l’essere immutabile della tradizione filosofica ma che si configura con i tratti personali della divinità biblica che irrompe nella finitezza. Allora, la fede intesa come emunà, fiducia originaria nel Dio della rivelazione, diventa il tratto costitutivo dell’esistenza ebraica e colloca l’essere umano nella situazione della prontezza e della responsabilità: l’aver fiducia implica la risposta ad un appello, l’assunzione dell’impegno ad occuparsi di ciò che è prossimo. Si rende evidente come la riflessione pedagogica di Rosenzweig culmini nella nozione di Verantwortung, di responsabilità come compito di prossimità e cura nei confronti dell’esistente. L’aspetto forse più inedito e significativo delle riflessioni rosenzweighiane sulla Bildung ebraica è il carattere sempre situazionale della formazione nella quale si realizza quella coincidenza metafisica tra l’essenza e l’esistenza che rende l’essere umano sempre incardinato nell’immediatezza del suo presente. Esistenza ebraica ed esistenza umana vengono allora a coincidere per Rosenzweig nell’unica figura del discepolo e del santo che accoglie l’insegnamento divino e lo mette in pratica nelle sue relazioni con gli altri. Questa identificazione dell’essenza ebraica con l’essenza umana universale emerge, in modo lampante, nei saggi Spirito ed epoca della storia ebraica e Storia ebraica nella cornice della storia 10 9 universale nei quali l’autore lascia ampio margine al tema messianico della redenzione, visto come il cammino dell’umanità ad-venire verso la trascendenza e verso l’orizzonte non del tutto compiuto storicamente dell’eterno. Nella concezione pedagogica elaborata dal filosofo alla luce dell’attività e del progetto culturale del Lehrhaus diventa allora fondamentale la figura del santo come emblema della responsabilità individuale di fronte all’appello della trascendenza. Il santo, oltre ad essere una categoria eticoantropologica di grande rilievo, assume nel pensiero di Rosenzweig il valore di un ideale regolativo della vita pratica dell’individuo nella quale si mostra la via della piena redenzione: il santo è colui che cresce dalla risposta alla parola che gli è stata rivolta, è colui che, capace di uscire da sé, diventa un recipiente dell’amore di Dio, dischiuso e trasfigurato dalla grazia. Egli vive nell’assoluto perché vive nella risposta all’amore, aperto all’ascolto della situazione e costantemente disposto a decentrarsi per accogliere l’altro e il diverso. A questo modello di umanità Rosenzweig guarda quando definisce il programma culturale e formativo del suo Lehrhaus. 2.5 La traduzione di Yehudah Ha-Lewi e della Bibbia L’ultima fase dell’itinerario biografico di Rosenzweig è caratterizzata dallo studio dei testi poetici del pensatore ebreo medievale Yehudah Ha-Lewi (ca. 1075 – 1141) e dalla traduzione della Scrittura dall’ebraico al tedesco in stretta collaborazione con Martin Buber. Insieme a questi lavori, Rosenzweig elabora una teoria filosofica della traduzione che emerge tanto dai commenti alle liriche di Ha-Lewi quanto dalle sue riflessioni sulla Bibbia ebraica. Nella postfazione alla raccolta di liriche del poeta medievale, Rosenzweig esplicita il lavoro del traduttore come un’opera di dialogo interumano che coinvolge sia la lingua dell’autore originario sia quella del destinatario. Un testo che appartiene alla cultura del passato deve essere accolto dal traduttore nella sua distanza e nella sua specifica autonomia di categorie ontologiche ed ermeneutiche; solo nel mantenimento della differenza contestuale e linguistica il traduttore può cogliere ed esprimere il senso permanente del testo da tradurre, facendone emergere la classicità in ciò che può essere universalmente trasmesso e trasposto. Allora, compito del traduttore è quello di rinnovare, a contatto con il testo di origine, le possibilità creative della lingua di destinazione mostrando come ogni lingua, pur distinguendosi da tutte le altre per morfologia e sintassi, abbia in sé stessa una struttura razionale e relazionale che la accomuna a tutte le altre. Allo stesso tempo, tradurre significa rinnovare lo spirito originario con cui un’opera è stata composta e portare alla luce l’anelito profondo che ha animato l’autore nella composizione della sua opera. In questo valore della traduzione come perpetuazione dello spirito originario, Rosenzweig vede la peculiarità stessa dell’ebraismo, indirizzata a declinare in forme sempre nuove ed inedite il messaggio originario della rivelazione divina: tuttavia, occorre precisare che la traducibilità dei linguaggi presuppone uno sfondo comune entro il quale è possibile pensare l’umanità unita nell’era messianica e aperta, quindi, ad una comunicazione universale. Come nella tradizione ebraica il passato restituisce al presente la sua forma e 11 10 il suo ordine, così la lingua del traduttore fornisce allo spirito del testo tradotto la possibilità di rinnovarsi e di perpetuarsi nella sua originaria destinazione. La teoria rosenzweighiana della traduzione che emerge tanto dalla postfazione alle liriche di HaLewi quanto dai commenti alla Scrittura, si fonda sull’idea di una unità originaria ed essenziale di tutti i linguaggi e sulla necessità della trasmissione dello spirito e della cultura per mezzo della traduzione. Secondo Rosenzweig vi è una forza eterna nel linguaggio che si trasmette, un desiderio di contatto che si rinnova nella misura in cui continua ad esprimersi in forme sempre nuove e diversamente creative. Non solo, per Rosenzweig il traduttore ha anche un ruolo messianico nel senso che preannuncia e affretta, attraverso il suo lavoro, la realizzazione del regno universale sulla terra. Il carattere della traducibilità del linguaggio rivela allora l’intrinseca unità che accomuna la razionalità umana e mostra nel dialogo tra gli uomini e nella trasmissione del sapere una via autentica di redenzione. Nell’esperienza dell’incontro dialogico, secondo la teoria di Rosenzweig, il tutto si compone solo nella “e” della congiunzione e della mediazione fra diversi dove ciascuno dei poli riconosce un suo costitutivo bisogno dell’altro nella sua diversità e nella sua distanza. Proponendo una nuova gnoseologia dell’incontro, il pensatore ebreo elabora un’idea di inveramento che consiste nel cogliere la verità nelle situazioni via via nuove che si presentano all’essere umano. In questo senso, nella comprensione dialogica propria del traduttore si svolge qualcosa di nuovo, si annuncia una creatività mai prima espressa: la traduzione (Über-setzung) è linguisticamente creativa nel senso che è fondata nell’evento del dialogo del traduttore con un mondo linguistico che gli è estraneo. Attraverso la traduzione, l’interprete si lascia abitare da un mondo linguistico totalmente altro che deve restituire nella sua pienezza di senso e di significato: e, al tempo stesso, la lingua originaria, per mezzo dell’incontro, trasforma la lingua di destinazione aprendola a possibilità inedite. L’evento della traduzione diventa allora per Rosenzweig la metafora della dialogicità propria di ogni essere umano per mezzo della quale ciascuno può scoprirsi nell’intima relazione con l’altro e con il diverso. Agli occhi del filosofo, dunque, non si può vivere autenticamente senza tradurre, senza mettersi in atteggiamento di ascolto della voce dell’altro per rinnovarla nel suo spirito originario. Con l’elaborazione della teoria della traduzione appena esposta, Rosenzweig vuole introdurre il suo stesso lavoro di trasmissione e commento della