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ANNICK MAGNIER, PIPPO R USSO
Sociologia dei sistemi urbani
Introduzione
1. Città e sistema urbano
2. Sociologia urbana e sociologia
3. Articolazione e contenuti del testo
I.
Tra città e sistema urbano
1. La città invincibile
2. Una seconda rivoluzione urbana
3. Sistemi sociali, sistemi urbani
II.
La descrizione sociologica dei sistemi urbani
1.
2.
3.
4.
Autonomia
Stili di vita
Morfologia
Struttura di potere
III. Comunità e società urbana
1.
2.
3.
4.
Il concetto di comunità nelle scienze sociali
Dall’area naturale al quartiere
Capitale sociale, «civicness» e città
Città e modelli di cittadinanza
IV. Globalizzazione e «glocal»
1. Globalizzazione: un concetto controverso
2. Processi di globalizzazione e protagonismo dei territori
3. Le città come attori competitivi
V.
Sistemi urbani come sistemi politici
1. Decentramento e «multi-level governance»
2. Le culture del mutamento urbano
3. Le culture della pianificazione
VI. Le nuove politiche urbane
1. Sicurezza-prevenzione
2. Ambiente-sostenibilità
3. Comunicazione-consultazione
VII. L’agire architettonico
1.
2.
3.
4.
L’architettura come professione
La sociologia nella progettazione
Pratiche spaziali e logiche di progetto
Critica e progetto
Riferimenti bibliografici
Indice analitico
8
INTRODUZIONE
Introduzione
1. CITTÀ E SISTEMA URBANO
Dopo un lungo periodo di sostanziale stabilità nel rapporto fra territori e strutture
istituzionali tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio degli anni Ottanta,
l’ultimo scorcio del XX secolo e l’inizio del nuovo hanno coinciso con una fase di
profondi mutamenti. La fine dell’equilibrio bipolare, i processi di globalizzazione e la
compressione del rapporto spazio/tempo nella circolazione di persone, merci e
informazioni hanno determinato una radicale trasformazione che non sempre gli attori
istituzionali tradizionali (in primo luogo i governi nazionali) sono stati in grado di
governare. Una trasformazione che a livello territoriale ha investito in pieno la struttura
preesistente, mettendo in discussione la tradizionale filiera istituzioni sovranazionali –
stato nazione – regioni – livello subregionale o provinciale – singola unità urbana.
Questa filiera è stata frammentata in una serie di istanze territo- riali che agiscono
secondo gradi diversi di autonomia e secondo una logica di aggregazione che infrange
le appartenenze consolidate e ne sperimenta di nuove.
Per quanto concerne l’oggetto del presente volume – la dimensione urbana dei sistemi
sociali – risulta ormai evidente l’inefficacia del ter- mine «città» per designare una vasta
gamma di processi, funzioni, significati e attori a livelli territoriali diversi. La nozione di
«sistema urbano» ci è parsa più adeguata a descrivere i mutamenti avvenuti a quel livello
territoriale che un tempo si sarebbe definito «periferico», e che oggi assume una nuova
autonomia e un nuovo protagonismo. Se gli attori locali tradizionali (regioni, province,
comuni) acquistano una crescente influenza politica, non permettono di comprendere
l’insieme dei fenomeni territoriali più recenti. La nozione di sistema urbano risponde a
questa esigenza di confronto con una realtà fatta di attori e processi, alcuni tradizionali,
altri più scarsamente strutturati, inclini a ridisegnare continuamente coalizioni, strategie e
finalità.
8
INTRODUZIONE
Il carattere innovativo del concetto di sistema urbano consiste in particolare nella diversa
valenza dell’idea di «confine». Un sistema urbano, infatti, non può prescindere
dall’individuazione di una collocazione spaziale. Ciò che caratterizza i sistemi territoriali
cui si fa riferimento nel testo è però il fatto che i loro confini hanno un carattere mobile ed
elastico, continuamente soggetto a trasformazione.
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INTRODUZIONE
2. SOCIOLOGIA URBANA E SOCIOLOGIA
Il rapporto della sociologia generale con la sociologia urbana si distingue in modo netto da
quello con le altre sociologie specializzate. In questo caso, infatti, non ci troviamo di fronte
al rapporto gerarchico fra disciplina-madre e sub-disciplina, con la prima che fornisce alla
seconda il quadro teorico e i principali strumenti concettuali; al contrario, siamo in presenza
di una relazione peculiare che assegna alla sociologia urbana un ruolo fondante della
sociologia generale. Il sorgere della città moderna segna infatti una tappa decisiva nel
supera- mento dalle società tradizionali, superamento che è il focus della socio- logia classica.
L’interesse per il fenomeno urbano, dunque, consegue anzitutto dal fatto che la città è un
fattore di emancipazione rispetto agli ordini sociali tradizionali e alle loro espressioni
territoriali.
«L’aria della città rende liberi», ricorda Weber ne La città [1920]. E per molti sociologi,
nella fase di affermazione accademica della disciplina, la «grande città» come ambito sociale
di particolare complessità e di estrema differenziazione, nelle sue potenzialità e nelle sue
patologie, svela meccanismi e conseguenze del processo di modernizzazione. In questa fase
fondativa – cui Weber e Tönnies, Simmel e Durkheim danno contributi che vedremo più
avanti – si gettano appunto le basi della sociologia.
Cent’anni dopo, le patologie metropolitane – povertà, conflittualità, violenze, malattie,
degrado ambientale – riaprono in qualche modo per la sociologia le prospettive analitiche più
classiche nella storia della disciplina. Ai «fatti sociali formati nello spazio» [Bagnasco 1994],
spa- zio metropolitano in primo luogo, ma non solo, tornano ad interessarsi i maggiori
sociologi occidentali, mentre la sociologia delle città e dei territori esce di nuovo dai confini di
sub-disciplina nei quali si era raccolta nelle fasi di intenso sviluppo empirico, fra le quali
spiccano l’esperienza della Scuola di Chicago tra le due guerre [Park et al. 1925] e il
variegato filone di studi di matrice marxista che caratterizzò il panorama intellettuale degli anni
Sessanta-Settanta [Katznelson 1982].
3. ARTICOLAZIONE E CONTENUTI DEL TESTO
All’interno del quadro di riferimento tratteggiato, abbiamo individuato sette argomenti chiave
per la lettura dei processi territoriali contemporanei: a ciascuno di essi è stato dedicato un
capitolo del testo.
- Il primo capitolo discute il passaggio dalla città al sistema urbano, interrogandosi sulle
ipotesi di «scomparsa della città» come attore collettivo e modello territoriale.
- Adottato il concetto di sistema urbano come chiave di lettura dei processi territoriali
innovativi (modelli di aggregazione, costruzione di coalizioni, classificazione degli attori e delle
strategie), si delineano nel secondo capitolo gli scenari attuali.
- Il terzo capitolo recupera uno dei concetti sociologici classici, quello di comunità, per
verificarne l’attualità. Applicato alle realtà locali, esso torna utile per analizzare i persistenti
fenomeni di particolarismo territoriale, i vincoli identitari che legano gli attori al territorio di
riferimento e le reti di relazioni informali che si sostituiscono ai legami formali- istituzionali.
- Il quarto capitolo è dedicato all’impatto dei processi di globalizzazione sulle realtà locali,
sulle logiche di azione degli attori territoriali e sulla struttura dei loro rapporti di
sovraordinazione e subordinazione. Si delinea così il quadro di quei processi che vengono
definiti di «glocalizzazione», basati sul superamento della vecchia relazione centroperiferia e sull’assunzione di quella emergente globale-locale.
- Il quinto capitolo è dedicato ai tratti fondanti di organizzazione politica che condizionano la
gestione dei sistemi urbani. Esso discute in particolare, nei suoi aspetti salienti dal punto di
vista sociologico, la congruenza delle trasformazioni istituzionali e culturali che attraversano i
paesi dell’Unione europea nel processo di integrazione.
- Lo stesso tema è affrontato nel sesto capitolo in un’altra prospettiva: l’analisi dei modelli di
intervento in alcune policy areas che si segnalano per una nuova richiesta di analisi
sociologica a sostegno dell’azione degli enti locali.
- Infine, il settimo capitolo prova a ricostruire il filo conduttore del rapporto fra sociologia,
architettura e pianificazione urbanistica. Al centro dell’attenzione viene posto il cosiddetto
«agire architettonico», inteso come modello di azione capace di condurre la progettazione
sul territorio a partire da una competenza specializzata e professionalizzata. Si passano
dunque in rassegna i valori sociali della professione architettonica, la sua collocazione tra
le professioni contemporanee, le logiche che guidano l’attività di progettazione degli spazi
sia pubblici che privati.
CAPITOLO
1 Tra città e sistema urbano
Nonostante le ricorrenti denunce di un presunto declino dell’urbanesimo ma anche della
inarrestabile omologazione funzionale e culturale dei territori, sembra oggi affermarsi una
nuova «rivoluzione urbana». Nelle cosiddette «città globali» si concentrano le risorse per
la direzione del sistema economico mondiale, mentre le mega-città del Terzo Mondo
diventano il polo problematico dei difficili processi di modernizzazione dei paesi meno
sviluppati; nel contesto europeo, il fenomeno della «diffusione urbana» conferma
l’obsolescenza del concetto di città e suscita drastiche revisioni dei modelli di descrizione e
di intervento. Si introducono qui gli strumenti analitici utili per una corretta descrizione di
queste trasformazioni socio-territoriali, tra cui la nozione di sistema urbano.
1. LA CITTÀ INVINCIBILE
1.1. La diffusione della città e i problemi della sua misurazione
Due citazioni, estratte da manuali di sociologia italiani, illustrano come nel breve intervallo
di un decennio, nel nostro contesto culturale, il binomio città-campagna, elemento di
raccordo tra la sociologia dei fondatori e quella della rinascita nel secondo dopoguerra,
sia stato so toposto a drastica revisione.
Alla fine degli anni Settanta città e campagna sono ancora considerate due realtà
talmente diverse da consentire molte semplicistiche interpretazioni causali di mutamenti
strutturali, come quella proposta nel Dizionario di sociologia:
L’urbanizzazione ha conseguenze rilevanti e durature in parecchi campi. Non c’è dubbio che
essa contribuisca a ridurre, fino eventualmente ad annullarlo, il tasso di incremento della
popolazione. Più controverse quanto ad aspetti specifici ed entità, ma altrettanto certe
nell’insieme, sono le modificazioni di vari attributi biopsichici della popolazione inurbata; è
provato che dopo una o due generazioni essa presenta statura media più alta, eloquio più
rapido, pubertà maschile e femminile più precoce e vita media più lunga della popolazione
rurale. Gli effetti sulla mobilità sociale sembrano differire a seconda dei paesi e delle epoche
[Gallino 1978].
