ANNICK MAGNIER, PIPPO R USSO Sociologia dei sistemi urbani Introduzione 1. Città e sistema urbano 2. Sociologia urbana e sociologia 3. Articolazione e contenuti del testo I. Tra città e sistema urbano 1. La città invincibile 2. Una seconda rivoluzione urbana 3. Sistemi sociali, sistemi urbani II. La descrizione sociologica dei sistemi urbani 1. 2. 3. 4. Autonomia Stili di vita Morfologia Struttura di potere III. Comunità e società urbana 1. 2. 3. 4. Il concetto di comunità nelle scienze sociali Dall’area naturale al quartiere Capitale sociale, «civicness» e città Città e modelli di cittadinanza IV. Globalizzazione e «glocal» 1. Globalizzazione: un concetto controverso 2. Processi di globalizzazione e protagonismo dei territori 3. Le città come attori competitivi V. Sistemi urbani come sistemi politici 1. Decentramento e «multi-level governance» 2. Le culture del mutamento urbano 3. Le culture della pianificazione VI. Le nuove politiche urbane 1. Sicurezza-prevenzione 2. Ambiente-sostenibilità 3. Comunicazione-consultazione VII. L’agire architettonico 1. 2. 3. 4. L’architettura come professione La sociologia nella progettazione Pratiche spaziali e logiche di progetto Critica e progetto Riferimenti bibliografici Indice analitico 8 INTRODUZIONE Introduzione 1. CITTÀ E SISTEMA URBANO Dopo un lungo periodo di sostanziale stabilità nel rapporto fra territori e strutture istituzionali tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio degli anni Ottanta, l’ultimo scorcio del XX secolo e l’inizio del nuovo hanno coinciso con una fase di profondi mutamenti. La fine dell’equilibrio bipolare, i processi di globalizzazione e la compressione del rapporto spazio/tempo nella circolazione di persone, merci e informazioni hanno determinato una radicale trasformazione che non sempre gli attori istituzionali tradizionali (in primo luogo i governi nazionali) sono stati in grado di governare. Una trasformazione che a livello territoriale ha investito in pieno la struttura preesistente, mettendo in discussione la tradizionale filiera istituzioni sovranazionali – stato nazione – regioni – livello subregionale o provinciale – singola unità urbana. Questa filiera è stata frammentata in una serie di istanze territo- riali che agiscono secondo gradi diversi di autonomia e secondo una logica di aggregazione che infrange le appartenenze consolidate e ne sperimenta di nuove. Per quanto concerne l’oggetto del presente volume – la dimensione urbana dei sistemi sociali – risulta ormai evidente l’inefficacia del ter- mine «città» per designare una vasta gamma di processi, funzioni, significati e attori a livelli territoriali diversi. La nozione di «sistema urbano» ci è parsa più adeguata a descrivere i mutamenti avvenuti a quel livello territoriale che un tempo si sarebbe definito «periferico», e che oggi assume una nuova autonomia e un nuovo protagonismo. Se gli attori locali tradizionali (regioni, province, comuni) acquistano una crescente influenza politica, non permettono di comprendere l’insieme dei fenomeni territoriali più recenti. La nozione di sistema urbano risponde a questa esigenza di confronto con una realtà fatta di attori e processi, alcuni tradizionali, altri più scarsamente strutturati, inclini a ridisegnare continuamente coalizioni, strategie e finalità. 8 INTRODUZIONE Il carattere innovativo del concetto di sistema urbano consiste in particolare nella diversa valenza dell’idea di «confine». Un sistema urbano, infatti, non può prescindere dall’individuazione di una collocazione spaziale. Ciò che caratterizza i sistemi territoriali cui si fa riferimento nel testo è però il fatto che i loro confini hanno un carattere mobile ed elastico, continuamente soggetto a trasformazione. 8 INTRODUZIONE 2. SOCIOLOGIA URBANA E SOCIOLOGIA Il rapporto della sociologia generale con la sociologia urbana si distingue in modo netto da quello con le altre sociologie specializzate. In questo caso, infatti, non ci troviamo di fronte al rapporto gerarchico fra disciplina-madre e sub-disciplina, con la prima che fornisce alla seconda il quadro teorico e i principali strumenti concettuali; al contrario, siamo in presenza di una relazione peculiare che assegna alla sociologia urbana un ruolo fondante della sociologia generale. Il sorgere della città moderna segna infatti una tappa decisiva nel supera- mento dalle società tradizionali, superamento che è il focus della socio- logia classica. L’interesse per il fenomeno urbano, dunque, consegue anzitutto dal fatto che la città è un fattore di emancipazione rispetto agli ordini sociali tradizionali e alle loro espressioni territoriali. «L’aria della città rende liberi», ricorda Weber ne La città [1920]. E per molti sociologi, nella fase di affermazione accademica della disciplina, la «grande città» come ambito sociale di particolare complessità e di estrema differenziazione, nelle sue potenzialità e nelle sue patologie, svela meccanismi e conseguenze del processo di modernizzazione. In questa fase fondativa – cui Weber e Tönnies, Simmel e Durkheim danno contributi che vedremo più avanti – si gettano appunto le basi della sociologia. Cent’anni dopo, le patologie metropolitane – povertà, conflittualità, violenze, malattie, degrado ambientale – riaprono in qualche modo per la sociologia le prospettive analitiche più classiche nella storia della disciplina. Ai «fatti sociali formati nello spazio» [Bagnasco 1994], spa- zio metropolitano in primo luogo, ma non solo, tornano ad interessarsi i maggiori sociologi occidentali, mentre la sociologia delle città e dei territori esce di nuovo dai confini di sub-disciplina nei quali si era raccolta nelle fasi di intenso sviluppo empirico, fra le quali spiccano l’esperienza della Scuola di Chicago tra le due guerre [Park et al. 1925] e il variegato filone di studi di matrice marxista che caratterizzò il panorama intellettuale degli anni Sessanta-Settanta [Katznelson 1982]. 3. ARTICOLAZIONE E CONTENUTI DEL TESTO All’interno del quadro di riferimento tratteggiato, abbiamo individuato sette argomenti chiave per la lettura dei processi territoriali contemporanei: a ciascuno di essi è stato dedicato un capitolo del testo. - Il primo capitolo discute il passaggio dalla città al sistema urbano, interrogandosi sulle ipotesi di «scomparsa della città» come attore collettivo e modello territoriale. - Adottato il concetto di sistema urbano come chiave di lettura dei processi territoriali innovativi (modelli di aggregazione, costruzione di coalizioni, classificazione degli attori e delle strategie), si delineano nel secondo capitolo gli scenari attuali. - Il terzo capitolo recupera uno dei concetti sociologici classici, quello di comunità, per verificarne l’attualità. Applicato alle realtà locali, esso torna utile per analizzare i persistenti fenomeni di particolarismo territoriale, i vincoli identitari che legano gli attori al territorio di riferimento e le reti di relazioni informali che si sostituiscono ai legami formali- istituzionali. - Il quarto capitolo è dedicato all’impatto dei processi di globalizzazione sulle realtà locali, sulle logiche di azione degli attori territoriali e sulla struttura dei loro rapporti di sovraordinazione e subordinazione. Si delinea così il quadro di quei processi che vengono definiti di «glocalizzazione», basati sul superamento della vecchia relazione centroperiferia e sull’assunzione di quella emergente globale-locale. - Il quinto capitolo è dedicato ai tratti fondanti di organizzazione politica che condizionano la gestione dei sistemi urbani. Esso discute in particolare, nei suoi aspetti salienti dal punto di vista sociologico, la congruenza delle trasformazioni istituzionali e culturali che attraversano i paesi dell’Unione europea nel processo di integrazione. - Lo stesso tema è affrontato nel sesto capitolo in un’altra prospettiva: l’analisi dei modelli di intervento in alcune policy areas che si segnalano per una nuova richiesta di analisi sociologica a sostegno dell’azione degli enti locali. - Infine, il settimo capitolo prova a ricostruire il filo conduttore del rapporto fra sociologia, architettura e pianificazione urbanistica. Al centro dell’attenzione viene posto il cosiddetto «agire architettonico», inteso come modello di azione capace di condurre la progettazione sul territorio a partire da una competenza specializzata e professionalizzata. Si passano dunque in rassegna i valori sociali della professione architettonica, la sua collocazione tra le professioni contemporanee, le logiche che guidano l’attività di progettazione degli spazi sia pubblici che privati. CAPITOLO 1 Tra città e sistema urbano Nonostante le ricorrenti denunce di un presunto declino dell’urbanesimo ma anche della inarrestabile omologazione funzionale e culturale dei territori, sembra oggi affermarsi una nuova «rivoluzione urbana». Nelle cosiddette «città globali» si concentrano le risorse per la direzione del sistema economico mondiale, mentre le mega-città del Terzo Mondo diventano il polo problematico dei difficili processi di modernizzazione dei paesi meno sviluppati; nel contesto europeo, il fenomeno della «diffusione urbana» conferma l’obsolescenza del concetto di città e suscita drastiche revisioni dei modelli di descrizione e di intervento. Si introducono qui gli strumenti analitici utili per una corretta descrizione di queste trasformazioni socio-territoriali, tra cui la nozione di sistema urbano. 