Marcella Farioli IL ROVESCIO DELL‟ALTRO Funzioni dei miti matriarcali nella letteratura greca e oltre Nella mitologia greca, come in quella di altre culture antiche (indiana, cinese, etc), compaiono miti riguardanti società governate da donne che rappresentano il rovescio di quella patriarcale, in cui le donne erano relegate alla pura funzione riproduttiva all‟interno dell‟oikos; nelle ginecocrazie mitiche e letterarie, invece, le donne prendono il potere, assumono ruoli sociali maschili, eliminano gli uomini o li costringono a vivere la stessa marginalità cui esse sono di norma condannate. Il mito greco matriarcale più noto e più persistente nei secoli è senza dubbio quello legato alle Amazzoni, donne guerriere che vivevano sul Mar Nero, governavano da sole il loro stato e relegavano gli uomini ai lavori servili. Secondo altre versioni del mito, esse vivevano separate dagli uomini, cui si accostavano solo per essere fecondate, e uccidevano o abbandonavano i figli maschi. Una tradizione più tarda, pervenuta attraverso Diodoro Siculo, racconta di una società di Amazzoni con le stesse caratteristiche anche in Libia. Nella mentalità greca il separatismo e il rovesciamento dei ruoli sociali già di per se stessi si caratterizzano come violazione contro natura dell‟ordine sociale: ma il mito conferisce alle Amazzoni anche altri tratti abnormi e barbarici, a partire dalla crudeltà, che le spinge a uccidere o mutilare mariti e figli. Esse scrive Apollonio Rodio, “non rispettano le leggi della giustizia, ma ad esse sono cari solo la violenza e i lavori di Ares”. Uccidono gli uomini, inoltre tagliano una mammella alle figlie, usano arco e frecce - armi poco apprezzate dai Greci -, indossano vestiario maschile e invece di restar chiuse nell‟oikos vivono all‟aperto dedicandosi alla guerra e alla caccia, non conoscono l‟agricoltura. Venerano Ares e Artemide, dea libera dal giogo maschile, protettrice della milizia e della cinegetica. Diodoro, inoltre, collega le Amazzoni Libiche al culto della Madre degli Dei: è interessante notare che sia la caccia come attività principale sia la venerazione di una grande madre proiettano le Amazzoni in una dimensione remota precedente alla rivoluzione agricola e all‟ordine patriarcale. Tale insistita accentuazione del carattere mostruoso delle Amazzoni è legata alla funzione che questi miti svolgevano nelle società antiche: quello di esorcizzare la paura di un potere femminile rappresentandolo come il rovescio della società greca, come un disordine primigenio in opposizione all‟ordine della civiltà androcratica. Chi combatte contro la ginecocrazia assume dunque i tratti di un eroe culturale, distruttore del caos e portatore di civiltà: Eracle, Bellerofonte e Teseo, greci e maschi, che sconfiggono le Amazzoni, donne e barbare, ripristinando la supremazia maschile, sono eroi civilizzatori come Cecrope, che istituisce il matrimonio monogamico ad Atene e l‟esclusione politica delle donne. Non sarà dunque casuale la grande diffusione in ambito ateniese delle Amazzonomachie come miti di fondazione: anche nell‟iconografia sono frequenti immagini di guerrieri che trafiggono Amazzoni o di Amazzoni raffigurate insieme ad altri mostri dalla natura composita, come le Arpie, crudeli e nemiche dell‟uomo. Analogo a quello amazzonico è un altro interessante mito matriarcale dai caratteri di innaturalità mostruosa, quello sulle donne dell‟isola di Lemno. Avendo trascurato il culto di Afrodite, le Lemnie avevano subito la punizione della dea, che le aveva condannate ad emettere un odore così repellente che i loro mariti le rifiutavano, accoppiandosi invece con le schiave. Le Lemnie si erano vendicate uccidendo tutti gli uomini del‟isola: Da allora in poi alle donne di Lemno allevare / i buoi, indossare le armi di bronzo e lavorare / i campi di grano, tutto divenne più facile / dei lavori di Atena, che sempre svolgevano un tempo. (Argon. 