Scrittura e delle liriche di Ha-Lewi: queste ultime, in modo particolare, consentono al pensatore di ritornare sul tema della relazione fra l’umano e il divino e di restituire, nel linguaggio a lui contemporaneo, l’idea ebraica della rivelazione come il “miracolo” nel quale Dio si mostra in un’azione che diventa esempio per l’agire umano. Nelle liriche di Ha-Lewi Rosenzweig coglie il carattere sempre singolare dell’io umano, esposto allo sguardo di Dio e forte solo nella fiducia in Lui. Insomma, il lavoro di traduzione del Diwan di HaLewi che recupera alcuni temi formulati precedentemente dallo stesso autore nel Kuzari, consente al nostro filosofo di ritornare sui temi principali della sua stessa filosofia. Allo stesso modo, allorché egli intraprende, tra il 1925 e il 1929, la traduzione in tedesco della Bibbia ebraica insieme all’amico Martin Buber, intende soffermarsi sulla 12 11 lingua della Scrittura come voce parlante al tempo presente e come linguaggio dell’ordinario che ridesta l’invito all’ascolto e all’osservanza dell’insegnamento. Per Rosenzweig, il linguaggio biblico, ispirato da Dio, coincide essenzialmente con il linguaggio umano universale che manifesta da un lato il sentire soggettivo degli uomini, dall’altro il cammino dell’umanità tutta dalla creazione verso l’era messianica. Quindi, la parola biblica deve essere colta e interpretata come un’esperienza di incontro con il Dio che si rivela. Tra il 1926 e il 1928 molti saranno i contributi rosenzweighiani sulla questione della lingua ebraica e sulla relazione fra la parola orale e la parola scritta: l’invito costante del filosofo rimane sempre quello di evitare di ridurre la scrittura in una forma oggettivata e cristallizzata di comunicazione; essa piuttosto vive nella traduzione dialogica da un’esperienza all’altra, nella trasmissione cioè dell’unica rivelazione d’amore per mezzo di situazioni sempre diverse e sempre singolari. Ancora una volta, l’analisi della lingua della Scrittura diviene per Rosenzweig l’occasione per riaffermare l’unità profonda che accomuna tutta l’esperienza umana e il compito messianico di costruire il regno promesso attraverso l’esperienza dialogica dell’incontro e della relazione interumana. 2.6 La malattia, la morte e la porta dell’eternità Durante il periodo dedicato alle traduzioni delle poesie di Ha-Lewi e della Scrittura, Franz Rosenzweig si ammala di una grave forma di sclerosi che lo porta alla progressiva paralisi degli arti fino alla compromissione di tutte le facoltà motorie. Ciò, tuttavia, non gli impedisce di continuare a prodigarsi nel suo impegno intellettuale e filosofico dettando i suoi pensieri e dedicandosi all’approfondimento dei temi da lui sempre prediletti. Nonostante le condizioni fisiche estreme che, a partire dal 1920, lo porteranno gradualmente ad una immobilità fisica, la determinazione e il coraggio con cui Franz Rosenzweig attraversa le sue sofferenze rivelano ancora più intimamente lo spessore umano, prima ancora che filosofico, della sua personalità. Fino alla vigilia della morte egli portò avanti insieme a Buber il progetto di una traduzione rivoluzionaria della Bibbia che sapesse restituire la Scrittura alla sua originaria ispirazione di voce parlante e interpellante i cuori. Così, in questa determinazione per la sua passione intellettuale, Franz Rosenzerig muore a Francoforte sul Meno il 10 dicembre 1929 lasciando in eredità al pensiero occidentale una nuova prospettiva filosofica, fondata sulla rivelazione come atto di amore, i cui frutti sarebbero poi maturati nel corso dell’intero XX secolo. L’instancabile devozione per la ricerca della verità e la fatica del sapere fanno di Rosenzweig un pensatore classico per la portata speculativa dei suoi pensieri e lungimirante per la capacità profetica delle sue intuizioni e degli argomenti da lui tematizzati. Fra questi, il richiamo all’immortalità come esito ultimo della redenzione esprime il desiderio, proprio del filosofo, di spendersi per il mondo favorendone la crescita e il miglioramento; la parola ultima della sua esistenza allora, più che abbracciare la morte si apre alla vita, a quel cammino di redenzione che offre agli esseri umani l’eternità pure nella finitezza del tempo. La concretezza dell’ordinario diventa 13 12 allora, per il pensatore, il luogo della mediazione e del congiungimento dove le trame precarie della storia si illuminano di un respiro di eterna vitalità. Così, infatti, Rosenzweig aveva concluso la Stella rimarcando la prospettiva del quotidiano della vita come orizzonte in cui ciò che è ultimo si ricongiunge con ciò che è primo aprendo le porte del tempo all’eternità: «Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misteriosomiracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo potrà restare a vivere, conduce verso l’esterno. Ma verso cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Verso la vita». Copertina della prima edizione della “Stella della redenzione” 14 13 3. Il pensiero e l’opera Come si è avuto modo di sottolineare, l’intera “esistenza filosofica” di Franz Rosenzweig è stata incessantemente spesa alla ricerca di un pensiero non aridamente concettuale, ma fedele alla vita e alle sue dinamiche concrete. L’esigenza stessa di formulare un “nuovo pensiero”, capace di rendere conto della finitezza dell’esistenza umana e della sua intrinseca temporalità, strutturato in una dimensione plurale ed interlocutiva, aperto all’ispirazione della tradizione religiosa e della rivelazione biblica, ha caratterizzato tutte le tappe del percorso biografico di Rosenzweig e le sue scelte personali, a tratti anche coraggiose e radicali. Tuttavia, il rifiuto dell’astrattezza teorica non ha rappresentato, nella sua opera, una tendenza all’irrazionalismo o una statica contrapposizione della vita e delle sue dinamiche al pensiero concettuale. Anzi, a partire dalla riconosciuta ed irriducibile differenza tra i due ambiti, Rosenzweig ha perseguito una continua ricerca di possibili forme di congiunzione: una vita coerente con quanto il pensiero mostra come vero, e un linguaggio e una teoria volti ad esprimere quanto la vita rivela come reale. 3.1 Hegel, lo Stato e la storia I primi passi di avvicinamento di Rosenzweig alla filosofia avvengono nell’ambito di una rinascita, nella Germania dei primi anni del Novecento, degli studi hegeliani. Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), uno dei più noti pensatori della storia della filosofia, aveva teorizzato un sistema che – sia detto in un senso generico, utile ad una prima approssimazione – ambiva proprio all’identità piena tra razionalità e realtà, per il tramite della storia. Le vicende del processo storico, infatti, sia pure in modo dialettico, avrebbero necessariamente condotto alla progressiva riduzione di quello che un filosofo illuminista del Settecento, Lessing, aveva definito “brutto e vasto fossato” tra principio e fatto, tra pensiero e vita. A partire dunque dalla medesima polarità che si è descritta come uno dei motivi più profondi della riflessione rosenzweighiana, si tratta evidentemente, in Hegel, di una risposta radicalmente diversa, che mira al superamento delle differenze e alla loro sintesi, anziché al mantenimento della irriducibile specificità dei singoli elementi. Proprio il fatto innegabile della morte segnerà per Rosenzweig – secondo quanto si è potuto già accennare – sia l’inizio che la fine di ogni filosofia, i cui tentativi di “addomesticare” e di conferire un senso a questo evento quanti altri