4.3 Produzione biologica di H2: meccanismi e processi 4.3.1 Introduzione La produzione biologica di idrogeno (bioidrogeno) consiste nella conversione microbiologica di acqua, luce solare e/o substrati organici in idrogeno combustibile, mediante l’azione degli enzimi idrogenasi (Hasi) o nitrogenasi (Nasi). Questa definizione esclude l’H2 ottenuto da biomasse e biocombustibili prodotti mediante gassificazione o altri processi termochimici o elettrochimici. fig. 1. Fotografie A al microscopio e colture di microrganismi produttori di idrogeno. A, alga verde Chlamydomonas reinhardtii (dimensioni cellulari indicate); B, cianobatterio eterocistico Nostoc punctiforme ATCC 73102, con cellule vegetative (v) ed eterocisti (h) (lunghezza delle eterocisti 10 mm circa); C, cianobatterio non eterocistico Spirulina (Arthrospira) platensis (spessore del filamento 10 mm circa); D, batterio facoltativo Escherichia coli (dimensioni cellulari 2 mm circa); E, batterio fermentativo termofilo Pyrococcus furiosus (dimensioni 2 mm circa) (per cortesia degli Autori). La produzione biologica di H2 può essere fotobiologica, utilizzando alghe verdi, batteri fotosintetici o cianobatteri, oppure può avvenire tramite fermentazione in assenza di luce, utilizzando batteri eterotrofi (fig. 1). Alghe verdi e cianobatteri, precedentemente noti come alghe verdi-azzurre (v. ancora fig. 1A-C), sono microscopici organismi che galleggiano nell’acqua e che effettuano lo stesso tipo di fotosintesi delle piante, in cui l’acqua viene scissa dalla luce del sole in O2 e in un forte B 10 µm C VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ D E 337 VETTORI ENERGETICI agente riducente, di solito la ferredoxina, normalmente usato per ridurre il CO2 in carboidrati (zuccheri). Tuttavia, in determinate condizioni, alcune microalghe producono H2 in seguito alla completa dissociazione dell’acqua, un processo detto ‘biofotolisi’. Se la ferredoxina ridotta, prodotta dalla fotosintesi durante la scissione dell’acqua, viene utilizzata per ridurre direttamente gli enzimi produttori di H2, idrogenasi o nitrogenasi, senza la fissazione intermedia di CO2, il processo è detto biofotolisi diretta (fig. 2). In teoria, la biofotolisi diretta è un processo molto allettante, ma in pratica è seriamente limitato, tra gli altri fattori, dalla forte inibizione della produzione di H2 da parte dell’O2 che contemporaneamente si sviluppa. Un metodo per superare questo limite consiste nel rimuovere l’O2 prodotto (v. ancora fig. 2), per esempio mediante un processo di respirazione che utilizzi substrati endogeni o esogeni (fig. 3). L’H2 si può ottenere anche dai carboidrati prodotti da microalghe durante la normale fotosintesi, un processo chiamato biofotolisi indiretta. Un meccanismo per la O2 H 2O PSII hν PSI problemi: inibizione della produzione di H2 da parte dell’O2, fotobioreattori, miscele H2-O2 (flavodoxina e coloranti artificiali possono sostituire la ferredoxina) H2 ferredoxina biofotolisi indiretta si basa sui cianobatteri eterocistici, specie filamentose le quali, oltre alle cellule vegetative, che effettuano la normale fotosintesi con scissione dell’acqua e fissazione di CO2 , si differenziano anche in cellule specializzate, le eterocisti (v. ancora fig. 1B). Le eterocisti escludono l’O2 e riducono l’N2 (fissazione dell’azoto, mediante l’enzima nitrogenasi). In assenza di N2 , la nitrogenasi produce H2, arrivando a una completa scissione dell’acqua (fig. 4). Tuttavia, la nitrogenasi è un enzima molto inefficiente e quindi per scopi pratici sarebbe necessario sostituirlo con l’idrogenasi (v. oltre). Un altro approccio alla biofotolisi indiretta consiste nell’effettuare due reazioni, sequenzialmente e in stadi separati: prima la produzione di O2 (con fissazione di CO2 ) e poi la produzione di H2 (con liberazione di CO2). Il secondo stadio potrebbe essere azionato dalla luce (fig. 5) o condotto in assenza di luce, magari aiutato dalla respirazione (fig. 6). I batteri fotosintetici, utilizzando l’energia luminosa, riescono a convertire in modo quantitativo gli acidi Hasi fig. 2. Reazione di biofotolisi diretta (alghe verdi e sistemi in vitro, possibile nei cianobatteri). H2O O2 hν PSII PSI CO2 (CH2O)n (riciclaggio) CO2 // O2 hν (CH2O)n; PSII PSI Hasi problemi: produzione di assorbitori di O2, fotobioreattori H2 primo stadio (bacini aperti) (// separazione degli stadi) secondo stadio (fotobioreattori) fig. 3. Reazione di biofotolisi diretta con eliminazione di ossigeno mediante respirazione (alghe verdi, possibile nei cianobatteri). O2 H2O PSII hν PSI cellule vegetative CO2 (CH2O)n (riciclaggio) CO2 // (CH2O)n hν PSI (// interfaccia cellula-cellula) Fd Nasi H2 problemi: produce miscele O2-H2, sostituire Nasi con Hasi, fotobioreattori cellule eterocistiche fig. 4. Reazione di biofotolisi indiretta a stadio unico con cianobatteri filamentosi eterocistici. H2O O2 hν CO2 PSII PSI (CH2O)n (riciclaggio) // CO2 (CH2O)n hν PSI Fd Hasi H2 problema: numero di fotoni per il 2° stadio primo stadio (bacini aperti) (// separazione degli stadi) secondo stadio (fotobioreattori) fig. 5. Reazione di biofotolisi indiretta in due stadi (microalghe, 2° stadio di produzione di H2 PSI-diretta). 338 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI proposto processo in due stadi: biofotolisi indiretta con fermentazione al buio assistita dalla respirazione (6hν/H2) (6O2⫹)(C6H10O5)n 8 NAD(P)H⫹2 ferredoxinarid⫹2 FADH2⫹6CO2(riciclato)⫹O2 hν (respirazione limitata) ATP (flusso inverso di elettroni) fotosintesi PSII-PSI problema: ipotetico 5H2O⫹6CO2 (<10% efficienza solare) 10H2 fermentazione (83% di efficienza) primo stadio: accumulo di amido nei bacini secondo stadio: fermentazione al buio O2-limitata fig. 6. Reazione di biofotolisi indiretta mediante microalghe con immagazzinamento di carboidrati e fermentazione in assenza di luce. hν C4H6O4 (acido succinico) PS batterico 7H2⫹4CO2 problemi: efficienza del PS batterico, sostituire Nasi con Hasi fig. 7. Fotofermentazione: dissimilazione di acidi organici a opera di batteri fotosintetici in presenza di luce. organici e altri substrati organici in H2 e CO2, nel corso di una fotofermentazione mediata dalla nitrogenasi (fig. 7). Al contrario, i batteri che effettuano fermentazione in assenza di luce (v. ancora fig. 1D-E) trasformano zuccheri, amidi e altri carboidrati e substrati organici facilmente fermentabili in H2 e CO2, unitamente ad acidi organici, alcoli e altri sottoprodotti. Attualmente il rendimento in H2 a partire da carboidrati nelle fermentazioni anaerobiche in assenza di luce è al massimo un terzo (reazione [1]) del limite teorico termodinamico (e stechiometrico) di 12 moli di H2 per mole di glucosio (reazione [2]): [1] C6H12O6 ⫹2H2O⫺ 4H2 ⫹ ⫹2CH3COOH ⫹2CO2 䉴 C6H12O6 ⫹6H2O⫺ 12H2 ⫹6CO2 Questo rendimento potrebbe teoricamente essere raddoppiato separando la crescita dal metabolismo (reazione [3]) e ulteriormente incrementato mediante un processo, per ora solo ipotetico, assistito dalla respirazione (reazione [4]; v. ancora fig. 6): [2] 䉴 [3] C6H12O6 ⫹4H2O⫺ 8H2 ⫹CH3COOH⫹4CO2 [4] C6H12O6 ⫹4H2O ⫹O2⫺ [2 ferredoxinarid ⫹ ⫹8 NAD(P)H ⫹2 FADH2]⫺ 10H2 ⫹6CO2 䉴 䉴 䉴 Alcuni batteri riescono anche a convertire CO in H2 in assenza di luce, in una reazione biologica di shift (conversione del CO in CO2 e H2): [5] CO ⫹H2O⫺ H2 ⫹CO2 䉴 Infine, utilizzando l’enzima idrogenasi è possibile immagazzinare l’H2 in modo reversibile in coloranti o nel formiato: [6] CH2O2 o colorante H⫺ ⫺H2 䉳 䉴 VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ I fotosistemi (PS, PhotoSystem) sono complessi di pigmenti (clorofille, carotenoidi, ficobiliproteine e altri) e di alcune dozzine di proteine, che costituiscono le unità funzionali della fotosintesi. Essi consentono la cattura dei fotoni (mediante i cosiddetti pigmenti antenna o captatori di luce) e la conversione dell’energia fotonica (luce) in energia chimica mediante il centro di reazione. Questa iniziale forma di energia chimica viene poi trasformata in energia metabolica sotto forma di agenti riducenti (ferredoxina ridotta che quindi genera NADPH) e potenziale di membrana in grado di spostare protoni (che è poi trasformato in ATP). ATP (adenosina trifosfato) e NADPH (nicotinammide adenindinucleotide fosfato) sono usati per fissare CO2 in glucosio, che viene poi utilizzato insieme all’azoto (tipicamente come ammoniaca o nitrato), al fosforo (come fosfato) e ad altri nutrienti inorganici come materiale da costruzione primario per altre componenti cellulari algali (carboidrati, proteine, acidi nucleici, grassi, ecc.). In questo capitolo vengono presi in considerazione tali processi (alcuni dei quali ancora ipotetici) di produzione di bioidrogeno in vivo, sia dal punto di vista della biochimica di base sia da quello dell’ingegneria applicata, valutando le loro potenzialità per sviluppi pratici (Zaborsky, 1998; Cammack, 2001; Hallenbeck e Benemann, 2002; Benemann, 2004a; Nath e Das, 2004; Prince e Kheshgi, 2005). 4.3.2 Catalizzatori biologici per la produzione di H2 La produzione biologica di H2 si basa soprattutto sull’azione degli enzimi idrogenasi, che riducono i protoni presenti nell’acqua a H2 gassoso, mediante l’ossidazione 339 VETTORI ENERGETICI di un forte agente riducente. In natura l’agente riducente è un vettore di elettroni ridotto, come la ferredoxina, la flavodoxina (quest’ultima prodotta in molti batteri come alternativa priva di ferro alla ferredoxina, laddove il ferro è un fattore limitante), o l’NAD(P)H (ridotto). Per ridurre le idrogenasi e produrre H2 si possono anche utilizzare agenti riducenti artificiali. Le idrogenasi sono enzimi reversibili in quanto sono in grado di portare a termine anche la reazione inversa, utilizzando l’H2 e riducendo questi trasportatori di elettroni o altri meno riducenti, a seconda della pressione parziale dell’H2, della natura dell’idrogenasi e del percorso metabolico. Sono state isolate da microrganismi appartenenti ai tre diversi domini del mondo vivente: archaea, bacteria ed eucarya. Dal punto di vista funzionale, questi catalizzatori possono essere suddivisi in enzimi che sviluppano H2, il cui ruolo fisiologico è la produzione di H2 gassoso come mezzo per eliminare l’eccesso di agenti riducenti, o in enzimi che utilizzano H2, i quali catalizzano preferenzialmente la reazione inversa e usano questo gas come fonte di energia. Molti microrganismi effettuano entrambe le reazioni, sviluppo di H2 e suo utilizzo, in condizioni di crescita differenti, e solitamente posseggono idrogenasi multiple specializzate nel catalizzare queste reazioni. La caratteristica comune di tutte le idrogenasi studiate finora è di essere proteine Fe-S, in cui gli atomi di Fe sono organizzati in gruppi [Fe-S] (Adams, 1990). Esse differiscono, tuttavia, per quanto riguarda il peso molecolare, la localizzazione cellulare, la composizione delle subunità, la specificità dei trasportatori di elettroni, il contenuto di altri metalli e cofattori, la sensibilità all’inattivazione da O2, il tasso di produzione di H2, l’affinità per l’H2 e il ruolo fisiologico. Considerando sia i metalli presenti nei loro siti attivi, sia le relazioni evolutive e genetiche, le idrogenasi vengono classificate in due gruppi principali: le Fe-idrogenasi e le [Ni-Fe]-idrogenasi (Cammack, 2001; Vignais et al., 2001). Le Fe-idrogenasi, solitamente ritrovabili nei batteri strettamente anaerobi ma anche nei cianobatteri e nelle alghe verdi, contengono alcuni gruppi [Fe-S], con il sito attivo (il gruppo H) contenente un centro dimerico e un centro ferro-solfuro tetramerico che si lega a cianuro e a monossido di carbonio, un tipo di struttura nuovo per i siti attivi enzimatici (Peters et al., 1998). Considerando le relazioni genetiche e la specificità di substrato, si riconoscono tre tipi di Fe-idrogenasi: quelle ridotte dalla ferredoxina o dalla flavodoxina, quelle ridotte da NADPH o NADH e quelle che si trovano nei batteri metanogeni e partecipano alla metanogenesi. Le idrogenasi ridotte da NAD(P)H si trovano nei batteri ipertermofili, che crescono a temperature superiori a 75 °C. A tali temperature il potenziale redox dell’H2 in condizioni standard (cioè alla pressione di 1 bar) diventa simile a quello dell’NAD(P)H (⫺320 mV), mentre a temperature più basse 340 il potenziale redox dell’H2 è più vicino a quello delle ferredoxine (circa ⫺420 mV). Le [Ni-Fe]-idrogenasi sono le idrogenasi più comuni e, in base all’omologia delle loro sequenze amminoacidiche, al contenuto in metalli e al ruolo fisiologico, sono state raggruppate nelle seguenti quattro sottoclassi, che tengono conto delle relazioni filogenetiche e della composizione in motivi dei differenti enzimi (Wu e Mandrand, 1993; Vignais et al., 2001): • gruppo 1, sono [Ni-Fe]-idrogenasi-uptake di respirazione associate alla membrana, presenti in batteri che possono usare l’H2 come donatore di elettroni in reazioni metaboliche tanto anaerobiche quanto aerobiche; • gruppo 2, comprende le [Ni-Fe]-idrogenasi-uptake dei cianobatteri, indotte in condizioni in cui si hanno la fissazione di N2 (gruppo 2A) e le idrogenasi che rilevano l’H2 (gruppo 2B) e danno inizio a un percorso di trasduzione del segnale H2, che porta alla stimolazione della biosintesi delle idrogenasi-uptake associate alla membrana; • gruppo 3, sono le [Ni-Fe]-idrogenasi citoplasmatiche, eteromultimeriche e reversibili, che a loro volta comprendono le idrogenasi F420-riducenti dei metanogeni (gruppo 3A), le idrogenasi bifunzionali tetrameriche degli ipertermofili (gruppo 3B), le idrogenasi che riducono il metilviologeno (gruppo 3C), con accettori (e donatori) di elettroni in vivo sconosciuti, e infine le idrogenasi bidirezionali associate al NAD(P) (gruppo 3D); • gruppo 4, sono le [Ni-Fe]-idrogenasi che producono H2 associate alla membrana e che comprendono vari enzimi, biochimicamente ben studiati, come l’idrogenasi di Escherichia coli, l’idrogenasi indotta dal CO di Rhodospirillum rubrum, o l’idrogenasi convertitrice di energia di Methanosarcina barkeri. Negli ultimi anni si sono fatti significativi progressi nella caratterizzazione molecolare delle [Ni-Fe]-idrogenasi. Strutturalmente, l’unità funzionale minima consiste di due porzioni: una subunità grande, con massa molecolare di 45-65 kDa, che comprende il sito attivo contenente nichel, e una subunità piccola, con una massa molecolare che varia tra 28 e 35 kDa, che include i gruppi [Fe-S] e ha la funzione di trasferire elettroni tra le proteine redox e la subunità grande. I dati immunologici dimostrano che solitamente la struttura delle subunità grandi è altamente conservata anche in organismi filogeneticamente distanti, mentre le unità piccole presentano un minor grado di somiglianza. Oltre al dimero dell’idrogenasi, che costituisce l’unico componente strutturale delle idrogenasi eterodimeriche, nelle idrogenasi multimeriche sono presenti anche una o due ulteriori subunità, responsabili dell’interazione con lo specifico elettronaccettore o elettrondonatore. La prima struttura cristallina di una [Ni-Fe]-idrogenasi, isolata dal batterio Desulfovibrio gigas (Volbeda ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI et al., 1995; Volbeda et al., 2002), ha fornito le basi strutturali per comprendere, a livello atomico, come l’idrogeno molecolare venga utilizzato o prodotto da parte dei microrganismi, permettendo anche di capire alcuni dettagli fondamentali riguardanti il sito catalitico di questi enzimi, il canale attraverso il quale si pensa che fluiscano le molecole di H2 dalla soluzione al sito attivo, il percorso del trasferimento elettronico e le posizioni