LUISS Guido Carli
Istituto di Studi Giuridici – Facoltà di Giurisprudenza
Via Parenzo, 11 - tel. 06/85225.810
OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
Seminario su:
I DIRITTI FONDAMENTALI E LE CORTI IN EUROPA
Incontro del 3 ottobre 2003 sul tema
“Il cittadino e lo straniero in Europa”
(introdotto dal Prof. Luis Maria Diez-Picazo)
Resoconto redatto dal Dott. Francesco Sacco e dalla Dott.ssa Chiara De Simone
Bollettino n. 8/2003
Il calendario ed i resoconti degli incontri dell’Osservatorio Costituzionale, assieme ad altra documentazione, sono
reperibili sul sito Internet dell’Università Luiss Guido Carli (http://www.luiss.it/semcost/index.html)
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Per l’iscrizione alla Newsletter dell’Osservatorio Costituzionale:
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Realizzato nell’ambito della ricerca di rilevante interesse nazionale cofinanziata dal Murst (2001-2003)
Sergio PANUNZIO ringrazia il prof. Diez-Picazo per avere accettato l’invito ad introdurre il tema
odierno “Il cittadino e lo straniero in Europa”. Sottolinea che Diez-Picazo è uno dei costituzionalisti
spagnoli più conosciuti in Italia, anche perché ha insegnato per nove anni all’Istituto europeo di
Firenze, ha recentemente preso parte al gruppo di studio della Commissione europea per la
semplificazione dei Trattati ed ha pubblicato volumi sul tema della Costituzione europea e della
cittadinanza europea.
Luis Maria DIEZ-PICAZO ringrazia Panunzio e la Luiss per essere stato invitato a parlare di un
tema così importante. Egli innanzitutto rileva che la disciplina della cittadinanza europea è
contenuta in diverse fonti: in primo luogo negli articoli da 17 a 22 del Trattato sulla Comunità
europea, come modificato dal Trattato di Maastricht del 1992; in secondo luogo negli articoli da 39
a 46 contenuti nel capo V della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, intitolato,
appunto, “cittadinanza”. Il progetto di Costituzione europea, infine, nella ultima versione del 18
luglio 2003, indica nella prima parte, all’art. 8, le linee generali della cittadinanza europea, e nella
seconda (artt. 39-46) riproduce la disciplina recata dalla Carta dei diritti fondamentali. Diez-Picazo
osserva che, pur essendovi pluralità di fonti, non sarebbe corretto sostenere che vi sono discipline
differenti della cittadinanza europea; innanzitutto occorre precisare che, attualmente, l’unico testo
avente valore normativo è il Trattato CE, mentre la Costituzione europea è soltanto un progetto e la
Carta dei diritti, nella migliore delle ipotesi, è considerata come soft law in quanto è stata
proclamata (al Consiglio europeo di Nizza) ma non promulgata e dunque non è una norma in vigore
nell’ordinamento comunitario. Al di là di questo aspetto, le disposizioni della Carta dei diritti –
riprodotte nel progetto di Costituzione- sono molto simili a quelle del Trattato.
Il Trattato della Comunità europea attribuisce ai cittadini europei a) il diritto a votare e ad essere
eletti alle elezioni al Parlamento europeo e alle elezioni locali nello Stato membro di residenza,
anche se non coincidente con quello di cui l’elettore è cittadino; b) il diritto ad una buona
amministrazione (cioè ad essere ascoltati nel procedimento amministrativo, alla motivazione degli
atti amministrativi, etc.); c) il diritto di accesso ai documenti del Parlamento, del Consiglio e della
Commissione; d) il diritto di fare comunicazioni all’Ombudsman dell’Unione europea; e) il diritto
di petizione al Parlamento europeo; f) la libertà di circolazione e residenza in qualsiasi Stato
dell’Unione; g) il diritto a ricevere – nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato di cui si ha la
cittadinanza non è rappresentato - la protezione diplomatica e consolare da parte degli agenti
diplomatici di qualsiasi Stato membro. Questi sono, dunque, i diritti attribuiti ai cittadini europei dal
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Trattato sulla Comunità europea, ai quali la Carta dei diritti aggiunge soltanto il diritto ad una buona
amministrazione e il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni politiche (Commissione,
Consiglio, Parlamento). Si tratta peraltro di modifiche più apparenti che reali poiché tali diritti già
esistevano nel diritto derivato dell’Unione europea. Pertanto, con la Carta di Nizza si cerca di
costituzionalizzare diritti già presenti nell’ordinamento comunitario. D’altro canto, a differenza del
Trattato, la Carta di Nizza non reca una definizione di cittadino europeo, probabilmente perché si
tratta di un compito non spettante ad una dichiarazione dei diritti.
Dopo aver delineato – in maniera puramente descrittiva- il contenuto della cittadinanza europea,
Diez-Picazo ritiene ora necessario chiedersi quale sia il significato che essa assume nel processo di
integrazione europea e di costruzione di un corpo politico a livello continentale. Per tentare di
fornire una risposta a questo interrogativo bisogna partire dal dato positivo: la cittadinanza europea
– che implica l’attribuzione dei diritti menzionati precedentemente – è definita dall’art. 17 (ex art.
8) del Trattato CE mediante rinvio alle cittadinanze nazionali. Tale articolo infatti sancisce: “E’
istituita una cittadinanza dell’Unione. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno
Stato membro. La cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale
e non sostituisce quest’ultima. I cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri
previsti dal presente Trattato”. È cittadino dell’Unione europea, quindi, qualsiasi persona che abbia
la cittadinanza di uno degli Stati membri. Diez-Picazo osserva in primo luogo che dall’art. 17 deriva
un dovere di riconoscimento incondizionato da parte di ogni Stato membro della disciplina della
cittadinanza recata da tutti gli altri Stati membri. Uno Stato membro non può opporre eccezioni di
alcun tipo al modo in cui un altro Stato membro regola la propria cittadinanza. Inoltre, secondo la
dichiarazione n. 2 annessa al Trattato di Maastricht (Diez-Picazo ricorda che per il diritto
internazionale le dichiarazioni annesse ai trattati, pur non essendo norme giuridiche, hanno un
valore interpretativo privilegiato) gli Stati membri stabiliscono che qualora i Trattati costitutivi della
Comunità europea si riferiscono ai cittadini degli Stati membri, per sapere se una persona abbia o
meno una data cittadinanza occorre rinviare all’ordinamento nazionale dello Stato membro di cui si
tratta. Diez-Picazo rileva che tutti gli Stati membri hanno perciò concordato l’incondizionato
riconoscimento delle rispettive discipline nazionali in tema di cittadinanza. La cittadinanza europea
è data pertanto dalla somma delle discipline nazionali in materia di cittadinanza. Il dovere di
riconoscere senza condizioni le discipline altrui, del resto, non deriva soltanto dalla dichiarazione n.
2 del Trattato di Maastricht, ma anche dalla sentenza 7 luglio 1992, causa C-369/90, Micheletti e a.,
con la quale la Corte di Giustizia ha deciso il caso di un dentista argentino – divenuto cittadino
italiano grazie all’origine italiana dei suoi nonni o bisnonni – che, emigrato in Spagna per
esercitarvi la professione, si è visto rifiutare il permesso di residenza dalle autorità spagnole, che
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hanno ritenuto fittizia la sua cittadinanza italiana. Questa decisione è estremamente significativa,
non solo in quanto ribadisce il principio affermato dalla suddetta dichiarazione n. 2, ma anche
perché è stata resa nel periodo in cui il Trattato di Maastricht era stato concluso ma non ancora
ratificato, anticipandone pertanto il mutamento costituzionale da esso implicitamente introdotto in
tema di cittadinanza. La sentenza Micheletti è importante anche per un altro motivo. Le autorità
spagnole, come accennato, hanno motivato il rifiuto del permesso di residenza assumendo che la
cittadinanza italiana invocata dal sig. Micheletti era fittizia. Secondo il diritto internazionale ogni
Stato membro della comunità internazionale ha il dovere di riconoscere la cittadinanza conferita da
un altro Stato, a meno che essa non sia effettiva. Più precisamente, il dovere di riconoscere le
cittadinanze conferite dagli altri Stati non sussiste se lo Stato che effettua il riconoscimento ritiene
non effettiva quella cittadinanza. Il relatore ricorda come questo principio sia stato affermato dalla
Corte internazionale di giustizia con l’importantissima sentenza Nottebhom del 6 aprile 1955
(Guatemala c. Lichtenstein). I fatti erano i seguenti: il sig. Nottebhom, tedesco, emigrò in
Guatemala durante la seconda guerra mondiale e, per evitare possibili eventi pregiudizievoli
derivanti dalla sua nazionalità, assunse la cittadinanza del Lichtenstein. Il Guatemala, come molti
altri paesi latino americani, dichiarò guerra alla Germania nei primi mesi del 1945 e, in osservanza
delle norme del diritto internazionale generale, dispose la confisca dei beni dei cittadini della
potenza nemica e dunque anche quelli del sig. Nottebhom. Questi oppose di essere cittadino del
Lichtenstein, da cui ricevette protezione diplomatica, dando così origine alla controversia dinanzi
alla Corte internazionale di Giustizia, la quale però accolse le ragioni dello Stato del Guatemala,
stabilendo il principio secondo cui esiste un dovere di riconoscimento della nazionalità altrui purché
tale nazionalità sia effettiva. Gli Stati hanno pertanto il diritto di non riconoscere la nazionalità
altrui quando questa risulti fittizia.
Tornando al caso Micheletti, nel 1992 la Spagna, invocando il diritto internazionale generale, ha
sostenuto di non esser tenuta a riconoscere la cittadinanza conferita dall’Italia se questa non fosse
effettiva, come sarebbe risultato dal fatto che il sig. Micheletti – che viveva a Buenos Aires e che
successivamente si era trasferito nella città di Santander - non era mai stato in Italia e non parlava la
lingua italiana. La Corte di Giustizia di Lussemburgo, tuttavia, ha affermato che il dovere di
riconoscimento delle cittadinanze fra gli Stati membri è assoluto e incondizionato; fra gli Stati
membri dell’Unione europea non vige quindi la clausola di salvaguardia riconosciuta dal diritto
internazionale, secondo la quale gli Stati possono non riconoscere le cittadinanze altrui quando
queste non sono effettive.