627-630). Quando all‟orizzonte si profila la nave degli Argonauti in viaggio verso la Colchide per recuperare il vello d‟oro, le Lemnie si preparano a combattere: Quando videro la nave Argo avvicinarsi all’isola a remi, / vestirono le armi e si riversarono in massa dalle porte di Mirina alla spiaggia: parevano le Baccanti, / mangiatrici di carne cruda (Argon. I 633-636) É significativa la similitudine che il poeta stabilisce con le Baccanti, anch‟esse donne che vivono separate dagli uomini. Per gli antichi il passaggio dal crudo al cotto è simbolo del passaggio dell‟uomo dalla vita primitiva alla civiltà. Anche le Baccanti, il cui rito possiede diversi tratti di inversione e sgomenta per la sua potenziale forza eversiva, si distinguono per violenza e ferinità, come appunto lo sparagmòs e l‟omophagia, il dilaniamento di un animale vivo ed il banchetto con le sue carni crude e sanguinanti. La similitudine rimarca dunque l‟innaturalità di queste androktonoi, assassine di uomini: le Amazzoni, le Danaidi o le donne virili come Clitemnestra, “donna dal cuore maschio” (Aesch. Agam. 11), la cui forte simbolizzazione come mostro inquietante è accentuata da Eschilo nell‟Agamennone tramite il paragone proprio con le donne di Lemno. Dopo l‟approdo della nave Argo, la dysosmie scompare: le Lemnie scelgono di unirsi ai Greci per generare una nuova progenie. Il ritorno alla normalità dei ruoli sociali coincide con la fine della “malattia” delle Lemnie: dunque il potere femminile si configura come una situazione patologica. Nel suo celebre saggio sul matriarcato Bachofen afferma che l‟episodio delle Lemnie costituisce una trasposizione mitica di eventi storici, dell‟esistenza di una fase matriarcale molto antica che avrebbe coinvolto tutto il Vicino Oriente. Il massacro dei Lemni rifletterebbe la violenza di questa fase, mentre l‟accettazione del giogo maschile da parte delle Lemnie simboleggerebbe il passaggio dal diritto materno a quello paterno. La tesi su una diffusa fase matriarcale precedente al patriarcato da tempo non è più ritenuta plausibile. Anche in questo caso il mito svolge invece una funzione apotropaica e di distanziamento, relegando la ginecocrazia in un remoto „altrove‟ temporale. Ciò che è lontano non fa paura, ma la sua innaturale esistenza giustifica la liceità del patriarcato e del controllo maschile di creature potenzialmente sanguinarie. L‟idea del caos matriarcale, insomma, motiva sul versante mitico quell‟assoggettamento delle donne che più tardi i filosofi giustificheranno sul piano della biologia e della “natura”. Del resto ancora nell‟Ottocento Bachofen manifestava curiosamente la medesima paura del matriarcato, riscontrando nella stessa natura femminile un‟attitudine omicida: “Coloro che cercano di relegare quell’eccidio di uomini nella sfera della fantasticheria misconoscono in realtà il carattere della donna, insaziabile nella sua sete di sangue, non valutano correttamente l’influenza che il possesso del dominio e il suo esercizio hanno avuto nell’esacerbare le loro passioni naturali”. Un altro modo per rimarcare l‟innaturalità del potere femminile attraverso il mito risiede nell‟accostarlo alla forma di governo più perversa che gli antichi possano immaginare: la dulocrazia, il governo degli schiavi: infatti in alcuni miti di fondazione di colonie della Magna Grecia le donne assumono un ruolo da protagoniste assieme agli schiavi. Secondo il mito, ad esempio, Taranto fu fondata da un gruppo di iloti che durante la guerra messenica si erano uniti a donne spartane libere, mentre Locri Epizefiri sarebbe stata fondata da schiavi Locresi unitisi a donne di Sparta. In questi miti vengono congiunte le due categorie escluse per definizione dal potere, anche se in base a leggi e meccanismi sociali differenti. Giuridicamente diverse le forme dell‟esclusione, analoga la giustificazione teorica, cioè l‟inferiorità naturale, fùsei. Il loro avvento al potere è dunque agli occhi dell‟uomo greco un paradosso assoluto, un‟ipotesi contraddetta dalle regole sociali e dalla stessa natura. Proprio questo carattere paradossale e il capovolgimento della realtà fanno si che nel teatro del V secolo i miti ginecocratici siano molto presenti: l‟inversione dei ruoli, infatti, regala infinite potenzialità al dispiegamento del comico, soprattutto in unione al linguaggio del ventre prediletto dalla commedia, con la sua iperbolizzazione del sesso e del cibo, ai topoi del pensiero misogino greco e agli equivoci e i doppi sensi erotici. Aristofane ed altri autori le cui opere ci sono giunte allo stato di frammenti mettono dunque in scena commedie di rovesciamento, società dove gli uomini vengono dominati dagli animali, dalle donne o dai selvaggi. Sono distopie più che utopie, poiché i mondi rappresentati assumono tratti fortemente negativi, proponendo valori contrari a quelli dominanti oppure esasperando fino al parossismo i vizi della società contemporanea, come se l‟imbarbarimento della città si riflettesse nei governi mostruosi delle donne e delle bestie. Tra le commedie ginecocratiche, le Ecclesiazuse (391 a.C.) di