mai reale e concreto, sono vani: la filosofia deve infine arrendersi all’evidenza per cui la morte rappresenta il termine effettivo ed insuperabile di ogni speculazione. Nell’ambiente di Friburgo, in cui si trovò a studiare Rosenzweig, il pensiero di Hegel veniva avvertito come particolarmente utile per superare la frammentarietà del sapere e delle scienze e la separazione netta tra discipline cosiddette “dello spirito” e “della natura”, che dalla modernità in poi caratterizzavano l’organizzazione del sapere. Ma lo studio di dottorato di Rosenzweig, in particolare, è rivolto ad approfondire la concezione hegeliana dello Stato. Per Hegel, lo Stato è uno dei dispositivi più efficaci nell’opera di riconciliazione tra l’individualità e la libertà dell’individuo singolo con l’oggettività esterna del mondo e della natura. Ancora una volta, quindi, un termine di 15 14 sintesi tra due termini contrapposti. Seguendo l’impostazione di Meinecke, Rosenzweig storicizza la prospettiva dell’opera di Hegel, inscrivendola nel contesto e nell’epoca in cui venne maturata e fu scritta, e di cui inevitabilmente risente; egli inoltre la relativizza, evidenziandone sia gli influssi sulla cultura tedesca successiva – in particolare nel periodo bismarckiano – sia le oscillazioni che hanno potuto o potrebbero generare diverse prospettive interpretative e quindi nuove linee di sviluppo. Con questa storicizzazione e relativizzazione si gettano le basi per incrinare le certezze di un sistema di pensiero – quello appunto hegeliano – che si prefiggeva di tendere al “sapere assoluto”. Ma il primo obiettivo di Rosenzweig, all’epoca, è forse piuttosto di tipo latamente politico, ossia aprire le maglie culturali di un Impero tedesco troppo chiuso in sé stesso e nella propria prospettiva nazionalistica, per incoraggiare una prospettiva maggiormente cosmopolitica. Lo studio di Rosenzweig, molto accurato da un punto di vista filologico, si basa anche sull’analisi, da lui condotta a Berlino a partire dall’autunno del 1910, del lascito manoscritto hegeliano, e vede la luce in forma pubblicata solo dopo la guerra, nel 1920. Il Rosenzweig storico della filosofia ed in particolare filologo hegeliano esercitò inoltre le sue capacità su un testo destinato ad acquisire, anche proprio grazie ai suoi studi, una notevole importanza, ossia quello che egli stesso intitolò Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco. Si tratta di un frammento manoscritto, acquistato all’epoca dalla Regia Biblioteca Prussiana di Berlino, che venne inizialmente catalogato sotto il titolo di Un’etica (perché si apre con queste due parole), ma che in realtà appunto contiene tematiche di tipo programmatico e sistematico legate al romanticismo e soprattutto all’idealismo. Scritto molto presumibilmente in un’epoca antecedente anche al Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling, sino a quel momento considerato il primo testo di quella corrente di pensiero, questo scritto teorizza la necessità di costruire un sistema di tutte le idee e di tutti i postulati pratici e individua l’ambito estetico come il luogo in cui la libertà soggettiva e l’oggettività naturale possono trovare conciliazione. Il testo accenna anche a tematiche religiose, trattando del rapporto tra mitologia e filosofia. Trattandosi di un manoscritto di Hegel, Rosenzweig potè datarlo, in base soprattutto ad un confronto basato sulla grafia, all’estate del 1796. Tuttavia Rosenzweig mise in dubbo l’autentica paternità hegeliana delle idee contenute in quel manifesto programmatico, perché in quell’epoca Hegel si trovava in una fase di pensiero caratterizzata piuttosto da una idea di netta ed irriducibile contrapposizione tra i due elementi (libertà e natura) di cui invece Il più antico programma di sistema afferma la possibile sintesi. Rosenzweig quindi lo attribuì a Schelling (a tutt’oggi l’argomento è ancora oggetto di discussione) e ritenne che Hegel lo avesse semplicemente trascritto. 3.2 Hermann Cohen e Martin Buber Proprio il tratto di contrapposizione radicale tra polarità opposte (soggetto e mondo; libertà e natura), visto come il motore della riflessione giovanile hegeliana, è il tema con cui si scontra sempre di nuovo anche la riflessione di Rosenzweig, in modo particolare 16 15 in quegli anni, e che costituisce l’oggetto centrale dei suoi interessi e delle sue discussioni. Non solo con i pensatori del passato, ma anche con amici e colleghi, il suo pensiero procede indefettibilmente in modo dialogico e secondo una dialettica autentica e reale. Sono in particolare i già menzionati Eugen Rosenstock e il cugino Rudolf Ehrenberg gli interlocutori di una discussione che, a partire da accenti e tratti forse in parte gnostici, ossia di rifiuto del mondo, allo scopo di superare la contrapposizione tra soggettività ed oggettività, conduce Rosenzweig ad avvicinarsi al cristianesimo. In questa fede Rosenzweig ritiene di trovare una forma di rivelazione che, proprio grazie alla storia, arriva a conciliare, pur senza confonderle del tutto, trascendenza ed immanenza. In ambito religioso, infatti, le polarità descritte per un verso si acutizzano e, per altro verso, si declinano anche secondo modalità diverse (ad esempio mitologia e rivelazione come contrapposte alla ragione). Ma anche qui sembra essere ancora la storia il luogo in cui Dio si rivela all’uomo e redime il mondo, così come, per converso e correlativamente, la storia è anche il luogo in cui l’uomo può e deve partecipare a tale opera divina. Tuttavia, come detto in precedenza, nonostante questo avvicinamento al cristianesimo, Rosenzweig decide di rimanere fedele all’ebraismo. Rispetto al cristianesimo l’ebraismo, infatti, risulta meglio in grado di preservare l’assoluta trascendenza divina e di non confonderla con il mondo. Mantenere la specifità ebraica è anzi un compito a cui non ci si può sottrarre, perché essa rappresenta un segno visibile e tangibile, nella storia, della stessa alterità ed unicità divina. Ebraismo e cristianesimo, tuttavia, pur nella loro diversità, potranno per Rosenzweig proficuamente integrarsi e contribuire in modi diversi alla medesima redenzione. Ancora una volta, l’istanza è quella di coniugare e accostare senza fondere o confondere. In quegli anni a cavallo del primo conflitto mondiale, come si diceva, Rosenzweig viene anche a contatto diretto con due delle maggiori figure del pensiero ebraico dell’epoca, ossia Hermann Cohen e Martin Buber. Con il primo, Rosenzweig condivide l’idea di creare una istituzione dedicata al rinnovamento degli studi ebraici e all’approfondimento del portato della cultura religiosa tradizionale nel mondo moderno. Nel solco di questa ispirazione generale si muoveva anche il lavoro di Cohen intitolato Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo di cui Rosenzweig può leggere le bozze prima della pubblicazione, che avverrà nel 1919, solo dopo la morte dell’autore. Anche se non può essere considerato razionale sotto ogni punto di vista – sostiene Cohen in questo testo – e anche se ha avuto bisogno soprattutto del platonismo e del kantismo per liberarsi da incongruenze mitologiche, l’ebraismo, come forma pura di monoteismo, è la sorgente e la fonte della religione razionale, che per suo tramite è stata introdotta nel mondo. Questa opera sarà destinata ad esercitare una profonda influenza su alcuni tratti fondamentali della matura riflessione di Rosenzweig, ed in particolare sulla Stella della redenzione: ad esempio nell’idea per cui creazione e