1. LA CITTÀ INVINCIBILE 1.1. La diffusione della città e i problemi della sua misurazione Due citazioni, estratte da manuali di sociologia italiani, illustrano come nel breve intervallo di un decennio, nel nostro contesto culturale, il binomio città-campagna, elemento di raccordo tra la sociologia dei fondatori e quella della rinascita nel secondo dopoguerra, sia stato so toposto a drastica revisione. Alla fine degli anni Settanta città e campagna sono ancora considerate due realtà talmente diverse da consentire molte semplicistiche interpretazioni causali di mutamenti strutturali, come quella proposta nel Dizionario di sociologia: L’urbanizzazione ha conseguenze rilevanti e durature in parecchi campi. Non c’è dubbio che essa contribuisca a ridurre, fino eventualmente ad annullarlo, il tasso di incremento della popolazione. Più controverse quanto ad aspetti specifici ed entità, ma altrettanto certe nell’insieme, sono le modificazioni di vari attributi biopsichici della popolazione inurbata; è provato che dopo una o due generazioni essa presenta statura media più alta, eloquio più rapido, pubertà maschile e femminile più precoce e vita media più lunga della popolazione rurale. Gli effetti sulla mobilità sociale sembrano differire a seconda dei paesi e delle epoche [Gallino 1978]. Negli anni Ottanta diverse ipotesi convergono invece nel delineare un ineluttabile declino per la città e una sua progressiva assimilazione in un conglomerato «rurbanizzato» (cfr. più avanti): inedia demografica delle grandi concentrazioni insediative, erosione delle centralità funzionali, mediatizzazione dei rapporti politici. Proprio nei paesi industrializzati avanzati sembra oggi delinearsi un pro- cesso del tutto nuovo: la perdita di rilevanza non soltanto della distinzione tra città e campagna, ma della stessa localizzazione fisica delle attività produttive come del potere politico. In regioni completamente urbanizzate (o quasi), dove la campagna si è trasformata a immagine della città e dove l’assenza di caratteristiche urbane riguarda solo zone scarsamente popolate – foreste, deserti, montagne e via dicendo – non sussiste più la città nel senso tradizionale del termine. La città infatti non possiede più specificità nei confronti del territorio circostante, delle aree rurali non urbanizzate a cui si contrapponeva; e se ancora la possiede, tende a perderla. D’altra parte le industrie e le attività produttive non hanno più bisogno di concentrarsi in determinati luoghi: hanno soltanto bisogno di essere collegate, ma a ciò provvedono le vie di comunicazione e, in misura crescente, le reti informatiche. Anche il potere politico, pur rimanendo localizzato in istituzioni che hanno sede nelle capitali e nelle altre città, pur traendo da questa localizzazione parte del suo residuo significato simbolico, non riveste più un carattere specificamente urbano. I mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito il rapporto diretto tra la classe politica e il resto della popolazione, l’intervista televisiva ha preso il posto del comizio o dell’adunata; mentre l’informatica provvede alla raccolta e alla trasmissione dei dati necessari al funzionamento dell’apparato amministrativo. La città sta così cessando di essere il luogo del potere non già perché si sia trasferito altrove, ma perché il potere non richiede più un centro fisico in cui insediarsi e da cui espandersi [Ceri-Rossi 1987, 580-581]. Nell’arco di questi trent’anni si è fatto ricorso ad una vasta gamma di concetti per descrivere le trasformazioni delle strutture urbane e le nuove relazioni tra città e campagna; accanto ad alcuni neologismi hanno conosciuto nuova fortuna termini coniati all’inizio del secolo e a lungo rimasti di uso marginale. Di matrice disciplinare assai diversa, quasi tutti sono diventati di uso corrente nella pubblicistica, perdendo spesso le loro precise e diversificate connotazioni originali, connotazioni tutte utili invece nella descrizione sociologica dei territori e delle loro trasformazioni. Una breve messa a punto terminologica e storica è quindi necessaria. 1.2. Questioni di terminologia Alcuni di questi concetti afferiscono ai processi di mutamento socio-territoriali, altri alle nuove conformazioni territoriali che ne scaturiscono. - Concetto di riferimento basilare per quanto attiene ai processi è quello di «inurbamento», con il quale si indica la migrazione di popolazione dalle campagne alle città. È utilizzabile per descrivere gli spostamenti di massa, l’esodo di proletariato dalle fattorie alle fabbriche della rivoluzione industriale europea nel XIX secolo, ma anche la persistente concentrazione di popolazione nelle mega-città del Terzo Mondo, o movimenti di popolazione di minor entità come l’insediamento dei ceti aristocratici nelle città di corte oppure il ritorno alla città dei ceti bene- stanti nel quadro di processi di imborghesimento (gentrification) di alcuni suoi quartieri. - L’inurbamento delle popolazioni ha per conseguenza strutturale l’«urbanizzazione», vale a dire l’aumento della quota di popolazione che vive in città. Nel processo di urbanizzazione si usa distinguere una componente primaria e una componente secondaria. - «Urbanizzazione primaria» è detta quell’urbanizzazione provocata dal consolidamento economico della città e dalla conseguente offerta di posti di lavoro, che corrisponde ad esempio all’affermazione della città come centro industriale o come centro amministrativo. Un’urbanizzazione primaria sostenuta si rileva ad esempio nell’Italia dell’ulti- mo dopoguerra con l’affermazione del «triangolo industriale», ma an- che nell’espansione urbana sotto la spinta della crescita dell’amministrazione e dei servizi nella Napoli del Settecento. - L’«urbanizzazione secondaria» avviene, invece, di riflesso, o comunque senza corrispondere ad una crescita significativa della capacità dell’insieme urbano di produrre ricchezza economica: è quella delle città meridionali degli anni Sessanta, che spesso funzionano come tappe nell’esilio delle popolazioni rurali verso la città settentrionale, ma diventano anche non di rado luoghi di insediamento stabile; è quella tipica dei paesi sottosviluppati, nei quali la città rimane, secondo l’immagine ormai classica, il barattolo di miele verso il quale si precipitano i più disperati. - L’urbanizzazione secondaria offre un’illustrazione fra tante di un fenomeno più ampio, sulla descrizione del quale si fonda, come abbia- mo visto, la sociologia nel suo periodo di affermazione accademica: la diffusione di una cultura, nuova e sotto certi aspetti omologante, quella della grande città, che spesso viene semplicemente, da Wirth in poi, etichettata «urbanesimo» [Wirth 1938]. Contrariamente alla nozione di urbanizzazione, che vuole denotare quindi un semplice mutamento quantitativo, quella di urbanesimo si rifà ad una trasformazione che coinvolge esclusivamente l’area dei valori, degli atteggiamenti e dei comportamenti, inscrivendosi nel vasto armamentario concettuale utilizza- to dai teorici della modernizzazione. - Con il termine di «de-urbanizzazione» o quello, coniato da Berry [1976] di «controurbanizzazione» si descrive negli anni Settanta un movimento di abbandono delle città osservato prima negli Stati Uniti e che si suppone doversi progressivamente estendere alle città europee; sarebbe fattore ed effetto, secondo alcune interpretazioni radicali, di un vero e proprio fenomeno di de-urbanesimo, vale a dire di abbandono non solo delle città, ma anche dello stile di vita urbano. - Gli studi comparati condotti alla fine degli anni Settanta suggeriva- no che la crescita demografica si distribuisse anche in Europa secondo uno schema denominato negli Stati Uniti «Downwards, Outwards, Across», vale a dire dal più grande al più piccolo, dal centro all’esterno, dal vecchio al nuovo. Hall e Hay [1980] sulla base dei dati dei censimenti dal 1950 al 1971, e quindi Cheshire e Hay [1989] sulla base di dati del 1980, descrivono secondo questo schema l’evoluzione demografica delle Functional Urban Regions europee (insiemi urbani metropolitani definiti sulla base di criteri strutturali e funzionali (per una messa a punto sulle definizioni allora adottate di aree metropolitana, si veda Martinotti [1993]). Si supponeva allora che le aree metropolitane fossero entrate in una fase di decentramento con contrazione tappa finale di un processo plurisecolare, durante la quale la crescita della cintura non fosse sufficiente per compensare la per- dita di vitalità del centro, e nella quale, quindi, si contrae demo- graficamente tutta l’area metropolitana. Tendenze già attive nella fase precedente si sarebbero approfondite: la gentrification (imborghesimento) del centro si sarebbe associata al declino economico-strutturale nel provocare emigrazione dall’intera area. - L’ipotesi del declino urbano trova riscontri concreti negli anni Set- tanta nella striscia urbana europea di più antica industrializzazione, che va da Genova a Torino per poi attraversare la Francia dell’Est e del Nord, la Saar e la Ruhr, il Belgio, le Midlands, il Nord-Ovest e il Nord- Est dell’Inghilterra, Glasgow e Belfast, aree nelle quali la perdita di vitalità demografica veniva interpretata come effetto di una insufficiente compensazione della contrazione del settore manifatturiero con l’espansione del terziario [Cheshire-Hay 1989]. - Quell’ipotesi, però, si scontra visibilmente dagli anni Ottanta con molti andamenti demografici. Altri termini sembrano allora più adatti per descrivere i fenomeni in atto, come ad esempio quello di «ex urbanizzazione». È il termine generico che meglio permette di evocare la trasformazione socio-territoriale che investe gli insiemi urbani con la diffusione di strade e automobili, consistente in una espansione fisica della città e nella tendenza dei cittadini a vivere in aree residenziali situate all’esterno di essa, pur mantenendo uno stile di vita urbano: una situazione, quindi, nella quale continua ad affermarsi l’urbanesimo, pur venendo meno l’urbanizzazione. Questa tendenza di trasformazione, con diversi momenti di accelerazione e con diversa intensità, segna la storia recente di realtà urbane europee per altro assai diverse (cfr. fig. 1.1). - La «suburbanizzazione» è la paradossale conseguenza dell’ex urbanizzazione, che porta alla perdita di ogni base economica propria da parte degli insediamenti rurali e alla loro trasformazione in aree residenziali della città. La campagna diventa sobborgo, periferia. - La stessa accentuazione del fenomeno non porta all’affermazione incontrastata dell’urbanesimo, ma ad un’inversione di tendenza culturale tratteggiata attraverso il neologismo di “rurbanizzazione”. Con ciò si intende la costituzione di nuovi stili di vita e di nuovi modelli di uso del suolo. L’intensificazione degli scambi di valori, modelli e culture tra città e campagna fa sì che, mentre nella campagna si adottano i modelli cognitivi della vita della città, nelle aree urbane si reintroducono pezzi di cultura rurale, con una maggiore attenzione per le aree «verdi», nuovi modelli di edilizia residenziale ispirati alla vita rurale e più recentemente alle prospettive dell’attività e della cultura agricola. fig. 1.1. L’ex urbanizzazione: Londra 1840-1958. Fonte: CARTER [1962]. La crescita del movimento globale, politico ed architettonico, a sostegno dell’”agricoltura urbana” è infatti la più chiara illustrazione di questa riconciliazione culturale tra città e campagna che accomuna Nord e Sud del mondo. Agricoltura urbana, nella definizione della Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite è “industria che produce, trasforma e distribuisce cibo ed energia, in buona parte in risposta alla domanda quotidiana dei consumatori in una città o metropoli, su terra e acqua diffusa nell’area urbana e peri-urbana, impiegando metodi di produzione intensiva, utilizzando e riciclando risorse naturali e rifiuti urbani per nutrire una varietà di animali e piante”. Ma non è solo destinata a produrre ulteriori risorse alimentari vicino