Negli anni Ottanta diverse ipotesi convergono invece nel delineare un ineluttabile declino per
la città e una sua progressiva assimilazione in un conglomerato «rurbanizzato» (cfr. più
avanti): inedia demografica delle grandi concentrazioni insediative, erosione delle centralità
funzionali, mediatizzazione dei rapporti politici.
Proprio nei paesi industrializzati avanzati sembra oggi delinearsi un pro- cesso del tutto nuovo:
la perdita di rilevanza non soltanto della distinzione tra città e campagna, ma della stessa
localizzazione fisica delle attività produttive come del potere politico. In regioni
completamente urbanizzate (o quasi), dove la campagna si è trasformata a immagine della
città e dove l’assenza di caratteristiche urbane riguarda solo zone scarsamente popolate –
foreste, deserti, montagne e via dicendo – non sussiste più la città nel senso tradizionale
del termine. La città infatti non possiede più specificità nei confronti del territorio circostante,
delle aree rurali non urbanizzate a cui si contrapponeva; e se ancora la possiede, tende a
perderla. D’altra parte le industrie e le attività produttive non hanno più bisogno di
concentrarsi in determinati luoghi: hanno soltanto bisogno di essere collegate, ma a ciò
provvedono le vie di comunicazione e, in misura crescente, le reti informatiche. Anche il
potere politico, pur rimanendo localizzato in istituzioni che hanno sede nelle capitali e nelle
altre città, pur traendo da questa localizzazione parte del suo residuo significato simbolico,
non riveste più un carattere specificamente urbano. I mezzi di comunicazione di massa
hanno sostituito il rapporto diretto tra la classe politica e il resto della popolazione, l’intervista
televisiva ha preso il posto del comizio o dell’adunata; mentre l’informatica provvede alla
raccolta e alla trasmissione dei dati necessari al funzionamento dell’apparato amministrativo.
La città sta così cessando di essere il luogo del potere non già perché si sia trasferito
altrove, ma perché il potere non richiede più un centro fisico in cui insediarsi e da cui
espandersi [Ceri-Rossi 1987, 580-581].
Nell’arco di questi trent’anni si è fatto ricorso ad una vasta gamma di concetti per
descrivere le trasformazioni delle strutture urbane e le nuove relazioni tra città e campagna;
accanto ad alcuni neologismi hanno conosciuto nuova fortuna termini coniati all’inizio del
secolo e a lungo rimasti di uso marginale. Di matrice disciplinare assai diversa, quasi tutti
sono diventati di uso corrente nella pubblicistica, perdendo spesso le loro precise e
diversificate connotazioni originali, connotazioni tutte utili invece nella descrizione sociologica
dei territori e delle loro trasformazioni. Una breve messa a punto terminologica e storica è
quindi necessaria.
1.2. Questioni di terminologia
Alcuni di questi concetti afferiscono ai processi di mutamento socio-territoriali, altri alle nuove
conformazioni territoriali che ne scaturiscono.
- Concetto di riferimento basilare per quanto attiene ai processi è quello di «inurbamento»,
con il quale si indica la migrazione di popolazione dalle campagne alle città. È utilizzabile
per descrivere gli spostamenti di massa, l’esodo di proletariato dalle fattorie alle fabbriche
della rivoluzione industriale europea nel XIX secolo, ma anche la persistente
concentrazione di popolazione nelle mega-città del Terzo Mondo, o movimenti di
popolazione di minor entità come l’insediamento dei ceti aristocratici nelle città di corte
oppure il ritorno alla città dei ceti bene- stanti nel quadro di processi di imborghesimento
(gentrification) di alcuni suoi quartieri.
- L’inurbamento delle popolazioni ha per conseguenza strutturale l’«urbanizzazione»,
vale a dire l’aumento della quota di popolazione che vive in città. Nel processo di
urbanizzazione si usa distinguere una componente primaria e una componente secondaria.
- «Urbanizzazione primaria» è detta quell’urbanizzazione provocata dal consolidamento
economico della città e dalla conseguente offerta di posti di lavoro, che corrisponde ad
esempio all’affermazione della città come centro industriale o come centro amministrativo.
Un’urbanizzazione primaria sostenuta si rileva ad esempio nell’Italia dell’ulti- mo dopoguerra
con l’affermazione del «triangolo industriale», ma an- che nell’espansione urbana sotto la
spinta della crescita dell’amministrazione e dei servizi nella Napoli del Settecento.
- L’«urbanizzazione secondaria» avviene, invece, di riflesso, o comunque senza corrispondere
ad una crescita significativa della capacità dell’insieme urbano di produrre ricchezza
economica: è quella delle città meridionali degli anni Sessanta, che spesso funzionano come
tappe nell’esilio delle popolazioni rurali verso la città settentrionale, ma diventano anche non di
rado luoghi di insediamento stabile; è quella tipica dei paesi sottosviluppati, nei quali la città
rimane, secondo l’immagine ormai classica, il barattolo di miele verso il quale si precipitano i
più disperati.
- L’urbanizzazione secondaria offre un’illustrazione fra tante di un fenomeno più ampio,
sulla descrizione del quale si fonda, come abbia- mo visto, la sociologia nel suo periodo di
affermazione accademica: la diffusione di una cultura, nuova e sotto certi aspetti
omologante, quella della grande città, che spesso viene semplicemente, da Wirth in poi,
etichettata «urbanesimo» [Wirth 1938]. Contrariamente alla nozione di urbanizzazione, che
vuole denotare quindi un semplice mutamento quantitativo, quella di urbanesimo si rifà ad
una trasformazione che coinvolge esclusivamente l’area dei valori, degli atteggiamenti e dei
comportamenti, inscrivendosi nel vasto armamentario concettuale utilizza- to dai teorici della
modernizzazione.
- Con il termine di «de-urbanizzazione» o quello, coniato da Berry [1976] di «controurbanizzazione» si descrive negli anni Settanta un movimento di abbandono delle città
osservato prima negli Stati Uniti e che si suppone doversi progressivamente estendere
alle città europee; sarebbe fattore ed effetto, secondo alcune interpretazioni radicali,
di un vero e proprio fenomeno di de-urbanesimo, vale a dire di abbandono non solo
delle città, ma anche dello stile di vita urbano.
- Gli studi comparati condotti alla fine degli anni Settanta suggeriva- no che la crescita
demografica si distribuisse anche in Europa secondo uno schema denominato negli
Stati Uniti «Downwards, Outwards, Across», vale a dire dal più grande al più piccolo,
dal centro all’esterno, dal vecchio al nuovo. Hall e Hay [1980] sulla base dei dati
dei censimenti dal 1950 al 1971, e quindi Cheshire e Hay [1989] sulla base di dati del
1980, descrivono secondo questo schema l’evoluzione demografica delle Functional
Urban Regions europee (insiemi urbani metropolitani definiti sulla base di criteri
strutturali e funzionali (per una messa a punto sulle definizioni allora adottate di aree
metropolitana, si veda Martinotti [1993]). Si supponeva allora che le aree metropolitane
fossero entrate in una fase di decentramento con contrazione tappa finale di un
processo plurisecolare, durante la quale la crescita della cintura non fosse sufficiente
per compensare la per- dita di vitalità del centro, e nella quale, quindi, si contrae
demo- graficamente tutta l’area metropolitana. Tendenze già attive nella fase
precedente si sarebbero approfondite: la gentrification (imborghesimento) del centro si
sarebbe associata al declino economico-strutturale nel provocare emigrazione
dall’intera area.
- L’ipotesi del declino urbano trova riscontri concreti negli anni Set- tanta nella striscia
urbana europea di più antica industrializzazione, che va da Genova a Torino per poi
attraversare la Francia dell’Est e del Nord, la Saar e la Ruhr, il Belgio, le Midlands, il
Nord-Ovest e il Nord- Est dell’Inghilterra, Glasgow e Belfast, aree nelle quali la
perdita di vitalità demografica veniva interpretata come effetto di una insufficiente
compensazione della contrazione del settore manifatturiero con l’espansione del terziario
[Cheshire-Hay 1989].
- Quell’ipotesi, però, si scontra visibilmente dagli anni Ottanta con molti andamenti
demografici. Altri termini sembrano allora più adatti per descrivere i fenomeni in atto,
come ad esempio quello di «ex urbanizzazione». È il termine generico che meglio
permette di evocare la trasformazione socio-territoriale che investe gli insiemi urbani con
la diffusione di strade e automobili, consistente in una espansione fisica della città e
nella tendenza dei cittadini a vivere in aree residenziali situate all’esterno di essa, pur
mantenendo uno stile di vita urbano: una situazione, quindi, nella quale continua ad
affermarsi l’urbanesimo, pur venendo meno l’urbanizzazione. Questa tendenza di
trasformazione, con diversi momenti di accelerazione e con diversa intensità, segna la
storia recente di realtà urbane europee per altro assai diverse (cfr. fig. 1.1).
- La «suburbanizzazione» è la paradossale conseguenza dell’ex urbanizzazione, che porta
alla perdita di ogni base economica propria da parte degli insediamenti rurali e alla loro
trasformazione in aree residenziali della città. La campagna diventa sobborgo, periferia.
- La stessa accentuazione del fenomeno non porta all’affermazione incontrastata
dell’urbanesimo, ma ad un’inversione di tendenza culturale tratteggiata attraverso
il neologismo di “rurbanizzazione”. Con ciò si intende la costituzione di nuovi stili
di vita e di nuovi modelli di uso del suolo. L’intensificazione degli scambi di valori, modelli e
culture tra città e campagna fa sì che, mentre nella campagna si adottano i modelli cognitivi
della vita della città, nelle aree urbane si reintroducono pezzi di cultura rurale, con una
maggiore attenzione per le aree «verdi», nuovi modelli di edilizia residenziale ispirati alla vita
rurale e più recentemente alle prospettive dell’attività e della cultura agricola.
fig. 1.1. L’ex urbanizzazione:
Londra 1840-1958.
Fonte: CARTER [1962].
La crescita del movimento globale, politico ed architettonico, a sostegno
dell’”agricoltura urbana” è
infatti la più chiara illustrazione di questa
riconciliazione culturale tra città e campagna che accomuna Nord e Sud
del mondo. Agricoltura urbana, nella definizione della Food and Agricultural
Organization delle Nazioni Unite
è
“industria che produce, trasforma e
distribuisce cibo ed energia, in buona parte in risposta alla domanda quotidiana
dei consumatori in una città o metropoli, su terra e acqua diffusa nell’area urbana
e peri-urbana, impiegando metodi di produzione intensiva, utilizzando e riciclando
risorse naturali e rifiuti urbani per nutrire una varietà di animali e piante”. Ma non
è solo destinata a produrre ulteriori risorse alimentari vicino ai luoghi di vendita,
quindi una fonte di possibili profitti che interessa i giganti dell’industria alimentare;
è strumento per risanare l’ambiente urbano consentendo maggiore assorbimento
di CO2 e polverini fini, riduzione del rumore, riuso di terreni vuoti di cui si evita la
contaminazione; per migliorare controllo e sicurezza alimentare riducendo nel
contempo il consumo di energia per il trasporto degli alimenti; per cambiare il
paesaggio urbano introducendo varietà di vedute significative di ambienti
tradizionalmente esterni alla città, mentre offre nuove attività per il tempo libero,
opportunità educative e di incontro.