rivelazione non sarebbero due atti puntuali e separati, ma due modalità stabili di interpretare la relazione di Dio con il mondo, il cui rapporto va necessariamente pensato come una correlazione. Non è concepibile, per Cohen, né un mondo senza Dio, né un Dio senza mondo. Ciò si verifica in modo particolare sul piano dell’agire e dunque per il tramite del rapporto 17 16 dell’uomo con gli altri uomini, che media necessariamente la relazione tra l’uomo e Dio. Di quel periodo è anche il confronto – inizialmente piuttosto critico – con la filosofia di Martin Buber, nella quale Rosenzweig rinviene il problema di una “teologia atea”. Questa fa di Dio il frutto di una semplice immaginazione, un mero ideale funzionale a rappresentare l’unità o l’aspirazione a determinati valori. Per Rosenzweig è invece necessario riscoprire l’autentico senso della rivelazione, come presenza effettivamente operante di Dio nella vita e nella storia dell’uomo, secondo un progetto redentivo. Oltre però a stabilire in seguito la proficua collaborazione alla traduzione del testo biblico, con Buber Rosenzweig troverà altri importanti fattori di consonanza – a partire dal tema più noto del pensiero buberiano, il principio cosiddetto “dialogico”, ossia la strutturale relazione tra l’“io” e il “tu” come principio costitutivo della realtà umana. Si tratta di un’idea che, come risulta evidente, può essere interpretata anche come una ulteriore declinazione dell’idea di correlazione, stavolta in termini direttamente interpersonali e con un tratto marcatamente interlocutivo e linguistico che, secondo quanto si ribadirà, diviene decisivo nella formulazione rosenzweighiana del “nuovo pensiero”. Martin Buber 3.3 Il “nuovo pensiero” Ispirata da queste motivazioni e da queste tensioni, e segnata profondamente dal dramma della guerra, la riflessione di Rosenzweig muove quindi all’elaborazione – anzitutto in lettere ed appunti – della propria proposta teorica matura. Essa riceve il nome di “nuovo pensiero” in quanto si caratterizza per una critica radicale alla tradizione filosofica presa nella sua intererezza, “dalla Ionia a Iena”. Questa tradizione sarebbe segnata, secondo Rosenzweig, da alcuni tratti negativi, giunti al loro culmine 18 17 nell’idealismo tedesco e dunque nel pensiero di Hegel. Sulla scorta di quanto abbiamo descritto, è oramai agevole identificarne almeno alcuni: l’astrazione dalla concretezza ed in particolare dal carattere temporale della realtà, nella pretesa di trovare verità universali, necessarie ed eterne; il primato surrettiziamente accordato al pensiero e alla logica sull’essere e sulla realtà; la tendenza al riduttivismo, nella ricerca delle essenze e di un principio fondativo unico, e dunque l’incapacità di ossservare le differenze reali e la molteplicità. Rosenzweig si sofferma in particolare sulla circostanza che i tre oggetti principali della metafisica moderna (il mondo, Dio e l’anima umana) siano stati, nelle differenti epoche della storia del pensiero, di volta in volta gerarchizzati; così infatti, ossia con la riconduzione di due di essi al terzo, si sarebbe operata ogni volta di nuovo una indebita riduzione: gli antichi avrebbero infatti ricondotto tutto al cosmo, i medievali a Dio, mentre i moderni hanno elevato l’uomo a centro e riferimento dell’universo. Connessa a queste due critiche è anche la rivendicazione dell’individuo e della inaggirabile peculiarità e soggettività del suo punto di vista, di contro ad ogni impostazione che pretenda di porsi con uno sguardo assoluto. In quest’ultimo tratto, quindi, Rosenzweig si richiama alla tradizione di pensiero che, in modi diversi, si è posta in contrapposizione all’idealismo, da Kierkegaard a Schopenhauer a Nietzsche. Ispirato inoltre dalla “filosofia narrativa”, a cui Schelling aveva alluso nel testo sulle Età del mondo, e dunque dalle riflessioni sulla mitologia, Rosenzweig arriva anche ad evidenziare il ruolo del linguaggio come fattore capace di ridimensionare le pretese della speculazione razionale astratta, ancorandola ad un aspetto comunque corporeo e dunque fisico. Proprio come narrazioni di una storia, come espressioni del rapporto personale di Dio con gli uomini e con il mondo, sono la tradizione religiosa e la teologia ad offrire al “nuovo pensiero” un ulteriore elemento ispiratore ed uno strumento potente per radicalizzare la propria prospettiva, che assume importanti tratti – secondo un interesse costante della speculazione rosenzweighiana – di tipo filosofico-religioso. In particolare, Rosenzweig introduce le categorie di “creazione”, “rivelazione” e “redenzione” come chiavi di lettura per interpretare il rapporto autentico che si instaura tra Dio, il mondo e l’uomo, secondo quanto ora si vedrà più nel dettaglio, trattando della Stella della redenzione. Ancora una volta, quindi, sono molteplici i motivi di ispirazione e le tendenze concettuali che, pur nella loro specificità, vengono a confluire, delineando nel loro complesso la forma di una proposta autonoma, innovativa ed originale. La posizione matura di Rosenzweig, inoltre, nei tratti che si sono introdotti e che ora si approfondiranno, giunge a toccare corde comuni anche ad altre tendenze della filosofia novecentesca, come ad esempio la fenomenologia e l’esistenzialismo – ad esempio nell’attenzione posta dalla prima al prospettivismo, e dal secondo invece alla vita concreta dell’individuo – senza che i rapporti reciproci di influenza siano sempre chiaramente ed univocamente determinabili. 19 18 3.4 La stella della redenzione È in questo scritto maggiore, pubblicato nel 1921, che tutte le polarità che hanno animato la riflessione di Rosenzweig sin dalla gioventù e i temi di cui si è interessato vengono ad essere compiutamente espressi. Si tratta, in un certo senso, del tentativo di tradurre in un’opera l’esigenza del “nuovo pensiero”. Ma ciò, in modo forse sorprendente, avviene in una forma che parrebbe essere quante altre mai sistematica. Su questo almeno apparente contrasto i commentatori si sono lungamente interrogati. Per un verso, per porsi in dialogo anche decisamente critico con la tradizione precendente e specialmente con l’idealismo, Rosenzweig non può che, almeno parzialmente, parlarne la medesima lingua. Per altro verso, vi è una difficoltà più profonda e più strutturale, che è data dall’impossibilità di esprimere riflessione teorica e concettuale in una maniera che prescinda dai concetti stessi e da una loro ordinata esposizione. Sin dalla struttura triadica che la pervade, l’opera rosenzweighiana sembra essere quasi una sorta di “controcanto” o di “ombra” dell’idealismo, di cui prova a rappresentare un ribaltamento. In ogni caso, al di là del fatto di rendere in modo organizzato e rigoroso le istanze del “nuovo pensiero” (che – giova ribadirlo – non è comunque una forma di irrazionalismo) e di contrapporsi quindi radicalmente all’idealismo, la Stella si presenta come un’opera sfaccettata, dalle molteplici chiavi di lettura, per alcuni versi sfuggente e inafferrabile, o comunque non definibile in modo univoco e secondo le categorie più tradizionali della storia della filosofia, e che permette di essere affrontata muovendo da punti di vista diversi. Si tratta infatti di un’opera che, allo stesso tempo, è e non è di metafisica (pur parlando di “metafisica”), è e non è di logica (si parla di “metalogica”), è e non è di etica (si parla di “metaetica”) – e questi tre assi corrispondono per Rosenzweig ai tre elementi esistenti, Dio, il mondo e l’uomo. Inoltre, come