Dispensa Malattie dell’Apparato Cardio-vascolare Dott. Alessandro Carbonaro Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono, per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico, come il Giappone. Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al benessere! Giova a tal fine ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. In altre parole laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause principali di mortalità, mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato cardiovascolare rappresentano la prima causa di morte. Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato” dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa diagnosi. I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare sono: 1) La Dispnea. 2) L’Astenia. 3) Il Dolore toracico. 4) Le Palpitazioni, definite anche Cardiopalmo. 5) La Nicturia. LA DISPNEA Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà respiratoria che può insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o addirittura comparire a riposo. Le sue manifestazioni più gravi sono l’ortopnea, la dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto (vedi più avanti). Quando non imputabile a cause specifiche respiratorie, la dispnea indica il coinvolgimento del circolo polmonare da parte di una patologia del cuore sinistro: l’aumento della pressione in atrio sinistro o della pressione diastolica del ventricolo sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari polmonari e nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei capillari provoca trasudazione di liquido dapprima nell’interstizio polmonare (edema interstiziale) e quindi negli alveoli (edema alveolare). La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica, per una patologia che può coinvolgere l’apparato respiratorio o l’apparato cardiovascolare; la dispnea cardiaca è uno dei sintomi più significativi insieme all’astenia, al dolore anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la valutazione clinica di gravità di uno scompenso. Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.), utile per inquadrare tutti i gradi di scompenso in relazione alla insorgenza della dispnea per sforzi sempre più lievi o addirittura a riposo. Essa è così strutturata: Classe I: comprende pazienti con una patologia cardiaca i quali non hanno alcuna limitazione della propria attività fisica. L’attività non causa dispnea, né affaticabilità, né dolore anginoso. Classe II: comprende pazienti con patologia cardiaca nei quali è presente una scarsa limitazione dell’attività fisica. Questi soggetti stanno bene a riposo, ma possono avere disturbi (dispnea, affaticabilità, palpitazioni o dolore anginoso) per una attività fisica usuale. Classe III: comprende pazienti con patologia cardiaca che hanno una marcata limitazione dell’attività fisica. Stanno bene a riposo, ma possono presentare i disturbi sopra indicati per un’attività fisica anche inferiore a quella usuale. Classe IV: comprende pazienti con patologia cardiaca che li rende incapaci di effettuare qualsiasi attività fisica senza presentare i disturbi sopra indicati, che possono essere presenti anche in condizioni di riposo. La forma più grave di dispnea che possa presentarsi nel cardiopatico è l’edema polmonare acuto, che si realizza quando la pressione all’interno dei capillari polmonari supera il valore della pressione colloido-osmotica. Nel capillare, infatti, agiscono due forze contrapposte: la pressione idrostatica, che tende a far fuoriuscire il liquido dal vaso, e quella oncotica, esercitata dalla proteine non diffusibili, che tende a trattenere il liquido all’interno; il valore di quest’ultima è 25-30 mm Hg. Se la pressione idrostatica nei capillari polmonari supera tale valore, è inevitabile una ultrafiltrazione di plasma, associata, per rotture microvascolari, ad alcuni globuli rossi. Fuoriuscendo dai vasi, il liquido si riversa dapprima nell’interstizio, da dove il sistema linfatico cerca di rimuoverlo; successivamente, quando la capacità di drenaggio del sistema linfatico viene superata, il fluido invade gli alveoli polmonari, e mescolandosi all’aria forma una schiuma, talora rosata, che invade le vie aeree ed interferisce gravemente con l’efficienza degli scambi gassosi, tanto da poter portare a morte. All’ascoltazione del torace, in questa situazione drammatica, quando dalla fase interstiziale si passa a quella alveolare, si assiste alla comparsa di rantoli prima a piccole poi a grosse bolle, che iniziano dalle basi polmonari e giungono rapidamente a coprire l’intero distretto respiratorio. Il soggetto è in posizione eretta e mette in funzione tutti i muscoli respiratori accessori nella disperata ricerca di riuscire ad effettuare atti respiratori utili. IL DOLORE TORACICO Il dolore ischemico presenta caratteristiche peculiari che vanno dalla modalità di insorgenza, al tipo di dolore, alla sede dello stesso, alla sua irradiazio ne. E’ questo il sintomo più importante nell’angina ed in genere delle sindromi coronariche acute, compreso l’infarto miocardico. Nei quadri clinici riferibili ad angina pectoris, la presenza di dolore è “condicio sine qua non” per definire il quadro clinico. Nell’angina da sforzo stabile il dolore insorge durante uno sforzo fisico, è di tipo costrittivo od oppressivo e nel 75% dei casi è localizzato alla regione retrosternale bassa, con varie possibili irradiazioni, delle quali abbastanza comune è quella al lato ulnare del braccio sinistro, e in misura minore, al giugulo. Più raramente vengono interessati l’emitorace di destra e il braccio destro o l’epigastrio. Il dolore cessa usualmente dopo poco la cessazione dello sforzo e recede rapidamente con l’assunzione di nitroderivati. Nell’infarto miocardico acuto, il dolore con le caratteristiche sopra descritte persiste in genere ben oltre i pochi minuti e può durare addirittura diverse ore. Il dolore toracico non è soltanto indicativo di ischemia miocardica (angina pectoris, sindromi coronariche acute) ma può essere indicativo di numerose altre patologie cardiovascolari quali la pericardite, la dissezione aortica, l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare, e può anche dipendere da patologie di altri organi e sistemi, come lesioni esofagee o pleuriche oppure interessamento (compressivo, infiltrativo o flogistico) di nervi intercostali. LE PALPITAZIONI O CARDIOPALMO La percezione del proprio battito cardiaco è già un sintomo. La normale azione del cuore, infatti, decorre in maniera del tutto asintomatica, sia di giorno che di notte, per tutta la vita. Esistono due tipi fondamentali di cardiopalmo: quello tachicardico, in cui il soggetto riferisce un’azione cardiaca rapida e continua, e quello extrasistolico, caratterizzato dall’avvertire improvvisamente un “tonfo” o “tuffo” oppure la “sensazione del cuore che si ferma” . Anche se in condizioni di impegno fisico od emozionale è frequente sentire il proprio battito cardiaco, non vi è dubbio che la perdita di ritmicità è un fenomeno che difficilmente sfugge. Talora tale sintomo viene vissuto in maniera allarmante più del dovuto, come nel caso di extrasistolia isolata o sporadica. L’aritmia percepita, responsabile del cardiopalmo, può essere di scarso rilievo clinico, o al contrario estremamente importante. E’ pur vero che le aritmie più gravi, quali la fibrillazione ventricolare o l’asistolia, possono portare a morte senza alcun sintomo premonitore, ma è innegabile che talora “salve di extrasistoli” o brevi episodi di tachicardia, e dall’altra parte episodi parossistici di blocco A-V con transitoria asistolia, possono risultare sintomatici e quindi diagnosticabili in tempo per essere trattati con pacemaker o defibrillatore, evitando eventi gravi o fatali. LA SINCOPE Può essere definita come: “Perdita improvvisa e transitoria della coscienza e del tono posturale, dovuta ad una grave ipossia o ad una anossia cerebrale acuta”. Talora può essere accompagnata da perdita di urine e/o di feci. Un tempo si distingueva la lipotimia come perdita momentanea del tono posturale e talora anche dello stato di coscienza, preceduta in genere da prodromi descritti come “senso di mancamento, nausea, appannamento della vista, sudorazione, pallore”. Oggi si preferisce parlare di sincope e di presincope. La sincope può riscontrarsi in varie situazioni di patologia cardiaca (vedi Capitolo 41). LA NICTURIA E’ uno dei sintomi che accompagna l’insufficienza cardiaca, e consiste in una riduzione della diuresi durante il giorno con aumento della diuresi stessa durante la notte. Il fenomeno può essere dovuto al riassorbimento notturno degli edemi soprattutto declivi, che possono realizzarsi durante la stazione eretta nel paziente con scompenso cardiaco congestizio, o anche perchè durante il riposo notturno il fabbisogno di sangue da parte dei muscoli è minimo, per cui una parte relativamente elevata della portata cardiaca può giungere al rene, il quale aumenta la produzione di urina. CONCETTI GENERALI Nei pazienti con Malattie dell’apparato cardiovascolare, i segni rilevabili all’esame clinico costituiscono ancora oggi un importante capitolo perché tutte le innovazioni tecnologiche, che hanno apportato un grande progresso nell’inquadramento diagnostico e nella terapia, trovano una loro logica applicazione solo sulla base di una corretta valutazione dei segni peculiari di ogni forma di cardiopatia. I principali segni presenti nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari sono rilevabili con un accurato esame obiettivo che trova i suoi capisaldi nei presìdi offerti dalla classica Semeiotica fisica: Ispezione, Palpazione, Percussione, Ascoltazione. Tra queste, la Percussione ha perso del tutto la sua utilità, nel campo della Semeiotica Cardiovascolare, grazie ai progressi tecnologici che hanno reso molto più precisa la determinazione delle dimensioni cardiache. Gli altri tre capisaldi semeiologici (Ispezione, Palpazione ed Ascoltazione, soprattutto quest’ultima) conservano la loro validità e servono ad indirizzare, verso l’uso corretto delle tecniche diagnostiche strumentali. I segni di una cardiopatia si possono riscontrare all’esame obiettivo dell’apparato cardiovascolare mediante le seguenti manovre: 1) L’osservazione del volto e delle estremità per rilevare la presenza di cianosi. 2) L’osservazione del polso venoso giugulare. 3) L’ispezione delle arterie e la palpazione del polso arterioso. 4) L’ispezione e la palpazione della zona precordiale. 5) La palpazione dell’addome per ricercare l’eventuale presenza di epatomegalia o di pulsazioni abnormi. 6) La ricerca di eventuali edemi declivi. 7) L’ascoltazione del cuore, volta ad evidenziare anomalie dei toni e/o la comparsa di soffi o sfregamenti. CIANOSI Si definisce cianosi il colorito bluastro assunto dalla pelle e dalle mucose visibili quando il contenuto di emoglobina ridotta nel sangue capillare supera i 5 grammi per decilitro. La cianosi può essere centrale o periferica. La cianosi centrale è per lo più dovuta alla presenza di uno shunt destro-sinistro o a gravi difetti della funzione respiratoria. La cianosi periferica si realizza quando, a causa di una vasocostrizione in alcuni distretti circolatori, si determina una desaturazione locale, con aumento dell’emoglobina ridotta in quelle zone. La cianosi periferica può evidenziarsi, fra l’altro, in presenza di una ridotta portata cardiaca con aumento delle resistenze periferiche. OSSERVAZIONE DEL POLSO VENOSO Il polso venoso meglio valutabile è quello giugulare con il paziente in posizione seduta, reclinato a 45° (rispetto ai 90° normali per la posizione seduta). Il polso venoso normale presenta tre onde positive e due depressioni. Le onde positive sono denominate onde a, c e v, mentre le depressioni sono denominate x e y. Un’attenta osservazione del polso venoso giugulare, può fornire precise indicazioni circa la funzione delle camere destre del cuore. Un’evidente accentuazione dell’onda a è espressione di un aumento della pressione in atrio destro (Stenosi tricuspidale, Anomalia di Ebstein ecc..) o della pressione diastolica ventricolare destra, come si verifica nella Miocardiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30), o nella Pericardite costrittiva, (vedi Capitolo 32). Un’accentuazione dell’onda v è talora espressione di una insufficienza tricuspidale. + ISPEZIONE DELLE ARTERIE E PALPAZIONE DEL POLSO ARTERIOSO. Con l’ispezione si possono evidenziare pulsatilità arteriose anormali (come per esempio l’eccessiva pulsazione delle carotidi, osservabile al collo in presenza di insufficienza aortica o di altre situazioni di circolo ipercinetico). Con l’ascoltazione possono evidenziarsi soffi vascolari. La manovra semeiologica più utilizzata per l’esplorazione del polso arterioso è la palpazione, con la quale si possono valutare: a) la frequenza: numero delle sistoli in un minuto; b) il ritmo: regolarità o irregolarità delle pulsazioni; c) l’ampiezza: entità del sollevarsi della parete arteriosa sotto il dito che palpa, carattere che è direttamente correlato alla gittata sistolica; d) la tensione: entità della forza che devono esercitare le dita che palpano per sopprimere la pulsazione, espressione anche del livello pressorio; e) la simmetria: uguale ampiezza dei polsi corrispondenti, palpati simultaneamente dai due lati dell’organismo (per esempio, i due polsi radiali, i due polsi femorali, etc). Le variazioni dei caratteri sopradescritti del polso arterioso, possono risultare indicativi di particolari situazioni morbose. Ecco alcuni esempi. A – Un polso di ridotta ampiezza (piccolo) e con picco ritardato (tardo) si riscontra nella stenosi aortica. B – Un polso ampio e celere (con picco precoce) è presente nell’insufficienza aortica o negli stati circolatori ipercinetici;. C- Un polso filiforme (frequenza notevolmente aumentata, tensione e ampiezza nettamente ridotte) è tipico dello shock . D – Il polso paradosso è l’esagerazione patologica di una riduzione della pressione durante una inspirazione profonda. Tale riduzione è presente anche in condizioni fisiologiche, ma non supera di solito i 10 mm di mercurio, mentre in presenza di pericardite costrittiva o in situazioni nelle quali esiste una grave riduzione del riempimento ventricolare, si può avere una caduta di oltre 20-30 mm di mercurio. DEMI DECLIVI Si sviluppano inizialmente nelle parti molli degli arti inferiori (piedi, zone pretibiali, etc.) nei soggetti che rimangono per ore in stazione eretta o seduta. Nei pazienti costretti a letto gli edemi sono più evidenti nella regione pre-sacrale. Quando si ha un imponente stato anasarcatico, gli edemi sono diffusi e si accompagnano anche a versamenti nelle grandi sierose (versamento pleurico, ascite, etc.). L’ascoltazione rappresenta la manovra più importante dell’esame obiettivo del cuore, ed è basata sull’analisi dei toni e sul riconoscimento di eventuali soffi. I Toni I toni cardiaci normali sono il I e il II; il III tono può essere ascoltato in assenza di patologia nei bambini o in giovani adulti con parete toracica particolarmente sottile. Il I tono è provocato essenzialmente della chiusura delle valvole atrio-ventricolari, mentre il II si deve alla chiusura delle semilunari aortiche e polmonari (Figura 1). Il I tono può risultare rinforzato in caso di stenosi mitralica (vedi Capitolo 14) o di stenosi della valvola tricuspide, mentre è spesso indebolito nell’insufficienza mitralica. Il II tono è costituito dalle 2 componenti, aortica e polmonare (A2 e P2), che nella maggior parte dei casi sono così ravvicinate da generare un tono unico, anche se la chiusura della valvola aortica precede di poco quella della polmonare (Figura 1). A volte, però, anche in condizioni fisiologiche, le due componenti del II tono possono essere ascoltate distinte l’una dall’altra, per cui il II tono si presenta sdoppiato. Tale sdoppiamento, però, e variabile con le fasi del respiro: A2 e P2 appaiono separate solo durante l’inspirazione, mentre nella fase espiratoria sono uniti. Ciò dipende dal fatto che con l’inspirazione aumenta il ritorno venoso per l’incremento della vis a fronte: il ventricolo destro, perciò, riceve più sangue e la sua sistole è leggermente prolungata, tanto da ritardare la chiusura della valvola polmonare; con l’espirazione, invece, questo fenomeno non è più presente, e la chiusura delle due valvole semilunari è presso a poco simultanea. Lo sdoppiamento del II tono può essere fisso in presenza di un difetto del setto interatriale, che comporta uno shunt sinistro-destro. In questa situazione la gittata del ventricolo destro è sempre aumentata: in inspirazione per l’aumentato ritorno venoso dalle vene cave, in espirazione per lo shunt attraverso il setto interatriale. Infine, lo sdoppiamento del II tono può essere “paradosso”: in questo caso si avvertono le due componenti separate in espirazione mentre il tono appare unico durante l’inspirazione . Questo fenomeno è principalmente causato da un eccessivo ritardo di A2. come accade in caso di blocco di branca sinistra o stenosi aortica grave. In queste situazioni, il II tono è sdoppiato poiché la chiusura della valvola aortica è ritardata per motivi elettrici (blocco di branca) o meccanici, ed è la polmonare a chiudersi prima. Quando, durante l’inspirazione, si verifica un fisiologico ritardo della chiusura della polmonare, legato all’aumentato ritorno venoso, A2 e P2 diventano simultanee, mentre in espirazione non vi è il ritardo di P2, per cui il II tono appare sdoppiato. Il II tono può risultare rinforzato in presenza di un aumento dei valori pressori sistemici nella sua componente aortica (A2) o in presenza di un’ipertensione polmonare, nella sua componente polmonare (P2). In queste condizioni, il livello della pressione che fa chiudere la valvola semilunare è maggior del normale, per cui le vibrazioni che la valvola genera nel chiudersi sono particolarmente ampie. Il III tono corrisponde alla fase diastolica di riempimento rapido (protodiastole), e può risultare ben evidente in caso di aumentato riempimento ventricolare o in presenza di disfunzione ventricolare, come nello scompenso cardiaco. Normalmente il III tono si ascolta soltanto nei bambini o nei soggetti con parete toracica particolarmente sottile. Il IV tono corrisponde alla sistole atriale (telediastole o presistole), e dipende dalle vibrazioni provocate dal sangue che, spinto dalla contrazione dell’atrio, penetra nel ventricolo. Normalmente questo fenomeno non dà luogo a un tono ascoltabile sia perché le vibrazioni indotte dalla sistole atriale, a bassa frequenza, sono quasi in continuità con quelle, a frequenza ben più alta, del I tono, sia perché la loro ampiezza è molto bassa. Vi sono essenzialmente due condizioni che favorisono l’ascoltazione del IV tono: il blocco A-V di I grado e la ridotta distensibilità ventricolare. Nel primo caso si allunga l’intervallo P-R , per cui la sistole atriale non è seguita da quella ventricolare immediatamente, ma dopo un tempo più lungo del normale, per cui in IV tono è ben separato dal I. Nella seconda circostanza la ridotta distensibilità delle pareti ventricolari, come avviene nella stenosi aortica o nella cardiopatia ipertensiva, fa sì che aumenti l’ampiezza delle vibrazioni generate dal sangue che l’atrio spinge nel ventricolo. Quando il III o il IV tono si ascoltano in presenza di un aumento della frequenza cardiaca, si può generare un ritmo a tre tempi (ritmo di galoppo). A volte sono contemporaneamente presenti in III e il IV tono; se la frequenza cardiaca è aumentata, si ha il cosiddetto galoppo di sommazione. I Toni aggiunti A parte i toni descritti, è possibile ascoltare, in particolari condizioni, patologiche, i seguenti toni aggiunti. 1) I click sistolici, che comprendono il click del prolasso mitralico e i click eiettivi aortico e polmonare, apprezzabili a volte in presenza di stenosi aortica o polmonare. 2) Gli schiocchi d’apertura della mitrale o della tricuspide, che si determinano al momento dell’apertura di una valvola stenotica. Normalmente non si generano vibrazioni udibili all’aprirsi delle valvole A-V, ma quando queste divengono stenotiche la loro apertura provoca un tono aggiunto a tonalità alta, detto appunto schiocco d’apertura . I Soffi Un soffio è il rumore che si genera quando il flusso del sangue diventa turbolento, e può essere ascoltato col fonendoscopio non solo in corrispondenza del cuore, ma anche sui vasi. In condizioni ideali, il flusso del sangue dovrebbe essere laminare (in base al numero di Reynolds), ma in realtà non lo è quasi mai; la turbolenza marcata del flusso, tale da generare vortici che poi si ascoltano come “soffi” si deve a vari motivi, inclusa la stessa viscosità del sangue. I soffi cardiaci dipendono essenzialmente da: a) un ostacolo anormale al flusso, come per esempio quello rappresentato da una valvola stenotica; b) un flusso non fisiologico, come per esempio quello che si genera nel difetto del setto interventricolare, nel quale vi è un flusso “innaturale” del sangue da un ventricolo all’altro; c) un’aumentata velocità e/o un’aumentata quantità del flusso, come si verifica per esempio nell’insufficienza aortica “pura” dove, in assenza di stenosi valvolare, si può ascoltare sul focolaio aortico un soffio sistolico quando la gittata sistolica ventricolare sinistra è notevolmente aumentata. I soffi cardiaci si distinguono in base alla loro cronologia (cioè alla fase del ciclo cardiaco in cui si ascoltano), al timbro, alla intensità, alla sede di ascoltazione e alla irradiazione. Una prima importante distinzione è fra soffi sistolici, diastolici e continui; questi ultimi occupano tutto il ciclo cardiaco, mentre i primi sono limitati a una sola delle due fasi. All’interno delle categorie dei soffi sistolici e diastolici, poi, se ne trovano alcuni che occupano tutta la sistole (soffio solosistolico) o tutta la diastole (soffio olodiastolico) e altri la cui durata è minore, che vengono definiti con i prefissi proto, meso o tele (protosistolici, protodiastolici, etc) secondo che occupino solo la parte iniziale della fase (sistole o diastole) in cui si ascoltano, oppure la parte intermedia o quella finale. Per quanto riguarda il timbro, i soffi vengono tradizionalmente definiti impiegando termini come dolce, rude, aspro, aspirativo, raspante, e altri fra cui è molto diffuso quello di “rullio” per indicare il soffio diastolico della stenosi mitralica, che viene assimilato a un rullio di tamburi. La sede di ascoltazione di un soffio cardiaco è il punto del precordio dove il soffio ha la massima intensità. I quattro “classici” focolai dell’ascoltazione sono quello mitralico (alla punta del cuore), tricuspidalico (all’incirca alla base dell’apofisi ensiforme), aortico (sulla margino-sternale destra, al secondo spazio intercostale) e polmonare (sulla margino-sternale sinistra, al secondo spazio intercostale). L’irradiazione del soffio è la direzione in cui, partendo dalla sede, è ancora possibile ascoltarlo bene. E’ caratteristica l’irradiazione all’ascella del soffio dell’insufficienza mitralica e l’irradiazione al giugulo del soffio della stenosi aortica. L’intensità dei soffi viene in genere valutata solo per quelli sistolici, secondo la scala a 6 gradini proposta da Levine, la quale tiene anche conto del fatto che quando un soffio è molto intenso, le vibrazioni generate dalla turbolenza del flusso si possono non solo ascoltare, ma anche palpare come fremiti, appoggiando la mano sul precordio. 1/6 è quel soffio che non si avverte immediatamente, ma solo quando si ascolta il cuore con grande attenzione 2/6 è un soffio che si ascolta immediatamente, ma è relativamente debole 3/6 è un soffio forte ma non accompagnato da fremito 4/6 è un soffio forte accompagnato da fremito 5/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, ma che non si ascolta più se si solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute 6/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, che si continua ad ascoltare anche se si solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute I soffi sistolici, inoltre, possono essere distinti in eiettivi e da rigurgito. Questa distinzione ha molta importanza da un punto di vista clinico perché mentre i soffi eiettivi possono essere sia organici, determinati cioè da una lesione anatomica (per esempio, una stenosi valvolare aortica), che funzionali, legati a motivi differenti da un’alterazione strutturale (per esempio, un’aumentata velocità del flusso), i soffi da rigurgito sono sempre organici, espressione di un’alterazione anatomica. I soffi eiettivi iniziano a una certa, anche se breve, distanza dal I tono. Prendiamo come esempio il soffio eiettivo della stenosi aortica: all’inizio della sistole il ventricolo sinistro si contrae e fa chiudere la valvola mitrale, dando origine al I tono; in questa fase, che prende il nome di contrazione isometrica (o isovolumetrica) l’eiezione del sangue dal ventricolo non è ancora iniziata. Solo quando la pressione endoventricolare cresce e supera quella vigente in aorta (circa 80 mm Hg in condizioni normali) la valvola aortica si apre e ha inizio il flusso attraverso la valvola e con esso il soffio, assumendo che la valvola sia stenotica. Questo soffio, perciò, inizierà a una certa distanza dal I tono, non simultaneamente ad esso. Osserviamo ora il soffio da rigurgito della insufficienza mitralica . Questo inizia senza alcun ritardo rispetto al I tono, ma contemporaneamente ad esso; infatti appena la valvola mitrale si chiude e si genera il I tono inizia il rigurgito di sangue in atrio sinistro, ben prima che la pressione intraventricolare aumenti al di sopra di quella aortica e la valvola aortica si apra. In definitiva, il soffio sistolico da rigurgito inizia attaccato al I tono, mentre il soffio sistolico eiettivo è staccato dal I tono. I soffi sistolici da eiezione hanno in generale la caratteristica di essere in crescendodecrescendo, assumendo una morfologia “a diamante”, mentre i soffi da rigurgito hanno un aspetto “a nastro” conservando la stessa intensità per tutta la loro durata. I soffi sistolici da rigurgito sono quelli dell’insufficienza mitralica, dell’insufficienza tricuspidale, del difetto del setto interventricolare; quelli eiettivi possono essere organici, legati alla stenosi aortica o alla stenosi polmonare , ma possono anche essere soltanto di natura funzionale, espressione di una stenosi relativa, dovuti non a riduzione dell’ostio valvolare, ma semplicemente ad aumento del flusso con un’area valvolare normale. I soffi diastolici sono quasi sempre organici, e comprendono il soffio (rullio) diastolico della stenosi mitralica, quello della stenosi tricuspidalica , il soffio dell’insufficienza aortica e quello dell’insufficienza polmonare . I soffi continui sono sempre legati ad una anormale connessione fra il circolo arterioso e quello venoso, con shunt artero-venoso che dura per tutto il ciclo cardiaco. Il prototipo del soffio continuo è quello generato dalla pervietà del dotto arterioso di Botallo, che si ascolta in sede sottoclaveare sinistra. Gli Sfregamenti Relativamente simili ai soffi sono gli sfregamenti pericardici, che si ascoltano in alcuni soggetti affetti da pericardite . Normalmente i foglietti pericardici viscerale e parietale sono lisci e scorrono l’uno sull’altro senza alcuna frizione, ma in seguito all’infiammazione il movimento dei foglietti, divenuti rugosi, genera gli sfregamenti, che spesso si ascoltano sia in sistole che in diastole. Lo Scompneso Cardiaco Lo scompenso cardiaco si presenta con un quadro clinico estremamente variabile, per cui ne sono state proposte numerose definizioni. La più tradizionale, di tipo fisiopatologico, descrive lo scompenso cardiaco come una sindrome in cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata alle richieste dei tessuti oppure, nel caso vi riesca, questo è ottenuto attraverso un aumento delle pressioni di riempimento ventricolari. La Società Europea di Cardiologia ha definito lo scompenso cardiaco come una sindrome caratterizzata dai seguenti aspetti: sintomi e/o segni tipici (dispnea e/o ast enia, a riposo e/o da sforzo, e/o edemi declivi) ed evidenza obiettiva (generalmente mediante ec ocardiografia) di una disfunzione cardiaca sistolica e/o diastolica. L’importanza dell’attivazione neuroumorale e delle controrisposte dei vari organi nel determinare la progressione dello scompenso cardiaco fa ritenere necessario includere anche questi fattori nella definizione. Per scompenso cardiaco si deve quindi intendere una sindrome in cui ad un calo, assoluto o relativo, della portata cardiaca, comunque determinato ma conseguente ad una causa cardiaca, corrisponde una risposta multiorganica con attivazione cronica neuroumorale in grado di deteriorare ulteriormente la funzione mioca rdica, nonostante una controrisposta di fattori tendenti al ripristino dell’omeostasi circolatori a. EPIDEMIOLOGIA A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della maggior parte delle malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua crescita. La prevalenza di scompenso sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei paesi europei sono quindi affette da scompenso cardiaco sintomatico più di 12 milioni di persone. Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe portatore di disfunzione sistolica ventricolare sinistra asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da scompenso cardiaco con conservata funzione sistolica ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è spesso sfavorevole: la forma acuta di scompenso è la più importante causa di ospedalizzazione per i soggetti di età superiore ai 65 anni. Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è destinata a morire in un tempo medio di 4 anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un solo anno per il 50% dei pazienti con scompenso severo. Recenti dati indicano, tuttavia, un miglioramento della prognosi dovuto all’applicazione di terapie con evidenza di efficacia. CAUSE Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di compromettere la funzione cardiaca. Può essere causato da una disfunzione miocardica (condizione più frequente) ma anche da valvulopatie, malattie del pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente l’anemia, la disfunzione tiroidea, l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi negativi possono peggiorare o qualche volta causare lo scompenso cardiaco. Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è spesso caratterizzato da una compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia ischemica, spesso con concomitante ipertensione arteriosa, ne è la causa più frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più frequente l’insufficienza cardiaca con conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti hanno una storia d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica isolata, ed un’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica. Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in particolare la cardiomiopatia dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di scompenso cardiaco. MECCANISMI FISIOPATOLOGICI ALLA BASE DELL’ALTERATA FUNZIONE MIOCARDICA Determinanti della funzione cardiaca. I principali determinanti della funzione cardiaca sono la frequenza cardiaca, il precarico, il postcarico e la contrattilità. Il precarico è il carico a cui è sottoposto il cuore prima dell’iniizio della contrazione (telediastole). Viene misurato dal volume o, meglio, dallo stress telediastolico. L’aumento del precarico causa un aumento della forza di contrazione miocardica (legge di Starling) per migliore sovrapposizione tra actina e miosina. Il cuore insufficiente è generalmente dilatato a tal punto da avere un esaurimento della riserva di precarico così che le variazioni di quest’ultimo non comportano più variazioni della gettata cardiaca. Il postcarico è il carico cui è sottoposto il cuore durante la contrazione. Viene misurato dallo stress sistolico, ed è correlato all’impedenza aortica ed alle resistenze periferiche. Lo stress sistolico è direttamente proporzionale al raggio ed alla pressione intraventricolare ed inversamente proporzionale allo spessore parietale (legge di Laplace). L’aumento della pressione arteriosa comporta quindi un aumento del postcarico. Il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal postcarico. La contrattilità è la capacità del miocardio di contrarsi indipendentemente dalle condizioni di carico. Il deficit di contrattilità miocardica è l’alterazione fondamentale dello scompenso. Spesso questa non comporta alterazioni della potata cardiaca e delle pressioni di riempimento ventricolari a riposo. Sotto sforzo, tuttavia, il cuore insufficiente presenterà sempre una ridotta capacità di far fronte alle aumentate richieste dei tessuti periferici con insufficiente incremento della contrattilità e della portata cardiaca ed aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari. Vengono qui di seguito riassunti i principali meccanismi responsabili del deficit di contrattilità. Ipertrofia Miocardica L’ipertrofia miocardica si verifica in risposta ad un aumento dello stress parietale. Questo può essere dovuto sia a sovraccarico pressorio (per esempio, ipertensione, stenosi aortica) che di volume (per esempio, rigurgito mitralico oppure aortico). Il ruolo svolto dall’ipertrofia miocardica nella patogenesi dello scompenso cardiaco è tradizionalmente ritenuto fondamentale: l’ipertrofia è vista come lo stadio intermedio tra un qualsiasi danno miocardico iniziale e la successiva insufficienza miocardica. Tuttavia, nonostante numerose dimostrazioni sperimentali, pochi studi clinici sono stati finora in grado di confermare questa ipotesi. L’ipertrofia comporta modificazioni di tutte le componenti del miocardio che ne favoriscono, a loro volta, la degenerazione con dilatazione ed ipocinesia ventricolare. A livello dei miociti, si verifica un aumento del numero dei sarcomeri, che avviene in parallelo, con ispessimento delle fibre miocardiche, nel caso di un sovraccarico pressorio (ipertrofia concentrica) o in serie, con loro allungamento (ipertrofia eccentrica), nel sovraccarico volumetrico. In ogni caso, il volume delle fibre miocardiche aumenta in misura maggiore rispetto al numero dei capillari, e all’interno di ciascuna cellula il numero dei sarcomeri aumenta in misura maggiore rispetto ai mitocondri, così che il miocita viene a trovarsi in una condizione di relativa carenza di ossigeno e di energia. L’ipertrofia comporta, inoltre, un’accelerazione dei processi di morte cellulare (apoptosi) ed alterazioni qualitative, con aumento della sintesi di proteine di tipo fetale che contribuiscono alla genesi della disfunzione cardiaca. La fibrosi miocardica viene a compromettere ulteriormente l’apporto di ossigeno e substrati alle cellule miocardiche e la capacità delle arteriole coronariche a dilatarsi. Accelerata morte cellulare Può verificarsi con i meccanismi sia della necrosi che dell’apoptosi. La necrosi si realizza nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica sia sotto forma di infarto clinicamente evidente che di microinfarti. E’ infatti possibile rilevare un aumento della troponina plasmatica in pazienti con scompenso cardiaco ma senza sindrome coronarica acuta. Questa evenienza può verificarsi anche in pazienti senza coronaropatia, a causa del relativo deficit di apporto di ossigeno ai miociti favorito dall’ipertrofia, aumento dello stress miocardico e della pressione telediastolica ventricolare. Differentemente dalla necrosi, l’apoptosi è un processo attivo, energia dipendente, in cui l’attivazione di uno specifico programma genetico porta ad una cascata di eventi con esito in degradazione del DNA cellulare. Questo processo, normalmente presente solo in un piccolissimo numero di cellule miocardiche, è attivato in corso di scompenso cardiaco, contribuendo al deficit di contrattilità. Alterato rapporto fra le isoforme della miosina Esistono due principali isoforme della catena pesante della miosina (MHC, myosin heavy chain). Una rapida, ad elevata attività ATPasica, codificata dal gene alfa-MHC, prevalente nella vita adulta, ed una lenta, a bassa attività ATPasica, codificata dal gene beta-MHC, prevalente nella vita fetale. Nel cuore insufficiente si verifica la riespressione di geni normalmente attivi durante la vita fetale, con maggiore sintesi di beta-MHC. Queste alterazioni si correlano con la riduzione della contrattilità miocardica e sono antagonizzate, nella maggioranza dei pazienti, dalla terapia beta-bloccante. Ridotto contenuto miocardico di substrati ad alto contenuto energetico Lo scompenso cardiaco si associa a riduzione dell’apporto di ossigeno e substrati alla cellula miocardica ed a compromissione dei meccanismi di produzione dei substrati ad alto contenuto energetico. Questi comprendono alterazioni nell’utilizzazione dei substrati (glucosio ed acidi grassi), nella fosforilazione ossidativa e nel trasferimento ed utilizzazione dell’ATP. Vi è anche un’importante compromissione dell’immagazzinamento di energia sotto forma di creatin-fosfato (CP). Il rapporto CP/ATP è un indice della disponbilità di energia a livello miocardico e la sua riduzione in corso di scompenso, valutabile mediante risonanza magnetica nucleare e spettroscopia, predice un’elevata mortalità nei pazienti. Alterato metabolismo del calcio Indipendentemente dalle alterazioni presenti a livello dei meccanismi di produzione di energia e dell’apparato contrattile miocardico, la cellula miocardica mantiene una normale risposta contrattile alla somministrazione di calcio. E’quindi logico ritenere che le alterazioni del metabolismo del calcio siano tra i principali fattori responsabili dell’alterata funzione sistolica e/o diastolica del cuore insufficiente. Nei pazienti con scompenso cardiaco è ridotta l’attività dell’ATPasi calcio-dipendente del reticolo sarcoplasmatico (SERCA), responsabile della ricaptazione del calcio durante la diastole. A questo consegue una compromissione del rilasciamento miocardico ed un ridotto accumulo di calcio all’interno del reticolo sarcoplasmatico. Ciò determina la liberazione di una minore quantità di calcio nella sistole successiva, con conseguente riduzione della contrattilità. Un’altra alterazione riguarda l’iperfosforilazione del fosfolambano con conseguente maggiore perdita di calcio dal reticolo sarcoplasmatico al citoplasma durante la diastole. Fibrosi interstiziale A carico del tessuto connettivo del cuore insufficiente si verificano modificazioni a livello sia della componente cellulare (fibroblasti) che intercellulare. I fibroblasti vanno incontro ad iperplasia, con un aumento di sintesi di collagene sproporzionato rispetto alla componente miocitaria (fibrosi interstiziale). Si verificano anche modificazioni qualitative del collagene, consistenti in aumentata sintesi di collagene tipo I, più rigido, con maggiore suscettibilità alle fratture del collagene, scivolamento delle fibre miocardiche le une sulle altre, disorganizzazione della normale architettura del ventricolo sinistro, che assume una conformazione sferica. Questa comporta un aumento dello stress parietale e minore efficienza contrattile. La fibrosi interstiziale rappresenta, insieme alla compromissione dei processi di ricaptazione del calcio da parte della SERCA, il maggiore meccanismo responsabile delle alterazioni della funzione diastolica del cuore insufficiente. ATTIVAZIONE NEURO-ORMONALE Nello scompenso cardiaco entrano in gioco da protagonisti alcuni meccanismi (sistemi simpato-adrenergico e renina-angiotensina-aldosterone, in particolare) la cui azione consiste essenzialmente nel determinare vasocostrizione periferica, ritenzione idrosalina ed ipertrofia e/o iperplasia cellulare. Questi meccanismi favoriscono la progressione dello scompenso cardiaco e, anche alla luce dei risultati degli studi clinici con specifici antagonisti, sono da ritenerne i principali responsabili. Attivazione simpato-adrenergica I pazienti con scompenso cardiaco presentano, rispetto ai soggetti normali, un’aumentata eliminazione urinaria di catecolamine ed elevate concentrazioni plasmatiche di norepinefrina. L’incremento dell’attività simpatica non interessa in modo uniforme tutti gli organi, ma si verifica soprattutto a livello renale e cardiaco; qui le concentrazioni di norepinefrina sono aumentate di 5-20 volte rispetto al normale. L’attivazione simpatoadrenergica è un fenomeno precoce nell’evoluzione dello scompenso, ed è già presente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra asintomatica. Lo squilibrio neuroendocrino interessa globalmente tutto il sistema neurovegetativo, poiché all’aumento dell’attività simpatica è associata la riduzione di quella parasimpatica. L’importanza della stimolazione simpatoadrenergica nella progressione dello scompenso cardiaco è dimostrata dal valore prognostico indipendente dei livelli di norepinefrina plasmatica e dall’effetto estremamente favorevole sulla prognosi della terapia beta-bloccante. Numerosi sono i meccanismi con cui la stimolazione simpatoadrenergica può avere effetti dannosi sulla cellula miocardica. Essa porta ad una progressiva riduzione del numero dei beta1 recettori miocardici, per cui il rapporto tra beta1 e beta2 recettori miocardici si sposta dai valori normali di 80:20 a valori di 60:40. Ciò causa una ridotta risposta cardiaca alla stimolazione simpatica che può, ad esempio, contribuire al ridotto incremento della portata cardiaca ed alla ridotta tolleranza allo sforzo dei pazienti.. La norepinefrina ha anche effetti dannosi diretti sulle fibre miocardiche, stimolando apoptosi ed alterazioni dell’espressione genica nei cardiomiociti (aumento della betaMHC, riduzione dell’alfa-MHC e della SERCA). Essa può favorire l’ischemia e la necrosi miocardica attraverso l’aumento della frequenza e della contrattilità, condizioni entrambe in grado di incrementare il consumo di ossigeno. Altri effetti sfavorevoli della stimolazione simpatica sono: 1) la vasocostrizione periferica, sia diretta che indiretta, per stimolazione del sistema renina-angiotensina, con conseguente aumento del postcarico e riduzione della gittata sistolica; 2) l’induzione di aritmie ventricolari, potenzialmente fatali; e 3) l’attivazione del sistema renina-angiotensina. Sistema renina angiotensina aldosterone L’attività reninica plasmatica aumenta soprattutto nei pazienti con più grave compromissione emodinamica e funzionale. La sua importanza è dimostrata dagli effetti favorevoli degli ACE inibitori e degli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II sulla prognosi. I meccanismi con cui l’angiotensina II può influenzare negativamente l’evoluzione dello scompenso sono molteplici. In primo luogo, essa causa vasocostrizione periferica, aumento del postcarico e calo della gittata sistolica. In secondo luogo, stimola la secrezione di aldosterone causando ritenzione idro-salina e quindi aumento del precarico, edemi declivi e congestione venosa sistemica. Similmente alla norepinefrina, anche l’angiotensina II ha un effetto tossico diretto sul miocardio (apoptosi). L’aldosterone, la cui secrezione è stimolata dall’angiotensina II, oltre a causare ritenzione idro-salina ed ipokaliemia, provoca anche ipertrofia e fibrosi miocardica, aumento della stimolazione simpatica cardiaca e disfunzione endoteliale. Tutti questi effetti contribuiscono alla progressione dello scompenso e rendono conto degli effetti favorevoli dei farmaci antialdosteronici sulla prognosi. Vasopressina Da molti anni è stata segnalata, in corso di scompenso cardiaco, la presenza di elevate concentrazioni plasmatiche di vasopressina, la cui secrezione, però, sembra essere stimolata meno frequentemente che quella di renina, aldosterone o norepinefrina. La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori V1 determina vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica, mentre la stimolazione dei recettori V2 provoca ritenzione di acqua libera per permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale. Differentemente che nel caso dei precedenti sistemi, in questo caso la somministrazione di antagonisti della vasopressina non ha determinato variazioni nella sopravvivenza. Fattori natriuretici La famiglia dei fattori natriuretici comprende il peptide natriuretico A o atriale (ANP), il peptide natriuretico B o cerebrale (BNP), così chiamato perché isolato per la prima volta nelle cellule del sistema nervoso centrale di maiale, il peptide natriuretico C (CNP), prodotto e secreto prevalentemente dal sistema nervoso centrale e dai vasi periferici. La sintesi di ANP e di BNP risulta estremamente limitata nel soggetto adulto normale. In corso di scompenso cardiaco, viceversa, l’aumento dello stress parietale miocardico causa l’espressione di geni attivi nella vita fetale con conseguente produzione di ANP e BNP. Il BNP viene sintetizzato sotto forma di pro-ormone (proBNP), che viene quindi clivato a livello citoplasmatico con formazione di BNP attivo e di un frammento Nterminale (NT-proBNP). Entrambi vengono rapidamente immessi nel torrente circolatorio. L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti sia a livello atriale che ventricolare: la concentrazione di ANP è maggiore a livello atriale mentre quella di BNP è maggiore a livello ventricolare. Per questo motivo, oltre che per la più rapida risposta della secrezione del BNP in condizioni di sovraccarico, si impiega attualmente nella pratica clinica il dosaggio del BNP o del NT-ProBNP per la valutazione diagnostica e prognostica dei pazienti con socmpenso cardiaco. I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono l’attivazione simpatica e la secrezione di renina e di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La loro secrezione si verifica precocemente nello scompenso cardiaco. È quindi probabile che i fattori natriuretici abbiano un ruolo importante nel mantenere un normale equilibrio idro-salino. Nelle fasi inziali dello scompenso cardiaco, essi riuscirebbero a controbilanciare gli effetti dell’attivazione dei sistemi simpatoadrenergico e reninaangiotensina-aldosterone. Prostaglandine Le prostaglandine PgE2 e Pgi2 hanno un’azione vasodilatatrice e giocano, a livello dell’arteriola afferente renale, un ruolo importante, dimostrato indirettamente dall’osservazione che l’inibizione della loro sintesi con antiinfiammatori non steroidei determina un netto peggioramento della funzione renale, per vasocostrizione dell’arteriola afferente glomerulare, e talvolta anche del compenso emodinamico, nei pazienti con scompenso cardiaco. Ossido nitrico L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una riduzione della vasodilatazione NO-dipendente è stata dimostrata in numerose condizioni patologiche tra cui lo scompenso cardiaco. Endotelina Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice. La loro sorgente più importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a presentare una potente e prolungata attività vasocostrittrice, le endoteline stimolano il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia miocardica e la proliferazione delle cellule muscolari lisce. Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo delle concentrazioni di ET-1, rispetto ai soggetti normali. Tuttavia, la somministrazione di antagonisti dei recettori dell’endotelina non ha avuto effetti favorevoli né nei confronti del rimodellamento ventricolare sinistro, né sui sintomi e la prognosi dei pazienti con scompenso acuto. Stress ossidativo Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello miocardico che a livello vascolare sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La produzione di radicali liberi riduce la capacità di dilatazione vascolare periferica e stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e l’apoptosi. Citochine I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono aumentati nei pazienti con scompenso cardiaco, rispetto ai soggetti normali, e sono correlati con la severità della sintomatologia e con la prognosi. Gli effetti negativi dei mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e comprendono un’attività inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei cardiomiociti, la cachessia e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica. Tuttavia, nonostante questi presupposti fisiopatologici, l’impiego di antagonisti specifici delle citochine non ha modificato l’evoluzione dei pazienti con scompenso, e nessuna terapia antiinfiammatoria ha permesso di migliorare la prognosi dei pazienti. RITENZIONE IDRO-SALINA ED AUMENTO DEL PRECARICO La ritenzione idro-salina è dovuta, nello scompenso cardiaco, a due meccanismi fondamentali: le modificazioni dell’emodinamica renale e l’attivazione neuro-ormonale. Flusso ematico renale e filtrazione glomerulare Nello scompenso cardiaco, l’attivazione simpatica determina una redistribuzione della portata cardiaca con riduzione del flusso ematico renale. A questo fa riscontro una relativa conservazione della filtrazione glomerulare, con aumento della frazione di filtrazione. Infatti, l’angiotensina II determina una vasocostrizione maggiore nell’arteriola efferente che in quella afferente, per cui la pressione all’interno dei capillari glomerulari aumenta. La filtrazione glomerulare, perciò, diminuisce in misura minore rispetto al flusso plasmatico renale, e la frazione di filtrazione aumenta. Ritenzione idrico-salina La riduzione del flusso plasmatico renale e l’aumento della frazione di filtrazione determinano ipoperfusione dei capillari peritubulari, con conseguente calo della pressione idrostatica ed aumento della concentrazione di proteine e della pressione oncotica al loro interno. Queste modificazioni dell’equilibrio tra pressione idrostatica ed oncotica intratubulare e nei capillari peritubulari portano ad un maggior riassorbimento di sodio cui consegue, per osmosi, anche un maggior riassorbimento idrico. L’iperattività simpatica e del sistema renina-angiotensina causano ritenzione idrosalina anche con altri meccanismi. L’attivazione simpatica determina redistribuzione del flusso ematico intrarenale dai nefroni corticali e quelli iuxtamidollari, dotati di più lunghe anse di Henle e quindi in grado di maggior riassorbimento salino. L’angiotensina II stimola la secrezione di aldosterone, con maggior riassorbimento di sodio, in scambio con il potassio, a livello del tubulo distale e del collettore. Infine, la vasopressina rende permeabile all’acqua il tubulo collettore e favorisce il riassorbimento di acqua. Il riassorbimento di acqua può verificarsi in misura maggiore del riassorbimento di sodio con conseguente iposodiemia da diluizione. La ritenzione idro-salina viene tradizionalmente vista come una meccanismo finalistico, attraverso il quale l’organismo cerca di mantenere un adeguato volume ematico in condizioni in cui la portata cardiaca e la pressione di perfusione tessutale tendono a calare per effetto della ridotta contrattilità miocardica. Queste modificazioni sono, tuttavia, dannose per l’evoluzione dello scompenso cardiaco e rappresentano la principale causa di molti sintomi lamentati dal paziente (edemi, dispnea) oltre che delle ospedalizzazioni per peggioramento dello scompenso. Modificazione del precarico La ritenzione idro-salina è alla base della formazione di edema e comporta, a livello cardiaco, un aumento del precarico. L’aumento di precarico può inizialmente comportare una maggior gittata sistolica attraverso il meccanismo di Frank-Starling. Tuttavia, il cuore insufficiente esaurisce ben presto la propria riserva di precarico (vedi sopra). L’aumento del volume ventricolare continua, invece, a determinare un aumento dello stress parietale miocardico e quindi, per la legge di Laplace, anche del postcarico e del consumo miocardico di ossigeno. VASOCOSTRIZIONE PERIFERICA ED AUMENTO DEL POSTCARICO Nello scompenso cardiaco, l’aumento delle resistenze vascolari periferiche è dovuto all’attivazione dei meccanismi neuroumorali ad azione vasocostrittrice ed alle alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, etc). Questi fenomeni determinano vasocostrizione arteriolare e riduzione del diametro e della compliance delle grosse e medie arterie. Il ventricolo normale è in grado di mantenere una normale gittata sistolica anche in presenza di incremento del postcarico. All’opposto, il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal post-carico, così che anche minime variazioni dello stesso comportano un’importante riduzione della gittata sistolica. Questo motivo ha guidato l’introduzione della terapia vasodilatatrice nello scompenso cardiaco. RIDUZIONE DELLA TOLLERANZA ALLO SFORZO La ridotta tolleranza allo sforzo è uno dei sintomi fondamentali del paziente con scompenso cardiaco. Fattori emodinamici La riduzione della capacità funzionale è innanzitutto conseguenza della compromissione emodinamica del paziente con scompenso cardiaco. Nessun parametro emodinamico, valutato a riposo, tuttavia, è correlato con la capacità funzionale. La risposta allo sforzo, a differenza dell’emodinamica a riposo, è strettamente correlata con la capacità funzionale. Una correlazione significativa è stata osservata soprattutto con gli indici di funzione sistolica ventricolare sinistra (portata cardiaca, indice di lavoro del ventricolo sinistro). Flusso ematico muscolare scheletrico Nei pazienti con scompenso cardiaco è stata osservata una ridotta capacità dilatatrice dei vasi della muscolatura scheletrica. La riduzione della portata cardiaca e della vasodilatazione muscolare fanno sì che il muscolo si venga a trovare, sotto sforzo, in una condizione di relativa ipoperfusione responsabile, a sua volta, di più precoce comparsa di metabolismo anaerobio e di riduzione della tolleranza allo sforzo. A questa ridotta capacità di dilatazione dei vasi della muscolatura scheletrica contribuiscono sia l’attivazione neuroumorale che alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, citochine). Caratteristiche biochimiche e funzionali della muscolatura scheletrica Il 25-40% dei pazienti con scompenso cardiaco può presentare una riduzione della capacità funzionale, con precoce comparsa di metabolismo muscolare anaerobio nonostante un normale incremento del flusso ematico durante sforzo. In questi pazienti la muscolatura scheletrica sembra essere la principale responsabile della ridotta capacità funzionale. In corso di scompenso cardiaco, i muscoli scheletrici vanno incontro a modificazioni morfologiche (ipotrofia, fibrosi interstiziale, depositi lipidici, riduzione della densità dei capillari) e biochimiche (riduzione degli enzimi responsabili del metabolismo aerobio, con normale o aumentata attività degli enzimi della glicolisi anaerobia). Similmente alla riduzione della capacità dilatatrice dei vasi, anche le alterazioni della muscolatura scheletrica possono essere considerate come il risultato di un processo di decondizionamento muscolare. L’importanza di questo meccanismo è dimostrata dalla possibilità di ottenere un significativo miglioramento della capacità funzionale con l’allenamento fisico. Diffusione alveolo-capillare Anche la diffusione alveolo-capillare dell’ossido di carbonio, valutata a riposo, è correlata con la massima capacità lavorativa. Nello scompenso cardiaco, una riduzione della capacità di diffusione alveolo-capillare può determinare incremento dello spazio morto fisiologico e del rapporto tra spazio morto polmonare e capacità vitale (Vd/Vt). Risposta ventilatoria allo sforzo I pazienti con scompenso cardiaco presentano, durante sforzo, un respiro più rapido e più superficiale, con maggiore incremento della ventilazione (VE), a parità di carico lavorativo, rispetto ai soggetti normali. SCOMPENSO CARDIACO ACUTO DEFINIZIONE L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è Incapace di pompare sangue in quantità adeguata alle esigenze metaboliche dell’organismo, oppure può far questo soltanto mediante un aumento delle pressioni di riempimento. L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e sintomi secondari a disfunzione cardiaca sistolica o diastolica, può essere associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad anomalie del ritmo o ad un “mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una minaccia per la vita e necessita di un trattamento di emergenza. L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di malattia in pazienti senza disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca cronica. Perciò, l’insufficienza cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con un’insufficienza cardiaca “de novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad esempio un esteso infarto del miocardio o un improvviso aumento della pressione arteriosa in presenza di un ventricolo sinistro deficitario; 2) pazienti con peggioramento di un’insufficienza cardiaca cronica sistolica o diastolica; 3) pazienti che presentano un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio, e vanno rapidamente incontro a deterioramento, con disfunzione ventricolare prevalentemente sistolica, scarsa risposta alla terapia medica e necessità di trattamenti non farmacologici. EPIDEMIOLOGIA L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. La causa più comune di insufficienza cardiaca acuta è la malattia coronarica (~70%). I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una prognosi severa: la mortalità è particolarmente elevata (30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad insufficienza cardiaca grave. Dati simili sono stati riportati per l’edema polmonare acuto. Circa la metà dei pazienti ospedalizzati per insufficienza cardiaca acuta vengono nuovamente ricoverati almeno una volta (e il 15% almeno due volte) entro un anno. In questa popolazione, ogni evento acuto determina una riduzione progressiva della capacità funzionale, per cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad un’azione di cardioprotezione. Quadri Clinici I sintomi e i segni nel paziente con insufficienza cardiaca acuta sono riconducibili: 1) alla diminuzione della portata cardiaca a riposo, fino a livelli che comportano ipoperfusione tissutale e riduzione del flusso renale; 2) all’aumento delle pressioni di riempimento ventricolari destre e sinistre con conseguente congestione sistemica e polmonare. Tali sintomi e segni, sommandosi in vario modo, compongono i diversi quadri clinici, correlati anche alle differenti cause di base, agli eventi scatenanti, alla rapidità di insorgenza e alla gravità. LA DISPNEA Sintomo base dello scompenso acuto del ventricolo sinistro è la dispnea, che consiste in una sensazione di sforzo o fatica nel respirare e può essere associata a fame d’aria. È la conseguenza della congestione polmonare, dovuta alle aumentate pressioni intracavitarie nelle sezioni sinistre del cuore, che provoca aumento del contenuto idrico extravascolare polmonare, riducendo la distensibilità polmonare e aumentando il lavoro dei muscoli respiratori. Nell’insufficienza cardiaca acuta la dispnea assume spesso le caratteristiche di ortopnea e dispnea parossistica notturna. L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare l’insorgenza della dispnea o ridurne l’entità. La posizione supina, infatti, aumenta il ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la congestione polmonare. La dispnea parossistica notturna è caratterizzata da manifestazioni accessionali, durante le quali il paziente avverte una sensazione di mancanza di aria ed è costretto a sedersi sul letto con i piedi penzoloni o a portarsi alla finestra alla ricerca di aria. In alcuni casi compare tosse stizzosa e respiro sibilante dovuto a broncostenosi (asma cardiaco). L’EDEMA POLMONARE L’edema polmonare è il quadro più grave dello scompenso cardiaco acuto, e viene provocato dall’accumulo di liquido nello spazio extravascolare polmonare. Il passaggio di liquido dal capillare all’interstizio e viceversa è, in condizioni normali, governato da due fattori: la pressione idrostatica del sangue capillare, che tende a far fuoriuscire la parte liquida del sangue, e la pressione osmotica delle proteine plasmatiche, (pressione oncotica) che tende, invece, a trattenere il liquido dentro il vaso. Quest’ultima corrisponde a una pressione di circa 25 mm Hg. Quando la pressione all’interno dei capillari polmonari aumenta al di sopra dei 25 mmHg, si realizza dapprima la trasudazione e l’accumulo di liquido nell’interstizio (edema interstiziale); il sistema linfatico si adopera quindi ad allontanare il trasudato, ma quando la sua capacità di drenaggio viene superata il liquido invade gli alveoli (edema alveolare), compromettendo la funzione polmonare, sia da un punto di vista meccanico che degli scambi gassosi. La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un ulteriore peggioramento della funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando la pressione capillare polmonare. La riduzione della portata cardiaca, inoltre, attiva il sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea, muscolare e splancnica, tende a mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro canto induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della diuresi. L’aumento delle resistenze vascolari periferiche determina un incremento del carico di lavoro in un cuore già insufficiente, e peggiora la performance cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si innesca quindi un circolo vizioso, sino a quando la portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una normale perfusione cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22). Il paziente affetto da edema polmonare acuto non sta disteso ma seduto sul letto, fortemente agitato, madido di sudore, dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e gorgogliante; la sua cute è fredda e sudata, e può essere presente cianosi alle labbra e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari rantoli crepitanti, che con l’aumentare della quantità di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto l’ambito polmonare, come una “marea montante”, accompagnati da escreato schiumoso ed eventualmente rosato. Se non si interviene con un trattamento tempestivo, l’edema polmonare tende a peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e l’arresto di circolo, con esito fatale. L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, dei reni. La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della vasocostrizione arteriolare. Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori tensivi sistemici si riducono, sino a raggiungere valori minimi nello shock cardiogeno. La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si può valutare osservando il grado di turgore delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a 45°). La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi cutanei come meccanismo compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più gravi può comparire cianosi. I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 ore) unitamente all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gittata cardiaca è gravemente ridotta, si può arrivare fino all’anuria (< 100 ml nelle 24 ore). L’edema periferico può essere presente soprattutto nei casi di peggioramento di una condizione cronica; esso è dovuto all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche e soprattutto alla ritenzione idrosalina. L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base dello scompenso. La frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso presente un ritmo di galoppo, dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi Capitolo 2). Altro segno ascoltatorio cardiaco nello scompenso può essere un soffio olosistolico puntale da insufficienza mitralica acuta. All’esame del torace, quando l’aumento della pressione nelle vene e nei capillari polmonari provoca trasudazione di liquido nel tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare rumori umidi (rantoli crepitanti) . Il reperto obiettivo toracico coinvolge dapprima i campi polmonari basali, diffondendosi progressivamente ai campi superiori in seguito all’aggravarsi della condizione clinica ed in assenza di adeguato trattamento. Sfruttando i segni e i sintomi dei quadri clinici dell’insufficienza cardiaca acuta è stata formulata la classificazione di Killip, che suddivide i pazienti in quattro classi in base alla presenza di segni di congestione polmonare e periferica, segni di bassa portata, e segni di aumentato volume telediastolico ventricolare. La classe I è caratterizzata dall’assenza di segni clinici di insufficienza cardiaca. I criteri diagnostici per la II classe includono il riscontro di rantoli nella metà inferiore dei campi polmonari, terzo tono e ipertensione venosa polmonare. La classe III include pazienti con insufficienza cardiaca severa (rantoli estesi a tutti i campi polmonari o edema polmonare franco). La classe IV include i pazienti in shock cardiogeno, con pressione arteriosa sistolica = 90 mmHg, vasocostrizione periferica, oliguria e cianosi. Un’altra classificazione, basata sulla temperatura corporea (cute calda o fredda) e sul reperto ascoltatorio toracico (il paziente viene definito “umido” o “secco” a seconda che presenti rantoli o no), distingue quattro gruppi di crescente gravità clinica: il gruppo A comprende pazienti “caldi e secchi”, il gruppo B pazienti “caldi e umidi”, il gruppo L pazienti “freddi e secchi” e il gruppo C pazienti “freddi e umidi” (Figura 3). Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la fase terminale di un’insufficienza cardiaca in rapido peggioramento: si manifesta quando la portata cardiaca scende al di sotto dei valori minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi Capitolo 22). DIAGNOSTICA STRUMENTALE Tra le indagini di laboratorio, durante un episodio di insufficienza cardiaca acuta, bisognerà sempre eseguire, oltre agli esami di routine, la ricerca degli indici di necrosi miocardica. Può essere, inoltre, dosato il peptide natriuretico di tipo B (Brain Natriuretic Peptide-BNP, che viene rilasciato dai ventricoli in risposta allo stiramento delle pareti e al sovraccarico di fluidi, ed è stato utilizzato per escludere o identificare la presenza di scompenso cardiaco congestizio. Di notevole importanza è l’emogasanalisi, che rivela dati sugli scambi gassosi e sullo stato metabolico del paziente. La radiografia del torace fornisce informazioni sia sulle dimensioni e la morfologia cardiaca, ma soprattutto sulla distribuzione del flusso polmonare. L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso mostra aritmie o alterazioni dipendenti dalla cardiopatia di base. L’esame principe nell’inquadramento del paziente con insufficienza cardiaca acuta è l’ecocardiogramma, che valuta le dimensioni e i volumi delle cavità cardiache, gli spessori parietali, la cinesi globale e segmentale, la frazione di eiezione e la contrattilità. Si può analizzare la morfologia e la funzione degli apparati valvolari e di altre strutture quali il pericardio, il tratto prossimale dell’aorta e la vena cava inferiore. Inoltre si può esaminare la funzione diastolica, impiegando la registrazione con il Doppler pulsato del flusso trans mitralico. PRINCIPI DI TERAPIA Gli obiettivi del trattamento a breve termine dei pazienti con insufficienza cardiaca acuta sono migliorare i sintomi e l’emodinamica, preservando la funzione renale e proteggendo il tessuto miocardico. La terapia dell’ insufficienza cardiaca acuta si prefigge, quindi, diverse finalità: ridurre la congestione, ridurre il postcarico, migliorare l’assetto neurormonale, migliorare la funzione cardiaca (Figura 5). I diuretici sono farmaci che aumentano l’eliminazione di sodio e acqua e perciò riducono la massa liquida circolante e il volume di liquido interstiziale. I diuretici più usati sono quelli dell’ansa ad azione rapida, (furosemide e torasemide), spesso in associazione con i risparmiatori di potassio. Tra i farmaci che riducono il precarico vi sono i vasodilatatori venosi, che ridistribuendo il volume ematico aumentano la capacità del distretto venoso, e sequestrano in questa sede parte della massa circolante, riducendo il riempimento cardiaco. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina e il nitroprussiato, che ha un effetto anche sul versante arterioso. Gli ACE-inibitori sono farmaci che oltre a ridurre il precarico, favorendo anche una minor ritenzione di acqua e sali, migliorano l’assetto neuro-ormonale. Sono poco usati nello scompenso acuto. Al contrario, i farmaci che stimolano l’inotropismo, soprattutto dopamina, dobutamina e glicosidi digitatici, possono essere di grande aiuto nella fase acuta. Le due amine simpaticomimetiche, dopamina e dobutamina, agiscono soprattutto sui recettori beta-adrenergici, migliorando la contrattilità miocardica. La dopamina, precursore naturale della noradrenalina, è utile nel trattamento degli stati ipotensivi; a dosaggi molto bassi induce vasodilatazione dei vasi renali e mesenterici, per stimolazione dei recettori dopaminergici, aumentando così la diuresi e l’escrezione di sodio. A dosaggi più elevati la dopamina stimola i recettori ß1 miocardici, provocando una modesta tachicardia riflessa, mentre a dosaggi elevati stimola anche i recettori aadrenergici, innalzando i valori tensivi sistemici. La dobutamina agendo sui recettori ß1, ß2 e a, possiede un potente effetto inotropo, abbassa le resistenze periferiche e determina un aumento di gittata cardiaca. I glicosidi digitalici agiscono bloccando la pompa sodio/potassio ATP-dipendente delle fibre miocardiche, con l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò, riducono la frequenza cardiaca e rallentano la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del tono vagale), per cui sono utili in presenza di tachiaritmie sopraventricolari, soprattutto in corso di fibrillazione atriale. Recenti prospettive farmacologiche sono rappresentate dai nuovi inotropi come il levosimendan, che agisce tramite un duplice meccanismo di azione: aumenta la sensibilità delle miofibrille al calcio, tramite il legame con la troponina C, determinando quindi un effetto inotropo positivo senza aumentare il consumo miocardio di ossigeno, e attiva i canali vascolari del potassio ATP-dipendenti, provocando una vasodilatazione periferica. SCOMPENSO CARDIACO CRONICO QUADRI CLINICI Sono state proposte numerose classificazioni dello scompenso cardiaco. Pur peccando di un’eccessiva semplificazione e, spesso, di scarsa aderenza alla realtà, queste mantengono un loro valore soprattutto didattico. La distinzione più importante è quella tra scompenso cardiaco acuto e cronico. (vedi capitolo 20). Nell’ambito dello scompenso cardiaco cronico, mantengono un loro valore le distinzioni tra scompenso anterogrado e retrogrado, sinistro e destro, sistolico e diastolico. Secondo la teoria anterograda dello scompenso, l’origine dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’inadeguata portata cardiaca con insufficiente perfusione dei tessuti periferici. Viceversa, secondo la teoria retrograda, la causa dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’incompleto svuotamento dei ventricoli. Questo causa un aumento della pressione intraventricolare che si ripercuote a monte sulle pressioni atriale, dei vasi venosi tributari ed, infine, intracapillari. L’aumento della pressione intracapillare causa trasudazione di liquido ed edema interstiziale e, nel caso del circolo polmonare, edema alveolare. La distinzione tra scompenso cardiaco sinistro e destro è un’estensione della precedente teoria retrograda. Nello scompenso sinistro predominano i sintomi da accumulo di fluidi a monte del ventricolo sinistro con congestione ed edema polmonare. Nello scompenso destro si ha, invece, congestione venosa sistemica ed epatica. La distinzione tra scompenso cardiaco sistolico e diastolico è essenzialmente basata sul riscontro o meno di bassi valori di frazione d’eiezione (<50%) in pazienti con sintomi di scompenso cardiaco. Tuttavia, anche nei pazienti con frazione d’eiezione normale sono presenti alterazioni di altri indici di funzione sistolica ventricolare sinistra e, viceversa, alterazioni della funzione diastolica sono costantemente presenti anche nei pazienti con bassa frazione d’eiezione. Per queste ragioni, si preferisce usare il termine di scompenso cardiaco con normale frazione d’eiezione piuttosto che quello di scompenso diastolico. I pazienti con normale frazione d’eiezione possono corrispondere a più del 50% dei pazienti ricoverati per scompenso cardiaco e la loro prognosi è sovrapponibile, o solo leggermente migliore, rispetto a quella dei pazienti con bassa frazione d’eiezione. I pazienti con normale frazione d’eiezione sono più spesso anziani, di sesso femminile ed affetti da ipertensione arteriosa. SINTOMI Dispnea. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di scompenso cardiaco. Nelle fase iniziali della malattia compare prevalentemente durante sforzi fisici, successivamente si presenta anche a riposo con le caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema polmonare acuto (vedi Capitolo 1). La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare. Viene comunemente avvertita da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico intenso. Nel paziente con scompenso cardiaco vi è una riduzione del grado di attività associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità dello scompenso cardiaco, tanto minore è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la classificazione della New York Heart Associaton. La dispnea del paziente con scompenso cardiaco viene tradizionalmente attribuita all’aumento delle pressioni capillari polmonari con edema interstiziale ed alveolare. In realtà la correlazione con la compromissione della funzione ventricolare sinistra, soprattutto a riposo, è scarsa o nulla. Meccanismi che contribuiscono a causare dispnea nei pazienti con scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo con ipoperfusione dei muscoli scheletrici, che eseguono lo sforzo, ed ipoperfusione dei muscoli respiratori, decondizionamento della muscolatura scheletrica, ridotta compliance polmonare, aumento della resistenza delle vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo sforzo. Ortopnea. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina con sua regressione sollevando la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente, entro pochi minuti dall’assunzione della posizione supina. E’ dovuta alla ridistribuzione del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del precarico e congestione polmonare. Dispnea parossistica notturna. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante il sonno, causando il risveglio del paziente con una sensazione di soffocamento e fame d’aria. Questi sintomi spesso si riducono con la posizione seduta, spesso sul bordo del letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori da broncospasmo per edema della mucosa bronchiale e compressione dei bronchioli per edema interstiziale. Astenia e affaticabilità. Astenia e facile affaticabilità sono secondari all’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo. La ridotta risposta vasodilatatrice periferica, le alterazioni biochimiche ed istologiche e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica sono altri meccanismi patogenetici. L’importanza relativa dei meccanismi muscolari scheletrici, “periferici”, rispetto al meccanismo “centrale”, la riduzione della portata cardiaca, varia da paziente a paziente. Così come anche la dispnea, astenia ed affaticabilità sono sintomi non specifici, che possono essere causati da numerose malattie non cardiovascolari. Nicturia ed oliguria. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore notturne), è dovuta all’aumento di perfusione renale durante la notte, col decubito supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi avanzate dello scompenso cardiaco, secondario ad ipoperfusione renale. Sintomi gastroenterici. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente soprattutto quando vi è disfunzione ventricolare destra, determina epatomegalia con conseguente distensione della capsula epatica e dolenzia all’ipocondrio destro, talvolta descritta come tensione addominale e senso di pienezza dopo i pasti. Questi pazienti possono avere anche anoressia, difficoltà digestive e nausea. Sintomi cerebrali. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata cardiaca può causare vertigini, cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali. Questi sono più frequenti nei pazienti anziani con coesistente aterosclerosi cerebrale. SEGNI CLINICI La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina. Alcuni di essi (stasi giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore prognostico. Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico;. nelle fasi più avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere dispnoico a riposo e presentare ortopnea e segni di attivazione adrenergica come cute pallida, fredda, sudata e cianotica. Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico) all’auscultazione è indicativo di un aumento della pressione atriale sinistra con brusca decelerazione del sangue all’interno del ventricolo sinistro immediatamente dopo la fase di riempimento rapido (vedi Capitolo 2). E’ molto raramente udibile in soggetti normali adulti. Un soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è spesso udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche evidenziare un’accentuazione della componente polmonare del 2° tono. Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici, espressione della pressione differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con scompenso cardiaco severo e bassa portata cardiaca. Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle, crepitanti. Questi si evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure, inizialmente, soltanto alla base destra. Nei casi di maggiore gravità tendono ad estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare. Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno gravi, solo alla base destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene polmonari che in quelle sistemiche, la sua comparsa è frequente soprattutto nei casi d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi. Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non strumentale per valutare la presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va eseguita dal lato destro del collo in quanto qui vena giugulare interna ed anonima si continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore, favorendo la trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso giugulare, la testa del paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco inclinato di 45° (vedi Capitolo 2). Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per almeno un minuto in ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso tempo, incapacità del ventricolo destro a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno venoso. Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione e percussione dell’ipocondrio destro. Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un aumento della pressione nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con possibile associato aumento della permeabilità dei capillari peritoneali. Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si deve verificare l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli edemi dello scompenso cardiaco sono simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi venosi (piedi, caviglie, zona pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente è rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti costretti a letto compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a generalizzarsi (anasarca). Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una prognosi severa. La genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed intestinale con malassorbimento intestinale per grassi e proteine; aumentato metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio, aumento del consumo miocardico di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine. SEGNI CLINICI La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina. Alcuni di essi (stasi giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore prognostico. Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico;. nelle fasi più avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere dispnoico a riposo e presentare ortopnea e segni di attivazione adrenergica come cute pallida, fredda, sudata e cianotica. Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico) all’auscultazione è indicativo di un aumento della pressione atriale sinistra con brusca decelerazione del sangue all’interno del ventricolo sinistro immediatamente dopo la fase di riempimento rapido . E’ molto raramente udibile in soggetti normali adulti. Un soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è spesso udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche evidenziare un’accentuazione della componente polmonare del 2° tono. Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici, espressione della pressione differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con scompenso cardiaco severo e bassa portata cardiaca. Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle, crepitanti. Questi si evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure, inizialmente, soltanto alla base destra. Nei casi di maggiore gravità tendono ad estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare. Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno gravi, solo alla base destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene polmonari che in quelle sistemiche, la sua comparsa è frequente soprattutto nei casi d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi. Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non strumentale per valutare la presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va eseguita dal lato destro del collo in quanto qui vena giugulare interna ed anonima si continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore, favorendo la trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso giugulare, la testa del paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco inclinato di 45° . Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per almeno un minuto in ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso tempo, incapacità del ventricolo destro a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno venoso. Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione e percussione dell’ipocondrio destro. Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un aumento della pressione nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con possibile associato aumento della permeabilità dei capillari peritoneali. Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si deve verificare l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli edemi dello scompenso cardiaco sono simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi venosi (piedi, caviglie, zona pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente è rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti costretti a letto compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a generalizzarsi (anasarca). Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una prognosi severa. La genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed intestinale con malassorbimento intestinale per grassi e proteine; aumentato metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio, aumento del consumo miocardico di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine. ESAMI STRUMENTALI Elettrocardiogramma. Un ECG normale non è frequente in un paziente con scompenso cardiaco cronico, ma non esiste alcun quadro elettrocardiografico che indichi, di per sé, la presenza di scompenso; tuttavia un QRS con durata >120 ms, specialmente associato a un blocco di branca sinistra, suggerisce la probabilità di una disfunzione ventricolare . Radiografia del torace. La radiografia del torace è utile nell’evidenziare cardiomegalia, congestione polmonare ed eventuali patologie polmonari associate. Esami di laboratorio. La valutazione di routine include: emocromo, elettroliti sierici, creatininemia, glicemia, enzimi epatici ed esame delle urine. La funzione tiroidea può essere valutata se indicata in base ai reperti clinici. Gli esami ematochimici hanno un importante significato prognostico. L’anemia è presente in un 20-30% dei pazienti,. ed è più frequente nei pazienti con scompenso cardiaco più grave . La sua patogenesi è multifattoriale: insufficienza renale, terapia con ACE inibitori, attivazione infiammatoria cronica, etc. L’iposodiemia è dovuta a dliluizione con ritenzione idrica maggiore di quella salina. E’ almeno parzialmente dovuta ad aumentata secrezione di vasopressina. L’ipokaliemia può verificarsi come conseguenza della terapia con diuretici dell’ansa o tiazidici, oltre che per aumentata secrezione di aldosterone. Va corretta in quanto possibile causa di aritmie, anche fatali. L’iperkaliemia può svilupparsi per insufficienza renale e/o terapia con antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone. L’insufficienza renale con aumento della creatininemia ed azotemia è secondaria ad ipoperfusione renale. Può essere favorita dalla terapia medica (diuretici, antiinfiammatori non steroidei, aspirina, antagonisti del sistema renina-angiotensinaaldosterone). Le concentrazioni plasmatiche di BNP e di NT-proBNP sono utili nella diagnosi di scompenso cardiaco. Concentrazioni normali di peptici natriuretici in un paziente non trattato rendono la diagnosi di scompenso poco probabile. Oltre allo scompenso cardiaco, altre condizioni cliniche, come l’ipertrofia ventricolare sinistra, l’ischemia miocardica, l’ipertensione e l’embolia polmonare possono causare un rialzo dei livelli plasmatici di peptici natriuretici. Ecocardiografia Doppler. E’ la procedura diagnostica di prima scelta per documentare una disfunzione cardiaca. Il parametro più importante di funzione ventricolare è la frazione d’eiezione ventricolare sinistra, misurata dal rapporto fra la gittata sistolica e il volume telediastolico. In pratica, si sottrae dal volume telediastolico il volume telesistolico, ottenendo la gittata sistolica, e si divide questa per il volume telediastolico. La frazione di eiezione viene utilizzata per discriminare i pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica da quelli con conservata funzione sistolica. L’aumento dei volumi telesistolico e telediastolico ventricolare sinistro è un’altra caratteristica dei pazienti con scompenso cardiaco dovuto a disfunzione ventricolare sistolica. La misurazione combinata del flusso trans-mitralico e della velocità di spostamento dell’anulus mitralico mediante Eco-Doppler tessutale cardiaco permette una valutazione della severità della disfunzione diastolica ventricolare sinistra. Più spesso, la funzione diastolica è valutata mediante lo studio del solo flusso trans mitralico. I tre quadri di riempimento mitralico, alterato rilasciamento, pseudo-normale e restrittivo, corrispondono rispettivamente, ad una disfunzione diastolica di grado lieve, moderato e grave . Oltre allo studio della funzione ventricolare, l’eco-Doppler permette anche di evidenziare un’eventuale insufficienza mitralica e/o tricuspidale, frequentemente presenti in questi pazienti, o anche altre alterazioni (es. una stenosi aortica) che possono avere causato lo scompenso cardiaco. Risonanza magnetica (RM) cardiaca. E’ una tecnica estremamente accurata e riproducibile per la valutazione dei volumi ventricolari destro e sinistro, della funzione ventricolare sinistra globale e regionale, dello spessore miocardico, della rigidità di parete, della massa miocardica e delle valvole cardiache (vedi Capitolo 7).. E’ limitata dalla sua attuale non applicabilità ai portatori di pacemaker o di defibrillatore automatico. Prove di funzionalità respiratoria. La spirometria è utile nell’escludere cause polmonari della dispnea e nel valutare la gravità di una patologia polmonare concomitante. Coronarografia. E’ indicata nei pazienti con concomitante angina, o, comunque, segni d’ischemia miocardica. Test da sforzo cardiopolmonare. E’ utile per quantificare la severità della malattia e nella valutazione prognostica. PRINCIPI DI TERAPIA Obiettivi. La terapia si propone di migliorare i sintomi e la qualità di vita e/o di migliorare la prognosi (riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni). Un altro fondamentale obiettivo è la prevenzione della disfunzione cardiaca nei pazienti a rischio (esiti d’infarto, ipertensione arteriosa, valvulopatie, diabete, etc) e la prevenzione dello scompenso cardiaco conclamato (comparsa dei sintomi) nei pazienti con disfunzione cardiaca. Il trattamento dello scompenso cardiaco cronico si basa su farmaci da somministrarsi per migliorare la prognosi e farmaci volti al miglioramento dei sintomi. Alla prima categoria appartengono gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone ed i beta-bloccanti, alla seconda i diuretici e la digitale. ACE inibitori. Gli ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica, con o senza sintomi. L’indicazione a questi farmaci è basata su ampi studi controllati con placebo che hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza, sintomi, capacità funzionale ed una riduzione delle ospedalizzazioni nei pazienti trattati con questi farmaci. I loro effetti favorevoli sembrano essere principalmente ascrivibili al rallentamento, se non inibizione, dei fenomeni di rimodellamento ventricolare sinistro ed, in minore misura, alla prevenzione di nuovi eventi ischemici e delle aritmie. Beta-bloccanti. In assenza di controindicazioni, i beta-bloccanti devono essere somministrati a tutti i pazienti con scompenso cardiaco cronico, in condizioni di stabilità clinica. La loro efficacia è stata dimostrata in pazienti con scompenso cardiaco di grado lieve, moderato e severo (classe NYHA dalla II alla IV), dovuta a cardiopatia ischemica o non-ischemica e con ridotta frazione d’eiezione ventricolare sinistra, già in trattamento con diuretici e ACE inibitori, nonché in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale, con o senza sintomi di scompenso. In questi pazienti, gli studi clinici controllati hanno dimostrato una riduzione della mortalità, ospedalizzazioni ed episodi di peggioramento dello scompenso cardiaco ed un miglioramento della classe funzionale con la terapia beta-bloccante, rispetto al placebo. Antialdosteronici. Gli antagonisti dell’aldosterone sono raccomandati, in aggiunta all’ACE-inibitore, al beta-bloccante e al diuretico, nello scompenso cardiaco avanzato (NYHA III-IV) per migliorare la sopravvivenza, morbilità e classe funzionale. Bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II. I bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II hanno effetti simili o equivalenti agli ACE inibitori sulla mortalità e sulla morbilità dei pazienti con scompenso cardiaco cronico e dei pazienti con recente infarto. Possono essere quindi usati in alternativa agli ACE inibitori nei casi di intolleranza a questi (tosse, edema angioneurotico). Hanno avuto anche effetti favorevoli sulle ospedalizzazioni e sulla mortalità in associazione agli ACE inibitori in pazienti ancora sintomatici per scompenso. Diuretici. I diuretici sono essenziali per il trattamento sintomatico dello scompenso cardiaco in presenza di ritenzione idrica con congestione polmonare e/o congestione venosa giugulare e/o edemi declivi. Eccetto che nelle forme di scompenso cardiaco lieve, in cui si possono impiegare anche i tiazidici, vanno preferiti i diuretici dell’ansa (furosemide, torasemide, bumetanide). Vanno somministrati alle dosi minime necessarie per mantenere il paziente libero da segni di ritenzione idrico-salina. La loro somministrazione favorisce l’attivazione dei sistemi renina-angiotensina-aldosterone e simpatoadrenergico, il peggioramento della funzione renale ed alterazioni elettrolitiche (ipokaliemia), tutti effetti potenzialmente dannosi per il paziente con scompenso cardiaco. I diuretici risparmiatori di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone) possono essere associati agli altri diuretici per il trattamento dell’ipokaliemia. Lo spironolattone ha altri effetti favorevoli indipendenti da quello diuretico (vedi sopra). Glucosidi digitalici. Sono indicati nei pazienti con fibrillazione atriale e scompenso cardiaco sintomatico. Nei pazienti in ritmo sinusale la digossina non ha effetti sulla mortalità ma riduce le ospedalizzazioni, in particolare quelle per scompenso cardiaco. Altri farmaci. Altri farmaci frequentemente impiegati nei pazienti con scompenso cardiaco sono i nitrati, per il trattamento dell’ischemia miocardica e migliorare i sintomi, gli anticoagulanti, specialmente nei pazienti con concomitante fibrillazione atriale o precedenti episodi embolici, gli antiaggreganti piastrinici, nei casi con cardiopatia ischemica, l’amiodarone, per il trattamento o profilassi delle tachiaritmie. L’impianto del defibrillatore automatico e la terapia di resincronizzazione ventricolare con pacemaker biventricolare sono indicati in pazienti selezionati. LO SHOCK CARDIOGENO DEFINIZIONE Lo shock cardiogeno è una condizione di ipotensione arteriosa e inadeguata perfusione tissutale con ipossia causata da disfunzione cardiaca, più frequentemente di natura is chemica, in presenza di un adeguato volume intravascolare. Questa situazione di ipossia tissutale va distinta in una forma transitoria, cui consegue il rapido ripristino di normali valori di pressione sistemica, chiamata collasso cardiocircolatorio, e una forma che si protrae a lungo, con danni ipossici più marcati, che rappresenta lo shock cardiogeno vero e proprio. I criteri diagnostici per lo shock cardiogeno comprendono: pressione sistolica inferiore a 80 mm Hg per almeno 30 minuti, non incrementata dalla somministrazione di liquidi endovena; segni di ipoperfusione (estremità fredde), alterato stato di coscienza, agitazione psico-motoria; diuresi oraria inferiore a 20 ml; indice cardiaco inferiore a 1,8 l/min/m2; pressioni di riempimento ventricolare sinistro elevate (pressione capillare polmonare > 18 mm Hg). EPIDEMIOLOGIA Lo shock cardiogeno rappresenta la causa più comune di morte per causa cardiovascolare dopo l’infarto miocardico. L’incidenza di shock cardiogeno negli anni precedenti la diffusione delle metodiche di rivascolarizzazione (farmacologica e meccanica) era pari al 20% di tutti gli infarti miocardici acuti con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Dalle più recenti casistiche si stima che lo shock si verifichi oggi nel 7% dei pazienti con STEMI e nel 3% dei pazienti con infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI). Quando lo shock cardiogeno non è secondario ad un fattore modificabile (per esempio aritmie, bradicardia, alterazioni meccaniche) la mortalità a breve termine è dell’80%. EZIOLOGIA Lo shock cardiogeno può essere dovuto alle seguenti condizioni: deficit di eiezione ventricolare: un deficit acuto della funzione ventricolare sistolica può derivare dalla compromissione grave di una grande parte della massa miocardica. Tra le cause principali di questa situazione va menzionato innanzitutto l’infarto esteso del miocardio; tuttavia, anche infarti miocardici di piccole dimensioni, soprattutto quando si verificano in pazienti con preesistente compromissione del ventricolo sinistro, possono evolvere in shock cardiogeno. Un deficit di eiezione può essere, peraltro, sostenuto anche da aritmie ventricolari o da insufficienze valvolari ad insorgenza acuta; difetti di riempimento ventricolare: possono essere dovuti a: cause estrinseche, quali tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva; cause intrinseche, quali trombi o mixomi atriali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata. FISIOPATOLOGIA La brusca riduzione della pressione sistolica al di sotto di 80 mm Hg induce la stimolazione dei barocettori (i principali sono quelli del seno carotideo e del seno aortico), determinando: vasocostrizione delle arteriole e delle meta-arteriole attraverso una stimolazione del sistema nervoso simpatico; aumento della frequenza cardiaca attraverso l’inibizione del sistema nervoso parasimpatico. La caduta della pressione sistemica induce: aumento della stimolazione dei chemocettori (i principali sono situati nell’arco aortico e alla biforcazione delle carotidi), determinando: iperventilazione, per migliorare l’ossigenazione del sangue; tachicardia riflessa (il riflesso tachicardizzante è di origine polmonare, prodotto dall’iperventilazione); aumento dei livelli di catecolamine circolanti, responsabili della vasocostrizione arteriosa e venosa; attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, quale risposta renale all’ipoperfusione sistemica, con conseguente ritenzione di sodio e di liquidi. Tali risposte hanno come effetto l’aumento della pressione telediastolica e dei volumi del ventricolo sinistro. Sebbene ciò compensi parzialmente la riduzione della funzione ventricolare sinistra, un’elevata pressione telediastolica del ventricolo sinistro determina edema polmonare, con alterazione degli scambi gassosi polmonari. La conseguente acidosi respiratoria aumenta ulteriormente l’ischemia miocardica, la disfunzione ventricolare sinistra e la trombosi intravascolare. Se la causa che ha provocato il collasso cardiocircolatorio è reversibile e agisce per breve tempo, la crisi può risolversi con il ripristino di normali valori di pressione sistemica. Quando, invece, questa reazione compensatoria è insufficiente a far fronte all’ipotensione, si innesca una spirale discendente che conduce, attraverso il perpetuarsi di una condizione di ischemia miocardica, ad un progressivo peggioramento della funzione cardiaca, fino alla morte. In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, le porzioni di miocardio non ischemiche diventano ipercontrattili ed aumentano il loro consumo di ossigeno. Le conseguenze di questa risposta dipendono dall’estensione del danno e dal precedente stato del miocardio, dalla gravità della patologia coronarica sottostante, dalla presenza di altre patologie valvolari. Si possono verificare tre condizioni: compenso: ripristino della normale pressione arteriosa e normale pressione di perfusione miocardica compenso parziale: stato di pre-shock con portata cardiaca e pressione arteriosa moderatamente ridotte e conseguente aumento della frequenza cardiaca ed elevata pressione telediastolica ventricolare sinistra shock: si sviluppa rapidamente e determina una marcata ipotensione e peggioramento dell’ischemia miocardica globale. Senza un’immediata riperfusione, i pazienti in questa condizione presentano una limitata possibilità di sopravvivenza. SINTOMI E SEGNI CLINICI A fronte di un elevato numero di segni clinici, lo shock cardiogeno può teoricamente manifestarsi in assenza di sintomi avvertiti dal paziente; quando questi sono presenti, si tratta per lo più dei sintomi di un infarto miocardico acuto (dolore toracico, dispnea, cardiopalmo, nausea, vomito, astenia). Il paziente in shock cardiogeno presenta solitamente alterazioni dello stato di coscienza, come risultato della ridotta perfusione cerebrale; altri segni di ipoperfusione d’organo conseguenti alla ridotta gittata cardiaca sono la contrazione della diuresi, l’insufficienza epatica, la cianosi, la marezzatura delle estremità. Queste alterazioni cliniche di shock conclamato non si manifestano abitualmente sino a che l’indice cardiaco (cioè la gittata cardiaca rapportata alla superficie corporea) non scende sotto il valore di 2,2 l/min/m2. L’esame obiettivo mostra cute pallida ipotermica e sudata, distensione giugulare, aumentata frequenza cardiaca. Il polso arterioso è iposfigmico, irregolare in presenza di aritmie; un polso paradosso compare se la causa dello shock è il tamponamento cardiaco. L’ascoltazione del torace rivela rantoli se è presente edema polmonare alveolare. L’obiettività cardiaca presenta spesso un ritmo di galoppo (terzo e/o quarto tono); se lo shock cardiogeno deriva dalle complicanze meccaniche di un infarto miocardico, possono essere udibili anche i soffi da insufficienza mitralica (vedi Capitolo 15) o da difetto del setto interventricolare. DIAGNOSTICA STRUMENTALE Per la diagnosi di shock cardiogeno è necessario confermare la presenza di disfunzione cardiaca o di eventuali ostacoli meccanici al riempimento ventricolare (per esempio tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva, trombi o mixomi striali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata). E’ altresì importante escludere altre potenziali cause di grave ipotensione come l’ipovolemia, l’emorragia e la sepsi. L’iter diagnostico, partendo dall’anamnesi e dall’esame obiettivo del paziente, procede considerando i seguenti esami diagnostici: Elettrocardiogramma: Può mostrare segni di infarto miocardico acuto o di precedenti cardiopatie, o mettere in luce aritmie. Un ECG normale, tuttavia, non esclude la diagnosi di shock cardiogeno. Radiografia del torace E’ utile nel valutare le dimensioni cardiache, la presenza di congestione polmonare o di altre eventuali patologie polmonari. Fornisce inoltre una stima approssimativa delle dimensioni del mediastino e della radice aortica, utili per escludere una dissezione dell’aorta. Esami ematochimici La determinazione dei marker di necrosi miocardica può essere fondamentale per diagnosticare un infarto miocardico acuto quale causa di shock cardiogeno nei casi in cui il tracciato elettrocardiografico non sia interpretabile. E’ anche utile misurare la concentrazione dei gas ematici nel sangue arterioso (emogasanalisi arteriosa), dal momento che la presenza di acidosi può avere effetti particolarmente dannosi sul miocardio. 4. Ecocardiogramma Permette di ottenere informazioni circa la funzione sistolica globale e segmentaria dei ventricoli e consente di giungere rapidamente al riconoscimento delle cause meccaniche di shock, quali rottura di un muscolo papillare con insufficienza mitralica acuta, rottura acuta del setto interventricolare o della parete libera ventricolare con tamponamento cardiaco, malfunzionamento di apparati valvolari protesici. 5. Monitoraggio invasivo e cateterismo cardiaco destro. L’incannulamento di un’arteria permette il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa, mentre quello di una vena, incuneando un catetere (catetere di Swan-Ganz, ) a livello dei capillari polmonari, permette di ottenere parametri emodinamici fondamentali per la diagnosi, quali la portata cardiaca e le pressioni di riempimento ventricolare. CENNI DI TERAPIA Terapia farmacologica Morfina: nell’infarto miocardico può alleviare l’intenso dolore toracico, contribuire a ridurre gli elevati livelli di catecolamine circolanti e diminuire il precarico e il postcarico. La risposta deve essere attentamente monitorata perché la morfina causa depressione respiratoria, provoca dilatazione venosa e può ridurre la pressione arteriosa. Agenti inotropi: se la pressione arteriosa sistemica è inferiore a 80-90 mm Hg, è necessario infondere un agente pressorio come la dopamina. A dosi relativamente basse, 2-5 µg/kg per minuto, il farmaco induce aumento della gittata sistolica e della gittata cardiaca, mediato dalla stimolazione ß-adrenergica, e incremento del flusso renale mediato da recettori specifici dopaminergici. Gli effetti vasocostrittori a-adrenergici si manifestano a dosi superiori ai 5 µg/kg per minuto. Se si rendono necessarie alte dosi di dopamina per mantenere una perfusione adeguata, si deve prendere in considerazione il passaggio all’infusione di noradrenalina. Questo farmaco è un potente costrittore arteriolare e venoso, la cui azione è mediata attraverso una stimolazione a-adrenergica, mentre la stimolazione ß-adrenergica è relativamente modesta. Quando la pressione arteriosa sistemica è 90 mm Hg o superiore, il farmaco di scelta è la dobutamina, che può produrre un aumento della pressione sistemica attraverso l’incremento della gittata cardiaca. Vasodilatatori: visto che questi farmaci riducono la pressione arteriosa, il loro impiego deve essere associato a quello di un agente inotropo. Il farmaco principalmente utilizzato è il nitroprussiato di sodio, il quale riduce sia il precarico che il postcarico del ventricolo sinistro. Diuretici: il loro impiego è riservato ai casi di shock cardiogeno con edema polmonare acuto. I diuretici più utilizzati sono quelli dell’ansa (per esempio, furosemide), associati ai risparmiatori di potassio (per esempio, spironolattone). Supporto meccanico La stabilizzazione del paziente in shock cardiogeno può essere ottenuta mediante un supporto circolatorio meccanico, cioè con l’impiego del contropulsatore aortico. Questo consiste in un palloncino montato su un catetere vascolare e collegato tramite un tubo ad una consolle di comando che è in grado di monitorizzare l’ECG e la curva di pressione arteriosa, sincronizzando l’insufflazione e la desufflazione del palloncino con il ciclo cardiaco. Il catetere viene inserito per via percutanea attraverso l’arteria femorale, e la sua punta è posizionata in aorta discendente 1-2 centimetri sotto l’emergenza della arteria succlavia di sinistra e sopra l’origine delle arterie renali. Il gonfiaggio del pallone del contropulsatore avviene precocemente in diastole, determinando un notevole aumento della pressione aortica diastolica fin quasi ai livelli della pressione aortica sistolica, e aumentando di conseguenza il flusso sanguigno coronarico. Inoltre, lo sgonfiaggio del pallone all’inizio della sistole riduce la pressione aortica, con conseguente diminuzione del consumo di ossigeno da parte del miocardio e delle resistenze periferiche (postcarico). La contropulsazione aortica è generalmente riservata ai pazienti in shock cardiogeno dovuto a una condizione potenzialmente reversibile, o nei quali si prenda in considerazione il trapianto cardiaco. Tali condizioni comprendono l’infarto miocardico ancora in evoluzione e l’infarto associato a una grave complicanza meccanica (insufficienza mitralica o difetto del setto interventricolare). In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, il ripristino del flusso ematico coronarico è la terapia più efficace per salvare i pazienti che non rispondono all’infusione di liquidi o al trattamento farmacologico. Le possibilità comprendono l’angioplastica e il by-pass aorto-coronarico. Nei casi in cui, invece, lo shock cardiogeno è causato da una complicanza meccanica dell’infarto miocardico, la terapia chirurgica di riparazione della lesione e/o sostituzione valvolare è la sola strada percorribile. Fisiopatologia ischemia miocardica Per svolgere la loro funzione contrattile, le cellule miocardiche necessitano di un apporto continuo di ossigeno. Il loro metabolismo, infatti, è prettamente aerobico e già di base comporta l’estrazione di circa il 70% dell’ossigeno dal sangue durante il suo passaggio nel circolo coronarico. Ne deriva che un aumento significativo della richiesta di ossigeno può essere soddisfatto solo da un adeguato incremento del flusso coronarico. Poiché la maggior parte dell’energia richiesta dalle cellule miocardiche è impiegata nel processo di contrazione, la frequenza cardiaca (FC) costituisce il fattore principale del consumo miocardico di ossigeno. Di fatto, un raddoppio della sola FC (ad esempio, durante pacing atriale) comporta un raddoppio del consumo miocardico di ossigeno. Altri fattori che influenzano in modo significativo il consumo miocardico di ossigeno sono la pressione arteriosa (PA, postcarico), la pressione e il volume ventricolare in diastole (precarico) e l’inotropismo cardiaco. Durante esercizio, l’incremento della FC, della PA, dell’inotropismo cardiaco e del ritorno venoso (precarico) contribuiscono tutti ad aumentare il consumo miocardico di ossigeno, e quindi la richiesta di un aumento del flusso coronarico. Mentre la misurazione precisa del consumo miocardico di ossigeno richiederebbe metodi invasivi, una valutazione non invasiva approssimata, ma attendibile, è data dal prodotto FC x PA sistolica (doppio prodotto), largamente utilizzato nella pratica clinica per stimare il consumo miocardico di ossigeno, in particolare il suo incremento durante sforzo. LA CIRCOLAZIONE ARTERIOSA CORONARICA Dal punto di vista fisiologico, la circolazione arteriosa coronarica può essere distinta in tre principali compartimenti, collegati in serie. Il compartimento prossimale è costituto dalle arterie di capacitanza epicardiche, che hanno funzione conduttiva e non oppongono resistenza significativa al flusso, per cui la pressione rimane sostanzialmente costante lungo il loro decorso. Durante la contrazione miocardica il sangue viene spinto in senso retrogrado dai vasi intramiocardici verso i vasi epicardici, il cui contenuto aumenta quindi di circa il 25%. L’energia elastica accumulata durante la sistole si trasforma in energia cinetica durante la diastole, contribuendo a garantire un adeguato flusso coronarico in questa fase. Le arterie coronarie di conduttanza modificano il loro tono in risposta a variazioni di flusso, il cui aumento causa una dilatazione endotelio-dipendente dei vasi, e per effetto di sostanze vasoattive locali o circolanti e di stimoli neurogeni. I vasi distali sono vasi di resistenza ed hanno dimensioni inferiori a 0.5 mm. Per le loro dimensioni, questi vasi non sono visibili all’angiografia coronarica e costituiscono la vasta area del microcircolo coronarico. Dal punto di vista funzionale, le piccole arterie cardiache possono essere divise in due distretti, uno prossimale, rappresentato dalle prearteriole, ed uno distale, rappresentato dalle arteriole. Le prearteriole hanno dimensioni di 100-500 µm e contribuiscono per il 25-30% alla resistenza coronarica totale. La loro funzione principale è di mantenere la pressione di perfusione all’origine delle arteriole a livelli ottimali. A tale scopo vanno incontro a vasocostrizione miogena in presenza di un aumento, e a vasodilatazione in caso di riduzione, della pressione arteriosa sistemica. Le arteriole hanno dimensioni <100 µm di diametro e contribuiscono per il 40% circa alla resistenza coronarica. Esse sono la sede della regolazione metabolica del flusso coronarico. Per la loro posizione, infatti, esse risentono dell’attività metabolica delle cellule miocardiche, modificando il loro tono vasale in modo da adattare il flusso coronarico alle richieste energetiche. Così, le arteriole si dilatano in caso di un aumento del metabolismo cardiaco, che comporta un’aumentata richiesta di ossigeno, consentendo un adeguato aumento di flusso. Nei casi di maggiore richiesta di ossigeno miocardico, la riduzione massimale della resistenza coronarica consente un aumento anche di 4-5 volte del flusso coronarico, e quindi dell’apporto di ossigeno, come nel caso di sforzi intensi. La capacità di aumento massimale del flusso coronarico rispetto al basale costituisce la cosiddetta riserva coronarica (che è espressa matematicamente come rapporto tra flusso durante vasodilatazione massimale e flusso basale). Oltre che dallo stato metabolico delle cellule miocardiche, comunque, il tono delle arteriole è anch’esso modulato da fattori autacoidi locali, da sostanze vasoattive circolanti e da stimoli neurogeni. CONTROLLO DEL FLUSSO CORONARICO Diversi fattori contribuiscono alla complessa regolazione del flusso coronarico. Forze meccaniche extravascolari Una caratteristica esclusiva del cuore è che esso stesso genera la pressione di perfusione del suo sistema arterioso. Durante la sistole le forze extravascolari intramiocardiche superano quella intravascolari: i vasi intramiocardici vengono, quindi, occlusi e il sangue in parte addirittura espulso verso i vasi epicardici. Il flusso anterogrado è quindi praticamente abolito durante la sistole, soprattutto negli strati subendocardici, che ricevono quindi sangue esclusivamente in diastole . Regolazione del tono vascolare coronarico I fattori che contribuiscono a regolare il tono vascolare coronarico, e quindi il flusso coronarico, sono numerosi e possono variare nei diversi compartimenti arteriosi. a) La regolazione miogenica fa sì che il tono vasale arterioso aumenti quando la pressione arteriosa aumenta, mentre si riduce quando la pressione decresce, ed ha, quindi, lo scopo di mantenere costante il flusso in proporzione alle variazioni della pressione di distensione del vaso. Essa sembra esplicarsi soprattutto nelle prearteriole. b) La regolazione metabolica del tono vascolare avviene a livello delle arteriole. L’aumento della domanda di ossigeno causa il rilascio, da parte dei miocardiociti, di sostanze vasodilatatrici che determinano dilatazione arteriolare, consentendo così l’aumento del flusso. Tra le sostanze implicate nella regolazione del flusso coronarico, un ruolo rilevante sembra essere svolto dall’adenosina, che, con l’aumento del metabolismo energetico, viene prodotta in maggiori quantità dai miocardiociti, in seguito alla maggiore scissione delle molecole di adenosin trifosfato (ATP). L’adenosina agisce sui recettori adenosinici A2 delle cellule muscolari lisce vascolari, attivando l’adenilato-ciclasi intracellulare, che determina la produzione di AMP ciclico. Altri fattori, tuttavia, possono contribuire alla vasodilatazione metabolica (pressione tissutale di ossigeno, pH, concentrazione di potassio, pressione osmotica, attivazione dei canali ATP-sensibili del potassio, bradichinina). L’aumento del flusso conseguente alla vasodilatazione arteriolare può continuare ad essere garantito grazie anche alla vasodilatazione flussomediata, in larga parte endotelio-dipendente, che si determina nei vasi prossimali, in particolare nelle pre-arteriole, come conseguenza dell’aumento della velocità di flusso. c) La regolazione neurogenica del tono vasale è dovuta agli effetti esplicati sui vasi dal sistema nervoso autonomo simpatico e parasimpatico. La stimolazione simpatica causa un aumento del tono vasomotore e della resistenza coronarica tramite stimolazione dei recettori 1 2 da parte della noradrenalina. Un -tono sembra presente già in condizioni di riposo, in quanto la somministrazione di -bloccanti causa un aumento di circa il 10% del flusso coronarico basale. D’altro canto, la stimolazione dei recettori ß 1 e ß2 determina una vasodilatazione, con riduzione del 20-30% della resistenza coronarica. L’effetto complessivo della stimolazione adrenergica in vivo (ad esempio, durante uno sforzo) è comunque quello di un aumento del flusso coronarico. Ciò è soprattutto secondario all’aumento del consumo miocardico di ossigeno che essa determina, con conseguente vasodilatazione metabolica. Il ruolo del sistema nervoso parasimpatico nella regolazione del circolo coronarico non è completamente chiaro: in vivo la stimolazione vagale tende a determinare un aumento del tono vasomotore, soprattutto come effetto secondario alla bradicardia ed alla conseguente riduzione del consumo miocardico di ossigeno. d) Un ruolo molto importante è svolto dalla regolazione endotelio-mediata del circolo coronarico, diventata evidente in anni recenti. Molti studi hanno infatti dimostrato che l’endotelio può essere considerato come un vero e proprio organo endocrino, in grado di produrre numerose sostanze, alcune delle quali svolgono un ruolo cruciale nella regolazione del flusso sanguigno (vedi Capitolo 47). Le principali sostanze prodotte dall’endotelio hanno anzitutto attività vasodilatatrice, e comprendono l’endotheliumderived relaxing factor (EDRF), la prostaciclina (PGI2) e l’endotheliumderived hyperpolarizing factor (EDHF). L’EDRF ha emivita breve (5 secondi) ed è stato identificato con l’ossido nitrico (NO). Esso agisce attivando la guanilato-ciclasi delle cellule muscolari lisce, che risulta nella fomazione di guanosin-monofosfato ciclico (cGMP). L’EDRF sembra avere un ruolo nel determinare il tono vascolare basale; la somministrazione dell’inibitore NG-monometil-L-arginina, infatti, riduce il flusso ematico a vari livelli. Molte sostanze vasoattive (ad esempio, acetilcolina, serotonina, bradichinina) esercitano il loro effetto vasodilatatore determinando il rilascio di EDRF da parte delle cellule endoteliali (vasodilatazione endoteliomediata). L’EDRF, inoltre, sembra essere la sostanza principalmente responsabile della vasodilatazione che si ottiene in risposta all’aumento del flusso coronarico (vasodilatazione flusso-mediata). La PGI2 è una prostaglandina, derivata dall’acido arachidonico. Ha anch’essa emivita breve (10 secondi) ed è rilasciata in risposta alla pressione pulsatile e a diverse sostanze (ad esempio., bradichinina, trombina, serotonina). Sembra contribuire anch’essa al tono vasale basale e alla vasodilatazione flusso mediata. L’EDHF non è stato ancora ben identificato chimicamente; probabilmente deriva anch’esso dall’acido arachidonico ed ha emivita breve. Dati sperimentali suggeriscono che esso causi vasodilatazione mediante apertura dei canali del potassio e conseguente iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce. Sembra venire anch’esso rilasciato in risposta allo shear stress ed al flusso pulsatile, oltre che a diverse sostanze (ad es., acetilcolina, sostanza P, bradichinina, CGRP). Le cellule endoteliali, tuttavia, sintetizzano anche sostanze vasocostrittrici, in particolare l’endotelina-1 (ET-1), l’angiotensina II, l’endotheliumderived contracting factor (EDCF) e la prostaglandina H2, oltre ai radicali liberi dell’ossigeno. Se queste sostanze abbiano un qualche ruolo nella regolazione fisiologica del circolo coronarico non è chiaro. Viceversa, l’attività vasocostrittrice dell’endotelio (attivazione dell’endotelio) può aumentare in alcune condizioni patologiche (per esempio, ipertensione arteriosa, diabete, aterosclerosi, ischemia miocardia, scompenso cardiaco), contribuendo ai loro effetti negativi. L’ET-1, in particolare, è il più potente vasocostrittore conosciuto nell’uomo, agisce su due tipi di recettori principali, ETA ed ETB. L’azione vasocostrittrice è svolta mediante stimolazione dei recettori ETA sulle cellule muscolari lisce. La stimolazione di recettori ETB sulle cellule endoteliali, d’altro canto, induce rilascio di NO ed inibisce quello di ET-1, tendendo a contrastare così gli effetti vasocostrittori dell’ET-1. Integrità della parete vasale Lo svolgimento di un normale flusso coronarico comporta l’integrità della parete vasale. Ancora una volta, è soprattutto l’endotelio a garantire questa integrità. Esso, infatti, previene la diffusione di sostanze aterogene nella parete arteriosa, produce costituenti della lamina basale e della matrice extracellulare dell’intima (che possono riparare danni vasali), ed inibisce la crescita e la migrazione cellulare mediante la sintesi di eparan-solfato ed NO. L’endotelio ha inoltre un ruolo chiave nel preservare la fluidità del sangue, in quanto il suo rivestimento interno con proteoglicani forma una barriera elettronegativa che previene l’adesione delle piastrine e delle altre cellule circolanti. La sintesi di NO e PGI2, inoltre, ostacola l’adesione e l’aggregazione piastrinica. Infine, le cellule endoteliali secernono diverse sostanze con attività anticoagulante, come l’eparan-solfato, che catalizza l’inattivazione della trombina da parte dell’antitrombina III, e la trombomodulina, che si lega a trombina e proteina C, e sostanze in grado di attivare il plasminogeno, e quindi la fibrinolisi, come lo urokinase type plasminogen activator (u-PA) ed il tissue type plasminogen activator (t-PA). DEFINIZIONE L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare le richieste di ossigeno e sostanze metaboliche necessarie alle cellule miocardiche per svolgere le proprie funzioni. Quando sufficientemente grave e prolungata, l’ischemia determina la necrosi delle cellule stesse. Questa, in caso di occlusione acuta di un vaso coronarico, interessa progressivamente prima gli strati subendocardici, più sensibili al danno ischemico (vedi più avanti) e solo più tardivamente quelli subepicardici. L’ischemia miocardica può essere causata da due principali meccanismi, che possono, tuttavia, combinarsi tra loro nel determinare gli episodi ischemici: (1) impossibilità di aumentare in modo adeguato il flusso coronarico per soddisfare un aumento della domanda miocardica di ossigeno, in genere a causa della presenza di una stenosi coronarica, e (2) riduzione primaria del flusso coronarico, dovuta a vasocostrizione, spasmo o trombosi coronarica. STENOSI CORONARICHE EPICARDICHE Le stenosi coronariche epicardiche, causate da placche aterosclerotiche, sono il substrato più frequente dell’ischemia miocardica. Una stenosi coronarica è emodinamicamente significativa quando è in grado di opporre, già a riposo, una resistenza al flusso ematico, tale da determinare una caduta della pressione a valle. Ciò comincia a verificarsi, in genere, quando il diametro del lume viene ridotto del 50%. Oltre questa riduzione critica, ogni ulteriore aumento della stenosi causa una sempre maggiore riduzione della pressione a valle, con una relazione di tipo esponenziale. La relazione tra caduta pressoria e flusso a livello di una stenosi, tuttavia, non è semplicemente lineare, essendo la riduzione del flusso superiore a quella predetta dalla riduzione della pressione. Poiché la pressione di perfusione è il principale determinante del flusso, la sua riduzione a valle di una stenosi tende a ridurre il flusso. In condizioni basali, tuttavia, in corrispondenza di una stenosi non si osserva riduzione del flusso coronarico, in quanto la caduta della pressione è compensata dalla riduzione della resistenza coronarica a valle, come conseguenza della dilatazione delle arteriole coronariche. Questa vasodilatazione compensatoria, tuttavia, riduce la riserva coronarica, vale a dire la capacità di aumento massimo del flusso in risposta all’aumento del fabbisogno metabolico del miocardio. Il livello di lavoro cardiaco oltre il quale non è più possibile incrementare il flusso per soddisfare le richieste metaboliche, per cui si sviluppa ischemia, è definito soglia ischemica. L’ischemia miocardica da discrepanza che si sviluppa in un paziente è tipicamente limitata agli strati subendocardici, che, per varie ragioni, presentano una minore riserva coronarica, e sono quindi più suscettibili all’ischemia, rispetto agli strati subepicardici. Infatti, il consumo di ossigeno delle cellule subendocardiche è di base maggiore di quello delle cellule subepicardiche, a causa del maggiore stress sistolico parietale cui sono soggette. Come risultato, il flusso subendocardico è di base del 1520% superiore a quello subepicardico, nonostante sia sottoposto a maggiori forze compressive extramurali, con conseguente minore capacità di incremento relativo durante aumento della domanda di ossigeno. Oltre queste condizioni sfavorevoli, altri fattori, in presenza di una stenosi, possono contribuire a facilitare l’ischemia subendocardica in caso di aumento del lavoro cardiaco, come l’accorciamento della diastole (durante una tachicardia) e un aumento ulteriore delle forze extravascolari (per esempio, in caso di aumento della pressione telediastolica ventricolare sinistra). Un meccanismo particolare di ischemia miocardica è costituito dal furto coronarico transmurale, che si verifica quando, in presenza di un vaso con una stenosi, in genere molto critica, il flusso ematico si ridistribuisce dal subendocardio al subepicardio come conseguenza della vasodilatazione massimale dei vasi di resistenza subepicardici. Infatti, poiché la riserva coronarica subendocardica e’ inferiore a quella subepicardica, una volta che la riserva subendocardica si esaurisce (per vasodilatazione massimale dei vasi subendocardici), un’ulteriore vasodilatazione epicardica comporterà un’ulteriore caduta della pressione post-stenotica, con conseguente riduzione della perfusione subendocardica, che diventera’ insufficiente per le richieste metaboliche del subendocardio. Nella pratica clinica l’importanza emodinamica di una stenosi è in genere valutata all’angiografia coronarica visivamente o usando metodi di misurazione quantitativa. La semplice valutazione del grado di una stenosi coronarica all’angiografia, tuttavia, ha diverse limitazioni. Altri fattori, infatti, possono avere importanza nel determinare le conseguenze emodinamiche della stenosi, come il diametro del vaso originario, la lunghezza e la concentricità o eccentricità della stenosi e la presenza di altre stenosi nel vaso. Le conseguenze emodinamiche della stenosi possono ancora essere influenzate dalla modulazione dinamica del tono vasale a livello della stenosi e di quello del microcircolo distale, dalla presenza ed estensione di vasi collaterali e dalla resistenza extravascolare. In particolare, le stenosi coronariche sono spesso dinamiche; presentano, cioè, variazioni vasomotorie del lume in grado di modificare il grado di stenosi, e quindi la riserva coronarica, dando origine ad un pattern anginoso caratterizzato da una significativa variabilità della la soglia ischemica, in contrasto con la stabilità e predicibilità della soglia ischemica nei casi di stenosi coronariche fisse. La dinamicità di una stenosi può essere valutata saggiando la risposta vasomotoria alla somministrazione intracoronarica di sostanze vasodilatatrici e vasocostrittrici. Inoltre, un fattore importante in grado di influenzare gli effetti di una stenosi coronarica è lo sviluppo di una circolazione coronarica collaterale verso il territorio ischemico. I collaterali possono svilupparsi sia da vasi anastomotici preesistenti, sia, più limitatamente, come piccoli vasi di nuova formazione. Lo sviluppo e l’entità di una circolazione collaterale varia