rileggendo cm cipolla: il nuovo declino italiano e la finanza pubblica

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WORKING PAPER
No 460
Ottobre 2005
RILEGGENDO C. M. CIPOLLA:
IL NUOVO DECLINO ITALIANO E LA FINANZA PUBBLICA
LUIGI BERNARDI
JEL CLASSIFICATION:
H0
KEYWORDS: Finanza pubblica – Carlo Maria Cipolla
società italiana di economia pubblica
dipartimento di economia pubblica e territoriale – università di Pavia
Rileggendo C. M. Cipolla: il nuovo declino italiano e la finanza
pubblica
Luigi Bernardi∗
1. Il nuovo declino italiano: non è il primo
Il declino attuale non è il primo nella storia economica italiana. Viene a volte accostato 1
a quello che avrebbe determinato la caduta dell’impero romano, secondo una
storiografia consolidata2. Consolidata, ma non confermata dalle ricerche più recenti3.
Dopo le riforme dei grandi imperatori illirici, l’impero romano ha seguito un percorso
economico alterno, ma la sua caduta va attribuita ad un’implosione politica e
istituzionale interna, non ad un collasso dell’economia e neppure alle invasioni
barbariche. La revisione storiografica recente ha anche smentito che la fine della
Repubblica ateniese sia stata provocata principalmente da cause economiche, in
particolare dai disincentivi indotti da una progressività eccessiva assunta nel tempo
dalle imposte di Solone, l’ήυσφοριά e le λιτουργίες4, come invece si era supposto nel
dibattito di inizio ‘900 sull’imposta personale, da Autori della levatura di Sidgwick e
Edgeworth5. Se la caduta di Atene ha avuto una concausa finanziaria, questa va invece
attribuita alla contrazione dei contributi dei territori soggetti, acquisiti in gran parte da
Sparta, in seguito alle guerre del Peloponneso. Le imposte progressive hanno invece
dissanguato la Firenze medicea, introdotte da Cosimo per motivi di political economy,
cioè per ridurre la ricchezza e il potere antagonista delle altre grandi famiglie fiorentine.
La vicenda più tragica dell’economia italiana in epoca moderna è in ogni caso il
crollo produttivo intervenuto nel ‘600, più volte descritto magistralmente da C. M.
∗
Dipartimento di economia pubblica e territoriale, Università di Pavia, E-mail: [email protected].
Codici JEL N10, 010, H60. Ringrazio G. Amato per il tempo accordato a questo intervento al Convegno
Oltre il declino, Roma, Fondazione Rodolfo DeBenedetti, 3 febbraio 2005. Ringrazio anche C. Bianchi ed
E. Gerelli, per avermi introdotto, rispettivamente, alla teoria neokaldoriana della crescita ed alla
letteratura su economia e happiness. Finanziamento Far, Università di Pavia.
1
De Cecco (2004). p. 116.
2
Gibbon (1812), passim.
3
A. Bernardi (1970). passim.
4
Gera (1975), passim.
5
Edgeworth (1933), p. 229.
1
Cipolla6. L’incipit del saggio più ampio (1970) è fulminante. “At the beginning of the
seventeenth century, Central and Northern Italy was still one of the more highly
developed regions of Western Europe. (…) Towards the end of the same century, that is
around 1680, Italy had become a backward and depressed area; her manufacturing
industry had collapsed. (…) Venice, at the beginning of the century produced annually
more than 20,000 cloths, at the end, annual production had declined to little over 2,000
cloths. In Como the silk industry had thirty active looms. By 1650 there were only two.
In Milan there were between sixty and seventy firms making woollen cloths, with an
overall output of 15,000 cloth a year. By 1709 there was but a single firm, with an
annual production of around 100 cloths.”
L’interpretazione del declino e del collasso industriale sembra scritta sulle
cronache di oggi. “The economic prosperity of Italy was fundamentally dependent on
massive exports of manufactured articles and on a huge volume of invisible exports
such as banking and shipping services. (…) With the second half of the sixteenth century
other nations were developing on a large scale and with new methods were expanding
their industrial, banking and maritime activities. Their products and services came to
compete and triumph over Italian ones (…) The fundamental reason why Italian goods
and services were supplanted by those offered by foreigners were always the same:
English, French and Dutch services were offered at lower prices. But why this disparity
in prices?