detto, forte è il retroterra teologico o quantomeno filosofico-religioso. L’opera è suddivisa in tre parti, ciascuna delle quali consta a sua volta di tre libri. La prima parte, definita “premondo”, è dedicata agli elementi costitutivi del “sistema”, ossia Dio, il mondo e il sé. Qui appunto Rosenzweig teorizza la metafisica, la metalogica e la metaetica. La seconda parte, dedicata al “mondo”, si rivolge poi alle relazioni tra questi tre elementi, descritte come creazione, rivelazione e redenzione. Mentre la terza parte, che ha come oggetto il “sovramondo”, tratta del “fuoco”, o della vita eterna, dei “raggi”, ovvero del tempo eterno, e della “stella” come percorso eterno, prima di chiudersi con la già citata “porta” finale. La forma della stella, sin dal titolo, delinea la dialettica complessiva di questi rapporti tutti orientati alla redenzione: si tratta della stella cosiddetta “di Davide” – tradizionale simbolo dell’ebraismo – ossia della stella a sei punte, formata da due triangoli che si intersecano, e che sono rispettivamente orientati secondo le due possibili direzioni di rapporti tra i tre elementi fondamentali, uno rivolto con la punta verso l’alto e l’altro verso il basso. La forma della stella viene inoltre esplicitamente contrapposta da Rosenzweig a quella del circolo, come forma di chiusura totalizzante di tutto il pensiero della tradizione, sin dalle sue origini nella grecità. Infatti, lungi dall’esprimere una forma di perfezione ancora una volta astratta e solo teorica, la stella richiamerebbe il volto concreto e vivente della persona umana. 20 19 Con le righe sulla morte già citate in precedenza, che aprono l’opera, Rosenzweig introduce immediatamente sia il tema dell’assoluto, perennemente cercato dalla filosofia, sia la distinzione tra il sé e il mondo, che si origina proprio nella consapevolezza della finitezza di fronte al nulla della morte. L’uomo si distingue dal mondo in quanto ha consapevolezza di essere vivo; allo stesso tempo, però, l’uomo ha anche consapevolezza che tale vita non è un possesso eterno: con la morte, infatti, il sé torna ad essere una mera cosa del mondo come tutti gli oggetti inanimati. Sono la paura della morte e la consapevolezza del nulla su cui riposa l’esistenza a condurre quindi immediatamente all’affermazione della individualità e della sua irriducibilità ad ogni idea di totalità e di assoluto. L’idealismo invece – ma in generale la tradizione filosofica occidentale – ha esorcizzato la paura della morte rifugiandosi nell’idea di una unità di fondo dell’essere, radicato in un assoluto da cui derivano tutti gli enti particolari, che però ne risultano strutturalmente vincolati, e quindi non ne sono effettivamente e realmente distinti. Dal nulla, secondo un metodo che Rosenzweig, come già Cohen, mutua dalla nozione matematica del “differenziale”, si creano gli enti individuali nella loro specificità, differenziandosi con un movimento che può essere affermativo (affermazione di essere un non-nulla) o negativo (negazione di essere un nulla) o entrambe le cose al contempo. L’elemento affermativo è caratteristico per Rosenzweig di quanto la tradizione filosofica ha concepito come “sostanza” e del logos che la esprime, mentre l’elemento negativo manifesta piuttosto una qualità attiva come la libertà. Il mondo e l’uomo si costituiscono nella propria, rispettiva, specificità in virtù del nulla a cui si contrappongono, così come Dio, che è contemporaneamente sostanza e soggetto, essere e libertà, oggetto e azione, logos e libertà. Se nella prima parte i tre elementi sono visti in modo prevalentemente statico e nelle loro differenze peculiari, nella seconda parte invece se ne analizzano i reciproci rapporti. Ci si apre quindi ad una concezione dinamica, che comprende l’accadere e la storia, l’esperienza nel suo senso più profondo e complesso, e che investe non fatti singoli ed irrelati, ma processi vitali di natura ampia. L’idea chiave per operare il passaggio a questo nuovo tipo di considerazione è la rivelazione, compresa come un movimento essenzialmente interlocutivo, da narrare, e quindi non primariamente concettuale, né direttamente ontologico. La rivelazione permette di spiegare il rapporto tra Dio e il mondo in termini di creazione (di contro alla prospettiva razionalistica di una emanazione logica delle cose dall’uno originario), ossia di correlazione in parte misteriosa tra enti irriducibilmente individuali e finiti e il loro creatore, che ne sorregge in ogni istante l’esistenza sopra il nulla. La creazione, significativamente, è descritta dalla rivelazione biblica come un atto essenzialmente linguistico. Linguisticamente anche il sé si scopre come tale e giunge a differenziarsi dagli altri e a rigenerare continuamente la propria anima. Ma linguisticamente, soprattutto, l’uomo è sempre già aperto al rapporto con gli altri, e dunque alla dimensione della responsabilità e all’etica. Per Rosenzweig la morale non è evidentemente né basata sulla deduzione degli obblighi specifici da leggi universali, né orientata alla realizzazione di un sé chiuso alla relazione. Si tratta piuttosto della risposta che ognuno, singolarmente, nella concretezza 21 20 della propria situazione spazio-temporale, deve offrire alla chiamata e alla parola che sente rivolta a sé. Tale chiamata, comunque, è sempre una chiamata d’amore, e ogni comando è un comando che, per essere etico, deve essere mosso dall’amore. È la comunità, ed in particolare la comunità sorretta dal comandamento dell’amore, l’ambito in cui si rende visibile e concreto il nesso intersoggettivo dei rapporti etici. Ma le due comunità che si fondano e si orientano sull’etica sono, per Rosenzweig, la Sinagoga e la Chiesa. Nella loro diversità, entrambe si strutturano attorno alla rivelazione e sono tra loro in certo modo correlative, non potendo nessuna delle due, singolarmente, esaurire la verità, che è propria solo di Dio. L’ebraismo è la comunità della vita (Leben) eterna, mentre il cristianesimo è la comunità della via (Weg) eterna. La Sinagoga, con la propria vita, rende presente nel mondo l’alterità divina, con cui è in contatto intimo, immediato e diretto, e si contrappone in modo deciso al paganesimo e al mondo che è ancora ignaro del Dio unico biblico. Il popolo ebraico, nel suo complesso, possiede l’unicità di essere già “presso il Padre”. Gli altri, invece, hanno bisogno della mediazione di Cristo per raggiungere il Padre. La Chiesa rappresenta perciò la via di mediazione scelta per tutti gli altri popoli, opera perciò nel mondo e attraverso il mondo, missionariamente, cercando una mediazione con esso. Entrambe le comunità cooperano misteriosamente alla redenzione, sia pure da due prospettive differenti. In entrambe risulta decisiva la dimensione liturgica, come aspetto che rende presente nella vita e nel tempo l’eterno. Nella ripetizione quotidiana, settimanale e annuale dei cicli di preghiera cultuale, la fede rende “ora” l'istante, rende la vita e il tempo pronti ad accogliere l'eternità. Nella sezione finale dedicata alla “porta”, quindi, si apre la contemplazione dell’assoluto, che è in realtà il volto di Dio, al di là delle differenze e delle specificità, e che tuttavia è in sé irraggiungibile ed inafferrabile, ma si scopre sempre attraverso la contemplazione dei volti degli altri uomini. Questo è ciò che svela, in realtà, la figura della stella. Il compito lasciato al lettore, allora, è quello di prendere su di sé la verità del libro e di verificarla – anzitutto nel senso di renderla vera – nella vita quotidiana, attraverso il proprio comportamento. 