consistentemente da paziente a paziente, e il flusso nei vasi collaterali è influenzato sia da fattori nervosi e umorali, sia da sostanze vasoattive autacoidi locali. TROMBOSI CORONARICA I fenomeni trombotici costituiscono il meccanismo fisiopatologico principale dell’ischemia miocardica nelle sindromi coronariche acute (Figura 10). Quando transitoria, la trombosi causa solo un’ischemia temporanea; se prolungata o persistente, tuttavia, essa determina la necrosi di una parte più o meno estesa di tessuto miocardico. I meccanismi responsabili della trombosi coronarica sono complessi e ancora non del tutto chiariti. I trombi, tuttavia, si formano in genere a livello di placche aterosclerotiche complicate (ad esempio, da rottura, fissurazione o emorragia), che espongono al sangue una superficie vasale non più in grado di contrastare efficacemente, come avviene normalmente, l’attivazione di processi proaggreganti e procoagulanti, e, quindi, trombotica . In almeno il 30% circa dei casi, tuttavia, trombi coronarici sono riscontrati a livello di placche non fissurate ed esenti da stenosi di rilievo e da apparenti danni della parete vasale. In questi casi, la formazione di un trombo è probabilmente facilitata da lesioni microscopiche (erosioni) e/o da alterazioni funzionali dell’endotelio, secondarie a stimoli di varia natura (meccanici, anossici, chimici, infettivi, immunologici), in grado di compromettere in modo rilevante le funzioni antitrombotiche e vasodilatatrici delle cellule endoteliali, che sono anzi stimolate a produrre potenti sostanze vasocostrittrici ed esporre recettori di adesione leucocitaria e piastrinica (attivazione dell’endotelio). Le alterazioni dell’endotelio sono più frequenti in vasi con flusso turbolento (ad es., a livello di stenosi), e possono essere causate da molteplici fattori, meccanici (alterato shear stress), chimici (LDL ossidate), infettivi (virus, batteri), e immunologici (anticorpi contro antigeni di superficie, linfociti sensibilizzati). In anni recenti, inoltre, è stata accumulata evidenza che un’importante componente patogenetica della formazione di trombi intracoronarici, e quindi delle sindromi coronariche acute, è costituita da processi infiammatori delle placche aterosclerotiche, che ne favoriscono le complicanze e stimolano localmente sia meccanismi trombotici che vasocostrittori. Indipendentemente dai meccanismi, la prima fase della formazione di un trombo è costituita dall’adesione di piastrine alla parete vascolare danneggiata, seguita da una serie di meccanismi che portano alla formazione di un trombo piastrinico, che, in presenza di stenosi critiche, può di per sé causare subocclusione o occlusione del vaso (e quindi, rispettivamente, ischemia subendocardica o transmurale). Più frequentemente, soprattutto in presenza di stenosi meno gravi, il trombo murale piastrinico viene seguito dalla formazione di un trombo più stabile, per l’attivazione del sistema emostatico, che porta a deposizione anche di rilevanti quantità di fibrina, globuli rossi e leucociti, insieme alle piastrine, con finale occlusione del vaso. Gli effetti fisiopatologici e clinici di un trombo coronarico dipendono, oltre che da quanto esso riduce il lume, dalla sua evoluzione. Il suo destino naturale è, infatti, variabile. Esso può lisarsi spontaneamente in poco tempo, per cui causa solo un’ischemia più o meno prolungata. Altre volte esso si risolve solo parzialmente, rimanendo in parte adeso alla parete, per cui si organizza e causa la progressione della preesistente stenosi con successiva riduzione della soglia ischemica. Altre volte, infine, subisce una rapida crescita che causa l’occlusione totale del vaso, con grave ischemia e necrosi miocardica. Il destino finale del trombo è il frutto di una complessa interazione tra fattori protrombotici e antitrombotici, che coinvolge anche fattori emodinamici, vasomotori e fibrinolitici. Va osservato come trombi, sia ostruttivi sia non ostruttivi, possono dare origine a microembolie distali che causano aree di ischemia o necrosi miocardica circoscritta. Va infine ricordato come una trombosi può localmente complicare uno spasmo coronarico, facilitando l’occlusione e l’infarto miocardico in pazienti con angina vasospastica. SPASMO CORONARICO Lo spasmo coronarico consiste in un’improvvisa, intensa contrazione delle cellule muscolari lisce di un segmento di un’arteria coronaria epicardica, che occlude o riduce in modo critico il lume del vaso, con conseguente ischemia miocardica, in genere transmurale. Esso può verificarsi sia in vasi stenotici sia in vasi completamente normali e, dal punto di vista clinico, è anzitutto il meccanismo responsabile dell’angina variante di Prinzmetal. Il substrato che rende un vaso coronarico suscettibile allo spasmo non è noto. E’ probabile, tuttavia, che esso risieda in una o più alterazioni delle vie intracellulari post-recettoriali di trasmissione e modulazione dei segnali che regolano la contrazione delle cellule muscolari lisce vasali, determinando una loro iperreattività agli stimoli vasocostrittori. Ciò è suggerito dal fatto che lo spasmo può essere indotto, in genere, da vari stimoli vasocostrittori (catecolamine, acetilcolina, alcalosi, ergonovina, serotonina, istamina) che agiscono su recettori differenti. DISFUNZIONE DEL MICROCIRCOLO CORONARICO Diversi dati, in anni recenti, hanno suggerito come alterazioni del flusso coronarico a livello dei piccoli vasi coronarici di resistenza (prearteriole e arteriole), che non sono visibili all’angiografia coronarica, possano essere responsabili di un’ischemia miocardica. Ad esempio, è stato osservato che l’infusione intracoronarica di neuropeptide Y o di alte dosi di acetilcolina in soggetti con arterie coronarie epicardiche normali può indurre ischemia miocardica in assenza di variazioni significative delle arterie epicardiche, ma in presenza di una diffusa vasocostrizione dei rami distali e di un lento run off del mezzo di contrasto, indicativo di un’intensa vasocostrizione microvascolare. Una disfunzione microvascolare sembra implicata nei meccanismi che causano ischemia miocardica in alcune condizioni cliniche. In pazienti con occlusione totale isolata di un vaso epicardico la somministrazione di ergonovina può causare riduzione del flusso collaterale in assenza di modificazioni dei vasi epicardici, suggerendo che variazioni rilevanti della soglia ischemica siano conseguenti a variazioni del tono dei vasi di resistenza. In pazienti con stenosi isolata di un vaso coronarico, trattata con intervento di rivascolarizzazion e percutaneo, la persistenza di sintomi anginosi e di alterazioni ischemiche dell’ECG durante sforzo, a dispetto del successo della procedura, suggerisce una causa microvascolare, come indicato da anomalie nell’incremento del flusso coronarico in risposta a stimoli vasodilatatori. Alterazioni della resistenze coronariche sono state, inoltre, dimostrate distalmente a stenosi coronariche in pazienti con cardiopatia ischemica stabile o instabile, in vasi non stenotici di pazienti con stenosi ostruttive in altri rami coronarici epicardici, e in pazienti con fattori di rischio per malattia coronarica ma con arterie epicardiche angiograficamente normali. Infine, una disfunzione microvascolare è ritenuta essere responsabile della sindrome X cardiaca, una condizione clinica caratterizzata da episodi anginosi, indotti prevalentemente dallo sforzo, in presenza di arterie coronarie angiograficamente normali. I meccanismi della disfunzione dei piccoli vasi arteriosi coronarici sono al momento poco noti, ma sono verosimilmente molteplici e differenti non solo nelle diverse condizioni cliniche, ma anche all’interno di uno stesso gruppo di pazienti. In pazienti con evidenza di malattia coronarica, la disfunzione microvascolare è in genere attribuita all’aterosclerosi ed alle alterazioni neuroumorali e vasali (ad es., fibrosi perivascolare, ipertrofia della media) associate ad eventuali malattie sistemiche concomitanti (ad es., ipertensione, diabete). Di contro, nei pazienti con sindrome X cardiaca, in cui non sono presenti ostruzioni epicardiche, sono state riportate alterazioni strutturali dei piccoli vasi coronarici solo in alcuni casi, mentre sono state descritte diverse alterazioni in grado di determinare disfunzione del microcircolo ed ischemia miocardica. CARDIOMIOPATIE Il problema riguardante la definizione e la classificazione delle cardiomiopatie (CMP) rappresenta uno dei punti maggiormente controversi nell’ambito della cardiologia. L’introduzione nel linguaggio medico del termine “Cardiomiopatie” (= “Malattie del Muscolo Cardiaco”) risale a circa mezzo secolo fa, ma è solo nel 1980 che venne pubblicato – da parte di un gruppo di esperti nominato dalla World Health Organization e dalla International Society and Federation of Cardiology (WHO/ISFC) – il primo documento ufficiale in tema di definizione e classificazione delle CMP. In quel documento, le CMP venivano definite come malattie del muscolo cardiaco “da causa sconosciuta”; la loro natura “idiopatica” ne rappresentava, pertanto, uno dei caratteri distintivi fondamentali da altre malattie cardiache ad eziopatogenesi nota quali le cardiopatie ischemica, ipertensiva, valvolare, ecc. Tuttavia, i progressi compiuti dalla ricerca – soprattutto nel campo della genetica – e la sempre più ampia diffusione di nuove metodiche d’indagine non invasive, in particolare l’ecocardiografia, hanno condotto negli anni successivi ad un significativo incremento delle conoscenze sulle CMP, rendendo inadeguato il documento del 1980. Pertanto, nel 1995 la WHO e la ISFC hanno redatto congiuntamente un nuovo report che tuttora costituisce il documento di riferimento in materia di definizione e classificazione delle CMP (Tabella I). Gli aspetti salienti di tale documento sono: 1) la nuova definizione delle CMP come Malattie del Muscolo Cardiaco “associate a disfunzione cardiaca” sia sistolica che diastolica. La precedente espressione “da causa sconosciuta” veniva soppressa, essendo divenuta nel frattempo impropria alla luce delle nuove acquisizioni eziopatogenetiche; 2) la sottoclassificazione delle CMP in 4 tipi o forme principali: la CMP dilatativa (CMPD), la CMP ipertrofica (CMPI), la CMP restrittiva (CMPR) e la CMP/displasia aritmogena del ventricolo destro (CMP/DAVD). L’importanza del primo punto risiede nell’esplicito riconoscimento che, accanto ai casi “idiopatici” di CMP, ne esistono altri in cui è viceversa possibile identificare la causa della malattia (ad esempio, nella quasi totalità dei casi di CMPI ed in circa un terzo dei casi di CMPD è oggi documentabile un’eziologia genetica). L’importanza del secondo punto è dovuta invece al fatto che la sottoclassificazione delle CMP viene operata sulla base di quadri morfo-funzionali di semplice riconoscimento (in tal senso, un ruolo fondamentale è svolto dall’indagine ecocardiografica), quali la dilatazione/ipocinesia ventricolare sinistra (CMPD), l’ipertrofia ventricolare sinistra (CMPI), la severa compromissione di tipo “restrittivo” del riempimento diastolico (CMPR), il prevalente coinvolgimento del ventricolo destro associato a spiccata aritmogenicità (CM/DAVD). Tale approccio classificativo si rivela di grande utilità nella pratica clinica perché richiama immediatamente gli aspetti essenziali e caratteristici di ciascuna CMP, orientando il cardiologo verso la corretta diagnosi e l’impiego appropriato delle strategie terapeutiche attualmente disponibili. Restano indubbiamente margini di incertezza classificativa che riguardano disordini aritmogeni “isolati” dovuti ad alterazioni di funzione dei canali ionici o forme con interessamento miocardico ma difficilmente iscrivibili nei 4 gruppi principali come il “miocardio non compatto”, la “cardiomiopatia peripartum” e la “malattia tako-tsubo”. A differenza di quanto proposto nel documento del 1995 della WHO/ISFC, non andrebbero invece utilizzati termini fuorvianti come “cardiomiopatia ischemica”, “cardiomiopatia valvolare” e “cardiomiopatia ipertensiva”. Cardiopatia ipertrofica La cardiomiopatia ipertrofica è definita come ipertrofia ventricolare sinistra non spiegata da cause comuni d’ipertrofia , l’ipertensione arteriosa o alcune valvulopatie (ad esempio, stenosi aortica). La definizione si basa, clinicamente, sul rilievo ecocardiografico di aumentato spessore parietale del ventricolo sinistro: ciò non significa necessariamente che ci sia ipertrofia (aumento della massa muscolare da prevalente aumento delle dimensioni dei miocardiociti), perché situazioni in cui c’è, ad esempio, accumulo intra- o extracellulare di sostanze (come nell’amiloidosi, nella malattia di Fabry, in alcune glicogenosi etc.) ricadono, impropriamente, in questa definizione. Con questa definizione, la cardiomiopatia ipertrofica è malattia relativamente frequente, con una prevalenza di 1/500, che la rende la più comune cardiopatia su base genetica. EZIOLOGIA E PATOGENESI La cardiomiopatia ipertrofica è una malattia autosomica dominante a penetranza incompleta. Le forme tipiche (a cui andrebbe riservato il nome di cardiomiopatia ipertrofica) sono dovute a mutazioni di geni codificanti per proteine sarcomeriche. I geni più frequentemente interessati sono quelli delle catene pesanti della betaMiosina, della proteina C legante la Miosina, e della Troponina T, ma tutti i geni codificanti per proteine sarcomeriche (contrattili, modulatrici o strutturali) possono determinare la malattia. La penetranza è incompleta, cioè possono esserci individui genotipo+ e fenotipo-, e dipende dall’età in modo variabile a seconda del gene causale: mentre la penetranza è quasi completa entro la terza decade per le mutazioni delle catene pesanti della betaMiosina e della Troponina T, per quelle della proteina C legante la Miosina la penetranza cresce costantemente fino alla vecchiaia. Individui appartenenti alla stessa famiglia (e dunque portatori della stessa mutazione causale) possono avere fenotipi molto diversi per morfologia del ventricolo sinistro e per quadri clinici. Ciò è spiegabile solo se si pensa che la mutazione causale interagisce con altri geni e con fattori ambientali per determinare il fenotipo. È ancora soltanto un’ipotesi (ma basata su alcune evidenze solide) che l’incorporazione di una proteina mutata nel sarcomero ne determini una ridotta efficienza contrattile; questa aumenta lo stress sarcomerico con conseguente attivazione del signaling responsivo allo stress e sintesi di fattori trofici. I fattori trofici agiscono sui miocardiociti, determinandone ipertrofia, sui fibroblasti inducendo fibrosi interstiziale, e sulle cellule muscolari lisce della media delle arteriole coronariche, provocandone l’iperplasia. Questa ipotesi spiega le tre fondamentali caratteristiche morfologiche della cardiomiopatia ipertrofica: ipertrofia e malallineamento (disarray) dei cardiomiociti con fibrosi interstiziale ed ispessimento della media delle arteriole. Questa ipotesi patogenetica è ulteriormente supportata dall’osservazione, finora confinata all’animale transgenico, che il fenotipo è reversibile o prevenibile con l’uso di farmaci di cui è nota l’interazione con lo sviluppo ed il mantenimento dell’ipertrofia. FISIOPATOLOGIA Le tre principali caratteristiche fisiopatologiche della cardiomiopatia ipertrofica sono la disfunzione diastolica, l’ostruzione al tratto d’efflusso del ventricolo sinistro e l’ischemia. La disfunzione diastolica dipende da alterata affinità per il Ca++ delle proteine mutate, e da rallentato re-uptake del Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico. Ne deriva un incompleto rilasciamento ed un’aumentata rigidità del muscolo. Un’altra causa di disfunzione diastolica, forse più rilevante clinicamente, è secondaria all’ipertrofia ed alla fibrosi interstiziale, che determinano una ridotta distensibilità del ventricolo sinistro (cioè è richiesta una maggiore pressione atriale per riempirlo). Altra rilevante caratteristica fisiopatologica è l’ostruzione al tratto d’efflusso del ventricolo sinistro. Il setto ipertrofico sporge nel tratto d’efflusso del ventricolo sinistro, e lo restringe progressivamente durante la sistole. Il sangue è costretto ad accelerare fino al punto in cui si genera l’effetto Venturi, cioè lo sviluppo di forze centripete che attirano il lembo della mitrale nel tratto d’efflusso (Systolic Anterior Movement, o S.A.M.). Ciò provoca un’ulteriore riduzione della sezione del tratto di efflusso e lo sviluppo di ostruzione. Ovviamente, il S.A.M. determina anche insufficienza mitralica. In conseguenza del meccanismo di generazione, l’ostruzione al tratto d’efflusso del ventricolo sinistro è meso-sistolica e dinamica (cioè l’entità dell’ostruzione varia a seconda del volume ventricolare e dello stato inotropo). I pazienti con cardiomiopatia ipertrofica hanno spesso segni d’ischemia, anche in assenza di stenosi coronariche epicardiche. L’ischemia è la conseguenza dell’ispessimento della media arteriolare, dell’ipertrofia (a causa dell’aumentato spessore non seguito da analogo aumento della densità capillare), e dell’aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro (che determina un aumento delle resistenze coronariche estrinseche in diastole). QUADRO CLINICO La cardiomiopatia ipertrofica ha un decorso clinico benigno nella maggioranza dei pazienti. I pazienti sintomatici lamentano soprattutto dispnea (dovuta a disfunzione diastolica e/o ad ostruzione al tratto d’efflusso), palpitazioni, angina pectoris (anche in assenza di malattia coronarica, vedi sopra), e sincope (in circa 1/3 dei pazienti). La caratteristica clinica più temuta di questa malattia è la morte improvvisa. Si definisce come tale la morte entro 24 ore dall’esordio di sintomi, ed è tipicamente dovuta a fibrillazione ventricolare. I bambini sono maggiormente interessati, con un’incidenza più che doppia di quella degli adulti. In questi ultimi, l’incidenza è circa 1%/anno, e declina con l’età. Non molto è noto circa i meccanismi della morte improvvisa, ma si è osservata un’associazione epidemiologica tra alcuni eventi (definiti fattori di rischio) e la morte improvvisa. Questi sono: familiarità per morte improvvisa storia di sincope recente inspiegata presenza di ipertrofia ventricolare sinistra massiva (massimo spessore di parete >= 30 mm) risposta pressoria anomala all’esercizio (normalmente, la pressione arteriosa cresce costantemente durante l’esercizio; in circa 1/3 dei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica la pressione invece aumenta e poi diminuisce durante l’esercizio, oppure diminuisce fin dall’inizio) tachicardia ventricolare non sostenuta all’ECG Holter La tachicardia ventricolare sostenuta è considerata equivalente di morte improvvisa abortita e non un fattore di rischio. Il paziente adulto con cardiomiopatia ipertrofica ha un rischio 6 volte maggiore rispetto alla popolazione generale di sviluppare fibrillazione atriale parossistica o permanente, ed infatti circa 1/3 dei pazienti soffre di questa aritmia, ed è pertanto frequente riscontrarla o durante Holter o durante visita clinica. DIAGNOSI La cardiomiopatia ipertrofica è generalmente sospettata per la presenza di un soffio cardiaco o di anomalie elettrocardiografiche. L’ostacolo all’eiezione ventricolare sinistra dipendente dall’ipertrofia settale genera un soffio sistolico eiettivo, che si ascolta soprattutto al mesocardio, lungo la margino-sternale sinistra. La relazione fra l’intensità del soffio e il volume ventricolare (il soffio è tanto più intenso quanto più il contenuto di sangue nel ventricolo si riduce) può permettere di diagnosticare all’ascoltazione del cuore la cardiomiopatia ipertrofica, e soprattutto distinguerla dalla stenosi valvolare aortica (vedi Capitoli 2 e 16). Se, mentre si ascolta il cuore, si fa eseguire al soggetto la manovra di Valsalva, ci si accorge che il soffio della stenosi valvolare aortica si riduce d’intensità mentre quello della cardiomiopatia ipertrofica aumenta. La manovra di Valsalva (espirazione forzata a glottide chiusa), infatti, riduce la pressione negativa endotoracica, cioè la forza “aspirativa” (vis a fronte) che favorisce il ritorno venoso: diminuisce quindi il riempimento diastolico dei ventricoli e con esso la gittata sistolica. La riduzione del volume ventricolare fa sì che nella cardiomiopatia ipertrofica il soffio aumenti di intensità con la manovra di Valsalva, mentre diminuisce nella stenosi aortica, dove l’intensità del soffio è proporzionale alla gittata sistolica, cioè alla quantità di sangue che attraversa la valvola. L’ECG è anormale nella quasi totalità dei casi, anche se le anomalie presenti non sono patognomoniche e possono essere diverse: più comunemente si osserva ipertrofia ventricolare sinistra, onde Q anomale e segni di ischemia ventricolare. L’ecocardiogramma è esame fondamentale, che mostra ipertrofia generalmente asimmetrica, coinvolgente il setto interventricolare. La distribuzione dell’ipertrofia è eterogenea e in una piccola percentuale di pazienti è localizzata al solo apice ventricolare (forma apicale, identificata dapprima nelle popolazioni orientali, ma ubiquitaria; è caratterizzata da buona prognosi). Una stima dell’ipertrofia è data dallo spessore parietale massimo, particolarmente rilevante poiché quando è particolarmente aumentato (>= 30 mm) rappresenta un fattore di rischio per morte improvvisa. In circa 1/3 dei pazienti è presente ostruzione al tratto di efflusso del ventricolo sinistro a riposo. Nei pazienti con sintomi e senza ostruzione a riposo è indicata l’esecuzione di esercizio fisico con valutazione del gradiente al picco dell’esercizio; con questo approccio il 70% dei pazienti ha ostruzione. Con la risonanza magnetica nucleare (RMN) cardiaca è possibile evidenziare tutte le pareti miocardiche e pertanto quando la caratterizzazione anatomica risulta difficile con l’eco, vi è indicazione ad eseguirla. Inoltre, con la RMN viene misurata la massa ventricolare sinistra, non possibile con l’ecocardiogramma per l’eterogenea distribuzione dell’ipertrofia. La somministrazione di un mezzo di contrasto, il gadolinio, che si accumula tardivamente nell’interstizio (late-enhancement) consente di avere un’immagine della distribuzione di fibrosi in questi pazienti. Vista l’eziologia di questa malattia, dopo aver identificato un probando (primo paziente identificato in una famiglia) si deve procedere ad uno screening familiare con ECG, ecocardiogramma e, se disponibile, analisi genetica. TRATTAMENTO Dopo aver determinato il profilo di rischio per morte improvvisa, si può individuare una strategia terapeutica. Ai pazienti con almeno 2 fattori di rischio per morte improvvisa va consigliato l’impianto di un defibrillatore (ICD). I pazienti con un solo fattore di rischio costituiscono una zona grigia, e l’impianto di un ICD va valutato caso per caso. I pazienti senza fattori di rischio per morte improvvisa ed asintomatici non richiedono trattamento. I pazienti sintomatici vengono posti in terapia con betabloccanti e/o Ca++-antagonisti non diidropiridinici (verapamil o diltiazem o gallopamil). La terapia ha la finalità di ridurre i sintomi, ma non ha effetto sulla prognosi. Se è presente ostruzione al tratto d’efflusso, ai beta-bloccanti si può aggiungere la disopiramide (un antiaritmico qui usato solo per il suo marcato effetto inotropo negativo, che contribuisce alla riduzione dell’ostruzione). Se la terapia medica non è efficace nella riduzione dell’ostruzione, questa può avvalersi di intervento chirurgico di miotomia-miectomia (asportazione di un cuneo di setto sottoaortico per allargare in tratto d’efflusso), o dell’ablazione alcoolica (iniezione di etanolo in uno o più rami perforanti settali in modo da indurre infarto chimico della porzione alta del setto, sempre allo scopo di allargare in tratto d’efflusso). I pazienti che hanno fibrillazione atriale persistente o cronica debbono essere riportati in ritmo sinusale: ciò non è sempre possibile, ma è importante tentare il ripristino del ritmo sinusale finché è ragionevole. Il ripristino del ritmo sinusale si ottiene mediante cardioversione elettrica o farmacologica. La prevenzione delle recidive di fibrillazione atriale è usualmente ottenuta con l’uso di amiodarone. In caso di fibrillazione atriale parossistica o persistente o cronica, per l’anticoagulazione si applicano le linee guida usuali. CARDIOMIOPATIA DILATATIVA La cardiomiopatia dilatativa (CMPD) viene definita come “Malattia del Muscolo Cardiaco caratterizzata da dilatazione e ridotta contrattilità del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli” e rappresenta – assieme alle forme ipertrofica, restrittiva ed alla displasia aritmogena del ventricolo destro – uno dei quattro sottotipi principali di Cardiomiopatia. EPIDEMIOLOGIA La prevalenza della CMPD nella popolazione generale è stimata essere di circa 1 caso ogni 2.500 abitanti e l’incidenza pari a 4-8 nuovi casi/100.000 individui/anno. Tuttavia, la sua reale frequenza è certamente superiore, considerando che la maggior parte dei soggetti ancora asintomatici ma già con le “stimmate” della malattia (dilatazione e disfunzione ventricolare sinistra) non vengono identificati sino a che non compaiono i primi sintomi e segni riferibili a scompenso cardiaco o a turbe del ritmo e della conduzione. ANATOMIA PATOLOGICA Il fondamentale reperto anatomo-patologico macroscopico della CMPD è rappresentato dalla più o meno cospicua dilatazione di una od entrambe le camere ventricolari; anche gli atri, specialmente nelle fasi avanzate della malattia, sono dilatati ( La progressiva dilatazione delle camere cardiache associata all’insufficienza contrattile del miocardio comportano fenomeni di stasi che facilitano la formazione di trombi endocavitari, di riscontro non infrequente in sede autoptica e documentabili prevalentemente a carico delle sezioni cardiache di sinistra. La dilatazione delle camere cardiache e l’ipocinesia delle loro pareti frequentemente concorrono anche a determinare l’allargamento degli osti atrio-ventricolari e lo stiramento delle corde tendinee da diastasi dei muscoli papillari, con conseguente insufficienza valvolare “funzionale” mitralica e/o tricuspidale. Per definizione, il circolo coronarico appare angiograficamente indenne o privo di stenosi “critiche” a carico dei grossi vasi epicardici. Il reperto isto-morfologico è aspecifico, le alterazioni principali essendo rappresentate da degenerazione miocellulare e diminuzione del numero delle miocellule, ipertrofia dei miociti residui, fibrosi sostitutiva ed interstiziale, infiltrati flogistici di tipo linfo-istiocitario in genere sparsi e presenti nell’interstizio. EZIOPATOGENESI Accanto ai casi “idiopatici” di CMPD, ve ne sono altri per i quali è possibile identificare con precisione la causa. Come per le altre forme di cardiomiopatia, anche per la CMPD i maggiori progressi in termini di conoscenze eziopatogenetiche riguardano il campo della genetica. A differenza di quanto si riteneva in passato, le forme familiari di CMPD sono piuttosto frequenti (circa 1/3 dei casi). Le diverse modalità di trasmissione ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, legata al cromosoma X) e di presentazione clinica (in relazione al grado di penetranza, all’età di insorgenza, all’interessamento isolato o meno del miocardio, ecc) della CMPD familiare indicano l’esistenza di una marcata eterogeneità genotipica e fenotipica. L’analisi del tipo di trasmissione genetica, del fenotipo e, quando disponibili, dei dati di genetica molecolare ha importanza non solo conoscitiva ma anche clinica perché le differenti forme possono non solo avere differente quadro clinico ma anche differente prognosi e differente rischio di malattia per i familiari. Fattori infettivi/immunitari potrebbero rivestire un ruolo importante nel determinismo della CMPD, anche se i meccanismi con cui in questo caso si realizza il danno miocardico non sono del tutto chiariti. I virus possono indurre un effetto citolitico diretto correlato alla loro virulenza come pure attivare una reazione autoimmune secondaria a “mimetismo” molecolare tra epitopi virali e costituenti normali del miocardio ad essi simili. QUADRO CLINICO La CMPD può manifestarsi in pazienti di tutte le età, ma nella maggior parte dei casi l’esordio avviene tra i 20 ed i 50 anni. La malattia colpisce prevalentemente il sesso maschile, con un rapporto maschi/femmine di circa 3:1. Dal punto di vista clinico, la CMPD si manifesta più frequentemente con scompenso cardiaco od aritmie ventricolari o sopraventricolari. In oltre il 50% dei pazienti, la presentazione clinica è rappresentata da un quadro di scompenso cardiaco sinistro; in una minore percentuale di casi, possono essere prevalenti i segni di scompenso destro. Le aritmie sono un’evenienza frequente nella CMPD e non di rado costituiscono le prime manifestazioni cliniche; tuttavia, solo raramente sincope e morte improvvisa rappresentano l’esordio della malattia. Un dolore toracico, per lo più da sforzo e talora con le caratteristiche di un’angina, rappresenta il sintomo principale d’esordio della CMPD nel 10-20% dei casi; in questi pazienti, è stata dimostrata una minore riserva coronarica. Nel 2-4% dei casi, usualmente con avanzata compromissione della funzione ventricolare e marcata cardiomegalia, la manifestazione clinica iniziale è costituita da un episodio embolico sistemico o polmonare. Talvolta, il sospetto di CMPD viene posto a paziente asintomatico. Si tratta di casi scoperti fortuitamente in occasione di una visita medica (ad esempio, per riscontro di un soffio cardiaco) o di un’indagine strumentale (ad esempio, per il riscontro di blocco di branca sinistra all’elettrocardiogramma o di cardiomegalia alla radiografia del torace) effettuate per altri motivi. PROGNOSI la prognosi della CMPD è caratterizzata da una elevata mortalità (all’inizio degli anni ’80 era stimata essere del 50% a 2 anni dalla diagnosi), risultando in linea di massima tanto peggiore quanto maggiori sono le alterazioni morfo-funzionali a carico del ventricolo sinistro (marcata dilatazione, bassa frazione di eiezione) e quanto più severi sono i sintomi (avanzata classe NYHA). Studi recenti hanno tuttavia dimostrato che una diagnosi precoce ed un altrettanto precoce impiego di farmaci efficaci come gli ACE-inibitori ed i betabloccanti possono significativamente contribuire a modificare favorevolmente la storia naturale dei pazienti con CMPD (sopravvivenza libera da trapianto cardiaco del 60% a 10 anni dalla diagnosi). CENNI DI TERAPIA Non sono attualmente disponibili terapie specifiche per la CMPD. Gli obiettivi principali del trattamento consistono nel limitare la progressione dello scompenso cardiaco e nel controllare le aritmie. Tra le misure generali sono incluse l’educazione del paziente, la restrizione dell’apporto di sale e fluidi con la dieta con limitazione dell’introito alcolico, il controllo del peso corporeo e l’esecuzione di un moderato esercizio fisico aerobico. Terapia medica. La terapia medica si avvale degli agenti farmacologici comunemente impiegati nel trattamento del modello dilatativo-ipocinetico di scompenso cardiaco. Fra questi, i più importanti sono gli ACE-inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina (sartani), i betabloccanti, i diuretici tiazidici e/o dell’ansa, gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone. Gli ACE-inibitori ed i betabloccanti sono efficaci nei pazienti con scompenso cardiaco da lieve a severo (NYHA II-IV); gli ACE-inibitori lo sono anche in quelli con disfunzione ventricolare ancora in fase asintomatica (classe NYHA I). Nei casi in cui vi sia intolleranza agli ACE-inibitori, appare giustificato l’impiego dei sartani. I diuretici tiazidici e/o dell’ansa vanno impiegati con l’obiettivo di controllare il fenomeno della ritenzione idro-salina, modulando le dosi in funzione del grado di congestione polmonare e periferica. Gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone sono indicati solo nello scompenso cardiaco moderato-severo. La digitale è utile per il controllo della frequenza ventricolare nei pazienti con fibrillazione atriale e in quelli in ritmo sinusale con scompenso persistente nonostante la terapia con antagonisti neuro-ormonali e diuretici. Nelle fasi avanzate della malattia possono essere impiegati farmaci inotropi per via endovenosa, particolarmente la dobutamina (farmaco simpaticomimetico con effetto predominante beta1-agonista) o gli inibitori delle fosfodiesterasi (amrinone, milrinone ed enoximone) che sono allo stesso tempo inotropi e vasodilatatori. Dati recenti suggeriscono l’efficacia del levosimendan, un farmaco sensibilizzatore al calcio con proprietà anche di vasodilatazione. Il trattamento anticoagulante, volto a prevenire l’embolia polmonare o sistemica, viene raccomandato nei pazienti con fibrillazione atriale o in quelli a ritmo sinusale ma con trombosi endocavitaria e/o pregressa embolia, e anche nei soggetti con marcata dilatazione ventricolare e frazione di eiezione < 20-25%. Terapia meccanica. L’impiego di “device” meccanici nel trattamento dei pazienti con CMPD, sia per quanto riguarda la prevenzione della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile) che per il ripristino della sincronia della contrazione cardiaca (terapia di resincronizzazione cardiaca mediante pace-maker biventricolare), trova indicazione in selezionati sottogruppi di pazienti. Assistenza ventricolare meccanica e cardiochirurgia. Sono state proposte procedure chirurgiche complementari alla sostituzione cardiaca, nell’ottica di “ponte al trapianto” od a questo alternative. In pazienti selezionati, è possibile limitare la progressione della malattia correggendo l’insufficienza mitralica mediante valvuloanuloplastica. Nel corso di episodi di severa riacutizzazione della malattia oppure nei pazienti in attesa di trapianto, giunti allo stadio terminale dello scompenso cardiaco, è possibile utilizzare dispositivi meccanici che sostituiscono temporaneamente la funzione di pompa del cuore (assistenza ventricolare meccanica). L’assistenza ventricolare meccanica consente il ripristino di un’emodinamica normale e di una perfusione tissutale adeguata sostituendo la funzione di pompa del cuore con dispositivi meccanici di vario tipo. Sono in corso di valutazione nuove prospettive per un’assistenza meccanica a lungo termine potenzialmente alternativa alla sostituzione cardiaca. Trapianto cardiaco. La sostituzione cardiaca con organo di un donatore compatibile rimane allo stato attuale la soluzione più efficace per i pazienti con scompenso cardiaco severo, refrattario ad ogni forma di terapia medica (vedi Capitolo 66). La sopravvivenza ad 1 anno, 5 anni e 10 anni si è attestata rispettivamente intorno all’80, 68 e 56%. Il problema maggiore è costituito dalla carenza di donazioni. CARDIOPATIA RESTRITTIVA Le cardiomiopatie restrittive (CMPR) sono un gruppo eterogeneo di malattie del muscolo cardiaco accomunate dal fatto che il ventricolo sinistro (o, più di rado, entrambi i ventricoli) presenta(no) un pattern di riempimento diastolico di tipo restrittivo con volume diastolico generalmente ridotto, pareti incostantemente aumentate di spessore e funzione sistolica normale o modicamente ridotta. L’espressione “pattern restrittivo” indica che durante la diastole vi è un ostacolo al riempimento del ventricolo, il quale non riesce ad accogliere il sangue perché le sue pareti sono rigide e poco distensibili. Di conseguenza, la pressione diastolica ventricolare aumenta e tale incremento si riflette a monte per cui si manifesta ipertensione anche nell’atrio, nelle vene tributarie dell’atrio, nei capillari, ecc. Il termine CMPR deve essere riservato esclusivamente a quelle patologie cardiache in cui il pattern restrittivo costituisce l’elemento caratterizzante il quadro fisiopatologico. EZIOPATOGENESI ED ANATOMIA PATOLOGICA Esistono forme primitive e secondarie di CMPR. Tra le prime vanno incluse la cosiddetta CMPR idiopatica (talvolta familiare con trasmissione di tipo autosomico dominante), la sindrome di Löffler e la fibrosi endomiocardica. Le forme secondarie comprendono le CMPR infiltrative (amiloidosi, sarcoidosi, ecc) e quelle da accumulo (emocromatosi, ecc). Ognuna di queste condizioni presenta specifici quadri istopatologici. Tuttavia, in linea generale, il reperto macroscopico è quello di un cuore con atri marcatamente dilatati e spesso sede di trombi, mentre i ventricoli appaiono grossolanamente normali. QUADRO CLINICO Nella maggior parte dei casi, le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da sintomi e segni di scompenso cardiaco quali ridotta tolleranza allo sforzo, astenia, dispnea da sforzo, dispnea parossistica notturna ed ortopnea, edemi declivi ed ascite. La comparsa di fibrillazione atriale è un evento frequente nei soggetti con forme idiopatiche o secondarie ad amiloidosi; circa un terzo dei pazienti può presentare episodi tromboembolici. Nonostante la relativamente bassa frequenza di aritmie minacciose (blocco atrio-ventricolare di III grado o tachicardia ventricolare), la morte improvvisa rappresenta comunque un evento possibile. L’esame obiettivo consente di rilevare valori di pressione arteriosa normali o ridotti con tendenza all’ipotensione ortostatica in una significativa percentuale di pazienti. E’ spesso presente tachicardia a riposo. Il I ed il II tono sono in genere normali, ma si ascoltano spesso un III e/o un IV tono. E’ possibile rilevare un soffio olosistolico da rigurgito mitralico o tricuspidale. Particolarmente nelle fasi avanzate, il fegato si presenta aumentato di volume e le vene giugulari sono distese. DATI DI LABORATORIO E STRUMENTALI In generale, nelle CMPR idiopatiche non sono presenti significative alterazioni dei parametri ematochimici. Il riscontro di indici di flogosi alterati e di ipereosinofilia orienta verso un’endocardite di Löffler. Nelle forme da amiloidosi possono essere presenti diverse alterazioni quali anemia, leucocitosi, elevazione della velocità di eritrosedimentazione e della proteina C-reattiva, ipofibrinogenemia, iposideremia, monoclonalità all’immunoelettroforesi proteica o segni di compromissione della funzione renale ed epatica. La radiografia del torace può mettere in evidenza un aumento delle dimensioni dell’ombra cardiaca, segni di congestione interstiziale od alveolare e versamento pleurico. Le possibili anomalie elettrocardiografiche includono i bassi voltaggi dei complessi QRS nelle derivazioni periferiche, le onde Q di “pseudonecrosi” nelle derivazioni antero-settali, il sottolivellamento del tratto ST; sono frequentemente descritti anche segni di ingrandimento atriale di ipertrofia ventricolare sinistra ed aritmie di vario tipo. Nei pazienti con amiloidosi, le alterazioni del sistema di conduzione non sembrano particolarmente frequenti, mentre in quelli con CMPR idiopatica sono spesso documentabili blocchi atrio-ventricolari ed intra-ventricolari. L’ecocardiogramma è l’indagine diagnostica cardine, mediante la quale è possibile evidenziare un ventricolo sinistro non ingrandito, con spessori parietali normali o solo lievemente aumentati e con funzione di pompa normale o quasi. L’ispessimento e l’aspetto granulare delle pareti del ventricolo sinistro ed in particolare del setto interventricolare (“a vetro smerigliato”) è caratteristico delle forme amiloidosiche. Il ventricolo destro può presentarsi dilatato, specie nei casi con ipertensione polmonare. E’ pressoché costantemente documentabile una dilatazione biatriale. Le valvole atrioventricolari appaiono frequentemente ispessite, e spesso si associa un rigurgito mitralico e/o tricuspidale. Lo studio del riempimento ventricolare sinistro mediante analisi Doppler del flusso a livello della valvola mitrale documenta un pattern di tipo “restrittivo” . L’ecocardiogramma transesofageo può essere utile per ricercare in modo più accurato l’eventuale presenza di trombi endocavitari. Sebbene l’integrazione degli dati ottenibili dalla valutazione clinica e dagli esami strumentali non invasivi consenta nella maggior parte dei casi di porre correttamente la diagnosi, il cateterismo cardiaco e la biopsia endomiocardica conservano un ruolo importante nello studio della CMPR. In corso di cateterismo cardiaco, l’aspetto emodinamico caratteristico è il “segno della radice quadrata” (“dip and plateau”), che si apprezza nella curva della pressione protodiastolica ventricolare ed è dovuto ad una ripida discesa della pressione ventricolare all’inizio della diastole seguita da un brusco incremento e da un plateau in protodiastole. La pressione sistolica e la pressione di riempimento ventricolare destro possono essere elevate. Le pressioni di riempimento nelle sezioni di sinistra sono usualmente maggiori di 5 mmHg rispetto alle sezioni di destra, e la pressione capillare polmonare (“pressione di incuneamento”) è in genere elevata. La biopsia endomiocardica è particolarmente utile nella differenziazione istologica, immunoistichimica ed ultrastrutturale delle diverse CMPR. Nelle forme idiopatiche, i reperti sono sostanzialmente aspecifici con ipertrofia cellulare e fibrosi interstiziale in assenza, tranne che per quel che riguarda la sindrome di Loffler, di infiltrati cellulari. La presenza di amiloide nel miocardio è confermata dalla positività per il rosso Congo, che conferisce al tessuto una tipica birifrangenza all’esame con luce polarizzata. L’indagine immunoistochimica consente di differenziare i vari tipi di amiloide (catene leggere immunoglobuliniche in corso di mieloma, transitiretina, lisozima, beta2 microglobulina, fattori natriuretici). La biopsia endomiocardica consente inoltre di definire la causa di altre forme meno frequenti di CMPR da accumulo miocardico. L’accumulo di ferro intramiocardico è facilmente evidenziabile con la colorazione di Pearls; nella sindrome di Löffler, la biopsia endomiocardica evidenzia un quadro di marcata infiltrazione eosinofila