dei gruppi ferro-zolfo. Infine, come si è detto precedentemente, gli enzimi nitrogenasi producono anche H2, sia come reazione secondaria durante la fissazione dell’N2, sia come unica reazione in assenza di N2. Queste nitrogenasi sono classificate come Mo-Fe, V-Fe (indotte in assenza di Mo) e Fe (indotte in assenza di Mo e V). Le V-Fe e le Fe-nitrogenasi fissano N2 e producono H2 a tassi più bassi rispetto agli enzimi Mo-Fe. Il numero di turnover (le moli di H2 prodotte per mole di enzima al secondo) è inferiore a 10 per le nitrogenasi, circa 100 per le [Ni-Fe]-idrogenasi e diverse migliaia per le Fe-idrogenasi. Le nitrogenasi presentano poi il grande svantaggio di aver bisogno di 4 moli di ATP per mole di H2 liberato, una richiesta di energia simile a quella dell’H2 prodotto; ciò rende i sistemi basati sulle nitrogenasi molto meno efficienti nella produzione di bioidrogeno. Tuttavia, i batteri fissatori di N2 possono costituire buoni sistemi modello per ipotetici processi basati sulle idrogenasi (v. oltre). Dal momento che da un punto di vista proteico (attività specifica) le Fe-idrogenasi possono essere 100 volte più attive degli enzimi Ni-Fe, esse costituiscono una prima scelta come catalizzatori nella produzione biologica dell’H2. Tuttavia, quest’unico fattore non è decisivo. Ai fini pratici, più importante dell’attività delle idrogenasi è l’attività dei percorsi metabolici che generano l’agente riducente a basso potenziale redox (ferredoxina), necessario per la produzione di H2 a opera delle idrogenasi. Nella produzione microbica di H2, non è solo l’enzima idrogenasi ma l’intera cellula e il suo apparato metabolico che fungono da agente catalitico e ciò costituisce l’argomento principale di questo lavoro. dell’H2. Potrebbe sembrare più logico, e sicuramente è più usuale, prendere innanzitutto in considerazione i meccanismi biologici, prima di discutere quali siano i bioreattori adatti. Tuttavia, poiché gli aspetti progettuali pratici e quelli economici che ne derivano riguardanti la struttura e il funzionamento dei bioreattori sono spesso più limitanti dei meccanismi biologici, vanno considerati per primi. Diversi tipi di bioreattori utilizzabili nella produzione di bioidrogeno sono mostrati nelle figg. 8-13. fig. 8. Fotobioreattore tubulare inclinato con scambio interno di gas (tipo Tredici) (per cortesia degli Autori). fig. 9. Fotobioreattore tubulare di grande diametro in scala commerciale (Argentina) (per cortesia degli Autori). 4.3.3 Bioreattori per la produzione di H2 Prima di discutere in dettaglio i vari processi di produzione microbica di H2 (v. ancora figg. 2-7; reazioni [1][6]), è necessario prendere in considerazione alcuni aspetti pratici, in particolare la struttura e il funzionamento dei bioreattori che devono sia contenere la coltura microbica, sia catturare l’H2 a mano a mano che esso viene prodotto. Bisogna considerare l’intero sistema del bioreattore, comprendendone tutti gli aspetti, dalla produzione del catalizzatore (biomassa microbica) alla purificazione VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ fig. 10. Fotobioreattore tubulare con scambio esterno di gas in scala commerciale (per cortesia degli Autori). 341 VETTORI ENERGETICI fig. 11. Fotobioreattore sperimentale a lamina piana per batteri fotosintetici (per cortesia ENI). (per esempio, il 10% da solare a H2; v. oltre), presenta notevoli difficoltà costruttive. I design di fotobioreattori chiusi per la produzione di bioidrogeno possono includere bacini coperti, reattori tubulari, o sistemi a lamina piana, di molte fogge differenti (v. ancora figg. 8-11). Il problema fondamentale è il costo-capitale di tali fotobioreattori per area unitaria: assumendo una conversione ottimistica del 10% da solare a H2 e una collocazione a elevato irraggiamento solare (5 kWhr/m2 al giorno, media annuale), si arriverebbe a un valore di soli 10 $/m2 all’anno per l’H2 prodotto, posto un valore di 15 $/GJ di H2, equivalente a circa 90 $/bbl di petrolio, che appare una stima futura ragionevole per l’H2 rinnovabile. Questa proiezione piuttosto ottimistica deve tener conto sia del capitale annualizzato (svalutazione, costo del capitale, altri oneri fissi), sia dei costi operativi. Sia il costo-capitale che i costi operativi dipendono molto dalle dimensioni del processo, che possono variare da poche migliaia a diversi milioni di m2 (da meno di 1 a più di 100 ettari) e possono costituire sia sistemi residenziali-commerciali decentralizzati sia strutture centralizzate. Le economie di scala devono essere bilanciate rispetto ai costi di immagazzinamento e di distribuzione fig. 12. Bacini all’aperto per colture massive di Spirulina (India) (per cortesia degli Autori). L’aspetto più importante nella progettazione del bioreattore è la forma dell’energia fornita per produrre H2: luce, substrati organici (come carboidrati o acidi organici), una combinazione di luce e substrati organici, o anche un gas (monossido di carbonio). Per i processi di produzione di H2 azionati dalla luce (v. ancora figg. 2-5 e 7), la necessità di catturare simultaneamente luce e H2 richiede fotobioreattori trasparenti e chiusi, in grado di sfruttare efficientemente l’energia solare, di raccogliere l’H2 prodotto e di fornire un ambiente adatto al catalizzatore biologico. Vi è un grande interesse commerciale per questi fotobioreattori chiusi applicati alla produzione di prodotti microalgali di elevato valore (Tredici et al., 1998; Pulz, 2001), e sono stati studiati anche per la produzione fotobiologica di H2. Tuttavia, ottenere i bassi costi auspicati per area unitaria, anche assumendo efficienze di conversione solare massime 342 fig. 13. Tipico bioreattore per fermentazioni industriali. ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI dell’H2. I trade-off varieranno a seconda del processo e delle specifiche applicazioni. Gli aspetti economici dei fotobioreattori chiusi costituiscono un problema cruciale e controverso in questo campo, in cui le stime dei costi di investimento variano da meno di 1 $/m2 in costi materiali presunti per un non specificato tipo di fotobioreattore che produca H2 mediante la reazione in fig. 3 (Melis et al., 2000), a circa 100 $/m2 per un fotobioreattore tubulare che produca H2 mediante la reazione in fig. 5 (Benemann, 1998; Tredici et al., 1998), a oltre 1.000 $/m2 per i costi totali dei fotobioreattori attualmente usati nella produzione commerciale di prodotti microalgali di valore elevato. Questa variazione di oltre tre ordini di grandezza nelle stime dei costi-capitale, con costi operativi non specificati, suggerisce la necessità di ulteriori analisi su questo argomento. In alcuni processi fotobiologici, nella prima fase (fissazione del CO2) è possibile utilizzare bacini aperti per colture intensive e a basso costo (v. ancora figg. 3, 5, 6). Per sistemi con bacini all’aperto di elevate dimensioni si stimano costi-capitale di 5 $/m2, ai quali si dovrebbero aggiungere i costi associati alle infrastrutture (Benemann e Oswald, 1996). Fondamentale per la progettazione e l’operatività dei bioreattori utilizzati nella produzione di H2 è che ci sia scambio di gas, per minimizzare, o quantomeno gestire, l’incremento delle pressioni parziali della componente liquida (concentrazioni in soluzione) di H2, O2 e/o CO2. Sono evidenziabili due impostazioni fondamentali: lo scambio interno di gas (v. ancora figg. 8 e 9) e lo scambio esterno di gas (v. ancora fig. 10). Lo scambio interno di gas è ottenuto disperdendo il gas presente nel liquido sotto forma di piccole bollicine; lo scambio esterno di gas avviene in una camera di sfiato all’esterno del fotobioreattore. In entrambi i casi, il volume di trasferimento limita le dimensioni del singolo modulo del fotobioreattore chiuso, solitamente a meno di 100 m2 (Weissman et al., 1988). Queste dimensioni unitarie relativamente piccole, rispetto ai sistemi a bacino aperto (v. ancora fig. 12) dove la grandezza del singolo modulo è superiore a 10.000 m2, rappresentano un fattore determinante nei costi-capitale molto maggiori solitamente previsti per i fotobioreattori chiusi. In generale l’uso di un gas diluente non è pratico, perché il processamento a valle (cioè la separazione del gas) sarebbe troppo costosa. Dati i tipici coefficienti di trasferimento di gas ottenibili a costi e impieghi energetici ragionevoli nei bioreattori su larga scala, probabilmente il processo biologico dovrà tollerare sovrapressioni della componente liquida superiori di oltre dieci volte il livello di equilibrio (cioè la pressione atmosferica; Pauss et al., 1990; Frigon e Guiot, 1992). Tuttavia, per diversi processi, le sovrapressioni di H2 probabilmente non costituiscono una limitazione fondamentale, soprattutto per le reazioni basate sulla VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ produzione fotosintetica di ferredoxina ridotta (v. ancora figg. 2, 3, 5) o per i processi catalizzati dalle nitrogenasi (v. ancora figg. 4 e 7). Più sensibili risultano le fermentazioni a H2 anaerobiche in assenza di luce (reazioni [1]-[4]; v. ancora fig. 6), in cui le sovrapressioni di H2 ridurrebbero la velocità e la quantità di H2 prodotto. È stato affermato che la produzione di H2 a partire da carboidrati e coadiuvata da respirazione (reazione [4]; v. ancora fig. 6) consente di ottenere (v. oltre) una resa maggiore rispetto alle fermentazioni strettamente anaerobiche e a concentrazioni maggiori di H2, ma ciò è ancora da dimostrare. In conclusione, le limitazioni all’effettivo trasferimento di gas rappresentano un vincolo cruciale nella maggior parte dei processi precedentemente elencati e devono essere prese in considerazione nell’implementazione di tali processi. Un altro problema correlato è la gestione del CO2, che è coinvolto in quasi tutte le reazioni elencate, tranne che nella biofotolisi diretta. Il CO2, a causa della sua maggiore solubilità (rispetto a H2 e O2) e del suo potere tampone, presenta meno difficoltà nel trasferimento, anche se devono essere risolti i problemi di separazione dall’H2 e di riciclaggio. Va notato che in questi processi l’assorbimento o la liberazione di CO2 non determinano di per sé riduzione o produzione di gas serra. È solo attraverso la sostituzione dei combustibili fossili con l’H2 rinnovabile, prodotto mediante processi di questo tipo, che si ottiene il risultato di ridurre l’emissione di gas serra. Comunque, il riciclaggio completo non è possibile ed è probabile che una significativa quantità di CO2 venga persa durante il processo di immissione del gas nei bacini aperti e per degassamento, come anche avviene nei fotobioreattori chiusi. Quindi, per questi processi è necessario un rifornimento di CO2, suggerendo l’integrazione con centrali elettriche, sistemi di trattamento dei rifiuti o fonti simili. Il design dei bioreattori deve tenere in considerazione anche i bilanci termici: i fotobioreattori chiusi durante l’estate sono soggetti a surriscaldamento, come nel caso delle serre, mentre durante l’inverno subiscono un maggior raffreddamento rispetto ai bacini aperti, determinato dalla bassa massa termica. Le elevate temperature possono essere mitigate nebulizzando acqua o immergendo il fotobioreattore in un bacino, il che, comunque, aumenta significativamente i costi. Devono essere considerati molti altri fattori, tra cui il mantenimento e la pulizia di questi sistemi, gli impianti di miscelazione e di controllo idraulico, la preparazione del mezzo di coltura e dell’inoculo. Tutto ciò richiede l’analisi degli specifici progetti realizzativi, ma non si sa ancora con certezza quale sia il design ottimale per ciascun tipo di processo e applicazione. Per esempio, per la produzione di bioidrogeno è stato suggerito un sistema che utilizzi scambio interno di gas e miscelazione a diffusione d’aria (air lift) con fotobioreattore tubulare inclinato 343 VETTORI ENERGETICI (v. ancora fig. 8; Tredici et al., 1998). In questo design la lunghezza del tubulare è limitata dalla pendenza, dalla formazione di gas disciolti e dalla velocità di flusso del liquido, che per gli air lift è di circa 30 cm/s. Questa è anche la massima velocità di miscelazione raccomandata per altri sistemi di fotobioreattori chiusi, e in realtà anche per i bacini aperti, poiché l’energia richiesta per la miscelazione aumenta in funzione del cubo della velocità. Maggiori velocità di flusso aumenterebbero il consumo di energia e, quindi, ridurrebbero la produzione netta di energia di un fattore troppo grande (superiore al 10% di tale produzione). La miscelazione e il trasferimento del gas sono fondamentali nella progettazione del sistema, sia per i fotobioreattori, sia per i bioreattori che lavorano mediante fermentazione in assenza di luce. 4.3.4 Processi fotobiologici per la produzione di H2 Fotosintesi ed efficienza di conversione dell’energia solare Un assunto apparentemente generale è che la produzione fotobiologica di H2 debba essere un processo di conversione dell’energia solare più efficiente di altri sistemi fotosintetici, come la produzione di biomassa ottenuta dalla coltivazione di piante superiori, o anche da microalghe. Questo comunque è vero solo teoricamente per la biofotolisi diretta (v. ancora fig. 2), in cui il bisogno minimo di fotoni potrebbe arrivare fino a 4 per molecola di H2, rispetto ai circa 5 fotoni necessari per un’equivalente quantità di energia fissata nei carboidrati. I dati che asserivano che la biofotolisi diretta poteva richiedere solo 2 fotoni per molecola di H2 (Greenbaum et al., 1995) si sono dimostrati sbagliati (Redding et al., 1999). La biofotolisi diretta con protezione data dalla respirazione (v. ancora fig. 3) ha la richiesta di fotoni teoricamente più alta (cioè la più bassa efficienza), ovvero 9 fotoni per molecola di H2 (5 nella prima fase e 4 nella seconda). La richiesta per le biofotolisi indirette, che prevedono una fase di produzione di H2 azionata dalla luce (v. ancora figg. 4 e 5) è meno certa. Benemann (1998) ha previsto meno di 1 fotone per molecola di H2 prodotto nella seconda fase dalla reazione in fig. 5. Tuttavia, questa probabilmente è una sottostima (Benemann e San Pietro, 2001) e per i processi di biofotolisi indiretta attualmente è previsto un massimo di 7 fotoni per molecola di H2 (5 nella prima fase e 2 nella seconda; v. oltre). Tale revisione verso l’alto dell’efficienza potenziale di questo processo triplicherebbe le dimensioni del fotobioreattore chiuso stimate da Benemann (1998), il che a sua volta raddoppierebbe i costi-capitale dell’intero sistema. Quindi il costo dell’H2 prodotto da questo processo, considerando un costo-capitale per il fotobioreattore di 130 $/m2, raddoppierebbe. Il sistema 344 con cianobatteri eterocistici (v. ancora fig. 4) potrebbe avere una richiesta minima teorica di fotoni simile, posto che la nitrogenasi venga sostituita con una idrogenasi. Comunque, l’intero sistema dovrebbe essere racchiuso in un fotobioreattore. Teoricamente, il processo di biofotolisi indiretta più efficiente è illustrato in fig. 6. Esso prevede una produzione in bacino aperto, seguita da una fase di fermentazione in assenza di luce, assistita da respirazione, che richiede nel complesso solo 6 fotoni per molecola di H2. La cosa più importante è che questo processo non avrebbe bisogno di fotobioreattori chiusi, il che lo renderebbe teoricamente anche il processo a più basso costo. Le fotofermentazioni che utilizzano batteri fotosintetici (v. ancora fig. 7) convertono in H2 substrati organici piuttosto che acqua e costituiscono quindi un caso particolare (v. oltre). In tutti i