Al di là dei sempre più numerosi segni
architetturali attribuibili al singolo progettista, la dimensione collettiva dell’uso è
infatti spesso esaltata nelle esperienze europee, che prendano la forma delle
coltivazioni condominiali sui tetti, degli orti sociali, delle aree pubbliche di raccolta
e di didattica della coltivazione.
Progetto di fattoria verticale (D. Despommier,
Columbia University)
“Greenhouse giant: By stacking floors full of
produce, a vertical farm could rake in $18
million a year”.
A vegetable garden in the square in front of
the train station in Ezhou, China
a
windowfarm,
discarded
designed
plastic
bottles
to
into
incorporate
pots
for
hydroponic agriculture in urban dwellings'
windows
Fig. 1.2. Diversi progetti riferibili all’“architettura urbana”
A small urban farm in Amsterdam
Similmente a quanto fatto per i termini destinati a descrivere i processi di trasformazione dei
territori urbani, è utile ripercorrere, per chiarezza, i termini più spesso usati nelle scienze sociali
per descrivere i risultati di questi processi, le proiezioni territoriali nuove degli insediamenti.
Tra i termini relativi, non più ai processi, ma alle conformazioni urbane che ne
scaturiscono ha ritrovato fortuna nel dibattito contemporaneo uno dei più antichi
coniati
per
descrivere
le
trasformazioni
degli
insiemi
urbani,
quello
di
«conurbazione», proposto da Geddes all’inizio del XX secolo [1915]. Con esso si
intende quell’insieme urbano nato dall’espansione di una città dotata di qualche
carattere di preminenza, che porta all’assimilazione dei centri minori che la
circondavano. La «conurbazione » è quindi una forma di agglomerazione urbana
dotata di qualche gerarchia interna leggibile (per «agglomerazione urbana»,
dobbiamo invece intendere genericamente qualunque insieme denso e contiguo di
insediamenti con i tratti culturali dell’urbanesimo).
_ La nozione di conurbazione non è quindi dissimile dalla nozione di «area
metropolitana» nella sua accezione italiana classica. Con ciò dobbiamo intendere,
secondo Ardigò, «quell’unità spaziale urbana composta di una città centrale di
sufficiente dimensione demografica e di aree urbanizzate gravitanti intorno alla città
centrale e con questa strettamente interrelate» [Ardigò 1967]. Col termine di area o
di regione «metropolitana» si sottolinea la relazione che intercorre tra i fenomeni di
espansione e una struttura gerarchica del mondo urbano: con «metropoli», termine
tratto dalla nomenclatura religiosa, si indica la città di riferimento, dotata di
predominio politico e culturale, di un’intera area culturale. Alcune aree metropolitane
sono dette policentriche; è il caso in Italia dell’area metropolitana Venezia-VeronaPadova. Con ciò si intende che sono insiemi complessi di sub-aree internamente
gerarchizzate, strettamente interdipendenti, ma tra le quali è invece difficile delineare
una struttura gerarchica netta. Il concetto coniato specificamente in altri contesti
culturali per designare tale conformazione è quello (proposto da Gottmann) di
«megalopoli», non a caso ripreso di recente per designare l’area metropolitana padana
[Turri 2000]. Alcuni autori, dopo Mumford, utilizzano questo termine per designare
semplicemente la città occidentale in una sua specifica fase di sviluppo, quella della
crescita economica e dell’espansione fisica nei suburbi con- sentita dall’accesso di
massa all’automobile e dallo sviluppo dei trasporti collettivi [Mumford 1938; 1961].
Sostituendo l’epiteto di globale a quello di metropolitana, promuovendo la nozione di
città-regione globale [Scott 2001], sulla quale torneremo successivamente, un’ampia
letteratura più recente oltre a proporre una serie di tesi sulla conformazione fisica e
sociale delle grandi aree metropolitane emergenti nell’economia mondiale, sulla scia
della nozione di città globale proposta da Saskia Sassen (cfr. Cap. 2), inserisce con
efficacia l’analisi delle dinamiche socio-territoriali interne a quella della ristrutturazione
territoriale complessiva richiesta dalle nuove dinamiche economiche. Meno attenta a
questi aspetti e più interessata invece alla vita quotidiana delle popolazioni,
all’innovazione nella gestione e nella progettazione urbane, alle sfide culturali e
politiche che pongono le grandissime agglomerazioni (con più di 10 milioni di abitanti)
è il filone di analisi che preferisce il termine di Megacities.
Nel contesto italiano, collegabili all’ipotesi della «rurbanizzazione», sono presto apparsi
alcuni termini con i quali si intendono designare insediamenti, di dimensione sempre più
ampia ma non comparativamente contenuti, densi ma non dotati di leggibile struttura
gerarchica né di chiara appartenenza ad una cultura urbana. Il termine di «città diffusa», con
il quale si traduce imperfettamente l’espressione statunitense di “sprawl city” è apparso
evocativo dell’’immagine generata dalla configurazione emergente degli insediamenti. Nel
dibattito nazionale la descrizione degli insediamenti urbani spesso si rifà ad una linea
interpretativa delle trasformazioni territoriali che evidenzia le specificità della «Terza Italia» e
del modello insediativo tipico della società mezzadrile o di piccola proprietà del l’Italia
centrale, per cui la diffusione verrebbe ad accentuare caratteri storici di forte policentrismo
produttivo, di scarsa distinguibilità funzionale e di radicato connubio culturale tra città e
campagna (cfr. Box 1.1).
Questa linea interpretativa aveva trovato nella nozione di «campagna urbanizzata» un’altra
fortunata espressione. Con essa si vuole tradizionalmente evocare la tipologia insediativa
che ha accompagnato specificamente l’industrializzazione toscana: un continuum territoriale
di aree a medio-alta densità abitativa, caratterizzato da imprese strettamente dipendenti –
nella loro storia di successo – dalla loro stessa localizzazione, da specializzazioni diverse ma
tutte nell’ambito dell’industrializzazione leggera o di settori terziari ad essa collegati.
All’espressione città diffusa, si tende sempre più spesso in Italia a preferire termini diversi
che tutti evocano le potenzialità o le capacità già espresse dei territori periferici ad esprimere
una loro nuova struttura ed urbanità: ad esempio parlando di città diramata [Dietragiache et
al. 2003], oppure di città fuori dalla città [Fantin et al. 2012].
■
BOX
1.1.
■
La Terza Italia come modello di sviluppo
Coniando nel 1977 la nozione di «Terza Italia», Bagnasco suggerì che alcune regioni del
Centro e Nord-Est (Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Veneto, Friuli, Trentino)
offrivano un modello di sviluppo economico, sociale e politico dotato di relativa
omogeneità che le distingueva sia dal Nord- Ovest che dal Sud del paese. Oltre che il
modello di sviluppo, quello fondato sulla piccola impresa e sull’economia diffusa, le
accomunava l’essere aree di diverse (bianca quella delle regioni venete, rossa quella delle regioni centrali), ma altrettanto solide, sub-culture politiche. Con questo ultimo
termine si intende «un particolare sistema politico locale caratterizzato da un elevato
grado di consenso per una determinata forza e da un’elevata capacità di aggregazione e
mediazione dei diversi interessi a livello locale. Questo presuppone l’esistenza di una
fitta rete istituzionale (partiti, chiesa, gruppi di interesse, strutture assistenziali,
culturali, ricreative) coordinata dalla forza domi- nante, che controlla anche il governo
locale e tiene i rapporti con il sistema politico centrale. Attraverso questa rete, non solo
si riproduce un’identità particolare, ma si contribuisce anche all’accordo locale tra i
diversi interessi» [Trigilia 1986, 47-48]. Queste forme di coordinamento locale hanno da
allora dimostrato, nel caso del Veneto, di sopravvivere con vigore alle trasformazioni
delle configurazioni di partito e del comportamento elettorale.
Il proliferare terminologico degli ultimi trent’anni basta ad illustrare le difficoltà, anche
operative, che deve affrontare chiunque si avvicini a questa area concettuale. Non si può
negare che distinguere città e campagna sulla base di indicatori semplici (come quelli della
densità urbana o del peso del terziario nella struttura produttiva locale) diventa sempre più
difficile. In tutti i paesi occidentali la distinzione tra città e campagna nelle statistiche
pubbliche scaturisce ormai dalla costruzione di indici complessi. Nel descrivere le formazioni
territoriali, la statistica pubblica italiana, ad esempio, ha utilizzato numerosi strumenti. Oggi
le distinzioni degli ambienti insediativi lungo il continuum rurale- urbano si affidano a due
strumenti analitici principali.
- Il primo strumento privilegia la dimensione di dispersione-concentrazione fisica degli
insediamenti, secondo una tipologia complessa ma consolidata che permette di individuare
aggregati di dimensione inferiore al comune. Essa oppone i «centri abitati» ai «nuclei abitati»
e alle «case sparse». Il «centro abitato» è “aggregato di case contigue o vicine con
interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi soluzioni di continuità per la cui
determinazione si assume un valore variabile intorno ai 70 metri, caratterizzato
dall’esistenza di servizi od esercizi pubblici (scuola, ufficio pubblico, farmacia,
negozio o simili) costituenti la condizione di una forma autonoma di vita sociale, e
generalmente determinanti un luogo di raccolta ove sono soliti concorrere anche gli
abitanti dei luoghi vicini per ragioni di culto, istruzione, affari, approvvigionamento e
simili, in modo da manifestare l’esistenza di una forma di vita sociale coordinata dal
centro stesso.
Il «nucleo abitato», invece, è “località abitata, priva del luogo di raccolta che
caratterizza il centro abitato, costituita da un gruppo di case contigue e vicine, con
almeno cinque famiglie, con interposte strade, sentieri, piazze, aie, piccoli orti,
piccoli incolti e simili, purché l’intervallo tra casa e casa non superi trenta metri e
sia in ogni modo inferiore a quello intercorrente tra il nucleo stesso e la più vicina
delle case manifestamente sparse” [dawinci.istat.it].
