Verso una nuova fase per l`economia globale

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 Verso una nuova fase per l’economia globale ? 3 Dicembre 2014 Il
contesto
economico
globale
continua
ad
essere
caratterizzato
dal
trasferimento
di
redditi
e
tecnologia
dai
paesi
avanzati
a
quelli
emergenti.
A
questo
sviluppo,
ormai
di
valenza
epocale,
si
affiancano
le
problematiche
conseguenti
alla
crisi
finanziaria
del
2008‐09,
all’impatto
delle
questioni
geo‐politiche
sull’economia
di
alcune
aree
importanti,
agli
sviluppi
demografici.
Il
risultato
netto
di
queste
spinte
è
un
orizzonte
a
medio
termine
dai
contorni
incerti
e
condizionato
in
maniera
determinante
dalle
politiche
economiche
che
verranno
adottate,
rese
più
complesse
dalla
eterogeneità
presente
sia
tra
le
due
aree
che
tra
i
paesi
all’interno
di
ciascuna
di
esse.
Le
regioni
definite
“avanzate”
ed
“emergenti”
affrontano
oggi
problematiche
radicalmente
diverse,
che
si
esplicitano
nella
mancata
sincronia
della
crescita
regionale
e
lasciano
intravedere
l’avvio
verso
una
nuova
fase
dell’economia
globale.
Se
l’aggiustamento
post‐crisi
fa
prevedere
un
buon
miglioramento
dell’economia
nella
media
dei
paesi
OCSE,
le
difficoltà
di
gestione
del
rapido
sviluppo
economico
degli
ultimi
due
decenni
comportano
un
diffuso
rallentamento
per
i
paesi
emergenti.
Il
grafico
1
mostra
la
riduzione
attesa
nella
forbice
di
crescita
del
PIL
tra
le
due
aree
nei
prossimi
cinque
anni.
Grafico 1 – PIL, crescita media annua (prezzi costanti)
2002-07
2008-13
2014-19
%
6,0
4,0
2,0
0,0
Emerging Markets
Advanced Economies
Fonte:
Elaborazioni
EconPartners
su
dati
Oxford
Economics
In
alcuni
paesi
emergenti
(per
esempio
Cina,
India,
Medio
Oriente
arabo),
la
dimensione
dell’attività
economica
ha
ormai
raggiunto
quella
fase
della
curva
dello
sviluppo
in
cui
mantenere
un
tasso
di
crescita
elevato
è
difficilmente
sostenibile.
La
Cina,
ad
esempio,
si
trova
di
fronte
al
rischio
di
una
crisi
del
settore
bancario
determinata
dalle
necessità
di
credito
a
sostegno
della
crescita
degli
ultimi
due
decenni.
Ma
a
frenare
le
aspettative
di
crescita
cinese
è
soprattutto
la
transizione
da
un
modello
economico
basato
sugli
investimenti
(ormai
ben
oltre
il
45%
del
PIL)
a
uno
più
equilibrato,
ossia
con
maggiori
consumi
privati.
Questa
volontà
di
cambiare
il
modello
di
sviluppo
è
stata
esplicitata
nella
strategia
quinquennale
del
Plenum
del
Partito
Comunista
Cinese
nel
novembre
2013,
insieme
alla
decisione
di
ridurre
le
forti
emissioni
inquinanti.
Gli
effetti
di
questa
strategia
finora
si
sono
manifestati
più
come
ridimensionamento
degli
investimenti
che
come
aumento
dei
consumi
privati.
In
realtà,
l’intera
area
emergente
necessita
di
avviare
un
percorso
di
riforme
per
adeguarsi
ai
cambiamenti
sociali
ed
economici
degli
ultimi
due
decenni.
L’ammodernamento
dei
mercati
dei
beni,
dei
servizi
e
del
lavoro
(settori
protetti
da
liberalizzare,
miglioramento
delle
condizioni
di
vita
dei
lavoratori)
è
esigenza
non
più
rimandabile
e
comune
a
tutta
l’area.