ai luoghi di vendita, quindi una fonte di possibili profitti che interessa i giganti dell’industria alimentare; è strumento per risanare l’ambiente urbano consentendo maggiore assorbimento di CO2 e polverini fini, riduzione del rumore, riuso di terreni vuoti di cui si evita la contaminazione; per migliorare controllo e sicurezza alimentare riducendo nel contempo il consumo di energia per il trasporto degli alimenti; per cambiare il paesaggio urbano introducendo varietà di vedute significative di ambienti tradizionalmente esterni alla città, mentre offre nuove attività per il tempo libero, opportunità educative e di incontro. Al di là dei sempre più numerosi segni architetturali attribuibili al singolo progettista, la dimensione collettiva dell’uso è infatti spesso esaltata nelle esperienze europee, che prendano la forma delle coltivazioni condominiali sui tetti, degli orti sociali, delle aree pubbliche di raccolta e di didattica della coltivazione. Progetto di fattoria verticale (D. Despommier, Columbia University) “Greenhouse giant: By stacking floors full of produce, a vertical farm could rake in $18 million a year”. A vegetable garden in the square in front of the train station in Ezhou, China a windowfarm, discarded designed plastic bottles to into incorporate pots for hydroponic agriculture in urban dwellings' windows Fig. 1.2. Diversi progetti riferibili all’“architettura urbana” A small urban farm in Amsterdam Similmente a quanto fatto per i termini destinati a descrivere i processi di trasformazione dei territori urbani, è utile ripercorrere, per chiarezza, i termini più spesso usati nelle scienze sociali per descrivere i risultati di questi processi, le proiezioni territoriali nuove degli insediamenti. Tra i termini relativi, non più ai processi, ma alle conformazioni urbane che ne scaturiscono ha ritrovato fortuna nel dibattito contemporaneo uno dei più antichi coniati per descrivere le trasformazioni degli insiemi urbani, quello di «conurbazione», proposto da Geddes all’inizio del XX secolo [1915]. Con esso si intende quell’insieme urbano nato dall’espansione di una città dotata di qualche carattere di preminenza, che porta all’assimilazione dei centri minori che la circondavano. La «conurbazione » è quindi una forma di agglomerazione urbana dotata di qualche gerarchia interna leggibile (per «agglomerazione urbana», dobbiamo invece intendere genericamente qualunque insieme denso e contiguo di insediamenti con i tratti culturali dell’urbanesimo). _ La nozione di conurbazione non è quindi dissimile dalla nozione di «area metropolitana» nella sua accezione italiana classica. Con ciò dobbiamo intendere, secondo Ardigò, «quell’unità spaziale urbana composta di una città centrale di sufficiente dimensione demografica e di aree urbanizzate gravitanti intorno alla città centrale e con questa strettamente interrelate» [Ardigò 1967]. Col termine di area o di regione «metropolitana» si sottolinea la relazione che intercorre tra i fenomeni di espansione e una struttura gerarchica del mondo urbano: con «metropoli», termine tratto dalla nomenclatura religiosa, si indica la città di riferimento, dotata di predominio politico e culturale, di un’intera area culturale. Alcune aree metropolitane sono dette policentriche; è il caso in Italia dell’area metropolitana Venezia-VeronaPadova. Con ciò si intende che sono insiemi complessi di sub-aree internamente gerarchizzate, strettamente interdipendenti, ma tra le quali è invece difficile delineare una struttura gerarchica netta. Il concetto coniato specificamente in altri contesti culturali per designare tale conformazione è quello (proposto da Gottmann) di «megalopoli», non a caso ripreso di recente per designare l’area metropolitana padana [Turri 2000]. Alcuni autori, dopo Mumford, utilizzano questo termine per designare semplicemente la città occidentale in una sua specifica fase di sviluppo, quella della crescita economica e dell’espansione fisica nei suburbi con- sentita dall’accesso di massa all’automobile e dallo sviluppo dei trasporti collettivi [Mumford 1938; 1961]. Sostituendo l’epiteto di globale a quello di metropolitana, promuovendo la nozione di città-regione globale [Scott 2001], sulla quale torneremo successivamente, un’ampia letteratura più recente oltre a proporre una serie di tesi sulla conformazione fisica e sociale delle grandi aree metropolitane emergenti nell’economia mondiale, sulla scia della nozione di città globale proposta da Saskia Sassen (cfr. Cap. 2), inserisce con efficacia l’analisi delle dinamiche socio-territoriali interne a quella della ristrutturazione territoriale complessiva richiesta dalle nuove dinamiche economiche. Meno attenta a questi aspetti e più interessata invece alla vita quotidiana delle popolazioni, all’innovazione nella gestione e nella progettazione urbane, alle sfide culturali e politiche che pongono le grandissime agglomerazioni (con più di 10 milioni di abitanti) è il filone di analisi che preferisce il termine di Megacities. Nel contesto italiano, collegabili all’ipotesi della «rurbanizzazione», sono presto apparsi alcuni termini con i quali si intendono designare insediamenti, di dimensione sempre più ampia ma non comparativamente contenuti, densi ma non dotati di leggibile struttura gerarchica né di chiara appartenenza ad una cultura urbana. Il termine di «città diffusa», con il quale si traduce imperfettamente l’espressione statunitense di “sprawl city” è apparso evocativo dell’’immagine generata dalla configurazione emergente degli insediamenti. Nel dibattito nazionale la descrizione degli insediamenti urbani spesso si rifà ad una linea interpretativa delle trasformazioni territoriali che evidenzia le specificità della «Terza Italia» e del modello insediativo tipico della società mezzadrile o di piccola proprietà del l’Italia centrale, per cui la diffusione verrebbe ad accentuare caratteri storici di forte policentrismo produttivo, di scarsa distinguibilità funzionale e di radicato connubio culturale tra città e campagna (cfr. Box 1.1). Questa linea interpretativa aveva trovato nella nozione di «campagna urbanizzata» un’altra fortunata espressione. Con essa si vuole tradizionalmente evocare la tipologia insediativa che ha accompagnato specificamente l’industrializzazione toscana: un continuum territoriale di aree a medio-alta densità abitativa, caratterizzato da imprese strettamente dipendenti – nella loro storia di successo – dalla loro stessa localizzazione, da specializzazioni diverse ma tutte nell’ambito dell’industrializzazione leggera o di settori terziari ad essa collegati. All’espressione città diffusa, si tende sempre più spesso in Italia a preferire termini diversi che tutti evocano le potenzialità o le capacità già espresse dei territori periferici ad esprimere una loro nuova struttura ed urbanità: ad esempio parlando di città diramata [Dietragiache et al. 2003], oppure di città fuori dalla città [Fantin et al. 2012]. ■ BOX 1.1. ■ La Terza Italia come modello di sviluppo Coniando nel 1977 la nozione di «Terza Italia», Bagnasco suggerì che alcune regioni del Centro e Nord-Est (Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Veneto, Friuli, Trentino) offrivano un modello di sviluppo economico, sociale e politico dotato di relativa omogeneità che le distingueva sia dal Nord- Ovest che dal Sud del paese. Oltre che il modello di sviluppo, quello fondato sulla piccola impresa e sull’economia diffusa, le accomunava l’essere aree di diverse (bianca quella delle regioni venete, rossa quella delle regioni centrali), ma altrettanto solide, sub-culture politiche. Con questo ultimo termine si intende «un particolare sistema politico locale caratterizzato da un elevato grado di consenso per una determinata forza e da un’elevata capacità di aggregazione e mediazione dei diversi interessi a livello locale. Questo presuppone l’esistenza di una fitta rete istituzionale (partiti, chiesa, gruppi di interesse, strutture assistenziali, culturali, ricreative) coordinata dalla forza domi- nante, che controlla anche il governo locale e tiene i rapporti con il sistema politico centrale. Attraverso questa rete, non solo si riproduce un’identità particolare, ma si contribuisce anche all’accordo locale tra i diversi interessi» [Trigilia 1986, 47-48]. Queste forme di coordinamento locale hanno da allora dimostrato, nel caso del Veneto, di sopravvivere con vigore alle trasformazioni delle configurazioni di partito e del comportamento elettorale. Il proliferare terminologico degli ultimi trent’anni basta ad illustrare le difficoltà, anche operative, che deve affrontare chiunque si avvicini a questa area concettuale. Non si può negare che distinguere città e campagna sulla base di indicatori semplici (come quelli della densità urbana o del peso del terziario nella struttura produttiva locale) diventa sempre più difficile. In tutti i paesi occidentali la distinzione tra città e campagna nelle statistiche pubbliche scaturisce ormai dalla costruzione di indici complessi. Nel descrivere le formazioni territoriali, la statistica pubblica italiana, ad esempio, ha utilizzato numerosi strumenti. Oggi le distinzioni degli ambienti insediativi lungo il continuum rurale- urbano si affidano a due strumenti analitici principali. - Il primo strumento privilegia la dimensione di dispersione-concentrazione fisica degli insediamenti, secondo una tipologia complessa ma consolidata che permette di individuare aggregati di dimensione inferiore al comune. Essa oppone i «centri abitati» ai «nuclei abitati» e alle «case sparse». Il «centro abitato» è “aggregato di case contigue o vicine con interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi soluzioni di continuità per la cui determinazione si assume un valore variabile intorno ai 70 metri, caratterizzato dall’esistenza di servizi od esercizi pubblici (scuola, ufficio pubblico, farmacia, negozio o simili) costituenti la condizione di una forma autonoma di vita sociale, e generalmente determinanti un luogo di raccolta ove sono soliti concorrere anche gli abitanti dei luoghi vicini per ragioni di culto, istruzione, affari, approvvigionamento e simili, in modo da manifestare l’esistenza di una forma di vita sociale coordinata dal centro stesso. Il «nucleo abitato», invece, è “località abitata, priva del luogo di raccolta che caratterizza il centro abitato, costituita da un gruppo di case contigue e vicine, con almeno cinque famiglie, con interposte strade, sentieri, piazze, aie, piccoli orti, piccoli incolti e simili, purché l’intervallo tra casa e casa non superi trenta metri e sia in ogni modo inferiore a quello intercorrente tra il nucleo stesso e la più vicina delle case manifestamente sparse” [dawinci.istat.it]. - Il