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Commento sentenza Tribunale di Forlì n. 28 del 28.1 –10.3.2005
Nel leggere le motivazioni delle sentenze spesso si evidenziano spunti di riflessione inimmaginabili
al primo approccio. E’ il caso della sentenza in esame. Il Tribunale di Forlì deve decidere se la
condotta tenuta dalla direzione di un circolo scolastico e del personale ivi addetto, possa configurare
un caso di vessazioni sul luogo di lavoro tali da comportare il risarcimento del danno. La decisione
è in senso positivo. Il Tribunale evidenzia come il comportamento complessivo, e non le singole
azioni, possano aver generato una situazione di grave turbamento psichico nella ricorrente, peraltro,
già affranta da altra situazione analoga, subita in precedenza in altro distretto, che aveva
determinato una sindrome depressiva. La sentenza in prima istanza ben motivata in merito
all’esame dei fatti e delle risultanze probatorie non lascerebbe spazio al dibattito ma a ben vedere
solleva almeno due questioni: innanzi tutto il Tribunale è contestualmente chiamato a decidere su
un ricorso d’urgenza diretto ad inibire un atto del ministero che vorrebbe estromettere la ricorrente
dal lavoro per intervenuta decorrenza del periodo di comporto, in secondo luogo il tribunale
definisce <<indennizzo>> la somma da corrispondersi per i danni subiti dalla lavoratrice a seguito
del mobbing subito in quanto <<trattandosi di danni non patrimoniali non siamo in ambito
risarcitoria ma in quello dell’indennizzo, trattandosi di lesioni non suscettibili di valutazione
patrimoniale quali i beni materiali>> così testualmente in motivazione.
Sul ricorso ex art. 700 c.p.c. il Tribunale nulla decide, perché all’atto di cui si chiedeva l’inibitoria
ne succedeva un altro, in corso di causa, che determinava il licenziamento della ricorrente. Ora, non
è indifferente determinare se il mobbing possa essere malattia professionale, anche se un recente
comunicato ARAN (pubblicato su supplemento ord. n. 109 G.U. 15.6.2004 n. 138) l’agenzia per
l’impiego garantisce la conservazione del posto di lavoro solo in caso d’infortunio e non anche per
le malattie generate da cause di servizio. E’ pur vero però che in molti contratti del settore privato la
malattia professionale è equiparata all’infortunio sul lavoro e ad essa si applica l’intera disciplina ivi
compreso l’istituto della conservazione del posto di lavoro sino alla cessazione della malattia stessa.
Il mobbing è indubbiamente una causa scatenante disturbi psico-fisici che meglio si definiscono
quale sindrome depressiva ansiosa, una vera e propria malattia causata nell’ambito lavorativo e
censurabile ai sensi dell’art. 2087 c.c. La giurisprudenza ha, negli ultimi anni, riconosciuto il danno
nascente da comportamenti che potremmo definire mobbing, ampliando il riconoscimento del
danno biologico (o del danno esistenziale) fino a far assurgere la lesione dell’integrità psicofisica a
ruolo centrale per la tutela dei diritti della personalità del lavoratore. L'ampiezza e diffusione del
fenomeno portano in superficie la questione dell’incidenza delle vessazioni aziendali sui costi
sollecitando una presa di posizione dall’istituto assicuratore delle malattie professionali e degli
infortuni sul lavoro, circa la necessità di verificarne la risarcibilità nell’ambito assicurativo.
E’ recente l’inclusione con provvedimento del 13.12.2004 della sindrome derivante da mobbing tra
le malattie professionali che possono trovare riconoscimento dall’INAIL.
In effetti, il Tribunale di Torino con sentenza dello scorso anno nega la legittimazione passiva al
datore di lavoro nell’ipotesi di richiesta di risarcimento del danno biologico per mobbing poiché in
prima istanza dovrebbe essere tenuto l’istituto assicuratore al risarcimento e solo residualmente il
datore di lavoro per gli altri danni non liquidati dall’indennità dell’INAIL.