casi, questi input minimi teorici di fotoni per molecola di H2 presuppongono che non ci siano altri fattori limitanti diversi dai meccanismi principali della fotosintesi. Pertanto, in queste stime non vengono considerati la saturazione da luce, la fotoinibizione, la respirazione, l’assorbimento passivo, la riflessione, la produzione del catalizzatore (biomassa cellulare) e altre inefficienze metaboliche od operative che, nel loro insieme, possono ridurre fortemente l’efficienza effettiva. Di tutti i fattori elencati, quelli più importanti nel ridurre l’efficienza di conversione solare sono i primi due: la saturazione da luce e la fotoinibizione. Entrambi i fenomeni derivano dall’architettura dell’apparato fotosintetico delle microalghe (e di tutti gli altri organismi fotosintetici), che è progettato per catturare e utilizzare il maggior numero di fotoni quando il flusso di fotoni limita la crescita, cioè quando l’intensità della luce è bassa, piuttosto che per massimizzare l’efficienza quando il flusso di fotoni è alto (per esempio, in piena luce solare). Per massimizzare la cattura di fotoni a bassi livelli di luce, vengono utilizzate numerose serie delle cosiddette clorofille captatrici di luce e di altri pigmenti, che incanalano l’energia dei fotoni catturati (eccitoni) verso le clorofille del centro di reazione, dove vengono trasformati in energia chimica, producendo alla fine ferredoxina ridotta e ATP. Tuttavia, a elevate densità di flusso fotonico, per esempio in piena luce solare, vengono assorbiti molti più fotoni di quanti ne possano essere processati (saturazione da luce) e gli eccitoni in eccesso si trasformano in calore e fluorescenza, in un processo che danneggia l’apparato fotosintetico (fotoinibizione). Entrambe queste reazioni limitanti potrebbero essere evitate se le dimensioni dell’antenna fotosintetica (ovvero il contenuto di pigmenti) nelle cellule algali venissero ridotte, evitando così sia l’autooscuramento sia la fotoinibizione. Benché non sia un concetto nuovo (Benemann, 1989), la ricerca in questo campo è iniziata piuttosto di recente in Giappone (Nakajima e Ueda, 1997, 1999; Nakajima e Itayama, 2003) e negli Stati Uniti ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI (Neidhardt et al., 1999; Polle P. et al., 2001; Polle J.E.W. et al., 2005). Nonostante i progressi, l’obiettivo di elevate efficienze per colture algali massive esposte all’intensità della piena luce solare è ancora lontano, sia per quanto riguarda l’ottenimento di biomassa, sia per la produzione di H2. Il presupposto, in questo contesto, è che tali studi avranno, nel lungo periodo, successo, riuscendo a ottenere efficienze di conversione solare molto elevate, il più possibile vicine a un’efficienza del 10% da solare a H2. Biofotolisi diretta La biofotolisi diretta (v. ancora fig. 2) occupa attualmente un posto centrale nella ricerca sulla produzione biologica di H2. Storicamente questa reazione, dapprima effettuata in vitro, ha dato inizio alla ricerca applicata e ai tentativi di sviluppare la produzione biologica di H2, come descritto da Benemann et al. (1973). Tuttavia, l’entusiasmo iniziale per questo processo è andato scemando a fronte degli scoraggianti problemi determinati dall’inibizione operata dall’O2. Nel corso degli anni, numerosi laboratori hanno condotto importanti ricerche su questo processo, migliorandone le condizioni di reazione, stabilizzandone i componenti e dimostrandolo in vivo. Utilizzando basse intensità di luce e sparging di gas inerte, che riduce le concentrazioni di O2 e H2 in fase gassosa e liquida ben al di sotto dello 0,1%, Greenbaum (1980, 1988) ha dimostrato che l’alga Chlamydomonas reinhardtii produce contemporaneamente H2 e O2 con un’efficienza di conversione della luce che si avvicina ai quattro fotoni per molecola di H2 previsti per questo processo. La grande sfida della biofotolisi diretta consiste nel riuscire a ottenere la produzione simultanea di O2 e di H2 a livelli molto elevati (più di 1 atm di questi gas in soluzione) tipici di un processo di produzione fattibile. Lo sparging di gas inerte non è un’opzione percorribile. Il recente rinnovato entusiasmo per la ricerca sulla biofotolisi diretta si basa, almeno in parte, sulla percezione che la biologia molecolare possa fornire strumenti utili, per la ricerca sia di base sia applicata, nello sviluppare reazioni e processi operanti con idrogenasi non inibite dall’O2 (Volbeda A.Y. et al., 2002; Swartz e Spormann, 2004). È comunque piuttosto sorprendente che non siano stati studiati approfonditamente né la quantità di O2, né il meccanismo dell’inibizione da O2 sulla reazione catalizzata dall’idrogenasi. Per esempio, non si sa con certezza quali concentrazioni di O2 in soluzione (fase liquida) possano essere tollerabili per la funzionalità delle idrogenasi attualmente disponibili: sono probabilmente molto basse, tanto da raggiungere valori nanomolari (parti per milione se in equilibrio con la fase gassosa). Altrettanto incerto è il meccanismo di inibizione dell’O2 sul processo. Comunque, l’inattivazione dell’idrogenasi da parte dell’O2, spesso considerata limitante, VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ non è il fattore più critico, dal momento che tale inibizione della produzione di H2 inizia ben prima che l’attività enzimatica venga persa a seguito dell’inattivazione. Al momento, nonostante diversi decenni di lavoro sull’argomento (Weaver et al., 1980; Ghirardi et al., 2000), nessun esperimento è ancora riuscito a dimostrare una duratura reazione di biofotolisi diretta che operi anche a moderate concentrazioni di O2 (per esempio allo, o al di sopra dello, 0,1% nella fase gassosa). Alghe mutanti con un apparente aumento della resistenza all’O2 (Ghirardi et al., 2000) probabilmente lo eliminano mediante un incremento della respirazione. Il saggio in vitro con cloroplasti-ferredoxina-idrogenasi potrebbe aiutare a rispondere a queste domande. Posto che si riesca a ottenere una reazione di biofotolisi diretta completamente stabile all’O2, tale processo sarebbe, in teoria, in grado di operare a elevate concentrazioni sia di H2 sia di O2, sostanzialmente senza una reazione inversa dovuta al bassissimo potenziale redox dell’accettore primario ferredoxina-riducente per il fotosistema PSI. Perciò, il fotobioreattore potrebbe, in teoria, operare con un trasferimento di gas o un input di miscelazione relativamente modesti e sarebbe possibile adottare anche una semplice copertura trasparente fluttuante sopra un bacino o un tappeto di alghe. Ciò minimizzerebbe i costi di miscelazione e di trasferimento del gas, anche se resterebbero comunque da tenere sotto controllo il fouling (incrostazioni) e la temperatura. Il problema principale rimane la gestione dei gas, in particolare la separazione dell’H2 dall’O2. Si tratta di un problema economico e di progettazione, che probabilmente pesa sul costo del processo tanto quanto la fase di produzione dell’H2. Tuttavia, l’ostacolo maggiore al processo di biofotolisi diretta è correlato a un problema di sicurezza derivante dall’attuazione di processi che producono miscele di O2-H2 potenzialmente esplosive, note per essere instabili anche nelle comuni condizioni ambientali. Biofotolisi diretta con eliminazione di ossigeno Questo processo fornisce una soluzione al problema dell’inibizione da O2 della biofotolisi diretta: invece di cercare di sviluppare una reazione con un’idrogenasi resistente all’O2, mediante la modificazione genetica dell’enzima, si elimina l’O2 a mano a mano che esso viene prodotto (v. ancora fig. 3). Nei primi esperimenti, Benemann e collaboratori (1973) avevano utilizzato degli assorbitori di O2 (glucosio e glucosio ossidasi). Rosenkranz e Krasna (1984) hanno dimostrato che assorbitori reversibili di O2, come la mioglobina e l’emoglobina, potevano ridurre le concentrazioni di O2 in modo sufficiente a consentire un’adeguata reazione di biofotolisi in vitro, dimostrando anche che era possibile rigenerarli in uno stadio a parte. Tuttavia, tale rigenerazione non sarebbe agevole in sistemi su vasta scala. In una reazione 345 VETTORI ENERGETICI di biofotolisi diretta condotta con cellule intere, l’aggiunta di ditionito esogeno (un forte agente riducente che reagisce quantitativamente con l’O2) avrebbe effetti simili alla rimozione in vitro dell’O2, consentendo una reazione di biofotolisi adeguata (Pow e Krasna, 1979; Mahro e Grimme, 1982, 1986; Randt e Senger, 1985). La fotoproduzione di H2 in presenza di ditionito potrebbe aver luogo anche in presenza di CO2 e di elevate quantità di luce, condizioni che normalmente interromperebbero la produzione di H2 perché il metabolismo ritornerebbe alla normale fotosintesi. Kojima et al. (1986) hanno dimostrato un’adeguata produzione di fotoidrogeno in recipienti di due litri in presenza di ditionito. Un recente lavoro ha ripreso il concetto di rimozione dell’O2 per ottenere un’adeguata produzione di H2 nella biofotolisi diretta (Melis et al., 2000). In questi esperimenti l’alga verde Chlamydomonas reinhardtii è stata sottoposta a un periodo di limitazione di zolfo in condizioni di luce continua, che ha determinato una diminuzione nell’attività del fotosistema II e una caduta della velocità di produzione di O2 al di sotto di quella di respirazione, portando a condizioni anaerobiche, all’induzione dell’idrogenasi e alla produzione di H2. Questa prima pubblicazione ha ottenuto una notorietà mondiale e da allora molto lavoro è stato dedicato a questo sistema (Ghirardi et al., 2000; Kosourov et al., 2002; Antal et al., 2003). Sebbene nella pubblicazione iniziale venisse presentato erroneamente come un processo di biofotolisi indiretta (v. ancora fig. 5), ulteriori ricerche hanno rivelato che si tratta sostanzialmente di un processo di biofotolisi diretta in cui l’O2 viene eliminato dalla respirazione, come evidenziato dalla diminuzione dell’80% e oltre nella produzione di H2 osservata in seguito all’aggiunta di un inibitore del PSII (Ghirardi et al., 2000). Il problema fondamentale di questo processo è che i carboidrati accumulati nel primo stadio della reazione in fig. 3 contengono circa la stessa quantità di energia dell’H2 prodotto nel secondo stadio, e questa energia viene interamente sprecata nel processo di consumo dell’O2. Infatti, di tutti i processi fotobiologici, la reazione in fig. 3 è quella con il più alto bisogno teorico di fotoni. Ovviamente, il primo stadio di produzione di carboidrati dovrà essere condotto in bacini aperti, meno costosi dei fotobioreattori chiusi, impiegati nel secondo stadio. Tuttavia, si avrebbe una maggiore efficienza se i carboidrati prodotti nel primo stadio fossero convertiti a H2 mediante un processo di biofotolisi indiretta (v. ancora fig. 5), visto che questo processo richiede un introito protonico dimezzato (v. oltre). Un’altra possibilità è offerta dalla fermentazione in assenza di luce di questi carboidrati (v. ancora fig. 6), che elimina la necessità di uno stadio con fotobioreattore chiuso. Si potrebbe ipotizzare che il substrato per la respirazione possa anche venire fornito da rifiuti organici, che altrimenti non avrebbero alcun valore economico. Tuttavia, qualsiasi materiale 346 di scarto idoneo come substrato per la respirazione può anche essere facilmente convertito in metano combustibile mediante digestione anaerobica e da qui, se si vuole, a H2, evitando così la necessità di un processo fotobiologico così costoso e complesso. In conclusione, nonostante i grandi sforzi di pubblicità e di ricerca e sviluppo recentemente profusi nello studio della biofotolisi diretta con eliminazione di ossigeno, la sua praticità potenziale è limitata dal fatto che deve fornire tanta energia in forma di agente riducente per la respirazione quanta ne è richiesta per produrre H2. Sebbene tali ricerche abbiano contribuito ad attirare ulteriormente l’attenzione sulla possibilità di produrre H2 fotobiologicamente e abbiano aumentato le conoscenze sul metabolismo dell’H2 nelle alghe verdi, sarebbe più utile concentrare la ricerca e lo sviluppo verso più promettenti processi di biofotolisi indiretta (v. oltre). Cianobatteri eterocistici I cianobatteri eterocistici sono forme filamentose in cui circa una cellula ogni dieci o dodici si differenzia da cellule di tipo vegetativo in eterocisti, all’interno della quale avviene la fissazione dell’azoto (v. ancora figg. 1B e 4). Nell’eterocisti il PSII è completamente inattivo e il PSI è operativo nella fotofosforilazione ciclica, che genera ATP per l’attività della nitrogenasi (4 moli di ATP per mole di H2). Anche la respirazione con l’O2 che penetra nell’eterocisti attraverso le strutture della parete e/o dei pori genera ATP. I pori, connettendo le eterocisti con le cellule vegetative, permettono la diffusione dei prodotti della fotosintesi dalle cellule vegetative alla eterocisti e dei nutrienti azotati in direzioni opposte. Questo sistema, che consente la fissazione dell’azoto in condizioni aerobiche, è un esempio straordinario di ingegneria evolutiva e dimostra l’esistenza dell’effettivo differenziamento cellulare in un procariote (Meeks et al., 2001). Benché anche altri tipi di cianobatteri fissino l’azoto in condizioni aerobiche, questi crescono molto più lentamente dei cianobatteri eterocistici, il che spiega la frequente dominanza di questi ultimi in molti ambienti naturali. I cianobatteri eterocistici forniscono un sistema disponibile per la separazione microscopica delle reazioni che producono O2 (cellule vegetative) e H2 (eterocisti); un’alga di questo tipo, Anabaena cylindrica, è stata usata per dimostrare, per la prima volta, un processo di biofotolisi che può produrre simultaneamente O2 e H2 (Benemann e Weare, 1974). Va notato, comunque, che il primo lavoro sulla produzione di H2 da parte dei cianobatteri, esattamente di questa stessa specie, risale al 19° secolo (Jackson e Ellms, 1896). Weissman e Benemann (1977) hanno dimostrato la produzione in continuo di H2 prolungata (per oltre un mese) con colture di questo cianobatterio in condizioni di limitazione di azoto, ottenute sottoponendo la coltura a sparging con argon. La produttività volumetrica era di circa 20 ml di H2 per litro di ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI coltura per ora, circa dieci volte rispetto a quanto ottenuto finora con le alghe verdi (v. sopra). Tuttavia, l’efficienza di conversione della luce in H2 era piuttosto bassa, solo l’1-2% circa in esperimenti di laboratorio condotti a basse intensità di luce, e soltanto lo 0,2-0,3% in test all’aperto, compresi esperimenti con ceppi termofili in grado di tollerare temperature elevate (Hallenbeck et al., 1978; Miyamoto et al., 1979). Ciononostante, tali esperimenti hanno dimostrato che i cianobatteri eterocistici potrebbero agire come veri catalizzatori nella decomposizione solare dell’acqua in H2 e O2. Nel corso degli anni molte ricerche hanno fatto progredire le scoperte iniziali (Hansel e Lindblad, 1998; Borodin et al., 2000), anche se nel complesso le efficienze di conversione solare o le produttività specifiche e volumetriche non sono migliorate significativamente. L’elemento più importante, forse, è che l’estesa ricerca sugli aspetti genetici della produzione di H2 e sul metabolismo di questi cianobatteri (Tamagnini et al., 2002) ora permette, almeno in teoria, la progettazione razionale di un organismo più efficiente nel produrre H2. Sono necessarie due modifiche nel metabolismo dell’H2 di queste alghe: l’eliminazione delle idrogenasi-uptake e la sostituzione della nitrogenasi con l’idrogenasi reversibile