Aristofane sono senza dubbio la più significativa, per la complessità del progetto politico proposto. Tutti ne conosciamo la trama: le donne di Atene, guidate da Prassagora, constatando l‟inarrestabile declino della città mal governata dai propri mariti, in assemblea, travestite da uomini, fanno approvare la cessione del potere alle donne, prendono in mano la polis e realizzano alcuni provvedimenti decisamente fuori dagli schemi: egualitarismo, comunanza dei beni, comunanza degli uomini, abolizione dell‟idea stessa di paternità. Il mondo alla rovescia di Prassagora ribalta i cardini dell'ideologia della città e dell‟economia antica: la proprietà privata, la marginalità femminile, l‟oikos nel suo duplice volto di struttura monogamica e patrilineare. La ginecocrazia non fa però sparire la concezione restrittiva della cittadinanza: gli schiavi rimarranno tali. Nella Lisistrata, che è del 411, nel pieno della guerra del Peloponneso, e precede le Ecclesiazuse di quasi vent‟anni, il progetto era stato meno ambizioso: attraverso lo sciopero del sesso proposto da Lisistrata, le donne, stanche di guerra, occupano l‟acropoli ed esautorano i mariti dalle trattative col nemico; con l‟aiuto delle Spartane ottengono non un cambiamento complessivo della società, ma la pace. Anche in questo dramma sono presenti numerosi tratti di inversione, laddove le donne si sostituiscono agli uomini in compiti politici dai quali sono normalmente escluse, così come, sia pure in maniera più circoscritta, nelle Tesmoforiazuse. Come reagiscono gli uomini? Simone de Beauvoir afferma che “donne non si nasce, si diventa”: ed ecco infatti gli uomini della commedia divenire donne a tutti gli effetti, introiettando la passività sociale che la società antica, come del resto anche quella moderna, ama attribuire alla donna come dato biologico immutabile. Al contrario del loro eroe culturale Teseo, che sconfigge le Amazzoni, gli Ateniesi non si ribellano alla propria marginalizzazione. Le donne guidate da Prassagora, invece, invertono la loro indole solo a metà, oscillando, nel governare, tra l‟introiezione di modelli maschili e l‟applicazione alla politica di virtù domestiche tipicamente femminili. Da un lato, infatti, esse ottengono il potere solo se si trasformano in uomini, facendo propri i caratteri dell‟agire maschile: il ricatto, l'imposizione, l'esclusione. Ad essere rovesciati sono i ruoli, non la violenza nelle modalità di governo; e gli uomini vengono ingannati, esclusi dalla politica, privati del sostentamento, obbligati a soddisfare vecchie laide; la gestione degli alimenti e della sessualità divengono strumenti di controllo sociale. Le donne, inoltre, sono costrette a parlare il linguaggio degli uomini. Nella sezione iniziale delle Ecclesiazuse le donne fanno le prove dei discorsi che terranno all‟ecclesia, sforzandosi di introiettare il linguaggio maschile ufficiale. In queste scene il comico scaturisce proprio dall‟inadeguatezza delle oratrici nel pensare e parlare secondo le categorie maschili. Infatti il lessico politico delle eroine comiche è spesso mediato da termini legati alla sfera domestica, come se le donne non potessero esprimersi con un linguaggio che vada oltre il lessico quotidiano della casa e della cucina. L‟esempio più eloquente è la lunga metafora della lana ai vv. 567 ss. della Lisistrata, attraverso cui la protagonista espone il suo programma di pace: “Come quando la matassa è ingarbugliata la prendiamo e la dipaniamo sui fusi, tenendola da una parte e dall’altra, così, se ci lasciate fare, sbroglieremo la guerra, lavorando da una parte e dall’altra, con le ambascerie”. La mascolinizzazione è perseguita anche tramite il travestimento che, oltre a rispondere alle esigenze dell‟intreccio, indica, come la mutilazione delle Amazzoni, più volte citate da Aristofane, la volontà di assimilarsi all‟uomo. Tale assimilazione avviene tramite tappe simboliche: la rinuncia alla depilazione e l‟uso di barbe finte costituiscono una sorta di ingresso rituale nella categoria degli uomini, in cui la crescita della barba simboleggia la virilità dell‟uomo adulto, il passaggio a cittadino a pieno diritto. Dunque, se nella gestione del potere da un lato le donne assimilano le modalità maschili, dall‟altro ripropongono il loro agire femminile quotidiano A più riprese in queste commedie si afferma che se le donne sono in grado di amministrare la casa, potranno anche amministrare lo stato, soprattutto in quanto portavoce di un ottica tradizionalista