Diez-Picazo ritiene che alla luce dell’art. 17 del Trattato, della dichiarazione n. 2 annessa al Trattato
stesso e della sentenza Micheletti, si possono trarre tre insegnamenti. Il primo è che, come già
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affermato in precedenza, la cittadinanza dell’Unione europea si definisce attraverso quelle degli
Stati membri, non però mediante una scelta collettiva ma attraverso 15 o, in futuro, 25 scelte
normative individuali. La somma delle normative nazionali sulle rispettive cittadinanze definisce la
cittadinanza dell’Unione europea. Il secondo insegnamento è che l’Unione europea, nel definire la
propria cittadinanza, si discosta chiaramente da quanto avviene normalmente nelle esperienze
federali. Si tratta di un aspetto importante, perché definire la cittadinanza vuol dire definire uno
degli elementi classici dell’organizzazione politica, al pari, ad es., del territorio. Nelle principali
esperienze federali è competenza della federazione la definizione della cittadinanza federale. La
Costituzione degli Stati Uniti, per es., al par. VIII del capo I, attribuisce al Congresso federale la
potestà di fissare le norme generali sulla naturalizzazione; il celebre XIV emendamento, inoltre,
stabilisce che tutte le persone nate o naturalizzate in territorio statunitense sono cittadini degli Stati
Uniti e dello Stato membro in cui risiedono. Diez-Picazo osserva come in tal caso la logica sia
inversa a quella dell’art. 17 del Trattato della Comunità, poiché la Costituzione sottrae agli Stati
membri ogni competenza in materia di cittadinanza (non a caso il XIV emendamento è stato
approvato nel 1868, cioè dopo la guerra civile, con l’intento di sottrarre agli Stati schiavisti il diritto
di regolare la propria cittadinanza e di conseguenza il diritto di non riconoscere come cittadini
coloro che erano stati ridotti in schiavitù). Norme simili si trovano in altre Stati federali: gli artt. 16,
73 e 116 della legge fondamentale di Bonn stabiliscono chiaramente che è competenza della
federazione disciplinare la cittadinanza federale. La terza conclusione che si può trarre dal quadro
legislativo e giurisprudenziale comunitario è che il contenuto della cittadinanza dell’Unione
europea è differente da quello del diritto internazionale come definito dalla sentenza Nottebhom,
che limita il dovere di riconoscimento alla effettività della cittadinanza.
La cittadinanza europea si trova dunque a metà strada tra una logica federale e una logica
internazionale. Da un lato, non si è giunti ad una definizione in chiave federale della cittadinanza
europea poiché non è il Trattato della Comunità che disciplina la cittadinanza; dall’altro non si
segue più la logica propria del diritto internazionale, poiché ogni Stato continua a definire la propria
cittadinanza per rinvio alla cittadinanza dell’Unione, rinunciando però ai meccanismi di
salvaguardia tipici dei rapporti internazionali puramente intergovernativi.
Diez-Picazo rileva che il rapporto tra cittadinanza europea e identità nazionale degli Statti membri
non è dato solo dal modo di attribuire la cittadinanza europea. L’art. 17 del Trattato dispone che è
cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Questa però è la
versione italiana del Trattato. In altre versioni, come quella francese, inglese, spagnola si ricorre ad
una diversa terminologia. Nella versione spagnola, per es., non si dice “è cittadino dell’Unione
chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro”, ma “è cittadino dell’Unione chiunque abbia
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la nazionalità di uno Stato membro”. Mentre in Italia si utilizza il termine “cittadinanza” (nel codice
civile, per es., si trovano le norma sulla cittadinanza), altri ordinamenti europei ricorrono
all’espressione “nazionalità”, che infatti compare nelle rispettive versioni del Trattato sulla
Comunità europea. Le locuzioni “cittadinanza” e “nazionalità” individuano realtà normative diverse
ed hanno una pluralità di significati. Diez-Picazo ritiene che, quantomeno da un punto di vista
giuridico, vi sono sostanzialmente due concezioni distinte alle quali si fa riferimento quando si
utilizza il termine cittadinanza ovvero nazionalità. In un primo senso si indicano tutti quei diritti e a
volte doveri che sono associati alla res pubblica: il diritto di essere elettore e di essere eleggibili alle
cariche pubbliche; il dovere di prestare il servizio militare, etc. In secondo luogo, la cittadinanza
può essere intesa come uno “status”, che comporta il godimento di altri diritti. In tal senso, la
distinzione cittadino-non cittadino ha un significato simile a quello storicamente assunto dalla
contrapposizione libero-schiavo, padre-figlio, maschio-femmina, chierico-laico.
Diez-Picazo ribadisce l’importanza di questo duplice volto della cittadinanza, poiché nel primo
senso, che è quello classico, essa esiste solo nei paesi liberal-democratici, mentre nei regimi
dittatoriali e dispotici non ci sono cittadini ma soltanto sudditi. Nel secondo senso, invece - che in
spagnolo, inglese, francese si indica con il termine nazionalità - la cittadinanza esiste in qualsiasi
contesto, democratico o non democratico. Diez-Picazo osserva come la cittadinanza nel senso di
status, che è poi quello usato dal Trattato nelle versioni non italiane, sia in crisi un po’ dappertutto,
soprattutto perché contribuisce sempre meno a definire l’ambito soggettivo di applicabilità delle
leggi. La sfera dei soggetti destinatari delle leggi penali, amministrative, di polizia, è infatti
solitamente definito attraverso il criterio della territorialità (in realtà le stesse leggi penali tendono
oggi ad essere universali); analogamente, per le leggi tributarie vale il criterio della territorialità o
della residenza. In definitiva, la cittadinanza come status serve per definire ciò che gli
internazionalisti chiamano la legge “personale”, cioè i rapporti di famiglia, il matrimonio, etc.; ciò
peraltro avviene solo in alcuni paesi, perché ad es. negli ordinamenti di common law la legge
personale è definita non in base alla cittadinanza ma piuttosto in base al criterio della residenza. Se
si considera inoltre che l’art. 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dispone che ogni
individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica (come
sostanzialmente già prevedeva il codice napoleonico), la cittadinanza come status è praticamente
vuota di contenuto. L’unico diritto che viene attribuito sulla base della cittadinanza come status è
quello di residenza e di circolazione sul territorio degli stati: tutti gli individui hanno il diritto di
risiedere e di circolare nel territorio dello Stato del quale si ha la cittadinanza. Con questa sola
eccezione, la cittadinanza come status, che in altri paesi europei è denominata nazionalità, serve
soltanto – e nemmeno in tutti gli ordinamenti giuridici – a definire la c.d. legge personale.
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Diez-Picazo si chiede quale sia il rapporto tra nazionalità (o cittadinanza come status), di cui si fa
menzione nell’art. 17 del Trattato, e cittadinanza dell’Unione europea. Cosa significa che l’art. 17
del Trattato attribuisca la cittadinanza dell’Unione attraverso la nazionalità? Considerando quanto
sostenuto sino ad ora, è cioè che il concetto di nazionalità o di cittadinanza come status è piuttosto
vuoto di contenuti nel mondo contemporaneo, l’art. 17 ha una pluralità di significati. Intanto
bisogna constatare che non è l’unico modo concepibile di attribuire la cittadinanza. Sarebbe
logicamente e politicamente concepibile attribuire la cittadinanza dell’Unione europea mediante un
altro criterio, per esempio quello della residenza: ogni persona che risieda legalmente nel territorio
dell’Unione europea ne sarà cittadino e godrà dei diritti successivamente enumerati: i diritti politici,
il diritto a rivolgersi all’Ombudsman, il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni politiche,
etc. Diez-Picazo ritiene inoltre che non rappresenterebbe certo una novità attribuire la cittadinanza
attraverso il criterio della residenza. Nella maggior parte degli Stati membri degli Stati Uniti, per
esempio, anteriormente alla prima guerra mondiale, si riconosceva l’elettorato attivo e passivo a
qualsiasi persona – di sesso maschile e, fino alla guerra civile, di razza bianca - che fosse
legalmente residente in quello Stato e che accettasse di servire la guardia nazionale. Questa è una
concezione della cittadinanza classica, tipica dell’impero romano: si è cittadini perché si serve
l’esercito. Per gli Stati Uniti, d’altronde, non è mai stato problematico definire in tal modo il
concetto di cittadinanza degli Stati membri, in quanto paese di dimensioni continentali e
sicuramente in espansione. Diez-Picazo ricorda che la possibilità di attribuire i diritti di cittadinanza
ai semplici residenti è venuta meno solo con lo scoppio della prima guerra mondiale: non perché gli
Usa, nel 1914, abbiano cessato di essere un paese di accoglienza di immigrati, ma solo per ragioni
precauzionali legate alla partecipazione al conflitto bellico. Non vi è dunque, né da un punto di vista
logico, né da un punto di visto assiologico, nessuna ragione per cui la cittadinanza nel senso dei
diritti politici che attribuisce il Trattato o la Carta debba essere definita mediante la nazionalità,
essendovi altri criteri come appunto quello della residenza nello Stato di cui si vuole essere
cittadini.
Diez-Picazo osserva inoltre che, poiché il Trattato e, ora, il progetto di costituzione europea,
attribuiscono la cittadinanza europea attraverso le (cioè rinviando alle) nazionalità degli Stati
membri, il corpo politico europeo si modella sulla base delle diverse sensibilità dei singoli Stati
membri. A tal proposito è molto utile la classica comparazione tra la disciplina tedesca e quella
francese. In Germania, fino alla recentissima riforma che, peraltro, non è stata poi così
rivoluzionaria, limitandosi a liberalizzare parte della disciplina risalente al 1912, la nazionalità
tedesca si definiva, prevalentemente, sullo ius sanguinis, al di là del quale, l’acquisto della
nazionalità tedesca risulta, se non impossibile, molto difficile, al punto che numerose persone nate e
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cresciute in Germania, che parlano solo il tedesco e non sono mai vissute in nessun altro paese, non
hanno la nazionalità tedesca, né la possibilità legale di averla mai. In Francia, invece, la nazionalità
si attribuisce non soltanto sulla base dello ius sanguinis, ma anche, in larga, misura sulla base dello
ius soli e di una normativa per ottenere la naturalizzazione storicamente “generosa”. Quelle stesse
persone che in Germania sono nate in territorio tedesco ma non ne avranno mai la nazionalità, in
Francia sono francesi e possono anche assumere la carica di ministro. La concezione tedesca della
cittadinanza, quindi, è differente da quella francese. Mentre in Germania hanno una concezione
etno-culturale della Nazione, i francesi ne hanno piuttosto una percezione civico-repubblicana. In
definitiva, definire la cittadinanza europea mediante rinvio alle diverse cittadinanze nazionali
implica accettare ciascuna “percezione” nazionale e dunque rinunciare ad una percezione collettiva
e omogenea. In questo senso, Diez-Picazo ritiene che, dinanzi alla disposizione recata dall’art. 17
del Trattato – che sarà quasi certamente riprodotta nella Costituzione europea - parlare di “we the
people” al singolare sarà una finzione, in quanto non c’è un “we the people”, non c’è un unico
modo di definire la cittadinanza, che invece costituisce il prodotto di una pluralità di “percezioni”
nazionali (è quindi più opportuno utilizzare il plurale). Sicuramente quest’idea trova sostegno nella
previsione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione europea, là dove prevede che l’Unione rispetta le
identità nazionali degli Stati membri; uno di modi per rispettare le identità nazionali degli Stati
membri è, appunto, lasciare loro il diritto ad avere la propria visione di cittadinanza, con la quale,
assieme a quella degli altri paesi membri, si dà vita al corpo politico composito che è l’Unione
europea.