endogena presente nelle eterocisti. La prima modifica è già stata realizzata (Tamagnini et al., 2002); la seconda è attualmente allo studio (Swartz e Spormann, 2004). Un’altra modifica che si dovrebbe attuare sul metabolismo di questi organismi consiste nella riduzione delle ficobiliproteine dell’antenna fotosintetica nelle cellule vegetative, per migliorare l’efficienza fotosintetica in presenza di elevata intensità di luce solare (v. sopra). Comunque, a causa della natura indiretta del processo, per le cellule vegetative saranno necessari almeno cinque fotoni per produrre l’agente riducente necessario alla formazione di H2 nelle eterocisti; inoltre, uno o due fotoni in più possono servire al PSI per guidare la produzione di una mole di H2 effettuata dall’idrogenasi nelle eterocisti (v. oltre). Siccome l’intero processo deve avvenire al chiuso, sarà quindi necessario un fotobioreattore più grande del 50-75% rispetto a quello usato per un processo di biofotolisi diretta. In effetti, basandosi su questi calcoli, può essere meglio usare la reazione di biofotolisi diretta con protezione della respirazione (v. ancora fig. 3), che è meno efficiente ma ha bisogno di un’area più piccola del fotobioreattore chiuso. Un aspetto ancora più problematico è che, come nella biofotolisi diretta, anche in questo caso vengono prodotte miscele di H2 e O2 esplosive, con l’ulteriore complicazione che si deve fornire e riciclare il CO2 necessario per il processo. In conclusione, benché il sistema delle eterocisti sia molto allettante da un punto di vista biologico, esso presenta due limiti fondamentali: la simultanea produzione di H2 e di O2 e la necessità di fotobioreattori chiusi di VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ più grandi dimensioni rispetto a quelli richiesti dagli altri processi qui descritti. Sistema di biofotolisi indiretta in due stadi La reazione di biofotolisi indiretta in due stadi (v. ancora fig. 5) è un processo teorico funzionalmente identico al sistema con le eterocisti, tranne per il fatto che fissazione di CO2/sviluppo di O2 e produzione di H2/liberazione di CO2 sono temporalmente separati, con periodi in cui si ha fissazione del CO2 e accumulo di carboidrati (e sviluppo di O2) che si alternano a periodi in cui i carboidrati sono convertiti in H2. La separazione temporale di queste reazioni è stata dimostrata per la prima volta in cianobatteri non eterocistici, in particolare Plectonema boryanum, in cui i periodi anaerobici di fissazione dell’N2 diretta dalla luce (e, in assenza di N2, di produzione di H2) si alternano a periodi di fissazione del CO2, con cicli ripetuti ottenuti anche in coltura discontinua (Weare e Benemann, 1974). Tali studi, nonostante a quell’epoca non fossero molto avanzati, servono come prototipo per i processi di biofotolisi indiretta in due stadi. Questi processi, in pratica, possono essere condotti in reattori separati (bacini all’aperto a cui seguono fotobioreattori chiusi), o in un unico fotobioreattore chiuso in cui H2 e O2 siano prodotti a cicli alternati. Tali cicli possono essere inseriti nel ciclo giorno-notte, in cui il periodo di oscurità consente lo sviluppo di condizioni anaerobiche, l’induzione dell’idrogenasi e l’inizio della produzione di H2 al buio, che è seguita da una produzione di H2 modulata dalla luce al sorgere del sole, prima di ricominciare con la fissazione di CO2. Il vantaggio principale nel separare spazialmente le due reazioni è che i fotobioreattori chiusi usati nel secondo stadio potrebbero essere molto più piccoli di quelli necessari per i processi discussi finora. In un’analisi economica teorica di un tale processo, Benemann (1998) propose che alla coltura algale cresciuta in bacini all’aperto venisse limitato l’apporto di azoto per forzare l’accumulo di carboidrati; la coltura avrebbe dovuto poi essere concentrata di circa 20 volte e mantenuta in condizioni anaerobiche al buio per indurre il metabolismo fermentativo endogeno e l’idrogenasi, permettendo la produzione di quattro moli di H2 e di due moli di acetato per mole di glucosio in un’iniziale fermentazione in assenza di luce. La coltura avrebbe dovuto poi essere trasferita in un fotobioreattore chiuso per la conversione dell’acetato extracellulare, mediante fotofermentazione guidata dal PSI per produrre le restanti possibili otto moli di H2. Per questo stadio si previde che fosse necessario solo un fotone per molecola di H2. Si previde, inoltre, che i bacini aperti operassero al 10% dell’energia solare complessiva, convertendo la luce in carboidrati (un valore molto elevato) e che i fotobioreattori chiusi dovessero utilizzare solo 1/10 di quell’area. Tutto questo è teoricamente possibile solo perché 347 VETTORI ENERGETICI l’acetato contiene quasi tanta energia quanto l’H2 prodotto e ha bisogno soltanto di una modesta quantità aggiuntiva di energia metabolica per questa trasformazione. Comunque, questo è un processo ipotetico per il quale non è stato proposto alcun meccanismo specifico. L’analisi economica è stata effettuata per un impianto con una resa annua media di 24.000 kg di H2 al giorno, con 140 ettari di bacini aperti e 14 ettari per la fase nel fotobioreattore chiuso. I costi-capitale sono stati stimati basandosi su un precedente lavoro sulla produzione di biomassa algale in bacini aperti (Benemann e Oswald, 1996; Sheehan et al., 1998), con un presunto costo-capitale per un fotobioreattore chiuso di 130 $/m2 (inclusi imprevisti; Tredici et al., 1998), mentre la stima dei costi di trattamento e purificazione dei gas è basata su uno studio precedente relativo a un processo chimico (Copeland, 1991). L’analisi del sistema includeva un processo di produzione del catalizzatore (biomassa) e un sistema di trattamento dei rifiuti (digestione aerobica del catalizzatore esaurito per produrre gas metano). I fotobioreattori, anche se occupavano solo il 10% dell’area totale, costituivano circa metà del costo-capitale totale, mentre il sistema a bacini aperti e quello di trattamento e purificazione dei gas ne rappresentavano circa un quarto ciascuno. I costi associati al capitale (tasso di sconto, svalutazione, contingenza, realizzazione e altri costi fissi) dominavano, costituendo quasi il 90% del costo totale del prodotto. Venne stimato un costo di 10 $/GJ, ovvero circa 1,50 $/kg di H2. Benché questa sia un’analisi assolutamente preliminare e altamente teorica, essa rappresenta un primo tentativo di stima dei costi e dei parametri di efficienza necessari per un simile processo di produzione fotobiologica di H2. Nonostante ciascun passaggio del processo abbia basi biochimiche, un metodo di biofotolisi indiretta al momento è ancora ipotetico. Per la precisione, la richiesta di meno di un fotone per molecola di H2 prevista nell’analisi precedente per lo stadio del bioreattore è altamente ottimistica (anche più degli altri presupposti); un gruppo di esperti ha infatti concluso che bisognerebbe prevedere due fotoni per molecola di H2 per tutte le 12 moli di H2 prodotte dal poliglucosio accumulato (Benemann e San Pietro, 2001). Tale assunzione fa aumentare il fabbisogno teorico di fotoni a 7 per molecola di H2 e triplica le dimensioni del fotobioreattore, mentre duplica i costi dell’H2 previsti nell’analisi precedente. Questo dimostra quanto tali stime dipendano dalla presunzione di efficienza e quindi dalle dimensioni e dalla proiezione dei costi dei fotobioreattori. Fotofermentazioni Le fotofermentazioni (v. ancora fig. 7) sono effettuate da batteri fotosintetici, sebbene anche alcuni cianobatteri siano in grado di compierle. Dopo la biofotolisi diretta e i cianobatteri eterocistici, i batteri fotosintetici 348 hanno costituito il terzo polo d’interesse della ricerca sulla produzione fotobiologica di H2. Nella concezione iniziale di ‘fotofermentazione’ (Benemann et al., 1971), il processo si basava sulla ben nota capacità dei batteri rossi fotosintetici non sulfurei (gli unici qui trattati) di convertire quantitativamente in H2 gli acidi organici (per esempio l’acido succinico mostrato nella reazione di fig. 7) e altri substrati organici. Si è presunto inizialmente che si potessero ottenere elevate efficienze di conversione di luce solare a H2, dal momento che la maggior parte dell’energia nell’H2 deriva dai substrati organici. Tuttavia, questa supposizione si è dimostrata sbagliata: la produzione di H2 in fotobioreattori all’aperto mediante batteri fotosintetici che utilizzano acidi organici come donatori di elettroni è simile a quella dei cianobatteri eterocistici che utilizzano l’acqua come substrato, e pari soltanto allo 0,2% circa di energia solare convertita in H2 combustibile. Poiché entrambi i sistemi utilizzano la nitrogenasi come catalizzatore per la produzione di H2, questo da solo non spiega la prestazione relativamente inefficiente dei batteri fotosintetici nella produzione di H2 da substrati organici preformati. La bassa efficienza di conversione solare è dovuta alla natura della fotosintesi batterica, che differisce per molti aspetti fondamentali da quella delle alghe verdi o dei cianobatteri. Nei batteri rossi fotosintetici non sulfurei la riduzione della ferredoxina non avviene attraverso una catena di trasporto degli elettroni mediata dalla luce, ma attraverso un flusso inverso di elettroni dai substrati organici all’NAD(P)H e alla ferredoxina, che richiede il consumo di ATP, o più direttamente, la forza protonmotrice generata dalla fotosintesi. Comunque, i dettagli precisi di questa reazione e i suoi aspetti energetici non sono ancora stati studiati. Goebel (1978) riferisce che i batteri fotosintetici hanno bisogno di 1,5 fotoni per produrre una mole di ATP (presumibilmente un fotone per ogni protone traslocato attraverso la membrana), un tasso piuttosto alto rispetto alle microalghe, benché vi sia ancora una notevole incertezza sulla efficienza quantica della produzione ciclica, mediata da PSI, di ATP anche nelle microalghe. Un’altra importante differenza tra batteri fotosintetici e alghe è il basso assorbimento da parte dei batteri nella regione tra 600 e 700 nm e il loro forte picco di assorbimento intorno a 880 nm rispetto a un massimo di assorbimento a 680 nm per le alghe, che riduce il contenuto di energia dei fotoni assorbiti. Tuttavia, questo consente anche la cattura dei fotoni solari nell’intervallo 680-880 nm, che vengono sprecati nella fotosintesi delle alghe. Altri fattori che possono giustificare la bassa efficienza della fotosintesi batterica sono le perdite durante il trasferimento di energia dai carotenoidi al centro di reazione e a livello dell’accettore primario e l’effetto della idrogenasi-uptake. Anche le strutture di grosse dimensioni della clorofilla che capta la luce nei batteri fotosintetici determinano una saturazione ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI da luce anche maggiore di quanto non avvenga nelle microalghe. Le basse efficienze di conversione della luce nella produzione di H2 a opera dei batteri fotosintetici non hanno scoraggiato la ricerca applicata in questo campo e per più di trenta anni è andata accumulandosi un’ampia letteratura (Sasikala et al., 1993; Akkerman et al., 2002). Come per i sistemi con cianobatteri che utilizzano la nitrogenasi, anche nei batteri fotosintetici si dovrebbe riuscire a sostituire la nitrogenasi con l’idrogenasi, eliminare le idrogenasi-uptake e ridurre i pigmenti dell’antenna fotosintetica che catturano la luce per minimizzarne l’effetto di saturazione. Il risultato complessivo sarebbe un aumento delle rese e delle efficienze di conversione solare. Questi approcci sono stati seguiti per un certo periodo; tuttavia, le attuali efficienze di conversione da solare a H2 non risultano significativamente superiori a quelle originariamente osservate. Un approccio alle fotofermentazioni consiste nell’associarle alle fermentazioni anaerobiche o allo smaltimento dei rifiuti organici. In questo contesto, inizialmente viene prodotto dell’H2 nel corso di una fermentazione anaerobica in assenza di luce; poi gli effluenti, contenenti acidi organici (acetato, acido lattico, ecc.), vengono inviati in un reattore con batteri fotosintetici per essere convertiti in H2, ottenendo una resa complessiva elevata (Claassen et al., 2000). Ciò è stato dimostrato in un processo per lo smaltimento dei rifiuti alimentari solidi: essi venivano convertiti, mediante fermentazione acidogenica, sostanzialmente in acido lattico, che poi era utilizzato come substrato di crescita per batteri fotosintetici (Fascetti et al., 1998). In questi esperimenti sono stati usati ceppi del batterio rosso non sulfureo Rhodobacter sphaeroides RV (v. ancora fig. 11) metabolicamente ingegnerizzati per eliminare le reazioni enzimatiche che competono con la fotoproduzione di H2, ovvero la formazione di acido poliidrossibutirrico e la idrogenasi-uptake che funziona nel riciclaggio dell’H2 (Franchi et al., 2004). Questa combinazione di fermentazioni anaerobiche seguite da fotofermentazioni è stata proposta anche per la biofotolisi indiretta con microalghe, in cui le microalghe cresciute in bacini aperti forniscono i substrati fermentabili per i due successivi stadi. Tale processo in tre stadi (biomassa algale - fermentazione batterica - batteri fotosintetici) è stato condotto per oltre un anno in uno studio con un piccolo impianto pilota in Giappone, dimostrandone la sostanziale fattibilità, ma confermando anche come questi sistemi abbiano ancora efficienze fotosintetiche complessivamente molto basse (Ikuta et al., 1998). Problemi nei processi di produzione fotobiologica di H2 Ognuno dei cinque processi fotobiologici esaminati sopra presenta limiti importanti e pone notevoli sfide di VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ tipo pratico. Dopo oltre trenta anni di ricerca applicata e sforzi ancora maggiori per gli studi di base in questo campo, ci si pone il problema se non sia ormai tempo di selezionare tra queste opzioni quelle che appaiono più promettenti o almeno di abbandonare quelle che risultano meno realizzabili. Attualmente tutte le possibilità continuano a essere esplorate, indipendentemente dalle difficoltà e dai limiti palesi. Forse bisognerebbe seguire approcci completamente diversi, non presi in considerazione in questo lavoro, come impiegare i processi che utilizzano altri microrganismi fotosintetici (per esempio Halobacterium halobium, con la sua fotosintesi basata sulla rodopsina), sistemi biomimetici o acellulari, sebbene questi, al momento, siano anche meno promettenti di quelli sopra descritti. Forse, tornare dalla ricerca applicata a quella di base può permettere di superare sul lungo periodo i limiti attuali. Una domanda più appropriata è se un qualunque processo di produzione fotobiologica dell’H2, che richieda fotobioreattori chiusi per catturare i fotoni e l’H2 contemporaneamente, possa competere con i metodi di fermentazione in assenza di luce, in cui la fotosintesi, effettuata da alghe o da piante superiori, è usata solo per produrre materiale (tipicamente carboidrati) che viene poi convertito in H2 combustibile in reazioni metaboliche al buio. Tali approcci, discussi di seguito, eliminano i problemi del costo dei fotobioreattori e dell’efficienza della fotosintesi, almeno per quanto riguarda il passaggio della produzione dell’H2. Va fatto notare, però, che anche le colture di alghe in bacini aperti non sono a basso costo, almeno nel prossimo futuro, se confrontate con la produzione di biomassa da piante superiori, e, inoltre, attualmente solo pochi ceppi di alghe vengono coltivati a scopo