(a)
The guilds had become associations primarily designed to prevent competition
between associates, and they constituted a formidable obstacle to any plausible
innovation.
(b)
The pressure of taxation on Italian states seems to have been too high, and badly
conceived.
(c)
Labor costs seem to have been too high in Italy. Recent research has illustrated
the extreme rigidity of Italian labour market and wages structures.
(d)
Disastrous epidemics destroyed nearly a third of population, by thus suddenly
reduced the available labor supply.”
La conclusione e la prognosi sono agghiaccianti: “From being a developed
country, mainly importing primary product and exporting manufactured goods and
services, Italy had become an underdeveloped country, mainly importing manufactured
articles and services and exporting primary products. The story of seventh – century
Italy is, however, a good example of the destructive effect of a process of readjustment
abandoned to automatic long-term deflation”.
Dovrà passare più di un secolo, perché il capitale straniero, in assenza di un
surplus agricolo interno, costringa l’Italia a configurarsi come uno stato nazionale ed a
dotarsi di infrastrutture, di una amministrazione e di una legislazione moderne. I capitali
affluiti dall’estero innescheranno la re-industrializzazione del paese. Ma il ritardo
accumulato nel ‘600, rispetto ai paesi europei più avanzati, non sarà più recuperato, in
termini di sviluppo sia economico che civile.
6
Cipolla (1952, 1959, 1970, 1974), passim.
2
2. La finanza pubblica: (con) cause ed effetti del declino
La via della stabilizzazione finanziaria pareva obbligata ed improrogabile, nell’Italia dei
primi anni ’90, e non solo per consentire al nostro paese l’ingresso nell’Unione
monetaria europea: anche se per altro non sono mai state valutate le conseguenze
dell’ipotesi che l’Italia, nel 1992, invece della virtù del risanamento, avesse adottato
l’astuzia del default. Certo ora appare un errore avere impostato la stabilizzazione su un
modello ben diverso da quello seguito a fine anni7 ’70 e non lontano dal “Washington
Consensus” 8 , cioè sulla convinzione che pareggio di bilancio, disinflazione,
privatizzazioni finalizzate alla cassa, liberalizzazioni approssimative fossero di per sé
sufficienti anche ad innescare un nuovo ciclo di sviluppo, indotto dalla stabilità
finanziaria, e senza che la minore spinta innovativa della domanda fosse compensata da
adeguate politiche di offerta.
La “cultura della stabilità”, che ha riempito le pagine dei Dpef e di molti discorsi
dell’epoca, è però solo uno scampolo del fondamentalismo di mercato, quasi priva di
riscontri nell’esperienza storica. Nei periodi di catching-up, una crescita reale
tumultuosa, la “distruzione creativa” di Schumpeter, in genere si accompagna, e forse
richiede, fenomeni di instabilità finanziaria. Il frequente overshooting, che allora
interviene, da parte delle Autorità monetarie, interne o internazionali, ha avuto in più di
un caso la conseguenza di frenare sia il catching up, sia lo sviluppo seguente: si ricordi
soltanto l’esperienza italiana dei primi anni ‘60. Nei paesi avanzati e nella realtà attuale,
la stabilità finanziaria si coniuga con il rigor mortis dello sviluppo (è il caso europeo,
della Germania in particolare) mentre dove la crescita è sostenuta, solo la maestria di un
Greenspan riesce a controllarne gli inevitabili squilibri finanziari. Un’esperienza storica
ricorrente è infatti che quando si privilegiano le ragioni (= stabilità vs. crescita) della
finanza sull’economia reale (la “Treasury view” di Churchill e di Keynes, ma non solo)
si può contribuire a provocare il ristagno dell’economia reale. L’orientamento teorico
oggi dominante è per altro fondato su una relazione di causalità da finanza a economia e
non viceversa, ma, nelle parole del Keynes della Teoria generale, “When the capital
development of a country becomes a by product of the activities of a casino, the job is
likely to be ill-done”.