Al di là delle diverse percezioni e dei diversi modi di intendere il corpo politico, secondo DiezPicazo occorre chiedersi cosa comporta, da un punto di vista pratico, la cittadinanza europea per
una democrazia su scala continentale. Il relatore ritiene che la cittadinanza europea comprenda tutti
i diritti politici tipici di una democrazia contemporanea. In quest’ottica, la cittadinanza europea è
uno strumento perfettamente adatto per costruire una democrazia su scala continentale. Si potrebbe
eccepire l’assenza di corrispondenti doveri civici, e segnatamente del “classico” dovere di prestare
il servizio militare; quest’ultimo, tuttavia, nella maggior parte dei paesi dell’Unione è stato abrogato
o comunque molto ridimensionato. Incidentalmente, Diez-Picazo osserva che il dovere di difendere
la patria è tipico di una certa tradizione continentale ma non di quella anglosassone. Gli inglesi e gli
americani non hanno mai concepito il servizio militare come un dovere civico in senso giuridico,
tant’è che, tranne in periodi di guerra, esso non è mai stato obbligatorio. Cosa diversa è invece
l’obbligatorietà sociale della difesa della patria.
Diez-Picazo ritiene che, da un punto di vista pratico, i diritti inerenti alla cittadinanza europea, a
partire dal Trattato di Maastricht, costituiscono uno “strumento” completo. Si può infatti avere una
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struttura politica democratica dell’Unione europea semplicemente con i diritti che sono enunciati
negli artt. 17 e ss. del Trattato sulla Comunità europea. Secondo alcuni autori, questi diritti
rappresentano una sorta di embrione di un demos europeo e che, a partire da questi diritti si
potrebbe costruire un vero demos europeo. Diez-Picazo considera però il concetto di demos europeo
molto sfuggente e confessa di non aver mai capito, forse perché giurista troppo pratico, perché esso
venga elevato a condizione per l’esistenza di una democrazia su scala continentale. In primo luogo,
se si vuole costruire un demos, una identità collettiva europea, questi diritti non aggiungono nulla
alla condizione di coloro che vivono nel paese dove sono nati; in altri termini, da un punto di vista
pratico questi diritti migliorano la condizione degli europei cosmopoliti, ma non degli europei
provinciali, ossia della grande maggioranza di coloro che continuano a vivere e ad abitare nel paese
in cui sono nati e cresciuti, e che quindi si sentiranno ragionevolmente delusi da questa grande
promessa della cittadinanza europea. Diez-Picazo non pensa che questo problema riguardi il
concetto di demos, che gli appare fumoso ed equivoco. Ci sono due modi – pur con diverse
sfumature - di definire un corpo politico. Si può sostenere, alla maniera tedesca, che esiste un corpo
politico nel momento in cui si condividono certe caratteristiche culturali, certe lealtà irrazionali,
puramente emozionali. Oppure si può concepire un corpo politico in modo puramente razionale,
alla maniera francese, per cui esso è composto da coloro che contribuiscono a gestire la cosa
pubblica. D’altronde, questo era il modo di concepire il corpo politico dei romani o dei greci.
Perciò, affermare che la costruzione di un corpo politico su scala continentale necessità di qualcosa
di più della cittadinanza, in fondo, vuol dire aderire ad una “visione tedesca” invece che ad una
visione francese.
Diez-Picazo conclude con un breve accenno alla tematica degli stranieri. Dal 1992, cioè da quando
il Trattato di Maastricht ha introdotto la cittadinanza europea, si sono versati fiumi d’inchiostro non
solo sulla cittadinanza europea ma sulla cittadinanza in generale. Si è riesumato il vecchio testo del
sociologo inglese Marshall, Citizenship and Social Class, del 1950, che in realtà è un testo
mediocre, da cui a suo giudizio non si impara nulla che non si sapesse già dalla lettura di qualche
buon manuale di diritto costituzionale o di teoria dello Stato. Tutta questa ossessione accademica,
intellettuale e politica per il concetto di cittadinanza ha fatto sì che gli si attribuisse qualsiasi
significato, soprattutto per invocare l’estensione di diritti e prestazioni sociali ad ogni membro della
collettività, per il solo fatto di esserne membro. Questo insistere sul concetto di cittadinanza, che da
dieci anni dilaga in Europa, comporta la diffusione di un messaggio secondo cui cittadinanza è
sinonimo di solidarietà, di patriottismo, di servizi pubblici. Ma in tal modo si dimentica che la
cittadinanza ha anche un lato oscuro, e che perché ci siano cittadini bisogna che ci siano stranieri.
Diez-Picazo afferma di non volere essere il sostenitore di un concetto allargato di cittadinanza, ma
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contemporaneamente concorda con Luigi Ferrajoli col ritenere che la rinascita dell’idea di
cittadinanza in Europa negli ultimi 10 anni coincide – probabilmente non per caso - con il momento
in cui l’Europa ha cessato di essere un continente di emigranti per trasformarsi in un continente di
immigrati. In altri termini, nel momento in cui gli europei hanno smesso di girare il mondo
colonizzando altre terre si riscopre il concetto di cittadinanza, dimenticando che sono stati quegli
stessi europei coloro che hanno fatto ricorso allo ius communicationis per giustificare la libertà di
movimento di ogni essere umano in tutte le parti del mondo. Non si tratta dunque di difendere
posizione puramente demagogiche, ma un conto è non difendere politiche demagogiche, altra cosa,
molto diversa, è non essere consapevoli che tutto questo entusiasmo per l’idea di cittadinanza è in
qualche misura dovuto ad un diffuso atteggiamento xenofobo.
Interviene, interrogando il relatore e interrogandosi, Sergio STAMMATI, il quale premette di non
avere sotto gli occhi il testo del trattato di Maastricht e di Amsterdam, bensì il testo del Progetto di
Costituzione europea, che si riferisce alla cittadinanza all' art. 8 della I parte e, agli artt. 39 - 46 della
II. Ciò che in tali disposizioni può notarsi è che, in una certa, non ristretta, misura, non viene
rispettato il collegamento istituito dall’art. 8, primo comma, nelle parole introduttive, del progetto,
il collegamento, cioè, tra la cittadinanza dell’Unione e la cittadinanza degli Stati membri, perché,
accanto ad ipotesi nelle quali questo collegamento è rispettato, altre se ne trovano nelle quali esso
non è rispettato. Ad esempio, nell’art. 41, II parte, del progetto concernente il diritto ad una buona
amministrazione, incluso nel titolo V, relativo appunto alla cittadinanza, nel quale si dice che "ogni
individuo" ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate…etc. etc. A Stammati pare
evidente che qui si vada e si voglia andare ben al di là del collegamento di principio, all'apparenza
automatico, fra cittadinanza dell'Unione e cittadinanza di uno qualsiasi degli Stati membri, e che ci
sia, invece, un’apertura incondizionata, nei confronti di ogni "persona" relativamente ai diritti
indicati, che prescinde da ogni suo particolare status di cittadinanza (nell'Unione o al di fuori
dell'Unione) o di apolidia. Questa è certo l’infrazione più evidente, ma non è l'unica. Per Stammati
una riflessione la merita senz'altro anche l’art. 42, relativo al diritto di accesso ai documenti, in cui
si dice che "qualsiasi cittadino dell’Unione" (e qui siamo dentro allo schema-base), ma poi si
soggiunge che "qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato
membro", ha il diritto di accedere ai documenti delle istituzioni, etc. Anche qui è innegabile che sia
oltrepassato lo schema generale, anche se si resta al di qua dello schema precedente (quello dell’art.
41), che, per il fatto di poggiare interamente su un sostrato personale, esibisce tutta la sua
universalità. Ciò che conta, comunque, è che anche qui il riferimento a persone fisiche o giuridiche
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che risiedano o abbiano la sede sociale in uno Stato membro porti oltre il limite espresso dal
collegamento basilare dell'art.8, I parte, del progetto. In fattispecie come quelle indicate potrebbe
vedersi il nascere di quella che alcuni denominerebbero "cittadinanza amministrativa" (ne ha parlato
recentemente Arena), distinta dalla cittadinanza politica, la quale, piuttosto che contenuta in
quest'ultima, sarebbe il contenitore di quella, infrangendo i nostri schemi, i nostri comuni modi di
pensare. Il progetto costituzionale, ci si chiede allora, è semplicemente incoerente (include nella
cittadinanza ciò che nulla ha a che fare con la cittadinanza), o introduce un concetto di cittadinanza
che travalica quello dell'art.8, I parte? Interrogativi questi che aprono indirettamente la strada a una
riflessione più ampia sul tema, che appare, del resto, direttamente suscitata dal divieto (art.21,II) di
"qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza". Ma di ciò si parlerà in un altro dei seminari
programmati. In relazione, poi, a quanto esposto dal Prof. Diez-Picazo sul diverso modo di
intendere il concetto di cittadinanza, come nazionalità (concezione chiusa) o come semplice insieme
unitario di diritti e doveri (concezione aperta), a Stammati sembra che, nel fare riferimento al
concetto di cittadinanza-nazionalità, le versioni linguistiche del progetto diverse da quella italiana,
come quelle citate dal relatore (spagnola, inglese etc.), siano chiaramente più restrittive di quella
italiana del medesimo progetto. In quest'ultima, infatti, il concetto di cittadinanza non viene
fondato sul presupposto di un preesistente ed autonomo concetto di nazionalità, ma mostra d' essere
un concetto distinto e del tutto indipendente da quello del quale appare, anzi, più precisamente, il
contenitore. Per Stammati sembra, per ciò, inevitabile porsi a tale proposito non soltanto problemi
di coordinamento orizzontale fra le versioni linguistiche nazionali del progetto, ma, in special
modo, problemi di coordinamento verticale di tutte le versioni con lo spirito complessivo del testo
costituzionale progettato. Innegabilmente diverse, e non di poco, sembrano infatti le conseguenze
dell'accettazione dell'una o dell'altra concezione della cittadinanza e, dunque, diventa quanto mai
importante accertare se il diritto costituzionale europeo possa considerare indifferente l'adesione dei
diritti nazionali all'una o all'altra delle due accezioni considerate della cittadinanza, o se, al
contrario, come egli non può che pensare, il diritto europeo non possa ammettere su un tema
basilare come quello considerato cruciale nel presente, e destinato vieppiù a diventarlo nel futuro,
divaricazioni tanto ampie (e recezioni tanto ristrette...) come quelle che lo stesso relatore ha voluto
opportunamente segnalare.
Luis Maria DIEZ-PICAZO, con riferimento alla buona amministrazione e al diritto di accesso ai
documenti, si richiama a quanto detto nella relazione. Questi diritti sono stati aggiunti in un
momento successivo con il Trattato di Maastricht, ma già esistevano nel diritto comunitario
derivato. Il relatore è d’accordo con Sergio Stammati sul fatto che metterli nel capitolo relativo alla
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cittadinanza abbia molto poco senso. Il diritto ad una buona amministrazione, ad esempio, è un
diritto di tutti, anche dei non residenti. Una persona che abita nel Marocco, negli Stati Uniti o in
Argentina e a cui in un momento dato viene applicato il diritto comunitario, ebbene, anche questa
persona avrà il diritto ad una buona amministrazione. Ed infatti, se siamo pronti ad accettare che il
dovere di motivazione dei provvedimenti amministrativi che incidono sui diritti e i doveri delle
persone è un dovere costituzionale, quando si tratta di provvedimenti amministrativi che hanno
come destinatari cittadini o residenti, come potremmo concepire che, quando non si tratta di
cittadini o residenti, si provveda come nell’anciènt regime? Carteler mon bon plaisir? Questo
sarebbe un po’ eccessivo, dal momento che, presumibilmente, la buona amministrazione è per tutti.
