QUANDO LA PUBBLICITA' ERA RECLAME
Aggirandosi nel Centro Congressi della Camera di Commercio di Torino, che fino a metà gennaio ha
ospitato una mostra di cartelloni pubblicitari torinesi d'epoca liberty, veniva da pensare: "Ma veramente
il mondo del passato era così più bello di quello attuale? Davvero la vita d'inizio secolo era questa
armonia di forme e di colori, era così delicata, possente, intrigante, leggera, spumeggiante,
decorativa,affascinante? " Ad osservare i magnifici manifesti in esposizione, una scelta di circa un
centinaio tutti legati in un qualche modo alla vita di Torino tra il 1875 e il 1915, la prima osservazione
è un'esclamazione a mezzo tra il rimpianto, la nostalgia e l'ammirazione: "Come era bella la pubblicità
di una volta!". Pubblicità automobilistica compresa, naturalmente, e gli esempi pubblicati in queste
pagine ne forniscono prova.
Questa esclamazione non nasce soltanto dai meravigliosi disegni e colori in cui questi manifesti
eccellono, ma da un istintivo ed immediato confronto con il manifesto pubblicitario di oggi, e le forme
di comunicazione pubblicitaria odierne tout court. Dopo tanti libri, mostre, dotte recensioni, aste
milionarie, non costituisce certo più novità l'affermazione che il manifesto è stato un'autentica
espressione d'arte; che ha trasceso i suoi confini di informazione e promozione, per diventare fatto di
costume, opera d'arte, documento storico. Tutto questo lo sappiamo: ce lo hanno insegnato le aste di
Bolaffi, di cui è parlato recentemente anche su queste pagine, la splendida raccolta della collezione
Salce a Treviso, le numerose opere pubblicate sull'argomento, oltre a mostre come questa conclusasi
recentemente a Torino.
Ma il riconoscimento di un fenomeno non porta necessariamente alla sua comprensione. Perchè la
pubblicità di una volta era bella, e lo voleva essere? Perchè la pubblicità di oggi non lo è, e non lo vuole
essere?
Un bellissimo libro, "Vetrina della Belle Epoque", di Gian Paolo Ceserani (Bari, Editori Laterza, 1980),
affronta questa domanda, tutt'altro che banale e facile a rispondersi.
E' facile, e' immediato, ci conferma l'autore, lasciarci incantare da queste donnine dalle gonne
svolazzanti, da quei piedini fasciati di seta che poggiano sul predellino di lussuose automobili, o dalle
esposizioni, celebrazioni, inaugurazioni suggellate e accompagnate dalle solenni divinità dell'Olimpo.
E' una "creatività felice", come felici ne sono i risultati. Una creatività utilizzata per comunicare ad un
gruppo molto specifico e ristretto: era una pubblicità diretta alla borghesia. Era la borghesia che
comperava, come ci ricorda Ceserani: "un gruppo sociale perfettamente identificabile, a differenza di
oggi, con una cultura dai confini precisi, a totale differenza di oggi, con abitudini rintracciabili, con
modelli di comportamento perfettamente visibili".
Era anche la borghesia che produceva, peraltro, affermando in modello culturale che Ceserani definisce
"il modello dell'ingegnere", che si contrapponeva a quello fino allora sfornato dalle università,
dell'uomo di lettere o di legge. Come apparteneva alla borghesia il cartellonista: ci racconta Menegazzi,
nel suo "L'epoca d'oro del manifesto", che Dudovich, uno dei cartellonisti più grandi, viveva
esattamente nello stesso mondo che disegnava: "Ama soprattutto l'ambiente che frequenta, quelllo delle
sfilate di moda e delle serate mondane, dei pomeriggi alle corse o degli incontri romantici sulle
spiagge più rinomate d'Europa, Montecarlo, Ostenda, Deauville"
Questo è il primo passo per capire in cosa realmente si differenzia il pubblicitario di oggi da quello di
ieri. Egli, il nostro contemporaneo, si rivolge ad una platea che più che una somma di persone è un
magma indistinto e confuso. Il pubblicitario non sa più, di preciso, a chi parla, e proprio per questo
deve inventarsi un linguaggio che possa parlare a tutti coloro che fanno parte della nostra società,
irrimediabilmente complessa, frammentata, difficile da leggersi ed interpretarsi in modo univoco. Ecco
da cosa nasce la "felicità" del comunicare d'inizio secolo. Derivava da una semplicità di rapporto non
soltanto tra chi comunicava e chi comprava, ma anche tra chi comprava e chi produceva. Erano tutti
appartenenti allo stesso mondo, erano tutti omologhi, tutti "borghesi". L'autore dei manifesti d'inizio
secolo non poteva certo sbagliare nel prevedere la reazione di chi avrebbe ricevuto la sua
comunicazione: perchè era la sua stessa reazione. Vi era identità di gusti, di atteggiamenti, di abitudini.
Tra l'artista e il suo pubblico non vi era alcuna frattura culturale. Tant'è vero che il cartellonista firma le
sue realizzazioni: le firme di Dudovich, Codognato, Cappiello, Hohenstein, Metlicovitz, Mauzan e tanti
altri stanno a significare l'assoluta chiarezza e semplicità di rapporto esistente tra artista, committente,
oggetto artistico, destinatario. Altra prova di questa identità è il taglio caricaturale che spesso
presentavano le pubblicità di una volta: in un manifesto della Citroen un uomo, arrampicato su un
lampione per sfuggire al traffico, urla concitato ad una (improbabile) cornetta "Presto , una vettura
anche per me!" La caricatura, il grottesco, lo scherzo reggono soltanto tra pari, tra persone unite da una
certa complicità . Oggi le auto sono acquistate da milioni di persone, e nessuno si identifica più con
nessuno, nè tantomeno si sente alla pari.
Ecco i veri termini della questione: l'artista di allora, scegliendo ogni volta il proprio pubblico, operava
in condizioni esattamente opposte a quelle del marketing odierno. L'artista di allora escludeva dal suo
messaggio tutti i non-omologhi. Invece oggi gli esclusi di sempre sono, perlomeno, dei consumatori. E
sono persone diverse dal pubblicitario che comunica. Egli è costretto a studiarle, a penetrare nei loro
meccanismi mentali, nelle loro abitudini. La sua creatività non è più, non può più essere, "felice". Deve
esercitarsi sui vari livelli, deve trovare forme di comunicazione sempre più universali e, proprio perchè
sempre più universali, sempre più basse.
Consoliamoci dunque: il confronto che abbiamo tentato non è sostenibile, perchè non sono due modi di
comunicare a confrontarsi, bensì due società di cui una, la nostra, vediamo al completo il suo
dispiegarsi sociale, e dell'altra vediamo solo una parte, una ristrettissima parte: la "bella pubblicità alla
bella borghesia".
Anche se questa considerazione, lungi dal consolarci davvero, non ci porterà che a perderci una volta di
più nei decori floreali di questi incantevoli messaggi.
Donatella Biffignandi
Museo dell’Automobile