Le conseguenze cliniche di un lungo periodo di vessazioni (secondo la letteratura in materia di
mobbing i maltrattamenti debbono avere almeno la durata di sei mesi) possono essere quelle proprie
della sindrome da stress, o meglio disturbo post traumatico da stress. Perché il patema d’animo,
l’alterazione dell’umore abbia rilievo ai fini medici è necessario che il disturbo si manifesti in forme
e modi tali da costituire una vera e propria malattia anche se temporanea. Le conseguenze del
mobbing derivando da un trauma si concretizzano in un disturbo che può, anzi normalmente giunge
a guarigione, diversamente dalla sindrome più grave Disturbo Post Traumatico da Stress che
tendenzialmente cronicizza. Allo stato attuale di ricerca sociologica e scientifica, anche a voler
ignorare le voci che inducono a negare l’esistenza del fenomeno o perlomeno invitano alla cautela
negli allarmismi, non è ancora stato verificato se i sintomi denunciati da persone soggette a periodi
lunghi, ed almeno superiori sei mesi, di azioni persecutorie nell’ambito del lavoro, possano essere
ascritti ad una malattia psichica minore già codificata o ad una malattia del tutto nuova. Il soggetto
mobbizzato va incontro ad un lungo periodo di malessere diffuso, e d’assenze dal lavoro per
malattia, seguito da disturbi psicosomatici. Il sistema introdotto dalla sentenza della consulta
confermato in primis dal D. Leg. n. 38/200 che riconosce l’esistenza di malattie non tabellate, e la
giurisprudenza di merito e di legittimità che ha dato concretezza alla possibilità di tutela per le c.d.
malattie comune contratta in occasione e a causa del lavoro sono fattori che inducono a ritenere che
la malattia derivante da mobbing sia malattia professionale anche se necessitano statistici e medicolegali per chiarire le caratteristiche della malattia e i fattori di rischio. Il d. leg. 38/2000 prevede
l’istituzione di una commissione scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica dell’elenco
delle malattie professionale che può avvalersi d’istituti ed enti di ricerca. L’Istituto Nazionale
Assicurazione Infortuni sul Lavoro che ai sensi dell’art. 10 co. 4 d.lg. 38/2000 ha inserito negli studi
delle nuove patologie le sindromi nascenti da mobbing ha emesso il provvedimento prima citato
stabilendo che: <<………………………………………………
Il danno da mobbing è stato definito anche da recenti sentenze di merito quale danno esistenziale e
in altre parole danno che si ripercuote negativamente sulla vittima alterando la sua vita di relazione,
l'integrità morale, la capacità di crescita lavorativa e via discorrendo. Il danno esistenziale, frutto
della recente elaborazione giurisprudenziale e dottrinale è dunque definito come danno alla vita di
relazione in contrasto con parte della dottrina che riporta tale tipo di danno al danno biologico,
secondo quella tendenza a far rientrare ogni componente del danno non patrimoniale nella nozione
di danno biologico, ivi comprese, le lesioni a diritti della persona diversi dal diritto alla salute. E’
fuor di dubbio che il danno biologico nella giurisprudenza della S.C. è danno alla salute sia esse
psichica che fisica ben diverso dal danno conseguente all’impossibilità di vivere la vita così come il
soggetto la percepiva prima dell’evento dannoso anche indipendentemente dall’esistenza di
un’invalidità alla persona, indispensabile invece perché sussista il danno biologico. Il danno
esistenziale verrebbe a rendere effettiva la tutela predisposta dall’ordinamento ai valori della
personalità purché riconosciuti dalla carta costituzionale e pertanto in sintonia con la riserva di
legge immaginata dall’art. 2059 c.c. Il sistema che ne scaturisce, tripartito danno morale,
patrimoniale ed esistenziale, chiarisce e integra il principio del neminem laedere armonizzando le
disposizioni ex art. 2043 e 2059 c.c.. In tale contesto a riprova dell’esistenza nell’ordinamento di un
principio generale di risarcibilità dei danni esistenziali si può invocare proprio l’art. 2087 c.c. là ove
tutela <<l’integrità morale del lavoratore>>.
Il Tribunale di Forlì nella sentenza in commento liquida una somma a titolo di danno biologico per
il periodo di durata dei maltrattamenti e una somma a titolo di danno esistenziale il tutto con un
criterio svincolato dal parametro retributivo (al quale la giurisprudenza di merito normalmente si
richiama) ed escludendo <<ogni profilo di personalizzazione nella liquidazione del danno perché
valori quali la dignità lavorativa non possono dipendere da riferimenti personali, ma, in un contesto
di valutazione indennitaria, riguardare solo situazioni astratte>>.