-
Il secondo strumento è quello al quale l’ISTAT affida l’originalità della sua strumentazione nel
panorama europeo: il «sistema locale di lavoro», unità considerata fondamentale nella
comprensione delle dinamiche territoriali nazionali, e non solo. I «Sistemi locali di lavoro»
«sono definibili come i luoghi della vita quotidiana della popolazione che vi risiede e
lavora. Essi sono costituiti raggruppando più comuni sulla base degli spostamenti
giornalieri per lavoro rilevati in occasione del censimento della popolazione. Ogni
area comprende più comuni. La gran parte della popolazione residente lavora
all'interno di essa e i datori di lavoro reclutano la maggior parte della forza-lavoro
dalle località che la costituiscono” [ibidem]. Se il comune è la base dell’aggregazione, la
costituzione stessa del sistema locale di lavoro prescinde quindi dalle altre divisioni
amministrative (province, aggrega- zioni politiche come le comunità montane, circondari,
zonizzazioni funzionali come quelle socio-sanitarie, ecc.). Il sistema locale di lavoro nasce
nell’ambito delle scienze economiche e permette una descrizione dei fenomeni socioterritoriali che privilegia la sfera del mondo lavorativo: una sfera dalla quale nei grandi
aggregati urbani contemporanei è esclusa da tempo una parte importante della popolazione
(per le metropoli europee cfr. Magnier [1996]), una sfera in declino, secondo molti, come
fattore di differenziazione sociale. Si tratta comunque di uno strumento analitico dotato, nel
contesto di applicazione italiano, di notevole rigidità, poiché riferito al pendolarismo
ufficialmente misurato, vale a dire agli spostamenti quotidiani per lavoro da un comune
all’altro o all’interno dello stesso comune dichiarati in occasione del censimento; e che, per
questo stesso motivo, può rappresentare solo un tassello in una descrizione aggiornata
dell’insieme delle trasformazioni sociali che investono un territorio.
1.3. Urbanizzazione, urbanesimo e cicli storici
Se città e campagna non possono più essere considerate come realtà contrastanti, ne
dobbiamo dedurre che i contesti territoriali tendano ad omologarsi? Qual è il significato
della diffusione urbana, nelle sue dimensioni demografiche e funzionali, all’interno delle
organizzazioni sociali contemporanee? Essa si associa sempre agli stessi fenomeni sociali
(e sono quelli in genere descritti), ascrivibili in primo luogo alla diffusione delle nuove forme
di comunicazione che permettono la de- concentrazione di molte attività? Quali sono, in
breve, i suoi significati sociologici nei diversi contesti?
Gottmann già negli anni Settanta metteva in guardia contro i lieux communs sulle relazioni tra
la deindustrializzazione e il declino della città, che, invece, a guardare l’esperienza storica,
sembra «invincibile» mal- grado le successive profezie del suo declino: «La relazione tra
produzione industriale e dinamica delle grandi città sembra essersi adeguata, almeno in
Occidente e nell’ultimo millennio, ad un andamento che potrebbe venire definito come
ciclico» [Gottmann 1983]. Questo studioso individua due cicli nella storia urbana dal
Medioevo ad oggi. Ecco la descrizione del primo ciclo.
Gli storici dell’economia hanno mostrato che nelle Fiandre, nell’Italia settentrionale e altrove
tra il X e il XII secolo le città concentravano l’attività manifatturiera all’interno delle proprie
mura. Questa tendenza a concentrare artigiani e corporazioni nei luoghi urbani era quasi
conclusa nel XIII secolo. A partire dal XIV secolo e fino all’ultima parte del XVIII secolo si è poi
sviluppata una migrazione dell’attività manifatturiera verso l’esterno, che ha distribuito la
produzione industriale tra i villaggi e nella campagna. [...] Ma questa migrazione verso l’esterno
non ha fatto perdere alle città il loro ruolo: esse hanno continuato a dirigere, a finanziare e a
organizzare la produzione manifatturiera controllando la compravendita dei beni prodotti dagli
uffici, dai loro central places. Le città potevano inoltre avere mantenuto la funzione di
«incubatrici» per le nuove tecnologie industriali create dal Rinascimento [ibidem].
Analogamente si sviluppa un secondo ciclo (ritorno verso il centro iniziato ben prima
dell’Ottocento, e più precisamente, in Francia, con la localizzazione delle manifatture reali
nei sobborghi di Parigi, seguito da deconcentramento sotto la pressione dei costi crescenti
della congestione, delle imposte e delle costrizioni normative), ma perfino nella sua fase
conclusiva le città mantengono il proprio tradizionale control- lo generale sull’economia
industriale e quella che Gottmann definisce la loro «funzione di incubatrice».
Anche oggi la città è invincible per Gottmann proprio perché concentra le risorse
economiche e tecniche utili allo sviluppo delle nuove for- me di comunicazione e di gestione
dell’informazione; essa non è sostituita ma ridisegnata dalle nuove esigenze della
produzione.
Le immagini delle relazioni tra territori proposte più di recente nelle scienze umane insistono
infatti, in contrasto con quanto avveniva vent’anni fa, sul peso e sulle funzioni di specifiche
formazioni territoriali che scaturiscono dal nuovo ordine economico mondiale. Esse
descrivono, a seconda della matrice analitica, il consolidamento di poche «città mondiali», “città
globali” o “città regioni globali”, di reti urbane dominanti, di formazioni distrettuali, modalità
diverse di ri-gerarchizzazione (cfr. cap. 4). Le disquisizioni sulla diffusione urbana non sono
vanificate, ma assumono tutt’altro significato e interesse se, allargando l’orizzonte geografico e
tematico, si reinseriscono nel con- testo problematico più ampio delle relazioni tra le città e
l’insieme dei fenomeni economici e culturali che siamo soliti ormai riassumere sotto l’etichetta
di «globalizzazione».
Posizionare le città mondiali in una gerarchia urbana globale è così diventata
preoccupazione di molti specialisti di studi urbani internazionali (una rivista di
questa letteratura si trova nelle successive messe a punto di Beaverstock et al.
1999); che ricorrono a criteri analitici diversi. Il World Cities Study Group and
Network distingue quattro approcci principali in questa ricerca di classifiche
internazionali di città: alcuni analizzano le preferenze di localizzazione e i ruoli delle
corporazioni multinazionali limitando l’analisi ai paesi sviluppati (Hall 1966, Heanan
1977), altri incentrano l’attenzione più precisamente sulle capacità e le attività
decisionali di queste corporazioni nel contesto della nuova divisione internazionale
del lavoro (Cohen 1981, Friedmann e Wolff 1982, Thrift 1989), altri sulla loro
propensità e capacità ad impegnarsi per l’internazionalizzazione, la concentrazione
dei produttori di servizi (Sassen 1991, 1994), altri, infine guardano alla graduatorie
dei centri finanziari internazionali (Reed 1981): lo stesso gruppo diretto da P. Taylor
e J. Beaverstock nota in conclusione che tutti guardano agli attributi delle città
mentre sarebbe più utile analizzare le relazioni tra membri individuali di un sistema
di città (Taylor 1997); ma mentre le statistiche disponibili, anche se spesso non
omogenee, sugli attributi delle città sono numerose, più difficile è il procurarsi
informazioni quantitative sulle relazioni singole che in concreto assicurano ad un
insieme urbano una posizione di rilievo nella rete internazionale di città dominanti.
Si utilizzano allora analisi del contenuto delle riviste di affari ed economia principali,
tracciati delle migrazioni di persone altamente qualificate, della struttura geografica
dei rami principali di società internazionali di servizi finanziari e legali (Beaverstock
et al. 1999, Hall 2001).
2. UNA SECONDA RIVOLUZIONE URBANA
2.1. L’urbanizzazione come fenomeno contemporaneo
Laddove si ragioni al livello del globo e sui tempi relativamente più lunghi, tra i
processi dominanti vediamo all’ex-urbanizzazione associarsi una sostanziale e
accelerata concentrazione, delle popolazioni e di alcune attività. Per molti, si tratta
invero di una «seconda rivoluzione urbana», di un processo di importanza sociale
paragonabile a quello che diede luogo alla rivoluzione urbana del terzo millennio a.C.
Se le città infatti fino a due secoli fa costituivano le espressioni più alte delle singole civiltà, la
maggioranza delle popolazioni fino viveva al di fuori di esse, nelle campagne. Nel XIX
secolo appena il 10% della popolazione mondiale abitava in città. L’urbanizzazione si
accentua nel XX secolo, specie dagli anni Cinquanta, prima nei paesi industrializzati,
poi nei paesi in via di sviluppo, effetto sia della crescita della popolazione che dello
spostamento di masse ingenti di popolazioni dalla campagna verso la città. È così che
nel 1975 già il 35% della popolazione mondiale vive in aree definite urbane, e che
alla fine del secondo millennio la metà della popolazione del globo è fatta di cittadini.
Questi tre miliardi di cittadini si concentrano in buona parte in mega-città, vale a dire in
agglomerazioni urbane con più di 10 milioni di abitanti.
Fonte: United Nations, World Urbanization Prospects. The 2011 Revision – Dati 2011
Dati 1960
Previsioni 2025
Fonte: United Nations, World Urbanization Prospects. The 2011 Revision
La più accreditata regolare analisi, quella delle Nazioni Unite che rimanda per
principio alle diverse definizioni e delimitazioni nazionali degli ambienti “urbani”,
propone nel 2011 una lista di 23 megacittà (United Nations 2012).
1 Japan
Tokyo
37,22
2 India
Delhi
22,65
3 Mexico
Ciudad de México (Mexico City)
20,45
4 United States of America
New York-Newark
20,35
5 China
Shanghai
20,21
6 Brazil
São Paulo
19,92
7 India
Mumbai (Bombay)
19,74
8 China
Beijing
15,59
9 Bangladesh
Dhaka
15,39
10 India
Kolkata (Calcutta)
14,40
11 Pakistan
Karachi
13,88
12 Argentina
Buenos Aires
13,53
13 United States of America
Los Angeles-Long Beach-Santa Ana
13,40
14 Brazil
Rio de Janeiro
11,96
15 Philippines
Manila
11,86
16 Russian Federation
Moskva (Moscow)
11,62
17 Japan
Osaka-Kobe
11,49
18 Turkey
Istanbul
11,25
19 Nigeria
Lagos
11,22
20 Egypt
Al-Qahirah (Cairo)
11,17
21 China
Guangzhou, Guangdong
10,85
22 China
Shenzhen
10,63
23 France
Paris
10,62
United Nations, World Urbanization Prospects: The 2011 Revision
Non mancano tuttavia descrizioni diverse; così nel 2013, un regolare aggiornamento della
lista delle maggiori agglomerazioni del mondo, che usa una combinazione di criteri di
delimitazione più complessa, suggerisce l’esistenza di un numero maggiore di megacittà,
diversamente ordinate.