In materia di accesso ai documenti, invece, il Prof. Diez-Picazo ritiene ci sia una ratio per escludere
i non residenti. Comunque, l’opinione del relatore è che questi diritti probabilmente si troverebbero
meglio sistematicamente fuori dal capitolo sulla cittadinanza; in questo egli si trova d’accordo con
Stammati, anche se, a suo modo di vedere, non è gravissimo da un punto di vista di tecnica
normativa, perché anche nelle Costituzioni nazionali siamo molto abituati a reinterpretare i termini
relativi ai soggetti titolari di certi diritti. Nell’esperienza di tutte le Costituzioni nazionali certi
diritti, che la Costituzione attribuisce letteralmente ai soli cittadini, con la prassi legislativa e la
giurisprudenza vengono estesi, ex Constitutione, in quanto diritti costituzionali, anche a stranieri e a
persone giuridiche (perché le persone giuridiche non sono cittadini). Dunque, per concludere sul
punto, il Prof. Diez-Picazo ritiene che questi diritti starebbero meglio sistematicamente fuori, ma se
sono dentro quel capitolo non è gravissimo, considerata la tradizione di “incoerenza” dei testi
costituzionali.
Invece, la seconda domanda formulata da Stammati pone dei problemi difficili. In italiano le cose
sono relativamente più semplici: qualsiasi persona che abbia la cittadinanza italiana
automaticamente ha la cittadinanza europea. In spagnolo, in francese, in inglese, è cittadino europeo
colui che ha la nazionalità, ad esempio, spagnola. Nazionalità è, in spagnolo, come in inglese e
francese, quella del codice civile, cioè cittadinanza-status, quella che serve, ad esempio, per definire
la legge personale, ma non è l’equivalente di cittadinanza in quanto complesso di diritti e doveri
politici. Il relatore formula, a questo punto, un esempio. Immaginiamo che domani il legislatore
spagnolo, nell’uso delle proprie competenze costituzionali, decida di dare il diritto di suffragio
attivo e passivo nelle elezioni politiche nazionali a qualsiasi straniero, comunitario o
extracomunitario, che risieda in territorio spagnolo (pura ipotesi), ad esempio agli americani o ai
marocchini che risiedano legalmente in Spagna (in realtà si tratterebbe soprattutto di latinoamericani, dato che in Spagna c’è una comunità molto numerosa di latino-americani). Questi
soggetti avrebbero i diritti politici, la cittadinanza in senso stretto, ma non avrebbero la nazionalità.
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Dunque, sorge la seguente questione: se l’unica versione ufficiale del trattato fosse quella italiana,
quelle persone sarebbero automaticamente cittadini europei, ma, con la versione spagnola, francese,
inglese del trattato o della Costituzione, quelle persone non sarebbero cittadini europei. Qui sia le
parole, sia le idee che sono dietro queste parole hanno una certa importanza. Questo equivoco
tradizionale dell’idea di cittadinanza, che significa due cose diverse, le quali in un certo punto, ma
soltanto in un certo punto, si toccano; il fatto che i diritti politici tradizionalmente sono stati
attribuiti attraverso la nazionalità (ma con eccezioni, ad esempio quella degli americani
nell’ottocento); questa ambiguità, questo equivoco, nelle parole e nelle idee, cittadinanza e
nazionalità, hanno una certa importanza. (L’esempio, però, probabilmente non sarebbe la Spagna,
che è un Paese un po’ bigotto e probabilmente non agirebbe per prima. Possiamo immaginare,
invece, i Paesi Bassi, uno Stato membro che potrebbe decidere di aprire la via da quelle parti.
Anche se non conosciamo la versione olandese del trattato, dobbiamo riconoscere che il problema è
sempre lì). Dietro queste cose ci sono potenzialmente delle questioni pratiche.
Sergio STAMMATI chiarisce che il suo interrogativo era se, considerandone lo spirito
complessivo, il diritto europeo debba considerarsi favorevole all’una o all’altra delle due accezioni
del concetto di cittadinanza.
DIEZ-PICAZO premette, che, almeno nelle lingue europee con cui egli ha una certa familiarità, la
versione italiana è minoritaria. Premesso questo, il relatore ipotizza che la Corte di Lussemburgo, in
una situazione ipotetica del genere di quella da lui descritta, potrebbe anche ragionare in questi
termini: malgrado le versioni letterali io preferisco, perché mi sembra più aperta, la nozione di
cittadinanza di cui alla versione italiana del trattato, per cui qualsiasi persona che abbia i diritti
politici riconosciuti dall’ordinamento di uno Stato membro dobbiamo considerarlo cittadino
dell’Unione europea, anche se non è “nazionale” dello Stato in questione. Il problema pratico si
pone anche perché in alcuni ordinamenti nazionali la disciplina della nazionalità-cittadinanza non è
omogenea. Per esempio, i britannici hanno diversi livelli di nazionalità, di serie A, di serie B, di
serie C, ognuna con diritti più o meno estesi. Dunque per esempio quelli di Gibilterra, oppure quelli
dei Paesi del Commonwealth, che hanno il diritto di risiedere in Gran Bretagna, ma non
automaticamente il diritto di essere elettori ed eleggibili. Dietro questo vi è potenzialmente tutto un
campo di problemi pratici e con implicazioni politiche ed ideologiche.
Roberto NANIA premette che svolgerà alcune considerazioni in ordine sparso sull’onda delle
sollecitazioni che provengono dalla relazione introduttiva, così articolata e stimolante. La sua
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impressione è che quanto è stato detto confermi che la questione della cittadinanza europea sia
irriducibile ad una mera aggiunta verbale rispetto alla cittadinanza nazionale come si è voluto
talvolta criticamente suggerire. Assai esplicito in questo senso risulta, ad esempio, il volume di
Cartabia-Weiler dove si dice, appunto, che tutto sommato il riconoscimento anche della cittadinanza
europea ai cittadini dei paesi dell'Unione non aggiunge niente a quanto già racchiuso nella
cittadinanza nazionale, in particolare sotto il profilo della dotazione dei diritti che quest'ultima
posizione comporta. In questo modo si finisce forse per sottovalutare la valenza del diritto alla
circolazione su tutto il territorio europeo che rappresenta il nucleo specifico della cittadinanza
europea e sul quale si è giustamente richiamata l'attenzione in sede di introduzione. Certo, appare
più ornamentale, almeno nella prospettiva mediterranea, il diritto di rivolgersi all’Ombudsman
europeo, ed altrettanto potrebbe dirsi per il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo;
mentre del tutto scontata, come ha notato Diez-Picazo appare l'azionabilità delle posizioni
soggettive vantate nei confronti della Pubblica Amministrazione. Nondimeno, per tornare al punto,
tutt'altro che retorico è il diritto alla libera circolazione, perché questo diritto amplifica in termini
che non hanno precedenti nella storia europea l’insieme dei diritti che sono detenuti dai cittadini
nazionali, a cominciare da quelli di natura economica, sicché ne risulta ampiamente trascesa la mera
dimensione "turistica". Muovendo da qui egli sente anche di non condividere l'ipotesi pessimistica –
benché fondata su considerazioni non trascurabili - sul senso di estraneità che tuttora prevarrebbe
tra i cittadini dei paesi europei nei confronti della nuova posizione di cittadinanza. Non andrebbero
dimenticate le grandi aspettative di crescita del benessere collettivo e della qualità della vita
individuale suscitate dal processo di integrazione europea, per cui il problema più serio sembra
piuttosto quello di riuscire ad appagare tali aspettative, in modo che, come purtroppo è sembrato
accadere da noi con l'unificazione monetaria, non si determinino reazioni collettive di disillusione e
di disaffezione le cui conseguenze non sono facilmente prevedibili: un paradosso, questo
dell'Europa che si converte in fattore di impoverimento e di revoca di posizioni acquisite, che
neppure il varo della costituzione europea potrebbe adeguatamente fronteggiare. Un’ulteriore
considerazione di Nania concerne l'ipotesi, molto diffusa tra gli studiosi, che la cittadinanza europea
riproponga un paradigma, quello della cittadinanza appunto, ormai obsoleto perché troppo legato
alla nozione di Stato unitamente alla quale ha preso vita e destinato pertanto ad accompagnarne la
parabola (si vogliono qui richiamare, in termini molto sintetici ma si spera fedeli, le posizioni di
Francesco Cerrone). Peraltro, tanto più incongrua apparirebbe l'adozione di tale schema concettuale
se si pensa alla difficoltà di inquadrare la stessa Unione in una dimensione squisitamente statale.
Ora, occorrerebbe chiedersi, ad avviso di Roberto Nania, se nella rimodulazione della nozione di
cittadinanza nel contesto dell’Unione europea, non prevalga piuttosto il legame con il territorio, per
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cui se lo Stato è obsoleto o comunque relativizzato dai processi di globalizzazione, resta comunque
integro il rapporto tra cittadini e territorio, assunto questo in tutte le valenze culturali che in esso si
esprimono. Non a caso, a parere di Nania, proprio il dato della continuità territoriale del continente
sembra essere il nucleo più qualificante della cittadinanza europea e proprio su questo pare fondarsi
in definitiva il senso di identità che vi si dovrebbe coniugare. Sotto questo aspetto, Nania ammette
di trovare problematica l’estensione ad esempio della libertà di circolazione, prima fra tutte, ai non
europei (estensione che sembra essere in qualche modo anticipata dalle formulazioni del Trattato di
Nizza). D'altro canto, egli ritiene che, secondo una comune acquisizione, esistano i diritti che hanno
senz'altro una vocazione universalistica (e qui lui collocherebbe, anche sull’onda della dottrina
internazionalistica, non solo la dignità umana e tutte le libertà che, come ricordava il relatore,
nonostante vengano attribuite dalla Costituzione italiana ai cittadini, per giurisprudenza pacifica
della Corte Costituzionale sono riconosciute di pertinenza della persona umana in quanto tale, ma
anche, sulla scorta della giurisprudenza internazionale, la proprietà privata e la libertà d'impresa; ciò
anche tenendo conto del fatto che sempre di più gli stranieri assumono iniziative di carattere
imprenditoriale e dimostrano capacità di acquisizione di beni). Altro è tuttavia il diritto alla
circolazione, in cui si è ravvisato il nucleo essenziale della cittadinanza europea. Ove si
generalizzasse il diritto alla circolazione, l’impressione di Nania è che ne risulterebbe fortemente
compromessa anche l’ultima istanza di mantenimento della nozione di cittadinanza. Ciò senza dire
che la costruzione della cittadinanza nelle costituzioni nazionali europee (e qui l’interventore
richiama quanto è stato detto sul rapporto di rinvio che in materia sussiste tra la cittadinanza
europea e le cittadinanze nazionali) è sempre il frutto di un delicato equilibrio di diritti e di doveri.
Certo, taluni doveri hanno conosciuto, come ha sottolineato il relatore con riferimento al servizio
militare, un indubbio processo di relativizzazione, ma ciò non toglie che alla base stessa delle
costituzioni vi sia una complessiva richiesta di integrazione nella comunità e nei suoi valori.