Ora, la distinzione tra risarcimento del danno ed equo indennizzo si evidenzia soprattutto in tema
d’atti leciti della p.a. ma lesivi di diritti o interessi protetti e d’atti illeciti della p.a. che incidono
negativamente sui cittadini. Da qualche tempo in dottrina e in giurisprudenza si discute del diritto al
risarcimento dei danni a favore di cittadini lesi da attività illegittima della p.a. In proposito è
opportuno citare la norma di cui all’art. 35, d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, che consente la proposizione
d’azione di danno in uno con il ricorso per l’annullamento dell’atto illegittimo e la sentenza C. cost.
25 maggio 1999 n. 179, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli
art. 7 n. 2-4, e 40, l. 17 agosto 1942 n. 1150, e 2 comma 1, l. 19 novembre 1968 n. 1187, nella parte
in cui consente all'amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati
all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità assoluta, senza la previsione d’indennizzo. Si
tratta di una sentenza creativa di diritto, per effetto della quale deve ritenersi come un dato acquisito
al diritto positivo che nel caso di reiterazione di vincoli di natura espropriativa o d’inedificabilità
assoluta nasce l’obbligo d’indennizzo perché l’atto incide sostanzialmente sul diritto di proprietà.
Viceversa alla reiterazione illegittima degli stessi vincoli consegue un obbligo di reintegrazione
della situazione soggettiva lesa, che meglio dovrebbe definirsi risarcimento e non indennizzo perché
conseguenza di un comportamento lesivo e ingiusto. L’indennizzo, dunque, interviene a
compensare una perdita del singolo a fronte di un atto legittimo della p.a. mentre il risarcimento ha
funzione riparatoria e discende da una condotta contraria all’ordinamento.
L'obbligazione d’indennizzo è prevista da numerose norme codicistiche difficilmente riportabili alla
medesima fattispecie. Si parla d’indennizzo nei casi d’espropriazione, artt. 834 c.c. e segg., in caso
di costruzione su fondo altrui con materiali propri art. 937 c.c., in caso d’avulsione art. 944,
miglioramenti apportati dall’usufruttuario art. 985 c.c., nelle ipotesi di servitù coatte, fondi
interclusi, comunione d’edifici, artt. 1032 e segg. c.c. – 1137 c.c.. In particolare si possono ricordare
le indennità ex art. 2045 c.c , stato di necessità, dovute al danneggiato la cui misura è rimessa
all'equo apprezzamento del giudice, o ex art. 2047 c.c. per danni causati dall’incapace che può
essere condannato a versare un’equa indennità. In tale ipotesi il legislatore pone una chiara
distinzione tra l’obbligo al risarcimento del danno da parte di colui che doveva sorvegliare
l’incapace e non l’ha fatto compiendo, pertanto, un’azione censurabile e l’incapace che è tenuto
solo al versamento di un indennizzo in considerazione anche della sua situazione economica.
Altrettanto l’art.1589 c.c. limita la responsabilità del conduttore in ipotesi di cosa distrutta da un
incendio <<alla differenza tra l’indennizzo corrisposto dall'assicuratore e il danno effettivo>>. Le
ipotesi in cui il legislatore parla d’indennizzo o indennità non possono riportarsi ad unica fattispecie
ma sicuramente è possibile in tali casi richiamare una responsabilità per fatto lecito o fatto dannoso
ma comunque lecito. L’indennizzo perciò ha funzione e struttura diversa dal risarcimento del
danno. Non è perciò possibile pensare che il ristoro del danno esistenziale possa essere considerato
un indennizzo. Se fatto illecito vi è stato a sanzione non può che essere il risarcimento del danno.
Neppure da tale considerazione può farsi discendere la necessità di corrispondere una somma
predeterminata e svincolata del tutto dalla realtà processuale. Il danno liquidato per essere effettivo
deve rimanere vincolato ai fatti di causa e la <<personalizzazione del danno>> è un principio più
volte ribadito dalla S.C. in tema di danno biologico che deve essere applicato anche al danno
esistenziale. Così procedendo dovremmo concludere che il risarcimento dei danni per ogni singolo
reato deve essere prestabilito in astratto senza nessun riferimento alla gravità del reato, alle modalità
d’esecuzione dello stesso, alle condizioni della vittima, alle conseguenze immediate e successive
dello stesso e via dicendo.
Ancora una volta si deve concludere che la componente più complessa delle sentenze in tema di
risarcimento del danno (esistenziale e non) è la quantificazione del danno stesso, dei criteri e delle
modalità di calcolo.
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