1
Japan
Tokyo-Yokohama
37,3
2
Indonesia
Jakarta (Jabotabek)
26,7
3
South Korea
Seoul-Incheon
22,9
4
India
Delhi
22,8
5
China
Shanghai
21,8
6
Philippines
Manila
21,2
7
Pakistan
Karachi
20,9
8
United States
New York
20,7
9
Brazil
Sao Paulo
20,6
10
Mexico
Mexico City
20,0
11
China
Beijing
18,2
12
China
Guangzhou-Foshan
17,7
13
India
Mumbai
17,3
14
Japan
Osaka-Kobe-Kyoto
17,2
15
Russia
Moscow
15,8
16
Egypt
Cairo
15,1
17
United States
Los Angeles
15,1
18
India
Kolkota
14,6
19
Thailand
Bangkok
14,5
20
Bangladesh
Dhaka
14,4
21
Argentina
Buenos Aires
13,8
22
Iran
Tehran
13,3
23
Turkey
Istanbul
12,9
24
China
Shenzhen
12,5
25
Nigeria
Lagos
12,1
26
Brazil
Rio de Janeiro
11,6
27
France
Paris
10,9
28
Japan
Nagoya
10,2
Demographia World Urban Areas: 9th Annual Edition (2013.03)
Per la loro rapidità, la loro variabilità, la loro incoerenza con i tracciati amministrativi classici,
il peso del fenomeno in paesi dall’apparato statistico pubblico debole, tali movimenti di
popolazione sono infatti difficili da descrivere.
Il tasso di crescita della popolazione urbana mondiale sta oggi decelerando. Tra il 1950 e il
2011 secondo le Nazioni Unite crebbe mediamente del 2,6% all’anno, ciò che consentì alla
popolazione urbana mondiale di passare da 0,75 a 3,6 miliardi. Per il periodo 2011-2030 la
stessa direzione degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite prevede una crescita
media annuale dello 1,7%, il che corrisponde sempre tuttavia ad raddoppiamento della
popolazione urbana mondiale in 41 anni; e per il periodo successivo 2030-2050 un tasso
dello 1,1%, corrispondente ad un raddoppiamento in 63 anni.
Urban and rural populations by development group, 1950-2050
United Nations, World Urbanization Prospects: The 2011 Revision
La popolazione urbana mondiale nel 2050 sarebbe così cresciuta del 72%, da 3,6 miliardi oggi ai
6,3 miliardi previsti, vale a dire l’equivalente della popolazione totale del globo nel 2002. La
crescita attesa si concentrerà nelle aree urbane dei paesi oggi meno sviluppate (che passerebbe
dai 2,7 miliardi odierni a 5,1 miliardi nel 2050), mentre quella delle aree oggi più sviluppate
crescerà più modestamente (dal miliardo attuale a 1,1 miliardo); mentre la popolazione rurale
decrescerà in modo consistente nelle aree oggi meno sviluppate (da 3,1 miliardi a 2,9
miliardi di abitanti) (Ibidem).
Non si può non interpretare tale uniforme e macroscopico fenomeno come uno degli
elementi di un processo di trasformazione più ampio che investe in questo mezzo secolo un
mondo sempre più interdipendente. Le aree urbane sono le protagoniste della
globalizzazione; esse illustrano nel modo migliore questo insieme di processi sociali,
demografici, culturali e politici, in parte guidato e in parte subito dalle classi dirigenti
economiche e politiche; ciò avviene per la loro capacità di innovazione tecnologica, la loro
partecipazione alla rivoluzione cognitiva, le loro risorse economico-finanziarie, le migrazioni
che richiamano, la loro plurietnicità, le forme – e il livello – di espressione delle nuove
domande che vi si manifestano; ed i loro diversi effetti, positivi e negativi sulle opportunità di
vita offerte alle popolazioni.
La città come tale entra di conseguenza in posizione preminente nell’agenda delle
politiche di sviluppo. L’impegno delle Nazioni Unite, in collaborazione con i
governi nazionali, gli enti locali, le associazioni, le imprese, i centri di
ricerca per una riqualificazione degli “insediamenti umani” è così cresciuto
dalla dichiarazione di Vancouver e alla pri ma Agenda Habitat del 1976,
all’Agenda Habitat II definita ad Istanbul nel 1996, ad Istanbul+5 nel 2001 e
alla Risoluzione detta Millennium Declaration “Dichiarazione sulle città e gli
altri insediamenti umani”, fino all’attuale preparazione di Habitat I II prevista
per il 2016.
Il Piano Globale di Azione del 2003 recepisce i principi già definiti in Habitat II, e
in particolare due priorità: "Un tetto adeguato per tutti " e "Insediamenti umani
sostenibili in un mondo che si urbanizza”. UN-HABITAT definisce una famiglia
come abitante di slum ogni “gruppo di individui che vivono sotto lo stesso tetto in
un’area urbana che manca di uno o più delle seguenti qualità:
1. Alloggio durevole di natura permanente che protegge dalle condizioni di
clima estreme;
2. Spazio di vita sufficiente, vale a dire non prevedente più di tre persone
condividenti la stessa stanza;
3. Accesso facile ad acqua sicura in quantità sufficiente a prezzo sostenibile
4. Accesso adeguata a sanitari nella forma di toelette private o pubbliche per
un numero ragionevole di persone
5. Garanzia di godimento che impedisce evizioni forzate.
Nel 2010 stimava che 827 milioni di persone vivevano in slum o in condizioni simili,
poiché affette da una o più di queste carenze. Le condizioni dell’alloggio e dei
servizi collegati diventano tema centrale di Habitat, che d’altra parte dà origine negli
ultimi anni ad una serie di programmi di finanziamenti e di assistenza tecnica volta
a migliorare le politiche di gestione delle città nei paesi in via di sviluppo, con un
attenzione particolare per gli interventi di protezione dell’ambiente e di
potenziamento delle infrastrutture, nonché per le pratiche di valutazione e di
informazione (www.unhabitat.org) (su questi punti si veda al Cap. 6 dedicato alle
politiche urbane).
32
CAPITOLO 1
- Le città sono quindi
anche protagoniste del dibattito internazionale sulle
disuguaglianze, tra parti del mondo e tra generazioni. L’immagine delle luci notturne
elaborata dal National Geophysical Data Center statunitense, usata in molte sintesi
ormai classiche sulle disuguaglianze globali, non è solo descrittiva dei centri nevralgici
globali, ma diventa anche denuncia se confrontata con l’immagine relativa alla densità della
popolazione planetaria elaborata dal Center for International Earth Science Information
Network della Columbia University.
Compariamo i grappoli illuminatissimi del Nord-Est americano con i livelli relativamente bassi
di luce emessi da una popolazione cinque volte più numerosa in India. Che cosa è più
sostenibile? Che cosa è più ameno? Le città ricche d’energia dei paesi altamente industrializzati
oggi sono ciò che devono diventare le altre? O formano un club esclusivo i cui membri
privilegiati non vogliono o sono incapaci di aprire le porte agli altri? [UN World Urbanization
Prospects 2001, 9].
D’altra parte, oberate da tutti i problemi della crescita, le città sono sempre più soggette a
crisi drammatiche, specialmente nei paesi in via di sviluppo, ma non soltanto.
Disoccupazione, degrado ambientale, carenza di servizi urbani, deterioramento delle
infrastrutture e carenza di spazio, di risorse finanziarie e di alloggi adeguati vi assumono
nuove dimensioni patologiche.
fig. 1.3. Il mondo urbano:
due immagini di sintesi.
Fonte: UNCHS [2001].
32
CAPITOLO 1
2.2
La problematica concentrazione-diffusione nell’agenda politica
europea
Alle dinamiche appena descritte il mondo urbano europeo, e dei paesi sviluppati in genere, si
offre con le risorse di adattamento di chi gode di relativa stabilità in molte sue componenti
strutturali: nessuna urbanizzazione rapida, anzi la progressiva scomparsa del mondo
occidentale dalle registrazioni di re c o r d dell’urbanizzazione e delle concentrazioni di
popolazione.
Source: United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division: World Urbanization Prospects, the 2011 Revision.
New York, 2012
Oggi le città della «vecchia Europa», secondo l’espressione pessimistica di Dollé [1990, 13],
sono solo i «resti» di un impero se confrontate con le agglomerazioni dilaganti del Terzo
32
CAPITOLO 1
Mondo. La lista delle 30 più grandi agglomerazioni del mondo sta rapidamente cambiando,
con l’eliminazione progressiva di quasi tutte le metropoli europee. Dal 1980, sono così
sparite Milano, Essen, Londra; tra le megacitt à troviamo s oltant o Ist anbul e Parigi.
Londra probabilmente le raggiungerà nei prossimi anni. Nessuna tuttavia avrà perso
popolazione in questo intervallo.
Non è quindi una forma di inedia che colpisce le agglomerazioni del vecchio mondo e in
particolare del continente europeo. Le megacittà (con più di 10 milioni di abitanti) crescono
sempre, ma nel mondo sviluppato partecipano al declino generalizzato del tasso di crescita
urbana. Le grandi concentrazioni urbane in Europa raccolgono soltanto una parte minore
della popolazione urbana, è la città media e piccola a rappresentare il modo di vita urbano più
diffuso sul continente. Nel 2010 22 milioni di Europei vivono nelle due megacittà del
continente, 21 milioni in agglomerazioni che comprendono tra 5 e 10 milioni di abitanti, 82
milioni in agglomerazioni che comprendono tra 1 e 5 milioni di abitanti mentre in quelle che
nella letteratura grigia europea vengono definite “città medie” (con più di 500 000 ma meno di
un milione di abitanti) risiedono 55 milioni di persone e nelle agglomerazioni minori 357 milioni
(UN 2012).
Guardando ai paesi dell’Unione Europea in particolare si deve ricordare che le dinamiche di
diffusione-concentrazione associate alle modalità attuali di internazionalizzazione delle
economie e delle culture, di mutamento delle opportunità, degli stili di vita e delle aspirazioni
si inseriscono nella regione in un contesto di urbanizzazione densa e plurale [Martinotti 1993;
Durand-Levy-Retaillé 1992; Pumain-Saint- Julien 1996]. Nei paesi dell’Unione la popolazione è
nella sua stragrande maggioranza urbanizzata: gli unici scostamenti nazionali significativi
della percentuale di popolazione inurbata si rilevano in Portogallo (con un terzo della
popolazione urbanizzata).
Nell’immagine di sintesi degli insediamenti umani che abbiamo già commentato, l’Europa
si segnala innanzitutto per una larga macchia bianca, la luce prodotta dal «cuore» urbano
dell’Europa: la cosiddetta «dorsale» o «metropoli europea». Settanta milioni di abitanti su
25.000 kmq, in una serie fitta di agglomerazioni che va dall’Inghilterra alla pianura
padana, il percorso delle merci dal Mediterraneo al Mare del Nord, l’asse dello sviluppo
europeo dal Medioevo. Qualche differenza interna alla stessa dorsale si intravede
facilmente: si delinea una vasta area che va dalla Ruhr al Mare del Nord al livello dei Paesi
Bassi, quasi totalmente urbana; un po’ meno dense sono le zone urbane del Regno Unito,
l’Axial Belt formato da Londra-Liverpool-Manchester e le città della Scozia; più estesi, meno
concentrati, sono gli insiemi urbani della Germania meridionale e della pianura padana. Nel
resto dell’Unione europea l’armatura urbana si dissolve in una serie di punti più o meno
intensi. «Parigi e il deserto francese» contrastano ancora, sebbene or- mai con modalità
attenuate rispetto al momento in cui Gravier pubblicò l’omonimo libello di denuncia delle
disuguaglianze socio-territoriali francesi [Gravier 1947]. Madrid illumina, contestata
parzialmente da Barcellona, la sagoma della Spagna.