Alcuni
paesi,
come
i
cosiddetti
“fragile
five”
(India,
Brasile,
Indonesia,
Turchia,
Sud
Africa),
devono
inoltre
fare
i
conti
con
squilibri
di
finanza
pubblica
combinati
a
deficit
commerciali,
squilibri
che
riducono
i
margini
di
manovra
dei
policy
makers.
A
complicare
la
gestione
della
fase
di
sviluppo,
i
paesi
esportatori
di
commodities
e
petrolio
si
trovano
a
fronteggiare
il
calo
dei
prezzi
dei
loro
prodotti,
che
tenderanno
a
essere
deboli
a
causa
della
flessione
della
domanda
globale.
La
riduzione
dei
redditi
derivanti
dalle
commodities
e
dal
petrolio
è
poi
elemento
scatenante
o
aggravante
delle
tensioni
geo‐politiche
sviluppatesi
negli
ultimi
anni
(primavera
araba,
Russia/Ucraina,
Califfato
ISIS),
con
l’innesto
di
un
circolo
vizioso
tra
minor
crescita
e
tensioni
politiche.
La
sintesi
di
queste
problematiche
è
che
nei
prossimi
anni
il
tasso
di
crescita
atteso
dell’area,
pur
rimanendo
elevato
si
abbasserà
di
quasi
due
punti
percentuali
rispetto
a
quello
degli
ultimi
quindici
anni,
attestandosi
al
di
sotto
del
5%
annuo.
I
paesi
dell’area
“avanzata”
sono
invece
ancora
occupati
a
gestire
le
conseguenze
della
crisi
finanziaria
del
2008‐09
che
ha
lasciato
poco
spazio
di
manovra
alle
politiche
economiche
dei
policy‐makers.
I
minori
tassi
di
crescita,
la
minore
occupazione
e
l’elevata
capacità
inutilizzata
riducono
le
risorse
a
disposizione
dei
governi
e
rendono
socialmente
meno
accettabile
l’adozione
di
politiche
di
ampio
respiro.
Se
si
guarda
alle
tre
maggiori
potenze
economiche
dell’area
“avanzata”
del
pianeta
(USA,
Giappone,
Eurozona)
si
nota
come
attualmente
si
sia
di
fronte
a
tre
diversi
“esperimenti”
di
politica
economica.
Negli
USA,
la
sequenza
delle
policy
adottate
dal
2008
ha
gettato
le
basi
della
crescita
economica
e
dell’occupazione
per
i
prossimi
anni.
Già
nelle
prime
settimane
dopo
il
fallimento
della
Lehman
Brothers
la
politica
monetaria
USA
è
diventata
molto
espansiva
(grafico
2),
con
il
bilancio
della
Fed
ampliato
di
circa
un
trilione
di
dollari
in
poche
settimane
e
con
il
salvataggio
immediato
del
sistema
finanziario.
La
politica
monetaria
ha
poi
proseguito
fino
ad
oggi
nel
suo
stance
molto
accomodante
(TARP,
QE1,
QE1bis,
QE2,
QE3,
QE3bis),
indebolendo
il
dollaro,
rivitalizzando
il
settore
bancario
e
il
credito,
e
consentendo
il
risveglio
del
settore
immobiliare.
Combinata
a
oltre
un
decennio
di
riduzione
del
costo
del
lavoro
per
unità
di
prodotto,
la
svalutazione
ha
consentito
un
ulteriore
recupero
della
competitività
di
prezzo
dei
beni
e
servizi
prodotti
negli
USA.
Grafico 2 ‐ US Federal Reserve, Balance Sheet Fonte:
Elaborazioni
EconPartners
su
dati
US
Federal
Reserve
Anche
la
politica
di
bilancio
USA
è
stata
utilizzata
in
maniera
molto
pragmatica.
Nel
2009,
il
deficit
di
bilancio
USA
è
arrivato
al
12%
del
PIL,
agendo
in
maniera
decisamente
anti‐ciclica
anche
nei
tre
anni
successivi.
Passato
il
momento
più
difficile,
gli
USA
hanno
invertito
la
rotta
e
il
rapporto
deficit/PIL
è
ormai
rientrato
a
livelli
che
rispetterebbero
i
parametri
di
Maastricht.