commerciale. In effetti, a oggi, il costo di produzione delle alghe in bacini aperti supera di molto quello dei carboidrati fermentabili (amido, zuccheri) ottenuti da piante superiori, anche nelle ipotesi più favorevoli: grandi dimensioni dell’impianto, elevata efficienza di conversione della luce solare, siti ottimali, progetti ingegneristici e costi operativi minimi (Benemann e Oswald, 1996). Da un altro punto di vista, ci si deve chiedere se la produzione fotobiologica di H2 sia più adatta per sistemi di produzione centralizzati, che coprono centinaia di ettari, come assunto implicitamente nella discussione precedente, o se la si debba sviluppare per una produzione di combustibile su scala minore e decentralizzata, anche per applicazioni domestiche simili ai sistemi fotovoltaici collocati sui tetti, su scale che vanno da diverse centinaia ad alcune migliaia di metri quadri. I sistemi su scala ridotta possono prevedere per i fotobioreattori costi di capitale e operativi maggiori. Fondamentalmente, la qualità più importante è la efficienza di conversione solare raggiungibile propria di questi processi. La conclusione che la fotosintesi delle microalghe possa raggiungere il 10% di efficienza da 349 VETTORI ENERGETICI solare a H2 (Kok, 1973; Bolton, 1996) è corretta in teoria, ma i processi pratici probabilmente non raggiungeranno mai questo obiettivo a causa dei molti fattori di perdita non considerati nelle stime teoriche. Le previsioni di efficienze di conversione dal 20 al 30% da solare a H2 per la biofotolisi diretta (National Research Council, 2004) superano quelle dei meccanismi noti e anche le leggi fondamentali della termodinamica. Combinando queste previsioni di elevatissima efficienza con le ipotesi di fotobioreattori a costi molto bassi si può ipotizzare che durante questo secolo la biofotolisi diretta diventi la principale fonte di energia al mondo (Edmonds, 2004). Comunque, qualunque estrapolazione del genere non è giustificabile alla luce delle conoscenze attuali. Per equilibrare questo ‘ottimismo tecnico’, va fatto notare che gli attuali rendimenti dei processi fotobiologici, qualsiasi unità di misura venga presa in considerazione, non sono cambiati molto, nonostante diversi decenni di ricerca applicata, e che numerosi di questi processi sono tuttora teorici, o sono stati dimostrati solo in condizioni sperimentali di bassa intensità luminosa o al massimo in siti all’aperto su scala ridotta, che hanno efficienze di conversione solare molto basse. Ovviamente, i rapidi progressi della biologia molecolare rendono ora realizzabili alcuni degli obiettivi originari di ricerca e sviluppo, come la sostituzione degli enzimi nitrogenasi con le idrogenasi, o l’eliminazione delle reazioni che competono con la fotoproduzione di H2. Tuttavia, nonostante le loro grandi potenzialità, l’ingegneria genetica e la biologia molecolare non possono da sole garantire la fattibilità dei processi. 4.3.5 Fermentazioni in assenza di luce Termodinamica, rendimenti e velocità È piuttosto strano che la ricerca applicata nel campo della produzione biologica di H2 almeno fino a poco tempo fa enfatizzasse gli approcci fotobiologici, dimenticandosi quasi completamente dei processi di fermentazione in assenza di luce. Probabilmente ciò è dovuto in parte a motivazioni storiche: i primi convegni su questo argomento, oltre trenta anni fa (Proceedings [...], 1973), furono diretti da esperti di fotosintesi, determinando la direzione di questa ricerca. L’altra ragione per tale dimenticanza è stato il riconoscimento che le fermentazioni anaerobiche a H2, in assenza di luce, hanno una resa piuttosto scarsa. Thauer et al. (1977) fecero notare che la conversione del glucosio a H2 da parte di batteri anaerobi teoricamente poteva produrre al massimo quattro moli di H2 (delle 12 moli possibili), limite che qui viene chiamato ‘limite di Thauer’. Gli autori notarono anche che nei processi reali la resa attesa era, in pratica, pari a solo circa 2-3 moli di H2 per mole di glucosio. Quindi, solo il 20-25% circa dell’energia presente nel glucosio era 350 recuperabile sotto forma di H2, mentre il resto era convertito ad acetato, altri acidi organici, alcoli e sottoprodotti simili. Questo dato si può confrontare con i rendimenti di etanolo e metano, che si avvicinano al 90% di conversione energetica, ottenibili dalla fermentazione del glucosio in processi già in commercio. Il limite di Thauer è dovuto alla termodinamica intrinseca del processo: una resa di quattro moli di H2 e due moli di acetato da una molecola di glucosio fornisce il più alto cambio di energia libera di Gibbs (una misura del lavoro disponibile), circa ⫺215 kJ/mole (a 25 °C e 1 bar di H2). Questa energia può essere catturata dai batteri durante la formazione di quattro moli di ATP per mole di glucosio. L’ATP viene poi usato nel metabolismo anabolico (biosintesi). Comunque, se il substrato (glucosio) non è limitante, i batteri preferiscono incrementare l’efficienza, per cui durante le fermentazioni anaerobiche solitamente si formano metaboliti diversi da acetato e H2, quali butirrato, propionato, lattato, etanolo, ecc., spesso in quantità maggiori rispetto a quelle di acetato. Ciò permette una crescita più rapida, ma riduce anche la biosintesi di ATP e le rese di H2. Il limite di Thauer di quattro moli di H2 e due moli di acetato per mole di glucosio solitamente si osserva solo con i batteri termofili oltre 75 °C, dove la produzione di H2 è favorita da un grande fattore entropico (che giustifica anche il suo maggior potenziale redox consentendo l’uso di NADPH come riducente, come notato precedentemente; Heijnen, 1995). La produzione di una quantità stechiometrica di 12 moli di H2 per mole di glucosio ha una resa energetica pari quasi a zero: solo ⫺26 kJ per mole di glucosio o circa ⫺2 kJ per mole di H2, a 25 °C e 1 bar di H2 e a pH e concentrazioni di bicarbonato fisiologici; tale resa non fornisce una forza motrice sufficiente per la reazione, che quindi non ha luogo. Anche ad alte temperature, la resa energetica di produzione di acetato e H2 è più elevata di quella della produzione stechiometrica di H2. Contraddicendo apparentemente quest’affermazione, in un esperimento in vitro, il glucosio-6-fosfato è stato convertito in 11,6 moli di H2 per azione degli enzimi del percorso del pentoso fosfato, che produce NADPH, e dell’idrogenasi dell’ipertermofilo Pyrococcus furiosus, che viene ridotta dall’NADPH (Woodward et al., 2000). Erroneamente questi autori hanno affermato che ciò dimostrava la fattibilità termodinamica della produzione di alte rese di H2 dal glucosio. In effetti, tale esperimento ha rivelato i limiti termodinamici di questo tipo di approccio: la reazione necessitava di un substrato (glucosio-6-fosfato) ricco di energia, impiegava tre giorni per giungere a compimento e, cosa forse più importante, si può stimare che le pressioni parziali di H2 (benché non riportate e ignorate nell’analisi termodinamica) fossero solo 1-10 parti per milione. In sintesi, affinché una tale reazione avvenga a velocità elevata e, soprattutto, a ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI un’elevata pressione parziale di H2 (come avverrebbe in un fermentatore reale), sarebbe necessario un investimento energetico molto maggiore di quello contenuto nel substrato costituito dal glucosio-6-fosfato (equivalente a solo ⫺1 kJ/H2). Si può calcolare che sarebbe necessaria un’energia di idrolisi di circa 1 ATP per superare l’aumento di circa un milione di volte nell’effettiva pressione parziale di H2, cioè da 1-10 ppm di H2 nell’esempio precedente a 1-10 bar di H2 che dovrebbero essere presenti in un vero fermentatore industriale. Ciò corrisponde a un cambiamento nel potenziale redox di H2 da circa ⫺250 a ⫺440 mV, una differenza di quasi 200 mV. Comunque, gli agenti riducenti, prodotti dalla degradazione del glucosio mediante i percorsi metabolici convenzionali (la glicolisi seguita dal ciclo dell’acido citrico o del ciclo del pentoso fosfato), sarebbero soprattutto NADH e NADPH, con un potenziale redox medio di circa ⫺320 mV, una differenza di circa 120 mV da quella dell’H2 in soluzione in un fermentatore reale. La produzione dell’agente riducente, la ferredoxina ridotta, con un tipico potenziale redox di ⫺420 mV, potrebbe essere realizzata accoppiando l’ossidazione dell’NAD(P)H con l’idrolisi dell’ATP in una cosiddetta reazione ‘a flusso inverso di elettroni’ (v. oltre). Benché quest’analisi sia solo approssimativa, essa suggerisce che è necessaria l’energia metabolica di circa una mole di ATP per mole di H2 per produrre 12 moli di H2 per mole di glucosio. Ciò pone la questione fondamentale, relativa alla fermentazione in assenza di luce, sulla possibile provenienza di questa energia, mancando sia energia solare sia fotosintesi. Rendimenti della fermentazione anaerobica Se le fermentazioni con produzione di idrogeno sono effettivamente limitate ai rendimenti bassi della reazione [1] (il limite di Thauer), l’impresa di produrre H2 combustibile non sembra molto promettente, soprattutto dal momento che i rendimenti commerciali di etanolo e metano sono già dell’80-90%, vicini al massimo ottenibile (Claassen et al., 1999). Ciascuno di questi combustibili può essere facilmente convertito in H2 mediante procedimenti termochimici, anche se con qualche perdita e costo. Un’applicazione possibile prevede la produzione di miscele H2-CH4, che bruciano in modo più pulito e quindi sono molto valide come combustibili per motori convenzionali a combustione interna (Benemann et al., 2004a). Tuttavia, l’obiettivo di ricerca e sviluppo nel campo del bioidrogeno deve essere quello di implementare processi che abbiano elevati rendimenti di H2 a partire dalle fermentazioni di carboidrati, rendimenti ben al di sopra del limite di Thauer (Hallenbeck e Benemann, 2002). Il superamento del limite di Thauer nelle fermentazioni batteriche, simile al superamento dei limiti della fotosintesi dovuti all’effetto di saturazione da luce (v. sopra), richiederà approcci di ingegneria genetica e metabolica, VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ per vincere la forte selezione evolutiva contraria a qualsiasi aumento nei rendimenti di H2. Il contrario avviene nelle fermentazioni con metano ed etanolo, dove la produzione massima di questi combustibili è correlata anche con i massimi benefici associati alla crescita dei microrganismi (rispettivamente, consorzi batterici e lieviti). Per aumentare la produzione di H2, sarebbe necessario separare la crescita della biomassa dalla formazione del prodotto, com’è consuetudine in molte fermentazioni industriali. Sfortunatamente, in questo campo sono state condotte ricerche piuttosto limitate e, in ogni caso, è improbabile che il semplice arresto della crescita (per esempio, limitando i nutrienti) incrementi i rendimenti oltre il limite di Thauer. Sarà quindi necessaria l’ingegneria genetica per modificare il metabolismo batterico e consentire tale sovrapproduzione di H2 (Keasling et al., 1998). La reazione [3] rappresenta il livello massimo probabile di H2 ottenibile in condizioni di fermentazione anaerobica, in cui il glucosio è l’unica fonte di energia e di carbonio e, contemporaneamente, l’unica fonte di ingresso e di uscita degli elettroni. La reazione [3] avrebbe un’energia libera di Gibbs inferiore a quella della reazione [1] (circa ⫺120 rispetto a ⫺215 kJ/mole), il che suggerisce che non avverrebbero alla stessa alta velocità. Tuttavia, in assenza di crescita e, quindi, di produzione netta di biomassa, la vera forza motrice termodinamica complessiva sarebbe abbastanza simile. Ovviamente, tale reazione sarebbe inutile per una cellula batterica perché non genererebbe alcuna cellula nuova, e quindi non c’è da aspettarsi che si verifichi in natura. Il punto chiave è capire come incanalare il metabolismo cellulare verso la riduzione della ferredoxina a basso potenziale redox, necessaria per la produzione di H2. Va sottolineato che la reazione [3] rimane ipotetica, dal momento che non esistono prove attendibili che rendimenti più alti di 4 moli di H2 per mole di glucosio siano mai stati ottenuti in fermentazioni anaerobiche in assenza di luce. Inoltre, anche un rendimento di 8 moli di H2 per mole di glucosio non sarebbe abbastanza elevato da essere competitivo con le fermentazioni che producono etanolo e metano. Un traguardo competitivo per le fermentazioni che producono H2 sarebbe l’ottenimento di un rendimento di circa 10 moli di H2 per mole di glucosio, vicino ai rendimenti convenzionali in etanolo ottenuti dall’amido di granturco. Una recente analisi tecnico-economica ha concluso che se un tale rendimento fosse realizzabile, i costi della produzione dell’H2 sarebbero simili a quelli delle fermentazioni a etanolo, o solo leggermente più alti, a causa dei maggiori costi per il trattamento del combustibile (purificazione e immagazzinamento dell’H2; Eggeman, 2004). Il problema fondamentale con le fermentazioni applicate alla produzione di H2 è, quindi, come raggiungere questo obiettivo. 351 VETTORI ENERGETICI Fermentazioni facoltative e aerobiche La reazione [4] è una reazione ipotetica in cui la produzione di H2 dal glucosio è coadiuvata da una respirazione in condizioni di limitazione di O2 che produce l’ATP (e/o forza protonmotrice) necessario a guidare questo processo metabolico contro la barriera termodinamica, come discusso precedentemente. L’idea portante qui è di consentire l’ossidazione di 1/6 del glucosio per fornire la forza motrice (circa ⫺450 kJ per mole di glucosio) che permetterebbe a questa reazione di procedere con una resa di 10 moli di H2 per mole di glucosio, con velocità ragionevoli nonostante un’elevata concentrazione (pressione parziale) di H2 presente nei reali processi di produzione dell’H2, come detto in precedenza. Il concetto chiave è che l’energia metabolica (ATP, o forza protonmotrice) prodotta dal metabolismo del glucosio, sia anaerobico sia aerobico, verrebbe usata per azionare le reazioni di produzione di H2 piuttosto che le reazioni anaboliche di produzione di biomassa (respirazione cellulare). Gli altri prodotti intermedi di questa reazione sono ferredoxina ridotta, NADH, NADPH e FADH2, ottenuti durante la glicolisi, il ciclo dell’acido citrico e il ciclo del pentoso fosfato. Tutti, tranne l’FADH2, verrebbero usati per produrre H2 e questo verrebbe, utilizzato come substrato nella respirazione per generare energia (forza protonmotrice e/o ATP). Come già sottolineato, questo schema è al momento ipotetico, sia per quanto riguarda il rendimento sia, punto fondamentale, per il suo meccanismo. Infatti nessun microrganismo effettuerebbe una tale reazione, stanti le forti pressioni evolutive a essa contrarie. Tuttavia, l’apparato metabolico già presente nelle cellule microbiche potrebbe essere sfruttato per indirizzare la produzione verso l’H2, un approccio fondamentalmente non diverso da altri processi industriali che impiegano microrganismi. Il problema principale è che l’NADH e l’NADPH, con un potenziale redox medio di ⫺320 mV, non riescono verosimilmente a guidare le reazioni di produzione dell’H2 (⫺420 mV, a 1 bar), se non a velocità molto lente e/o a concentrazioni molto basse di H2. La generazione di agenti riducenti a basso potenziale redox, ferredoxina (⫺420 mV) o flavodoxina (⫺460 mV), che riducono l’idrogenasi e producono H2, e lo fanno a velocità elevate, richiederebbe una cosiddetta reazione ‘a flusso inverso di elettroni’. Il flusso inverso di elettroni è il contrario delle reazioni di ossidazione di un agente riducente che generano