e conservatrice. Altro paradosso è appunto il fatto che il rinnovamento attuato dalle donne assume un programmatico carattere di restaurazione. Prassagora spiega che il proprio modello è migliore di quello maschile poiché si modella sul passato: la speranza sul futuro, nonostante le apparenze, non si basa dunque su un progetto innovativo, ma su un ritorno all‟Atene incorrotta del passato. Un‟Atene antica fatta da uomini. Nelle Ecclesiazuse il progetto politico delle donne è destinato al fallimento: nonostante esso non sia rappresentato sulla scena se ne intuiscono i presupposti: la comunanza dei beni confligge con l‟egoismo individuale, mentre la comunanza degli uomini, che prevede la priorità delle vecchie sulle giovani nell‟‟usufruire‟ dei maschi giovani e belli, conduce a una concezione repressiva della sessualità, che è la negazione del libertario progetto iniziale. Possiamo chiederci a questo punto che significato potessero assumere agli occhi di un pubblico di uomini del V secolo queste ginecocrazie comiche. Certamente facevano ridere, e questo è il primo scopo di una commedia. C‟è però anche dell‟altro. Partiamo dal presupposto che il teatro del V secolo fu una formidabile macchina per la costruzione del consenso, per il controllo sociale e per la trasmissione di valori della comunità. Possibile che la messa in scena dei miti matriarcali non svolgesse una funzione politica oltre a quella ludica, magari in relazione alla condizione reale della donna dell‟epoca? Nella Grecia del V secolo la subordinazione femminile è una realtà consolidata sul piano storico e in fase di cofificazione su quello filosofico. Dopo la rivoluzione agricola e la nascita della proprietà privata, il lavoro femminile resta nella sfera domestica, mentre quello maschile, nei campi, consente l‟accumulazione di un surplus di beni e dunque lo scambio: ecco che tale lavoro assume così un peso sociale superiore a quello femminile e l‟uomo diviene l‟unico detentore dei mezzi di produzione e dunque del potere. Di conseguenza, la subordinazione della donna si traduce in un sistema simbolico che giustifica il predominio maschile come naturale. È proprio in Grecia che tale subordinazione viene ampiamente codificata nella letteratura e nella filosofia, e definitivamente legata a un dato biologico anziché culturale. Dalle radici materiali si scivola verso la costruzione di un‟identità femminile convenzionale basata su un sistema di valori culturali e psicologici inferiorizzanti dati per immutabili; di conseguenza la posizione della donna nella società viene regolamentata attraverso l‟obbligo alla tutela maschile. La polis greca ha bisogno, per perpetuarsi, di fissare e mantenere ruoli sociali e sessuali rigidi: da un lato la dicotomia schiavi/liberi, necessaria ad assicurare manodopera all‟economia schiavistica, dall‟altra la teorizzazione della naturale inferiorità femminile, necessaria a consolidare la struttura patriarcale dell‟oikos e a fornire, proprio come al giorno d‟oggi, un‟enorme e costante quantità di lavoro di riproduzione non retribuito. É questa la funzione politica delle commedie ginecocratiche, quella di rafforzare ruoli e valori. Oltre a polemizzare con il comunismo filosofico e a deprecare il decadimento della polis ateniese, i mondi rovesciati dell‟archaia consolidano i rapporti di potere esistenti sventolando lo spauracchio del dominio femminile ed esorcizzandolo, tramite la sua decostruzione in chiave comica. Gli uomini del pubblico ridono dell‟incapacità delle donne e si rassicurano – se mai fosse necessario – sulla naturalità e intangibilità del predominio maschile. In tal senso la commedia si connota come rituale di ribellione, come periodo di licenza, un Carnevale – nel senso bachtiniano del termine – in cui, solo per la durata della finzione scenica, si sovvertono i rapporti di potere per poi riaffermare le regole normali e il principio gerarchico consueto. Un rituale temporaneo e rassicurante, ben diverso dallo spettro destabilizzante dei governi matriarcali del mito. Analoga funzione carnevalesca è svolta dalle feste femminili, come le Sciroforie e le Tesmoforie, in cui separazione dagli uomini e inversioni dei ruoli costituiscono solo brevi incursioni rituali in un mondo maschile più libero. Dopo il V secolo questi miti e più in generale i mondi alla rovescia spariscono dal teatro, confinandosi nell‟etnografia e nella letteratura di viaggio. Il percorso letterario della ginecocrazia fino ai nostri giorni non è molto lungo. In