PIETRO ABELARDO
La vita e le opere
Pietro Abelardo è considerato la figura più significativa della filosofia europea del XII secolo. Giovanni di
Salisbury lo chiama «Socrate della Francia, massimo Platone d’Occidente, nostro Aristotele».
Una vita sventurata. Abelardo ha raccontato la sua vita in due opere: la Storia delle mie sventure e le Lettere ad
Eloisa, scritte in età matura. In questi scritti Abelardo presenta la propria vicenda come un percorso dal peccato
alla salvezza, facendo emergere anche i suoi vasti interessi culturali e l’inquietudine di un‘epoca di profonde
trasformazioni.
Abelardo nacque a Pallet, vicino a Nantes, nel 1079. Lasciò al fratello la sua parte delle ricchezze di famiglia per
dedicarsi agli studi. Seguì le lezioni di Roscellino, poi di Guglielmo di Champeaux di cui Contestò nei dibattiti
scolastici le tesi realiste. Istituì una sua scuola a Parigi, a Sainte-Geneviève, fuori delle mura cittadine. Per il
grande successo che ottenne fu chiamato alla scuola di Nòtre Dame per insegnare dialettica e teologia. In questi
anni conobbe Eloisa da cui ebbe un figlio. La sposò segretamente, ma poi divenuto pubblicamente noto il loro
matrimonio, la ripudiò. Eloisa si ritirò in convento e Abelardo, evirato dai parenti di Eloisa, si fece monaco.
Il suo pensiero partiva dal presupposto che «alla fede non conduce tanto la testimonianza dell’autorità divina
quanto costringe l’argomento della ragione umana. Non si crede perché Dio lo ha detto, ma si accetta perché si è
convinti che è così». La ragione per Abelardo deve rendere comprensibile la fede. Per esempio il dogma della
Trinità può esser razionalmente compreso come espressione di tre proprietà diverse di un’unica sostanza divina.
Anche gli antichi avevano un’idea della Trinità quando distinguevano fra Dio, l’Intelletto divino e l’Anima del
mondo. Questo modo di procedere lo mise in contrasto con Bernardo di Chiaravalle che ottenne la sua condanna
nel concilio di Sens del 1140. In seguito a questa condanna Abelardo si ritirò nel monastero di Cluny dove morì
nel 1142.
Le sue opere più importanti sono la Logica ingredientibus, per i principianti, e la Logica Nostrorum petitioni
sociorum, per coloro che erano già esperti, una glossa agli scritti di Porfirio e di Boezio, la Dialettica e Etica,
ovvero conosci te stesso; in materia teologica scrive i trattati Unità e Trinità di Dio, introduzione alla teologia, la
Teologia Cristiana, il Sic et non, il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano.
Abelardo: ragione e fede
Non c’è opposizione tra ragione e fede. Per Abelardo non c’è opposizione fra ragione e fede. L’argomentazione
razionale intorno alle verità di fede può convincere anche i non cristiani: «alla fede non conduce tanto la
testimonianza dell’autorità divina quanto costringe l’argomento della ragione umana. Non si crede perché Dio lo
ha detto, ma si accetta perché si è convinti che è così». Il ricorso all’autorità quindi deve essere limitato alle Sacre
Scritture, che ci vengono direttamente da Dio. Le opinioni degli apostoli e dei Padri della Chiesa rappresentano
una testimonianza di fede, un’interpretazione costruita a partire da condizioni storiche e culturali diverse, da
finalità diverse e un diverso uso del linguaggio. L’uomo è chiamato a ‘capire per credere’.
Nel Sic et non Abelardo raccoglie opinioni contrastanti sulle diverse verità di fede perché «attraverso il dubbio
si giunge alla ricerca, attraverso la ricerca si giunge alla verità». Le opinioni raccolte devono esser sottoposte a
un vaglio critico rigoroso; cinque sono le regole che devono esser seguite nel lavoro di analisi critica:
analizzare i termini utilizzati dall’autore per comprendere con precisione l’esatto significato
della tesi esposta;
valutare l’autenticità del testo;
esaminarlo nell’insieme complessivo delle opere dell’autore;
distinguere le affermazioni dell’autore dalle citazioni di altri testi che sono riportate;
considerare l’autorevolezza di chi ha scritto il testo; quest’ultima regola serve nel caso in cui non
sia possibile risolvere in maniera definitiva la questione discussa, l’opinione da scegliere è quella più
consona al tradizionale insegnamento della Chiesa.