dell’endocardio e del miocardio; nella fibrosi endomiocardica è dimostrabile la presenza di ampie deposizioni di tessuto collageno e di connettivo che interessano l’endocardio, il subendocardio ed il miocardio. Studi scintigrafici mirati o metodiche di risonanza magnetica cardiaca con gadolinio possono contribuire alla diagnosi e caratterizzazione di alcune di queste forme DIAGNOSI DIFFERENZIALE La CMPR presenta spesso aspetti clinici indistinguibili dalla pericardite costrittiva, con problemi di diagnosi differenziale difficili da risolvere (vedi Capitolo 32). Una storia di pericardite acuta, pregressa infezione tubercolare, trauma toracico, intervento cardiochirurgico o terapia radiante del mediastino può orientare verso la diagnosi di pericardite costrittiva. All’indagine invasiva, il rilievo di una pressione telediastolica del ventricolo sinistro inferiore di almeno 5 mmHg rispetto alla pressione telediastolica del ventricolo destro, di una pressione sistolica del ventricolo destro 50 mmHg ed di un rapporto pressione telediastolica/pressione sistolica del ventricolo destro 0.33 orienta verso una pericardite costrittiva. La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono in grado di fornire informazioni più complete su eventuali alterazioni del pericardio e sulla struttura della parete miocardica. Anche la biopsia endomiocardica può essere di ausilio nella differenziazione della CMPR dalla pericardite costrittiva, particolarmente nei casi in cui è possibile riscontare un’infiltrazione miocardica. CENNI DI TERAPIA In generale, la terapia farmacologica delle CMPR si avvale dei diuretici per una terapia sintomatica della congestione secondaria allo scompenso cardiaco diastolico. Il dosaggio dei diuretici deve essere stabilito con cautela, per evitare una sindrome da bassa portata conseguente ad eccessiva riduzione del precarico. Nei pazienti affetti da amiloidosi cardiaca devono essere evitati la digitale e i calcio-antagonisti in quanto questi farmaci possono causare fenomeni tossici anche con dosaggi generalmente ritenuti terapeutici. In caso di fibrillazione atriale, è necessario tentare di ristabilire il ritmo sinusale perché l’assenza del contributo atriale al riempimento ventricolare comporta un sostanziale peggioramento della disfunzione diastolica. A questo scopo, sono indicati sia la cardioversione elettrica che quella farmacologica mediante l’impiego di agenti antiaritmici, in particolare l’amiodarone. In casi di difetti di conduzione atrio-ventricolare di grado avanzato può rendersi necessario l’impianto di un pace-maker. Il trattamento anticoagulante orale appare indicato nei pazienti con rischio tromboembolico, in particolare in quelli con riscontro ecocardiografico di trombi endocavitari, marcata dilatazione atriale, episodi ricorrenti di fibrillazione atriale parossistica o fibrillazione atriale cronica. Non esiste al momento la possibilità di migliorare l’evoluzione delle forme idiopatiche con trattamenti farmacologici specifici e, nelle fasi avanzate, il trapianto cardiaco rappresenta l’unica valida opzione terapeutica. PERICARDITI DEFINIZIONE Si tratta di affezioni acute o croniche interessanti il foglietto parietale e viscerale del pericardio, la cui eziologia può essere infettiva, infiammatoria, neoplastica, immunitaria. Tra le malattie del pericardio possono essere enucleate le forme seguenti : Pericarditi acute e subacute Pericardite cronica essudativa Tamponamento cardiaco Pericardite cronica costrittiva PERICARDITI ACUTE E SUBACUTE P Sono processi infiammatori del pericardio a decorso acuto o subacuto, distinguibili in forme fibrinose, caratterizzate da abbondante formazione di fibrina e scarso versamento, e forme essudative, caratterizzate da formazione di versamento. Eziologia Il pericardio può essere interessato da infezioni virali, batteriche, micotiche o tubercolari; le forme virali sono di gran lunga le più frequenti (virus Coxackie A e B, echovirus, virus parotitico, citomegalovirus, herpes simplex, varicella, adenovirus, epstein barr e virus influenzali). Una pericardite acuta si può anche sviluppare come conseguenza dell’invasione diretta del pericardio da parte di una neoplasia di organi adiacenti (neoplasie polmonari, della mammella o linfomi). Altre condizioni morbose come patologie metaboliche (uremia o mixedema) e le collagenopatie (lupus eritematoso sistemico, sclerodermia, artrite reumatoide, dermatomiosite, poliartrite nodosa) possono interessare il pericardio. Sono state segnalate pericarditi da farmaci (Isoniazide, Procainamide, Idralazina e Antracicline), su base verosimilmente immunitaria. L’infarto miocardico acuto può essere complicato dalla pericardite epistenocardica (II-IV giornata) o dalla sindrome di Dressler, pericardite autoimmune ad insorgenza più tardiva. Altre forme di infiammazione asettica del pericardio sono le post-pericardiotomiche, che si osservano dopo interventi cardiochirurgici. Tra le patologie pericardiche sono incluse anche forme caratterizzate da raccolta di liquido di tipo trasudatizio, come accade nello scompenso cardiaco e nella sindrome nefrosica. Nel pericardio si può formare una raccolta ematica (emopericardio) se si verifica rottura di strutture vascolari o cardiache. Anche la terapia radiante ad alte dosi può essere associata a interessamento pericardico, quando le radiazioni siano dirette sul mediastino. Fisiopatologia Normalmente la cavità pericardica contiene 25-50 ml di liquido sieroso, ed al suo interno vige una pressione negativa. Quando un agente patogeno di tipo chimico, fisico, batterico o virale lede l’integrità funzionale dei foglietti pericardici, la quantità di liquido aumenta. Il liquido pericardico può essere sieroso, siero-fibrinoso, ematico, purulento, colesterolico, chiloso . Il versamento pericardico può essere di tipo trasudativo o essudativo. Il trasudato presenta bassa densità, basso contenuto proteico, e scarse cellule mesoteliali, mentre l’ essudato è più denso, contiene maggior quantità di proteine e numerose cellule infiammatorie e mesoteliali. Con la formazione del versamento, la pressione intrapericardica aumenta, cosicché viene limitato il rilasciamento delle camere cardiache, aumentano le pressioni di riempimento ventricolare, ed è ostacolato il ritorno venoso. La pressione intrapericardica dipende dalla quantità di liquido e dalla sua rapidità di formazione. Se il versamento pericardico si forma lentamente, senza che si realizzi un tamponamento cardiaco, la pressione intrapericardica subisce solo un modesto incremento, e la gittata sistolica, la portata cardiaca, e la pressione arteriosa sono mantenute nei limiti della norma. Solo se la pressione intrapericardica aumenta ulteriormente, il riempimento diastolico e la gittata sistolica diminuiscono. In questa situazione la portata cardiaca è mantenuta entro limiti normali dall’aumento della frequenza cardiaca. Quadro clinico Il quadro clinico è condizionato dalla gravità del processo infiammatorio, dalla quantità di liquido e dalla velocità con cui questo si accumula. In genere, dopo due–tre settimane da un episodio di tipo influenzale, compaiono i sintomi della pericardite acuta. Il dolore precordiale è uno dei sintomi più caratteristici: presenta irradiazione verso il collo, verso il margine del muscolo trapezio e verso la spalla sinistra; talvolta può avere localizzazione epigastrica tanto da simulare un addome acuto. La sua intensità può variare, esacerbandosi con l’ inspirazione, la posizione supina, la tosse, la deglutizione, mentre si riduce in alcune posizioni antalgiche (la posizione seduta o quella genupetturale oppure flettendo il torace in avanti). Il dolore ha di solito durata protratta (giorni), e si riduce o scompare quando compare il versamento. Esame obiettivo Gli sfregamenti pericardici sono i segni più caratteristici della pericardite acuta: essi originano dall’attrito tra i foglietti pericardici, resi scabri dalla deposizione di fibrina. I rumori da sfregamento sono solitamente variabili, transitori e, quando presenti, consentono di porre diagnosi sicura di pericardite; possono accentuarsi con la compressione esercitata dal fonendoscopio oppure facendo inclinare in avanti il paziente . Indagini di laboratorio Sono spesso presenti segni aspecifici di flogosi quali leucocitosi, elevazione della PCR, rialzo della VES. I reperti di laboratorio possono essere utili per la diagnosi di pericardite uremica (azotemia e creatininemia) o per la diagnosi di mixedema (FT3, FT4, TSH). Si può a volte riscontrare una fluttuazione del titolo anticorpale contro il virus responsabile. L’intradermoreazione alla tubercolina è utile nella diagnosi di pericardite tubercolare. La determinazione del titolo degli anticorpi antinucleo e del fattore reumatoide va eseguita nel caso si sospetti una malattia autoimmune. L’esame del liquido prelevato con la pericardiocentesi (reazione di Rivalta) può essere molto indicativo: si tratta di un trasudato nelle sindromi edemigene, di un essudato nelle forme infettive, di un liquido emorragico in caso di neoplasie, tubercolosi, sindrome di Dressler. Esami strumentali Elettrocardiogramma: nella pericardite acuta l’ECG mostra sopralivellamento del tratto ST, generalmente a concavità superiore, nelle derivazioni con QRS positivo; le onde T appaiono alte ed appuntite e il PR può risultare sottoslivellato Successivamente il sopralivellamento di ST regredisce, e l’onda T diventa negativa e simmetrica. Segno fondamentale per la diagnosi differenziale elettrocardiografica con le alterazioni in corso di infarto miocardico è l’assenza di onde q di necrosi. Quando la pericardite si accompagna ad abbondante versamento pericardico si verifica riduzione di voltaggio di tutte le onde dell’ECG, e a volte alternanza elettrica (vedi Capitolo 3). Esame radiologico: le pericarditi acute prevalentemente fibrinose, con scarso versamento, non sono evidenziabili utilizzando i metodi radiografici tradizionali standard. L’RX del torace può essere utile solo se la raccolta di liquido è superiore a 200-250 ml: in questa situazione l’ ombra cardiaca perde la normale configurazione ed assume aspetto a “fiasca” . Ecocardiogramma: è l’esame più specifico e sensibile in presenza di versamento pericardico (vedi Capitolo 4). L’Ecocardiogramma monodimensionale mostra uno spazio ecoprivo compreso tra il pericardio posteriore e la parete posteriore del ventricolo sinistro; a volte, in caso di versamenti maggiori, è presente uno spazio analogo tra il pericardio parietale anteriore e la parete anteriore del ventricolo destro. L’indagine bidimensionale permette di visualizzare in modo più completo il pericardio Risonanza magnetica nucleare: la RMN cardiaca fornisce precisi dati anatomici sullo stato del pericardio, permettendo una miglior evidenziazione dei recessi pericardici superiori e dei versamenti posteriori, spesso misconosciuti. Diagnosi differenziale Il quadro può essere confuso con quello dell’ infarto miocardico acuto per il dolore precordiale e per la presenza di alterazioni elettrocardiografiche. Gli sfregamenti pericardici, i reperti ecocardiografici, l’assenza di aumento nel siero dei marker di necrosi miocardica (vedi Capitolo 24) permettono di dirimere il dubbio. Complicanze Si dividono in precoci (recidive precoci e miocarditi) e tardive (recidive tardive e pericardite costrittiva). La più importante complicanza dei versamenti pericardici è il tamponamento cardiaco (vedi più avanti). PERICARDITE CRONICA ESSUDATIVA Si diagnostica in presenza di versamento pericardico persistente da almeno sei mesi. Tutti i processi infettivi cronici, le collagenopatie, le malattie metaboliche, lo scompenso cardiaco congestizio, i tumori pericardici possono provocare versamenti pericardici ad andamento cronico. Quadro clinico I pazienti possono essere asintomatici o paucisintomatici dal punto di vista cardiaco, pur presentando versamento pericardico all’ ecocardiogramma. I principali sintomi consistono in ridotta tolleranza all’esercizio fisico e nella dispnea da sforzo. Versamenti massivi possono accompagnarsi a sintomi come tosse, disfagia, disfonia dovuti alla compressione delle strutture mediastiniche. All’ascoltazione cardiaca i toni risultano ovattati e si possono apprezzare a volte sfregamenti pericardici . Il decorso clinico della pericardite cronica essudativa dipende prevalentemente dalla malattia di base e dalla presenza di cardiopatia sottostante. E’ possibile l’evoluzione verso la forma costrittiva . Diagnosi L’ ecocardiogramma è l’esame di scelta per la diagnosi di pericardite cronica essudativa. L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso evidenzia QRS di basso voltaggio e alterazioni aspecifiche della ripolarizzazione. Il radiogramma del torace può evidenziare aumento dell’ ombra cardiaca. TAMPONAMENTO CARDIACO E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad ipertensione venosa, che si verifica quando il versamento comporta un aumento della pressione intrapericardica tale da produrre una grave limitazione del riempimento del cuore in diastole. Eziologia: Le cause più frequenti sono: pericardite acuta o recidiva sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco, impianto di pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante; rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico; versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica Fisiopatologia Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie supera la capacità di distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione intrapericardica cui fa seguito progressiva riduzione del rilasciamento diastolico fino all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo sinistro, atrio sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione dell’ afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del sacco pericardico, la rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica dei ventricoli e la volemia: anche modeste quantità di liquido (per esempio, 150 ml) formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza. Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono: 1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare durante la diastole. 2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale incrementa la venosa pressione a monte degli atri. Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono adrenergico: tachicardia e vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca cerca di opporsi alla riduzione della portata, e l’incremento delle resistenze periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella norma. Quando i meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a ridursi, si verifica un vero e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22). Quadro clinico E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata pressione venosa, con obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da risolversi rapidamente con la rimozione del liquido (pericardiocentesi). Il paziente appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso, sudorazione fredda, pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e può comparire il polso paradosso, cioè l’accentuazione della fisiologica riduzione di ampiezza del polso e della pressione arteriosa durante l’inspirazione (vedi Capitolo 2 ). Esami strumentali L’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS. L’ecocardiogramma evidenzia un versamento pericardico abbondante, sia in sede anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui un collasso diastolico della parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del ventricolo destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento cardiaco. TAMPONAMENTO CARDIACO E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad ipertensione venosa, che si verifica quando il versamento comporta un aumento della pressione intrapericardica tale da produrre una grave limitazione del riempimento del cuore in diastole. Eziologia: Le cause più frequenti sono: pericardite acuta o recidiva sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco, impianto di pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante; rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico; versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica Fisiopatologia Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie supera la capacità di distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione intrapericardica cui fa seguito progressiva riduzione del rilasciamento diastolico fino all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo sinistro, atrio sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione dell’ afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del sacco pericardico, la rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica dei ventricoli e la volemia: anche modeste quantità di liquido (per esempio, 150 ml) formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza. Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono: 1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare durante la diastole. 2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale incrementa la venosa pressione a monte degli atri. Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono adrenergico: tachicardia e vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca cerca di opporsi alla riduzione della portata, e l’incremento delle resistenze periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella norma. Quando i meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a ridursi, si verifica un vero e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22). Quadro clinico E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata pressione venosa, con obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da risolversi rapidamente con la rimozione del liquido (pericardiocentesi). Il paziente appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso, sudorazione fredda, pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e può comparire il polso paradosso, cioè l’accentuazione della fisiologica riduzione di ampiezza del polso e della pressione arteriosa durante l’inspirazione (vedi Capitolo 2 ). Esami strumentali L’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS. L’ecocardiogramma evidenzia un versamento pericardico abbondante, sia in sede anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui un collasso diastolico della parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del ventricolo destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento cardiaco. PERICARDITE CRONICA COSTRITTIVA Affezione che può conseguire a malattie pericardiche acute o croniche, caratterizzata da un addensamento sclerocicatriziale del pericardio che, riducendo di molto la compliance del sacco pericardico, interferisce con il normale riempimento diastolico del cuore. Eziologia Una pericardite cronica costrittiva può complicare qualsiasi forma di pericardite acuta o cronica. Le principali cause di pericardite cronica costrittiva sono : le pericarditi idiopatiche ed infettive, specie la forma tubercolare, le neoplasie, la terapia radiante, gli interventi cardiochirurgici e l’emopericardio. Fisiopatologia Alcune malattie del pericardio, soprattutto le pericarditi fibrinose o siero fibrinose, hanno come esito la formazione di tessuto fibroso denso e calcifico. Si forma, perciò, un involucro rigido che avvolge il cuore e ostacola gravemente il riempimento dei ventricoli. Gli effetti della costrizione pericardica si manifestano essenzialmente in fase meso e telediastolica, mentre il riempimento protodiastolico può essere normale. In protodiastole la pressione ventricolare è bassa, ma subito s’innalza notevolmente perché l’afflusso del sangue ai ventricoli è limitato dall’astuccio rigido che avvolge il cuore. La curva pressoria di entrambi i ventricoli, perciò, assume un aspetto a radice quadrata (dip and plateau) . Il riempimento ventricolare avviene principalmente in protodiastole, mentre nelle fasi seguenti è ridotto al minimo e la pressione telediastolica tende ad essere equivalente in tutte le cavità cardiache (> 15-20 mmHg nelle forme più gravi). Gli effetti della costrizione pericardica sono più marcati a carico delle sezioni destre. Il meccanismo di Frank Sktarling non è operante, essendo il volume telediastolico dei ventricoli fisso, mentre le modificazioni della gittata cardiaca dipendono quasi esclusivamente dalle modificazioni della frequenza cardiaca. Quadro clinico La malattia ha un esordio insidioso e può decorrere misconosciuta per molti anni. Il quadro clinico della pericardite costrittiva simula quello di uno scompenso cardiaco congestizio, da deficit del ventricolo destro. I sintomi sono la dispnea da sforzo e l’astenia (da attribuirsi alla riduzione del flusso anterogrado) mentre raramente si verificano dispnea a riposo e ortopnea. L’astenia è il sintomo prevalente. I toni cardiaci sono di intensità normale o ridotta, si può a volte ascoltare un tono aggiunto protodiastolico (pericardial knock), da attribuirsi al brusco impedimento diastolico dell’espansione ventricolare ad opera della costrizione pericardica). Sono presenti segni di ipertensione venosa periferica e di congestione viscerale sistemica: epatosplenomegalia, edemi declivi, ascite, turgore delle giugulari. Può anche essere presente polso paradosso (vedi Capitolo 2). Diagnosi Non sono presenti alterazioni elettrocardiografiche specifiche, ma di solito i complessi QRS sono di basso voltaggio e le onde P slargate e bifide, a indicare ingrandimento atriale (vedi Capitolo 3), e nel 20-30 % dei casi si può riscontrare una fibrillazione atriale cronica. All’RX del torace l’ombra cardiaca appare di normali dimensioni, ed è frequente il rilievo di calcificazioni pericardiche. All’ecocardiogramma si nota un ingrandimento atriale con dimensioni ventricolari normali, l’ispessimento del pericardio, la dilatazione delle vene epatiche e della vena cava inferiore; l’esame doppler mostra anomalie del riempimento ventricolare. Il cateterismo cardiaco si rende necessario quando i sintomi e i reperti strumentali non permettono una diagnosi certa. La TAC e la risonanza magnetica cardiaca vengono considerate il gold standard per la diagnosi. Diagnosi differenziale La pericardite costrittiva va distinta, sulla base dei reperti obiettivi e dei dai ecocardiografici, dallo scompenso cardiaco congestizio secondario a valvulopatie acquisite (specie tricuspidali). La diagnosi differenziale con la cardiomiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30) è difficile: l’esame emodinamico è dirimente giacché nella cardiomiopatia restrittiva la pressione telediastolica è maggiore nelle sezioni sinistre che in quelle destre, mentre nella pericardite costrittiva tende ad essere uguale in entrambe le camere ventricolari. La diagnosi differenziale con il cuore polmonare cronico, la cirrosi epatica e l’ infarto del ventricolo destro è semplice, e si basa sull’anamnesi, sul quadro clinico ed sui principali esami strumentali. CENNI DI TERAPIA DELLE PERICARDITI La terapia delle pericarditi acute e del versamento pericardico dipende dalla loro eziologia: per esempio, nelle forme uremiche il trattamento necessario è quello dialitico, nelle forme tubercolari quello specifico con farmaci chemioterapici. Nelle pericarditi acute virali ed in quelle postpericardiotomiche, l’approccio terapeutico è dato dai FANS che debbono essere somministrati per lungo tempo (almeno 6 mesi) per impedire la comparsa di recidive. Anche la terapia corticosteroidea appare efficace ma aumenta in maniera significativa la frequenza delle recidive entro un anno dalla risoluzione del versamento. Nelle forme lievi con versamento modesto si consiglia l’ utilizzo dei FANS, mentre nelle forme associate a versamento pericardico importante si possono utilizzare anche i cortisonici. Nelle forme postinfartuali sono controindicati i farmaci corticosteroidei, che possono indebolire la formazione della cicatrice infartuale. Il trattamento del tamponamento cardiaco è costituito dalla rimozione del liquido pericardico mediante pericardiocentesi oppure drenaggio chirurgico con creazione della finestra pleuropericardica. MIOCARDITI Le miocarditi rappresentano le malattie infiammatorie del tessuto miocardico. Sebbene abbiano frequentemente una evoluzione benigna, recenti dati autoptici le hanno chiamate in causa nella genesi della morte improvvisa dei giovani adulti, poiché in una percentuale compresa tra l’8% e il 12% dei casi l’esame istologico del miocardio di giovani deceduti improvvisamente ha mostrato i caratteristici aspetti infiammatori. In ampi studi prospettici, le miocarditi sono state anche implicate nella genesi della cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…) in circa il 10% dei casi. EZIOLOGIA I potenziali agenti eziologici delle miocarditi sono molto numerosi . La causa più frequente è una infezione virale, spesso da enterovirus ed in particolare da virus Coxsackie del serotipo B. Altri ceppi virali identificati come possibili cause di miocardite sono gli adenovirus, il virus dell’epatite C (HCV) e il virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV). Anche alcuni batteri, miceti, protozoi e parassiti possono agire come agenti patogeni. Numerosi farmaci, tra cui gli antibiotici (sulfonamidi, cefaloslosporine, penicilline), i diuretici, la digossina, gli antidepressivi triciclici e gli antipsicotici possono indurre miocardite mediante reazioni da ipersensibilità. Tra le malattie autoimmunitarie, anche la celiachia può determinare una miocardite. PATOGENESI Gran parte delle conoscenze sulla patogenesi delle miocarditi deriva da modelli animali che hanno identificato tre fasi. Nella prima fase si verifica l’invasione diretta del miocardio da parte di virus cardiotropi o di altri agenti infettivi. Dopo la risoluzione o l’attenuazione della infezione virale può insorgere la seconda fase di attivazione immunologica, nella quale si osserva una espansione clonale di linfociti B, che determina ulteriore miocitolisi, aggravamento della infiammazione locale e produzione di anticorpi circolanti anti-muscolo cardiaco. La terza e ultima fase è conseguenza del danno virale e autoimmunitario, ma può continuare autonomamente dopo l’insulto iniziale. E’ caratterizzata da infiltrazione miocardica da parte di cellule infiammatorie, compresi i macrofagi e le Natural Killer, con la conseguente espressione di citochine pro-infiammatorie come la interleukina-1, la interleukina-2, il tumor necrosis factor (TNF), e l’interferone- . Il TNF, in particolare, attiva le cellule endoteliali, recluta ulteriori cellule infiammatorie, incrementa la produzione di citochine e ha un effetto inotropo negativo diretto. MANIFESTAZIONI CLINICHE Le miocarditi si possono presentare con quadri che vanno dalle semplici anomalie elettrocardiografiche asintomatiche allo shock cardiogeno. I pazienti possono lamentare sintomi prodromici attribuibili ad una infezione virale, quali febbre, mialgie, sintomi respiratori o gastroenterici, prima della comparsa di sintomi e segni di insufficienza cardiaca acuta (vedi Capitolo…). La manifestazione clinica più drammatica è la dilatazione cardiaca ad insorgenza acuta, con grave disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e rapida insorgenza di scompenso. Talora la miocardite simula una sindrome coronarica acuta. In questi casi si osserva un aumento dei marcatori di necrosi miocardica (CK-MB, Troponina) e modificazioni elettrocardiografiche tipiche dell’ischemia miocardica, quali sopraslivellamento del tratto ST, inversione dell’onda T, comparsa di onde Q patologiche o sottoslivellamento diffuso del tratto ST. L’ecocardiogramma evidenzia spesso anomalie della cinetica ventricolare sinistra, pur in presenza di coronarie indenni da lesioni all’esame coronarografico. Le miocarditi possono inoltre produrre variabili effetti sul sistema di conduzione e sul ritmo cardiaco, e sono in grado di provocare blocchi di branca (vedi Capitolo…), blocco A-V (vedi capitolo…), battiti ectopici (vedi Capitolo…) o tachicardie. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo…) si presenta raramente all’esordio della malattia, ma si osserva frequentemente durante il follow-up a lungo termine di questi pazienti. VALUTAZIONE DIAGNOSTICA La diagnosi di miocardite può essere sospettata sulla base dei sintomi, dell’elettrocardiogramma, di valori elevati della proteina C reattiva e dei marker di danno miocardico (troponina o CK-MB) e di aumento delle IgM specifiche per virus a tropismo miocardico, ma la diagnosi di certezza si basa sulla istologia. Elettrocardiogramma I quadri elettrocardiografici più comuni sono caratterizzati da una diffusa inversione dell’onda T, ma può anche comparire sopraslivellamento del tratto ST, soprattutto nelle forme di miocardite con interessamento pericardico . Marcatori di infiammazione e di necrosi. La VES, la proteina C reattiva ed altri marcatori di infiammazione appaiono alterati in caso di miocardite, ma sono del tutto aspecifici e non si sono dimostrati particolarmente utili nella valutazione diagnostica e prognostica dei pazienti con miocardite. I marcatori di necrosi miocardica vengono misurati nei pazienti con sospetta miocardite, anche se la loro sensibilità diagnostica è risultata in genere bassa e variabile. Ecocardiogramma In tutti i pazienti con sospetta miocardite dovrebbe essere eseguito un ecocardiogramma per la ricerca di anomalie della contrattilità ventricolare sinistra. Il reperto iniziale più comune è il riscontro di alterazioni della cinetica parietale del ventricolo sinistro, in assenza di significativa dilatazione della camera. La disfunzione del ventricolo destro è meno frequente. Risonanza magnetica nucleare La metodica più promettente per la diagnosi delle miocarditi è la risonanza magnetica nucleare con contrasto di gadolinio. Tale tecnica è in grado di individuare le aree miocardiche interessate dall’infiltrazione infiammatoria e consente l’effettuazione di biopsie mirate per la conferma della diagnosi . Biopsia endomiocardica La biopsia endomiocardica è tuttora considerata il gold standard per una diagnosi di certezza della miocardite. Il tipico quadro istologico mostra l’interstizio miocardico occupato da edema e infiltrato infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi, e la presenza di quadri di necrosi focale di miociti .Tuttavia, le classificazioni istopatologiche proposte attualmente forniscono informazioni clinicamente utili soltanto in una minoranza dei casi. Per tale motivo la biopsia endomiocardica è generalmente riservata ai pazienti con una cardiomiopatia rapidamente progressiva e refrattaria alla terapia standard o con una cardiomiopatia di origine sconosciuta associata a progressiva alterazione del sistema di conduzione o aritmie ventricolari minacciose per la vita. STORIA NATURALE La storia naturale delle miocarditi è variabile, così come la presentazione clinica. Le miocarditi che simulano un infarto del miocardio evolvono, nella stragrande maggioranza dei casi, verso il completo recupero. I pazienti che esordiscono con scompenso cardiaco possono presentare una moderata disfunzione miocardica (frazione di eiezione 40-50%), che gradualmente migliora nel giro di settimane o mesi. In una piccola percentuale di soggetti, tuttavia, la miocardite può avere inizio con una funzione sistolica gravemente depressa (frazione di eiezione del ventricolo sinistro minore del 35%) e in tal caso la metà circa dei pazienti evolve verso lo scompenso cardiaco cronico, il 25% va incontro al trapianto o alla morte, e solo nel rimanente 25% si assiste ad un progressivamente miglioramento della funzione ventricolare. Il tasso di mortalità delle miocarditi varia dal 20 al 56%, ma raggiunge l’80% a 5 anni nelle forme che alla biopsia mostrano un quadro istologico a cellule giganti. La presentazione clinica caratterizzata da sincope, disturbo della conduzione intraventricolare (blocchi di branca) o frazione di eiezione minore del 40% è gravata da un maggior rischio di morte o di evoluzione verso il trapianto. TERAPIA La terapia della miocardite è principalmente di supporto. Solo i pazienti che si presentano con un quadro di scompenso cardiaco grave hanno necessità di trattamenti aggressivi, e in essi è indicato l’uso di farmaci inotropi positivi, diuretici, e vasodilatatori. Dopo la stabilizzazione emodinamica iniziale, la terapia dovrebbe includere un ACE-inibitore e un ß-bloccante e, nei casi di grave disfunzione sistolica (III e IV classe funzionale NYHA), un diuretico. Risultati non ancora univoci suggeriscono l’impiego di farmaci immunosoppressori nelle miocarditi. Al momento questo tipo di terapia non è da considerare di scelta nella gestione routinaria di questi pazienti, sebbene dati incoraggianti siano stati ottenuti in quelli con miocardite a cellule giganti. ENDOCARDITE Questa malattia è stata nota, per molti decenni, con i termini di endocardite lenta o di endocardite batterica subacuta, che definiscono il primo l’andamento abitualmente, ma non necessariamente, torpido ed il secondo l’eziologia batterica della maggior parte dei casi. Si tratta di una forma morbosa che si sviluppa nell’endotelio del cuore già precedentemente leso, per lo più sulle valvole cardiache sia native che protesiche, su cui si impiantano dapprima le piastrine, che penetrano attraverso la lesione stessa (endocardite abatterica). In presenza di batteriemia per penetrazione di microrganismi da varie fonti (cavità orale in particolare), i germi colonizzano sulle piastrine (endocardite infettiva) e formano le cosiddette vegetazioni, arricchite poi da eritrociti, leucociti, e cellule infiammatorie. Oltre che sulle valvole, le colonie si localizzano nei difetti del setto interventricolare, nel dotto arterioso di Botallo o sull’endocardio murale; quest’ultima evenienza è possibile solo in caso di applicazione di dispositivi intracardiaci come cateteri o piccoli strumenti per chiudere difetti. Particolari condizioni, come la tossicodipendenza, le diminuite resistenze immunitarie, e l’emodialisi favoriscono la malattia, la cui frequenza è oggi stimabile tra il 2,5 ed il 6,0 per 100.000 persone. EZIOLOGIA Anche se molti microrganismi, non solo batterici, ma anche fungini, possono essere causa della malattia, non più di una decina di agenti è responsabile del 90% dei casi. Sulle valvole native o nei difetti intracardiaci, l’85% è costituito da streptococchi, pneumococchi o enterococchi; nei tossicodipendenti lo stafilococco aureo è presente nel 90% dei casi; tra i funghi prevale la candida. I microrganismi entrano nel torrente ematico da mucose, siti di infezioni focali, meno spesso cute. Essi aderiscono ai trombi nella quasi totalità dei casi, eccetto lo stafilococco aureo che può colpire direttamente l’endotelio sano. Una patologia cardiaca preesistente è abitualmente necessaria per l’impianto dei germi, ma la frequenza di complicanze endocarditiche nelle singole patologie cardiovascolari è variabile: il rischio è massimo nell’insufficienza valvolare aortica o mitralica, seguite dalla persistenza del dotto arterioso e dai difetti del setto ventricolare, mentre è minima nella stenosi mitralica o nel prolasso isolato della valvola mitralica. Nei portatori di protesi valvolari, il rischio è più o meno simile per ogni tipo di cardiopatia che ha richiesto l’inserzione della protesi, specie se meccanica; nei tossicodipendenti che fanno uso di siringhe non sterili con trasferimento della droga a più persone, la sede iniziale è spesso la tricuspide, ma le forme più gravi sono la localizzazione mitralica od aortica. I microrganismi penetrano per lo più in seguito a manovre strumentali sulla bocca (estrazioni dentarie) o dopo endoscopia digestiva, cateterismo delle vie urinarie, cateterismo cardiaco, emodialisi, aghi a permanenza nelle vene, raramente a causa di infezioni cutanee o ustioni. PATOGENESI Le caratteristiche del quadro clinico e gli studi sperimentali hanno dimostrato che le manifestazioni della malattia ed i sintomi e segni clinici sono la conseguenza di tre meccanismi attivi simultaneamente: 1) le conseguenze della infezione; 2) le metastasi trombo-emboliche; 3) le alterazioni immunologiche. Le conseguenze dell’infezione sono legate alla tossicità dei microrganismi ed alla intensità della loro propagazione ai vari organi; le manifestazioni emboliche, dipendenti dalla friabilità delle vegetazioni, colpiscono in modo particolare alcuni distretti; i fenomeni autoimmuni sono la conseguenza della stimolazione del sistema immunitario da parte dei germi, con formazione di autoanticorpi. ANATOMIA PATOLOGICA I germi si localizzano nelle strutture sopra ricordate in presenza di endotelio non normale (quello intatto è assai resistente all’impianto di microrganismi) dal lato della cavità a minore pressione (per esempio, sulla faccia atriale dei lembi mitralici). Si depositano inizialmente le piastrine e quindi giungono i batteri, che formano le “colonie”, mescolati a globuli rossi e bianchi, fibrina e materiale di distruzione del tessuto valvolare. A volte i germi si moltiplicano in modo violento, formando vere e proprie ulcerazioni, ma più spesso la moltiplicazione è lenta. Poiché le vegetazioni sono costituite da materiale friabile, la loro rottura è frequente, comportando la reimmissione in circolo del materiale che comprende i microrganismi (batteriemia), e provocando nuove localizzazione in vari organi e tessuti: cute, mucose, reni, milza, cervello. QUADRO CLINICO I sintomi e i segni della infiammazione sono precoci e numerosi, anche se aspecifici: tra quelli generali la febbre di tipo continuo, quasi mai con brividi, con valori inferiori a 39°, compare nell’80-90% dei casi, mancando solo negli immunocompromessi o nei grandi anziani. Essa si accompagna ad inappetenza, perdita di peso e malessere; meno comuni sono sudorazione e cefalea. L’ascoltazione cardiaca può rivelare la comparsa di nuovi soffi o la modificazione di soffi preesistenti in oltre l’80% dei casi, ed indica la valvola interessata. La tachicardia è presente nella metà dei casi. La splenomegalia, oggi che la terapia antibiotica è disponibile, è rilevabile in non più del 50% dei casi, essendo un segno non precoce. Nella metà dei casi, sono riscontrabili petecchie nelle congiuntive, nella bocca, nella mucosa del palato, alle estremità; meno frequentemente si osservano i noduli di Osler, noduli teneri, piccoli come capocchie di spillo, ben visibili alle estremità delle dita e di durata da molte ore a pochi giorni. Le conseguenze emboliche della malattia comprendono: le macchie di Janeway, manifestazioni eritematose od emorragiche sulle palme delle mani o le piante dei piedi (7-10% dei malati), l’embolia splenica, l’infarto renale, l’occlusione embolica dell’arteria retinica; più rari gli ascessi embolici cerebrali con sindrome neurologica di focolaio. Tra le manifestazioni da immunocomplessi le più importanti sono le lesioni renali (insufficienza renale da glomerulonefrite con ematuria e iperazotemia), la presenza di anticorpi specifici per il fattore reumatoide o di anticorpi antisarcolemma tici ed antiendocardio. Altre manifestazioni sono l’insufficienza cardiaca da rottura di corde tendinee, l’emorragia cerebrale da rottura di emboli micotici, lo shock settico, l’insufficienza renale, che può riconoscere più meccanismi, compresa la terapia antibiotica in eccesso o con farmaci nefrotossici. Il laboratorio mostra reperti aspecifici quali gradi variabili di anemia, leucocitosi neutrofila, aumento della velocità di sedimentazione. Di estrema utilità è l’esecuzione di ripetute emoculture, volte all’isolamento del germe responsabile. L’emocultura conferma che si tratti di endocardite infettiva con batteriemia e permette di iniziare una terapia antibiotica mirata. Di solito i germi patogeni abituali danno positività della emocultura, ma in taluni casi, specie nelle forme su protesi valvolari da germi spesso poco patogeni, l’emocultura può non essere positiva inizialmente o esserlo in ritardo. Dati di notevole importanza offre l’ecocardiografia, per via transtoracica e sopratutto transesofagea: tale esame è oggi obbligatorio in ogni caso sospetto di endocardite infettiva. Esso mostra la presenza delle vegetazioni aderenti alle valvole o alle altre sedi della infezione, sotto forma di ammassi translucidi . L’ecografia transtoracica dà positività in circa il 65% dei casi, per cui è la prima ricerca da eseguire, quella transesofagea dà positività vere in oltre il 90%, per cui è obbligatoria nel sospetto fondato di endocardite se l’ecocardiografia transtoracica è negativa. Il significato prognostico delle vegetazioni è piuttosto controverso, anche se il rischio embolico è particolarmente frequente se le vegetazioni sono voluminose. Durante il decorso, le vegetazioni mostrano, quando la malattia tende alla guarigione, una riduzione, sino alla loro scomparsa nella metà dei casi, mentre restano invariate, anche a lungo termine, negli altri. In presenza di complicanze, ascessi dell’anello valvolare, aneurismi micotici dei seni di Valsalva, fistole, e così via, l’ecocardiografia è di grande valore. Elettrocardiogramma, radiografia del torace, immagini da TAC o RMN non forniscono di solito dati utili alla diagnosi dell’endocardite infettiva. Riconoscimento della malattia. Gli aspetti polimorfi della endocardite, specie oggi, visto che la terapia antibiotica ha modificato il quadro clinico, hanno sempre fornito difficoltà non piccole, per cui si è presto ricorsi alla ricerca di criteri di certezza. Oggi i criteri della Duke University , che classifica i dati disponibili in maggiori e minori, sono seguiti quasi senza eccezioni: due criteri maggiori o uno maggiore e tre minori o, in modo meno attendibile, cinque minori, sono considerati necessari per la diagnosi definiva. La difficoltà di riconoscimento della malattia, favorita dalla dimenticanza del postulato di Osler “qualsiasi processo febbrile