Complessivamente la «dorsale» rappresenta l’elemento portante della struttura urbana
europea, ma lascia spazio a realtà urbane assai differenziate, alcune delle quali molto
influenti: i due terzi della popolazione urbana dell’Unione europea vivono fuori dalla
«metropoli europea». Gli indici di concentrazione-dispersione ribadiscono con forza le
differenze tra i paesi, che rispecchiano differenze nelle forme di organizzazione della
produzione ma anche fra tradizioni di organizzazione della vita collettiva. Il contrasto appare
netto tra i paesi dell’Unione europea con forte concentrazione in una città unica e i paesi
con una tradizione urbana pluralista, nei quali lo sviluppo urbano si è appoggiato durante i
secoli su molteplici comuni dotati di forte capacità di sviluppo autonomo.
Tra i paesi con forte concentrazione si includono tutti i paesi scandinavi (in primo luogo la
Finlandia e la Danimarca: un terzo della popolazione urbana danese vive a Copenaghen), la
Francia (nell’agglomerazione parigina vive quasi un quarto della popolazione urbana
nazionale), ma anche la Grecia e il Portogallo, che rappresentano alla perfezione il
modello di paese a forte primazia urbana: più di metà della popolazione urbana greca vive ad
Atene, quasi la metà della popolazione urbana portoghese a Lisbona.
Tra i paesi con struttura urbana pluralista sono comprese la Germania, l’Italia e, in posizioni
meno idealtipiche, la Spagna (con il suo perfetto schema diarchico Madrid-Barcellona) e la
Gran Bretagna. Quest’ultima somma elementi contrastanti di pluralismo e di forte gerarchia:
quattro agglomerazioni milionarie (Londra, Manchester, Birmingham, Leeds); nessuna
primazia assoluta, ma un forte squilibrio demografico tra le agglomerazioni maggiori:
l’agglomerazione londinese è quattro volte più grande della seconda agglomerazione
britannica, quella di Birmingham. La Germania, invece, conta ben tredici agglomerazioni
milionarie. Meno accentuato ma altrettanto chiaro il pluralismo urbano italiano: cinque
agglomerazioni milionarie, mentre nella maggiore (Milano) si concentra p o c o p i ù d i u n
d e c i m o d e lla popolazione urbana n a z i o n a l e .
La crescita continua delle piccole città e delle città medie si inserisce quindi in un processo di
urbanizzazione lieve ma generalizzata, le cui modalità e i cui fattori mutano a seconda
delle tradizioni e delle situazioni economiche nazionali, e richiedono ancora una
soddisfacente descrizione sociologica. Si può ipotizzare comunque che il dinamismo
urbano si sia spostato negli ultimi decenni dalle aree dell’urbanizzazione «industriale»
ottocentesca ai centri della vecchia armatura urbana dell’Europa settecentesca. Si può
anche supporre che la patologia urbana abbia perso parte della sua incidenza nell’orientare
la mobilità degli uomini e delle attività. Negli ultimi decenni mobilità residenziale, mobilità
delle attività economiche e mobilità turistica in particolare sembrano indicare i luoghi chiave
del panorama urbano europeo in due categorie «funzionali» di agglomerazioni, a volte
convergenti, per le attese che su di esse si sono riversate e le tensioni che vi si sono
sviluppate: la città-capitale e la città d’arte.
Le dinamiche demografiche si inscrivono, con altre, in un ampio movimento di
riposizionamento funzionale delle agglomerazioni europee in un sistema-mondo nel quale le
capacità direzionali si concentrano in pochi luoghi centrali. Ormai da più di vent’anni le
riflessioni sulla gerarchia urbana mondiale registrano per la maggior parte delle
agglomerazioni europee una collocazione semiperiferica, con la sola incontestata eccezione
di due agglomerazioni aventi il rango di città globali, Londra e Parigi.
Lo studio di Conti e Spriano [1989], pur evidenziando un gruppo più folto di insiemi urbani con
vocazione di «città globali direzionali» (Bruxelles, Amsterdam, Roma, Copenaghen,
Francoforte, Milano), sottolineava anch’esso la predominanza di Londra e Parigi, esaltando
la posizione eminente di Londra. Il gruppo diretto da Cattan pochi anni dopo distingueva
sempre Londra e Parigi, in quanto «metropoli internazionali dominanti», dalle molte
«metropoli internazionali specializzate» europee (Amsterdam, Amburgo, Berlino, Bruxelles,
Copenaghen, Düsseldorf, Francoforte, Ginevra, Monaco, Strasburgo, Vienna, Zurigo), a loro
volta ben distinte dalle metropoli regionali con una disuguale apertura internazionale [Cattan
et al. 1997]. Nello studio di prospettiva divenuto un riferimento classico nella
letteratura, proposto dalla DATAR nel 1989 sulla base di un’analisi delle funzioni delle
165 città europee con più di 200.000 abitanti, un esame più articolato delle specializzazioni
delineava un quadro delle risorse e delle debolezze degli insiemi urbani europei nel
complesso meno contrastato e più ricco di incognite nelle sue possibilità di evoluzione.
Accanto all’invecchiante «banana blu» (la classica dorsale), nella quale si distingueva
tuttavia un cuore antico (Paesi Bassi e Nord-Est della Germania) e un cuore nuovo
(triangolo Monaco-Stoccarda-Zurigo), venivano individuate
alcune aree di possibile
rivalsa urbana nell’area mediterranea: un «Nord del Sud» che si dipartiva da MadridValencia fino alla Toscana e al Veneto, passando dalla valle del Rodano, la pianura
padana, l’Emilia. Inoltre, si confermava la fiducia nelle risorse di sviluppo di alcune
importanti agglomerazioni esterne alle due configurazioni
(Glasgow, Edimburgo,
Copenaghen, Berlino, Parigi). Si denunciavano invece la marginalità e la debolezza
delle città del finis terrae, la facciata atlantica, per la quale le uniche possibilità di sviluppo
dipendevano dal consolidamento dei legami con le aree centrali del territorio europeo. Le
due classifiche sintetiche delle 165 città permettevano di includere, dal punto di vista della
differenziazione funzionale, solo Londra e Francoforte tra le città che eccellono in tutti
settori. Ma per il peso complessivo ottenuto sull’insieme degli indicatori nella prima classe
si ritrovavano solo Londra e Parigi, nelle seconda e terza Milano, Madrid, Monaco,
Francoforte, Roma, Bruxelles, Barcellona e Amsterdam.
Dorsale
Dipendenze
Nord del Sud
Aree assimilate
Facciata
atlantica I
«Sud»
Aree depresse
Collegamenti con l’est
Similmente lo studio del 1991 del ministero dell’Ambiente olandese [Dutch Government
1991], partendo dall’analisi della situazione funzionale delle diverse agglomerazioni, includeva tra
le “metropoli europee” solo Londra e Parigi, suggerendo che forse Berlino avrebbe potuto raggiungerle. Ma
tracciava una lista diversificata di “europoli” e “euro città” in grado di intessere relazioni internazionali intense a
partire da specializzazioni più accentuate.
Vanno nella stessa direzione anche tentativi un po’ più recenti, non più destinati ad
orientare mediante prospettiva le politiche territoriali dei paesi europei, ma più in generale
e con un’ottica meno policy-oriented, a stilare elenchi delle città dominanti nella gerarchia
urbana del mondo globalizzato. I lavori del gruppo di Loughborough già citato, “GaWC
Inventory of World Cities sulle città mondiali (Beaverstock, Taylor, Smith 1999) si
fondano, malgrado la consapevolezza affermata di dover lavorare sulle relazioni tra
agglomerazioni quanto sulle strutture che le caratterizzano singolarmente, sull’analisi
delle posizioni raggiunte per la fornitura di quei servizi qualificati che consentono ad
un’agglomerazione di imporsi nella gestione dell’economia mondiale, secondo le ipotesi
sulle relazioni tra effetto-città e meccanismi di ricostruzione dell’ordine economico
rintracciabili nella descrizione della città-globale in Saskia Sassen o della città mondiale
nei lavori di Friedmann e Wolff (cfr. Cap. 2): vale a dire sulla presenza e la forza dei
servizi altamente qualificati presenti in loco per “accountancy, advertising, banking, law”
(Hall 2001, 70). Lavorando su 122 città mondiali, individuano un’apice di dieci città
mondiali “Alpha”: Londra, Parigi, New York Tokyo con lo stesso score di 12, Chicago,
Francoforte, Hong Kong, Los Angeles, Milano, Singapore.
Nella fascia leggermente
inferiore città mondiali “Beta” troviamo Zurigo, Bruxelles, Madrid, Mosca, nella terza
fascia, città mondiali “Gamma”, Amsterdam, Dusseldorf, Ginevra , Praga, Roma,
Varsavia, Barcellona, Berlino, Budapest, Copenhagen, Amburgo, Istanbul, Monaco.
Interessante di questa analisi è il suo sottolineare la mobilità delle frontiere tra queste
classi e rilevare evidenze di formazione di città mondiali in molte aree del mondo, in
particolare in Europa: a Dublino, Lussemburgo, Lione, Vienna, Atene, Birmingham,
Bratsilava, Bucarest, Cologna, Kiev, Lisbona, Manchester, Oslo, Rotterdam, Stoccarda,
L’Aia, Anversa, Aårhus, Bologna, Dresda, Genova, Glasgow, Götenborg, Leeds, Lille,
Marseille, San Pietroburgo, Torino, Utrecht. Se ne deduce che al di là del numero ristretto
di città che possono definirsi come città globali dominanti, un largo numero di città
europee, in grado di vantare una posizione importante in qualche specializzazione, dalle
quali, con adeguate politiche urbane possono svilupparsi le economie locali anche in un
contesto di intensa concorrenza internazionale (oppure dalle quali può, in caso di
disattenzione o errori nelle scelte politiche, non emergere sostanziali benefici per le
società locali). “Vi è più di una strada verso lo status di città globale e le città lo stanno
scoprendo da sé stesse” (Hall 2001, 72).
3.URBANESIMO, CITTÀ E SISTEMI URBANI
3.1 Perché rileggere Weber e Wirth
Il tema della diffusione urbana, nella sociologia europea contemporanea, viene spesso
declinato insieme a quello della trasformazione funzionale e culturale della città, nel quadro di
interpretazioni delle trasformazioni territoriali che si ispirano in prima istanza ai modelli e alla
terminologia della sociologia economica, se non dell’economia tout court. Davanti alla
inconfutabile crescente indifferenziazione fisica tra città e campagna, si enfatizzano tratti
considerati nella sociologia classica come definitori della cultura cittadina, quali la capacità di
innovare e di concentrare le informazioni, o di favorire la descrizione (vale a dire l’allentamento
dei legami tradizionali e la conseguente crescente influenza negli assetti sociali delle
competenze acquisite dagli individui). Questi tratti vengono poi contestualizzati nelle
trasformazioni del sistema mondiale di comunicazione e nell’allargamento geografico dei
mondi vissuti.