3.5 Gli scritti tardi Dopo la pubblicazione del volume dedicato a Hegel e lo Stato e della Stella della redenzione, gli anni del dopoguerra sono caratterizzati, secondo quanto si è detto, anzitutto dall’impegno concreto nella fondazione e nello sviluppo del Lehrhaus. Un impegno non accademico, coerentemente con i principi del “nuovo pensiero”. Un impegno direttamente pedagogico, per sfuggire al rischio di autoreferenzialità che spesso l’istruzione superiore, in particolare in ambito filosofico, portava e porta con sé. Un impegno poi direttamente religioso, volto ad una riforma e un ravvivamento della religione stessa che si ponesse al di là della suddivisione sterile tra correnti “tradizionaliste” e “liberali”; e, in ogni caso, un impegno sicuramente “comunitario”, di contro al lavoro spesso solitario e talora alienante del pensiero filosofico classico. 22 21 A questo impegno si accompagna perciò un certo distacco dalla scrittura filosofica, se si prescinde da poche, tuttavia significative, eccezioni. Nel 1925 Rosenzweig scrisse un saggio espressamente intitolato Il nuovo pensiero, in cui si ribadiscono e si riformulano, sinteticamente, i tratti della propria prospettiva. In precedenza, nel 1921, gli era stata commissionata dall’editore Frommann una generica introduzione alla filosofia, che egli intitolò Il libretto dell’intelletto comune sano o malato e che si caratterizza come una difesa appassionata del senso comune, ancora di contro all’astrattezza speculativa. Nel libro (pubblicato postumo, perché Rosenzweig non ne rimase soddisfatto e decise di non darlo alle stampe) si narra la vicenda di una persona che resta completamente paralizzata a seguito del suo porsi domande filosofiche: non muove più un passo per timore che non ci sia fondamento reale su cui poggiarsi, non riesce più ad essere sicuro di nulla di ciò che vede per il timore che tutto sia in verità nient’altro che un sogno, non afferra più nulla non avendone in fondo alcun vero motivo. Si tratta, per Rosenzweig, delle malsane reazioni della filosofia allo stupore che coglie l’uomo nella sua quotidiana esperienza del mondo. Affrontare però tale meraviglia con il senso comune, di cui l’uomo è spontaneamente e naturalmente dotato, e che pervade l’esperienza concreta, dinamica ed essenzialmente temporale della vita, permette di non restarne irretiti. Allo stesso modo, i nomi e il linguaggio utilizzati nella quotidianità si rivelano più efficaci delle definizioni univoche e rigide cercate dalla domanda filosofica per eccellenza: “che cos’è?”. Anche in alcune lezioni di Guida al pensiero ebraico, tenute nel 1921 presso il Lehrhaus, Rosenzweig scrive: «La filosofia non è stata universalmente umana. Universalmente umano è stato, è e sarà il sano intelletto comune. E la filosofia fin dall’inizio lo ha disprezzato». Nel maggio del 1929, infine, poco prima di morire, Rosenzweig scrisse un breve testo, intitolato Fronti scambiati. In queste pagine egli commenta il noto dibattito filosofico che aveva avuto luogo a Davos nel 1929 tra Martin Heidegger e Ernst Cassirer, in cui i due pensatori si erano confrontati attorno all’interpretazione da attribuire al pensiero kantiano e alla Critica della ragion pura in particolare. Cassirer la leggeva – sulla scorta di un’interpretazione fatta propria dal cosiddetto “neokantismo” e quindi anche in particolare da Hermann Cohen, alla cui eredità Cassirer si richiamava – come un’opera di epistemologia, che aveva come scopo fondamentale quello di fornire le coordinate di un pensiero oggettivo e autenticamente scientifico. Heidegger invece vi scorgeva una profonda istanza metafisica, soprattutto nella determinazione della intrinseca finitezza umana, incapace di trascendere la temporalità che strutturalmente caratterizza l’uomo. Commentando questo dibattito, Rosenzweig rinviene una – apparentemente sorprendente – continuità tra la tesi heideggeriana su Kant e le posizioni di Hermann Cohen (in particolare il concetto di “correlazione”). In quello che viene ad essere uno “scambio di fronti”, sono le posizioni di Heidegger, secondo Rosenzweig, ad esprimere al meglio lo spirito del pensiero coheniano. Nell’esperienza del Lehrhaus, così come in quella delle traduzioni, che rappresentano l’impegno intellettuale predominante durante gli anni finali di vita segnati dalla malattia, si possono inoltre osservare l’originalità e la novità che Rosenzweig, 23 22 coerentemente con le prospettive che gli erano offerte dalla sua riflessione, provava ad introdurre. In ambito di insegnamento, ad esempio, era uso del Lehrhaus che i docenti non tenessero corsi solo su argomenti di cui erano esperti, in modo da creare uno stile ed un ambiente autenticamente votato alla ricerca e imperniato su un domandare aperto, senza risposte prestabilite. Per quanto riguarda le traduzioni, invece, Rosenzweig riteneva che si trattasse non tanto di rendere il più fedelmente possibile il testo da tradurre, ma di sfruttare l’effetto di straniamento introdotto da un testo originariamente scritto in un’altra lingua per “ringiovanire” la nuova lingua ed aprirne nuove potenzialità. Questa idea si radica nella prospettiva secondo cui ogni dialogo con un’altra persona è implicitamente una forma di traduzione e richiede quindi disponibilità all’ascolto ed apertura; e sullo sfondo è presente la prospettiva escatologica della necessità di procedere verso la fine della diversità delle lingue. In una lettera del 1917 a Rudolf Ehrenberg, Rosenzweig scriveva: «Tradurre è in linea di principio il fine proprio dello spirito; solo quando una cosa è tradotta essa è stata realmente detta e non può più essere cancellata dal mondo. Solo nella versione dei Settanta la rivelazione è divenuta di casa nel mondo, e finché Omero non ha parlato latino, non era un vero e proprio dato di fatto. Ciò vale anche per la traduzione da uomo a uomo». La traduzione della Bibbia, e quindi l’introduzione di quel messaggio nella cultura e nel linguaggio della contemporaneità, rappresenta dunque il massimo contributo che si può fornire all’unica opera umana più importante, ossia l’opera redentiva. 24 23 Marc Chagall, Mosè davanti al rovento ardente, 1966 4. Attualità della proposta 4.1 Lo sguardo della rivelazione Al di là del significato strettamente speculativo del suo pensiero, Franz Rosenzweig offre una testimonianza vivente di come l’esistenza filosofica sappia contribuire alla crescita e all’edificazione morale e spirituale dell’umanità attraverso una modalità di sguardo che sappia vedere l’esistente in modo radicalmente diverso da chi lo considera un mero oggetto sussistente da possedere e dominare. La via del “nuovo pensiero” apre le porte ad una possibilità nuova nel modo di osservare la realtà non più a partire dall’essere ma dalle relazioni che si stabiliscono fra le persone sulla base della rivelazione come manifestazione dell’amore. In questo senso, la radicale attualità del pensiero rosenzweighiano si mostra nella sua capacità di offrire strumenti ermeneutici adeguati alla comprensione del tempo presente, nel quale spesso la via dell’incontro e del dialogo, in un contesto estremamente plurale, viene accantonata a vantaggio di modalità coatte di convivenza e integrazione. Così Rosenzweig insegna ai nostri giorni, in continuità con la rivelazione biblica, come sia possibile considerare l’altro, il diverso, 25 24 non come un nemico da abbattere o un ostacolo da eliminare quanto piuttosto come una ricchezza che interpella ciascuno come singolo. 