Più specificamente9:
a)
la concertazione salariale ha indirizzato la dinamica dei redditi da lavoro su
un profilo di recupero solo successivo dell’inflazione effettiva. L’impatto antiinflazionistico ha contribuito a una sostanziale stagnazione nella dinamica del reddito
reale disponibile delle famiglie (da 100 nel 1990 a 103,5 nel 2003, stima Ref).
L’inevitabile decelerazione dei consumi ne ha inoltre arrestato l’evoluzione in corso,
verso modelli più evoluti, così disincentivando lo sviluppo delle produzioni più
avanzate. Infine, “la dinamica salariale accomodante ha indebolito le sollecitazioni
7
Giavazzi e Spaventa (1989), passim.
Stiglitz (2002), passim.
9
Amplius, Bernardi (2004), pagg. 381-382.
8
3
all’efficienza e all’innovazione, capaci di vincere lassismo e moral hazard presso i
produttori” (Ciocca, 2003);
b)
le politiche monetarie e di bilancio, sono state molto discusse, quanto agli
effetti a breve, keynesiani, non-keynesiani od entrambi. Si è trascurato di analizzare
quelli di lungo periodo, causati da oltre dieci anni (almeno 1985-1997) di politiche
monetarie e di bilancio costantemente restrittive. E’ ragionevole supporre che le
strategie conservative e risk-adverse, ma costantemente bisognose di mostrare risultati a
breve positivi a ristrette proprietà familiari ed a mercati finanziari altamente speculativi,
siano state anche la conseguenza delle politiche di consolidamento finanziario, che
avrebbero quindi contribuito ad indurre la ricerca di localizzazioni più favorevoli o di
impieghi e rendite più vantaggiose nell’immediato. Il livello e la qualità del corebusiness si è così deteriorato, in apparenza senza alcun controllo, né pubblico, né di
mercato azionario o bancario, ma invece con il ricorrente concorso di aiuti di stato più
che generosi.
Quando, nel 2003-2004, l’economia mondiale entrerà in un nuova fase
espansiva, troverà l’industria italiana in uno stato d’isteresi. Ed attualmente, una teoria
neokaldoriana della crescita molto accreditata 10 attribuisce appunto lo sviluppo
potenziale al rapporto tra l’elasticità delle esportazioni al commercio mondiale e le
importazioni rispetto al Pil (a valori correnti). La figura 1 sotto riportata evidenzia come
in questi termini la posizione italiana presenti una criticità evidente.
INSERISCI FIGURA 1
Le conseguenze del declino sull’equilibrio dei conti pubblici possono essere
devastanti. Le si è già percepite negli anni scorsi, sia pure occultate dalle “una tantum”
di Tremonti. Emergeranno in termini vistosi, con il prosieguo degli anni. Limitiamoci
ad una valutazione necessariamente molto approssimativa, per il 2005-2010.
Le (favorevoli) ipotesi sottostanti le stime riportate nella Tabella 1, costanti per
tutto l’arco previsivo, sono le seguenti:
• il Pil nominale cresce ad un tasso annuo del 3,5 per cento, quello reale all’1 per
cento;
• le entrate manifestano la stessa elasticità al Pil conseguita da quelle correnti (cioè
escluse le una tantum) nel periodo 2000-2004, pari a 0,8. La crescita annua risulta
quindi del 2,8 per cento;
• le spese primarie aumentano al 4,5 per cento per anno. Si assume quindi,
ottimisticamente, una decelerazione dell’espansione registrata nell’ultimo
quinquennio (+ 5,1 per cento per anno) e non si considerano le eventuali spinte
propulsive indotte dal doppio ciclo elettorale 2005-2006, né la necessità di
consolidare i debiti degli enti periferici;
10
McCombie e Thirwall (1994)
4
•
gli interessi sono supposti costanti, nell’ipotesi che la contrazione della spesa dovuta
alla progressiva rotazione del debito verso titoli con cedole inferiori sia compensata
da un limitato aumento dei tassi e dalla crescita del debito. Non si assume alcun
aumento del premio per il rischio, in conseguenza del degrado del quadro di finanza
pubblica.
Tab 1 La finanza pubblica del declino - % del Pil - 2004-2010.