secondo strumento è quello al quale l’ISTAT affida l’originalità della sua strumentazione nel panorama europeo: il «sistema locale di lavoro», unità considerata fondamentale nella comprensione delle dinamiche territoriali nazionali, e non solo. I «Sistemi locali di lavoro» «sono definibili come i luoghi della vita quotidiana della popolazione che vi risiede e lavora. Essi sono costituiti raggruppando più comuni sulla base degli spostamenti giornalieri per lavoro rilevati in occasione del censimento della popolazione. Ogni area comprende più comuni. La gran parte della popolazione residente lavora all'interno di essa e i datori di lavoro reclutano la maggior parte della forza-lavoro dalle località che la costituiscono” [ibidem]. Se il comune è la base dell’aggregazione, la costituzione stessa del sistema locale di lavoro prescinde quindi dalle altre divisioni amministrative (province, aggrega- zioni politiche come le comunità montane, circondari, zonizzazioni funzionali come quelle socio-sanitarie, ecc.). Il sistema locale di lavoro nasce nell’ambito delle scienze economiche e permette una descrizione dei fenomeni socioterritoriali che privilegia la sfera del mondo lavorativo: una sfera dalla quale nei grandi aggregati urbani contemporanei è esclusa da tempo una parte importante della popolazione (per le metropoli europee cfr. Magnier [1996]), una sfera in declino, secondo molti, come fattore di differenziazione sociale. Si tratta comunque di uno strumento analitico dotato, nel contesto di applicazione italiano, di notevole rigidità, poiché riferito al pendolarismo ufficialmente misurato, vale a dire agli spostamenti quotidiani per lavoro da un comune all’altro o all’interno dello stesso comune dichiarati in occasione del censimento; e che, per questo stesso motivo, può rappresentare solo un tassello in una descrizione aggiornata dell’insieme delle trasformazioni sociali che investono un territorio. 1.3. Urbanizzazione, urbanesimo e cicli storici Se città e campagna non possono più essere considerate come realtà contrastanti, ne dobbiamo dedurre che i contesti territoriali tendano ad omologarsi? Qual è il significato della diffusione urbana, nelle sue dimensioni demografiche e funzionali, all’interno delle organizzazioni sociali contemporanee? Essa si associa sempre agli stessi fenomeni sociali (e sono quelli in genere descritti), ascrivibili in primo luogo alla diffusione delle nuove forme di comunicazione che permettono la de- concentrazione di molte attività? Quali sono, in breve, i suoi significati sociologici nei diversi contesti? Gottmann già negli anni Settanta metteva in guardia contro i lieux communs sulle relazioni tra la deindustrializzazione e il declino della città, che, invece, a guardare l’esperienza storica, sembra «invincibile» mal- grado le successive profezie del suo declino: «La relazione tra produzione industriale e dinamica delle grandi città sembra essersi adeguata, almeno in Occidente e nell’ultimo millennio, ad un andamento che potrebbe venire definito come ciclico» [Gottmann 1983]. Questo studioso individua due cicli nella storia urbana dal Medioevo ad oggi. Ecco la descrizione del primo ciclo. Gli storici dell’economia hanno mostrato che nelle Fiandre, nell’Italia settentrionale e altrove tra il X e il XII secolo le città concentravano l’attività manifatturiera all’interno delle proprie mura. Questa tendenza a concentrare artigiani e corporazioni nei luoghi urbani era quasi conclusa nel XIII secolo. A partire dal XIV secolo e fino all’ultima parte del XVIII secolo si è poi sviluppata una migrazione dell’attività manifatturiera verso l’esterno, che ha distribuito la produzione industriale tra i villaggi e nella campagna. [...] Ma questa migrazione verso l’esterno non ha fatto perdere alle città il loro ruolo: esse hanno continuato a dirigere, a finanziare e a organizzare la produzione manifatturiera controllando la compravendita dei beni prodotti dagli uffici, dai loro central places. Le città potevano inoltre avere mantenuto la funzione di «incubatrici» per le nuove tecnologie industriali create dal Rinascimento [ibidem]. Analogamente si sviluppa un secondo ciclo (ritorno verso il centro iniziato ben prima dell’Ottocento, e più precisamente, in Francia, con la localizzazione delle manifatture reali nei sobborghi di Parigi, seguito da deconcentramento sotto la pressione dei costi crescenti della congestione, delle imposte e delle costrizioni normative), ma perfino nella sua fase conclusiva le città mantengono il proprio tradizionale control- lo generale sull’economia industriale e quella che Gottmann definisce la loro «funzione di incubatrice». Anche oggi la città è invincible per Gottmann proprio perché concentra le risorse economiche e tecniche utili allo sviluppo delle nuove for- me di comunicazione e di gestione dell’informazione; essa non è sostituita ma ridisegnata dalle nuove esigenze della produzione. Le immagini delle relazioni tra territori proposte più di recente nelle scienze umane insistono infatti, in contrasto con quanto avveniva vent’anni fa, sul peso e sulle funzioni di specifiche formazioni territoriali che scaturiscono dal nuovo ordine economico mondiale. Esse descrivono, a seconda della matrice analitica, il consolidamento di poche «città mondiali», “città globali” o “città regioni globali”, di reti urbane dominanti, di formazioni distrettuali, modalità diverse di ri-gerarchizzazione (cfr. cap. 4). Le disquisizioni sulla diffusione urbana non sono vanificate, ma assumono tutt’altro significato e interesse se, allargando l’orizzonte geografico e tematico, si reinseriscono nel con- testo problematico più ampio delle relazioni tra le città e l’insieme dei fenomeni economici e culturali che siamo soliti ormai riassumere sotto l’etichetta di «globalizzazione». Posizionare le città mondiali in una gerarchia urbana globale è così diventata preoccupazione di molti specialisti di studi urbani internazionali (una rivista di questa letteratura si trova nelle successive messe a punto di Beaverstock et al. 1999); che ricorrono a criteri analitici diversi. Il World Cities Study Group and Network distingue quattro approcci principali in questa ricerca di classifiche internazionali di città: alcuni analizzano le preferenze di localizzazione e i ruoli delle corporazioni multinazionali limitando l’analisi ai paesi sviluppati (Hall 1966, Heanan 1977), altri incentrano l’attenzione più precisamente sulle capacità e le attività decisionali di queste corporazioni nel contesto della nuova divisione internazionale del lavoro (Cohen 1981, Friedmann e Wolff 1982, Thrift 1989), altri sulla loro propensità e capacità ad impegnarsi per l’internazionalizzazione, la concentrazione dei produttori di servizi (Sassen 1991, 1994), altri, infine guardano alla graduatorie dei centri finanziari internazionali (Reed 1981): lo stesso gruppo diretto da P. Taylor e J. Beaverstock nota in conclusione che tutti guardano agli attributi delle città mentre sarebbe più utile analizzare le relazioni tra membri individuali di un sistema di città (Taylor 1997); ma mentre le statistiche disponibili, anche se spesso non omogenee, sugli attributi delle città sono numerose, più difficile è il procurarsi informazioni quantitative sulle relazioni singole che in concreto assicurano ad un insieme urbano una posizione di rilievo nella rete internazionale di città dominanti. Si utilizzano allora analisi del contenuto delle riviste di affari ed economia principali, tracciati delle migrazioni di persone altamente qualificate, della struttura geografica dei rami principali di società internazionali di servizi finanziari e legali (Beaverstock et al. 1999, Hall 2001). 2. UNA SECONDA RIVOLUZIONE URBANA 2.1. L’urbanizzazione come fenomeno contemporaneo Laddove si ragioni al livello del globo e sui tempi relativamente più lunghi, tra i processi dominanti vediamo all’ex-urbanizzazione associarsi una sostanziale e accelerata concentrazione, delle popolazioni e di alcune attività. Per molti, si tratta invero di una «seconda rivoluzione urbana», di un processo di importanza sociale paragonabile a quello che diede luogo alla rivoluzione urbana del terzo millennio a.C. Se le città infatti fino a due secoli fa costituivano le espressioni più alte delle singole civiltà, la maggioranza delle popolazioni fino viveva al di fuori di esse, nelle campagne. Nel XIX secolo appena il 10% della popolazione mondiale abitava in città. L’urbanizzazione si accentua nel XX secolo, specie dagli anni Cinquanta, prima nei paesi industrializzati, poi nei paesi in via di sviluppo, effetto sia della crescita della popolazione che dello spostamento di masse ingenti di popolazioni dalla campagna verso la città. È così che nel 1975 già il 35% della popolazione mondiale vive in aree definite urbane, e che alla fine del secondo millennio la metà della popolazione del globo è fatta di cittadini. Questi tre miliardi di cittadini si concentrano in buona parte in mega-città, vale a dire in agglomerazioni urbane con più di 10 milioni di abitanti. Fonte: United Nations, World Urbanization Prospects. The 2011 Revision – Dati 2011 Dati 1960 Previsioni 2025 Fonte: United Nations, World Urbanization Prospects. The 2011 Revision La più accreditata regolare analisi, quella delle Nazioni Unite che rimanda per principio alle diverse definizioni e delimitazioni nazionali degli ambienti “urbani”, propone nel 2011 una lista di 23 megacittà (United Nations 2012). 1 Japan Tokyo 37,22 2 India Delhi 22,65 3 Mexico Ciudad de México (Mexico City) 20,45 4 United States of America New York-Newark 20,35 5 China Shanghai 20,21 6 Brazil São Paulo 19,92 7 India Mumbai (Bombay) 19,74 8 China Beijing 15,59 9 Bangladesh Dhaka 15,39 10 India Kolkata (Calcutta) 14,40 11 Pakistan Karachi 13,88 12 Argentina Buenos Aires 13,53 13 United States of America Los Angeles-Long Beach-Santa Ana 13,40 14 Brazil Rio de Janeiro 11,96 15 Philippines Manila 11,86 16 Russian Federation Moskva (Moscow) 11,62 17 Japan Osaka-Kobe 11,49 18 Turkey Istanbul 11,25 19 Nigeria Lagos 11,22 20 Egypt Al-Qahirah (Cairo) 11,17 21 China Guangzhou, Guangdong 10,85 22 China Shenzhen 10,63 23 France Paris 10,62 United Nations, World Urbanization Prospects: The 2011 Revision Non mancano tuttavia descrizioni diverse; così nel 2013, un regolare aggiornamento della lista delle maggiori agglomerazioni del mondo, che usa una combinazione di criteri di delimitazione più complessa, suggerisce l’esistenza di un numero maggiore di megacittà, diversamente ordinate. 