4.2 Differenza e relazione Le categorie rosenzweighiane che maggiormente possono fornire un contributo per il contesto storico della globalizzazione e dell’omologazione culturale e identitaria sono forse quelle di differenza e relazione con le quali si riconosce all’essere umano una costitutiva vocazione relazionale. L’altro, mantenuto da Rosenzweig nella sua peculiare differenza ontologica e singolarità, è colui che appella la persona a partire da una distanza. Solo nel mantenimento di questa distanza originaria fra le identità e le culture è possibile allora vivere in quella reciprocità della relazione che non annulla le differenze ma le valorizza mostrandone le potenzialità. Concentrando il “nuovo pensiero” sulla dialettica fra l’ontologia della differenza e il carattere sempre eventuale della relazione, Rosenzweig fornisce ai nostri giorni una via brillante di esercizio di umanità e di dialogo interumano. L’incontro e il dialogo che emergono come nuclei centrali del pensiero della rivelazione fanno l’essere umano un essere di relazione che accoglie l’amore divino nella misura in cui lo restituisce nella forma dell’amore umano e della pace fra gli individui. 4.3 Il mondo plurale e la via del dialogo In un contesto di estrema precarietà dove la differenza sembra opporre barriere e muri di incomprensione e di rifiuto, la riflessione di Rosenzweig può illuminare le decisioni di coloro che sono chiamati a vivere nella pluralità e ad esercitare il dialogo come forma esclusiva della convivenza e del riconoscimento del valore dell’altro. La pluralità, insegna il filosofo, va salvaguardata anche quando le condizioni storiche ne impediscano l’espressione e la vivacità. L’Europa odierna, similmente a quella degli anni vissuti dallo stesso Rosenzweig, vive la contraddizione tra l’istanza dell’accoglienza e il tentativo di marginalizzare le diversità, talora percepite come minaccia e ostacolo; anche all’essere umano di oggi Rosenzweig sembra dire che occorre piuttosto fondare le relazioni sullo sfondo comune di una razionalità condivisa e di un amore che suscita desiderio di incontro e reciproca accoglienza. Non è sempre facile, soprattutto, quando le condizioni di vita esasperano gli ideali offuscandone gli orizzonti autentici; se però l’esercizio universale del dialogo e dell’incontro, sullo sfondo teorico di una filosofia dell’evento e della relazione, risulta un ideale impossibile da realizzare, è tuttavia plausibile vivere, come Rosenzweig ha fatto, l’impegno e la determinazione per rendere ciò che sembrerebbe una mera utopia una via praticabile di umanità. 26 25 Targa dedicata a Franz Rosenzweig a Francoforte 5. Brani antologici 5.1 “Resto ebreo” «Caro Rudi, ti devo comunicare una cosa che ti deluderà e che, inizialmente, perlomeno, ti resterà incomprensibile. Dopo lunga e profonda riflessione sono giunto al punto di ritrattare la mia decisione. Non mi sembra più necessaria e, dunque, nel mio caso nemmeno più possibile. Resto dunque ebreo [...] Il cristianesimo riconosce il Dio dell'ebraismo, ma non come Dio, lo riconosce soltanto come “il Padre di Gesù Cristo”. Esso riferisce sé stesso al “Signore”, ma lo fa perché sa che solo lui è la via al Padre. Egli rimane come Signore presso la sua Chiesa tutti i giorni fino alla fine del mondo. Allora però egli cessa di essere Signore e sarà anch'egli sottomesso al Padre e questi sarà -- allora -- tutto in tutto (1 Cor 15, 28). Ciò che il Cristo e la sua Chiesa significano nel mondo è cosa su cui siamo d'accordo: nessuno viene al Padre se non attraverso di Lui (Gv 14, 6). Nessuno viene al Padre -- è però diverso se uno non ha più alcun bisogno di venire al Padre, perché è già presso di Lui. E questo è il caso del popolo d'Israele (non del singolo ebreo). Il popolo d'Israele, eletto da suo Padre, guarda fisso oltre il mondo e la storia, a quell'ultimo remotissimo punto quando questo stesso suo Padre sarà – “tutto in tutti” -- l'Uno e l'Unico. In quel punto, dove Cristo cessa di essere il Signore, Israele cessa di essere l'eletto; in quel giorno Dio perde il nome con cui 27 26 soltanto Israele lo invoca; allora Dio non è più “il suo” Dio. Fino a quel giorno però è vita di Israele l'anticipare nella professione di fede e nell'azione quel giorno eterno, lo stare come un annuncio vivente di quel giorno, un popolo di sacerdoti, con la Torah, a santificare mediante la propria santità il nome di Dio» (Lettera a Rudolf Ehrenberg del 31 Ottobre 1913, in Gesammelte Schriften, I/1, pp. 132-133). 5.2 La verità solo in parte «Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti a una stessa opera. Egli non può fare a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l'uno all'altro reciprocamente nel modo più stretto. A noi egli diede vita eterna, accendendo nel nostro cuore il fuoco della stella della sua verità. I cristiani li ha posti sulla via eterna, facendoli inseguire i raggi di quella stella della sua verità in ogni tempo fino alla fine eterna. Noi la contempliamo nel nostro cuore, la fedele immagine della verità, ma in cambio ci distogliamo dalla vita nel tempo e la vita del tempo si distoglie da noi. Loro invece camminano seguendo la corrente del tempo, ma hanno la verità soltanto alle loro spalle; vengono, è vero, guidati da essa, poiché seguono i suoi raggi, ma non la vedono con i loro occhi. La verità, la verità intera, non appartiene quindi né a loro né a noi. Infatti anche noi che la portiamo, è vero, dentro di noi, se la vogliamo però vedere, dobbiamo tuffare lo sguardo innanzi tutto nel nostro intimo, e qui noi vediamo sì la stella, ma non i raggi. E la verità intera dovrebbe comprendere non solo il fatto di vedere la sua luce, ma anche ciò che da lei viene illuminato. Loro invece sono destinati a vedere in ogni tempo ciò che è illuminato, ma non la luce. E così entrambi abbiamo soltanto parte alla verità intera. Ma sappiamo però che è essenza della verità essere parte ed essere partecipata, e che una verità che non fosse fatta parte a nessuno non sarebbe verità; anche la verità «intera» è verità soltanto perché è parte di Dio. Così non reca pregiudizio né alla verità né a noi il fatto di avervi e averne solo parte. Visione diretta dell'intera verità viene ad esserci soltanto per colui che la contempla in Dio. Ma questo è un contemplare al di là della vita» (La stella della redenzione, tr. it., pp. 444-445). 