Nessuno può negare che sotto questo aspetto costituisca un problema cruciale, anche di ordine
costituzionale, la creazione di cerchie collettive di credenze e di comportamenti, che mettono in
forse la tenuta del binomio diritti/doveri che è proprio del costituzionalismo europeo. Peraltro, il
parallelismo con la vicenda statunitense non appare del tutto tranquillizzante, dal momento che nel
caso europeo la cittadinanza è leggibile non tanto come dato in via di realizzazione ma come fattore
di identificazione e di perimetrazione culturale. Ciò non significa beninteso che si debba
assecondare, come teme il relatore, una valenza addirittura xenofoba del concetto o comunque
antagonistica e di rigetto. Significa invece affermare la ineludibilità di un bilanciamento, che è tutto
da inventare, tra il mantenimento dell’identità europea e l’esigenza di integrazione e di accoglienza
nei confronti di chi guarda all’Europa come ad un nuovo punto di riferimento.
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DIEZ-PICAZO precisa che non intendeva trasmettere un messaggio di scetticismo. Il relatore
desidera chiarire di non essere per niente scettico, in assoluto, sul valore della previsione di una
cittadinanza europea. Quello che ha inteso dire con la sua relazione è che, al contrario di tutti
coloro, e sono molti, che pensano che per avere un demos ci vuole qualcosa di più di una
cittadinanza, la sua convinzione è che basti la cittadinanza. Coloro che vogliono un demos dicono
che la cittadinanza europea può essere l’embrione di un demos. Diez-Picazo dissente da questa
opinione; la cittadinanza non può essere un embrione perché non aggiunge niente a tutti quei
milioni di europei che vivono nello stesso Paese in cui sono nati. Questo è quello che egli intendeva
dire. Quanto al resto, l’opinione del relatore è che la cittadinanza europea aggiunga molto, intanto il
fatto che è garantito a livello massimo normativo il diritto di suffragio attivo e passivo per l’unico
Parlamento che abbiamo a scala continentale, il che non è poco; e poi senza dubbio, come sostenuto
da Nania, il diritto di residenza e di circolazione, che non è poco nemmeno, perché ormai qualsiasi
persona può risiedere dove vuole entro il territorio dell’Unione senza bisogno di chiedere nessun
permesso (cioè ha bisogno di iscriversi nel Comune di residenza, ma quello lo hanno tutti gli
europei nel proprio Paese, quello è un dovere amministrativo che pesa su tutte le persone). Il
relatore aggiunge, poi, che la Corte di Giustizia ha già riconosciuto che il diritto di residenza ha
effetto diretto. Fino a questo punto Diez-Picazo si trova d’accordo con Nania.
Egli desidera, invece, fare alcune osservazioni sulle altre cose dette da Roberto Nania. Il relatore è
d’accordo sul fatto che ci può essere una cittadinanza senza Stato; ad esempio, i Romani avevano
una cittadinanza, S. Paolo era molto orgoglioso di essere cittadino romano, e lì lo Stato nel senso in
cui noi lo intendiamo non c’era, dunque la cittadinanza in quel senso significa essere membro di un
corpo politico (che il corpo politico in certi periodi storici si sia organizzato attraverso la forma
Stato è un’altra storia). Lo Stato non è sempre esistito e probabilmente non esisterà sempre. Sul
fatto che lo Stato è obsoleto, poi, il relatore si sente d’accordo, ma con alcune precisazioni. Intanto,
una cosa che in genere si dimentica quando si parla di costituzione europea, costituzionalismo
europeo, costituzionalizzazione dell’Europa, ecc, è che alla fine c’è il problema della coazione. Il
diritto è coazione nel senso proprio di uso della forza fisica. Ecco, l’Unione europea, in quanto
organismo politico, ha rinunciato all’uso della forza. Sono gli Stati il braccio armato dell’Unione
europea, cioè se eventualmente (e a volte succede, e c’è giurisprudenza di Lussemburgo sul
problema) bisogna andare da una ditta e fare un registro contro la volontà del soggetto bisognerà
inviare un poliziotto, e quel poliziotto qual è? Sarà la Guardia di Finanza, il Carabiniere, e questo è
nei Trattati. Il braccio armato dell’Unione sono gli Stati, il che pone altri problemi giuridici. Con
questo Diez-Picazo intende dire che, se nella tradizione di Max Weber, Kelsen, ecc, continuiamo a
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pensare che il diritto ha qualche cosa a che vedere con l’uso della forza, l’uso della forza è sempre
negli Stati. Dunque, lo Stato è obsoleto, ma non troppo, fino a un certo punto, perché prima o poi
ognuno può trovarsi con il poliziotto, anche con il poliziotto che dà esecuzione a norme di diritto
europeo, che è pur sempre un poliziotto “nazionale”.
Quanto al problema dei doveri, a parere del relatore si tratta di una questione molto difficile. In
proposito egli confessa di sentirsi alcuni giorni più liberale, altri più repubblicano. Probabilmente le
sue simpatie più profonde sono repubblicane, nel senso che non c’è libertà senza impegno, o meglio
la libertà non è gratuita. Detto questo, ci sono anche alcune concezioni per le quali la libertà non
bisogna pagarla, perché è un diritto. Questa è soprattutto la tradizione giuridica anglosassone, ma
non quella politica, perché gli anglosassoni hanno sempre avuto l’idea per cui i doveri si impongono
per vie non giuridiche (ad esempio, è la pressione sociale quella che obbliga i ragazzi ad andare ad
arruolarsi nell’esercito quando la Patria è in pericolo, senza che ci sia nessuna legge
sull’arruolamento obbligatorio). Dunque, a parere del relatore è difficile, in linea generale, prendere
posizione sui doveri. Con particolare riferimento al processo di integrazione europea, poi, DiezPicazo sottolinea che, anche da un punto di vista economico e fin dalle origini, esso ha avuto,
piuttosto, un senso liberatorio. L’Unione europea ci ha liberato progressivamente di tante piccole
costrizioni statali che avevamo, anche se poi tendiamo a dimenticare. Vivevamo sotto una maglia di
regolamentazioni nazionali assurde, in tantissime cose. In questo senso l’Unione europea è stata
liberatrice e in questo senso può darsi che questo processo si identifichi meglio con una concezione
filosofica liberale, piuttosto che con una concezione repubblicana-mazziniana. Su questo punto il
relatore confessa di avere mixed feelings.
Quanto, infine, al tema importante dell’identità culturale, Diez-Picazo ritiene, anche per averlo
scritto in qualche occasione, che non sono mai state le nazioni e le identità collettive a creare gli
Stati e gli organismi politici, ma è piuttosto vero il contrario. Ad esempio, non è stata l’identità
nazionale italiana a creare lo Stato italiano. Ci sono stati alcune persone che hanno deciso di
unificare l’Italia e poi hanno creato la scuola. Se si prende ad esempio il libro “Cuore”, si
comprende come la costruzione dell’identità italiana è avvenuta sulla base del maestro, dell’invio
dei prefetti, del servizio militare obbligatorio e, in ultima istanza, sulla base della RAI, che ha
unificato la lingua italiana. Stessa cosa vale per i tedeschi: la prima cosa che ha fatto Bismarck dopo
l’unificazione tedesca è il Kulturkampf, ivi incluso l’Hochdeutsch, ovvero l’unificazione normativa
della lingua tedesca. Dunque, non è che ci fosse già la Nazione tedesca, così come la conosciamo
oggi, e poi quella nazione tedesca ha creato lo Stato. Questo vale anche per Paesi molto meno
sospettabili. Il relatore racconta a questo punto una storia che ha sentito una volta da Yves Mény,
oggi Presidente dell’Istituto Universitario Europeo. Nella guerra franco-prussiana lo Stato Maggiore
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Imperiale ha discusso a lungo se inviare a lottare i soldati di leva bretoni, in primo luogo perché la
Bretagna è una terra molto cattolica, quindi era di dubbia lealtà alla causa bonapartista, ma
soprattutto perché gli ufficiali dello Stato Maggiore sapevano che i soldati di leva bretoni non
parlavano il francese. Dal momento che andare a lottare con i soldati che non capiscono gli ufficiali
è quantomeno un rischio, lo Stato maggiore ha deciso di non inviare i soldati di leva bretoni. Nel
1914, cioè 34 anni dopo, i bretoni sono andati tutti a lottare nelle trincee. Cosa c’era stato nel
frattempo? La scuola repubblicana. Dunque, anche in Francia, che è il paradigma della Nazione, nel
senso che è uno Stato che storicamente si identifica con la Nazione, in quello stesso periodo in cui
Bismarck andava imponendo il Kulturkampf, c’è stata la scuola repubblicana. Con questo DiezPicazo intende dire che la sua opinione è che sono piuttosto gli Stati, cioè il potere politico, a creare
le identità, e non le identità a creare il potere politico.
Interviene Gaetano AZZARITI, il quale ritiene che la relazione di Diez-Picazo abbia con chiarezza
e in via pragmatica accreditato una precisa tesi teorica e di ricostruzione storica del concetto di
cittadinanza. Una tesi che si potrebbe riassumere in questo modo: la cittadinanza europea risulta
essere un concetto vuoto. Vuoto soprattutto se espressamente confrontato con la pienezza del
concetto di cittadinanza che la storia del costituzionalismo (o la storia tout court) ci ha consegnato.
Come è noto, infatti, proprio tramite la lotta per la cittadinanza si sono storicamente realizzati i
diritti costituzionali. Il passaggio da suddito a cittadino (lo ricordava Diez-Picazo) esprime un
tornante storico decisivo, su cui si è determinato gran parte del diritto costituzionale moderno. Può
dirsi che la cittadinanza rappresenti una delle categorie fondanti il costituzionalismo moderno.
Nel passaggio dalla cittadinanza (tradizionalmente intesa) alla cittadinanza europea, tanto la
profondità storica quanto l’importanza teorica vengono meno.
Ciò spiega perché la esaustiva relazione di Diez-Picazo non abbia trattato delle questioni
tradizionali della cittadinanza. Non si è, infatti, fatto alcun cenno, parlando della cittadinanza
europea, ai classici argomenti della “cittadinanza come partecipazione” o della “cittadinanza come
appartenenza”. Il che si giustifica poiché in Europa la “cittadinanza come partecipazione” appare
poca cosa, mentre non c'è nessuna possibilità di declinare la cittadinanza europea “come
appartenenza”, che è - nella riflessione tradizionale sulla cittadinanza - l’accezione più densa di
significato.
Azzariti ritiene che questa povertà concettuale sia stata ben sintetizzata da Diez-Picazo quando ha
affermato che “la cittadinanza europea si riduce a status”. Infatti, chi volesse esprimere la
plusvalenza di significato costituzionale della nozione di cittadinanza (la “pienezza”, di cui s’è
detto), dovrebbe proprio distinguere la cittadinanza dal mero status. Se, come ha dimostrato Diez18
Picazo, la cittadinanza europea è lo status, questo vuol dire che la cittadinanza in ambito europeo è
priva di ogni plusvalenza di significato: è dunque “vuota”.
