In copertina e a p. 4: Edward Bond sul palcoscenico del Théâtre de la Colline di Parigi nel
luglio 2006, nel set di Jacques Gabel per Chaise messa in scena da Alain Françon, per
gentile concessione di David Tuaillon.
A p. 6: Edward Bond nella sua casa di Orchard Way, nel Cambridgeshire nel dicembre 2007,
per gentile concessione di Eamonn McCabe.
Il presente volume è pubblicato in occasione del progetto Linee di confine che comprende
l’allestimento dell’opera Lear di Edward Bond nella traduzione di Tommaso Spinelli e per
la regia di Lisa Ferlazzo Natoli. Linee di confine è un progetto a cura de lacasadargilla.
EDWARD BOND
La parola al drammaturgo
Conversazioni con David Tuaillon
ISBN 978-88-8347-821-5
Dall’originale francese: Edward Bond. Entretiens avec David Tuaillon,
Archimbaud/Les Belles Lettres
© 2013 LES BELLES LETTRES, Paris
Prima edizione italiana: novembre 2015
© 2015 sillabe s.r.l.
Tutti i diritti riservati
Direzione editoriale: Maddalena Paola Winspeare
Supervisione: Tommaso Spinelli
Progetto grafico: Susanna Coseschi
Redazione: Giulia Bastianelli
Con la collaborazione di:
Arcadia & Ricono
Direzione editoriale: Anna Ashton Parnanzini
Redazione: Chiara Ciani, Marta Papola
Traduzione: Lucia Morciano
Con il contributo di lacasadargilla
sillabe
7 Conversazioni con Edward Bond
di David Tuaillon
17 L’unica cosa che Shakespeare non fa mai è disperarsi
33 La cosa terribile del male non è che sia banale ma che sia domestico 51 La lingua è una piovra dai mille tentacoli
71 È in questi spiragli la possibilità di essere liberi
89 La verità può anche essere brutta, ma il desiderio di verità è sempre meraviglioso
107 Gli oggetti sono persone
125 Il tavolo di cucina e i confini dell’universo
145 La realtà non può essere concreta finché non ti comunica il suo significato
163 Nessuno sa affrontare l’innocenza
183 Epilogo. Il palcoscenico siamo noi
188 Elenco delle opere di Edward Bond
191 Indice analitico delle opere citate CONVERSAZIONI CON EDWARD BOND
di DAVID TUAILLON
7
La casa è di dimensioni piuttosto modeste e si nasconde nel cuore di un betulleto nel Cambridgeshire, nella campagna più vicina all’ideale di serenità seppur
ingannevole, poiché lì sembra che tutto cambi affinché niente cambi – o è il
contrario? A un capo dell’unica strada che attraversa il bosco si raggiunge una
delle più corpose concentrazioni di conoscenza del mondo, l’immenso complesso dell’Università di Cambridge coi suoi gotici palazzi all’antica; all’altro capo
cominciano le Fenland, questa indeterminata area preistorica dove la terra non
è riuscita a prevalere del tutto sul mare. Nell’Era Neolitica gli uomini vi hanno
lasciato delle tracce, e altrettanto hanno fatto romani e templari. Nelle vicinanze si innalza Fleam Dyke, quella parete di terra battuta eretta dai sassoni per
proteggersi dai bretoni durante il caos dei secoli bui che seguirono la ritirata dei
romani, e che oggi assomiglia più a un gigantesco cumulo di terra che attraversa
i campi. In prossimità vi sono numerose basi USA che hanno ospitato i bombardieri nucleari della NATO durante la Guerra Fredda, un tempo prima linea
del grande movimento pacifista degli anni Ottanta, adesso nient’altro che terra
di scarto mescolata a macerie di cemento.
È qui che Edward Bond si è stabilito nei primi anni Settanta, quando il successo della sua prima pièce gli concesse il lusso di allontanarsi dal trambusto di
Londra – nonché di architettare un ritorno alla sua terra d’infanzia. I vicini lo
chiamavano “l’ultimo uomo del paese”. Tuttavia, non lo fu a lungo: primo perché fu subito raggiunto da Elisabeth, una donna che veniva dal cuore del continente per condividere con lui la vita, e continua a farlo da allora – e che ora
sembra il Penate della casa; secondo, perché fin dal suo arrivo i due “villaggi”
(il grande” e il “piccolo”) tra cui si erge la casa sono diventati centri residenziali
imborghesiti, piuttosto facoltosi e senza storia, ad eccezione delle basi delusorie
che il denaro può offrire, così che anche le fattorie più antiche coi loro muri
imbiancati e i tetti di paglia impeccabilmente pettinata sono diventate troppo
iconiche per sembrare genuine.
da chiedersi cosa spinga esattamente i media a continuare a utilizzare questa frase, inevitabilmente associata a lui. Se non fosse per una cosa. Come tutti coloro
che digitano il suo nome su internet possono presto scoprire, Edward Bond è
l’(im)popolare autore di Saved, icona mondiale e scandaloso dramma della fine
degli anni Sessanta1 che contribuì a infliggere il colpo di grazia alla censura a
teatro2 nel Regno Unito (l’opera successiva di Bond, Early Morning, detiene in
realtà la discutibile particolarità di essere stato l’ultimo dramma bandito in toto
nel Regno Unito), un cinquantennale storico che la pubblicazione di questo
libro intende celebrare.