1 Japan Tokyo-Yokohama 37,3 2 Indonesia Jakarta (Jabotabek) 26,7 3 South Korea Seoul-Incheon 22,9 4 India Delhi 22,8 5 China Shanghai 21,8 6 Philippines Manila 21,2 7 Pakistan Karachi 20,9 8 United States New York 20,7 9 Brazil Sao Paulo 20,6 10 Mexico Mexico City 20,0 11 China Beijing 18,2 12 China Guangzhou-Foshan 17,7 13 India Mumbai 17,3 14 Japan Osaka-Kobe-Kyoto 17,2 15 Russia Moscow 15,8 16 Egypt Cairo 15,1 17 United States Los Angeles 15,1 18 India Kolkota 14,6 19 Thailand Bangkok 14,5 20 Bangladesh Dhaka 14,4 21 Argentina Buenos Aires 13,8 22 Iran Tehran 13,3 23 Turkey Istanbul 12,9 24 China Shenzhen 12,5 25 Nigeria Lagos 12,1 26 Brazil Rio de Janeiro 11,6 27 France Paris 10,9 28 Japan Nagoya 10,2 Demographia World Urban Areas: 9th Annual Edition (2013.03) Per la loro rapidità, la loro variabilità, la loro incoerenza con i tracciati amministrativi classici, il peso del fenomeno in paesi dall’apparato statistico pubblico debole, tali movimenti di popolazione sono infatti difficili da descrivere. Il tasso di crescita della popolazione urbana mondiale sta oggi decelerando. Tra il 1950 e il 2011 secondo le Nazioni Unite crebbe mediamente del 2,6% all’anno, ciò che consentì alla popolazione urbana mondiale di passare da 0,75 a 3,6 miliardi. Per il periodo 2011-2030 la stessa direzione degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite prevede una crescita media annuale dello 1,7%, il che corrisponde sempre tuttavia ad raddoppiamento della popolazione urbana mondiale in 41 anni; e per il periodo successivo 2030-2050 un tasso dello 1,1%, corrispondente ad un raddoppiamento in 63 anni. Urban and rural populations by development group, 1950-2050 United Nations, World Urbanization Prospects: The 2011 Revision La popolazione urbana mondiale nel 2050 sarebbe così cresciuta del 72%, da 3,6 miliardi oggi ai 6,3 miliardi previsti, vale a dire l’equivalente della popolazione totale del globo nel 2002. La crescita attesa si concentrerà nelle aree urbane dei paesi oggi meno sviluppate (che passerebbe dai 2,7 miliardi odierni a 5,1 miliardi nel 2050), mentre quella delle aree oggi più sviluppate crescerà più modestamente (dal miliardo attuale a 1,1 miliardo); mentre la popolazione rurale decrescerà in modo consistente nelle aree oggi meno sviluppate (da 3,1 miliardi a 2,9 miliardi di abitanti) (Ibidem). Non si può non interpretare tale uniforme e macroscopico fenomeno come uno degli elementi di un processo di trasformazione più ampio che investe in questo mezzo secolo un mondo sempre più interdipendente. Le aree urbane sono le protagoniste della globalizzazione; esse illustrano nel modo migliore questo insieme di processi sociali, demografici, culturali e politici, in parte guidato e in parte subito dalle classi dirigenti economiche e politiche; ciò avviene per la loro capacità di innovazione tecnologica, la loro partecipazione alla rivoluzione cognitiva, le loro risorse economico-finanziarie, le migrazioni che richiamano, la loro plurietnicità, le forme – e il livello – di espressione delle nuove domande che vi si manifestano; ed i loro diversi effetti, positivi e negativi sulle opportunità di vita offerte alle popolazioni. La città come tale entra di conseguenza in posizione preminente nell’agenda delle politiche di sviluppo. L’impegno delle Nazioni Unite, in collaborazione con i governi nazionali, gli enti locali, le associazioni, le imprese, i centri di ricerca per una riqualificazione degli “insediamenti umani” è così cresciuto dalla dichiarazione di Vancouver e alla pri ma Agenda Habitat del 1976, all’Agenda Habitat II definita ad Istanbul nel 1996, ad Istanbul+5 nel 2001 e alla Risoluzione detta Millennium Declaration “Dichiarazione sulle città e gli altri insediamenti umani”, fino all’attuale preparazione di Habitat I II prevista per il 2016. Il Piano Globale di Azione del 2003 recepisce i principi già definiti in Habitat II, e in particolare due priorità: "Un tetto adeguato per tutti " e "Insediamenti umani sostenibili in un mondo che si urbanizza”. UN-HABITAT definisce una famiglia come abitante di slum ogni “gruppo di individui che vivono sotto lo stesso tetto in un’area urbana che manca di uno o più delle seguenti qualità: 1. Alloggio durevole di natura permanente che protegge dalle condizioni di clima estreme; 2. Spazio di vita sufficiente, vale a dire non prevedente più di tre persone condividenti la stessa stanza; 3. Accesso facile ad acqua sicura in quantità sufficiente a prezzo sostenibile 4. Accesso adeguata a sanitari nella forma di toelette private o pubbliche per un numero ragionevole di persone 5. Garanzia di godimento che impedisce evizioni forzate. Nel 2010 stimava che 827 milioni di persone vivevano in slum o in condizioni simili, poiché affette da una o più di queste carenze. Le condizioni dell’alloggio e dei servizi collegati diventano tema centrale di Habitat, che d’altra parte dà origine negli ultimi anni ad una serie di programmi di finanziamenti e di assistenza tecnica volta a migliorare le politiche di gestione delle città nei paesi in via di sviluppo, con un attenzione particolare per gli interventi di protezione dell’ambiente e di potenziamento delle infrastrutture, nonché per le pratiche di valutazione e di informazione (www.unhabitat.org) (su questi punti si veda al Cap. 6 dedicato alle politiche urbane). 32 CAPITOLO 1 - Le città sono quindi anche protagoniste del dibattito internazionale sulle disuguaglianze, tra parti del mondo e tra generazioni. L’immagine delle luci notturne elaborata dal National Geophysical Data Center statunitense, usata in molte sintesi ormai classiche sulle disuguaglianze globali, non è solo descrittiva dei centri nevralgici globali, ma diventa anche denuncia se confrontata con l’immagine relativa alla densità della popolazione planetaria elaborata dal Center for International Earth Science Information Network della Columbia University. Compariamo i grappoli illuminatissimi del Nord-Est americano con i livelli relativamente bassi di luce emessi da una popolazione cinque volte più numerosa in India. Che cosa è più sostenibile? Che cosa è più ameno? Le città ricche d’energia dei paesi altamente industrializzati oggi sono ciò che devono diventare le altre? O formano un club esclusivo i cui membri privilegiati non vogliono o sono incapaci di aprire le porte agli altri? [UN World Urbanization Prospects 2001, 9]. D’altra parte, oberate da tutti i problemi della crescita, le città sono sempre più soggette a crisi drammatiche, specialmente nei paesi in via di sviluppo, ma non soltanto. Disoccupazione, degrado ambientale, carenza di servizi urbani, deterioramento delle infrastrutture e carenza di spazio, di risorse finanziarie e di alloggi adeguati vi assumono nuove dimensioni patologiche. fig. 1.3. Il mondo urbano: due immagini di sintesi. Fonte: UNCHS [2001]. 32 CAPITOLO 1 2.2 La problematica concentrazione-diffusione nell’agenda politica europea Alle dinamiche appena descritte il mondo urbano europeo, e dei paesi sviluppati in genere, si offre con le risorse di adattamento di chi gode di relativa stabilità in molte sue componenti strutturali: nessuna urbanizzazione rapida, anzi la progressiva scomparsa del mondo occidentale dalle registrazioni di re c o r d dell’urbanizzazione e delle concentrazioni di popolazione. Source: United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division: World Urbanization Prospects, the 2011 Revision. New York, 2012 Oggi le città della «vecchia Europa», secondo l’espressione pessimistica di Dollé [1990, 13], sono solo i «resti» di un impero se confrontate con le agglomerazioni dilaganti del Terzo 32 CAPITOLO 1 Mondo. La lista delle 30 più grandi agglomerazioni del mondo sta rapidamente cambiando, con l’eliminazione progressiva di quasi tutte le metropoli europee. Dal 1980, sono così sparite Milano, Essen, Londra; tra le megacitt à troviamo s oltant o Ist anbul e Parigi. Londra probabilmente le raggiungerà nei prossimi anni. Nessuna tuttavia avrà perso popolazione in questo intervallo. Non è quindi una forma di inedia che colpisce le agglomerazioni del vecchio mondo e in particolare del continente europeo. Le megacittà (con più di 10 milioni di abitanti) crescono sempre, ma nel mondo sviluppato partecipano al declino generalizzato del tasso di crescita urbana. Le grandi concentrazioni urbane in Europa raccolgono soltanto una parte minore della popolazione urbana, è la città media e piccola a rappresentare il modo di vita urbano più diffuso sul continente. Nel 2010 22 milioni di Europei vivono nelle due megacittà del continente, 21 milioni in agglomerazioni che comprendono tra 5 e 10 milioni di abitanti, 82 milioni in agglomerazioni che comprendono tra 1 e 5 milioni di abitanti mentre in quelle che nella letteratura grigia europea vengono definite “città medie” (con più di 500 000 ma meno di un milione di abitanti) risiedono 55 milioni di persone e nelle agglomerazioni minori 357 milioni (UN 2012). Guardando ai paesi dell’Unione Europea in particolare si deve ricordare che le dinamiche di diffusione-concentrazione associate alle modalità attuali di internazionalizzazione delle economie e delle culture, di mutamento delle opportunità, degli stili di vita e delle aspirazioni si inseriscono nella regione in un contesto di urbanizzazione densa e plurale [Martinotti 1993; Durand-Levy-Retaillé 1992; Pumain-Saint- Julien 1996]. Nei paesi dell’Unione la popolazione è nella sua stragrande maggioranza urbanizzata: gli unici scostamenti nazionali significativi della percentuale di popolazione inurbata si rilevano in Portogallo (con un terzo della popolazione urbanizzata). Nell’immagine di sintesi degli insediamenti umani che abbiamo già commentato, l’Europa si segnala innanzitutto per una larga macchia bianca, la luce prodotta dal «cuore» urbano dell’Europa: la cosiddetta «dorsale» o «metropoli europea». Settanta milioni di abitanti su 25.000 kmq, in una serie fitta di agglomerazioni che va dall’Inghilterra alla pianura padana, il percorso delle merci dal Mediterraneo al Mare del Nord, l’asse dello sviluppo europeo dal Medioevo. Qualche differenza interna alla stessa dorsale si intravede facilmente: si delinea una vasta area che va dalla Ruhr al Mare del Nord al livello dei Paesi Bassi, quasi totalmente urbana; un po’ meno dense sono le zone urbane del Regno Unito, l’Axial Belt formato da Londra-Liverpool-Manchester e le città della Scozia; più estesi, meno concentrati, sono gli insiemi urbani della Germania meridionale e della pianura padana. Nel resto dell’Unione europea l’armatura urbana si dissolve in una serie di punti più o meno intensi. «Parigi e il deserto francese» contrastano ancora, sebbene or- mai con modalità attenuate rispetto al momento in cui Gravier pubblicò l’omonimo libello di denuncia delle disuguaglianze socio-territoriali francesi [Gravier 1947]. Madrid illumina, contestata parzialmente da Barcellona, la sagoma della Spagna. Complessivamente