5.3 Il “crollo” della scienza e il “mio ebraismo” «Nel 1913 mi accadde qualcosa che, quando devo parlarne, indico con il termine di “crollo”. Mi trovai improvvisamente in un campo di macerie, o meglio, mi resi conto che la strada, fino ad allora percorsa, conduceva all’irrealtà. Era proprio la strada che mi indicava solo il mio talento o forse i miei talenti. Sperimentai così la mancanza di senso di un tale dominio dei miei talenti a cui io passivamente sottostavo. Avevo orrore di me stesso, simile a quello che Köhler sentì in mia compagnia studiando insieme a Friburgo; ricordo come sinistra la mia insaziabile fame di forme, una fame senza scopo, né significato, spinta unicamente da se stessa. Lo studio della storia sarebbe servito solo a 28 27 calmare la mia fame di forme, nient’altro. Tra i frammenti dei miei talenti iniziai a cercare me stesso, tra la molteplicità delle cose l’Uno. Giunsi così (per parlare solo per metafora) a discendere nei sotterranei della mia esistenza, avvicinandomi all’antico scrigno del tesoro della mia vita, che non avevo mai dimenticato; […] finalmente lo avevo trovato un tesoro di mio personale possesso, una cosa ereditata, non presa a prestito. Guadagnandolo avevo guadagnato qualcosa di interamente nuovo, ossia il diritto di vivere e persino quello di avere dei talenti; ora ero io che avevo dei talenti, non loro che avevano me. La cosa essenziale tuttavia è che la scienza non occupa più il significato centrale e che da allora la mia vita è determinata dalla “forza oscura” della quale sono diventato cosciente con il nome di “mio ebraismo”. La piccola, spesso troppo piccola, “esigenza del giorno” come mi si presenta nella mia posizione francofortese – il molto più snervante, insignificante e tuttavia necessario mio essere alle prese con uomini e relazioni – questo e non più lo scrivere libri, pur con ogni contrarietà ad esso connessa, è divenuto il peculiare e amato contenuto della mia vita. Il conoscere non è più un fine in sé. È diventato per me un servizio. Un servizio all’uomo, assolutamente non un servizio alle “tendenze” (non mi fraintenda). Il “tendenzioso” è da me più che detestato, esso è per me impossibile. Il conoscere resta in sé libero; esso non si lascia prescrivere da nessuno le sue risposte. Tuttavia non le sue risposte, ma le sue domande. Non ogni questione valida deve essere interrogata [...] Io interrogo solo là dove io sono interrogato. Sono interrogato da uomini, non da dotti, non dalla “scienza”. Certamente anche nel dotto c’è un uomo che pone domande e che è degno di risposta. All’uomo, non più alla scienza nel dotto, non più a questo spettro insaziabilmente curioso, avidamente vorace che lo possiede, consumato nella sua umanità, non rimane più nulla. Detesto questo spettro come altri spettri. Le sue domande non mi riguardano. Ma le domande dell’uomo sono molto più importanti» (Lettera a Friedrich Meinecke del 20 agosto 1920, in Gesammelte Schriften, I/2, pp. 680-1). Manoscritto di una lettera di Franz Rosenzweig 29 28 5.4 Un pensiero della parola e nel tempo «Questo grande poema del mondo ora viene narrato in tre tempi. Anzi, narrato lo è solo nel primo, nel libro del passato. Nel presente la narrazione cede al colloquio immediato, poiché davanti a persone presenti, si tratti di uomini o di Dio, non si può parlare in terza persona, si può solo ascoltarli o rivolger loro la parola. E nel libro del futuro domina la lingua del coro, poiché anche il singolo abbraccia ciò che ha da venire (das Zukünftige) solo se e solo là dove egli può dire “noi”. Così il nuovo metodo scaturisce dalla temporalità del nuovo pensiero [...] In luogo del metodo del pensare, così come è stato costituito da tutta la filosofia precedente, entra in campo il metodo del parlare. Il pensiero è senza tempo, vuole esserlo, vuole porre mille collegamenti in un sol colpo; l’ultimo, l’obiettivo, è per lui il primo. Parlare è legato al tempo, si nutre di tempo, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia che siano gli altri a dargli la battuta. Vive soprattutto della vita di altri, siano essi l’uditore della narrazione, l’interlocutore del dialogo o il membro del dialogo, mentre il pensare è sempre solitario, anche se avviene in comune tra più persone che “stanno filosofando in comune”: anche allora l’altro mi muove solo quell’obiezione che io mi sarei potuto porre da solo [...] Avere bisogno di tempo significa non poter anticipare nulla, dover attendere tutto, per ciò che è proprio essere dipendenti dagli altri. Per il pensatore pensante tutto ciò è assolutamente impensabile, mentre corrisponde a pieno al “pensatore della parola.” “Pensatore” del parlare: perché naturalmente anche il nuovo pensiero, il pensiero che parla, è un pensiero; così come il vecchio, il pensiero pensante, non avveniva senza un interno parlare. La differenza tra pensiero vecchio e nuovo, tra pensiero logico e pensiero grammaticale, non consiste nell’esprimersi a voce alta o a bassa voce, bensì nel bisogno dell’altro o, che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo; da un lato, pensare significa non pensare per nessuno e non parlare a nessuno (e se a qualcuno suona meglio, al posto di nessuno si può anche mettere tutti, la famosa “collettività”); parlare invece significa parlare a qualcuno e pensare per qualcuno, e questo qualcuno è sempre ben preciso, e non ha soltanto orecchie, come la collettività, ma ha anche una bocca» (Il nuovo pensiero, tr. it., pp. 270-1). 30 29 Bibliografia essenziale in italiano Opere di Franz Rosenzweig: v Hegel e lo Stato, a cura di Remo Bodei, Il Mulino, Bologna 1976; v Il nuovo pensiero, a cura di G. Bonola con un commento di G. Scholem, Arsenale, Venezia 1983; v La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985; nuova edizione, Vita e Pensiero, Milano 2013; v Teologia ateistica, a cura di L. Farulli, in «La Politica» 3-4, 1985, pp. 87-102; v La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, a cura di G. Bonola, Città Nuova, Roma 1991; v Dell’intelletto comune sano e malato, a cura di G. Bonola, Reverdito, Trento 1997; v (con M. Buber), Amicizia nella parola. Carteggio, a cura di N. Bombaci, Morcelliana, Brescia 2011. Letteratura secondaria: v E. Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2002; v S. Campanini, La Stella di Davide. Storia di un simbolo, Giuntina, Firenze 2013; v B. Casper, Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber, trad. it. di Emanuele S. Zucal,Luzzati, Morcelliana, Brescia 2009; “La festa di Succoth”, 2002 v F. P. Ciglia, Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, Cedam, Padova 1999; v F. P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme. Il «nuovo pensiero» di Franz Rosenzweig, Marietti, Genova-Milano 2009; v A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia nel pensiero di Franz Rosenzweig, Marietti, Genova 1990; v A. Fabris (a cura di), Il pensiero ebraico nel Novecento, Carocci, Roma 2015; v I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma 2002. 32 30 32 Bibliografia essenziale in italiano Opere di Franz Rosenzweig: v Hegel e lo Stato, a cura di Remo Bodei, Il Mulino, Bologna 1976; v Il nuovo pensiero, a cura di G. Bonola con un commento di G. Scholem, Arsenale, Venezia 1983; v La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985; nuova edizione, Vita e Pensiero, Milano 2013; v Teologia ateistica, a cura di L. Farulli, in «La Politica» 3-4, 1985, pp. 87-102; v La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, a cura di G. Bonola, Città Nuova, Roma 1991; v Dell’intelletto comune sano e malato, a cura di G. Bonola, Reverdito, Trento 1997; v (con M. Buber), Amicizia nella parola. Carteggio, a cura di N. Bombaci, Morcelliana, Brescia 2011. Letteratura secondaria: v E. Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2002; v S. Campanini, La Stella di Davide. Storia di un simbolo, Giuntina, Firenze 2013; v B. Casper, Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber, trad. it. di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 2009; v F. P. Ciglia, Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, Cedam, Padova 1999; v F. P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme. Il «nuovo pensiero» di Franz Rosenzweig, Marietti, Genova-Milano 2009; v A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia nel pensiero di Franz Rosenzweig, Marietti, Genova 1990; v A. Fabris (a cura di), Il pensiero ebraico nel Novecento, Carocci, Roma 2015; v I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma 2002. 32 31 Centro Stampa – Sapienza Università di Roma