la forza protonmotrice (e l’ATP), la più nota delle quali è quella della NAD-NADP-transidrogenasi associata all’energia, che traghetta gli elettroni tra le coppie NADH-NAD e NADPH-NADP (Olausson et al., 1995). Benché i potenziali chimici medi di queste coppie siano gli stessi, i rapporti ossidato/ridotto in vivo tipicamente differiscono per vari ordini di grandezza, con l’NAD che si trova per lo più in forma ossidata, mentre l’NADP 352 si trova soprattutto in forma ridotta. La differenza nei rapporti di concentrazione è sufficiente perché vi sia la formazione o l’idrolisi dell’ATP, a seconda della direzione della reazione. Comunque, anche un rapporto NAD(P)H/NAD(P) molto alto non sarebbe sufficiente a guidare la formazione di H2 nella reazione di produzione di H2 con velocità elevata e nonostante un’elevata concentrazione di H2. Questo suggerisce un ulteriore passaggio a flusso inverso di elettroni, specificatamente dell’enzima ossidoriduttasi NADP-ferredoxina (o flavodoxina) associato all’energia. Tali reazioni a flusso inverso di elettroni possono essere dedotte soprattutto dal funzionamento della nitrogenasi in batteri aerobi, facoltativi, microaerofili e fotosintetici, che riducono l’N2 tramite la ferredoxina ridotta a partire da NAD(P)H generato dalla scissione dei substrati organici. Così, come negli esempi precedenti sui processi fotobiologici, la produzione di H2 mediante nitrogenasi può ancora essere considerata come modello per tale reazione. Tuttavia, il fatto che, per loro natura, le reazioni di elettroni a flusso inverso siano associate alla membrana rende difficile isolarle e dimostrarle in vitro e quindi la loro esatta natura resta ancora da chiarire (per quanto riguarda, per esempio, le traslocazioni di protoni o la necessità di ATP per la riduzione ferredoxina/flavodoxina dal NADPH). Per fare solo un esempio, nel batterio aerobio Azotobacter vinelandii il sistema di trasporto di elettroni dall’NADPH alla nitrogenasi è complesso (Benemann et al., 1971): esso coinvolge ferredoxina e flavodoxina e ha una NADPferredoxina/flavodoxina-ossidoriduttasi che è stata isolata come enzima sia solubile (Isas et al., 1995) sia associato alla membrana (Haaker e Klugkist, 1987). Quest’ultimo forse è associato all’energia e probabilmente è quello che funziona in vivo. In conclusione, la necessità di ottenere alti rendimenti nei processi di produzione dell’H2 comporta importanti sfide di ricerca e sviluppo, dal punto di vista sia applicativo sia di base. Per esempio, è difficile rifornire dei fermentatori grandi con quantità limitanti di O2, e potrebbe implicare problemi di sicurezza; anche se l’O2 si fornisce con l’aria, si avrà come risultato la presenza di N2 nella fase gassosa. Più immediata resta comunque la necessità di organizzare metabolicamente un percorso di trasporto di elettroni che possa ridurre l’idrogenasi nei batteri facoltativi e microaerobi e che possa produrre H2 dal glucosio con rendimenti elevati. Fermentazioni di microalghe Lo schema illustrato in fig. 6 rappresenta un processo combinato, fotobiologico e fermentativo in assenza di luce, che si basa sulla fissazione di CO2 a opera di alghe coltivate in bacini all’aperto, come nel primo stadio della biofotolisi indiretta (v. ancora fig. 5), seguita dalla produzione di H2 in una reazione fermentativa in assenza di luce azionata da una limitata respirazione ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI (come nella reazione [4]). Le specie di microalghe candidate per questo processo sono quelle che producono H2, che possono essere coltivate in modo intensivo e che producono ingenti quantità di carboidrati in condizioni di limitazione di azoto come, per esempio, l’alga verde Chlorella e il cianobatterio Arthrospira (nome comune Spirulina, v. ancora fig. 1C). Complessivamente l’efficienza teorica del processo illustrato in fig. 6 è di sei fotoni, rispetto ai sette fotoni per la biofotolisi indiretta (v. ancora fig. 5) o ai nove fotoni per la biofotolisi diretta con protezione della respirazione (v. ancora fig. 3; Benemann et al., 2004b). È importante notare che la reazione in fig. 6 richiede solo bacini all’aperto, il che riduce i costi fino a 3/4 rispetto alla reazione in fig. 5, in cui i fotobioreattori occupano circa il 40% dell’area dei bacini all’aperto. Ovviamente questa differenza diventerebbe discutibile se fosse possibile realizzare fotobioreattori chiusi con costi simili a quelli dei bacini all’aperto, cioè meno di 50.000 $ per ettaro e di costi operativi simili. Questo è, comunque, fortemente da mettere in dubbio, come detto sopra, e anche in base a esperienze con fotobioreattori chiusi che sono costati diversi milioni di dollari per ettaro. L’assunto che i fotobioreattori siano di per sé più efficienti, cioè produttivi, dei bacini all’aperto può anche essere messo in dubbio, stando a dati recenti ottenuti confrontando in parallelo tali sistemi (Pedroni et al., 2004). Può essere più istruttivo confrontare la reazione ibrida in fig. 6 con le fermentazioni in assenza di luce (reazione [4]). Le microalghe hanno diversi vantaggi potenziali nella produzione fermentativa di H2: l’immagazzinamento di amido o di glicogeno al loro interno significa che le cellule non spendono energia per il trasporto di glucosio nella cellula e che possono generare glucosio6-fosfato senza investire ATP, fattori entrambi importanti nel metabolismo energetico complessivo. Anche le microalghe hanno processi di produzione dell’H2 ben sviluppati, sia fotobiologici sia fermentativi e, come i cianobatteri, sviluppano H2 avvalendosi delle nitrogenasi. I cianobatteri presentano sia la produzione di H2 dipendente dalla luce (mediata dal PSI), quale avviene in un processo di biofotolisi indiretta guidata dalla luce (v. ancora figg. 4 e 5), sia quella in assenza stimolata dall’O2, qui presa in considerazione (Weare e Benemann, 1974). La presenza di una idrogenasi-uptake ha impedito di farsi un quadro chiaro delle reazioni di produzione dell’H2 stimolate dall’O2, ma è certo che i cianobatteri riescono ad accoppiare la respirazione con la fissazione di N2 e anche con la produzione di H2, ed è possibile dimostrare questa reazione anche per le alghe verdi. Ancora più sostanziale è il vantaggio della reazione in fig. 6 rispetto alla reazione [4], in quanto evita la necessità di produrre e poi fornire separatamente i carboidrati (zuccheri, amidi) ottenuti dalla fotosintesi di piante superiori, come nella reazione [4]. Il problema da chiarire VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ è quindi se le microalghe possano offrire vantaggi rispetto alle piante superiori nella produzione di tali substrati fermentabili. Ciò dipende anche, in parte, dalla efficienza fotosintetica raggiunta dagli approcci genetici alla coltura delle microalghe sopra discussa (per esempio, riduzione dei pigmenti che catturano la luce). Comunque, la sostituzione di granturco, canna da zucchero e altre piante superiori con microalghe per produrre carboidrati fermentabili a basso costo non è plausibile in un futuro immediato. Pertanto, gli eventuali vantaggi delle colture di microalghe vanno ricercati in altri aspetti: la capacità di produrre carboidrati fermentabili là dove sia richiesto H2 combustibile, la facoltà di farlo con un impatto minimo, cioè con la più alta efficienza di conversione della luce solare, e in modo continuativo, con variazioni stagionali. Ovviamente, la sfida maggiore consiste nel riuscire a sviluppare un organismo e un apparato metabolico che possano produrre idrogeno con rese elevate in condizioni microaerobiche. Un punto di partenza per la ricerca futura su tale processo potrebbe essere la sostituzione della nitrogenasi con la idrogenasi nelle alghe che fissano N2. Reazione biologica di shift acqua-gas La conversione di CO in CO2 e H2 (reazione [5]) è catalizzata dall’enzima carbonio-monossido-deidrogenasi (CMD). Questa reazione fu scoperta per la prima volta nei batteri rossi fotosintetici (Uffen, 1976) e fu poi descritta in molti altri batteri. L’esatta funzione dell’enzima in questi batteri non è certa. Il complesso dell’enzima CMD include un’idrogenasi che, almeno nei batteri fotosintetici, è piuttosto stabile all’O2 (Maness et al., 2002). La variante biologica è stata studiata come alternativa alla convenzionale reazione di shift acqua-gas, usata per convertire a H2 il CO nel gas di sintesi. Un vantaggio di questo processo è che può essere condotto a basse temperature, ottenendo una conversione essenzialmente quantitativa del CO in H2, in un singolo passaggio. Sono state immaginate delle applicazioni di questa tecnologia per la produzione di H2 da gas di sintesi in impianti di gassificazione di biomassa su piccola scala, in cui le tecnologie convenzionali delle reazioni di shift possono essere meno efficienti, perché operano a temperature più elevate e, quindi, per ragioni termodinamiche, non raggiungono una conversione completa in un unico passaggio. Il problema principale, identificato dalle prime ricerche su questo processo, era costituito dal fatto che il fattore limitante era il trasferimento di gas nei bioreattori convenzionali (Klasson et al., 1993). Un lavoro più recente ha tentato di superare questo limite, mediante la connessione con un bioreattore di crescita, sostanzialmente un filtro a gocciolamento (Maness e Weaver, 2000). Comunque, questo progetto non ha avuto seguito, apparentemente a causa di limiti ingegneristici e applicativi (Wolfrum e Weaver, 2000). 353 VETTORI ENERGETICI Immagazzinamento dell’idrogeno biologico Secondo la reazione [6]: 2 MVridotto [H]⫺ ⫺H2 ⫹MVossidato 䉳 䉴 e anche: CH2O2⫺ ⫺H2 ⫹CO2 䉳 䉴 dove MV è il metilviologeno (methyl viologen) e CH2O2 è l’acido formico. L’immagazzinamento dell’H2 è una delle principali esigenze per poter applicare nella pratica le tecnologie a idrogeno. Per l’H2 biologico si possono prendere in considerazione due diversi meccanismi di immagazzinamento: all’interno di un colorante o sotto forma di formiato, reazioni entrambe catalizzate da un enzima e completamente reversibili. Il colorante metilviologeno (MV, più noto come paraquat, un potente erbicida) è un trasportatore di singolo elettrone che può sostituire la ferredoxina nella produzione di H2 e che, come ha dimostrato Klibanov (1983), consente l’immagazzinamento reversibile di H2. A concentrazioni fino a 0,5 M, il MV non inibisce l’attività della Fe-idrogenasi di Clostridium pasteurianum, e una tale concentrazione permette un immagazzinamento di H2 allo 0,25 M, ovvero 0,5 g di H2 per litro di soluzione. Questa concentrazione è 200 volte superiore a quella dell’H2 disciolto in acqua alla pressione di 1 atm, ma solo di poco superiore alle 10 volte quella dell’H2 contenuto in un litro di idrogeno gassoso, alla pressione atmosferica, a temperatura ambiente. Il traguardo di immagazzinamento per applicazioni veicolari è sopra il 5% in termini di peso, ovvero oltre 100 volte il potenziale di immagazzinamento del MV. Quindi, almeno per le applicazioni veicolari, questo sistema di immagazzinamento non è molto promettente. Un altro sistema proposto per immagazzinare l’H2 è stato l’uso del formiato. Assumendo che una soluzione 1,25 M (100 g/l) di formiato di sodio possa essere tollerata dal catalizzatore enzimatico o microbico, l’immagazzinamento di H2 sarebbe cinque volte quello del sistema sopra citato (ciascun formiato lega una molecola di H2, rispetto al metilviologeno che lega solo 1/2 molecola di H2). Benché sia ancora troppo poco per le applicazioni veicolari, questo sistema può essere preso in considerazione per l’immagazzinamento di H2 per le applicazioni statiche, in cui il volume e il peso non sono così importanti come i costi e le perdite nelle fasi di immagazzinamento ed erogazione. Il formiato sarebbe inoltre un mezzo di immagazzinamento a basso costo, innocuo, facilmente biodegradabile e non tossico, e il legame dell’H2 al formiato è prontamente reversibile, il che significa una scarsa perdita di energia (per esempio, compressione, calore) rispetto ad altre opzioni (come gli idruri metallici). Un recente studio giapponese (Yukawa e Inui, 2004) suggerisce che questo tipo di sistema potrebbe essere 354 usato per fornire H2 a celle a combustibile fisse, utilizzando un catalizzatore per celle statico, su cui la soluzione di formiato fluirebbe per catturare o liberare l’H2. Infatti, i calcoli sulla quantità di H2 che si potrebbe produrre con un tale sistema hanno suggerito che «un reattore delle dimensioni di una bottiglia di plastica dovrebbe essere sufficiente a fornire elettricità per le necessità di una famiglia» (Yukawa e Inui, 2004). Gli sviluppi di questo tipo di applicazioni sarebbero veramente molto interessanti. Problemi nella produzione fermentativa di H2 I processi di produzione dell’H2 mediante fermentazioni in assenza di luce, nel complesso, sono irti di difficoltà e sfide, tanto quanto i processi fotobiologici. In questo ambito, inoltre, le conoscenze di base sono ancora lacunose o imperfette e lo sviluppo di applicazioni pratiche deve affrontare molti problemi, sia metabolici sia di tipo ingegneristico. Dal punto di vista metabolico, per i batteri non vi sono vantaggi evolutivi validi nel produrre H2 con rendimenti elevati e quindi l’apparato metabolico manca o, se presente, è soggetto a forti meccanismi di regolazione tesi a impedire un inutile spreco. Dal punto di vista pratico, il problema è che l’H2 deve essere prodotto a elevate pressioni parziali nella fase liquida (in soluzione), a causa degli inevitabili limiti nel trasferimento che si incontrano nella pratica come, per esempio, nei fermentatori su vasta scala (Frigon e Guiot, 1992). Quindi, la catena di trasporto degli elettroni, che dovrebbe fornire l’agente riducente all’idrogenasi, deve operare ben al di sotto del potenziale redox dell’H 2 di ⫺420 mV, tipico per la maggior parte delle ferredoxine. L’unico percorso metabolico ben noto che produce un riducente così forte in grandi quantità è quello che fornisce l’enzima nitrogenasi. Tuttavia, per molti batteri i meccanismi specifici di questo percorso non sono ancora ben definiti in alcuni dettagli, in particolare per le specie facoltative e microaerobiche, in cui le reazioni di flusso inverso di elettroni molto probabilmente associano la respirazione e la produzione di riducente. Come discusso precedentemente, i processi strettamente anaerobici sono limitati dalla termodinamica, anche nel caso in cui si superi il limite di Thauer, a non più di otto moli di H2 per mole di glucosio, e molto probabilmente un po’ al di sotto di questo valore. Comunque, l’obiettivo di una fermentazione a H2 realistica dovrebbe essere vicino a una resa di dieci moli di H2 per mole di glucosio per essere in grado di competere con le fermentazioni a etanolo o a metano. Dimostrare la realizzabilità di questi obiettivi richiederà sforzi di ricerca notevoli; per ora il meccanismo proposto precedentemente (cioè la produzione di H2 assistita dalla respirazione) è considerato ancora ipotetico. Come è stato detto in precedenza, l’H2 è prodotto più facilmente a temperature più elevate, a causa della maggiore forza motrice termodinamica. Tuttavia, anche se i ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI batteri termofili (⬎65 °C) producono un po’ più H2 – fino a 3-4 moli di H2 per mole di glucosio – di quelli mesofili (25-45 °C) – circa 2-3 moli di H2 per mole di glucosio –, sono ancora entro il limite di Thauer; non sono noti dati su rendimenti maggiori. Le attività termofile inoltre risentono delle richieste energetiche necessarie