Seguendo queste regole, la ragione umana può passare dalla conoscenza alla comprensione. La ‘conoscenza’ è
«esperienza delle cose stesse attraverso la loro stessa presenza» ed è campo esclusivo e incontrastato della
ragione. La ‘comprensione’ è «la valutazione delle cose che non appaiono» (Logica ingredientibus). Ad essa la
ragione perviene attraverso analogie e verosimiglianze.
Abelardo: la questione degli universali
La delicatezza del passaggio dalla conoscenza alla comprensione richiede, per Abelardo, un uso attento e
rigoroso degli strumenti della dialettica.
Questa è la ragione per cui egli sottopose ad attenta analisi critica, nella questione degli universali, sia la
posizione di Roscellino sia quella di Guglielmo di Champeaux, che sono state presentate sopra.
L’universale è nel linguaggio. Secondo Abelardo, sia i nominalisti sia i realisti finivano con il considerare
l’universale come una ‘cosa’: per i nominalisti esso era un suono (flatus vocis), per i realisti era un’essenza.
Invece, per Abelardo, l’universale è discorso (sermo), o suono dotato di significato (vox significativa).
La vera realtà è data dall’individuo. E le diverse individualità possono avere caratteristiche simili tali da far
rilevare una comune essenza, come per esempio di varie persone si dice che sono tutti esseri umani, ma ciò non
rende l’umanità, come nozione, un qualche cosa di ulteriore, o di esistente separatamente rispetto ai singoli
uomini. L’universalità ha senso solo nell’ambito logico-linguistico, dipende dal valore universale che assumono le
parole nel discorso. Come scrive Abelardo: «quando odo la parola uomo, mi sorge nell’animo un modello che sta
ai singoli uomini come comune a tutti e proprio di nessuno; quando invece odo Socrate, mi sorge nell’animo una
forma che esprime la similitudine di una determinata persona». Il modello mentale che si forma per l’azione della
parola è il concetto, da cui, appunto, il termine ‘concettualismo’. La logica che si occupa dei concetti, dato che essi
esistono unicamente in relazione alle parole nel discorso, è allora definita come scientia sermocinalis (scienza del
discorso).
L’universale è uno status. In quanto espresso nel discorso, dunque, l’universale rappresenta il modo di essere
delle cose che sono distinte le une dalle altre, ma hanno anche aspetti somiglianti senza per questo perdere la
loro distinzione. In tal modo, Abelardo toglie ai concetti ogni sostanzialità metafisica e li rende strumenti logici
fondamentali per comprendere la realtà. Infatti, l’universale non è res, è invece uno status, una condizione che la
mente umana astrae dalle cose particolari, ma questa operazione non è arbitraria, perché basata su elementi
oggettivi comuni, ricavati grazie ai sensi. Così, per esempio, ci sono validi elementi che portano, nell’esaminare i
vari uomini, al concetto complessivo di essere umano. Come scrive Abelardo:
L’universale è una parola trovata in modo da poter essere predicata singolarmente di molti, come per esempio
il nome uomo è unibile ai nomi particolari degli uomini, per la natura dei soggetti reali ai quali è imposto. [...]
Quando si descrive l’universale come ciò che si predica di molti, quel “ciò che” non solo indica la semplicità della
espressione per distinguerlo dai discorsi composti [cioè il vocabolo usato, la vox], ma anche l’unità del significato
[cioè il sermo]. I singoli uomini, distinti tra loro, convengono [...] non nell’uomo - poiché l’uomo non è una realtà
se non a patto di essere distinto da ogni altra realtà - ma nell’essere uomini. [...] L’intellezione del nome
universale concepisce un’immagine comune e confusa di molti, l’intellezione generata dalla parola singolare
comprende la forma propria e quasi singolare di una cosa sola. Perciò, quando odo la parola uomo, mi sorge
nell’animo un modello che sta ai singoli uomini come comune a tutti e proprio di nessuno; quando invece odo
Socrate, mi sorge nell’animo una forma che esprime la similitudine di una determinata persona.
Logica Ingredientibus, II
Abelardo: l’etica
‘Buona’ o ‘malvagia’ è propriamente l’intenzione. Le concezioni logiche e teologiche di Abelardo sono alla base
della sua filosofia morale. Secondo Abelardo, il dovere fondamentale dell’uomo è quello di conoscere se stesso.
Etica, ovvero conosci te stesso, è appunto il titolo del suo trattato di filosofia morale. Ciò perché rientra in campo
morale solo quell’azione che implica una responsabilità individuale. Ma soprattutto, l’azione in se stessa non può
essere definita buona o malvagia. La bontà o malvagità dell’azione dipende dall’intentio, dall’intenzione con la
quale il soggetto agisce. (P. Abelardo, in Storia della Filosofia, Alice. Con adattamenti.)