età ellenistica i miti di stampo amazzonico trovano spazio nel romanzo di Alessandro, poi nel tardo-antico e nel Medioevo vengono trasformati, dislocati in nuove terre e arricchiti di nuovi dettagli, soprattutto teratologici, nelle pagine di storici, autori di mirabilia ed eruditi, sempre incarnando disvalori sociali e morali. A partire dal basso Medioevo essi entrano a far parte della letteratura di viaggio possiamo citare ad es, la Lettera del prete Gianni (XII sec.) e il Milione (1299) dislocandosi talora nell‟esotico. Nel Cinquecento la conquista dell‟America fornisce numeroso materiale etnografico relativo al matriarcato: i primi esploratori spagnoli dell‟America meridionale riferiscono di crudeli donne guerriere che li avevano attaccati con archi e cerbottane presso il fiume che essi chiamarono Rio delle Amazzoni. Lo stesso Colombo segnala nel suo giornale di bordo un regno di donne nell‟isola di Matinino, come anche Cortes e molti altri. Col passare del tempo l‟utopia “seria” diviene sempre più colta, si chiude nella prosa narrativa, nel dialogo. I mondi alla rovescia, invece, fioriscono nella letteratura popolare, sempre all‟insegna dello spirito carnevalesco. Soprattutto nel Seicento nel folklore di molti paesi appaiono filastrocche, canzoni e stampe che illustrano forme di potere femminile. Il secolo dei Lumi è l‟epoca dell‟utopia: forse per questa diffusione la ginecocrazia rientra nel teatro, da cui, dopo le commedie dell‟archaia, era sparita. La piéce di Marivaux, La colonie, ou la ligue del femmes, del 1729, è ambientata in un isola remota in cui le donne prendono il potere fino a che, davanti alla prospettiva di combattere, preferiscono mandare avanti i mariti e ritornare alle faccende domestiche. Analoga trama nella commedia goldoniana Il mondo alla roversa, o sia le donne che comandano (1750). Tra l‟Otto e il Novecento la letteratura distopica predomina su quella utopica: fioriscono rappresentazioni di comunità scampate a catastrofi nucleari o di futuribili società totalitarie dispotiche. Tra queste ultime, numerosissime, è assente il modello ginecocratico, così come nell‟infinita filmografia distopica degli ultimi novant‟anni. Tuttavia, prima di scomparire, l‟utopia matriarcale fa un‟ultima fuggevole ma peculiare epifania. Dopo tanti secoli di ginecocrazie eterodirette da una regia maschile, che assegna loro tratti distopici e se ne serve per esorcizzare le sue paure, ecco comparire, negli anni ‟70 del Novecento una breve parentesi di ginecocrazie letterarie scritte da donne per altre donne, e non per far ridere. Utopie, non distopie. Nei fertili anni del breve cammino del femminismo radicale, alcune scrittrici nordamericane danno vita a romanzi utopici femministi che riattualizzano i miti delle Amazzoni e dell‟androgino come proiezione del desiderio di libertà e autodeterminazione, spesso in chiave separatista o lesbica, immaginando società in cui insieme al patriarcato cadono anche le strutture di classe, il razzismo, la competitività e la violenza. I miti ginecocratici non servono qui a proiettare in un altrove spazio-temporale il rovescio mostruoso della cultura patriarcale, non servono al divertissement di un pubblico di uomini. Al contrario, i mondi alla rovescia femministi propongono a un pubblico di sole donne un‟analisi critica del presente che non spinge all‟evasione consolatoria, ma traspone la realizzazione dei desideri di libertà in un futuro vicino, in una comunità di donne che non necessiti del riconoscimento maschile, senza ruoli e dialettiche servo-padrone. Queti mondi sono talora rappresentati come pacifici e legati a istanze ecologiste; altre volte le donne sono guerriere e l‟immagine usata per descriverle è quella, antica, delle Amazzoni. La sorellanza diviene disciplina militare. Un utopia che sia affermazione politica di alternative possibili. Così il cerchio si chiude. Il rovescio dell‟altro diviene un obiettivo concreto. E il mito, come tanti secoli prima in Grecia, continua a fondare l‟identità e la storia delle comunità, questa volta dei gruppi femministi. Dopodiché il potere femminile non trova più diritto di cittadinanza, nemmeno nei mondi alla rovescia, forse anche a causa dell‟illusoria convinzione di parità tra i sessi che la contemporaneità sembra aver introiettato, confondendo la libertà con l‟emancipazione. Una convinzione che non consente più di dislocare nemmeno in un altrove immaginario la proiezione dei propri desideri e la tensione verso una società più giusta.