Una reazione incredibile che ha garantito al suo lavoro ampia visibilità e presenza
per anni, virtualmente in ogni campo delle arti performative3, così come il legame stretto e durevole con le istituzioni più importanti del teatro inglese al loro
apogeo – il Royal Court dal 1965 al 1975, la Royal Shakespeare Company dal
1977 al 1985 e il National Theatre dal 1978 al 1982 – hanno profondamente
iscritto il nome di Bond nella storia del teatro inglese, soprattutto in quello che
probabilmente verrà visto come l’apice del ventesimo secolo4. Nell’opinione
pubblica, invece, ciò tende a circoscrivere il suo lavoro a quel periodo preciso,
oscurandone lo sviluppo sincero e concreto per oltre cinquant’anni. Bond ha
scritto, pubblicato e visto rappresentare (alle volte dirigendole egli stesso)5 non
meno di cinquantadue pièce fin dal 1962, la metà delle quali dopo il 1990, che
è molto di più del singolo Saved, esso stesso molto più di un semplice dramma
bandito del 1960.
Bisogna ammettere che già da tempo le opere di Bond non trovano la strada per
il palcoscenico inglese. Indubbiamente vengono pubblicate tutte6, ma in Gran
Bretagna si cercherebbero invano negli ultimi due decenni opportunità di vedere
l’opera attuale7 di questo drammaturgo (più facile vedere piuttosto allestimenti
di drammi di quaranta o cinquant’anni fa, per quanto siano ancora attuali) così
come dovrebbe essere – ovvero rappresentata su un palco, supportata da condizioni produttive decenti – per non parlare della scarsa attenzione al vero scopo
delle pièce, come viene amaramente rivendicato dall’autore.
L’inversione di tendenza culturale non è l’unica cosa da biasimare per questa
percezione così sproporzionata. è anche il risultato della scelta dello stesso Bond
di disertare dalle arene negli anni Ottanta. Sempre più insoddisfatto dal trattamento delle sue opere da parte di attori e registi, incapace di imporsi come
regista delle proprie pièce, dopo aver interrotto le disastrose prove dei suoi War
Plays alla Royal Shakespeare Company, nel 1985 Bond ha letteralmente voltato le spalle al teatro moderno del proprio paese e ad eccezione di rare e sempre
frustanti eccezioni, è rimasto lontano dalle prestigiose istituzioni teatrali in cui
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Per più di quarant’anni la casa si è lasciata inghiottire dalla vegetazione del suo
vasto e lussureggiante giardino. Giardino che ospita anche una piccola, insolita e
inerte comunità di statue, regali di amici artisti o improbabili pezzi d’antiquariato
racimolati qua e là; troppo sghembe, mutilate o consunte dal verde per poter essere pompose, ma che invece sembrano dormire lì in pace, tra i cespugli e i cedui,
come una qualche archeologia dimenticata. Convivono con una moltitudine di
uccelli di ogni tipo, tra cui i pavoni. Ebbene sì, pavoni veri – probabilmente fuggiti da una di quelle residenze oltraggiosamente ricche che circondano il vicino
ippodromo di Newmarket e che ora si sono stabiliti in nuovi quartier generali
sotto la propria autorità. Con quell’andatura strisciante, fluente e silenziosa,
da cauto pattinatore, l’improvviso paupolare che suona sempre un po’ ironico,
l’inaspettata apparizione maestosa e al contempo grottesca tra gli alberi o nella
cornice di una finestra, danno il tocco finale all’atmosfera straordinariamente
irreale e in un certo senso flemmatica di questo luogo.
Appena entrati in casa, ci si accorge immediatamente che non è altro che la materializzazione della vita dei suoi due abitanti – inclusa l’aria leggermente caotica. Al primo piano, mezzo dedicato al lavoro, adiacente alla biblioteca e al suo
fenomenale disordine, si nasconde uno studio da scrittore, saturo di tomi, fogli
e foto, ma totalmente aperto alla luce e al fogliame del giardino. Il bagliore bianco e astratto che inonda la stanza, tanto quanto il silenzio spesso e dominante,
disturbato solo dagli occasionali richiami dei pavoni, enfatizzano la sensazione
palpabile che regna nel posto, l’essere isolati dal mondo. È in questa stanza angusta caldamente imbottita dalla vita muta della natura immobile che la isola da
qualunque violenza e volgarità esterna, nucleo di questo ambiente infinitamente
pacifico, col suo lento e tranquillo ritmo bucolico che giorno dopo giorno, dopo
aver dato da mangiare agli uccelli, Edward Bond – con una grande tazza di caffellatte in mano – si accomoda e racconta con urgenza l’inferno dei nostri tempi.
È questo lo spirito del luogo, del sito*, in cui si son tenute la maggior parte delle
interviste che state per leggere.
Questa paradossale discrepanza tra la necessità di scrivere sul mondo e il fisico
rifuggire dallo stesso, nelle profondità di una casa protetta da una magnifica remota campagna senz’età, rispecchia anche inconsciamente la situazione attuale
di Bond nel teatro contemporaneo. Caratterizzata da un estremo coinvolgimento
nella scrittura drammaturgica ma anche da un’intensa esplorazione di ciò che il
teatro è e può essere oggi, nonostante per decenni si sia allontanato fisicamente
dai palcoscenici istituzionali.
Oggi Bond è unanimemente celebrato come “uno dei più grandi drammaturghi
esistenti” e al tempo stesso ignorato nel proprio lavoro pratico, al punto che viene