La città viene allora interpretata: a) come uno spazio relazionale caratterizzato da densità
e diversificazione, quindi più efficace nell’ottimizzare i flussi comunicativi nazionali e
internazionali; b) come la migliore espressione dei legami deboli che connettono l’individuo
agli altri individui o ai sistemi sociali.
a) Da una parte, insistono alcuni, la «città» si starebbe trasformando funzionalmente,
allontanandosi sia dalla città storica che dalla città fordista, ed «estendendo le proprie
articolazioni in maniera reticolare e globale» [Rullani et al. 2000, 20]. Il tema della città che
vede nelle informazioni, nel tesaurizzarle e nel trasmetterle, la risorsa fondante della sua
posizione di preminenza è stato sviluppato nel 1989 da Castells in un saggio nel quale quel
tema veniva contemperato da considerazioni assai attente sulla ricomposizione delle
gerarchie tra insiemi urbani e sulle disuguaglianze socio-territoriali connesse al processo di
trasformazione della vita quotidiana sotto il segno della società «informazionale»:
Lo spazio delle organizzazioni nell’economia informazionale è sempre di più uno spazio di
flussi. Ciò non significa che le organizzazioni siano senza luoghi. Al contrario, i processi
decisionali continuano a dipende- re dal milieu nel quale la dominazione metropolitana si
fonda; la forni- tura di servizi deve seguire mercati dispersi, segmentati, segregati; operazioni di back office su larga scala sono strettamente dipendenti dai bacini di
manodopera concentrati nelle periferie delle grandi aree metropolitane. Ogni componente
della struttura di trattamento dell’informazione è geograficamente determinato [Castells
1989, 169].
b) Dall’altra parte si insiste sul fatto che la città attuale rispecchia, nel suo funzionamento
stesso, una struttura sociale mutata, in cui dominano i legami deboli perché molteplici (e
spesso contraddittori) e le connessioni sono più importanti delle gerarchie. Le città
funzionerebbero sempre di più sul modello, peraltro non inedito nella storia economica,
dell’impresa-rete [Fligstein 1997, 117]. Se le città, si afferma, fino alla loro fase industriale, si
sono consolidate come veri e propri ordini morali, ciascuno dei quali conteneva ed
esprimeva valori condivisi [Boltanski- Thévenot 1990], l’affermarsi della «città delle reti» o «città
relazionista» illustra l’emergere di un mondo nel quale dominano i legami fragili e la
condivisione di valori è parziale e temporanea [Perulli 2000, 176].
La rottura qui implicita con molta teoria classica della città viene spesso considerata
problematica: la forma a rete è percepita come forma tipica della sfera economica e, in
quanto tale, rappresenta una sfida alla sfera della rappresentanza politica: «L’economia è
sempre più arcipelago connesso di flussi in ogni direzione, e l’impresa una rete senza
precisi confini. Quali forme di governo sono ormai pensabili e realizzabili? E le forme a
rete – vincenti in economia – come si coniugano con una forma del potere politico che
tende ancora e sempre alla gerarchia?» [ibidem, 7]. Nella metafora della rete, «intesa
come connettore sociale concorrente sia del mercato che della gerarchia» [ibidem], sembra
tuttavia di intravedere una terza via teorica alla quale si aderisce con precipitazione, poiché,
«insoddisfatti delle risposte fornite dalle scienze sociali sia individualiste sia oliste, ma anche
della teoria dell’attore che viene dall’economia politica, cerchiamo un paradigma
intermedio» [ibidem]. La strada dalla metafora al paradigma rimane tuttavia lunga. E
spesso vi si perdono molte dimensioni analitiche che rappresentano proprio l’originalità e
l’utilità della prospettiva sociologica, laddove si interessi delle differenze socio-territoriali.
Il ricorso alla «rete» come strumento di indagine (cfr. cap. 3) per l’analisi delle strutture
sociali, o come metafora esemplificativa di nuove modalità di integrazione sociale in
consonanza con la labilità e la pluralità delle appartenenze, si associa in Europa ad una
visione reticolare del territorio: un territorio poco gerarchizzato nel quale le città – attori tra i
tanti – costruiscono e decostruiscono senza sosta la loro posizione. Suonano allora naturali
alcune affermazioni drastiche:
«La città è come il distretto industriale: la prossimità, l’agglomerazione sono lo strumento per
la riduzione dell’incertezza e dei costi di transazione ad essa connessi» [Rullani et al. 2000,
21].
Non vogliamo recepire acriticamente una tradizione per la quale le grandi città, lungi
dall’essere solo attori fra i tanti nella costruzione sociale, ne sono le vere protagoniste,
tradizione oggi rilevata dalla teoria internazionale sulla città globale (cap. 2). Tuttavia
dobbiamo notare che la tesi dell’omologazione sostanziale dei territori sullo sfondo
dell’unica distinzione tra nodi e segmenti di rete sembra condurre ad un inevitabile
impoverimento della descrizione sociologica, sviando l’impegno analitico da quei fenomeni
che oggi maggiormente dovrebbero richiamare l’attenzione del sociologo, vale a dire dalla
necessità di comprendere le nuove forme di disuguaglianza, in particolare nelle loro relazioni
con le nuove modalità della rappresentanza politica. La mega-città non è come il distretto; in
primo luogo perché la struttura di potere e le relazioni politiche che la reggono sono assai
diverse. Le strategie di «riduzione dell’incertezza» dei vari attori che la compongono non
sono quindi paragonabili. È un paradosso del dibattito europeo sulle modalità attuali
dell’urbanizzazione che il richiamo ad un’analisi sociologica dei territori più «classica»,
cioè meno segnata dai paradigmi economici e maggiormente attenta alle dimensioni
politiche della strutturazione sociale, provenga spesso dai teorici dell’urbanistica e dalla
riflessione sul piano, sui suoi contenuti e sulle sue funzioni.
Ogni l’interazione nello spazio richiede necessariamente la produzione di strumenti politici:
dalla forma elementare del riconoscimento dei gruppi di consumatori interagenti a quella
dialogica dell’interpretazione (ed eventualmente della modificazione) delle preferenze individuali
che il mercato non segnala più in modo efficiente. Politica – è chiaro – significa qui in primo
luogo un linguaggio attraverso il quale i soggetti possano comunicare e modificare (con la
persuasione) le proprie intenzioni, e possano concordare i termini di soluzioni contrattuali
[Ferraro 1990, 125].
La ricerca di aggiornamento dei modelli di pianificazione, in paesi come l’Italia, contribuisce
dunque a delineare responsabilità nuove per l’analisi sociologica. Tali indicazioni ci
riavvicinano a una concezione del- l’urbanesimo che, nella sua attenzione per le dimensioni
organizzative e politiche, è senz’altro più consona a quella suggerita da Weber quando
elabora il tipo ideale di «comune cittadino» che a quella s p e s s o assunta nella letteratura
contemporanea.
Non ogni città in senso economico – insisteva Weber – né ogni fortezza costituisce un
«comune». Anzi, soltanto l’Occidente ha conosciuto il comune cittadino come fenomeno di
massa [...]. Il comune cittadino include insediamenti commerciali, industriali, una fortezza,
un mercato, un tribunale proprio, con legislazione propria, ha carattere di gruppo sociale e
di conseguenza gode di autonomia e autocefalia, almeno parziale, vale a dire ha degli
amministratori nominati dai cittadini in quanto tali [Weber 1920; trad. it. 1950, 22].
Nel «carattere di gruppo», nell’autonomia regolativa si definisce la formazione urbana. Tale
carattere di gruppo non esclude disuguaglianze, differenziazione e conflitto interno. Anzi, la
città, fenomeno di potere (di potere «non legittimo», usurpato ai poteri preesistenti,
principe, imperatore o papa), si regge al suo interno sull’equilibrio instabile delle lotte tra ceti:
«I successi del popolo non furono raggiunti senza lotte violente, spesso sanguinose e
lunghe» [ibidem, 113]. Questo processo sopravvive e si consolida con l’ordinamento
politico-amministrativo della città: i confini all’interno dei quali un potere autonomo dispone
dell’uso legittimo della violenza.
L’attualità più recente tende tuttavia a riportare l’interesse alla cosiddetta “questione urbana”
(Rodgers-Barnett-Cochrane 2014). La crisi economica, si rileva, si “localizza” negli spazi
urbani, dove si trovano i luoghi chiave per i circuiti finanziari sempre più volatili
dell’accumulazione dei capitali, ma dove emergono con maggiore forza contraddizioni e
conflitti (Brenner et al. 2011). Secondo Harvey (2012) virtualmente tutte le crisi del
capitalismo hanno radici urbane, nel caso presente nell’economia politica del mercato
finanziario, e le città, per loro natura “ribelle”, hanno negli anni recenti confermato questa
vocazione attraverso una varietà di manifestazioni come Occupy Wall Street o le sommosse
urbane. Saskia Sassen osserva come all’apparire di una sfera politica globale corrisponda
una localizzazione precisa della mobilitazione politica non solo nelle grandi città, ma in alcuni
spazi urbani particolari, che offrono le condizioni utili allo sviluppo di nuove azioni politiche:
strade e piazze dell’edilizia più recente, spesso periferica, appaiono così in contrasto con gli
spazi più antichi dalla vita pubblica più ritualizzata (Sassen 2011). Le particolarità dei singoli
segmenti che compongono lo spazio urbano suscitano in breve la formazione di modalità di
azione collettiva che sempre più spesso si riferiscono ad un arena politica ampia se non
globale (Swyngedouw 2011, Thomassen 2012).
Enfatizzare la dimensione politica dell’urbano significa tornare ad una sua interpretazione più
ricca e classica della disciplina. Al di là delle diversità di impostazione, se vi è comune
denominatore nell’analisi sociologica classica della città moderna, preannunciata secondo
Weber dal comune medievale, esso risiede comunque nei concetti di complessità sociale e
creatività normativa. Wirth, meglio di altri, è riuscito qualche decennio più tardi a sintetizzare
una definizione di urbanesimo diventata luogo comune della sociologia dei territori: la città è
un «insediamento relativamente grande, denso e permanente di individui socialmente
eterogenei» [Wirth 1938]. Il numero stesso degli abitanti, in questa prospettiva, ha per
conseguenza la segmentazione delle relazioni umane; l’intensità forzata dei contatti fisici
nella residenza e nel lavoro si accompagna alla predominanza della comunicazione
indiretta. L’eterogeneità porta, insiste Wirth secondo la tradizione della Scuola di Chicago
(cfr. cap. 2, par. 3.2), a segregazione socio-spaziale, mentre alla solidarietà della comunità
rurale subentra la competizione, ma anche l’integrazione tramite routine e il controllo
formalizzato tipico dell’insieme urbano.