Alla luce delle considerazioni appena svolte, Azzariti pone al relatore due domande.
La prima di carattere generale, con riferimento al dibattito sul c.d. processo costituente europeo,
sulla Carta dei diritti europea e sul Trattato costituzionale europeo (che entro breve tempo la CIG si
propone di approvare). E’ nota la tesi secondo cui prima la “Carta dei diritti fondamentali”
(approvata a Nizza), ora la “Costituzione europea” (recte: il “Trattato che istituisce una costituzione
per l’Europa”), dovrebbero servire a dare una identità politica all'Europa. Ma quale identità è
possibile se le categorie costitutive, che dovrebbero caratterizzare l’hanimus di un processo di
costruzione di una specificità europea, appaiono “vuote”? Non sarà certo solo la cittadinanza a dare
un volto all’Europa, e la costruzione delle identità dei popoli è certo questione assai complessa, ma
non può negarsi che la “vuotezza” della cittadinanza europea rappresenti almeno un ostacolo alla
costruzione di un'identità: sotto questo profilo la c.d. “Costituzione europea” non ha forza
identitaria. Per la costruzione, se non di un’identità, almeno di una comunanza di popolo, rispetto
agli attuali testi “di rango costituzionale”, appaiono più utili altri strumenti “sociali”: la
radiotelevisione, la scuola, l’istruzione e la cultura. S’intende che la questione che si solleva, per la
sua complessità, va molto al di là dell'accenno che si sta qui facendo, ma almeno può servire ad
evitare facili illusioni: la cittadinanza europea, intesa come status, non solo non dà identità, ma non
può contribuire neppure a determinare un modello europeo di sviluppo; tanto più se lo si vuole
contrapposto o comunque alternativo ad altri modelli di sviluppo, in particolare quello statunitense.
Qual è – chiede Azzariti – l’opinione del relatore sul ruolo della cittadinanza europea nel processo
di costruzione di un’identità europea e in generale sulle questioni da ultimo sollevate?
La seconda domanda che Azzariti pone riguarda la capacità della cittadinanza europea di affrontare,
in via di fatto, le questioni che il costituzionalismo contemporaneo, l'ordinamento comunitario, le
società contemporanee ci pongono. Se insomma la cittadinanza europea sia – anche solo da un
punto di vista pragmatico - adeguata ai tempi. L'impressione di Azzariti, anche in riferimento alle
osservazioni svolte da Diez-Picazo, è che la questione “di fatto” (sociale e politica) presupposta dal
tema della cittadinanza sia quella dalle immigrazioni. Diceva Diez-Picazo di stare attenti alla
xenofobia, avvertendo il pericolo che la cittadinanza alla fine fosse uno schermo per dare sfogo agli
spiriti più xenofobi. E allora – ritiene Azzariti - questo è il tema che dovremmo direttamente
affrontare, al di là delle povere disposizioni normative contenute oggi nei Trattati e nella “Carta dei
diritti”, domani nel “Trattato costituzionale”. Anche perché il tema della “cittadinanza
cosmopolitica” e dei diritti degli immigrati è – questo sì – una questione di assoluto rilievo
costituzionale, riguardando il nuovo conformarsi dei popoli, e delle democrazie che questi formano,
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essendo ormai segnati ed attraversati – popoli e democrazie – da imponenti flussi migratori.
Problemi di mobilità delle persone in diversi Paesi che non sono certo quelli riconducibili ad un
nuovo international style of life, bensì a quelli ben più drammatici e complessi delle migrazioni di
masse alla ricerca di condizioni di vita accettabili. Ritiene Azzariti che l’Europa, per le cose fin qui
dette e per le considerazioni più ampie sulle modalità della costruzione dell'Unione europea, non sia
in grado di affrontare queste problematiche. Le soluzioni classiche, quella velleitaria del controllo
totale delle frontiere e quella dell’esclusione/controllo degli stranieri, che sembrano tutt’ora
dominare la cultura istituzionale europea, si mostrano inidonee. La problematica della circolazione
delle persone è diventata oggi di incredibile complessità e Azzariti condivide pienamente l’opinione
espressa in questa sede da altri che sono già intervenuti: la soluzione non può essere l’apertura
indiscriminata delle frontiere, perché questo non sarebbe un modo di risolvere il problema sociale e
politico non riducibile alla libertà di movimento. Tuttavia, è chiaro che il diritto di cittadinanza
inteso solo come esclusione non sembra essere una risposta possibile. Soluzione impossibile non
solo (o non tanto) perché politicamente e moralmente non condivisibile (in fondo politicamente e
moralmente ciascuno può intenderla in modo diverso), ma perché di fatto illusoria, se misurata
all’estensione dei flussi di persone e alle trasformazioni relative all'emigrazione dei popoli, non
arrestabili solo con leggi che facciano argine a difesa della “fortezza Europa”.
A questo punto Azzariti si chiede se per tentare di risolvere o quantomeno orientarsi nel ginepraio
sollevato dalla questione delle migrazioni dei popoli non si possano recuperare le declinazioni
tradizionali della cittadinanza stessa, quelle cui si accennava all'inizio di questo intervento, ovvero
la cittadinanza come “appartenenza” e come “partecipazione”. Non solo – come si accennava in
precedenza - per favorire la costruzione di una effettiva identità europea, ma anche per affrontare
con maggiore consapevolezza il problema delle migrazioni che la storia ci pone dinanzi. Anche in
questo caso, data la complessità della questione, non è possibile esporre con chiarezza i diversi
aspetti della prospettiva evocata, ma in via esemplificativa può riprendersi quanto diceva DiezPicazo, quando ricordava il principio di effettività, che vale come eccezione nell'ordinamento
internazionale. E se, ipotizza Azzariti, questo principio diventasse la regola? Ci si chiede cioè se
una declinazione adeguata alle trasformazioni delle Nazioni e degli Stati della nozione di
“cittadinanza come appartenenza” non potrebbe essere formulata utilizzando il principio di
effettività, che, se rapportato alla cittadinanza esalta il principio di residenza, ma non come
eccezione (come è nell’ordinamento internazionale), quanto piuttosto come regola (come potrebbe
stabilirsi nell’ordinamento europeo). Si tratta, in fondo, di un principio molto antico (ad esempio, la
Francia pose il problema dello ius soli durante la rivoluzione francese, all'origine dello Stato
moderno). Oggi, se si ritiene esaurita l’età delle Nazioni o degli Stati assoluti, appare giunto il
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tempo di puntare sulla residenza. Una residenza che leghi le persone, non solo al suolo, ma anche
alle culture, alle esperienze, che insomma diventi “appartenenza” ad una comunità che non può mai
darsi per statica. In questa prospettiva i “cittadini” sarebbero quelli che operano stabilmente in un
territorio. Rimane – enorme – il problema dei criteri di che di volta in volta possono adottarsi per
determinare in concreto la cittadinanza, ma almeno avremo cambiato il criterio guida: non più
l’esclusione ma la residenza-appartenenza.
Entro questa prospettiva appaiono, invece, riduttive le indicazioni fornite da Roberto Nania: limitare
la cittadinanza a circolazione, favorire alcuni valori costituzionali prevalenti in questa fase storica
come l’impresa e la proprietà. Questo quadro sembra ad Azzariti espressione di una visione
sacrificata della complessità delle soggettività, delle culture, dei popoli, della ricchezza del diritto
costituzionale e dei “valori” che esso ha espresso e che continua ad esprimere. La prospettiva
richiamata sembra ad Azzariti un contributo alla pregiudizievole idea secondo cui nel mondo
domina un pensiero unico, il neoliberismo imperante, cui tutti - le ragioni del costituzionalismo tra
questi - devono piegarsi. Una visione francamente ben poco rassicurante dei rapporti costituzionali.
Così, ritiene Azzariti, non è né deve essere, pertanto una discussione sulle virtualità del concetto di
cittadinanza non limitata al diritto di circolazione (e al suo asservimento ai valori dell’impresa e
della proprietà) appare quanto mai utile.
Azzariti conclude con un'ultima battuta ironica sugli Stati: gli Stati s’e detto in questa aula
ripetutamente, sono “obsoleti”. Può aggiungersi che anche i popoli sono “obsoleti”, visto che la
Costituzione europea non la stanno facendo i popoli europei: la Conferenza Intergovernativa (ma ci
si potrebbe riferire anche alla Convenzione, che ha elaborato il progetto in discussione di “Trattato
costituzionale”), infatti, è composta in modo eterogeneo e in base ad alcuni principi classici del
costituzionalismo – quello della rappresentanza politica ad esempio – può discutersi la natura
esclusivamente statuale, ma certamente nessuno può dire che vi siano rappresentati i popoli. Inoltre,
anche la sovranità sembra essere diventata “obsoleta”, sempre più conquistata da “nuove forme” e
condizionata da “nuovi sovrani”. Ma andando avanti di questo passo a qualcuno potrebbe sorgere il
sospetto che, in fondo, i veri “obsoleti” siamo noi! Dobbiamo avere infatti presente che le cose
cambiano, ma spetta a noi capire i cambiamenti: non tanto rileva dire che lo Stato (ma anche il
popolo o la sovranità) è superato, quanto capire in che modo e cosa c’è dopo lo Stato (nazione).
Insomma, dobbiamo fare uno sforzo di rimeditazione profonda anche sui concetti tradizionali.
Prima di ritenere superata la cittadinanza come appartenenza e come partecipazione (ovvero la
pienezza della cittadinanza), sarebbe opportuno provare, invece, a declinarla per adeguarla alle
rapide ed indiscutibili trasformazioni epocali cui stiamo assistendo.
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DIEZ-PICAZO risponde alle due domande poste da Gaetano Azzariti. La prima è quella
sull’identità. Bisogna chiedersi: si può avere un’unione politica senza un’identità? Il relatore pone
una premessa: egli è spagnolo, e dunque la vita gli ha insegnato a vivere politicamente senza
identità. In Spagna si tenta (o, almeno, la maggioranza delle persone tenta) di fare le cose senza
esagerare troppo sul versante dell’identità, perché quello è un versante di cui potrebbe dirsi: meglio
non aprire il vaso di Pandora. Fatta questa premessa, Diez-Picazo esprime la sua perplessità sulla
nozione di identità, dal momento che l’identità si definisce in maniere diverse in contesti diversi,
cioè alcuni Paesi hanno un’identità di tipo culturale, altri di generi diversi. Ad esempio, non sono le
stesse cose che definiscono la fortissima identità dei francesi, o quella dei tedeschi, o degli
americani. Questi sono tre Paesi con un fortissimo senso di identità, che però si costruisce intorno a
cose diverse. Può essere interessante riflettere su un dato, che il relatore confessa di aver scoperto
solo recentemente. La parola demos, che è quella che esprime l’identità (c’è bisogno di un demos
perché ci sia democrazia, e non ci sarà identità se non c’è un demos), in origine stava ad indicare la
“circoscrizione elettorale” introdotta nella riforma politica e costituzionale di Clistene nel 508 a.C.