la «dorsale» rappresenta l’elemento portante della struttura urbana europea, ma lascia spazio a realtà urbane assai differenziate, alcune delle quali molto influenti: i due terzi della popolazione urbana dell’Unione europea vivono fuori dalla «metropoli europea». Gli indici di concentrazione-dispersione ribadiscono con forza le differenze tra i paesi, che rispecchiano differenze nelle forme di organizzazione della produzione ma anche fra tradizioni di organizzazione della vita collettiva. Il contrasto appare netto tra i paesi dell’Unione europea con forte concentrazione in una città unica e i paesi con una tradizione urbana pluralista, nei quali lo sviluppo urbano si è appoggiato durante i secoli su molteplici comuni dotati di forte capacità di sviluppo autonomo. Tra i paesi con forte concentrazione si includono tutti i paesi scandinavi (in primo luogo la Finlandia e la Danimarca: un terzo della popolazione urbana danese vive a Copenaghen), la Francia (nell’agglomerazione parigina vive quasi un quarto della popolazione urbana nazionale), ma anche la Grecia e il Portogallo, che rappresentano alla perfezione il modello di paese a forte primazia urbana: più di metà della popolazione urbana greca vive ad Atene, quasi la metà della popolazione urbana portoghese a Lisbona. Tra i paesi con struttura urbana pluralista sono comprese la Germania, l’Italia e, in posizioni meno idealtipiche, la Spagna (con il suo perfetto schema diarchico Madrid-Barcellona) e la Gran Bretagna. Quest’ultima somma elementi contrastanti di pluralismo e di forte gerarchia: quattro agglomerazioni milionarie (Londra, Manchester, Birmingham, Leeds); nessuna primazia assoluta, ma un forte squilibrio demografico tra le agglomerazioni maggiori: l’agglomerazione londinese è quattro volte più grande della seconda agglomerazione britannica, quella di Birmingham. La Germania, invece, conta ben tredici agglomerazioni milionarie. Meno accentuato ma altrettanto chiaro il pluralismo urbano italiano: cinque agglomerazioni milionarie, mentre nella maggiore (Milano) si concentra p o c o p i ù d i u n d e c i m o d e lla popolazione urbana n a z i o n a l e . La crescita continua delle piccole città e delle città medie si inserisce quindi in un processo di urbanizzazione lieve ma generalizzata, le cui modalità e i cui fattori mutano a seconda delle tradizioni e delle situazioni economiche nazionali, e richiedono ancora una soddisfacente descrizione sociologica. Si può ipotizzare comunque che il dinamismo urbano si sia spostato negli ultimi decenni dalle aree dell’urbanizzazione «industriale» ottocentesca ai centri della vecchia armatura urbana dell’Europa settecentesca. Si può anche supporre che la patologia urbana abbia perso parte della sua incidenza nell’orientare la mobilità degli uomini e delle attività. Negli ultimi decenni mobilità residenziale, mobilità delle attività economiche e mobilità turistica in particolare sembrano indicare i luoghi chiave del panorama urbano europeo in due categorie «funzionali» di agglomerazioni, a volte convergenti, per le attese che su di esse si sono riversate e le tensioni che vi si sono sviluppate: la città-capitale e la città d’arte. Le dinamiche demografiche si inscrivono, con altre, in un ampio movimento di riposizionamento funzionale delle agglomerazioni europee in un sistema-mondo nel quale le capacità direzionali si concentrano in pochi luoghi centrali. Ormai da più di vent’anni le riflessioni sulla gerarchia urbana mondiale registrano per la maggior parte delle agglomerazioni europee una collocazione semiperiferica, con la sola incontestata eccezione di due agglomerazioni aventi il rango di città globali, Londra e Parigi. Lo studio di Conti e Spriano [1989], pur evidenziando un gruppo più folto di insiemi urbani con vocazione di «città globali direzionali» (Bruxelles, Amsterdam, Roma, Copenaghen, Francoforte, Milano), sottolineava anch’esso la predominanza di Londra e Parigi, esaltando la posizione eminente di Londra. Il gruppo diretto da Cattan pochi anni dopo distingueva sempre Londra e Parigi, in quanto «metropoli internazionali dominanti», dalle molte «metropoli internazionali specializzate» europee (Amsterdam, Amburgo, Berlino, Bruxelles, Copenaghen, Düsseldorf, Francoforte, Ginevra, Monaco, Strasburgo, Vienna, Zurigo), a loro volta ben distinte dalle metropoli regionali con una disuguale apertura internazionale [Cattan et al. 1997]. Nello studio di prospettiva divenuto un riferimento classico nella letteratura, proposto dalla DATAR nel 1989 sulla base di un’analisi delle funzioni delle 165 città europee con più di 200.000 abitanti, un esame più articolato delle specializzazioni delineava un quadro delle risorse e delle debolezze degli insiemi urbani europei nel complesso meno contrastato e più ricco di incognite nelle sue possibilità di evoluzione. Accanto all’invecchiante «banana blu» (la classica dorsale), nella quale si distingueva tuttavia un cuore antico (Paesi Bassi e Nord-Est della Germania) e un cuore nuovo (triangolo Monaco-Stoccarda-Zurigo), venivano individuate alcune aree di possibile rivalsa urbana nell’area mediterranea: un «Nord del Sud» che si dipartiva da MadridValencia fino alla Toscana e al Veneto, passando dalla valle del Rodano, la pianura padana, l’Emilia. Inoltre, si confermava la fiducia nelle risorse di sviluppo di alcune importanti agglomerazioni esterne alle due configurazioni (Glasgow, Edimburgo, Copenaghen, Berlino, Parigi). Si denunciavano invece la marginalità e la debolezza delle città del finis terrae, la facciata atlantica, per la quale le uniche possibilità di sviluppo dipendevano dal consolidamento dei legami con le aree centrali del territorio europeo. Le due classifiche sintetiche delle 165 città permettevano di includere, dal punto di vista della differenziazione funzionale, solo Londra e Francoforte tra le città che eccellono in tutti settori. Ma per il peso complessivo ottenuto sull’insieme degli indicatori nella prima classe si ritrovavano solo Londra e Parigi, nelle seconda e terza Milano, Madrid, Monaco, Francoforte, Roma, Bruxelles, Barcellona e Amsterdam. Dorsale Dipendenze Nord del Sud Aree assimilate Facciata atlantica I «Sud» Aree depresse Collegamenti con l’est Similmente lo studio del 1991 del ministero dell’Ambiente olandese [Dutch Government 1991], partendo dall’analisi della situazione funzionale delle diverse agglomerazioni, includeva tra le “metropoli europee” solo Londra e Parigi, suggerendo che forse Berlino avrebbe potuto raggiungerle. Ma tracciava una lista diversificata di “europoli” e “euro città” in grado di intessere relazioni internazionali intense a partire da specializzazioni più accentuate. Vanno nella stessa direzione anche tentativi un po’ più recenti, non più destinati ad orientare mediante prospettiva le politiche territoriali dei paesi europei, ma più in generale e con un’ottica meno policy-oriented, a stilare elenchi delle città dominanti nella gerarchia urbana del mondo globalizzato. I lavori del gruppo di Loughborough già citato, “GaWC Inventory of World Cities sulle città mondiali (Beaverstock, Taylor, Smith 1999) si fondano, malgrado la consapevolezza affermata di dover lavorare sulle relazioni tra agglomerazioni quanto sulle strutture che le caratterizzano singolarmente, sull’analisi delle posizioni raggiunte per la fornitura di quei servizi qualificati che consentono ad un’agglomerazione di imporsi nella gestione dell’economia mondiale, secondo le ipotesi sulle relazioni tra effetto-città e meccanismi di ricostruzione dell’ordine economico rintracciabili nella descrizione della città-globale in Saskia Sassen o della città mondiale nei lavori di Friedmann e Wolff (cfr. Cap. 2): vale a dire sulla presenza e la forza dei servizi altamente qualificati presenti in loco per “accountancy, advertising, banking, law” (Hall 2001, 70). Lavorando su 122 città mondiali, individuano un’apice di dieci città mondiali “Alpha”: Londra, Parigi, New York Tokyo con lo stesso score di 12, Chicago, Francoforte, Hong Kong, Los Angeles, Milano, Singapore. Nella fascia leggermente inferiore città mondiali “Beta” troviamo Zurigo, Bruxelles, Madrid, Mosca, nella terza fascia, città mondiali “Gamma”, Amsterdam, Dusseldorf, Ginevra , Praga, Roma, Varsavia, Barcellona, Berlino, Budapest, Copenhagen, Amburgo, Istanbul, Monaco. Interessante di questa analisi è il suo sottolineare la mobilità delle frontiere tra queste classi e rilevare evidenze di formazione di città mondiali in molte aree del mondo, in particolare in Europa: a Dublino, Lussemburgo, Lione, Vienna, Atene, Birmingham, Bratsilava, Bucarest, Cologna, Kiev, Lisbona, Manchester, Oslo, Rotterdam, Stoccarda, L’Aia, Anversa, Aårhus, Bologna, Dresda, Genova, Glasgow, Götenborg, Leeds, Lille, Marseille, San Pietroburgo, Torino, Utrecht. Se ne deduce che al di là del numero ristretto di città che possono definirsi come città globali dominanti, un largo numero di città europee, in grado di vantare una posizione importante in qualche specializzazione, dalle quali, con adeguate politiche urbane possono svilupparsi le economie locali anche in un contesto di intensa concorrenza internazionale (oppure dalle quali può, in caso di disattenzione o errori nelle scelte politiche, non emergere sostanziali benefici per le società locali). “Vi è più di una strada verso lo status di città globale e le città lo stanno scoprendo da sé stesse” (Hall 2001, 72). 