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
Entrate
totali
Spese
totali
Interessi
Spese
primarie
Avanzo
primario
Indebitamento
netto
Debito
P.A
45,2
44,9
44,6
44,3
44,0
43,7
43,4
48,3
48,5
48,9
49,3
49,8
50,3
50,7
5,0
4,8
4,8
4,8
4,8
4,9
4,9
43,3
43,7
44,1
44,5
45,0
45,4
45,8
2,0
1,3
0,5
-0,2
-0,9
-1,7
-2,4
-3,0
-3,5
-4,3
-5,0
-5,8
-6,5
-7,3
105,8
105,7
106,5
107,9
110,0
112,8
116,2
Fonti: elaborazioni su Banca d’Italia (2004) e Ref (2005).
Note: Vedi il testo per le ipotesi sottostanti le stime.
I risultati di questo semplice esercizio contabile si commentano da soli:
• la forbice che si apre tra entrate e spesa primaria determinerebbe, prima,
l’azzeramento dell’avanzo primario, poi, il suo passaggio a valori negativi, che, a fine
decennio, ritornerebbero su valori non dissimili di quelli della seconda metà degli
anni ’80. Già dal 2005 l’indebitamento netto supera il limite del 3 per cento, da cui in
seguito si allontana vistosamente, fino a superare il 7 per cento a fine decennio. Infine il
debito, la cui crescita è qui per altro sottostimata, dipendendo soltanto dagli accumuli
dell’indebitamento netto annuo: a partire dal 2006 comunque riprende a crescere. Va
notato, in particolare, come questo incremento abbia un profilo non lineare, ma
esponenziale, quindi, tendenzialmente, di tipo esplosivo:
• la coerenza di questo quadro contabile può naturalmente essere posta in discussione,
quanto ai suoi effetti sulla domanda. La contrazione delle entrate e l’aumento della
spesa non dovrebbero restare senza conseguenze sulla fiscal stance, sempre che questa
non sia compensata da effetti non-keynesiani, su aspettative e premio per il rischio sui
tassi del debito italiano. E’ difficile tuttavia che non si abbia un vistoso allontanamento
dai vincoli europei di bilancio. Il rispetto di questi avrebbe, viceversa, la conseguenza di
bloccare la spinta sulla domanda. La finanza pubblica del declino presenta quindi, in
conclusione, un trade off impossibile tra disciplina di bilancio, fiscal stance e crescita.
5
3. Il “benevolent planner” che non esiste e la convivenza con il declino
Per contrastare il declino, si propongono11 politiche di ampio respiro e di lungo periodo:
maggiore concorrenza nei mercati, minori carenze di infrastrutture, soprattutto “il
superamento di un modello di specializzazione obsoleto e sempre più esposto alla
concorrenza dei paesi emergenti”. Ciò “impone con urgenza che si rafforzi la nostra
dotazione di capitale umano” e “che si creino le condizioni per cui l’accresciuta offerta
di lavoro qualificato trovi un adeguato sbocco nella domanda del sistema produttivo”
E’ difficile dissentire, ma anche non sollevare almeno due problemi:
• le politiche proposte sono il contrario di quelle adottate da diversi decenni. Quale
Benevolent Planner dovrebbe operare il cambiamento? Senza qui addentrarsi nella
risalente alternativa tra il governo degli ottimati e quello di democrazia elettorale, si
consideri solo quello in carica. Ha adottato una riforma dell’imposta sulle società (l’Ires)
che colpisce duramente le medie imprese, le più suscettibili di crescita e di diffusione
delle innovazioni, imponendo un’aliquota superiore di dieci punti alla media europea e
di circa quindici a quella dei nuovi membri dell’Unione. Tutto questo per ottenere
l’appoggio delle poche grandi holding che rimangono, a cui sono state concesse ampie
possibilità di tax planning, e per conseguire il consenso elettorale della miriade di
piccole imprese, sostanzialmente libere di evadere. Una riforma fiscale volta a (tentare)
di contrastare il declino dovrebbe invece ridurre drasticamente il carico sui fattori
produttivi e spostarlo su consumi e rendite12. Insieme all’ultima “Finanziaria” doveva
essere varato un decreto volto al rilancio dello sviluppo. Ma la dotazione è stata dispersa
tra mille rivoli a pioggia e nell’insieme non ha superato i due miliardi di €, cioè lo 0,03
per cento della spesa pubblica, meno della metà dei soldi buttati per dare l’illusione di