che dura più di 5 giorni in un cardiopatico può essere endocardite infettiva” rende spesso tardivo il riconoscimento, per cui la diagnosi viene raggiunta dopo oltre due mesi, anche per la difficoltà di distinguere la malattia da altre patologie infettive e no, tra cui il lupus eritematoso, la brucellosi, la tubercolosi polmonare, le glomerulonefriti, le vasculiti, i tumori. Decorso, prognosi. La malattia è stata radicalmente modificata nel suo andamento e nella prognosi dall’avvento della terapia antibiotica e, in casi particolari, dalla chirurgia cardiaca. In assenza di trattamento, l’endocardite infettiva porta alla morte in circa il 90% dei casi; oggi oltre l’80% dei malati può guarire se la terapia, medica o chirurgica, è ben condotta. Chiaro è che una terapia iniziata tardivamente può portare alla compromissione della situazione cardiaca, soprattutto a un aggravamento di lesioni valvolari preesistenti. CENNI DI TERAPIA La terapia antibiotica è basata sulla identificazione del microrganismo responsabile e sulla dimostrazione della sensibilità del germe all’antibiotico. Il trattamento iniziale dovrebbe essere condotto con i dosaggi massimi del farmaco e per via endovenosa, in modo da assicurare una concentrazione costante per tutte le 24 ore. In caso di risposta positiva, la terapia va condotta per 4 settimane, e a partire dalla seconda è possibile il trattamento orale. In caso di endocardite ad emocultura negativa, si può iniziare una terapia empirica a largo spettro, che comprenda un macrolide ed un antibiotico attivo sui gram negativi a dosi elevate e, possibilmente, sostituito dalla terapia più adatta quando l’emocultura ha chiarito il microrganismo responsabile. La terapia chirurgica ha ben precise indicazioni, e può essere impiegata nelle seguenti condizioni: infezioni incontrollate dai farmaci, dopo due settimane, in presenza di germi particolari, quali stafilococco aureo nei tossicodipendenti con grave endocardite o lo pseudomonas o talune infezioni fungine; mancata risposta alla terapia antibiotica per presenza di grave insufficienza cardiaca; lesione valvolare mitralica aortica o di entrambe le valvole con decorso tempestoso; ascessi anulari, batteriemia persistente nonostante una terapia medica massimale, embolie ricorrenti; vegetazioni molto grandi in sede valvolare. Profilassi: poiché la malattia compare spesso dopo manovre mediche comportanti batteriemia (vedi sopra), queste dovrebbero essere precedute e seguite immediatamente da profilassi con antibiotici attivi sui gram positivi o negativi secondo le sede della manovra. La profilassi non risolve definitivamente il problema del rischio, ma ne riduce le probabilità: pertanto essa dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in cui la possibilità di una batteriemia è consistente. Per le manovre sull’apparato respiratorio o dentario, l’amoxacillina è abitualmente adeguata, ma può essere sostituita con la vancomicina o la clindamicina in caso di intolleranza: per le manovre comportanti il rischio di germi gran negativi, la gentamicina è il farmaco più largamente impiegato. entricolari e ventricolari, e ciascuna di queste classi ha diverse forme. Le bradicardie comprendono la bradicardia sinusale, il blocco seno-atriale e il blocco atrioventricolare. I battiti ectopici possono essere sopraventricolari (atriali e giunzionali) o ventricolari. BATTITI ECTOPICI DEFINIZIONE In condizioni normali, il ritmo cardiaco è governato dal nodo senoatriale, che rappresenta il naturale pacemaker del cuore e, a intervalli regolari, emette impulsi elettrici che depolarizzano tutto il miocardio. In particolari condizioni l’attivazione del cuore, o anche di parte di esso, può dipendere da un impulso che origina in una sede diversa dal nodo senoatriale; in tali casi l’impulso è definito ectopico e il battito che ne deriva è un battito ectopico. L’emissione di un impulso ectopico può essere “anticipata” rispetto al momento in cui è atteso il complesso del ritmo di base; in tali casi si generano dei battiti prematuri detti anche extrasistoli. A seconda della sede di origine, le extrasistoli possono essere distinte in atriali, giunzionali e ventricolari. Un battito ectopico può anche manifestarsi “in ritardo” rispetto al momento in cui era atteso un complesso del ritmo di base; il fenomeno si può verificare quando viene meno il battito normale, per cui un pacemaker secondario, solitamente “silente” perchè depolarizzato dalla scarica del segnapassi primario, dà origine a un impulso che attiva il miocardio. Questi complessi ectopici si manifestano dopo un ciclo più lungo di quello di base e sono definiti battiti di scappamento. Come le extrasistoli, anche i battiti di scappamento possono essere atriali, giunzionali o ventricolari. EXTRASISTOLI ATRIALI Sono riconoscibili per la presenza di: onda P prematura di morfologia differente da quella delle onde P sinusali; pausa postextrasistolica generalmente non compensatoria; QRS solitamente identico a quelli sinusali. Gli impulsi atriali prematuri sono generalmente condotti ai ventricoli in modo analogo a quanto avviene nei complessi di origine sinusale; tuttavia è possibile che, a causa della loro prematurità, trovino parte del sistema di conduzione ancora in stato di refrattarietà e vadano incontro a un rallentamento o blocco della conduzione. Il più delle volte è il nodo A-V a non avere ancora totalmente recuperato la propria eccitabilità e gli impulsi prematuri atriali possono essere condotti ai ventricoli con un intervallo PR prolungato rispetto a quello dei complessi di base o, se molto precoci, possono addirittura bloccarsi nella giunzione atrioventricolare e, in tal caso, la P prematura non è seguita da un QRS (extrasistole atriale non condotta). In altre occasioni, invece, il rallentamento o blocco della conduzione interessa il sistema di Purkinje e le extrasistoli atriali sono condotte con un blocco di branca (extrasistoli atriali condotte con aberranza). I battiti prematuri atriali sono una delle cause più comuni di irregolarità del ritmo cardiaco, anche se spesso il loro riscontro è casuale; in genere, richiedono un trattamento solo nei casi in cui sono scarsamente tollerati dal paziente o quando costituiscono un potenziale meccanismo di innesco di aritmie maggiori, quali il flutter e/o la fibrillazione atriale. EXTRASISTOLI GIUNZIONALI Questi impulsi prematuri hanno origine nel fascio di His, prima della sua suddivisione nelle branche, e sono considerati sopraventricolari dal momento che la diffusione dell’impulso all’interno dei ventricoli procede in modo analogo a quella degli impulsi sinusali o atriali. Sono caratterizzate da: QRS prematuro uguale a quelli del ritmo di base; assenza di rapporti tra il QRS prematuro e la P sinusale. L’onda P, infatti, può precedere il QRS extrasistolico, ma a una distanza più breve del normale e non compatibile con la conduzione AV, oppure può coincidere con il complesso ventricolare o anche manifestarsi immediatamente dopo di esso. In altri casi, invece, l’impulso prematuro attiva gli atri prima dell’impulso sinusale e si manifesta un’onda P dovuta alla retroconduzione dell’impulso giunzionale agli atri; in questo caso la P retrocondotta può precedere, seguire o anche coincidere con il QRS prematuro. EXTRASISTOLI VENTRICOLARI La diagnosi si basa sui seguenti elementi: QRS prematuri, slargati, differenti da quelli del ritmo di base; mancanza di rapporti precisi tra i QRS prematuri e le onde P sinusali o, in alternativa, comparsa di onde P retrocondotte che seguono i QRS extrasistolici; pausa postextrasistolica generalmente di tipo compensatorio. La diagnosi delle extrasistoli ventricolari è meno semplice quando il ritmo di base è una fibrillazione atriale e le onde P sono assenti. In questo caso, infatti, l’improvvisa comparsa di QRS larghi, differenti da quelli di base, potrebbe essere l’espressione di una conduzione aberrante degli impulsi sopraventricolari e non di un’origine ventricolare dei QRS. A volte asintomatiche, le extrasistoli ventricolari sono in genere più facilmente causa di cardiopalmo di quelle sopraventricolari soprattutto per la lunga pausa postextrasistolica che le caratterizza. La loro prognosi dipende dal contesto clinico: generalmente è favorevole nei soggetti esenti da cardiopatia, nei quali può non essere necessario alcun trattamento specifico, viceversa può essere sfavorevole in presenza di una cardiopatia, in particolar modo nel corso di eventi ischemici acuti. TACHICARDIE PAROSSISTICHE SOPRAVENTRICOLARI Rossella Troccoli, Matteo Di Biase DEFINIZIONE Si definisce tachicardia parossistica sopraventricolare (TPS) una sindrome clinica caratterizzata da una tachicardia rapida e regolare, con improvviso inizio ed improvvisa interruzione. La maggior parte delle TPS è dovuta ad un meccanismo di rientro (vedi Capitolo 36), che può realizzarsi nel nodo atrio-ventricolare (tachicardia da rientro nodale) oppure in un circuito che include atri, ventricoli, il normale sistema di conduzione (nodo AV, Fascio di His, Branche ) ed una connessione atrio-ventricolare anomala (tachicardia da rientro atrio-ventricolare). FIBRILLAZIONE E FLUTTER ATRIALE DEFINIZIONE La fibrillazione atriale (FA) è un’aritmia nella quale il ritmo cardiaco non è governato dal nodo del seno, ma si generano negli atri impulsi a frequenza elevata (fino a 600 al minuto), con cicli irregolari; solo alcuni di essi, però, sono condotti i ventricoli, mentre un numero più o meno grande di impulsi atriali va incontro a un blocco nel nodo atrioventricolare, per cui la frequenza ventricolare è molto minore di quella atriale. EZIOLOGIA Le cause della FA possono essere molteplici. In passato la patologia sottostante più frequente era rappresentata da patologie valvolari (soprattutto a carico della valvola mitrale), mentre nell’ultimo ventennio le malattie che più frequentemente determinano un aumento della pressione in atrio sinistro, con conseguente aumento di volume atriale e quindi maggiore predisposizione alla FA, sono l’ipertensione arteriosa e le cardiomiopatie. In circa il 30% dei casi non è identificabile nessuna patologia: in tali casi la FA viene definita come idiopatica o “alone fibrillation”. ELETTROGENESI E FISIOPATOLOGIA Diversamente da altre aritmie, la FA non ha un meccanismo elettrogenetico unico, ma più fattori concorrono a determinare la sua genesi e il suo mantenimento. Sono stati identificati, specialmente nelle vene polmonari, segnapassi capaci di emettere impulsi a frequenza molto elevata, ed inoltre si realizzano negli atri multipli circuiti di rientro, che operano indipendente gli uni dagli altri. Nella FA non esiste un unico fronte di attivazione che, partendo dal nodo del seno, invada progressivamente in maniera ordinata tutta la massa atriale in un tempo relativamente breve, ma si realizzano multipli fronti d’onda che, disordinatamente e in maniera continuamente variabile, attivano ciascuno una regione più o meno limitata dell’atrio. Mentre nel ritmo sinusale la depolarizzazione degli atri occupa solo una piccola parte del ciclo cardiaco (circa 70-90 millisecondi, come espresso dalla durata dell’onda P normale), nella FA l’atrio si attiva ininterrottamente: in ogni momento del ciclo cardiaco, infatti, vi sono aree atriali che si depolarizzano mentre altre zone si stanno ripolarizzando. Ciò spiega la presenza di onde atriali (onde f, vedi più avanti) per tutto il ciclo cardiaco. Da un punto di vista meccanico, la FA corrisponde ad una paralisi atriale: le singole fibrocellule si contraggono, ma la loro contrazione non è efficace nel favorire la progressione del sangue perchè non vi è sincronismo nell’attività delle diverse aree atriali, ciascuna delle quali si contrae in un momento diverso. La mancanza della spinta atriale non necessariamente compromette il riempimento diastolico ventricolare, soprattutto se la frequenza ventricolare non è elevata e se non vi è disfunzione ventricolare: anche quando il ritmo è sinusale, infatti, la maggior parte del sangue passa dall’atrio al ventricolo durante la proto e mesodiastole, cioè passivamente, e la contrazione dell’atrio interviene solo in telediastole a completare il riempimento ventricolare. Quando, invece, la funzione diastolica del ventricolo sinistro è compromessa (per esempio, per via dell’ipertrofia ventricolare) il ruolo della contrazione atriale diviene preminente nel favorire il riempimento ventricolare, per cui la FA, con la perdita dell’attività meccanica atriale, può provocare una importante riduzione della gittata cardiaca, ed essere causa determinante dello scompenso cardiaco. QUADRO CLINICO La sintomatologia della FA è legata alla irregolarità del ritmo ed alla frequenza ventricolare media generalmente elevata, ed è rappresentata dalle palpitazioni. In corso di FA vi è la perdita della contrazione atriale con conseguente possibile riduzione della gittata cardiaca e per tale ragione essa può anche manifestarsi con dispnea, affaticabilità, dolore toracico. In circa il 20% dei casi la FA è completamente asintomatica: e questo avviene frequentemente in soggetti con condizioni fisiologiche (ipertono vagale) che rallentino la conduzione atrio-ventricolare. Con la palpazione del polso radiale è di solito possibile apprezzare la completa irregolarità del ritmo e la variabile ampiezza dell’onda sfigmica. Quest’ultimo fenomeno esprime il rapporto tra gittata sistolica e durata della diastole: durante una diastole lunga il ventricolo ha la possibilità di ricevere una elevata quantità di sangue, per cui la gittata sistolica è abbondante e il polso è ampio; dopo una diastole breve, invece, il ventricolo è relativamente vuoto di sangue quando si contrae, e di conseguenza la gittata sistolica è modesta e il polso piccolo. Quando la diastole diventa brevissima, come in caso di elevata risposta ventricolare, in alcune (o in molte) delle contrazioni il ventricolo contiene così poco sangue da non riuscire provocare l’apertura delle cuspidi aortiche; in questo caso non si genera un’onda sfigmica e al polso il battito è del tutto assente. In questa situazione, la frequenza cardiaca valutata al polso è minore di quella reale (“deficit cuore-polso”): in pazienti con FA, perciò, la frequenza cardiaca va rilevata non solo al polso ma anche mediante ascoltazione cardiaca sul focolaio della punta. La frequenza ventricolare durante FA è influenzata in modo significativo dal tono del sistema nervoso autonomo: può diventare molto rapida quando aumenta il tono simpatico e diminuisce il tono parasimpatico, come accade durante esercizio fisico. Le complicanze della FA possono essere dovute alla sua irregolarità, alla elevata frequenza cardiaca e alla perdita della contrazione atriale. L’irregolarità e l’elevata frequenza cardiaca possono provocare una riduzione della funzione contrattile ventricolare sinistra, che in presenza di altre patologie concomitanti può esitare in scompenso cardiaco. La perdita della contrazione atriale, inoltre, determina un rallentamento del flusso ematico che facilita la formazione di trombi all’interno degli atri, specialmente nelle auricole. I trombi sono generalmente adesi alla parete atriale, ma possono anche staccarsi, specialmente quando, col ripristino del ritmo sinusale, l’atrio riprende a contrarsi. Un trombo formatosi nell’atrio sinistro può quindi, attraverso la circolazione sistemica, embolizzare in qualsiasi distretto periferico: non di rado viene colpito l’encefalo e si manifesta un ictus. La comparsa di scompenso, ma soprattutto le complicanze tromboemboliche, sono la causa dell’aumentata mortalità nei pazienti con FA. CLASSIFICAZIONE Sono stati proposti diversi schemi di classificazione clinica della FA, ma nessuno comprende in modo completo tutti gli aspetti dell’aritmia. Dal punto di vista clinico è utile distinguere un primo episodio documentato indipendentemente dai sintomi e dalla durata. Nel caso in cui il paziente presenti 2 o più episodi, la FA è considerata ricorrente. Se l’aritmia termina spontaneamente, la recidiva di FA viene definita parossistica; mentre se dura più di 7 giorni, la FA viene detta persistente. Nella FA persistente, il ripristino del ritmo sinusale (cardioversione) si ottiene con farmaci o con mezzi elettrici (vedi più avanti). La categoria della FA permanente comprende i soggetti nei quali la cardioversione è fallita o non è stata tentata. TRATTAMENTO Profilassi degli eventi cardioembolici Poiché la FA aumenta significativamente il rischio di eventi tromboembolici, esiste unanime consenso sul fatto che tutti i pazienti con patologia cardiaca valvolare e FA richiedano l’anticoagulazione con dicumarolici. In pazienti con FA non valvolare l’indicazione al trattamento anticoagulante dipende dal rischio tromboembolico calcolato in base ai fattori di rischio (scompenso cardiaco, ipertensione arteriosa, età > 75 anni, diabete mellito, precedente storia di ictus o TIA). E’ necessario comunque conoscere che la terapia anticoagulante con dicumarolici comporta un rischio di stroke emorragico pari all’1% per anno. Cardioversione Con tale termine si definisce l’interruzione della FA, con ripristino del ritmo sinusale. Quando la cardioversione non avviene spontaneamente, un episodio di FA persistente può essere interrotto eseguendo una cardioversione elettrica o farmacologica. La cardioversione elettrica (CVE) consiste nella somministrazione di una scarica elettrica per mezzo di due piastre applicate al torace del paziente, cui consegue l’azzeramento del potenziale di azione di tutte le cellule cardiache e quindi l’interruzione dell’aritmia. Numerosi farmaci antiaritmici possono essere utilizzati per eseguire una cardioversione farmacologica; tra questi il propafenone, la flecainide e l’amiodarone sono quelli maggiormente efficaci. Il successo della CV farmacologica dipende dalla durata della FA, raggiungendo l’80% in caso di FA con durata minore di 24 ore, mentre la percentuale di successo è inferiore al 35% in caso di FA persistente. Un rischio della cardioversione, indipendente dal fatto che il ripristino del ritmo sinusale sia spontaneo o indotto elettricamente o con farmaci, è che si verifichi un’embolia arteriosa sistemica. Se, infatti, durante il periodo in cui l’aritmia è stata presente si è formato un trombo in atrio sinistro, la ripresa della contrazione atriale favorisce il distacco del trombo, che migra quindi nel circolo sistemico. Per questo motivo si può cardiovertire elettricamente la FA se questa è insorta da meno di 48 ore, mentre se l’episodio di FA ha una durata maggiore, la cardioversione, sia elettrica che farmacologica, deve essere preceduta da un periodo di anticoagulazione efficace di almeno 4 settimane. Controllo del ritmo e controllo della frequenza Nei pazienti con FA, la terapia farmacologica può avere come scopo il mantenimento del ritmo sinusale (controllo del ritmo) o, nella FA permanente, il mantenimento di una frequenza ventricolare media accettabile (controllo della frequenza). La prima strategia viene scelta solitamente in soggetti giovani o molto sintomatici o con deterioramento emodinamico dovuto alla fibrillazione atriale. La seconda è generalmente preferita in pazienti anziani o paucisintomatici. Per il controllo del ritmo i farmaci antiaritmici più utilizzati (vedi Capitolo 58) sono quelli della classe I (chinidina, flecainide, propafenone) e III (sotalolo, amiodarone, dronedarone, azimilide). Tali farmaci hanno una efficacia nel mantenere il ritmo sinusale ad un anno che va dal 45-50% per quelli della classe I al 70-75 % per i farmaci della classe III. Purtroppo l’incidenza di importanti effetti collaterali coinvolge quasi un quarto dei pazienti trattati. In caso di inefficacia e/o di effetti collaterali della terapia farmacologica, la strategia del controllo del ritmo può essere perseguita utilizzando metodiche di ablazione transcatetere o chirurgiche che consistono nell’isolamento elettrico delle vene polmonari e nell’esecuzione di lesioni lineari . Per quanto riguarda il controllo della frequenza, evidenze cliniche hanno dimostrato come, soprattutto nei pazienti anziani, tale strategia possa risultare una valida alternativa terapeutica. Essa può essere raggiunta con l’impiego di tre diversi farmaci: la digossina più utilizzata nei pazienti con scompenso cardiaco, i ß-bloccanti generalmente più efficaci per il loro effetto nel controllo della frequenza sotto sforzo e i Calcio-antagonisti. FLUTTER ATRIALE DEFINIZIONE Il flutter atriale è un’aritmia caratterizzata da un’attivazione atriale regolare e rapida con una frequenza generalmente compresa tra i 240 e i 300/m’. La risposta ventricolare, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli, dipende dal nodo atrio-ventricolare, che funge da filtro, impedendo che la frequenza ventricolare raggiunga livelli troppo elevati. Generalmente la conduzione atrio-ventricolare avviene con un rapporto 2:1 (solo un impulso atriale su due è condotto ai ventricoli) ma talora può presentare rapporti di conduzione diversi (3:1, 4:1, 3:2). L’incidenza del flutter atriale nella popolazione generale è stimata in 88 su 100000 abitanti. Molto spesso il flutter atriale si associa a fibrillazione atriale; la maggior parte dei casi si verifica in presenza di una condizione predisponente o di una malattia cardiaca strutturale. QUADRO CLINICO I sintomi del flutter atriale sono simili a quelli della fibrillazione atriale e dipendono in larga misura dalla frequenza ventricolare: il disturbo più comune è la palpitazione, ma possono anche verificarsi vertigini, dispnea, debolezza, e raramente angina o sincope. CLASSIFICAZIONE Il flutter atriale si presenta all’ECG con una serie di onde atriali (onde F) regolari, a frequenza intorno a 300 al minuto; il numero dei complessi ventricolari è quasi sempre minore, dato che solo alcuni impulsi atriali vengono condotti ai ventricoli. In base alla morfologia delle onde F, il flutter si distingue in tipico ed atipico. Nel flutter atriale tipico le onde F hanno un aspetto a dente di sega, e si susseguono senza interruzione, non essendo separate da linea isoelettrica; nel flutter atipico, invece, le onde F non hanno morfologia a denti di sega e sono separate da linea isoelettrica. Nel flutter tipico comune (antiorario) le onde F sono negative nelle derivazioni inferiori (II, III, aVF) e positive in V1, mentre nella forma non comune (oraria) hanno polarità positiva nelle derivazioni inferiori e negativa in V1. TRATTAMENTO Il trattamento del flutter atriale può avere come scopo il mantenimento di una frequenza ventricolare non troppo elevata oppure l’interruzione dell’aritmia. I calcioantagonisti e i beta-bloccanti (vedi Capitolo 58) sono farmaci di prima scelta per rallentare la frequenza ventricolare, poiché essi aumentano la refrattarietà del nodo A-V e quindi diminuiscono il numero degli impulsi atriali che raggiungono i ventricoli. Per far cessare il flutter atriale e ripristinare il ritmo sinusale, viene comunemente impiegata l’ibutilide somministrata per via endovenosa . Un altro metodo efficace per interromper il flutter è la cardioversione elettrica (vedi il paragrafo “Trattamento” della sezione Fibrillazione atriale). Come per la fibrillazione, anche i pazienti con flutter atriale che dura da più di 48 ore richiedono un opportuno periodo di scoagulazione. Anche la stimolazione elettrica atriale può efficacemente porre fine al flutter; essa si esegue con un elettrocatetere introdotto nell’atrio destro per via venosa oppure con un elettrodo inserito nell’esofago e posto a stretto contatto con l’atrio sinistro, che si trova in immediata continuità con l’esofago. Gli stimoli elettrici ad elevata frequenza, erogati da un apposito stimolatore, possono far cessare il flutter perché rendono refrattaria una parte del circuito di rientro, impedendo l’ulteriore progressione dell’impulso e quindi il perpetuarsi dell’aritmia. E’ possibile curare il flutter atriale radicalmente, rendendo inagibile in modo definitivo il circuito di rientro mediante un intervento di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61). Nel flutter tipico l’ablazione viene eseguita inserendo un elettrocatetere nel cuore destro ed inducendo, con erogazioni di energia a radiofrequenza, una lesione stabile a livello dell’istmo cavo-tricuspidalico. Quando questo tessuto diventa incapace di condurre l’impulso, l’aritmia non può più essere scatenata per l’impossibilità che l’impulso percorra il circuito, una parte del quale è divenuta ineccitabile in seguito al trattamento. TACHICARDIE VENTRICOLARI DEFINIZIONE Si definisce tachicardia ventricolare (TV) una successione di almeno 3 battiti ectopici di origine ventricolare con frequenza =100 al minuto. La TV viene classificata come sostenuta se ha durata >30 secondi o, pur avendo durata inferiore, richiede un immediato intervento terapeutico per l’insorgenza di grave compromissione emodinamica, e non sostenuta se ha durata inferiore a 30 secondi. In base alla morfologia dei complessi ventricolari all’elettrocardiogramma, la TV si definisce monomorfa se tutti i QRS sono identici e polimorfa quando sono evidenti variazioni nella configurazione del QRS. Si distinguono, inoltre, le forme seguenti: TV Iterativa (episodi di TV non sostenuta a regressione spontanea, generalmente a frequenza <150 b/m), TV Incessante (persistente per oltre l’80% della giornata), TV lenta (a frequenza compresa tra 100 e 150 b/m). EZIOLOGIA Le TV possono verificarsi in presenza o in assenza di alterazioni anatomiche macroscopicamente evidenti del cuore. In quest’ultimo caso esiste un’alterazione anatomica di dimensioni troppo piccole per essere messa in evidenza dai comuni presidi diagnostici (tachicardie cosiddette idiopatiche) o esiste un difetto funzionale dei canali ionici, generalmente su base congenita (per esempio, sindrome del QT lungo congenito, Sindrome di Brugada). Le forme idiopatiche costituiscono circa il 10% di tutte le TV. Le TV che si associano ad una alterazione anatomica del cuore possono complicare, talora con significato di evento terminale, tutte le cardiopatie, alcune in particolare. TV ASSOCIATA AD ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE La Cardiopatia ischemica rappresenta il principale fattore eziologico della TV: nell’infarto miocardico acuto una TV sostenuta si presenta nel 5-10% dei casi, ed è frequente anche in pazienti con pregresso infarto miocardico. In seguito alla necrosi miocardica, infatti, si creano aree adiacenti non omogenee costituite da tessuto fibroso e miocardio vitale, che rappresentano il substrato ideale per il rientro. Nella Cardiomiopatia dilatativa, la TV fa parte della storia naturale (vedi Capitolo 29). La morte improvvisa, in questi pazienti, è prevalentemente tachiaritmica (80%) nelle classi NYHA meno avanzate (II-III), mentre nelle fasi più avanzate incidono anche le bradicardie, la dissociazione elettromeccanica e le tromboembolie. La frazione d’eiezione ridotta e la comparsa di sincope sono i fattori maggiormente predittivi di morte improvvisa nella cardiomiopatia dilatativa. Nella Cardiomiopatia ipertrofica la presenza, oltre che di ipertrofia ventricolare, di malallineamento dei miociti (disarray) rappresenta il substrato per la genesi di aritmie ventricolari (vedi Capitolo 28). Non raramente questa cardiopatia si manifesta per la prima volta con sincope o con morte improvvisa aritmica in pazienti prevalentemente giovani e peraltro asintomatici. La presenza di una marcata ipertrofia ventricolare sinistra, di una storia familiare di morte improvvisa, di sincope, risultano altamente predittivi del rischio di morte improvvisa in questi pazienti. La Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro si manifesta essenzialmente con aritmie ventricolari maligne e in particolare con TV sostenuta con morfologia tipo blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 31). Nella Stenosi aortica circa il 20% dei pazienti muore improvvisamente per aritmie ventricolari maligne (vedi Capitolo 16). Anche il Prolasso valvolare mitralico, quando è di entità severa, con rilevante insufficienza valvolare, può dare luogo alla comparsa di aritmie, inclusa la TV (vedi Capitolo 15). TV IN ASSENZA DI ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE Può verificarsi per difetto funzionale dei canali ionici (Sindrome del QT lungo, Sindrome di Brugada), per l’effetto di farmaci, squilibri elettrolitici o ipossia. La Sindrome del QT lungo (LQTS) è una malattia su base genetica, caratterizzata da alterazioni strutturali dei canali ionici, in grado di provocare un’anomalia nella ripolarizzazione delle cellule cardiache (vedi Capitolo 43). In questi pazienti, la sincope, che può esitare in morte improvvisa, è causata dall’insorgenza di una “torsione di punta”, una tachicardia ventricolare polimorfa, caratterizzata da complessi QRS di ampiezza variabile e con progressiva inversione di polarità. La morte improvvisa può essere determinata dalla degenerazione della torsione di punta in una fibrillazione ventricolare. La Sindrome di Brugada è una malattia elettrica primaria su base genetica, in cui all’alterazione di un canale ionico consegue l’accorciamento del potenziale d’azione, soprattutto a livello epicardico, per cui si crea un gradiente elettrico dopo la completa attivazione del miocardio ventricolare. Ciò è responsabile di alcune alterazioni dell’ECG di base (onda J, sopraslivellamento di ST in V1 e V2) e della possibilità di innesco di tachicardia ventricolare. (vedi Capitolo 43). Alcuni Farmaci, ad esempio digitale, simpaticomimetici, antiaritmici ed alcuni Squilibri idroelettrolitici come Ipokaliemia, iperkaliemia, ipercalcemia, possono provocare una TV. CONSEGUENZE EMODINAMICHE I principali fattori che incidono nel deterioramento emodinamico indotto dalla TV sono: 1) la frequenza, 2) il mancato coordinamento fra gli atri e i ventricoli, 3) l’attivazione eccentrica del miocardio. Per frequenze elevate, la fase di riempimento diastolico risulta compromesso e diviene insufficiente per permettere l’adeguato riempimento ventricolare, per cui la portata si riduce la pressione arteriosa tende a cadere. Nella TV, inoltre, vi è in circa il 50% dei casi la dissociazione fra l’attivazione atriale e quella ventricolare, mentre nel restante 50% l’impulso ventricolare viene retrocondotto agli atri. In questi casi, la contrazione atriale si verifica sempre (retroconduzione) o spesso (dissociazione) a valvole AV chiuse, con aumento della pressione atriale, inversione del flusso dall’atrio alle vene e perdita totale del contributo atriale al riempimento ventricolare. Un altro fenomeno che caratterizza le TV è l’attivazione eccentrica del miocardio. L’attivazione del miocardio ventricolare secondo le normali vie di conduzione del segnale elettrico è necessaria per una contrazione efficace dei ventricoli. Nella TV, invece, l’attivazione ventricolare è abnorme: dal punto di origine dell’ aritmia (circuito o focus ) l’impulso segue vie non fisiologiche, con il risultato di una desincronizzazione tra le varie parti dei ventricoli, in grado di compromettere l’efficacia della contrazione La funzione ventricolare sinistra e l’eziologia della TV ne influenzano in modo determinante le manifestazioni cliniche. In un cuore sano, con normale frazione di eiezione, il quadro emodinamico è compromesso solamente per le caratteristiche intrinseche della TV (frequenza, dissociazione ed eccentricità). Una TV in un paziente con severa disfunzione ventricolare sinistra (bassa frazione di eiezione), invece, può determinare importanti riduzioni di portata cardiaca anche a frequenze non molto elevate. QUADRO CLINICO La sintomatologia della TV è estremamente variabile, e si possono osservare tanto pazienti asintomatici quanto pazienti che arrivano a presentare sincope o arresto cardiocircolatorio. I fattori fondamentali nel determinare la sintomatologia sono la frequenza dell’aritmia, la durata della stessa e la cardiopatia di base. La sensazione più comunemente riportata dai pazienti è quella del cardiopalmo, legata all’aumento della frequenza delle contrazioni ventricolari. In certi casi il paziente può riferire angor legato in questo caso alla discrepanza (squilibrio tra richiesta e apporto di O2) soprattutto nei pazienti che presentano di base una cardiopatia ischemica. Altro sintomo può essere la dispnea, associata alla slatentizzazione di un sottostante scompenso cardiaco. All’esame obiettivo va posta particolare attenzione al polso che si presenterà frequente, piccolo e ritmico. Un dato non raro, e generalmente sottovalutato, è la variabilità dell’ampiezza del polso, che si rileva in presenza di dissociazione atrioventricolare, cioè in circa il 50% dei casi. Quando l’attività ventricolare è dissociata da quella atriale, la contrazione degli atri potrà avvenire in qualunque momento del ciclo cardiaco; se essa cade a valvole A-V chiuse non ci sarà alcun contributo dell’atrio al riempimento ventricolare, mentre quando gli atri si contraggono poco prima della sistole ventricolare, nella fase in cui le valvole A-V sono aperte, aumenterà il riempimento ventricolare, e con esso la gittata sistolica di quel battito. In questa circostanza anche l’ampiezza del polso sarà maggiore rispetto a quando gli atri si contraggono a valvole A-V chiuse, e poiché la corretta sincronizzazione A-V (onda P poco prima del QRS) è casuale, si avrà ogni tanto una pulsazione più ampia, pur mantenendosi ritmico il polso. L’ascoltazione cardiaca evidenzierà toni ritmici e tachicardici, con a volte variabile intensità del I tono (la genesi di questo fenomeno è identica a quella che governa la variabile ampiezza del polso), mentre quella polmonare potrà essere silente o evidenziare rumori umidi (rantoli a piccole o medie bolle) nel caso in cui la tachicardia ventricolare porti ad un quadro di edema polmonare. Infine, a seconda della compromissione emodinamica, subentrano quelli che sono i sintomi legati alla bassa portata quali l’ipotensione (sudorazione, pallore, etc.), le vertigini o la sincope (per ipoperfusione della sostanza reticolare). CENNI DI TERAPIA Bisogna innanzitutto differenziare la terapia da effettuare in acuto rispetto a quella volta a prevenire le recidive. Nei casi di TV con compromissione emodinamica trovano spazio innanzitutto presidi elettrici quali il DC Shock sincronizzato (scariche di defibrillatore a 200-250 joules) o il pacing ventricolare (stimolazione a frequenze superiori a quelle dell’aritmia nel tentativo di interromperla). Per quanto riguarda l’approccio farmacologico, il farmaco più comunemente usato in acuto è la Lidocaina. In alternativa, è possibile usare l’Amiodarone, la Mexiletina o il Propafenone a seconda dell’eziologia della TV e dalla cardiopatia di base del paziente. Per la prevenzione delle recidive va innanzitutto chiarita l’eziologia della TV (strutturale o idiopatica) e va fatta un’attenta valutazione del paziente, comprendente un Holter (ECG dinamico delle 24 ore) e, se necessarie, indagini invasive (studio elettrofisiologico, coronarografia). La profilassi delle recidive verrà condotta esclusivamente con terapia farmacologia (amiodarone, mexiletina, ß-bloccanti) nei pazienti a minor rischio, mentre i farmaci verranno affiancati da supporti elettrici (defibrillatore impiantabile) nei pazienti con rischio più elevato di recidive, soprattutto in quelli con grave disfunzione ventricolare. SINCOPE La sincope è una perdita improvvisa della coscienza e del tono muscolare, di breve durata e a risoluzione spontanea. E’ la conseguenza dell’ischemia generalizzata di entrambi gli emisferi cerebrali e/o del tronco. La sincope è un sintomo comune a molte malattie, al pari della febbre o dell’anemia. La sua importanza deriva da due considerazioni: la prima, esclusivamente medica, che la sincope può essere anticipatrice di una morte improvvisa nel futuro prossimo; la seconda, riguardante il grande impatto emotivo sull’individuo che ne soffre e sulla famiglia, che la sincope rappresenta una vera interruzione della vita, anche se breve ed a risoluzione spontanea, così da far pensare che l’esperienza si possa ripetere con risultati non altrettanto favorevoli. Se l’etimologia della parola significa “interrompere” (dal greco) bisogna ben considerare che “the only difference between syncope and sudden death is that in one you wake u p”. Il momento fisiopatologico determinate della sincope è la ipoperfusione dell’encefalo, ma ciò non significa che il fenomeno dipenda necessariamente da una ipotensione acuta e transitoria. I fattori determinanti la pressione arteriosa sono il volume circolante nel distretto arterioso, la gittata cardiaca, e le resistenze periferiche. Le alterazioni di uno o più di questi parametri possono portare alla sincope. La riduzione della gittata cardiaca può conseguire a diminuzione della gittata sistolica, a critiche variazioni della frequenza cardiaca (tachicardie o bradicardie estreme ) o a diminuzione del volume circolante; la riduzione delle resistenze periferiche è l’effetto di mediatori fisiologici o patologici (farmaci con azione simpaticolitica, eventi riflessi, malattie neurologiche). E’ fondamentale tener presente che varie malattie possono mimare la sincope, soprattutto le epilessie generalizzate non convulsive (crisi di piccolo male), i disturbi del sonno e le forme psicogene (crisi di ansia generalizzata). EPIDEMIOLOGIA La sincope è molto frequente. Si calcola che nel nostro paese vi siano oltre 100.000 casi/anno. Il 75% della popolazione sana va incontro ad almeno un episodio sincopale in un arco di tempo di 26 anni; nei nostri Ospedali la sincope rappresenta il 3% delle presentazioni, e nel 25 % dei casi si manifesta una recidiva. La sincope colpisce tutte le età, con un’incidenza progressivamente crescente con il passare del tempo. La ricorrenza della sincope è molto frequente, stimata al 30% della popolazione che già ne ha sofferto. CLASSIFICAZIONE La sincope è una fra le transitorie perdite di coscienza. Una adeguata classificazione deve prendere in considerazione anche quelle affezioni che possono mimare la sincope, per poter avviare una adeguata diagnosi differenziale. Queste situazioni vengono spesso indicate come “syncope like” La sincope può essere classificata come segue. Neuromediata: vasovagale, situazionale, sindrome da ipersensibilità del seno carotideo, nevralgia glossofaringea e trigeminale Ipotensione ortostatica: disautonomia, farmaci, deplezione di volume Aritmica Cardiopatia strutturale: cardiopatia ischemica, cardiomiopatie , cardiopatie con ostruzione all’efflusso Cerebrovascolare: furto della succlavia Syncope like Epilessia generalizzata Sincope psicogena: attacchi di panico, ansia generalizzata Ipossiemia acuta transitoria: intossicazione da CO, esposizione a base concentrazioni di ossigeno La sincope neuromediata è la forma più comune, e consegue ad un riflesso che può essere scatenato da molteplici fattori (odori, dolore, emozioni, vista di episodi sgradevoli, prolungata stazione eretta). In genere si accompagna ad un insieme di sintomi (nausea e/o vomito, pallore, sudorazione) la cui presenza permette un alto grado di sospetto. La sincope da ipersensibilità del seno carotideo (SSC), frequente nella popolazione anziana, è caratterizzata dal fatto che uno stimolo anche lieve, portato nella zona del seno carotideo (massaggio del seno carotideo – MSC) diventa efficiente nel provocare la sintomatologia. Questo ha un’evidente corrispondenza in clinica nella comparsa degli episodi spontanei. La sincope situazionale, più frequente nel giovane, permette una diagnosi di certezza solo su base anamnestica (minzione, defecazione, deglutizione). Marker diagnostico di tutte le forme neuromediate, quando esse sono colte dall’osservatore o provocate in laboratorio durante il tilt test o il MSC, è la presenza di bradicardia e/o ipotensione da vasodilatazione, con differente prevalenza dei due aspetti patogenetici La sincope ortostatica è comune, e si manifesta a seguito dell’assunzione della posizione eretta. Può essere accompagnata da sintomi che esprimono la riduzione più o meno rapida della pressione arteriosa in ortostatismo (sensazione di testa vuota, vertigine, astenia) con recupero della sensazione di benessere alla riassunzione della posizione seduta o distesa. Una disfunzione autonomica deve essere sospettata nell’anziano, associata o meno a sintomi di malattie sistemiche (amiloidosi e diabete) o neurologiche degenerative (Morbo di Parkinson). Altre cause sono l’uso di farmaci ipotensivi o di diuretici e alcune malattie endocrine (Ipocorticosurrenalismo primitivo o secondario). Le aritmie cardiache sono causa di sincope quando inducono un’eccessiva bradicardia o tachicardia. Entrambi i fenomeni provocano la caduta della gittata cardiaca e quindi della perfusione cerebrale. Le bradicardie secondarie a disfunzione del nodo del seno (sick sinus sindrome) e quelle legate a disturbi della conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 40), sono le più frequenti, seguite dalle tachicardie ventricolari (vedi Capitolo 39). La perdita di coscienza si può verificare all’inizio dell’aritmia o alla fine, quando interrompendosi improvvisamente il ritmo anomalo, si registra una pausa prolungata che precede il recupero del ritmo normale. La sick sinus syndrome (SSS) esprime una combinazione di bradicardia (sinusale, pause sinusali, blocchi senoatriali ) e di tachicardia, in genere flutter o fibrillazione atriale. I periodi di bradiaritmia sono considerati più frequentemente in causa nella patogenesi della sincope. I disturbi della conduzione AV possono esser causa di sincope. Si deve dare poca importanza al blocco AV di I grado e a quello di II grado tipo Mobitz I (Wenckebach), mentre più frequente è la sincope in corso di blocco AV di II grado tipo Mobitz II o di blocco AV di III grado. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo 39) è una frequente causa di sincope. La sindrome del QT lungo congenita o acquisita (vedi Capitolo 42) favorisce la comparsa di una tachicardia ventricolare a torsione di punta, specialmente in associazione a periodi di bradicardia o in concomitanza di ipokaliemia. La tachicardie sopraventricolari sono di rado causa di sincope, solo quando si associano a bassa gittata; in genere i soggetti anziani sono quelli che presentano più frequentemente la sincope in corso di tachicardia sopraventricolare . La malattie cerebrovascolari sono cause rare di sincope. In particolare il furto della succlavia (vedi Capitolo 53) provoca, in condizione critiche, una ipoperfusione a livello del circolo cerebrale posteriore che rientra fra gli attacchi ischemici transitori. Le situazioni raggruppate sotto la dizione “syncope like” comprendono un’ampia varietà di condizioni morbose, che vanno da crisi epilettiche generalizzate non convulsive associate a ipotonia muscolare (attacchi di piccolo male), a episodi critici in corso di ansia generalizzata (crisi di panico), a disturbi del sonno, a episodi di amnesia globale transitoria. Alcune di queste evenienze sono di facile diagnosi, se accadono in presenza di testimoni che possono descrivere il comportamento dei paziente, ma sono di difficile inquadramento quando il paziente ne soffre senza che alcuno sia presente all’episodio critico. DIAGNOSI L’obiettivo primario della strategia diagnostica è definire il profilo di rischio del paziente: l’obiettivo fondamentale a cui devono mirare le indagini è l’esclusione di una patologia cardiaca. Quando questa possa essere esclusa, l’identificazione della causa della sincope permetterà di mettere in atto una serie di provvedimenti che migliorino la qualità di vita e riducano la morbilità associata. Una volta esclusa la patologia aritmica (bradicardie o tachicardie critiche), il medico ha a che fare con una sincope anamnestica. E’ quindi necessario un algoritmo diagnostico che miri alla individuazione delle cause cardiogene e, una volta escluse queste, alla ricerca di altre malattie. L’anamnesi è il momento diagnostico più importante poiché permette la diagnosi in oltre il 70% dei casi, specialmente quando essa può essere confermata da un testimone. Nella pratica clinica, occorre richiedere al paziente di concentrarsi e descrivere l’ultimo evento critico, poiché si presuppone che esso sia più facilmente riferibile, e successivamente valutare e confrontare con l’ultimo gli episodi precedenti. Alcuni elementi sono fortemente indicativi per la diagnosi: si devono valorizzare precedenti patologici quali la presenza di cardiopatia, di malattie del sistema nervoso centrale, (per esempio, malattia di Parkinson, epilessia), di morte improvvisa nella famiglia, della recente assunzione di farmaci, di malattie psichiatriche Nel dare un peso ai sintomi e ai segni rilevabili durante la raccolta dell’anamnesi si deve ricordare che nelle forme ospedalizzate la sincope neuromediata giustifica il 66% delle osservazioni, la forma cardiogena ne comprende l’11% e le forme sincope-like rappresentano il 6% della casistica. La perdita di coscienza in soggetto con età superiore a 54 anni, con meno di due episodi, in associazione a palpitazioni orienta per una forma cardiogena, mentre l’associazione di nausea, sudorazione, visione confusa o sensazione di testa vuota che precedono o seguono la sincope è indicativo di una forma neuromediata. La sincope cardiogena appare molto probabile quando vi è rilievo anamnestico di cardiopatia, mentre l’assenza di cardiopatia anamnestica esclude la sincope cardiogena nel 97% dei pazienti. CENNI DI TERAPIA A stretto rigore di termini dobbiamo parlare di prevenzione delle recidive sincopali piuttosto che di terapia della sincope. I nostri sforzi sono diretti a prevenire nuovi episodi sincopali trattando la malattia e i meccanismi patogenetici che sottendono la sincope. La sincope neuromediata o vasovagle, di gran lunga la forma più frequente, ha poche possibilità di un’efficace prevenzione. Molti sono infatti i fattori scatenanti che devono essere individuati ed evitati. Il paziente deve essere educato ad evitare tutte le condizioni favorenti e scatenanti il riflesso patogeneticamente efficiente, come gli ambienti affollati, i luoghi con temperatura eccessiva, le condizioni fisiche e farmacologiche che favoriscono la disidratazione e l’ipovolemia. Egli dovrà essere sensibilizzato al riconoscimento dei sintomi premonitori e dovrà conoscere le manovre che sono in grado di far abortire la crisi sincopale, prima fra tutte il mettersi in posizione supina non appena egli avverte i sintomi premonitori. Il soggetto deve essere rassicurato sulle sue condizioni di salute e reso edotto della benignità dell’evento di cui ha sofferto e della possibilità di una recidiva, al fine di evitare gli aspetti psicologici, come ansia e depressione, che possono accompagnare uno o più episodi sincopali. In caso di sincope vasovagale ricorrente e in pazienti molto motivati, la prescrizione di periodi prolungati di postura eretta od altre manovre fisiche specificamente orientate possono essere utili nel ridurre gli episodi ricorrenti. Scarsa indicazione trovano oggi, alla luce delle esperienze attuali, i numerosi farmaci che sono stati proposti in passato quali i (-bloccanti e i vasocostrittori. L’impianto di un pacemaker si è dimostrato efficace nella Sindrome del seno carotideo cardioinibitoria, di cui è ormai diventato il trattamento di scelta. Lo stesso non si può dire per la sincope vasovagale, che è stata oggetto di numerosi trial in cui il braccio terapeutico efficace era rappresentato da un pacemaker. Dopo alcuni studi condotti su popolazioni limitate di pazienti e non in doppio cieco, è stata dimostrata la non superiorità del trattamento con pacemaker rispetto al placebo. L’efficacia dei pacemaker, invece, è dimostrata in tutte le forme da disfunzione del nodo sinusale o da blocco AV (vedi Capitolo 40). Le tachicardie parossistiche sopraventricolari hanno indicazione all’uso di farmaci antiaritmici, ed in realtà molte se ne giovano, anche se transitoriamente. L’uso sempre più diffuso delle tecniche di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 60) ha permesso il successo anche nei casi non sensibili ai farmaci, evitandone gli effetti collaterali e rendendo permanente l’efficacia della terapia. Quando è la tachicardia ventricolare a indurre la sincope, trova indicazione il trattamento farmacologico o l’impiego di specifici device. I farmaci antiaritmici di Classe I (vedi Capitolo 58) non sono indicati per il loro effetto inotropo negativo; l’amiodarone è invece il farmaco di scelta per la virtuale assenza di effetti inotropi negativi. In alternativa, si può impiegare il defibrillatore impiantabile (ICD, implantable cardioverter defibrillator), che riconosce la tachicardia e la fibrillazione ventricolare e la tratta con uno shock elettrico in grado di interromperla IPERTENSIONE ARTERIOSA Definizione ed epidemiologia Per “Ipertensione arteriosa” si intende una condizione clinica morbosa caratterizzata da un aumento anomalo stabile, e non legato a normali variazioni fisiologiche, dei livelli di pressione arteriosa. Tale aumento riguarda più frequentemente entrambe le pressioni sistolica e diastolica, ma esistono forme di ipertensione caratterizzate da aumento solo della pressione sistolica (ipertensione sistolica isolata), condizione più frequente negli anziani, o più raramente solo della diastolica. In base alle ultime Linee Guida europee sulla gestione clinica del paziente iperteso, la presenza di ipertensione arteriosa viene definita arbitrariamente da valori di pressione arteriosa > 140 mmHg per quanto riguarda la pressione sistolica e/o > 90 mmHg per quanto riguarda la pressione diastolica. Sulla base dei livelli pressori inoltre, la malattia ipertensiva può essere classificata in 3 diversi gradi di severità clinica (grado I: 140-159/90-99 mmHg; grado II: 160-179/100-109 mmHg; grado III: > 180/>110 mmHg) che, come è intuibile, possono avere un diverso impatto sulla storia naturale della malattia. L’ipertensione arteriosa viene definita “essenziale” quando non è possibile risalire ad una eziologia chiaramente identificabile alla base del suo sviluppo, e questa rende conto di oltre il 90% dei casi di ipertensione arteriosa. Di contro, quando l’aumento dei valori pressori è secondario a disordini d’altra natura, l’ipertensione arteriosa viene definita “secondaria”. L’ipertensione arteriosa essenziale è una condizione di enorme rilevanza epidemiologica, pressoché ubiquitaria nel nostro pianeta. Nella maggioranza dei casi, interessa soggetti adulti con prevalenza direttamente correlata all’età. Si presume che nel mondo vi siano circa 690 milioni di soggetti attualmente affetti da ipertensione arteriosa. La prevalenza nella popolazione generale è di circa il 20%, ma sale ad oltre il 50% nella popolazione d’età superiore ai 60 anni. Per quanto riguarda il sesso, la prevalenza d’ipertensione è maggiore nei maschi quando si considerano soggetti con età inferiore ai 50 anni, mentre è uguale tra i 2 sessi per età superiori. In termini sociali, l’ipertensione arteriosa è più frequente nelle zone urbane rispetto a quelle rurali, in particolare nei quartieri meno agiati, nonché nei Paesi industrializzati, mentre per quanto riguarda la razza, la prevalenza d’ipertensione è maggiore in quella nera. In base a queste considerazioni si prevede che entro il 2025 vi saranno nel mondo oltre 1 miliardo e 200 milioni di ipertesi, con un impatto di gran lunga superiore a qualunque altra condizione in termini di “carico di malattia”. EZIOPATOGENESI E FISIOPATOLOGIA Eziopatogenesi e fisiopatologia Se l’ipertensione di tipo secondario riconosce i suoi fattori eziopatogenetici nella malattia primitiva a cui è associata, alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale vi sono molti fattori causali per lo più non identificati. L’ipertensione arteriosa essenziale può essere definita una malattia multifattoriale, dove elementi di tipo genetico ed ambientale agiscono sinergicamente su numerosi processi biochimici e metabolici che a loro volta sono alla base del suo sviluppo. Tra i fattori ambientali, i più importanti sono legati allo stile di vita e all’alimentazione, e sono la sedentarietà, lo stress psichico, l’abitudine tabagica, una dieta ipersodica ed iperlipidica, ed il frequente ed eccessivo consumo di alcool e caffè. Tra i fattori genetici identificati e più probabilmente coinvolti, vanno annoverati invece quelli determinanti una maggiore attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, un aumento costituzionale del tono adrenergico, un aumento della risposta vascolare a sostanze vasocostrittrici quali l’endotelina, una ridotta escrezione renale di sodio ed infine una ridotta sintesi endoteliale di sostanza vasodilatanti (prostacicline, EDRF etc…). Fisiologicamente la pressione arteriosa è determinata dal prodotto delle resistenze periferiche per la gittata cardiaca, la quale è a sua volta la risultante del prodotto della frequenza cardiaca per la gittata sistolica. Pertanto è proprio sulle resistenze periferiche, la frequenza cardiaca e la gittata sistolica che agiscono i differenti meccanismi fisiologici che regolano la pressione arteriosa. Per esempio, le resistenze periferiche sono condizionate dal sistema simpatico, che regola il tono vascolare, così come lo è la frequenza cardiaca, mentre la gittata sistolica è prevalentemente regolata dalla contrattilità miocardica e dal precarico, a sua volta correlato alla volemia. In generale, i meccanismi preposti al controllo della pressione arteriosa possono essere distinti in meccanismi a breve, medio e lungo termine. Tra i meccanismi a breve termine possono essere annoverati i sistemi baro- e chemo-recettoriali, che modificano in pochi secondi il tono simpatico modulando l’attività cardiaca, il tono arteriolare e i livelli pressori. I meccanismi a medio termine sono invece quelli di tipo umorale mediati principalmente dal sistema renina-angiotensina-aldosterone, dalla vasopressina e dal sistema delle chinine. Il rene è invece deputato al controllo a lungo termine della pressione arteriosa, principalmente attraverso la regolazione della volemia. Pertanto qualsiasi alterazione patologica dei suddetti determinanti fisiologici della pressione arteriosa e dei suoi meccanismi di regolazione può determinare l’insorgenza di uno stato ipertensivo. In particolare, tra i meccanismi fisiopatologici responsabili dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale quelli maggiormente implicati sono legati ad un’alterata omeostasi elettrolitica soprattutto del sodio, al rimodellamento vascolare, ad un’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad una ridotta sensibilità insulinica ed in ultimo ad una funzione endoteliale alterata. Un aumento delle concentrazioni organiche di sodio è sicuramente coinvolto nella genesi della malattia ipertensiva, in particolare attraverso un aumento del volume plasmatico ed un aumento delle resistenze periferiche. Tuttavia studi clinici hanno mostrato come solo in una frazione (20-30%) dei soggetti ipertesi una riduzione dell’introito di sodio determini una significativa riduzione dei valori pressori. Sulla base di tale risposta individuale alla riduzione dell’introito di sodio è stata coniata la definizione di ipertensione arteriosa sodio-sensibile. Anche altri elettroliti sono coinvolti nella genesi dell’ipertensione arteriosa tra cui il potassio ed il calcio, le cui concentrazioni sono inversamente associate ai valori pressori. Tuttavia diversi studi che hanno valutato gli effetti di un aumento dell’assunzione dietetica di potassio e calcio sulla riduzione della pressione hanno fornito finora risultati controversi. L’ipertensione arteriosa è associata nella maggior parte dei casi ad un aumento delle resistenze periferiche, e se nelle fasi iniziali del suo sviluppo tale aumento è spesso secondario ad una vasocostrizione arteriolare di origine funzionale, dipendente da un aumentato stimolo da parte di sostanze vasoattive quali catecolamine, angiotensina II o endoteline, o ad un’elevazione persistente della portata cardiaca, successivamente un rimodellamento vascolare strutturale è implicato nel perpetuarsi di elevati valori pressori. Infatti l’incremento della pressione ed il costante insulto meccanico sulle pareti dei vasi stimolano lo sviluppo di un’ipertrofia delle cellule muscolari lisce vascolari, con ulteriore riduzione del lume arteriolare, ed il conseguente aumento delle resistenze periferiche, le quali determinano la persistenza od anche il peggioramento dello stato ipertensivo, anche quando i potenziali fattori causali iniziali vengano a mancare. Tra i determinanti fisiologici del tono vascolare, ha un ruolo primario il sistema reninaangiotensina-aldosterone, il quale esercita importanti azioni regolatorie sulla pressione arteriosa anche attraverso la regolazione dell’omeostasi elettrolitica e del riassorbimento di sodio e acqua a livello tubulare; inoltre, attraverso effetti di tipo autocrino e paracrino, in alcuni tessuti l’attività del sistema renina-angiotensinaaldosterone regola la crescita e la differenziazione cellulare e favorisce lo sviluppo di fibrosi tissutale, in particolare a livello vascolare. Pertanto, una disregolazione dell’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad esempio un’attività sproporzionata rispetto all’assunzione di sodio o ai livelli pressori stessi, determina un aumento dei valori pressori e progressive modificazioni strutturali vascolari e cardiache, tali da giustificare l’intervento farmacologico su questo sistema. Anche l’insulina svolge delle azione regolatorie importanti sulla pressione arteriosa: legandosi ai recettori tirosin-kinasici essa determina a livello endoteliale una cascata trasduzionale intracellulare che porta all’aumentata trascrizione genica e successivamente alla sintesi dell’enzima ossido nitrico sintetasi, il quale catalizza la produzione di ossido nitrico, sostanza con potente azione vasodilatatoria ed antiinfiammatoria. Quindi nelle condizioni caratterizzate da una ridotta sensibilità insulinica a livello vascolare si assiste ad una riduzione della sintesi di ossido nitrico con conseguente aumento delle resistenze periferiche e dei valori pressori. Inoltre, l’aumento compensatorio delle concentrazioni di insulina negli stati di insulinoresistenza si associa ad un incremento del tono simpatico con un ulteriore aumento del tono vascolare ed una riduzione della funzionalità endoteliale. Quest’ultima è sicuramente un altro importante elemento sottostante allo sviluppo di ipertensione arteriosa. L’endotelio, infatti, svolge importanti azioni protettive a livello vascolare, attraverso la produzione di sostanze vasodilatanti ad azione autocrina e paracrina quali l’ossido nitrico, le prostacicline e l’endothelium-derived relaxing factor (EDRF), ed anche attraverso la produzione di sostanze antitrombotiche (vedi Capitolo 48). Tuttavia quando questo è sottoposto all’azione dannosa dei diversi fattori di rischio quali fumo e diabete, si realizza a livello vascolare e cellulare un’infiammazione subclinica ed un aumento dello stress ossidativo, i quali danneggiano le cellule endoteliali e conseguentemente portano allo sviluppo della loro disfunzione. Quando si instaura una disfunzione endoteliale vengono meno le suddette funzioni protettive collegate ad un endotelio integro, con conseguente aumento della reattività vascolare, aumentata espressione di molecole d’adesione leucocitaria che portano al perpetuarsi dell’infiammazione vascolare, ed in ultimo un’aumentata suscettibilità alla evoluzione aterosclerotica e alla formazione di trombosi. Questi processi promuovono in ultima istanza lo sviluppo di eventi aterotrombotici (vedi Capitolo 46). IMPATTO CLINICO Impatto clinico Nella maggioranza dei casi, l’ipertensione arteriosa non determina lo sviluppo né di sintomi o disturbi, né di complicanze a breve termine, bensì può decorrere asintomatica per molti anni, determinando progressive e sempre più gravi alterazioni strutturali e funzionali a carico del sistema cardiovascolare, renale e cerebrale. Complicanze anche molto gravi, spesso precedute da alterazioni di tipo pre-clinico, possono palesarsi improvvisamente con eventi acuti e drammatici quali l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e lo scompenso cardiaco. La relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento dell’incidenza di patologie cardiovascolari fu illustrato in maniera molto chiara dalle ormai mitiche tabelle elaborate dagli studi condotti da una compagnia assicurativa nordamericana, la Metropolitan Life Insurance Company, che dimostravano come in una popolazione di uomini di quarantacinque anni, valori pressori di 130/90 mmHg rispetto a valori pressori inferiori erano in grado di determinare una riduzione dell’aspettativa di vita di 3 anni, e, se ci si spingeva fino a valori pressori di 140 su 95 mmHg l’aspettativa di vita si riduceva di 6 anni. Ancor più, se si consideravano uomini con valori pressori di 150 su 100 mmHg l’aspettativa di vita media si riduceva di 11.5 anni. Una conferma di questi dati ci è stata fornita da diversi studi epidemiologici tra cui quello condotto da Wilhelmsen, nel quale veniva dimostrato come l’aumento dei valori pressori anche se limitato a 10 mmHg, corrispondesse ad un brusco incremento della incidenza di coronaropatia, anche nell’ambito del range dei valori pressori normali. La Prospective Studies Collaboration ha comunque fornito le evidenze più importanti sulla relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento del rischio cardiovascolare. Questa analisi ha preso in esame circa 1 milione di pazienti in 61 studi prospettici osservazionali per 12 anni. A partire da un’età compresa tra 40 e 69 anni, ogni aumento di 20 mmHg di pressione arteriosa o di 10 mmHg di pressione diastolica è risultato associato ad aumenti di 2 volte di mortalità per cardiopatia ischemica e circa 4 volte per ictus. La mortalità vascolare risultava superiore al 50% nella decade 80-89 anni, mentre il rischio relativo era maggiore nei soggetti più giovani, con un aumento di circa 10 volte. L’ipertensione arteriosa viene pertanto considerata un classico fattore di rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari. Il significato ed il valore predittivo dei valori di pressione arteriosa nei confronti delle principali malattie cardiovascolari quali la cardiopatia ischemica e l’ictus cerebrale è stato già identificato da alcuni decenni. E’ stato a tal proposito dimostrato che persino nell’ambito di popolazioni non ipertese il progressivo incremento dei valori pressori corrisponde ad una graduale riduzione dell’aspettativa di vita. Se da un lato valori pressori elevati sono associati ad un aumento del rischio cardiovascolare, parallelamente la loro riduzione è in grado di prevenire lo sviluppo di una considerevole percentuale di complicanze soprattutto di natura cerebrovascolare. La relazione tra ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare aumentato non è comunque secondaria solo alla presenza di elevati valori pressori, bensì è una conseguenza anche di altri fattori di rischio cardiovascolari che sono frequentemente presenti nel paziente iperteso, quali la dislipidemia, il diabete mellito, l’obesità ed il fumo. La presenza contemporanea di fattori di rischio multipli è stata indagata nel corso dello studio di Framingham che ha dimostrato come la presenza isolata d’ipertensione arteriosa si osservi solo nel 20% dei pazienti, mentre nel 50% dei casi elevati valori pressori si associano a 2 o 3 fattori di rischio concomitanti. Questa frequente associazione tra ipertensione arteriosa ed altre anomalie del profilo metabolico quali il diabete mellito e la dislipidemia suggerisce come queste associazioni non siano casuali ma siano probabilmente legate alla presenza di fattori eziopatogenetici comuni alla base dello sviluppo di tali anomalie. Il riscontro di alterazioni del profilo lipidico caratterizza un’ampia percentuale della popolazione ipertesa e contribuisce in maniera sostanziale allo sviluppo di complicanze cardiovascolari. L’alterazione del profilo lipidico più frequentemente associata alla presenza di ipertensione è certamente l’ipercolesterolemia, presente in oltre il 40% dei pazienti con valori pressori francamente elevati e con una prevalenza progressivamente crescente al crescere della gravità del quadro ipertensivo, supportando un’eventuale correlazione tra tali due fattori di rischio anche in ambito patogenetico. Dislipidemia ed elevati valori pressori sono inoltre elementi costitutivi della cosiddetta sindrome metabolica, condizione clinica frequentemente associata alla presenza di ipertensione arteriosa. Questa sindrome è caratterizzata, da un punto di vista clinico, dalla presenza di più fattori di rischio associati, mentre da un punto di vista fisiopatologico dalla presenza di un’obesità viscerale, particolarmente aterogena, da una condizione di insulino-resistenza, ed infine da uno stato infiammatorio cronico subclinico. Anche il diabete mellito di tipo 2 risulta associato frequentemente all’ipertensione arteriosa con la quale condivide la responsabilità di una significativa quota della mortalità e morbilità cardiovascolare, nonché alcuni importanti tratti fisiopatologici. Le conseguenze patologiche dell’ipertensione arteriosa possono essere di tipo preclinico e clinico; le prime sono caratterizzate da modificazioni strutturali e funzionali a carico degli organi bersaglio senza che queste si manifestino con sintomi o segni clinici, le seconde consistono invece in alterazioni organiche più gravi che si palesano con dei quadri clinici ben definiti, soprattutto l’infarto del miocardio, lo scompenso cardiaco e l’ictus cerebri. In generale la conseguenza patologica classica della malattia ipertensiva è lo sviluppo di aterosclerosi, che vede maggiormente coinvolti il cuore con i vasi arteriosi, il rene ed il sistema nervoso centrale. Le principali alterazioni precliniche cardiache associate all’ipertensione sono legate ai processi di rimodellamento ventricolare sinistro in risposta allo stato ipertensivo e sebbene siano asintomatiche, configurano comunque una condizione clinica fortemente predittiva di eventi cardiovascolari futuri, condizione identificata con il termine di “cardiopatia ipertensiva”. Tali alterazioni cardiache riconoscono nell’ipertrofia ventricolare sinistra e nella disfunzione diastolica le manifestazioni principali. La prima è caratterizzata dall’aumento della massa cardiaca soprattutto in risposta all’aumento dello stress sistolico determinato dalla pressione elevata, e può essere di tipo concentrico od eccentrico. Il primo tipo è caratterizzato dall’ispessimento delle pareti ventricolari per la classica apposizione di nuovi sarcomeri “in parallelo”, senza un aumento della cavità ventricolare, il secondo tipo è invece caratterizzato dall’aumento del diametro ventricolare consensuale all’aumento degli spessori parietali, secondariamente all’apposizione, a livello miocardico, di nuovi sarcomeri “in serie”. La prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra, diagnosticata all’ECG (vedi Capitolo 3) è del 3-8% nei pazienti con ipertensione lieve-moderata, mentre all’esame ecocardiografico (vedi Capitolo 4) la massa ventricolare è aumentata in ipertesi non selezionati dal 12 al 30%, e dal 20 al 60% nei centri di riferimento. L’ ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata con l’ecocardiogramma è un potente fattore di rischio indipendente per eventi avversi cardiovascolari maggiori, ed aumenti progressivi della massa ventricolare sono correlati continuativamente con il rischio cardiovascolare sia negli uomini che nelle donne, come dimostrato in numerosi studi. Per disfunzione diastolica del ventricolo sinistro s’intende invece l’incapacità di questa camera cardiaca, durante la diastole, di accogliere il sangue a basse pressioni di riempimento, per cui il ventricolo può raggiungere un volume telediastolico tale da garantire un’adeguata gittata sistolica solo a spese di un’aumentata pressione diastolica la quale, a sua volta, si riflette in un incremento della pressione in atrio sinistro e nelle vene polmonari. Dal punto di vista fisiopatologico, la disfunzione diastolica può essere conseguenza di alterazioni funzionali della fase attiva del rilasciamento ventricolare in protodiastole, o essere secondaria ad alterazioni della geometria ventricolare sinistra o dell’architettura miocardica tali da compromettere le fisiologiche proprietà elastiche del ventricolo sinistro coinvolte nel riempimento telediastolico. La prevalenza di disfunzione diastolica negli ipertesi anziani è stata stimata intorno al 25%, ed è stato dimostrato come questa rappresenti un predittore indipendente di eventi cardiovascolari avversi. Le manifestazioni cliniche cardiache più gravi e comuni dell’ipertensione arteriosa sono identificate invece nella cardiopatia ischemica, rappresentando l’infarto del miocardio la più frequente causa di mortalità nel paziente iperteso, e la complicanza meno efficacemente influenzata dal trattamento antiipertensivo. Le manifestazioni ischemiche nell’ipertensione arteriosa sono per lo più secondarie alla presenza di placche aterosclerotiche coronariche, ma spesso possono essere caratterizzate da una disfunzione del microcircolo subendocardico che determina una riduzione della riserva coronarica. La malattia ipertensiva si manifesta anche con lo scompenso cardiaco, di tipo sistolico o diastolico (vedi Capitolo 19). Il primo si verifica nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica insorta secondariamente alla presenza di una cardiopatia ischemica o di una cardiopatia ipertensiva evoluta attraverso lo sviluppo di una disfunzione contrattile (evoluzione ipocinetica), il secondo tipo si associa invece ad una normale funzione contrattile ventricolare e sembra essere secondario alla presenza di una disfunzione diastolica. In ultimo, altre complicanze cardiache comuni nell’ipertensione arteriosa sono le aritmie, in particolare la fibrillazione atriale. Questa aritmia è considerata secondaria alle modificazioni strutturali dell’atrio sinistro conseguenti all’ aumento cronico delle pressioni atriali solitamente secondario alla presenza di una disfunzione diastolica. Complicanze aritmiche più temibili sono invece quelle ventricolari che possono precipitare in una morte improvvisa. In questo contesto è verosimile che giochino un ruolo fenomeni di rientro elettrico ventricolare causati da un progressivo disarrangiamento dell’architettura miocardica, caratterizzato soprattutto da un aumento della fibrosi interstiziale, frequentemente osservabile nelle alterazioni della geometria ventricolare sinistra. L’ipertensione arteriosa ha effetti patologici importanti anche sui reni, infatti circa il 20% degli ipertesi è affetto da insufficienza renale cronica. Tuttavia la progressione dall’ipertensione non complicata all’insufficienza renale non è rapida, bensì dura anni, periodo nel quale si verificano progressive alterazioni strutturali a carico dei reni che, se dapprima non hanno delle ripercussioni funzionali importanti, successivamente determinano una progressiva riduzione del filtrato glomerulare e lo sviluppo di insufficienza renale. Un indice precoce di danno renale preclinico, in particolare negli ipertesi diabetici, è la presenza di microalbuminuria, che consiste in un’aumentata escrezione di albumina nelle urine, compresa per definizione tra i 30 ed i 300 mg/die, infatti oltre i 300 mg questa si definisce invece macroalbuminuria. Un aumento dell’escrezione di albumina può semplicemente rappresentare una conseguenza dell’aumento della pressione idrostatica intraglomerulare, ma può anche derivare da un danno della barriera glomerulare, o da un’alterazione del riassorbimento tubulare dell’albumina filtrata. Anche la microalbuminuria rappresenta un predittore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari maggiori, particolarmente negli ipertesi diabetici, ed è stato dimostrato come un rischio aumentato sussiste già per valori di microalbuminuria al di sotto del “cut-off” di normalità. Se non trattata, l’ipertensione arteriosa determina con il tempo una progressione inesorabile del danno renale, particolarmente quando si associa al diabete, verso una riduzione significativa del filtrato glumerulare con lo sviluppo d’insufficienza renale cronica, che è anche conseguente all’aumento importante delle resistenze vascolari intraparenchimali renali. Questa evoluzione spinge i valori pressori ad aumentare ulteriormente rendendo ancor più grave il quadro clinico e più difficile il trattamento. Infine, va sottolineato che il danno vascolare tipico dell’ipertensione coinvolge in modo significativo l’encefalo, in conseguenza dell’accelerato processo di aterosclerosi, nonché attraverso lo stimolo meccanico costituito dagli elevati valori pressori. Alterazioni relativamente precoci sono osservate a carico del distretto carotideo, e possono essere caratterizzate da un lieve ispessimento del complesso intima-media carotideo, o da lesioni aterosclerotiche non stenosanti, oppure da placche che determinano stenosi di variabile severità del lume vascolare. Tutte queste alterazioni, anche quando ancora nello stato preclinico, sono associate ad un rischio aumentato di sviluppare eventi acuti cerebrovascolari, e per tal motivo una loro precoce individuazione permette una migliore stratificazione del rischio del paziente iperteso e di conseguenza la scelta corretta della strategia terapeutica più efficace. Quando si manifesta clinicamente, la cerebrovasculopatia ipertensiva può essere caratterizzata da un quadro di emorragia cerebrale, o più frequentemente dall’ictus ischemico o da un attacco ischemico transitorio (TIA), da un infarto lacunare, od in ultimo da un’encefalopatia acuta ipertensiva. IPERTENSIONE ARTERIOSA SECONDARIA Ipertensione arteriosa secondaria L’ipertensione arteriosa secondaria rappresenta circa il 5% dei casi di ipertensione ed è la conseguenza di un disordine primitivo soprattutto di tipo renale od endocrinologico. La ricerca di un’ipertensione secondaria dev’essere attuata con massimo scrupolo, soprattutto nei soggetti giovani, in quanto nella maggior parte dei casi la sua causa può essere rimossa ed in questi casi l’ipertensione può essere curata evitando una terapia per il resto della vita. Per tal motivo, quando vi è il sospetto di un’ipertensione arteriosa secondaria è necessario procedere con la valutazione strumentale del paziente con l’ausilio di esami specifici. Ipertensione nefroparenchimale. Tutte le patologie parenchimali renali che determinino una riduzione dell’escrezione di acqua e sodio, ed un’attivazione del sistema renina-angiotensinaaldosterone provocano lo sviluppo di ipertensione. Uno stato ipertensivo si associa infatti a malattie renali acute quali l’insufficienza acuta secondaria a cause renali e post-renali o le sindromi nefritiche, o a disordini di tipo cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale cronica. Cause più rare di ipertensione nefroparenchimale sono i tumori secernenti renina. Nel sospetto di un’ ipertensione nefroparenchimale sono utili gli esami ematochimici per valutare la funzionalità renale, l’esame dell’urine, e in alcuni casi l’ecografia renale. Ipertensione nefrovascolare. Questa frequente causa di ipertensione secondaria è associata ad una stenosi mono o bilaterale dell’arteria renale dovuta ad un processo aterosclerotico, o, nel caso di soggetti giovani soprattutto se donne, alla presenza di una displasia fibro-muscolare. La riduzione del flusso renale secondaria alla stenosi determinerà un’aumentata e non regolata secrezione di renina e la successiva formazione di angiotensina II con un aumento della vasocostrizione periferica, aumento del riassorbimento di acqua e sodio, e incremento rapido dei valori di pressione arteriosa. Ed è proprio uno sviluppo rapido di uno stato ipertensivo non controllabile con la terapia medica, od insorto in un paziente giovane, che deve assolutamente porre il sospetto di un’ipertensione nefrovascolare. Questa dal punto di vista ematochimico si manifesta con ipopotassiemia, e con un aumento combinato dei livelli di renina ed aldosterone. Esami strumentali molto utili ai fini diagnostici sono l’ecocolor-Doppler dell’arterie renali nel caso di stenosi prossimali, o alternativamente l’angio-TC e l’angio-RM renali. La metodica “gold standard”, anche se raramente viene impiegata per la prima diagnosi, è l’angiografia delle arterie renali. Nel sospetto di un’ipertensione nefrovascolare bisogna prescrivere con estrema cautela ed a bassi dosaggi i farmaci ACE-inibitori, per il rischio di ipotensioni acute o di una riduzione brusca della perfusione renale con lo sviluppo di insufficienza acuta. Iperaldosteronismo primitivo. Le sindromi da eccesso primitivo di mineralcorticoidi sono rappresentate nel 30% dei casi da un adenoma surrenalico, più frequente nelle donne e nei bambini, e nel 70% dei casi da un’iperplasia surrenalica. Condizioni più rare sono secondarie al carcinoma surrenalico o all’iperaldosteronismo sensibile ai glucocorticoidi. Un iperaldosteronismo va sospettato in presenza di un’ipertensione resistente alla terapia, eventualmente associata ad astenia, crampi muscolari, poliuria, polidipsia e palpitazioni. Il dato ematochimico più importante è l’ipopotassiemia associata ad un’aumentata potassiuria, con un pH ematico che risulta aumentato per incremento dei bicarbonati. I livelli di aldosterone sono aumentati, mentre quelli di renina soppressi, per cui il rapporto aldosterone plasmatico/attività reninica plasmatica è generalmente aumentato. Per la diagnosi definitiva di iperaldosteronismo primario ci si può avvalere di test dinamici di conferma. Tra questi il più diffuso è quello del ”carico salino”: se i livelli sierici di aldosterone non risultano soppressi dopo il test si può fare diagnosi di iperaldosteronismo primitivo. La diagnosi di iperaldosteronismo può essere confermata anche dal test di soppressione al fludrocortisone. In presenza di iperaldosteronismo primario la somministrazione per 4 giorni di fludrocortisone non determina la soppressione dei livelli plasmatici di aldosterone. Feocromocitoma. Il feocromocitoma è un tumore del tessuto cromaffine della midollare del surrene o del tessuto paragangliare, e si manifesta clinicamente attraverso l’ aumentata increzione di adrenalina e noradrenalina. Il feocromocitoma rappresenta una causa rara di ipertensione arteriosa, ma se non riconosciuta mette seriamente in pericolo la vita del paziente. Uno stato ipertensivo è presente in tutti i soggetti affetti, più frequentemente a crisi o talora cronico. I sintomi più comuni sono l’ansietà, le palpitazioni, la cefalea, l’arrossamento improvviso del viso (flushing) e le sudorazioni profuse. La diagnosi di feocromocitoma può essere fatta mediante il dosaggio delle catecolamine plasmatiche ed urinarie e dei loro metaboliti, più facilmente se i campioni vengono ottenuti durante le crisi ipertensive. I dosaggi dell’acido vanilmandelico e delle metanefrine plasmatiche e urinarie frazionate rappresentano gli esami più attendibili. Nel sospetto diagnostico si può ricorrere anche all’impiego di test farmacologici di inibizione o stimolazione, con clonidina e glucagone rispettivamente, o utilizzare subito metodiche d’”imaging” quali l’ecografia, la TC o la RMN, di solito impiegate per localizzare il tumore. Coartazione Aortica. La coartazione aortica (vedi Capitolo 52) consiste in una stenosi congenita dell’aorta generalmente distale all’origine del dotto arterioso che si associa frequentemente ad altre anomalie quali la bicuspidia aortica gli aneurismi “a bacca” cerebrali. Questa è una causa rara di ipertensione arteriosa secondaria soprattutto nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi è di solito clinica ed è legata al riscontro di un’ipertensione esclusivamente a livello degli arti superiori e di un ipotensione a livello degli arti inferiori, alla presenza di un ritardo del polso femorale rispetto a quello radiale, all’ascoltazione di un soffio continuo al dorso, nella regione interscapolare, ed alla presenza di una spiccata pulsatilità delle arterie intercostali. La diagnosi di conferma invece può essere fatta invece agevolmente mediante un angio-TC del torace ed un’aortografia. La terapia della coartazione aortica può essere percutanea, mediante l’apposizione di stent, o chirurgica. Ipertensione indotta da farmaci. Alcune sostanze e farmaci possono determinare un’ipertensione arteriosa e queste sono: la liquirizia, gli spray nasali vasocostrittori, i contraccettivi orali, i FANS, i corticosteroidi, la ciclosporina e l’eritropoietina. Fondamentale pertanto è la ricerca anamnestica dell’uso di tali sostanze per poter effettuare una diagnosi rapida. TRATTAMENTO Trattamento La finalità principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa consiste soprattutto nella prevenzione dello sviluppo delle sue complicanze cardio- e cerebrovascolari, e tali benefici terapeutici possono essere raggiunti non solo mediante la riduzione dei valori pressori, peraltro implicati direttamente nello sviluppo di alcune complicanze, ma anche attraverso la correzione dei diversi fattori di rischio frequentemente associati all’ipertensione. Di conseguenza è molto importante, prima di iniziare un trattamento antiipertensivo, una valutazione clinica globale del paziente che miri a definire al meglio il suo profilo di rischio cardiovascolare, sia sulla base dell’entità della malattia ipertensiva, sia sulla base degli altri fattori di rischio associati. Gli interventi terapeutici antipertensivi possono essere divisi in interventi di tipo non farmacologico, basati sulle modifiche dello stile di vita e delle abitudini comportamentali, ed in interventi di tipo farmacologico, basati sull’impiego di diverse classi di farmaci sia da soli che in associazione tra loro. Sulla base delle ultime Linee Guida emanate dall’ESH/ESC del 2007 sulla gestione clinica dell’ipertensione arteriosa, nei pazienti a rischio cardiovascolare basso-moderato in generale è indicato iniziare solo un trattamento non farmacologico rivalutando dopo pochi mesi i soggetti, ed associando successivamente un trattamento farmacologico qualora i valori pressori non risultino controllati. Di contro, nei soggetti a rischio elevato è in genere opportuno un approccio terapeutico più aggressivo, combinando gli interventi non farmacologici con una terapia farmacologica (monoterapia o terapia di associazione) (Figura 2). Interventi di tipo non farmacologico Gli interventi non farmacologici possono contribuire a ridurre i valori pressori ed il rischio cardiovascolare globale del paziente iperteso, nonché a favorire un ricorso più contenuto alla terapia farmacologica. Sebbene siano spesso di non facile attuazione pratica e non ne siano mai stati documentati in maniera completa gli effetti a lungo termine sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e globale, gli interventi non farmacologici non presentano (al contrario di quelli farmacologici) controindicazioni di impiego. Tre approcci terapeutici si sono dimostrati in grado di esercitare documentati effetti antipertensivi: il calo ponderale, la dieta iposodica e l’esercizio fisico regolare. Considerata l’evidenza epidemiologica di una relazione diretta tra peso corporeo, distribuzione anatomica del grasso corporeo e pressione, non sorprende che una restrizione dell’apporto calorico si sia dimostrata in grado di ridurre i valori pressori, essendo l’entità dell’effetto antipertensivo medio pari ad una diminuzione di circa 1,5 mmHg di pressione arteriosa sistolica e 1,3 mmHg di diastolica per ciascun chilo di peso corporeo perso. Gli effetti antipertensivi di una restrizione alimentare sodica sono stati oggetto di numerose meta-analisi, che complessivamente hanno evidenziato un’azione antipertensiva piuttosto modesta (3-5 mmHg per la sistolica e 2-3 per la diastolica). La restrizione sodica inoltre, non deve essere marcata (consumo giornaliero <2 grammi NaCl), perché è stato dimostrato come questa induca effetti metabolici sfavorevoli e stimoli il sistema renina-angiotensina ed il sistema nervoso adrenergico. Allo stato attuale pertanto, una modica restrizione sodica (consumo giornaliero <4 grammi NaCI) è indicata nel trattamento del paziente iperteso, specie considerando come questo intervento non farmacologíco si sia dimostrato in grado di potenziare l’efficacia antipertensiva della stessa terapia farmacologica. Infine studi clinici controllati hanno pressoché uniformemente dimostrato che l’esercizio fisico regolare di moderata intensità (rappresentato da un incremento pari a circa il 40% del consumo di ossigeno valutato a riposo) è in grado, dopo un congruo periodo di tempo, di ridurre i valori pressori sisto-diastolici (circa 6-8 mmHg a seconda dei valori pressori di partenza e del tipo di attività fisica). Tali modificazioni si accompagnano ad un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare in virtù degli effetti emodinamici (vasodilatazione) e metabolici favorevoli (miglioramento dell’ insulino-sensibilità e del profilo lipidico) di un training fisico costante. Interventi antiipertensivi di tipo farmacologico Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa deve essere intrapreso quando non si ottengono risultati sufficienti con gli interventi non farmacologici, o quando i valori pressori basali ed il rischio cardiovascolare del paziente sono molto elevati. L’obiettivo terapeutico essenziale della terapia farmacologica è il raggiungimento di valori pressori ottimali, e se questo non è possibile con l’impiego di un solo farmaco è consigliabile adottare un’associazione tra due o, se necessario, più molecole. La scelta del tipo di farmaco da prescrivere ad un paziente iperteso non è però basata solo sulla efficacia antiipertensiva, bensì anche sui possibili effetti benefici sulla riduzione del danno d’organo cardiovascolare e renale, su eventuali sue azioni positive sulle alterazioni metaboliche concomitanti, quali il diabete o la dislipidemia, ed in ultimo, deve tener conto della tipologia del paziente (età, sesso, comorbidità), degli effetti collaterali, delle preferenze del paziente, di precedenti esperienze terapeutiche e di aspetti socio-economici . Le principali classi di farmaci anti-ipertensivi (vedi Capitolo 58) sono: Ace-inibitori: sono una classe di farmaci con documentata efficacia antipertensiva, caratterizzata da effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, particolarmente nei pazienti con cardiopatia ischemica, disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco. Sono molto utili per rallentare la progressione del danno renale, in particolare nei diabetici, ed hanno un profilo metabolico sostanzialmente neutro. Principali effetti collaterali sono la tosse, l’ipotensione da prima dose e raramente l’angio-edema della glottide. Le principali controindicazioni sono l’insufficienza renale cronica, la gravidanza e la stenosi bilaterale delle arterie renali. Calcio-antagonisti: i calcio-antagonisti possono svolgere i loro effetti prevalentemente sul cuore (non diidropiridinici, diltiazem o verapamil) od essere principalmente dei vasodilatatori periferici (diidropiridinici); quest’ultimi in particolare hanno una spiccata azione antiipertensiva e si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Sono molto utili in prescrizione singola od in associazione con altri farmaci in particolare gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone. Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (o sartanici): sono farmaci efficaci e molto ben tollerati anche in quanto caratterizzati da un’azione farmacologia molto selettiva (blocco dei recettori AT-1 dell’angiotensina II). Questa classe è particolarmente utile nell’ipertensione arteriosa, in particolare nei pazienti con danno d’organo sia cardiaco che renale, e con presenza di diabete o sindrome metabolica. Diuretici: sono i farmaci antiipertensivi più lungamente sperimentati, e quelli tiazidici sono particolarmente efficaci nel ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari maggiori. Sono inoltre spesso prescrivibili in associazione precostituita con farmaci inibitori del sistema reninaangiotensina. Le controindicazioni all’uso dei diuretici sono soprattutto la scarsa “compliance” del paziente legata ad effetti indesiderati ed alcuni effetti collaterali quali lo squilibrio elettrolitico, in particolare l’ipopotassemia, l’iperuricemia e le alterazioni del metabolismo glico-lipidico. Beta-bloccanti: sono particolarmente indicati nei pazienti ipertesi affetti da cardiopatia ischemica, disfunzione ventricolare sinistra sistolica, tachicardia, oppure ipertiroidismo. Sono controindicati nei pazienti bradicardici o con turbe della conduzione atrio-ventricolare, con asma o con broncopneumopatia cronica ostruttiva, con vasculopatia periferica o con insulinoresistenza. I farmaci antiipertensivi appartenenti a queste classi farmacologiche possono essere associati tra loro specialmente se presentano meccanismi d’azione diversi e complementari, se l’efficacia ipotensivante è superiore quando associati rispetto a quando somministrati in monoterapia, ed in ultimo se l’associazione è ben tollerata. Altri farmaci antiipertensivi da usare in terapia addizionale, qualora non vengano raggiunti gli obiettivi, includono gli alfa-bloccanti, in particolare nei pazienti con ipertrofia prostatica, gli anti-ipertensivi ad azione centrale, soprattutto alfametildopa e clonidina, ed i farmaci anti-aldosteronici, che trovano indicazione soprattutto nelle forme legate ad iperaldosteronismo e nell’ipertensione refrattaria o resistente. URGENZE ED EMERGENZE IPERTENSIVE Urgenze ed emergenze ipertensive Le urgenze ed emergenze ipertensive sono forme cliniche caratterizzate da un notevole rialzo pressorio (solitamente PAD >130 mmHg) che richiedono un abbassamento rapido della pressione. Queste condizioni possono essere distinte in urgenze ed emergenze ipertensive. Per urgenza ipertensiva s’intende un marcato e rapido rialzo pressorio peraltro non associato a segni di danno d’organo acuto cardiaco o neurologico e possono essere risolte nell’arco delle 24 ore. Le emergenze ipertensive sono invece quelle situazioni nelle quali, per la presenza di segni di danno d’organo collegati al rialzo pressorio, e per grave pericolo di vita, è indispensabile una riduzione della pressione arteriosa entro 1 ora. Le alterazioni d’organo che possono essere riscontrate nell’emergenza ipertensiva sono l’infarto miocardico acuto o l’angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, la dissezione aortica e l’emorragia cerebrale. Un altro tipo particolare ed altrettanto grave di emergenza ipertensiva è l’encefalopatia ipertensiva, caratterizzata da disturbi neurologici reversibili come la cefalea, alterazioni visive e dello stato di coscienza, nausea e vomito. Questa, se non trattata può evolvere rapidamente in uno stato di coma e successivamente in exitus. La fisiopatologia dell’encefalopatia ipertensiva è legata alla presenza di una necrosi fibrinoide arteriolare generalizzata e di una dilatazione sproporzionata delle arterie cerebrali con un conseguente iperafflusso sanguigno. Nelle emergenze ipertensive il trattamento deve essere iniziato il più rapidamente possibile con l’obiettivo non di ottenere l’immediato ripristino di livelli pressori normali, ma di arrivare a limiti di “sicurezza” senza indurre, nello stesso tempo, complicanze cerebrali, coronariche o renali legate all’induzione di ipotensione troppo rapida. I farmaci di elezione nell’emergenza ipertensiva somministrati per via endovenosa sono la clonidina, il nitroprussiato o nitroglicerina ed il labetalolo. Di solito è sempre consigliabile embricare alla terapia endovenosa una terapia per via orale. CUORE POLMONARE CRONICO DEFINIZIONE Si definisce “cuore polmonare” la dilatazione e/o l’ipertrofia del ventricolo destro per aumento del postcarico dovuto a malattie dei polmoni, della parete toracica, dei vasi polmonari o dei centri del controllo della ventilazione. Sono escluse dalla definizione di cuore polmonare le patologie del cuore destro dovute a cardiopatie congenite o a malattie del cuore sinistro. FISIOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE La circolazione polmonare è interposta tra il ritorno venoso sistemico e l’atrio sinistro; oltre a rivestire un ruolo chiave negli scambi dei gas, il circolo polmonare concorre alla regolazione biochimica, termica ed umorale del sangue. In condizioni normali, la forza che guida il sangue attraverso il polmone dipende in ugual misura dal ventricolo destro e dalla respirazione. La funzione di pompa del ventricolo destro, tuttavia, diviene rilevante solo in condizioni patologiche. In alcune procedure cardiochirurgiche (ad esempio l’intervento di Fontan), infatti, si esegue un by-pass del ventricolo destro, mettendo in comunicazione diretta l’atrio destro con l’arteria polmonare, senza che il ritorno venoso al cuore sinistro venga compromesso; ciò dimostra come la circolazione polmonare possa avvenire normalmente anche senza il contributo del ventricolo destro. La caratteristica principale del circolo polmonare è che le pressioni sono basse. Per generare ed aumentare il flusso del sangue occorre superare la pressione di apertura dei vasi, reclutare progressivamente nuovi vasi e dilatare quelli già aperti. La relazione tra la pressione guida (differenza tra pressione arteriosa polmonare media e pressione atriale sinistra) e il flusso, perciò, è curvilinea e non origina dallo zero degli assi cartesiani La resistenza vascolare è la relazione tra pressione e flusso. Nel circolo polmonare si misura la resistenza vascolare arteriolare, con la formula seguente: e la resistenza vascolare totale, la cui formula è: FISIOPATOLOGIA DEL CUORE POLMONARE CRONICO Il ventricolo destro assume un ruolo molto importante in presenza di malattie del polmone o del circolo polmonare. In un cuore normale, la portata cardiaca comincia a ridursi quando la pressione polmonare sistolica è 30-40 mm Hg. Il ventricolo destro non è in grado di tollerare pressioni di 60-80 mm Hg, ma se il sovraccarico di pressione si instaura gradualmente, il ventricolo si ipertrofizza e si dilata, riuscendo a mantenenere pressioni molto più alte, in alcuni casi addirittura superiori a quelle del ventricolo sinistro. Ci può essere ipertensione polmonare in caso di: a) malattie cardiache congenite, b) malattie a carico del cuore sinistro (atrio, valvola mitrale, ventricolo, valvola aortica), c) malattie respiratorie, e d) malattie che interessano il circolo polmonare. Per definizione solo le condizioni c e d possono essere causa di cuore-polmonare. Vasocostrizione ipossica In presenza di ipossia alveolare, i vasi che portano sangue agli alveoli interessati dalla ipossia si costringono. Se localizzato, questo è un meccanismo di difesa utile perché riduce la perfusione di alveoli poco efficienti, favorendo la perfusione di alveoli normossici. Se il fenomeno è generalizzato, o comunque interessa una grossa parte del polmone, si sviluppa ipertensione polmonare ipossica. Questa permette di reclutare nuovi vasi polmonari ma, se la portata si mantiene, fa aumentare il lavoro del ventricolo destro. L’ipossia alveolare può essere acuta (apnee del sonno), subacuta (ARDS, edema polmonare da alta quota) o cronica (patologia polmonare, della parete toracica o del controllo della ventilazione). In presenza di ipossia cronica, le arterie polmonari sviluppano uno strato muscolare che aumenta progressivamente, in rapporto alla durata ed all’entità dell’ipossia alveolare. Esistono fattori che aumentano la risposta ipertensiva all’ipossia alveolare, quali l’aumento della PaCO2, l’aumento dell’ematocrito che incrementa la viscosità del sangue, l’aumento o la riduzione importante del volume polmonare ed, infine, la riduzione anatomica o funzionale del letto vascolare polmonare. Bisogna ricordare che la resistenza vascolare polmonare dipende dal volume polmonare: per i vasi alveolari aumenta con l’aumento del volume polmonare, mentre per i vasi extra-alveolari si riduce con l’aumento del volume polmonare. La somma dà la effettiva resistenza vascolare alla capacità funzionale residua. Episodi di ipossia alveolare, come quelli associati alle apnee notturne, possono causare o concorrere a causare cuore polmonare. Un esempio classico di questo è il cuore polmonare della sindrome di Pickwick (obesità, sonnolenza, policitemia) o quello dei “russatori” per alcool, bronchite cronica, obesità. L’ipossia alveolare cronica si sviluppa in corso di ipoventilazione alveolare e si associa ad ipercapnia. Le cause includono enfisema, fibrosi polmonare, patologia polmonare restrittiva e bronchite cronica. Restringimento meccanico dei vasi Le modificazioni dei volumi polmonari hanno un ruolo importante nella genesi dell’ ipertensione polmonare. In presenza di malattia polmonare ostruttiva, il volume del polmone aumenta. Inoltre si può sviluppare il fenomeno del “air-trapping” per l’insufficiente flusso espiratorio. Se la ventilazione aumenta, questo fenomeno diviene sempre più rilevante con zone di polmone che per l’insufficiente espirazione sono ad alta pressione e comprimono i vasi. In questo caso, per mantenere il flusso deve esserci un ulteriore aumento della pressione vascolare. Anche la riduzione del volume polmonare si associa ad aumento della resistenza vascolare polmonare. Sovraccarico pressorio attorno al cuore destro Il cuore è circondato in gran parte dal polmone. Nel cuore polmonare la rigidità del polmone è significativamente aumentata, e ciò aumenta il lavoro esterno, quello soprattutto del ventricolo destro, le cui pareti sono sottili e meno potenti di quelle del ventricolo sinistro. Il movimento del cuore in sistole e diastole è a maggiore costo energetico in presenza di polmone rigido. Aumento della portata cardiaca L’ ipossia alveolare riduce il contenuto arterioso di ossigeno. Questa riduzione è compensata da un aumento dell’emoglobina e dall’aumento della portata cardiaca. Quest’ultima è un ulteriore elemento di sovraccarico per il cuore destro. QUADRO CLINICO Non ci sono sintomi specifici di dilatazione e/o ipertrofia del ventricolo destro, ma il quadro clinico è dominato dalla malattia che causa il sovraccarico ventricolare. In presenza di scompenso del cuore destro si ha un aumento della pressione venosa sistemica, da cui dipendono edemi declivi, turgore giugulare, epatomegalia ed ascite. Le sindromi che possono essere alla base del cuore polmonare cronico sono: a) malattia polmonare ostruttiva, b) malattia polmonare restrittiva, c) malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva) e d) malattie vascolari polmonari. Malattia polmonare ostruttiva Il quadro clinico è quello del fumatore, con frequenti episodi di bronchite soprattutto nei mesi invernali. Il paziente riferisce a volte sintomi correlati all’incremento della CO2, quali confusione mentale e disorientamento. I segni più frequenti sono quelli legati all’aumento della pressione venosa (turgore giugulare, epatomegalia, edemi declivi) e quelli dipendenti dall’ipossia, come la cianosi labiale e delle estremità; è quasi sempre presente tachicardia sinusale e non di rado fibrillazione atriale. La radiografia del torace dimostra un cuore ingrandito, salienza del secondo arco di sinistra per dilatazione dell’arteria polmonare ed aspetto ad albero potato della vascolatura polmonare in periferia. I test di funzione respiratoria dimostrano riduzione di FEV1, FEV1/FVC e capacità vitale, ed aumento consistente del volume residuo. La diffusione alveolo-capillare è ridotta. L’emogasanalisi dimostra ipossiemia e ipercapnia. La somministrazione incongrua di ossigeno può peggiorare il quadro emogasanalitico. L’ECG mostra ingrandimento dell’atrio destro e ipertrofia ventricolare destra (vedi Capitolo 3). L’ecocardiogramma rivela l’ipertrofia e la dilatazione del ventricolo destro, ed anche l’ipertensione polmonare, valutata con metodica Doppler. La terapia è la sospensione del fumo, la riduzione del rischio di recidiva delle infezioni delle vie aeree e dei polmoni, la riabilitazione respiratoria, l’uso di broncodilatatori e mucolitici, l’impiego congruo di ossigeno . La terapia farmacologia dell’ipertensione polmonare secondaria non ha successo. Malattia polmonare restrittiva Le malattie restrittive che portano al cuore polmonare cronico hanno prognosi infausta. Si possono riconoscere due gruppi di malattie restrittive: il primo comprende le alveoliti fribrotizzanti, le pneumoconiosi, le malattie della gabbia toracica e del suo apparato neuro-muscolare. Tutte queste malattie portano ad insufficienza ventilatoria con iperventilazione. Il secondo gruppo di malattie restrittive che portano a cuore polmonare è caratterizzato fin dall’ inizio da ipoventilazione. La terapia delle fasi più avanzate è solo il supporto ventilatorio. Malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva) I due quadri possono essere presenti: l’ aspetto clinico più tipico è quello del fumatore obeso. Malattie vascolari polmonari L’ostruzione o la distruzione del letto vascolare polmonare può causare ipertensione polmonare che, a sua volta, porta a cuore polmonare. In questo caso la pressione polmonare può essere molto elevata, più che nelle forme ipossiche. L’ipertensione polmonare può essere post-embolica, di solito successiva a molti episodi embolici più o meno sintomatici e spesso clinicamente non riconosciuti, oppure causata da vasculopatia per ipertensione polmonare primitiva (vedi Capitolo 51) o associata a varie vasculiti. L’incidenza dell’ipertensione polmonare post-embolica è minore di quanto ci si potrebbe aspettare dal numero di embolie ritrovate all’autopsia: ciò dipende verosimilmente dall’estensione del letto vascolare polmonare e dai potenti meccanismi trombolitici dell’endotelio polmonare. EMBOLIA POLMONARE DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA L’embolia polmonare (EP) è l’occlusione acuta del tronco o di un ramo dell’arteria polmonare, che determina un ostacolo allo svuotamento del ventricolo destro e un’interruzione del flusso ematico nel distretto polmonare a valle dell’occlusione. Il grado di compromissione emodinamica e respiratoria dipende dalla dimensione dell’embolo, che può interessare la biforcazione dell’arteria polmonare (embolo a sella) o un suo ramo L’incidenza dell’EP è dello 0.5-1‰, con un rapido incremento dopo i 60 anni di età. La mortalità per EP è >15% nei primi 3 mesi dalla diagnosi. FISIOPATOLOGIA Un aumento della resistenza arteriosa polmonare è l’effetto dell’ostruzione del vaso da parte dell’embolo e, in parte, della liberazione di serotonina dalle piastrine del trombo. Sul versante respiratorio si verifica una diminuzionedegli scambi gassosi – con ipossiemia nelle forme più gravi – derivante da: a. dissociazione tra ventilazione e perfusione polmonare, con estensione dello spazio morto respiratorio all’area interessata dall’EP; b. shunt di circolo a livello polmonare, per apertura di anastomosi artero-venose; c. ridotta compliance polmonare, dovuta a perdita di surfactante e ad edema alveolare. Il subitaneo innalzamento del postcarico per l’ostruzione vascolare polmonare può produrre dilatazione del ventricolo destro e rigurgito tricuspidale. La dilatazione del ventricolo destro, cui può accompagnarsi aumento dei livelli circolanti di BNP, determina una deviazione del SIV verso sinistra, limitando il riempimento diastolico del ventricolo sinistro. Questo evento, insieme con il ridotto precarico ventricolare sinistro secondario all’insufficienza ventricolare destra può causare diminuzione della gittata sistolica, della pressione arteriosa sistemica e della perfusione coronarica. QUADRO CLINICO La dispnea è il sintomo più frequente dell’EP. Un dolore toracico tipico è presente in caso di ischemia miocardica, specie in soggetti con precedente cardiopatia. Altri sintomi comuni sono la tosse, la sincope e l’emottisi. L’esame clinico mostra quasi senza eccezione tachicardia, e a volte distensione delle vene del collo, accentuazione della componente polmonare del II tono e cianosi. E’ utile classificare l’EP in diversi quadri clinici, per attuare la migliore strategia terapeutica e determinare la prognosi. Un’EP massiva interessa almeno la metà del circolo arterioso polmonare, è spesso bilaterale e induce facilmente cianosi, ipotensione arteriosa, sincope e shock cardiogeno. I pazienti con EP da moderata a sub-massiva, che interessa all’incirca 1/3 del circolo polmonare, mostrano una PA normale, che maschera l’instabilità emodinamica del ventricolo destro (ipocinesia, insufficienza tricuspidale). Nell’EP lieve un trombo di modeste dimensioni si disloca nella periferia del parenchima polmonare e può interessare il foglietto pleurico con comparsa di dolore pleuritico e tosse. Un infarto polmonare può prodursi in questa sede in capo a 3-7 giorni, associandosi a febbre, leucocitosi, emottisi ed un quadro radiologico tipico. La pressione arteriosa è normale e la funzione del ventricolo destro conservata. DIAGNOSI Per giungere alla diagnosi di EP è di grande importanza maturarne il sospetto, sulla base del profilo di rischio, dell’anamnesi e della recente storia clinica. Peculiare dell’EP è la rapida insorgenza dei sintomi, inaspettata rispetto alle preesistenti condizioni cliniche del paziente. Occorre poi integrare questi dati con l’esame fisico e con gli esiti delle indagini di laboratorio e strumentali. Test clinici e di laboratorio. Il test semi-quantitativo a punti di Wells, rappresentato da 7 domande da porre al paziente, ha un valore diagnostico di esclusione dell’EP quando rivela un punteggio =4. Il dosaggio del D-dimero nel plasma è molto sensibile ma poco specifico, perché esso può aumentare nel decorso post-chirurgico come pure in caso di IMA, sepsi, cancro e patologie sistemiche in generale. Elevatissimo è il suo potere predittivo negativo (>99%): virtualmente, nessun paziente con EP in atto risulta negativo al dosaggio del D-dimero. Elevati valori ematici di biomarker cardiaci, quali troponina e BNP correlano con il grado di compromissione funzionale del ventricolo destro e rappresentano un indice predittivo di eventi e di morte cardiaca. La troponina si libera in presenza di microinfarti; il BNP è secreto dai cardiomiociti in risposta all’aumentato stress di parete. La misura dell’ipossiemia non appare discriminante per la diagnosi di EP poiché non meno del 20% dei pazienti mostra una PaO2 normale. Inoltre, per quanto la maggior parte dei pazienti con EP siano ipocapnici a causa dell’iperventilazione, la differenza in O2 alveolo-arteriosa è normale nel 15-20% dei casi. Tecniche strumentali e di imaging. Pazienti con EP possono mostrare un ECG del tutto normale, ovvero con manifestazioni di interessamento ventricolare destro (blocco di branca incompleto o completo), un aspetto S1Q3T3 (onda S in D1, onda Q e T invertita in D3), sopraslivellamento di ST in V1-V2 e T negative da V1 a V4 . Inoltre, l’ECG serve ad escludere un infarto miocardico acuto. La radiografia del torace presenta anormalità in non più del 25% dei casi; il reperto più comune è la cardiomegalia. In taluni casi l’esame identifica aspetti patognomonici, quali l’oligoemia zonale, indice di un’EP massiva e centrale, una densità periferica a forma di cuneo, indice di infarto polmonare, o una distensione dell’arteria polmonare discendente destra . L’ecocardiografia transtoracica (ETT) è una tecnica aspecifica, poiché l’esame risulta nella norma in circa la metà dei pazienti con EP. Del resto, l’enorme diffusione e rapidità d’esecuzione dell’ETT, insieme con l’elevata sensibilità nell’apprezzare la dilatazione e la disfunzione del ventricolo destro, la rendono preziosa per la stratificazione del rischio in pazienti con EP già diagnosticata. Segni di EP deducibili con l’ETT sono la rara visualizzazione diretta del trombo, il movimento anormale del setto interventricolare, il rigurgito tricuspidale, la dilatazione dell’arteria polmonare, il mancato collasso inspiratorio della vena cava inferiore. Infine, l’ETT può escludere altre patologie, quali infarto miocardico acuto, dissezione aortica o pericardite. La TC del torace con contrasto e.v. è divenuta il test di imaging elettivo nella maggior parte dei pazienti con fondato sospetto di EP (potere predittivo negativo >99%;). Apparecchi di ultima generazione sono destinati a soppiantare l’angiografia polmonare come gold standard per la diagnosi dell’EP, consentendo l’acquisizione in pochi secondi dell’intero torace con una risoluzione inferiore a 1 mm. D’altra parte, la TC fornisce informazioni dettagliate sulle dimensioni e la funzione del ventricolo destro. La scintigrafia polmonare rappresenta oggi un’indagine di seconda scelta in caso di sospetta EP, mentre è riservata a pazienti in gravidanza, oppure con insufficienza renale o allergia al contrasto. La risonanza magnetica (RM) angiografica utilizza un mezzo di contrasto non nefrotossico e pressoché esente da reazioni allergiche. Sensibilità e specificità diagnostiche sono paragonabili a quelle della TC di prima generazione, consentendo l’identificazione di EP segmentarie. La RM è in grado di valutare anche la funzione del ventricolo destro. Tecniche invasive L’angiografia polmonare è idonea a riconoscere emboli di 1–2 mm quali difetti di riempimento vasale intraluminale. Segni secondari di EP sono la netta interruzione di un vaso, l’oligoemia segmentale o una totale mancanza di circolo ed una fase arteriosa prolungata. L’angiografia è riservata ai pazienti con TC non diagnostica o che devono essere sottoposti ad embolectomia transcatetere o trombolisi mirata. Nella pratica clinica, è auspicabile un approccio diagnostico integrato, esemplificato dal diagramma in Esso prevede a. l’anamnesi indirizzata al profilo di rischio tromboembolico, l’esame fisico e il calcolo dell’indice di Wells; b.un ECG ed una radiografia del torace; c. il dosaggio del D-dimero che, se negativo, esclude l’EP in soggetti con indice di Wells =4; d. la TC o la scintigrafia polmonare, nonché l’ecografia venosa degli arti. In sintesi, l’EP può essere esclusa in pazienti con bassa probabilità clinica e D-dimero negativo, così come in quelli a rischio elevato, ma con TC negativa. Purtroppo, per quanto il test del D-dimero per l’esclusione dell’EP e quello della TC per la sua visualizzazione abbiano nettamente perfezionato la sensibilità diagnostica, l’EP rimane ancora ardua da diagnosticare e quadri di EP sub-massiva o moderata rimangono non riconosciuti in non meno del 50% dei pazienti. ANEURISMA E ANEURISMA DISSECANTE L’aneurisma è una dilatazione localizzata permanente di un’arteria. Nel caso di interessamento dell’aorta si parla di aneurisma se si verifica un aumento del diametro di almeno il 50% rispetto a quello normale del vaso. Laclassificazione degli aneurismi aortici è cruciale per formulare una diagnosi corretta e pianificare il trattamento. Essa si basa sulla forma (fusiforme se coinvolge l’intera circonferenza del vaso, sacciforme se solo una parte risulta dilatata), sulle dimensioni (macroaneurisma e microaneurisma), sulla struttura (vero o falso) e sulla eziologia (gli aneurismi possono essere la conseguenza di un processo congenito, degenerativo, infettivo, infiammatorio o meccanico-traumatico). Particolare importanza riveste poi l’individuazione della sede. Sulla base della localizzazione, infatti, gli aneurismi aortici si distinguono in toracici, toracoaddominali ed addominali . Dal punto di vista eziologico, la causa più frequente è quella degenerativa, visto che l’aterosclerosi è responsabile del 90% degli aneurismi aortici. Il processo aterosclerotico (vedi Capitolo 46), che induce nella parete arteriosa la formazione di placche fibrose o ateromatose, può creare un’atrofia della tonaca media che a sua volta esita in indebolimento della parete, con conseguente ectasia e dilatazione aneurismatica. Tra le cause congenite si distinguono quelle idiopatiche da quelle dovute a un difetto del tessuto connettivo, come la sindrome di Marfan o a quella di Ehlers-Danlos. Tra quelle infettive distinguiamo le forme micotiche, sifilitiche e tubercolari; gli aneurismi che ne derivano vengono classificati come falsi o pseudoaneurismi, in quanto sono conseguenti alla rottura del vaso con formazione di un ematoma delimitato da tessuto connettivo periavventiziale, che risulta connesso al lume originario attraverso un orifizio a livello del punto di rottura. Infine, tra le cause infiammatorie sono la malattia di Takayasu, l’arterite a cellule giganti, la malattia di Behcet, la poliarterite nodosa e il lupus eritematoso sistemico. Dal punto di vista patogenetico, vi sono due fattori comuni a tutte le forme aneurismatiche: la debolezza strutturale e la forza meccanica che, insieme alle cause specifiche per ciascuna forma (deficit genetico del tessuto connettivo, infezione, infiammazione, traumi), contribuiscono alla genesi e alla progressione degli aneurismi. Si suppone che il cedimento strutturale del vaso sia conseguente alla disgregazione del collagene (alla cui composizione concorre in maniera preponderante la presenza di elastina) contenuto nell’avventizia aortica. La predisposizione del tratto addominale dell’aorta a subire questa patologia dilatativa è dovuta a una ridotta presenza di lamelle elastiche nel contesto del tessuto connettivo avventiziale, che comporterebbe la diminuita elasticità del vaso. A ciò si aggiunge il fatto che i vasi nutritivi della parete arteriosa, i vasa vasorum, sono quasi del tutto assenti a livello dell’aorta sottorenale. Questi dati anatomici possono predisporre alla degenerazione aneurismatica il tratto sottorenale dell’aorta, se esposto a fattori locali o sistemici sfavorevoli, come accade in presenza di una patologia aterosclerotica. Lo sviluppo dell’aneurisma, a sua volta, provoca localmente stasi di sangue che, unitamente al danno intimale, favorisce il deposito di trombi e quindi l’ulteriore indebolimento della parete arteriosa. L’assottigliamento della parete che ne deriva, accompagnato a progressiva dilatazione, comporta una riduzione della resistenza, favorendo l’ulteriore dilatazione. Applicando la legge di Laplace, che mette in correlazione la tensione parietale con il raggio del vaso e la pressione transmurale, si può affermare che per una data pressione transmurale, la tensione parietale è direttamente correlata al raggio, per cui all’aumentare del diametro del vaso si assiste a un incremento della tensione esercitata sulla parete arteriosa e quindi ad una ulteriore tendenza alla dilatazione. SINTOMI E SEGNI CLINICI Esistono manifestazioni sintomatologiche e segni clinici comuni per tutte le forme aneurismatiche e altre specifiche a seconda del distretto interessato. Il sintomo principe di ogni malattia, il dolore, varia la sua localizzazione che può essere toracica, addominale o posteriore con localizzazione lombare e/o dorsale. La compressione da parte dell’aneurisma su strutture contigue può comportare, nel caso di un aneurisma a localizzazione addominale, disturbi gastrointestinali quali nausea, perdita di peso o ittero. In caso di erosione duodenale si può assistere a sanguinamento intermittente o ad emorragia massiva. Possono essere presenti sintomi correlati all’apparato urinario in caso di compressione ureterale. Se, invece, la compressione avviene a livello di strutture poste nella cavità toracica come la trachea o i bronchi possono manifestarsi dispnea e tosse. L’erosione del parenchima polmonare o delle vie aeree può provocare emottisi, e l’erosione dell’esofago disfagia od ematemesi. La trazione del nervo vago a livello dell’arco aortico può provocare paralisi del nervo laringeo ricorrente, con raucedine. Sono comuni l’embolizzazione distale di trombo o di frammenti ateromasici e la graduale ostruzione e trombosi dei rami viscerali e delle arterie degli arti inferiori. Circa tre quarti dei pazienti portatori dell’aneurisma aortico più comune, quello addominale, sono asintomatici al momento della diagnosi, che viene generalmente effettuata in seguito al riscontro di una massa pulsante addominale o come rilievo occasionale in corso di altre indagini. Un vago e discontinuo dolore addominale è spesso presente, ma questo diventa costante e importante solo quando, in seguito a una rapida espansione dell’aneurisma, si verifica uno stiramento del sovrastante peritoneo. In questo caso la palpazione in sede epigastrica accentua la dolenzia che si può anche irradiare posteriormente in sede lombo-dorsale. Lo shock è conseguenza di una fissurazione o di una franca rottura aneurismatica. L’esame clinico può evidenziare una pulsazione addominale patologica sia all’ispezione, in particolar modo se il soggetto è magro, che alla palpazione, che permette di individuare la massa pulsante in sede epigastrica. Talvolta l’aneurisma si accompagna a un soffio addominale. L’ecografia rappresenta l’esame di primo livello in caso di sospetto aneurisma aortico. Per l’aneurisma toracico, la metodica diagnostica è l’ecocardiografia transesofagea, mentre nel caso di localizzazione addominale si esegue più semplicemente un esame ecografico con metodica Doppler o color-Doppler che, oltre a visualizzare e a permettere di misurare con accuratezza la dilatazione vasale fornisce informazioni sul flusso e consente di distinguere il lume canalizzato dal trombo parietale e di visualizzare con accuratezza l’origine dei vasi che nascono dall’aorta. E’ possibile ottenere delle informazioni, seppur parziali, anche da una radiografia, che sia a livello toracico che addominale può mostrare uno slargamento dell’immagine del vaso sottolineata dalle calcificazioni della parete. L’aortografia ha il limite di valutare solo il lume pervio dell’aorta. L’esame imprescindibile in previsione di un intervento chirurgico è rappresentato dalla TC, in particolar modo con mezzo di contrasto (Angio-TC) , che analizza la parete aortica, il lume ed i rami emergenti. Le nuove metodiche TC permettono anche una ricostruzione tridimensionale dell’intera estensione aortica). SINDROME AORTICA ACUTA La sindrome aortica acuta può insorgere per rottura aneurismatica, dissezione aortica, ulcera penetrante, ematoma intramurale o lesioni traumatiche (penetranti o contusive). In questi casi ci si trova davanti a una condizione di emergenza chirurgica gravata da un alto tasso di complicanze. L’evenienza più frequente è la rottura dell’aneurisma, che presenta una mortalità operatoria del 50% circa; la mortalità, tuttavia, aumenta a oltre il 90% se si prende in considerazione anche il decesso che avviene prima dell’arrivo in ospedale. Il forte dolore toracico o addominale con irradiazione posteriore, accompagnato da shock, indirizza verso la diagnosi di rottura. La terapia chirurgica è volta ad arrestare il sanguinamento e a ripristinare la continuità aortica. Il successo della procedura è strettamente condizionato dal tipo di rottura (libera o tamponata), dallo stato emodinamico del paziente e dalla possibilità di un rapido controllo del sanguinamento della lesione aortica quando il paziente si presenta instabile per un’emorragia attiva. Il trattamento si avvale delle due opzione terapeutiche già descritte: la terapia convenzionale o quella endovascolare. La morbilità legata all’esposizione chirurgica e al clampaggio aortico sempre toracico, o comunque sopra-renale, anche in caso di aneurismi addominali, rende in particolari condizioni vantaggioso l’approccio endovascolare, che risulta efficace e sicuro anche in condizioni anatomiche favorevoli. ISSEZIONE AORTICA La dissezione aortica, in precedenza definita come aneurisma dissecante, è la condizione in cui il sangue penetra nella parete aortica attraverso una lacerazione intimale, e si fa strada all’interno della tonaca media, creando un “falso lume”. La dissezione della media può estendersi per un lungo tratto (anche per tutta l’aorta) e interessare i rami che nascono dall’aorta; in diversi casi il sangue che riempie il falso lume torna poi nel lume vero attraverso una breccia distale. Dal punto di vista anatomo-patologico, questa lesione dell’aorta è uno pseudoaneurisma, perché l’intima (il lume vero) non è realmente aneurismatica, ma la dilatazione del falso lume (che di solito è il più ampio dei due lumi) dà luogo a un allargamento dell’aorta al di là delle sue dimensioni normali, per cui è stato attribuito a questa condizione il termine di “aneurisma”. Esistono due sistemi di classificazione quello di Standford e quello di DeBakey: se è interessata l’aorta ascendente, l’arco dell’aorta e l’aorta discendente si parla di tipo A secondo Stanford, che corrisponde al tipo I e II di DeBakey . Se l’aorta ascendente non è interessata si parla di tipo B di Stanford, che corrisponde al tipo III di DeBakey. La lesione anatomo-patologica tipica riscontrata nei pazienti con dissezione aortica acuta di tipo B (che sono di solito anziani e spesso ipertesi) è la degenerazione muscolare liscia all’interno della tonaca media. Nei pazienti con dissezione di tipo A, che sono in genere più giovani, si assiste invece a un’alterazione congenita del tessuto connettivo della tonaca media dell’aorta (medionecrosi cistica) con conseguente degenerazione del tessuto elastico. Quadro clinico. Le dissezioni aortiche diagnosticate entro due settimane dall’inizio del dolore o degli altri sintomi d’esordio vengono classificate come acute, mentre quelle diagnosticate più tardivamente sono definite croniche. Il sintomo più comune è un fortissimo e lancinante dolore toracico anteriore o posteriore, interscapolare, dovuto allo stiramento dell’avventizia aortica da parte dell’ematoma dissecante. La migrazione del dolore fa pensare che la dissezione si stia espandendo o estendendo. Si può anche manifestare un quadro di shock (per rottura intra-pericardica dell’aorta con tamponamento cardiaco o per rottura intra-toracica con sanguinamento). L’esordio può avvenire, sebbene di rado, con un quadro di infarto miocardico causato da dissezione coronarica. L’ampia costellazione di sintomi e segni concomitanti (ictus, paraplegia, ischemia degli arti superiori o inferiori, anuria, dolore addominale per ischemia renale o mesenterica) è correlata al coinvolgimento, da parte della dissezione, dei rami aortici distali e alla conseguente compromissione della perfusione dei diversi organi irrorati da tali rami. Il dolore toracico va distinto da quello di tutte le altre malattie, cardiovascolari e non, che possono essere responsabili di questo sintomo: infarto miocardico, pericardite, embolia polmonare, pneumotorace, malattie dell’esofago, affezioni ossee, nevralgie, etc. A parte i casi non frequenti di dissezione coronarica e correlato infarto miocardico, l’Elettrocardiogramma e il dosaggio dei marker di necrosi miocardica sono normali nei pazienti con dissezione aortica, permettendo una immediata esclusione della cardiopatia ischemica. In una percentuale non minima dei casi l’ascoltazione del cuore rivela un’insufficienza aortica massiva, prima assente, provocata dalla dilatazione della radice aortica, con mancato collabimento delle cuspidi valvolari in diastole. La diagnostica strumentale si avvale dell’ecocardiografia transtoracica, ma soprattutto di quella transesofagea e della TC con mezzo di contrasto. Nella dissezione acuta di tipo A, il primo obiettivo terapeutico è rappresentato, in attesa dell’intervento chirurgico, daltrattamento dell’ipertensione, per prevenire la rottura dell’aorta nel pericardio o nello spazio pleurico, ed evitare il coinvolgimento degli osti coronarici o della valvola aortica o il danno irreversibile multiorgano. L’intervento chirurgico consiste nella sostituzione protesica dell’aorta ascendente e della parte prossimale dell’arco. Nel caso di dissezione acuta di tipo B spesso si preferisce la terapia medica, mentre l’intervento chirurgico viene riservato a pazienti giovani, a basso rischio, con dissezione non complicata, allo scopo di prevenire una rottura, e consiste nella sostituzione protesica del segmento di aorta toracica discendente che contiene le lesioni più gravi. Nella dissezione cronica, sia di tipo A che B, l’indicazione chirurgica tiene presente che i fattori di rischio più frequenti per una rottura aortica sono il diametro aortico, l’eccentricità della dilatazione e una rapida espansione (maggiore di 1 cm per anno). Pertanto, si pone indicazione all’intervento chirurgico in caso di dilatazione dell’aorta ascendente superiore a 5,5 cm oppure pari a 5 cm, quando coesistano patologie del tessuto connettivo, specialmente la Sindrome di Marfan, o in caso di dilatazione dell’aorta discendente superiori o pari a 6 cm o più, o se è presente una familiarità per connettivopatie. L’approccio endovascolare prevede l’impianto di una endoprotesi a copertura della dissezione prossimale per ripristinare il flusso ematico nel lume vero compresso. La procedura, che prevede l’eventuale stenting del flap intimale in caso di malperfusione d’organo, si pratica soprattutto nei casi di dissezioni di tipo B non complicate. L’ULCERA PENETRANTE AORTICA consiste in una lesione della lamina elastica interna da parte di un processo ateromatoso che si estende sino alla tonaca media. La sua evoluzione naturale è rappresentata dall’ematoma intramurale, dalla dissezione o dallo pseudoaneurisma, con conseguente possibile rottura vasale. Il suo riscontro occasionale non implica necessariamente il trattamento, che si rende invece necessario in caso di sintomatologia o di rapida progressione. La metodica terapeutica maggiormente indicata è rappresentata dal trattamento endovascolare atto a escludere la lesione.