L’essere «urbani» accomuna per caratteristiche fisiche, sociali, politiche e culturali, per tratti
forti e definitori, insediamenti umani che sotto altri profili sono molto diversi fra loro. L’analisi
socio-territoriale deve partire da queste caratteristiche anche laddove voglia insistere su
elementi di rottura di vecchi equilibri e vecchie gerarchie territoriali.
2.2. Costruzione sociale e identificazione territoriale
Oltre alle caratteristiche specifiche riferibili all’urbanesimo che abbiamo già ricordato
(dimensione, densità, diversificazione, organizzazione politica), le città sono sistemi sociali
definiti su base territoriale, assumendo quindi tratti rintracciabili in tutti gli insiemi insediativi, e
spesso accentuandoli.
Tra questi l’«inerzia territoriale», cioè la capacità di sopravvivere modificandosi, tanto
maggiore quanto più si accentua la diversificazione sociale e funzionale. Di tale caratteristica
degli insediamenti umani, che secondo gli storici è più pronunciata nella città, l’illustrazione
migliore rimane forse la ricostruzione (fedelissima agli schemi insediativi precedenti) di
Londra dopo l’incendio del 1666.
Una delle caratteristiche pressoché costanti di un organismo urbano, quando è attivo, è
quello di rinnovarsi dal di dentro. Per questa ragione si usa dire che la città è un palinsesto [...]
Molto raramente una città è monofunzionale: anche quando nasce con queste caratteristiche
ben presto si modifica in senso polifunzionale e, se non lo fa, spesso muore. Quello che viene
chiamato dai sociologi «effetto città» agisce in ogni epoca della storia urbana [Pierotti 1993,
12].
Tale mobilitazione per innovare nel solco tracciato delle scelte tradizionali di insediamento
non si spiega che come risposta ad un bisogno antropologico di identificare elementi
significanti nel territorio (a questa identificazione presiedono i meccanismi di cui al cap. 3).
Gli insediamenti urbani, tentativi di messa in ordine dell’universo, mantengono il loro
significato simbolico tradizionale mentre il mondo si desacralizza.
Insediarsi in un territorio, costruire un’abitazione, richiede una decisione vitale per l’intera
comunità quanto per l’individuo. Poiché si tratta di assumere la «creazione del mondo» che si è
deciso di abitare. Bisogna quindi imitare l’opera degli dei, la cosmogonia [Eliade 1965, 47].
Le immagini esemplari sopravvivono ancora nel linguaggio e negli stereotipi dell’uomo
moderno. Qualcosa della concezione tradizionale del Mondo perdura ancora nel suo
comportamento, benché non sia sempre consapevole di quest’immemorabile eredità
[ibidem, 45-46].
Con ciò si intende a n c h e che ogni agglomerazione urbana contiene una sua «struttura
di centralità», vale a dire una concatenazione ordinata di manufatti e paesaggi significanti,
su cui si fondano i processi di identificazione dei contesti e di costruzione delle
appartenenze. In questa struttura di luoghi significativi il «centro storico», i cui confini
rispecchiano quelli dell’antica città murata, come insieme denso di manufatti a forte
significato culturale, laddove esista, occupa una posizione di preminenza ma sempre
fragile. Una tradizione sociologica consolidata lo considera formazione territoriale
tipicamente europea, esportata in alcune regioni del mondo con la colonizzazione. La
crescita della città orientale, insiste Weber, non segue un andamento concentrico, bensì si
sviluppa dall’esterno, secondo la volontà di un principe che non abita il suo nucleo geografico
centrale. Anche la città coloniale americana si contrappone, nella terminologia di alcuni
storici, in quanto «città politica» alla «città antica» o «città naturale» europea:
Questa città antica è un prodotto della terra coltivata, e le sue fondamenta sono state tracciate
dall’aratro [...] Perciò la città europea sorse in terreni fertili e vi sono zone che alimentano
popolazioni millenarie. La città americana nasce dalla spada, fu un fortino, una risorsa militare. Fu
creata dal decreto di un capitano, non fu ordita lentamente da un lungo affanno [...] La città
europea crebbe come un organismo, dal di dentro al di fuori e quelle americane come
meccanismi, dal di fuori al di dentro, come quando da sede di luogotenenza diventavano sede del
governatore, o si concedevano loro il Tribunale o il Vescovado. Anche per questo la città non
prende radici, ed è frequente il caso di vederla deambulare come un accampamento. Si
popolano, si spopolano muoiono senza lasciar traccia [...] Un dettaglio materiale distingue la città
politica dalla città naturale: la prima è simmetrica come un edificio o un giardino, l’altra è sinuosa
come un fiume o imbrogliata come una selva [Terán 1998, 84].
La simmetria del piano ortogonale imposto nella fondazione delle città latino-americane
dalla legge di Filippo II del 3 giugno 1573 si organizza attorno ad un centro-città a
immagine dei centri storici europei, costituito da una piazza monumentale adatta alle
celebrazioni civili, ma aperta alle attività commerciali e alle abitazioni signorili, e nelle sue
vicinanze da una chiesa «bella e imponente».
Arrivando nella località dove il nuovo insediamento deve essere fondato[...], il piano con le sue
piazze, strade e lotti deve essere tracciato sul terreno per mezzo di corde e picchetti, cominciando
dalla piazza principale da cui le strade devono correre verso le porte e le principali vie foranee,
e lasciando sufficiente spazio aperto, in modo che la città dovendo crescere possa estendersi
sempre nello stesso modo [...] La piazza centrale deve essere nel centro della città, di forma
oblunga, con la lunghezza pari almeno a una volta e mezzo la larghezza, poiché questa
proporzione è la migliore per le feste dove si usano cavalli, e per le celebrazioni [ibidem].
Il modello reticolare di pianta a scacchiera inscritto nella legge del 1573 nei disegni di fondazione di Mendoza (Argentina) (fonte: Benevolo-Romano [1998]
Il modello impostosi nelle città nord-americane è di più difficile lettura. La downtown, quasi
sempre individuabile sullo sfondo della struttura a scacchiera delle grandi agglomerazioni
statunitensi, sembrerebbe offrire la chiave di lettura della loro struttura di centralità. Le sue
funzioni (come sede delle attività direzionali) la qualificano come area egemone delle
metropoli. La sua qualificazione tradizionale come central business district rispecchia tuttavia
con chiarezza il suo status: non è l’espressione completa né di una «città naturale» (come il
centro storico della città europea) né di una «città politica» (come il centro della città latinoamericana). Vedremo nel prossimo capitolo che i lavori della Scuola ecologica di Chicago
descrivono già la downtown degli anni Venti come un nucleo monofunzionale attorno al
quale si dispongono aree dal significato sociale ben più intenso.
4. LA NOZIONE DI SISTEMA URBANO
Abbiamo visto che il ricorso a nozioni e modelli mutuati da altre discipline, che spesso
implicitamente si ispirano all’ipotesi di crescente omologazione dei territori, non sembra
soddisfare del tutto la necessità di analisi delle trasformazioni specifiche dell’urbanesimo nelle
società contemporanee. Abbiamo visto anche che le trasformazioni territoriali recenti, in
contesti di tradizionale densità insediative e dalle complesse strutture politico-territoriali
come quello europeo, nei quali i confini delle agglomerazioni e delle appartenenze sono
sempre più fluidi, hanno reso problematico il ricorso al termine di «città». Ad esso preferiremo
quindi quello di «sistema urbano», come nozione sociologica più adatta a comprendere le
molteplici conformazioni attuali dell’esperienza sociale ascrivibile all’urbanesimo.
Nel delineare i contenuti della nozione di sistema urbano bisogna partire dal concetto di sistema
e dall’utilizzo che di esso si fa nelle scienze sociali.
Nell’accezione a noi utile, si definisce sistema un insieme di attori individuali e collettivi,
pratiche, codici e attività dotati di una coerenza interna, di confini che ne delimitano lo
spazio rispetto all’ambiente, e di meccanismi che ne regolano l’equilibrio e la continuità
nel tempo.
Dal punto di vista degli elementi analitici, dunque, ciò che risalta sono i seguenti aspetti:
1)
una pluralità di attori;
2)
un complesso di pratiche, attività e codici, che possono essere più o meno formalizzati;
3)
dei confini rispetto all’ambiente circostante, che determinano le condizioni strategiche
dell’appartenenza e/o estraneità al sistema;
4)
dei meccanismi interni di controllo, che garantiscono quelle attività produttive-riproduttive
senza le quali il sistema non avrebbe stabilità e continuità nel tempo.
Nel caso di quel sistema che chiamiamo sistema urbano, l’elemento che più di ogni altro
va messo in risalto è quello dei confini. Rispetto a molte altre classi di sistemi che è possibile
passare in rassegna analiticamente, infatti, un sistema urbano non può prescindere
dall’individuazione di una precisa collocazione spaziale. Inoltre, sotto il profilo del
riferimento all’urbanità va precisato che la definizione di sistema urbano non si limita al
concetto tradizionale di città, ma ne comprende una molteplicità di varianti: dalla rete di città
confinanti alle aree metropolitane, dalle comunità montane alle molteplici altre formule che
mettono in relazione attori territoriali delle più svariate specie. Un altro elemento
analiticamente determinante è quello che riguarda il dinamismo dei sistemi urbani. Essi
sono soggetti a un continuo muta- mento di confini, che porta a spinte verso
l’inglobamento o la frammentazione. L’elemento del dinamismo, inoltre, ha una dimensione
non soltanto territoriale, ma anche politica e socio-economica: sistemi urbani possono
essere creati anche fra unità territorialmente distanti, ma accomunate nelle logiche di azione
da fattori aggreganti che fanno passare la prossimità spaziale in secondo piano. Ciò
compromette un elemento strategicamente ineludibile nelle analisi classiche della
costruzione sociale dello spazio: l’esclusività dell’appartenenza locale e dei confini di
legittimità (cap. 3, par. 2.1). Ma indica anche nella dinamica vitale dei sistemi, nei
meccanismi della loro genesi e della loro decadenza, nella riflessione sulle modalità della
loro strutturazione qualcosa che somiglia alla nuova frontiera della sociologia urbana. Basti
ricordare per ora che la gestione dei servizi, la programmazione dell’intervento pubblico, la
mobilità quotidiana si ridisegnano su confini che esulano dalle dimensioni strette delle città
storiche, confini tra di loro intersecanti, contraddittori. Come si ricostruiscono, in questo
contesto, le appartenenze? Come si legittima la leadership politica? Quello sulle aree
metropolitane non è solo un dibattito legato all’ingegneria istituzionale utile per ristabilire
equità e per ottimizzare la gestione dei servizi. Esso è parte di una problematica più ampia:
la costruzione di cornici e procedure di rappresentanza e di partecipazione adatte a un
milieu urbano fatto di appartenenze molteplici e fluide.