3.URBANESIMO, CITTÀ E SISTEMI URBANI 3.1 Perché rileggere Weber e Wirth Il tema della diffusione urbana, nella sociologia europea contemporanea, viene spesso declinato insieme a quello della trasformazione funzionale e culturale della città, nel quadro di interpretazioni delle trasformazioni territoriali che si ispirano in prima istanza ai modelli e alla terminologia della sociologia economica, se non dell’economia tout court. Davanti alla inconfutabile crescente indifferenziazione fisica tra città e campagna, si enfatizzano tratti considerati nella sociologia classica come definitori della cultura cittadina, quali la capacità di innovare e di concentrare le informazioni, o di favorire la descrizione (vale a dire l’allentamento dei legami tradizionali e la conseguente crescente influenza negli assetti sociali delle competenze acquisite dagli individui). Questi tratti vengono poi contestualizzati nelle trasformazioni del sistema mondiale di comunicazione e nell’allargamento geografico dei mondi vissuti. La città viene allora interpretata: a) come uno spazio relazionale caratterizzato da densità e diversificazione, quindi più efficace nell’ottimizzare i flussi comunicativi nazionali e internazionali; b) come la migliore espressione dei legami deboli che connettono l’individuo agli altri individui o ai sistemi sociali. a) Da una parte, insistono alcuni, la «città» si starebbe trasformando funzionalmente, allontanandosi sia dalla città storica che dalla città fordista, ed «estendendo le proprie articolazioni in maniera reticolare e globale» [Rullani et al. 2000, 20]. Il tema della città che vede nelle informazioni, nel tesaurizzarle e nel trasmetterle, la risorsa fondante della sua posizione di preminenza è stato sviluppato nel 1989 da Castells in un saggio nel quale quel tema veniva contemperato da considerazioni assai attente sulla ricomposizione delle gerarchie tra insiemi urbani e sulle disuguaglianze socio-territoriali connesse al processo di trasformazione della vita quotidiana sotto il segno della società «informazionale»: Lo spazio delle organizzazioni nell’economia informazionale è sempre di più uno spazio di flussi. Ciò non significa che le organizzazioni siano senza luoghi. Al contrario, i processi decisionali continuano a dipende- re dal milieu nel quale la dominazione metropolitana si fonda; la forni- tura di servizi deve seguire mercati dispersi, segmentati, segregati; operazioni di back office su larga scala sono strettamente dipendenti dai bacini di manodopera concentrati nelle periferie delle grandi aree metropolitane. Ogni componente della struttura di trattamento dell’informazione è geograficamente determinato [Castells 1989, 169]. b) Dall’altra parte si insiste sul fatto che la città attuale rispecchia, nel suo funzionamento stesso, una struttura sociale mutata, in cui dominano i legami deboli perché molteplici (e spesso contraddittori) e le connessioni sono più importanti delle gerarchie. Le città funzionerebbero sempre di più sul modello, peraltro non inedito nella storia economica, dell’impresa-rete [Fligstein 1997, 117]. Se le città, si afferma, fino alla loro fase industriale, si sono consolidate come veri e propri ordini morali, ciascuno dei quali conteneva ed esprimeva valori condivisi [Boltanski- Thévenot 1990], l’affermarsi della «città delle reti» o «città relazionista» illustra l’emergere di un mondo nel quale dominano i legami fragili e la condivisione di valori è parziale e temporanea [Perulli 2000, 176]. La rottura qui implicita con molta teoria classica della città viene spesso considerata problematica: la forma a rete è percepita come forma tipica della sfera economica e, in quanto tale, rappresenta una sfida alla sfera della rappresentanza politica: «L’economia è sempre più arcipelago connesso di flussi in ogni direzione, e l’impresa una rete senza precisi confini. Quali forme di governo sono ormai pensabili e realizzabili? E le forme a rete – vincenti in economia – come si coniugano con una forma del potere politico che tende ancora e sempre alla gerarchia?» [ibidem, 7]. Nella metafora della rete, «intesa come connettore sociale concorrente sia del mercato che della gerarchia» [ibidem], sembra tuttavia di intravedere una terza via teorica alla quale si aderisce con precipitazione, poiché, «insoddisfatti delle risposte fornite dalle scienze sociali sia individualiste sia oliste, ma anche della teoria dell’attore che viene dall’economia politica, cerchiamo un paradigma intermedio» [ibidem]. La strada dalla metafora al paradigma rimane tuttavia lunga. E spesso vi si perdono molte dimensioni analitiche che rappresentano proprio l’originalità e l’utilità della prospettiva sociologica, laddove si interessi delle differenze socio-territoriali. Il ricorso alla «rete» come strumento di indagine (cfr. cap. 3) per l’analisi delle strutture sociali, o come metafora esemplificativa di nuove modalità di integrazione sociale in consonanza con la labilità e la pluralità delle appartenenze, si associa in Europa ad una visione reticolare del territorio: un territorio poco gerarchizzato nel quale le città – attori tra i tanti – costruiscono e decostruiscono senza sosta la loro posizione. Suonano allora naturali alcune affermazioni drastiche: «La città è come il distretto industriale: la prossimità, l’agglomerazione sono lo strumento per la riduzione dell’incertezza e dei costi di transazione ad essa connessi» [Rullani et al. 2000, 21]. Non vogliamo recepire acriticamente una tradizione per la quale le grandi città, lungi dall’essere solo attori fra i tanti nella costruzione sociale, ne sono le vere protagoniste, tradizione oggi rilevata dalla teoria internazionale sulla città globale (cap. 2). Tuttavia dobbiamo notare che la tesi dell’omologazione sostanziale dei territori sullo sfondo dell’unica distinzione tra nodi e segmenti di rete sembra condurre ad un inevitabile impoverimento della descrizione sociologica, sviando l’impegno analitico da quei fenomeni che oggi maggiormente dovrebbero richiamare l’attenzione del sociologo, vale a dire dalla necessità di comprendere le nuove forme di disuguaglianza, in particolare nelle loro relazioni con le nuove modalità della rappresentanza politica. La mega-città non è come il distretto; in primo luogo perché la struttura di potere e le relazioni politiche che la reggono sono assai diverse. Le strategie di «riduzione dell’incertezza» dei vari attori che la compongono non sono quindi paragonabili. È un paradosso del dibattito europeo sulle modalità attuali dell’urbanizzazione che il richiamo ad un’analisi sociologica dei territori più «classica», cioè meno segnata dai paradigmi economici e maggiormente attenta alle dimensioni politiche della strutturazione sociale, provenga spesso dai teorici dell’urbanistica e dalla riflessione sul piano, sui suoi contenuti e sulle sue funzioni. Ogni l’interazione nello spazio richiede necessariamente la produzione di strumenti politici: dalla forma elementare del riconoscimento dei gruppi di consumatori interagenti a quella dialogica dell’interpretazione (ed eventualmente della modificazione) delle preferenze individuali che il mercato non segnala più in modo efficiente. Politica – è chiaro – significa qui in primo luogo un linguaggio attraverso il quale i soggetti possano comunicare e modificare (con la persuasione) le proprie intenzioni, e possano concordare i termini di soluzioni contrattuali [Ferraro 1990, 125]. La ricerca di aggiornamento dei modelli di pianificazione, in paesi come l’Italia, contribuisce dunque a delineare responsabilità nuove per l’analisi sociologica. Tali indicazioni ci riavvicinano a una concezione del- l’urbanesimo che, nella sua attenzione per le dimensioni organizzative e politiche, è senz’altro più consona a quella suggerita da Weber quando elabora il tipo ideale di «comune cittadino» che a quella s p e s s o assunta nella letteratura contemporanea. Non ogni città in senso economico – insisteva Weber – né ogni fortezza costituisce un «comune». Anzi, soltanto l’Occidente ha conosciuto il comune cittadino come fenomeno di massa [...]. Il comune cittadino include insediamenti commerciali, industriali, una fortezza, un mercato, un tribunale proprio, con legislazione propria, ha carattere di gruppo sociale e di conseguenza gode di autonomia e autocefalia, almeno parziale, vale a dire ha degli amministratori nominati dai cittadini in quanto tali [Weber 1920; trad. it. 1950, 22]. Nel «carattere di gruppo», nell’autonomia regolativa si definisce la formazione urbana. Tale carattere di gruppo non esclude disuguaglianze, differenziazione e conflitto interno. Anzi, la città, fenomeno di potere (di potere «non legittimo», usurpato ai poteri preesistenti, principe, imperatore o papa), si regge al suo interno sull’equilibrio instabile delle lotte tra ceti: «I successi del popolo non furono raggiunti senza lotte violente, spesso sanguinose e lunghe» [ibidem, 113]. Questo processo sopravvive e si consolida con l’ordinamento politico-amministrativo della città: i confini all’interno dei quali un potere autonomo dispone dell’uso legittimo della violenza. L’attualità più recente tende tuttavia a riportare l’interesse alla cosiddetta “questione urbana” (Rodgers-Barnett-Cochrane 2014). La crisi economica, si rileva, si “localizza” negli spazi urbani, dove si trovano i luoghi chiave per i circuiti finanziari sempre più volatili dell’accumulazione dei capitali, ma dove emergono con maggiore forza contraddizioni e conflitti (Brenner et al. 2011). Secondo Harvey (2012) virtualmente tutte le crisi del capitalismo hanno radici urbane, nel caso presente nell’economia politica del mercato finanziario, e le città, per loro natura “ribelle”, hanno negli anni recenti confermato questa vocazione attraverso una varietà di manifestazioni come Occupy Wall Street o le sommosse urbane. Saskia Sassen osserva come all’apparire di una sfera politica globale corrisponda una localizzazione precisa della mobilitazione politica non solo nelle grandi città, ma in alcuni spazi urbani particolari, che offrono le condizioni utili allo sviluppo di nuove azioni politiche: strade e piazze dell’edilizia più recente, spesso periferica, appaiono così in contrasto con gli spazi più antichi dalla vita pubblica più ritualizzata (Sassen 2011). Le particolarità dei singoli segmenti che compongono lo spazio urbano suscitano in breve la formazione di modalità di azione collettiva che sempre più spesso si riferiscono ad un arena politica ampia se non globale (Swyngedouw 2011, Thomassen 2012). Enfatizzare la dimensione politica dell’urbano significa tornare ad una sua interpretazione più ricca e classica della disciplina. Al di là delle diversità di impostazione, se vi è comune denominatore nell’analisi sociologica classica della città moderna, preannunciata secondo Weber dal comune medievale, esso risiede comunque nei concetti di complessità sociale e creatività normativa. Wirth, meglio di altri, è riuscito qualche decennio più tardi a sintetizzare una definizione di urbanesimo diventata luogo comune della sociologia dei territori: la città è un «insediamento relativamente grande, denso e permanente di individui socialmente eterogenei» [Wirth 1938]. Il numero stesso degli abitanti, in questa prospettiva, ha per conseguenza la segmentazione delle relazioni umane; l’intensità forzata dei contatti fisici nella residenza e nel lavoro si accompagna alla predominanza della comunicazione indiretta. L’eterogeneità porta, insiste Wirth secondo la tradizione della Scuola di Chicago (cfr. cap. 2, par. 3.2), a segregazione socio-spaziale, mentre alla solidarietà della comunità rurale subentra la competizione, ma anche l’integrazione tramite routine e il controllo formalizzato tipico dell’insieme urbano. L’essere «urbani» accomuna per caratteristiche fisiche, sociali, politiche e culturali, per tratti forti e definitori, insediamenti umani che sotto altri profili sono molto diversi fra loro. L’analisi socio-territoriale deve partire da queste caratteristiche anche laddove voglia insistere su elementi di rottura di vecchi equilibri e vecchie gerarchie territoriali. 