Nel
frattempo
anche
la
politica
industriale
ha
fatto
la
sua
parte,
con
interventi
focalizzati
soprattutto
sul
settore
automobilistico
ed
energetico
(avviandosi
verso
l’indipendenza
energetica
con
lo
sviluppo
della
produzione
di
shale
oil
e
shale
gas).
Gli
USA
si
avviano
quindi
a
far
da
battistrada
dell’economia
mondiale,
con
tassi
di
crescita
superiori
al
3%
annuo.
In
Giappone,
l’adozione
della
Abenomics,
basata
sulle
tre
frecce
annunciate
dal
primo
ministro
Abe
nella
primavera
del
2013
(espansione
della
base
monetaria
e
quantitative
easing,
avvio
di
massicci
investimenti
pubblici,
riforme
strutturali)
ha
incontrato
difficoltà
di
applicazione:
il
debito
pubblico
molto
elevato
non
consente
una
politica
di
bilancio
decisamente
espansiva,
che
anzi
ha
agito
da
freno
nel
2014
e
lo
farà
ancora
per
almeno
un
paio
di
anni
(grafico
3).
Inoltre,
le
resistenze
interne
hanno
finora
bloccato
le
riforme
strutturali
promesse
da
Abe.
Grafico 3 Realmente
efficace
è
stata
finora
solo
la
politica
monetaria
espansiva
(con
QE
di
dimensione
doppia
di
quella
USA
e
attesa
in
ulteriore
forte
espansione,
grafico
4)
nel
far
salire
le
aspettative
di
inflazione
fino
al
2%
e
nel
determinare
una
decisa
svalutazione
dello
Yen.
Nonostante
la
politica
monetaria
aggressiva,
il
tasso
di
crescita
del
PIL
del
Giappone
è
atteso
spostarsi
appena
al
di
sopra
dei
livelli
dell’ultimo
decennio.
Grafico 4 Nell’Eurozona
il
conflitto,
con
colorazioni
non
solo
economiche,
ma
anche
ideologiche
e
culturali,
tra
paesi
“core”
e
paesi
“periferici”
è
finora
sfociato
nella
priorità
data
al
rigore
delle
politiche
di
bilancio
e
monetarie.
Lo
sforzo
di
aggiustamento
dei
bilanci
pubblici
ha
finito
per
contribuire
alla
contrazione
della
domanda
interna
e
al
concretizzarsi
del
rischio
di
deflazione,
inizialmente
nella
periferia
e
progressivamente
in
pressoché
tutta
l’Eurozona.
La
politica
monetaria
adottata
dalla
BCE,
dopo
l’inevitabile
iniezione
di
liquidità
seguita
al
fallimento
Lehman
Brothers,
è
ondeggiata
tra
uno
stance
neutrale
e
uno
restrittivo
(eccetto
nella
prima
parte
del
2012,
grafico
5).
Un
effetto
collaterale
di
tale
politica
è
stato
un
tasso
di
cambio
dell’euro
complessivamente
sopravvalutato.
Grafico 5 Nonostante
l’assenza
di
politiche
economiche
espansive,
l’accresciuta
fiducia
nella
stabilità
finanziaria
lascia
comunque
prevedere
per
i
prossimi
anni
un
miglioramento
dell’andamento
del
PIL
(+1,5%
circa)
rispetto
al
quinquennio
buio
post‐crisi
(‐0,2%
annuo)
–
non
sufficiente
tuttavia
a
sostenere
l’occupazione.
L’Eurozona
rappresenta
il
punto
critico
dell’evoluzione
dello
scenario
globale,
e
maggiormente
dipendente
dalle
scelte
dei
policy‐makers.
Un’azione
decisa
che
utilizzasse
tutti
gli
strumenti
a
disposizione
(politica
monetaria,
di
bilancio,
industriale
e
di
riforme
strutturali)
consentirebbe
entro
pochi
anni
di
migliorare
il
tasso
di
crescita
dell’output
potenziale.
Purtroppo
la
governance
molto
farraginosa
dell’area
e
il
miscuglio
di
culture
e
interessi
diversi
non
fanno
ben
sperare.
Emilio
Rossi
Fondatore
EconPartners
Senior
Advisor
Oxford
Economics

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