Questa circoscrizione era puramente geometrica, cioè Clistene ha preso Atene e l’ha quadricolata
per abolire le antiche tribù. Quindi, la democrazia in origine non era un fatto naturale, né identitario,
ma un fatto geometrico; lo stesso demos è geometrico, almeno nel 508 a.C. Con questo il relatore
intende dire che il concetto di identità gli sfugge.
Quanto alla seconda domanda, ovvero se la cittadinanza europea è sufficiente, il Prof. Diez-Picazo,
pur consapevole di essere in minoranza (non nell’incontro che ha odierno, ma in Europa), dice di
essere fra coloro che credono di sì, che sia sufficiente. Se era sufficiente per gli ateniesi, nel 508
a.C., non si vede perché non debba essere sufficiente per noi, nel 2003. Per avere una democrazia
bisogna che ci siano cittadini, diritto di suffragio attivo e passivo, libertà di espressione, mezzi di
comunicazione liberi, ecc. Ma che il sentimento di identità debba essere simile tra trecento milioni
di persone, non si comprende il perché. Detto questo, è vero che il grosso problema sono gli
immigrati, ma c’è anche un altro problema, di grande attualità, ovvero quello della guerra e della
pace. Prima o poi bisogna inviare i soldati; i soldati, quando sono inviati, sanno che possono morire.
Come convincere i soldati ad andare eventualmente a morire se non è per la Patria, perché pro
patria mori, ma anche pro Unione europea mori? Non è facile da dire, però va considerato che i
soldati andavano a morire anche sotto governi liberi prima che ci fossero le identità nazionali. I
fiorentini andavano a lottare contro i senesi, oppure anche contro le truppe imperiali (Machiavelli).
Qui non c’era un’identità di tipo nazionale. Anche sotto governi liberi la gente andava a morire in
guerra per sentimenti che non erano nazionali, erano di un altro tipo. Il relatore, a fronte di tutto
questo, ritiene che ci troviamo di fronte alla difficoltà di costruire categorie politiche, ma anche
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giuridiche, che non rispondano più a quello che lui indica come “il paradigma del romanticismo”.
Ovvero: in grandissima misura tutta la teoria dello Stato e i concetti giuridici sui quali siamo stati
educati e che ancora oggi usiamo sono concetti romantici, nazionalisti ma anche romantici, e
dunque la sfida è quella di ricostruire -non la chiameremo teoria dello Stato, perché chiamarla teoria
dello Stato, se lo Stato è obsoleto, è un po’ difficile- si potrebbe forse dire una teoria dello Stato
obsoleto, o del post-Stato, sulla base di categorie non romantiche. Durante i secoli gli esseri umani
hanno vissuto con categorie non romantiche anche sotto governi liberi. Dunque, può immaginarsi
che si tratti di una vera sfida, ma non necessariamente deve ritenersi che sia impossibile. La
questione sta tutta lì, nello sbarazzarsi delle categorie romantiche. Il problema è che c’è tantissima
gente in Europa che non ne vuole sapere, perché si trova a proprio agio in un universo concettuale
romantico. Il punto di vista del relatore è che, se vogliamo costruire qualcosa di nuovo, il paradigma
romantico non funziona. Egli confessa, però, di non avere un paradigma alternativo. Se un giorno
l’avrà, lo racconterà, ma per il momento si limita a fare la diagnosi della situazione.
Gianluca BASCHERINI si associa ai ringraziamenti a Luis Maria Diez-Picazo per gli stimoli e per
la sintesi che è riuscito a portare sul tema della cittadinanza. Quindi, ricollegandosi a quanto detto
da Azzariti e da Diez-Picazo, egli ricorda i lavori di Chabod o di Edgar Morin sull’idea di Europa,
dai quali emerge chiaramente come l’idea di Europa appaia come un concetto polemico che si
sviluppa per sottrazione e contrapposizione: europeo, dunque, è il non-barbaro, non-asiatico e così
via. Diez-Picazo ha toccato alcuni punti molti interessanti nel ragionamento sulla cittadinanza:
quello dell’effettività, quello della residenza, tutti punti che, a parere di Bascherini, riconducono a
quanto detto da Azzariti e accennato da Diez-Picazo nella conclusione della sua relazione, cioè che
il problema di fondo è quello del rapporto tra questi cittadini europei che andiamo disegnando e gli
stranieri. Richiamandosi anche a quanto detto da Roberto Nania, Bascherini ritiene che il nodo della
circolazione non sia una questione secondaria. La sua opinione è che non sia affatto casuale che ciò
che rimane collegato alla cittadinanza come status è solo circolazione e possibilità di fissare la
residenza, in un contesto in cui si cerca di creare uno spazio completamente libero per le merci e i
capitali e, invece, quando si tratta di circolazione delle persone questo spazio appare sempre più
perimetrato da confini di diversa origine e natura. Il fatto di fissare alla libertà di movimento delle
persone dei limiti che non si vogliono più fissare alla libertà di movimento delle merci e dei capitali,
non è una dimenticanza, ma è una scelta voluta, la quale - per quanto concerne i migranti - si
traduce in una sussunzione dei fenomeni migratori entro una visione, nel migliore dei casi,
economicista, del lavoratore migrante come riserva di forza-lavoro a seconda della congiuntura
necessaria oppure eccedente e dunque allontanabile. E sintomatico a questo riguardo è il tentativo in
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atto di sostituire al permesso il contratto di soggiorno. Anche un altro aspetto della relazione di
Diez-Picazo, a parere di Bascherini, è interessante: ovvero il fatto che non vi sia alcuno ostacolo, né
logico, né assiologico, a pensare di costruire la cittadinanza su categorie altre da quelle
dell’appartenenza. Forse un percorso possibile per dare nuovo significato alla libertà di circolazione
ed alla cittadinanza può essere quello di immaginare forme multilevel di cittadinanza, di una
cittadinanza di residenza tali da garantire uno statuto chiaro dei diritti e dei doveri del migrante
mediante imputazioni progressive delle diverse situazioni giuridiche soggettive a partire proprio
delle sue scelte di residenza; in grado dunque di rapportare il singolo individuo alla pluralità di
ordinamenti che insistono su di un territorio. Su questo, tra l’altro, Bascherini è dell’opinione che
sarebbe interessante anche ragionare su quelli che sono i filoni giurisprudenziali nazionali e
comunitari, sul riconoscimento concreto dei diritti agli stranieri, adesso agli stranieri
extracomunitari. La Corte Costituzionale italiana, ad esempio, nella sua recente giurisprudenza ha
riconosciuto una serie di diritti agli stranieri, tanto in materia sociale quanto in tema di libertà
personale e diritto alla difesa non ragionando sulle categorie cittadino/straniero bensì partendo dal
dato della residenza (v. ad es. le sentt. C. Cost. nn. 454/1998, 161/2000 e 105/2001). Bascherini,
inoltre non concorda del tutto con Diez-Picazo riguardo la mediocrità del testo di Marshall.
Chiaramente questo, come ogni testo va calato nel tempo e nel contesto in cui ha visto la luce: in
questo caso il dibattito del laburismo inglese sullo stato sociale negli anni Cinquanta del Novecento.
Ciononostante, a parere di Bascherini, il merito di questo testo, più che nelle conclusioni cui questo
perviene, sta nell’aver offerto una chiave di lettura storica e non dommatica dei processi di
cittadinanza - e di allargamento dei diritti a soggetti in precedenza esclusi dal loro godimento - e
dunque una dimensione di lettura di questi processi altra rispetto a quella su cui tradizionalmente si
concentrano i giuristi. Marshall in fondo non fa che proporre una ricostruzione di lungo periodo
della storia moderna della cittadinanza tendente a porre a suo coronamento lo stato sociale ed i
diritti da questo garantiti. Forse è sulla scorta di questo processo che noi ancora oggi ci
interroghiamo di cittadinanza, perché in realtà siamo anche emotivamente legati a quel processo
storico di allargamento dei diritti che è iniziato nella seconda metà dell’ottocento e che
probabilmente si è concluso nell’ultimo quarto del Novecento, nell’arco di un secolo che ha portato
al riconoscimento dei diritti ad una categoria di soggetti molto più ampia rispetto a quella cui esso
era stato riconosciuto dalle carte rivoluzionarie prima e del liberalismo poi. Sull’identità è stato già
detto molto, per cui Bascherini non si azzarda ad intervenire, se non osservando che ad oggi la
nostra identità, tra le varie carte che teniamo nel portafoglio, sia definita molto più
dalla carta di credito, che non dalla carta di identità. La sua impressione è che questo tema si sia
evidenziato come assolutamente problematico. Diceva giustamente Diez-Picazo: è difficile capire il
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rapporto, se è la politica o il potere che crea l’identità o viceversa. L’opinione di Bascherini è che
oggi le identità come le appartenenze siano molteplici ed a volte conflittuali. E questo rende il
territorio sempre meno univocamente significativo in termini di delimitazione degli interessi di una
comunità e dei diritti dei singoli partecipanti ad essa. Ancora, tra i meriti della relazione di DiezPicazo, sta l’aver evidenziato le tensioni che oggi attraversano la categoria della cittadinanza e le
difficoltà che si incontrano a doverla utilizzare oggi senza aggettivarla. Si potrebbe pensare che sia
anche la mancanza di altri sostantivi a portarci a dover ragionare, per quanto riguarda la spettanza di
diritti, in termini di cittadinanza. Sulla questione dei migranti Bascherini ritiene insufficiente dirsi a
favore o contro le frontiere aperte. L’azzeramento delle quote e la chiusura delle frontiere non
sembrano ridurre i flussi di ingresso, bensì soltanto incrementare la percentuale degli ingressi
clandestini, i quali peraltro costituiscono- storicamente- una componente strutturale dei flussi
migratori. In questo senso non è servito militarizzare le coste. E neppure affondare navi. La
questione, allora, non è se le frontiere sono aperte o chiuse; o, su un altro piano se una società
multietnica sia o meno auspicabile. Le migrazioni costituiscono un dato strutturale delle società
moderne ed oggi la società multietnica è un destino, non una scelta per anime belle; le alternative
oggi, realisticamente, riguardano le modalità (più o meno conflittuali, più o meno regolate)
attraverso cui gli ordinamenti- nazionali e sovranazionali- si dispongono ad approcciare questa
realtà.
DIEZ-PICAZO inizia da Marshall e, sulle considerazioni di Bascherini in proposito, osserva che è
vero che i testi di diritto costituzionale e di altre materie giuridiche in materia di cittadinanza sono
piuttosto lacunosi. Per questo, allora, le considerazioni di Bascherini lo inducono a dire: «Touchè!».
Ciò premesso, può darsi che mediocre sia un aggettivo un po’ troppo forte, però l’opinione del
relatore è che sia un libro che non merita la fama di cui gode, perché in fondo è un libricino in cui si
espone la classica tripartizione dei diritti in diritti civili, politici e sociali, vera nel momento in cui in
Inghilterra c’era il grande lancio del Welfare State in senso contemporaneo. Detto questo, la grande
critica che, a suo parere, va fatta a Marshall - a Marshall soprattutto, perché Marshall è il punto di
riferimento di tutti quelli che usano in maniera indiscriminata la parola cittadinanza per parlare di
qualsiasi cosa - è che se mettiamo i diritti civili, la proprietà, di cui parlava Roberto Nania, o i diritti
sociali, come il diritto alla salute, il diritto alla scuola (libro “Cuore”), se questi li mettiamo sotto
l’ombrello della cittadinanza, compiamo un’operazione che: a) non ha niente a che vedere con
quello che tradizionalmente si è inteso con cittadinanza; e b) dal punto di vista ideologico, non
compiamo un’operazione neutrale, bensì un’operazione per effetto della quale hanno un diritto
“innato” alla scuola o alla proprietà i nazionali; quanto agli altri…si vedrà. E questo è ciò che si
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desume dal libro di Marshall (scritto da un militante del Labour Party!). Fare quella ricostruzione
scorretta di categorie storiche per finire con l’affermare che solo i nazionali hanno diritto a certe
cose, devono avere diritto a certe cose, sembra a Diez-Picazo, in primo luogo, concettualmente
sbagliato; in secondo luogo, ideologicamente sbilanciato. Con il suo giudizio sul libro di Marshall
egli non intendeva dire se non questo.
Il relatore affronta, quindi, la questione del rapporto tra i cittadini e le carte di credito, per dire che
egli si trova solo parzialmente d’accordo con Bascherini. Che i ricchi vivano meglio e abbiano
maggiori possibilità, non c’è alcun dubbio. Inoltre, se uno deve scegliere se essere ricco o povero,
sceglie di essere ricco, questo è certo. Detto questo, il relatore fa presente che accanto al suo studio
a Madrid c’è un commissariato di polizia, di quelli dove devono andare a regolare la loro situazione
gli extracomunitari. Di solito c’è una lunghissima fila, e gli americani degli Stati Uniti fanno la fila
lì, con tutti gli altri, e quelli normalmente poveri non sono. Questa considerazione serve a DiezPicazo per dire che le norme giuridiche contano. Di certo egli non augura a nessuno di dover fare le
file, né è contento perché gli americani devono fare la fila, quello che intende dire è che in quella
fila ci sono, anche se in minoranza, delle persone che non sono affatto povere, né provengono da
paesi del Terzo mondo. Quanto alle naturalizzazioni, sulle quali Bascherini ha fatto l’esempio della
Francia, il relatore ritiene che si potrebbero menzionare anche gli Stati Uniti. Su questo tema,
confessa Diez-Picazo, nella sua famiglia colei che veramente conosce questo tema è sua moglie, che
gli raccontava qualche tempo fa di una statistica (del 1998, 1999 o 2000, ma comunque piuttosto
recente; e comunque il trend è sempre lo stesso), secondo la quale il numero complessivo di persone
che in quell’anno sono state naturalizzate negli Stati Uniti era il doppio della somma delle persone
naturalizzate in tutti i Paesi dell’Unione europea con una popolazione complessiva paragonabile ed
un PIL paragonabile. Questo vuol dire che gli Stati Uniti sono molto più assorbenti, il doppio per
essere precisi, dell’Unione europea, e questo ha a che vedere non solo con condizioni economiche,
ma anche con condizioni mentali. Gli americani hanno una cultura dell’accoglienza che la maggior
parte degli Stati dell’Unione europea non ha. Il relatore, riportando questa statistica, intende dire
che la spiegazione puramente economicista va presa con molta moderazione, e questo elemento è
molto significativo se si fa il paragone tra gli Stati Uniti e l’Unione europea oggi. Diez-Picazo vuol
dire, poi, un’ultima cosa in merito a quanto ricordato da Bascherini su come si definisce l’Europa
per Chabod e gli altri. Il relatore non si pronuncia su queste questioni metafisiche, ancora una volta,
per una propria incapacità fisiologica per le questioni metafisiche. Comunque, va ricordato che nel
Trattato sull’Unione europea (ma questo si diceva già nel Trattato di Roma) le condizioni per essere
ammesso come Stato membro dell’Unione europea erano quelle di essere uno Stato che rispetti i
principi di cui all’art. 6, cioè lo Stato di diritto, i diritti umani, etc… Che cos’è, allora, uno Stato
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europeo? Che la Svizzera sia uno Stato europeo, suo malgrado, su questo non c’è dubbio. Ma, man
mano che ci spostiamo verso altre latitudini, le cose possono non essere assolutamente chiare. Ad
esempio – dopo aver citato sua moglie, il relatore adesso citerà la madre - la madre di Diez-Picazo
sostiene sempre che la maniera più saggia di fare un’eventuale transizione democratica di Cuba
sarebbe la reintegrazione sotto l’autorità della Corona spagnola. Sicuramente gli americani non
sarebbero d’accordo, però i cubani sono stati spagnoli fino al 1898, poi gli americani hanno vinto la
guerra, altrimenti avrebbero continuato ad essere spagnoli. Quello è uno Stato europeo?
Immaginiamo che Cuba decida di essere ragionevole e di tornare sotto l’autorità della Corona: vi
sarebbero le condizioni perché Cuba diventasse parte - non Stato membro, ma parte - dell’Unione
europea? Non è facile a dirsi. L’impressione del relatore è, però, che la metafisica abbia poco a che
fare con queste cose. Ad esempio, una volta a Diez-Picazo in aeroporto è stato presentato un
deputato europeo che andava a casa, e casa sua era nell’isola della Reunion, che è nell’Oceano
Indiano ed è territorio dell’Unione europea. Dunque, non è affatto semplice dire che cosa sia
l’Europa effettivamente.
Alberto VESPAZIANI vuole fare una domanda relativa al rapporto tra la cittadinanza europea e il
diritto di difesa, sulla base di una suggestione proveniente dall'intervento di Gianluca Bascherini.
L'impressione di Vespasiani è che nel corso della relazione introduttiva la cittadinanza europea sia
stata presentata come una categoria da cui possono fluire dei diritti, in verità molto pochi, come ha
argomentato Diez-Picazo, presentando una concezione aritmetica della cittadinanza europea, come
di un risultato di una somma delle discipline dei vari ordinamenti nazionali, e di cui, quindi, si
potrebbe fare anche a meno. Il relatore, quindi, ha un po’ diversificato, dicendo che quelli che se lo
possono permettere e viaggiano ne beneficiano un po’ di più rispetto ai provinciali, che rimangono
fermi. Nel corso della discussione, invece, la cittadinanza è diventata più una risorsa di tipo
simbolico, dato che sono stati invocati i concetti classici di identità, appartenenza e partecipazione.
Vespaziani vuole fare una domanda che si riferisce al punto della relazione introduttiva in cui è
stato evocato S. Paolo. Diez-Picazo ha detto: S. Paolo era molto orgoglioso della cittadinanza. Però,
prosegue Vespaziani, questo orgoglio si potrebbe anche interpretare in modo pragmatico. Quando
S. Paolo diceva di essere cittadino romano, si riferiva al fatto che per questo egli aveva il diritto ad
un giusto processo. Allora, la domanda di Vespaziani è: non ci potrebbe essere spazio per la
cittadinanza europea come di una strategia argomentativa? E cioè, in fondo noi dovremmo anche
essere un po’ cauti nell'escludere che un domani, nelle corti, i giuristi europei facciano leva sul
concetto di cittadinanza europea per proteggere altre situazioni giuridiche. Ciò soprattutto con
riferimento all'estensione del principio di non discriminazione sulla base della nazionalità. Di
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fronte ad un probabile aumento della mobilità sociale, è possibile che aumentino i conflitti di fronte
alle corti, dove i cittadini europei potrebbero invocare la tutela di diritti fondamentali compromessi
da disposizioni legislative e da pratiche amministrative locali ancorate al principio di nazionalità. In
questo senso, si potrebbe cercare di difendere un po’ il futuro della categoria della cittadinanza
europea.
DIEZ-PICAZO ribadisce ancora una volta di non essere scettico sulla cittadinanza europea, bensì
sull’utilizzazione in chiave romantica della cittadinanza europea. Per il resto, egli crede che la
cittadinanza europea sia un bene. Infatti, ci sono alcuni diritti senza dubbio molto utili, quello di
suffragio e quello di libertà di circolazione; questi diritti sono utilissimi e sono inerenti alla
cittadinanza europea. Il relatore è, invece, piuttosto scettico sull’uso romantico dell’idea di
cittadinanza, soprattutto perché lo trova inutile, a maggior ragione inutile se l’obiettivo da
raggiungere è quello di un’unione politica. Questa, infatti, non si può fare sulla base di categorie
romantiche. Detto questo, Diez-Picazo prende in considerazione il diritto ad un giusto processo. Il
nesso con la cittadinanza, egli osserva, valeva ai tempi di S. Paolo, mentre oggi il diritto ad un
giusto processo ce l’hanno tutti. Il diritto ad un giusto processo (art. 6 della Convenzione dei diritti
umani) è un diritto di tutti, per cui, ad esempio, un keniano che arriva anche illegalmente in Europa
ha il diritto ad un giusto processo (cosa diversa è quale processo sia). Per dirla con la rivoluzione
francese, questo è un diritto dell’uomo, non un diritto del cittadino, almeno nel costituzionalismo
moderno, contrapposto al costituzionalismo antico. E qui si torna a Marshall: il rischio perverso di
abusare del termine cittadinanza è che possiamo finire per attribuire diritti, che nella tradizione del
costituzionalismo moderno sono diritti dell’uomo, ai soli cittadini, cioè ridurli. Il diritto ad un giusto
processo, invece, è un diritto di tutti.
Alberto VESPAZIANI desidera effettuare una precisazione. Egli intendeva dire che forse c’è anche
uno spazio per l’estensione del principio di non discriminazione. E’ evidente che se si accresce la
mobilità sociale, soprattutto della forza lavoro, è probabile che aumentino i conflitti davanti alle
Corti per questioni di tutela di situazioni giuridiche non agganciate direttamente alla nazionalità. In
questo senso forse la cittadinanza europea può allargare la valutazione dei diritti.
DIEZ-PICAZO è d’accordo, ma purché si parli di diritti in qualche misura inerenti ai cittadini. Ci
sono tanti altri diritti, però, per i quali tale inerenza non sussiste. Si può fare l’esempio
dell’eguaglianza di remunerazione uomo-donna: stesso lavoro, stessa remunerazione (è un principio
che è nel Trattato dal 1957). Questo diritto ha a che fare con la cittadinanza europea? Ovvero, una
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donna che sia impiegata di una società con sede legale nell’Unione europea, anche se il suo luogo di
lavoro non è nemmeno nel territorio dell’Unione europea, ad esempio un’impiegata di una ditta
dell’Unione europea, non diciamo a New York, perché lì c’è la legislazione americana, ma in
Marocco, che invoca le disposizioni del Trattato sulla parità di retribuzione, ha il diritto o non ha il
diritto? Se abusiamo del concetto di cittadinanza, finiremo per costruire un ordinamento meno
garantista di quello che avevamo senza il concetto di cittadinanza. Detto questo, il relatore desidera
non essere frainteso. Egli ritiene che la cittadinanza europea sia una cosa buona, ma cittadinanza
significa che uno partecipa nella cosa pubblica, e significa anche che uno ha il diritto di entrare e di
uscire. Quanto agli altri diritti, è preferibile non abusare della cittadinanza, perché si finirebbe per
restringere la sfera dei beneficiari di questi diritti.
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