per riscaldare i fermentatori e della scarsa crescita di molti ceppi termofili. Complessivamente, quindi, le fermentazioni ad alta temperatura non sembrano prospettare potenzialità maggiori rispetto ai processi mesofili. Un’altra possibilità per le fermentazioni a H2 è la conversione di grandi quantità di biomassa lignocellulosica, che sono disponibili e attualmente sottoutilizzate. Un enorme sforzo di ricerca si è protratto per decenni con l’intento di sviluppare processi termochimici (per esempio, gassificazione) e di fermentazione (a etanolo) che utilizzino questi materiali lignocellulosici. Nessuna di tali tecnologie ha ancora avuto successo commerciale, a causa della competizione con i combustibili fossili a basso costo. Nel complesso la gassificazione, che potrebbe anche produrre idrogeno, è il processo più efficiente e commercialmente attraente. La fermentazione di sostanze lignocellulosiche per produrre H2 avrebbe lo stesso limite delle fermentazioni da materiale lignocellulosico a etanolo, cioè il costo elevato per la conversione della biomassa grezza a zuccheri fermentabili, sia con enzimi sia con acidi. Le basse velocità, inevitabili nel caso dell’idrolisi enzimatica, avrebbero come risultato la predominanza delle fermentazioni metanogeniche, a spese di quelle etanoliche o a H2. In breve, non c’è urgenza di studiare le fermentazioni a H2 che utilizzano materiali lignocellulosici perché, se mai venissero sviluppate fermentazioni a etanolo di questi materiali, qualsiasi processo fermentativo messo a punto per convertire zuccheri fermentabili in H2 sarebbe applicabile anche alla biomassa lignocellulosica. Infine, va presa in considerazione l’integrazione della produzione di H2 con lo smaltimento dei rifiuti. La principale applicazione delle tecnologie di digestione anaerobica (fermentazioni a CH4) è il trattamento di una grande varietà di rifiuti: acque di scarico, cibo e scarti di trasformazioni alimentari, animali, industriali, ecc. Per molti anni si sono studiati processi di digestione anaerobica in due stadi (Harper e Pholand, 1986), tentando di aumentare la velocità di tali processi. Benché gli incrementi delle velocità non siano plausibilmente ottenibili attraverso tali operazioni in due stadi, e non siano stati dimostrati, essi hanno altri vantaggi, tra cui l’evitare di andare in cortocircuito e un’operatività più stabile. Se il primo stadio è molto più breve del secondo, il che significa che essi hanno tempi di ritenzione idraulica molto più corti, questi sistemi a due stadi possono produrre H2 nel primo stadio, mentre nel secondo stadio, più esteso, si produrrà VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ CH4. L’H2 verrebbe generato soprattutto da amidi e zuccheri solubili presenti nei rifiuti, rendendo questo processo più adatto a essere applicato ai rifiuti alimentari e a quelli provenienti dall’industria di trasformazione alimentare. Nonostante queste fermentazioni in due stadi siano state studiate per molti anni, le loro applicazioni al fine di produrre H2 non sono state indagate fino a poco tempo fa (Benemann et al., 2004a; Camilli e Pedroni, 2005). L’interesse nella produzione di tali miscele H2-CH4 consiste nel fatto che esse bruciano in modo più pulito nei motori a combustione interna, fornendo un carburante di maggior valore rispetto al semplice CH4 prodotto dalla digestione anaerobica (Benemann, 1998). Tale processo, combinando il trattamento dei rifiuti con la produzione di un combustibile pulito, fornisce un’applicazione probabilmente a breve termine della produzione di bioidrogeno. Comunque, a lungo termine, l’obiettivo centrale della ricerca e dello sviluppo sul bioidrogeno deve essere quello di ottenere fermentazioni con rendimenti più alti, cioè circa 10 moli di H2 per mole di glucosio (reazione [4]). L’obiettivo immediato della ricerca in questo campo dovrebbe essere la produzione di un modello di laboratorio per questa reazione; tutto il resto potrebbe scaturire da questo primo passo. L’integrazione dei processi fotobiologici con quelli di fermentazione (v. ancora fig. 6) sembrerebbe invece avere maggiori potenzialità nel lungo periodo. 4.3.6 Applicazioni e potenzialità del bioidrogeno Alla luce di quanto detto è forse piuttosto prematuro discutere delle applicazioni pratiche di tecnologie che ancora richiedono una lunga fase di ricerca di base e applicata prima di poter prendere in considerazione la possibilità di dimostrare la loro stessa fattibilità. In particolare perché è ancora abbastanza distante l’ottenimento di ciò che costituirà il principale impulso per un’economia dell’H2, cioè le celle a combustibile a basso costo, che in modo economico ed efficiente possano convertire l’H2, compreso il bioidrogeno, in elettricità, sia in impianti centralizzati sia decentralizzati o anche a bordo di veicoli. L’altro importante punto di forza per lo sviluppo del bioidrogeno è la riduzione dei gas serra. Ciò si ottiene soprattutto mediante applicazioni che evitino, riducano o in qualche modo abbattano le emissioni di CO2 fossile o di CH4 antropogenico. A questo riguardo, comunque, vi sono poche differenze tra bioidrogeno e altri biocarburanti, quali il metano o l’etanolo, dal momento che l’emissione di CO2 legata all’utilizzo di questi ultimi deriva dalla fotosintesi di piante superiori che hanno già catturato CO2 atmosferico, e quindi non contribuisce all’effetto serra. Nei processi fotobiologici (v. ancora 355 VETTORI ENERGETICI figg. 3-6), il CO2 sarebbe riciclato internamente e le perdite (che potrebbero essere significative) sarebbero compensate da altre fonti, come la biomassa o il CO2 derivato da combustibili fossili. In sintesi, il bioidrogeno non ha particolari vantaggi rispetto ad altri biocombustibili nella riduzione dei gas serra, a parte la maggior efficienza potenziale legata alla supposta più elevata efficienza delle celle a combustibile. Ricerca e sviluppo in questo campo dovrebbero ora dirigere l’attenzione su aspetti più basilari, piuttosto che incoraggiare slanci prematuri verso le possibili applicazioni. I problemi, riguardanti la ricerca di base, sui quali sarebbe opportuno concentrarsi per poter progredire in questo campo sono numerosi: • la natura dell’inibizione da O2 della reazione dell’idrogenasi, nel sito attivo o nel sito di ossidazione della ferredoxina, è interessante sia per le biofotolisi diretta e indiretta, sia per le fermentazioni guidate dalla respirazione; • l’accoppiamento dell’agente riducente alla produzione di H2 attraverso il PSI nella biofotolisi indiretta; • la sostituzione della nitrogenasi con l’idrogenasi nei cianobatteri, sia eterocistici che non; • lo studio delle vie metaboliche di trasporto di elettroni per la riduzione dell’N2 nei batteri fissatori di azoto, in particolare cianobatteri, batteri fotosintetici, aerobi, facoltativi e microaerobi; • lo studio dell’idrogenasi come sensore redox e valvola di scarico nei cianobatteri e in altri batteri; • l’ingegneria metabolica dei batteri fermentativi facoltativi e anaerobi per raggiungere elevate velocità e rese di H2, soprattutto riguardanti le reazioni a flusso inverso di elettroni. Questa lista potrebbe essere molto ampliata e centrata su problemi, organismi, enzimi e percorsi più specifici, ma è sufficiente per l’attuale scopo di fornire esempi nei campi in cui la ricerca di base potrebbe dare contributi pratici significativi. Comunque, è auspicabile che questi studi vengano effettuati nel contesto di specifiche applicazioni pratiche, per evitare una mancanza di collegamento troppo marcata tra ricerca applicata e ricerca di base, un problema piuttosto diffuso. Nell’elenco precedente non è stata citata la ricerca di base e applicata necessaria a incrementare l’efficienza di conversione della luce solare per avvicinarsi alle efficienze fotoniche teoriche precedentemente elencate. La ragione di tale omissione è che questo tipo di ricerca è d’interesse molto più ampio rispetto a quella finalizzata alla produzione di bioidrogeno e si applica ad altri processi di produzione di biomassa algale (v. cap. 9.4). Ovviamente, questa rappresenta una tematica centrale nella produzione fotobiologica di H2 e dovrà necessariamente far parte degli sforzi di ricerca e sviluppo a lungo termine. Una conclusione a quanto fin qui detto è che, nel breve o nel medio termine, l’opportunità di produrre concretamente H2 con modalità biologiche si basa su fermentazioni in assenza di luce degli zuccheri o degli amidi prodotti da piante superiori, rifiuti organici o fotosintesi a opera di microalghe (v. ancora fig. 6; reazioni [1][4]), piuttosto che su processi fotobiologici (v. ancora figg. 2-5, 7). Motivo di questa conclusione è che, dopo diversi decenni di cospicui sforzi di ricerca, i processi fotobiologici sono ancora lontani anche da una semplice dimostrazione di laboratorio delle quantità fondamentali (efficienze quantiche, rendimenti, velocità, ecc.) su cui dovrebbero basarsi le applicazioni fotobiologiche. D’altra parte, al momento non ci sono grossi investimenti in ricerca e sviluppo per aumentare il rendimento delle fermentazioni in assenza di luce oltre il limite di Thauer. Questa negligenza è in parte dovuta alla percezione generale che questo sia davvero un ‘massimo teorico’, e in parte a una sensibile insufficienza degli approcci di ricerca verso questa meta. La discussione precedente fornisce almeno un punto di partenza per una nuova valutazione di queste problematiche. Come si è fatto notare, riuscendo a dimostrare una resa di H2 mediante fermentazione in assenza di luce di circa 10 moli di H2 per mole di glucosio, si consentirebbe a tale processo di competere con le fermentazioni a etanolo, che attualmente costituiscono l’approccio principale ai biocombustibili ottenuti da amidi e zuccheri fermentabili. La fig. 14 mostra uno schema di come un impianto a etanolo possa essere adattato a una produzione ad compressione di gas grezzo carboidrati, alimenti, nutrienti, acqua, ecc. preparazione nutrienti PSA unità di fermentazione H2 prodotto gas combustibile sottoprodotto acqua di scarto recupero cellule biomassa (mangimi) acqua di scarto fig. 14. Schema di un processo di fermentazione a idrogeno in assenza di luce ad alta resa (Eggeman, 2004). 356 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI alto rendimento di H2, mediante fermentazioni in assenza di luce. Lo schema si basa su un tipico impianto commerciale di fermentazione a etanolo che utilizza amido, sciroppo di zucchero o simili substrati fermentabili in convenzionali unità di fermentazione su larga scala (come in fig. 13, ma senza i miscelatori a pale) con recupero della biomassa cellulare (centrifuga ed essiccatore per liquidi nebulizzati). È stata impiegata un’unità con un impianto di compressione del gas grezzo e rimozione del CO2 (tecnologia PSA, Pressure Swing Absorption) invece del processo di recupero dell’etanolo (distillazione e setacci molecolari). Il processo genera come prodotto H2 a pressione media, di purezza elevata (⬎95%), e un sottoprodotto a basso grado di combustibile (⬍10% H2, o ⬍1 MJ/m3), che può essere usato per produrre vapore per riscaldamento e per un’iniziale sterilizzazione alimentare. L’analisi di costo del processo (Eggeman, 2004) ha presupposto una resa di 10 moli di H2 (come nella reazione [4], ma senza considerare le richieste per l’aggiunta di O2), arrivando a un costo complessivo per l’H2 solo di poco superiore (circa il 20-25%) a quello di simili fermentazioni commerciali a etanolo. A lungo termine, è anche plausibile che si arrivino a sviluppare processi fotobiologici. Un obiettivo centrale è lo sviluppo di fotobioreattori a costo relativamente basso, realizzabili su scala ridotta (inferiori a 1 ettaro) per applicazioni decentralizzate, evitando la necessità dei bacini aperti (che sono applicabili solo per sistemi su vasta scala). Si tratta di un problema centrale in questo campo: anche se sistemi con fotobioreattori che costino meno di 10 $/m2 non sono realistici, può effettivamente essere possibile ridurre i loro costi a circa o anche a meno dei 100 $/m2 suggeriti precedentemente, comprendendo l’automazione necessaria per le operazioni su scala ridotta. Questo, insieme alle dimostrazioni di efficienze fotosintetiche molto alte e a elevati rendimenti in idrogeno, potrebbe rendere alcuni processi fotobiologici di potenziale interesse a lungo termine per la produzione di energia sia in situ sia da distribuire. Ovviamente, i processi che producono miscele di H2 e O2 (v. ancora figg. 2 e 4) o quelli che consumano tanta energia quanto l’H2 che producono (v. ancora fig. 3) continuerebbero a non essere utili in qualsiasi scenario realistico. Un’applicazione potenziale del bioidrogeno potrebbe essere l’associazione con lo smaltimento dei rifiuti. Ciò è stato proposto per processi con batteri fotosintetici, che potrebbero convertire in H2 i liquami, soprattutto gli effluenti dai digestori anaerobici (particolarmente il primo, lo stadio che produce H2, ricco in acidi organici). Tuttavia, le difficoltà che si incontrano con queste fotofermentazioni per il momento rendono difficile prenderle in considerazione. Far funzionare i bioreattori con acque di rifiuto pone sfide anche maggiori di quanto non avvenga con le alghe coltivate nei bacini. Per le applicazioni ai rifiuti, la miglior strategia a breve termine VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ sembra essere la coproduzione di H2 e CH4, discussa precedentemente (Benemann et al., 2004a). Infine, vi sono molti altri approcci tecnologici correlati alla produzione microbica del bioidrogeno che si stanno confrontando nel campo della produzione di H2 rinnovabile: le conversioni bioelettrochimiche (Liu et al., 2005), i processi biomimetici, le conversioni termiche a H2 dei biocarburanti (etanolo e metano) o anche degli zuccheri (De Luga et al., 2004). Senza considerare i loro valori specifici, si sottolineano i vantaggi fondamentali delle conversioni microbiche rispetto agli altri metodi: la cellula microbica è un catalizzatore facilmente ottenibile, stabile e a buon prezzo, che può in principio convertire efficientemente luce solare o carboidrati in H2, a temperatura e pressione ambientali, senza prodotti secondari tossici e con efficienza e rendimenti elevati. Nonostante i limiti e le sfide attuali nella produzione del bioidrogeno, ampiamente discussi in precedenza, i vantaggi fondamentali dei processi di produzione dell’H2 basati sui microrganismi probabilmente sopravanzeranno quelli di altre tecnologie alternative. Ciò a patto che la ricerca futura si concentri (come detto sopra) sui processi che hanno le maggiori probabilità di ottenere risultati pratici. Bibliografia citata Adams M.W.W. (1990) The structure and mechanism of ironhydrogenases, «Biochimica et Biophysica Acta», 1020, 115-145. Akkerman I. et al. (2002) Photobiological hydrogen production: photochemical efficiency and bioreactor design, «International Journal of Hydrogen Energy», 27, 11951208. Antal T.K. et al. (2003) The dependence of algal H2 production on Photosystem II and O2 consumption activities in sulfurdeprived Chlamydomonas reinhardtii cells, «Biochimica et Biophysica Acta», 1607, 153-160. Benemann J.R. (1989) The future of microalgae biotechnology, in: Cresswell R.C. et al. (edited by) Alga and cynobacterial biotechnology, London, Longman, 317-337. Benemann J.R. (1998) Processes analysis and economics of biophotolysis of water. A preliminary assessment, Technical report, IEA Agreement on the production and utilization of hydrogen, Springfield (VA), NTIS. Benemann J.R., Oswald W.J. (1996) Systems and economic analysis of microalgae ponds for conversion of CO2 to biomass, Final report, US Department of Energy. Benemann J.R., San Pietro A. (2001) Workshop on biohydrogen R&D, Bethesda (MD), 29-30 September 2000, Final Report submitted to the US Department of Energy Hydrogen Program, May. Benemann J.R., Weare N.M. (1974) Hydrogen evolution by nitrogen-fixing Anabaena cylindrica cultures, «Science», 184, 174-175. Benemann J.R. et al. (1971) The electron transport system in nitrogen fixation by Azotobacter. III: Requirements for NADPH supported nitrogenase activity, «Biochimica et Biophysica Acta. Bioenergetics», 226, 205-212. 