una riduzione delle tasse;
• a quale popolazione verrà affidato il rinnovamento del modello produttivo italiano,
con la compressione dei consumi e l’espansione degli investimenti? Secondo le stime
demografiche Istat (http://demo.istat.it), nell’ipotesi più coerente con lo scenario del
declino, la popolazione residente al 2000 (57,8 milioni) dovrebbe ridursi di circa il 9 per
cento (52,3milioni) al 2030 e di circa il 25 per cento (43,1 milioni) al 2050. Nell’arco di
un cinquantennio, la componente attiva calerebbe inoltre di circa 12 punti (dal 68,5 al
56,3 per cento). Combinando i due dati, si ottiene un crollo della popolazione lavorativa
di circa il 40 per cento (da 39,6 a 24,3 milioni). In questa Italia spopolata
aumenterebbero solo i vecchi (> 65 anni), sia in assoluto (da 10,5 a 15,5 milioni) e
soprattutto come quota della popolazione totale (dal 18 al 40 per cento circa). Il capitale
umano da potenziare non sembra quindi molto abbondante. Sarebbero necessarie
politiche di immigrazione lungimiranti: le si è affidate a due esterofili come Bossi e Fini.
In conclusione, è certo doveroso contrastare il declino, o almeno provare a
salvaguardare e potenziare l’apparato produttivo esistente, ma non sarà certo facile Né
breve, specie ad opera di una classe politica incapace di dire la verità al Paese, sia dal
11
12
Ad es. Faini e Sapir (2005), passim.
Bernardi (2005), passim.
6
Governo che dall’opposizione, una condizione necessaria, per salvare le nazioni, nelle
parole di A. Lincoln. E’ quindi opportuno cominciare a interrogarsi su come convivere
al meglio con il declino. Il benessere, ricordava Pigou, non è dato solo dall’entità ma
anche dalla distribuzione del “dividendo nazionale”, se solo si crede che il reddito abbia
un’utilità marginale decrescente. Sicurezza e servizi sociali non depotenziati ma
rafforzati, per efficienza ed equità, la garanzia delle pari opportunità, un’educazione più
diffusa, una maggiore etica politica, più diffuse relazioni interpersonali, le tante risorse
che questo paese può sfruttare per la qualità della sua vita, insomma la costruzione della
società “buona e giusta” di Rawls sono importanti per il futuro nostro e dei nostri
discendenti almeno quanto lo è una improbabile rincorsa ottimisticamente intesa a
raggiungere i paesi più avanzati (che non si fermeranno certo ad aspettarci).
Del resto classici come Smith e Marshall erano consapevoli del carattere
strumentale delle disponibilità materiali per la felicità umana13. Non a caso nella storia
del pensiero economico, il benessere ad un certo punto è stato inteso come utilità dei
beni, correlata ma non coincidente con la loro quantità. A partire almeno da The Joyless
Economy di Scitowsky del 1976, la letteratura economica più consapevole e meno
convenzionale ha fatto emergere il paradosso “reddito-felicità”, secondo cui nelle
società avanzate gli incrementi nell’ammontare dei beni e della ricchezza non
producono sempre effetti diretti sullo stato di soddisfazione delle persone. Le politiche
pubbliche, soprattutto quelle redistributive, dovrebbero indirizzarsi agli strumenti per
sfruttare questo decoupling, con l’obiettivo di aumentare il benessere dei cittadini.
Ricerche empiriche e applicazioni conseguenti, e non sono analisi di principio, sono da
incoraggiare in queste direzioni.
Bibliografia
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Ciocca P.L. (2003), L’economia italiana: un problema di crescita, “Bollettino
economico della Banca d’Italia“, n. 41, pagg. 81*-94*.
13
Bruni e Porta (2004), passim.
7
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Economic History Review“, 2nd ss., Vol. V.
Cipolla C.M. (1959), Storia economica d’Italia, Torino, Boringhieri.
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8
9
ni
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Fig. 1. Tassi di crescita effettivi e potenziali in Europa: 1990-2002
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