2.2. Costruzione sociale e identificazione territoriale Oltre alle caratteristiche specifiche riferibili all’urbanesimo che abbiamo già ricordato (dimensione, densità, diversificazione, organizzazione politica), le città sono sistemi sociali definiti su base territoriale, assumendo quindi tratti rintracciabili in tutti gli insiemi insediativi, e spesso accentuandoli. Tra questi l’«inerzia territoriale», cioè la capacità di sopravvivere modificandosi, tanto maggiore quanto più si accentua la diversificazione sociale e funzionale. Di tale caratteristica degli insediamenti umani, che secondo gli storici è più pronunciata nella città, l’illustrazione migliore rimane forse la ricostruzione (fedelissima agli schemi insediativi precedenti) di Londra dopo l’incendio del 1666. Una delle caratteristiche pressoché costanti di un organismo urbano, quando è attivo, è quello di rinnovarsi dal di dentro. Per questa ragione si usa dire che la città è un palinsesto [...] Molto raramente una città è monofunzionale: anche quando nasce con queste caratteristiche ben presto si modifica in senso polifunzionale e, se non lo fa, spesso muore. Quello che viene chiamato dai sociologi «effetto città» agisce in ogni epoca della storia urbana [Pierotti 1993, 12]. Tale mobilitazione per innovare nel solco tracciato delle scelte tradizionali di insediamento non si spiega che come risposta ad un bisogno antropologico di identificare elementi significanti nel territorio (a questa identificazione presiedono i meccanismi di cui al cap. 3). Gli insediamenti urbani, tentativi di messa in ordine dell’universo, mantengono il loro significato simbolico tradizionale mentre il mondo si desacralizza. Insediarsi in un territorio, costruire un’abitazione, richiede una decisione vitale per l’intera comunità quanto per l’individuo. Poiché si tratta di assumere la «creazione del mondo» che si è deciso di abitare. Bisogna quindi imitare l’opera degli dei, la cosmogonia [Eliade 1965, 47]. Le immagini esemplari sopravvivono ancora nel linguaggio e negli stereotipi dell’uomo moderno. Qualcosa della concezione tradizionale del Mondo perdura ancora nel suo comportamento, benché non sia sempre consapevole di quest’immemorabile eredità [ibidem, 45-46]. Con ciò si intende a n c h e che ogni agglomerazione urbana contiene una sua «struttura di centralità», vale a dire una concatenazione ordinata di manufatti e paesaggi significanti, su cui si fondano i processi di identificazione dei contesti e di costruzione delle appartenenze. In questa struttura di luoghi significativi il «centro storico», i cui confini rispecchiano quelli dell’antica città murata, come insieme denso di manufatti a forte significato culturale, laddove esista, occupa una posizione di preminenza ma sempre fragile. Una tradizione sociologica consolidata lo considera formazione territoriale tipicamente europea, esportata in alcune regioni del mondo con la colonizzazione. La crescita della città orientale, insiste Weber, non segue un andamento concentrico, bensì si sviluppa dall’esterno, secondo la volontà di un principe che non abita il suo nucleo geografico centrale. Anche la città coloniale americana si contrappone, nella terminologia di alcuni storici, in quanto «città politica» alla «città antica» o «città naturale» europea: Questa città antica è un prodotto della terra coltivata, e le sue fondamenta sono state tracciate dall’aratro [...] Perciò la città europea sorse in terreni fertili e vi sono zone che alimentano popolazioni millenarie. La città americana nasce dalla spada, fu un fortino, una risorsa militare. Fu creata dal decreto di un capitano, non fu ordita lentamente da un lungo affanno [...] La città europea crebbe come un organismo, dal di dentro al di fuori e quelle americane come meccanismi, dal di fuori al di dentro, come quando da sede di luogotenenza diventavano sede del governatore, o si concedevano loro il Tribunale o il Vescovado. Anche per questo la città non prende radici, ed è frequente il caso di vederla deambulare come un accampamento. Si popolano, si spopolano muoiono senza lasciar traccia [...] Un dettaglio materiale distingue la città politica dalla città naturale: la prima è simmetrica come un edificio o un giardino, l’altra è sinuosa come un fiume o imbrogliata come una selva [Terán 1998, 84]. La simmetria del piano ortogonale imposto nella fondazione delle città latino-americane dalla legge di Filippo II del 3 giugno 1573 si organizza attorno ad un centro-città a immagine dei centri storici europei, costituito da una piazza monumentale adatta alle celebrazioni civili, ma aperta alle attività commerciali e alle abitazioni signorili, e nelle sue vicinanze da una chiesa «bella e imponente». Arrivando nella località dove il nuovo insediamento deve essere fondato[...], il piano con le sue piazze, strade e lotti deve essere tracciato sul terreno per mezzo di corde e picchetti, cominciando dalla piazza principale da cui le strade devono correre verso le porte e le principali vie foranee, e lasciando sufficiente spazio aperto, in modo che la città dovendo crescere possa estendersi sempre nello stesso modo [...] La piazza centrale deve essere nel centro della città, di forma oblunga, con la lunghezza pari almeno a una volta e mezzo la larghezza, poiché questa proporzione è la migliore per le feste dove si usano cavalli, e per le celebrazioni [ibidem]. Il modello reticolare di pianta a scacchiera inscritto nella legge del 1573 nei disegni di fondazione di Mendoza (Argentina) (fonte: Benevolo-Romano [1998] Il modello impostosi nelle città nord-americane è di più difficile lettura. La downtown, quasi sempre individuabile sullo sfondo della struttura a scacchiera delle grandi agglomerazioni statunitensi, sembrerebbe offrire la chiave di lettura della loro struttura di centralità. Le sue funzioni (come sede delle attività direzionali) la qualificano come area egemone delle metropoli. La sua qualificazione tradizionale come central business district rispecchia tuttavia con chiarezza il suo status: non è l’espressione completa né di una «città naturale» (come il centro storico della città europea) né di una «città politica» (come il centro della città latinoamericana). Vedremo nel prossimo capitolo che i lavori della Scuola ecologica di Chicago descrivono già la downtown degli anni Venti come un nucleo monofunzionale attorno al quale si dispongono aree dal significato sociale ben più intenso. 4. LA NOZIONE DI SISTEMA URBANO Abbiamo visto che il ricorso a nozioni e modelli mutuati da altre discipline, che spesso implicitamente si ispirano all’ipotesi di crescente omologazione dei territori, non sembra soddisfare del tutto la necessità di analisi delle trasformazioni specifiche dell’urbanesimo nelle società contemporanee. Abbiamo visto anche che le trasformazioni territoriali recenti, in contesti di tradizionale densità insediative e dalle complesse strutture politico-territoriali come quello europeo, nei quali i confini delle agglomerazioni e delle appartenenze sono sempre più fluidi, hanno reso problematico il ricorso al termine di «città». Ad esso preferiremo quindi quello di «sistema urbano», come nozione sociologica più adatta a comprendere le molteplici conformazioni attuali dell’esperienza sociale ascrivibile all’urbanesimo. Nel delineare i contenuti della nozione di sistema urbano bisogna partire dal concetto di sistema e dall’utilizzo che di esso si fa nelle scienze sociali. Nell’accezione a noi utile, si definisce sistema un insieme di attori individuali e collettivi, pratiche, codici e attività dotati di una coerenza interna, di confini che ne delimitano lo spazio rispetto all’ambiente, e di meccanismi che ne regolano l’equilibrio e la continuità nel tempo. Dal punto di vista degli elementi analitici, dunque, ciò che risalta sono i seguenti aspetti: 1) una pluralità di attori; 2) un complesso di pratiche, attività e codici, che possono essere più o meno formalizzati; 3) dei confini rispetto all’ambiente circostante, che determinano le condizioni strategiche dell’appartenenza e/o estraneità al sistema; 4) dei meccanismi interni di controllo, che garantiscono quelle attività produttive-riproduttive senza le quali il sistema non avrebbe stabilità e continuità nel tempo. Nel caso di quel sistema che chiamiamo sistema urbano, l’elemento che più di ogni altro va messo in risalto è quello dei confini. Rispetto a molte altre classi di sistemi che è possibile passare in rassegna analiticamente, infatti, un sistema urbano non può prescindere dall’individuazione di una precisa collocazione spaziale. Inoltre, sotto il profilo del riferimento all’urbanità va precisato che la definizione di sistema urbano non si limita al concetto tradizionale di città, ma ne comprende una molteplicità di varianti: dalla rete di città confinanti alle aree metropolitane, dalle comunità montane alle molteplici altre formule che mettono in relazione attori territoriali delle più svariate specie. Un altro elemento analiticamente determinante è quello che riguarda il dinamismo dei sistemi urbani. Essi sono soggetti a un continuo muta- mento di confini, che porta a spinte verso l’inglobamento o la frammentazione. L’elemento del dinamismo, inoltre, ha una dimensione non soltanto territoriale, ma anche politica e socio-economica: sistemi urbani possono essere creati anche fra unità territorialmente distanti, ma accomunate nelle logiche di azione da fattori aggreganti che fanno passare la prossimità spaziale in secondo piano. Ciò compromette un elemento strategicamente ineludibile nelle analisi classiche della costruzione sociale dello spazio: l’esclusività dell’appartenenza locale e dei confini di legittimità (cap. 3, par. 2.1). Ma indica anche nella dinamica vitale dei sistemi, nei meccanismi della loro genesi e della loro decadenza, nella riflessione sulle modalità della loro strutturazione qualcosa che somiglia alla nuova frontiera della sociologia urbana. Basti ricordare per ora che la gestione dei servizi, la programmazione dell’intervento pubblico, la mobilità quotidiana si ridisegnano su confini che esulano dalle dimensioni strette delle città storiche, confini tra di loro intersecanti, contraddittori. Come si ricostruiscono, in questo contesto, le appartenenze? Come si legittima la leadership politica? Quello sulle aree metropolitane non è solo un dibattito legato all’ingegneria istituzionale utile per ristabilire equità e per ottimizzare la gestione dei servizi. Esso è parte di una problematica più ampia: la costruzione di cornici e procedure di rappresentanza e di partecipazione adatte a un milieu urbano fatto di appartenenze molteplici e fluide.