357 VETTORI ENERGETICI Benemann J.R. et al. (1973) Hydrogen evolution by chloroplastferredoxin-hydrogenase system, «Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America», 70, 2317-2320. Benemann J.R. et al. (2004a) Biological production of hydrogen-methane mixtures for clean electricity, in: Proceedings of the 10 th World congress of anaerobic digestion, Montreal (Canada), 29 August-2 September, 654658. Benemann J.R. et al. (2004b) A novel photobiological hydrogen production process, in: Photosynthesis: fundamental aspects to global perspectives. Proceedings of the 13th International congress of photosynthesis, Montreal (Canada), 29 August3 September. Bolton J.R. (1996) Solar photoproduction of hydrogen, Technical report, IEA Agreement on the production and utilization of hydrogen, Springfield (VA), NTIS. Borodin V.B. et al. (2000) Hydrogen production by Anabaena variabilis PK84 under simulated outdoor conditions, «Biotechnology and Bioengineering», 69, 478-485. Camilli M., Pedroni P.M. (2005) Comparison of the performance of three different reactors for BioHydrogen production via dark anaerobic fermentations, in: Proceedings of the international hydrogen energy congress and exhibition, Istanbul, 13-15 July. Cammack R. (edited by) (2001) Hydrogen as fuel. Learning from nature, London, Taylor and Francis. Claassen P.A.M. et al. (1999) Utilization of biomass for the supply of energy carriers, «Applied Microbiology and Biotechnology», 52, 741-755. Claassen P.A.M. et al. (2000) Feasibility of biological hydrogen production from biomass for utilization in fuel cells, in: Proceedings of the 1st world conference and exhibition on biomass for energy and industry, Sevilla (Spain), 5-9 June. Copeland R.J. (1991) Solar photochemical production of hydrogen is acknowledged, in: Proceedings of the Hydrogen program review of the US Department of Energy/Solar Energy Research Institute, Washington (D.C.), 23-24 January. De Luga G.A. et al. (2004) Renewable hydrogen from ethanol by autothermal reforming, «Science», 303, 993-997. Edmonds J. (2004) The role of biotechnology options for a long-term mitigation response to climate change, in: Proceedings of the World congress on industrial biotechnology and bioprocessing, Orlando (FL), 22 April. Eggeman T. (2004) Boundary analysis for H2 production by fermentation, Final report, National Renewable Energy Laboratory, Neoterics International, March 12. Fascetti E. et al. (1998) Photosynthetic hydrogen evolution with volatile organic acids derived from the fermentation of source selected municipal solid wastes, «International Journal of Hydrogen Energy», 23, 753-760. Franchi E. et al. (2004) Metabolically engineered Rhodobacter sphaeroides RV strains for improved bioH2 photoproduction combined with the disposal of solid food waste, «Marine Biotechnology», 6, 552-565. Frigon J.C., Guiot S.R. (1992) Impact of liquid-to-gas hydrogen mass transfer on substrate conversion efficiency of an upflow anaerobic sludge bed and filter reactor, «Enzyme and Microbial Technology», 17, 1080-1086. Ghirardi M.L. et al. (2000) Microalgae: a green source of renewable H2, «Trends in Biotechnology», 18, 506-511. 358 Goebel F. (1978) Quantum efficiencies of growth, in: Clayton R.C., Sistrom W.R. (edited by) The photosynthetic bacteria, New York, Plenum Press, 907-925. Greenbaum E. (1980) Simultaneous photoproduction of hydrogen and oxygen by photosynthesis, «Biotechnology and Bioengineering Symposium», 10, 1-13. Greenbaum E. (1988) Energetic efficiency of hydrogen photoevolution by algal water splitting, «Biophysical Journal», 54, 365-368. Greenbaum E. et al. (1995) CO2 fixation and photoevolution of H2 and O2 in a mutant of Chlamydomonas lacking Photosystem I, «Nature», 376, 438-441. Haaker H., Klugkist J. (1987) The bioenergetics of electron transport to nitrogenase, «FEMS Microbiology Review», 46, 57-71. Hallenbeck P.C., Benemann J.R. (2002) Biological hydrogen production. Fundamentals and limiting processes, «International Journal of Hydrogen Energy», 27, 11851193. Hallenbeck P.C. et al. (1978) Solar energy conversion with hydrogen producing cultures of the blue-green alga, Anabaena cylindrical, «Biotechnology and Bioengineering Symposium», 8, 283-297. Hansel A., Lindblad P. (1998) Towards optimization of cyanobacteria as biotechnologically relevant producers of molecular hydrogen, a clean and renewable energy source, «Applied Microbiology Biotechnology», 50, 153-160. Harper S.R., Pholand F.G. (1986) Recent developments in hydrogen managment during anaerobic biological wastewater treatment, «Biotechnology and Bioengineering », 28, 585602. Heijnen S.J. (1995) Thermodynamics of microbial growth and its implications for process design, «Trends in Biotechnology», 12, 483-492. Ikuta Y. et al. (1998) Hydrogen production by photosynthetic microorganisms, in: Zaborsky O.R. (edited by) Biohydrogen, New York, Plenum Press, 319-328. Isas J.M. et al. (1995) Azotobacter vinelandii NADPH: ferrodoxin reductase cloning, sequencing, and overexpression, «The Journal of Biological Chemistry», 270, 21258-21263. Jackson D.D., Ellms J.W. (1896) On odors and tastes of surface waters with special reference to Anabaena, a microscopial organism found in certain water supplies of Massachusetts, Report Massachusetts State Board Health, 20, 410-420. Keasling J.D. et al. (1998) A toolkit for metabolic engineering of bacteria: applications to hydrogen production, in: Zaborsky O.R. (edited by) Biohydrogen, New York, Plenum Press, 87-98. Klasson K.T. et al. (1993) Evaluation of mass-transfer and kinetic parameters for Rhodospirillum rubrum in a continuous stirred tank reactor, «Applied Biochemistry and Biotechnology», 39/40, 549-557. Klibanov M. (1983) Biotechnological potential of the enzyme hydrogenase, «Process Biochemistry», 18, 13-16. Kojima E. et al. (1986) Kinetics of hydrogen evolution by Chlorella, in: Proceedings of the World congress III of chemical engineering, Tokyo, 21-25 September, 4v.; v.IV, 847-850. Kok B. (1973) Photosynthesis, in: Proceedings of the Workshop on biosolar hydrogen conversion, Bethesda (MD), 5-6 September, 22-30. ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI PRODUZIONE BIOLOGICA DI H 2 : MECCANISMI E PROCESSI Kosourov S. et al. (2002) Sustained hydrogen photo production by Chlamydomonas Reinhardtii: effects of culture parameters, «Biotechnology Bioengineering», 78, 731-740. Liu H. et al. (2005) Electrochemically assisted microbial production of hydrogen and acetate, «Environmental Science and Technology», 39, 4317-4320. Mahro B., Grimme L.H. (1982) H2 photoproduction by green algae: the significance of anaerobic pre-incubation periods and of high light intensities for H2 photoproductivity of Chlorella fusca, «Archives of Microbiology», 132, 82-86. Mahro B., Grimme L.H. (1986) Improving the photosynthetic H2 productivity of the green alga Chlroella fusca by physiologically directed O2 avoidance and ammonium stimulation, «Archives of Microbiology», 144, 25-28. Maness P.-C., Weaver P.F. (2000) Biological H2 from fuel gases and from H2O, in: Proceedings of the 2000 US Department of Energy Hydrogen Program Review, San Ramon (CA), 9-11 May, NREL/CP-570-28890. Maness P.-C. et al. (2002) Characterizations of the oxygen tolerance of a hydrogenase linking to a carbon monoxide oxidation pathway in Rubrivivax gelatinosus, «Applied Environmental Microbiology», 68, 2633-2636. Meeks J.C. et al. (2001) An overview of the genome of Nostoc punctiforme, a multicellular, symbiotic cyanobacterium, «Photosynthesis Research», 70, 85-106. Melis A. et al. (2000) Sustained photobiological hydrogen gas production upon reversible inactivation of oxygen evolution in the green alga Chlamydomonas reinhardtii, «Plant Physiology», 122, 127-136. Miyamoto K. et al. (1979) Solar energy conversion by nitrogen limited cultures of Anabaena cylindrical, «Journal of Fermentation Technology», 57, 287-293. Nakajima Y., Itayama T. (2003) Analysis of photosynthetic productivity of microalgal mass cultures, «Journal of Applied Phycology», 15, 497-505. Nakajima Y., Ueda R. (1997) Improvement of photosynthesis in dense microalgal suspension by reducing light harvesting pigment, «Journal of Applied Phycology», 10, 515-525. Nakajima Y., Ueda R. (1999) Improvement of microalgal photosynthetic productivity by reducing the content of light harvesting pigment, «Journal of Applied Phycology», 11, 195-201. Nath K., Das D. (2004) Improvement of fermentative hydrogen production: various approaches, «Applied Microbiotechnology», 65, 520-529. National Research Council - Committee on alternatives and strategies for future hydrogen production and use (2004) The hydrogen economy: opportunities, costs, barriers and R&D needs, Washington (D.C.), National Academy Press. Neidhardt J. et al. (1999) Maximizing photosynthetic productivity and light utilization in microalgae by minimizing the light-harvesting chlorophyll antenna size of the photosystems, in: Zaborsky O.R. (edited by) Biohydrogen, New York, Plenum Press, 41-52. Olausson T. et al. (1995) Molecular biology of the nicotinamide nucleotide transhydrogenase. A unique proton pump, «Biochimica et Biophysica Acta. Bioenergetics», 1231, 1-19. Pauss A. et al. (1990) Liquid-to-Gas mass transfer in anaerobic processes: inevitable transfer limitations of methane and hydrogen in the biomethanation process, «Applied and Environmental Microbiology», 56, 1636-1644. VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ Pedroni P.M. et al. (2004) EniTecnologie R&D project on microalgae biofixation of CO2: outdoor comparative tests of biomass productivity using flue gas CO2 from a NGCC power plant, in: GHGT-7. Proceedings of the 7th International conference on GreenHouse Gas control Technologies, Vancouver (Canada), 5-9 September. Peters J.W. et al. (1998) X-ray crystal structure of the Fe-only hydrogenase (CpI) from Clostridium pasteurianum to 1.8 Angstrom resolution, «Science», 282, 1853-1858. Polle J.E.W. et al. (2005) Genetic improvements for increasing solar energy conversion efficiency by microalgae cultures, in: Photosynthesis, fundamental aspects to global perspectives. Proceedings of the 13th International congress on photosynthesis, Montreal (Canada), 29 August-3 September 2004, 1063-1065. Polle P. et al. (2001) Maximizing photosynthetic efficiencies and hydrogen production in microalga cultures, in: Miyake J. et al. (edited by) Biohydrogen II: An approach to environmentally acceptable technology, London-Amsterdam, Pergamon Press, 111-130. Pow T., Krasna A.I. (1979) Photoproduction of hydrogen from water in hydrogenase-containing algae, «Archives of Biochemistry and Biophysics», 194, 413-421. Prince R.C., Kheshgi H. (2005) The photobiological production of hydrogen: potential efficiency and effectiveness as a renewable fuel, «Critical Reviews in Microbiology», 31, 19-31. Proceedings of the Workshop on biosolar hydrogen conversion (1973), Bethesda (MD), 5-6 September. Pulz O. (2001) Photobioreactors: production systems for phototrophic microorganisms, «Applied Microbiology and Biotechnology», 57, 287-293. Randt C., Senger H. (1985) Participation of the two photosystems in light dependent hydrogen evolution in Scendesmus obliquus, «Photochemistry and Photobiology», 42, 553-557. Redding K. et al. (1999) Photosystem I is indispensable for photoautotrophic growth, CO2 fixation, and H2 photoproduction in Chlamydomonas reinhardtii, «Journal of Biological Chemistry», 274, 10466-10473. Rosenkranz A., Krasna A.J. (1984) Stimulation of hydrogen photoproduction in algae by removal of oxygen by reagents that combine reversibly with oxygen, «Biotechnology and Bioengineering», 26, 1334-1342. Sasikala K. et al. (1993) Anoxygenic phototrophic bacteria: physiology and advances in hydrogen technology, «Advances in Applied Microbiology», 38, 211-295. Sheehan J. et al. (1998) A look back at the U.S. Department of Energy’s aquatic species program. Biodiesel from algae, Golden (CO), National Renewable Energy Laboratory, July, NERL/TP 580-24190. Swartz J., Spormann A. (2004) Biohydrogen generation by genetically engineered microorganisms. Part I: Engineering: a direct pathway to hydrogen generation, Global Climate and Energy Project Technical Report. Tamagnini P. et al. (2002) Hydrogenases and hydrogen metabolism of cyanobacteria, «Microbiology and Molecular Biology Reviews», 66, 1-20. Thauer R. et al. (1977) Energy conservation in chemotrophic anaerobic bacteria, «Bacteriological Reviews», 41, 100180. 359 VETTORI ENERGETICI Tredici M.R. et al. (1998) A tubular internal gas exchange photobioreactor for biological hydrogen production: preliminary cost analysis, in: Zaborsky O.R. (edited by) Biohydrogen, New York, Plenum Press, 398-402. Uffen R.L. (1976) Anaerobic growth of Rhodopseudomonas species in the dark with carbon monoxide as sole carbon and energy substrate, in: Proceedings of the National Academy of Sciences of the United State of America, 73, 3298-3302. Vignais P.M. et al. (2001) Classification and phylogeny of hydrogenases, «FEMS Microbiology Reviews», 25, 455501. Volbeda A.Y. et al. (1995) Crystal structure of the nickeliron hydrogenase from Desulfovibrio gigas, «Nature», 373, 580-587. Volbeda A.Y. et al. (2002) High resolution crystallographic analysis of Desulfovibrio fructosovorans (NiFe) hydrogenase, «International Journal of Hydrogen Energy», 27, 14491461. Weare N.M., Benemann J.R. (1974) Nitrogenase activity and photosynthesis by Plectonema boryanum 594, «Journal of Bacteriology», 119, 258-268. Weaver P.F. et al. (1980) Photobiological production of hydrogen, «Solar Energy», 24, 3-45. Weissman J.C., Benemann J.R. (1977) Hydrogen production by nitrogen-fixing cultures of Anabaena cylindrica, «Applied Environmental Microbiology», 33, 123-131. 360 Weissman J.C. et al. (1988) Photobioreactor design: comparison of open ponds and tubular reactors, «Biotechnology and Bioengineering», 31, 336-344. Wolfrum E.J., Weaver P.F. (2000) Bioreactor development for biological hydrogen production, in: Proceedings of the 2000 US Department of Energy hydrogen program review, San Ramon (CA), 9-11 May, NREL/CP-570-28890. Woodward J. et al. (2000) Enzymatic production of biohydrogen, «Nature», 405, 1014-1015. Wu L.-F., Mandrand M.-A. (1993) Microbial hydrogenases: primary structure, classification, signature and phylogeny, «FEMS Microbiology Reviews», 10, 243-270. Yukawa H., Inui M. (2004) Biohydrogen research and development in Japan, in: Abstracts of the World congress of industrial biotechnology and bioprocessing, Orlando (FL), 20-22 April. Zaborsky O.R. (edited by) (1998) Biohydrogen, New York, Plenum Press. John R. Benemann International network on biofixation of CO2 and greenhouse gas abatement with microalgae Walnut Creek, California, USA Paola Pedroni EniTecnologie Monterotondo, Roma, Italia ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI