LUISS Guido Carli Istituto di Studi Giuridici – Facoltà di Giurisprudenza Via Parenzo, 11 - tel. 06/85225.810 OSSERVATORIO COSTITUZIONALE Seminario su: I DIRITTI FONDAMENTALI E LE CORTI IN EUROPA Incontro del 3 ottobre 2003 sul tema “Il cittadino e lo straniero in Europa” (introdotto dal Prof. Luis Maria Diez-Picazo) Resoconto redatto dal Dott. Francesco Sacco e dalla Dott.ssa Chiara De Simone Bollettino n. 8/2003 Il calendario ed i resoconti degli incontri dell’Osservatorio Costituzionale, assieme ad altra documentazione, sono reperibili sul sito Internet dell’Università Luiss Guido Carli (http://www.luiss.it/semcost/index.html) Per informazioni, comunicazioni: e-mail: [email protected] Per l’iscrizione alla Newsletter dell’Osservatorio Costituzionale: http://www.luiss.it/semcost/dirittifondamentali/newsletter.html Realizzato nell’ambito della ricerca di rilevante interesse nazionale cofinanziata dal Murst (2001-2003) Sergio PANUNZIO ringrazia il prof. Diez-Picazo per avere accettato l’invito ad introdurre il tema odierno “Il cittadino e lo straniero in Europa”. Sottolinea che Diez-Picazo è uno dei costituzionalisti spagnoli più conosciuti in Italia, anche perché ha insegnato per nove anni all’Istituto europeo di Firenze, ha recentemente preso parte al gruppo di studio della Commissione europea per la semplificazione dei Trattati ed ha pubblicato volumi sul tema della Costituzione europea e della cittadinanza europea. Luis Maria DIEZ-PICAZO ringrazia Panunzio e la Luiss per essere stato invitato a parlare di un tema così importante. Egli innanzitutto rileva che la disciplina della cittadinanza europea è contenuta in diverse fonti: in primo luogo negli articoli da 17 a 22 del Trattato sulla Comunità europea, come modificato dal Trattato di Maastricht del 1992; in secondo luogo negli articoli da 39 a 46 contenuti nel capo V della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, intitolato, appunto, “cittadinanza”. Il progetto di Costituzione europea, infine, nella ultima versione del 18 luglio 2003, indica nella prima parte, all’art. 8, le linee generali della cittadinanza europea, e nella seconda (artt. 39-46) riproduce la disciplina recata dalla Carta dei diritti fondamentali. Diez-Picazo osserva che, pur essendovi pluralità di fonti, non sarebbe corretto sostenere che vi sono discipline differenti della cittadinanza europea; innanzitutto occorre precisare che, attualmente, l’unico testo avente valore normativo è il Trattato CE, mentre la Costituzione europea è soltanto un progetto e la Carta dei diritti, nella migliore delle ipotesi, è considerata come soft law in quanto è stata proclamata (al Consiglio europeo di Nizza) ma non promulgata e dunque non è una norma in vigore nell’ordinamento comunitario. Al di là di questo aspetto, le disposizioni della Carta dei diritti – riprodotte nel progetto di Costituzione- sono molto simili a quelle del Trattato. Il Trattato della Comunità europea attribuisce ai cittadini europei a) il diritto a votare e ad essere eletti alle elezioni al Parlamento europeo e alle elezioni locali nello Stato membro di residenza, anche se non coincidente con quello di cui l’elettore è cittadino; b) il diritto ad una buona amministrazione (cioè ad essere ascoltati nel procedimento amministrativo, alla motivazione degli atti amministrativi, etc.); c) il diritto di accesso ai documenti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione; d) il diritto di fare comunicazioni all’Ombudsman dell’Unione europea; e) il diritto di petizione al Parlamento europeo; f) la libertà di circolazione e residenza in qualsiasi Stato dell’Unione; g) il diritto a ricevere – nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato di cui si ha la cittadinanza non è rappresentato - la protezione diplomatica e consolare da parte degli agenti diplomatici di qualsiasi Stato membro. Questi sono, dunque, i diritti attribuiti ai cittadini europei dal 2 Trattato sulla Comunità europea, ai quali la Carta dei diritti aggiunge soltanto il diritto ad una buona amministrazione e il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni politiche (Commissione, Consiglio, Parlamento). Si tratta peraltro di modifiche più apparenti che reali poiché tali diritti già esistevano nel diritto derivato dell’Unione europea. Pertanto, con la Carta di Nizza si cerca di costituzionalizzare diritti già presenti nell’ordinamento comunitario. D’altro canto, a differenza del Trattato, la Carta di Nizza non reca una definizione di cittadino europeo, probabilmente perché si tratta di un compito non spettante ad una dichiarazione dei diritti. Dopo aver delineato – in maniera puramente descrittiva- il contenuto della cittadinanza europea, Diez-Picazo ritiene ora necessario chiedersi quale sia il significato che essa assume nel processo di integrazione europea e di costruzione di un corpo politico a livello continentale. Per tentare di fornire una risposta a questo interrogativo bisogna partire dal dato positivo: la cittadinanza europea – che implica l’attribuzione dei diritti menzionati precedentemente – è definita dall’art. 17 (ex art. 8) del Trattato CE mediante rinvio alle cittadinanze nazionali. Tale articolo infatti sancisce: “E’ istituita una cittadinanza dell’Unione. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima. I cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti dal presente Trattato”. È cittadino dell’Unione europea, quindi, qualsiasi persona che abbia la cittadinanza di uno degli Stati membri. Diez-Picazo osserva in primo luogo che dall’art. 17 deriva un dovere di riconoscimento incondizionato da parte di ogni Stato membro della disciplina della cittadinanza recata da tutti gli altri Stati membri. Uno Stato membro non può opporre eccezioni di alcun tipo al modo in cui un altro Stato membro regola la propria cittadinanza. Inoltre, secondo la dichiarazione n. 2 annessa al Trattato di Maastricht (Diez-Picazo ricorda che per il diritto internazionale le dichiarazioni annesse ai trattati, pur non essendo norme giuridiche, hanno un valore interpretativo privilegiato) gli Stati membri stabiliscono che qualora i Trattati costitutivi della Comunità europea si riferiscono ai cittadini degli Stati membri, per sapere se una persona abbia o meno una data cittadinanza occorre rinviare all’ordinamento nazionale dello Stato membro di cui si tratta. Diez-Picazo rileva che tutti gli Stati membri hanno perciò concordato l’incondizionato riconoscimento delle rispettive discipline nazionali in tema di cittadinanza. La cittadinanza europea è data pertanto dalla somma delle discipline nazionali in materia di cittadinanza. Il dovere di riconoscere senza condizioni le discipline altrui, del resto, non deriva soltanto dalla dichiarazione n. 2 del Trattato di Maastricht, ma anche dalla sentenza 7 luglio 1992, causa C-369/90, Micheletti e a., con la quale la Corte di Giustizia ha deciso il caso di un dentista argentino – divenuto cittadino italiano grazie all’origine italiana dei suoi nonni o bisnonni – che, emigrato in Spagna per esercitarvi la professione, si è visto rifiutare il permesso di residenza dalle autorità spagnole, che 3 hanno ritenuto fittizia la sua cittadinanza italiana. Questa decisione è estremamente significativa, non solo in quanto ribadisce il principio affermato dalla suddetta dichiarazione n. 2, ma anche perché è stata resa nel periodo in cui il Trattato di Maastricht era stato concluso ma non ancora ratificato, anticipandone pertanto il mutamento costituzionale da esso implicitamente introdotto in tema di cittadinanza. La sentenza Micheletti è importante anche per un altro motivo. Le autorità spagnole, come accennato, hanno motivato il rifiuto del permesso di residenza assumendo che la cittadinanza italiana invocata dal sig. Micheletti era fittizia. Secondo il diritto internazionale ogni Stato membro della comunità internazionale ha il dovere di riconoscere la cittadinanza conferita da un altro Stato, a meno che essa non sia effettiva. Più precisamente, il dovere di riconoscere le cittadinanze conferite dagli altri Stati non sussiste se lo Stato che effettua il riconoscimento ritiene non effettiva quella cittadinanza. Il relatore ricorda come questo principio sia stato affermato dalla Corte internazionale di giustizia con l’importantissima sentenza Nottebhom del 6 aprile 1955 (Guatemala c. Lichtenstein). I fatti erano i seguenti: il sig. Nottebhom, tedesco, emigrò in Guatemala durante la seconda guerra mondiale e, per evitare possibili eventi pregiudizievoli derivanti dalla sua nazionalità, assunse la cittadinanza del Lichtenstein. Il Guatemala, come molti altri paesi latino americani, dichiarò guerra alla Germania nei primi mesi del 1945 e, in osservanza delle norme del diritto internazionale generale, dispose la confisca dei beni dei cittadini della potenza nemica e dunque anche quelli del sig. Nottebhom. Questi oppose di essere cittadino del Lichtenstein, da cui ricevette protezione diplomatica, dando così origine alla controversia dinanzi alla Corte internazionale di Giustizia, la quale però accolse le ragioni dello Stato del Guatemala, stabilendo il principio secondo cui esiste un dovere di riconoscimento della nazionalità altrui purché tale nazionalità sia effettiva. Gli Stati hanno pertanto il diritto di non riconoscere la nazionalità altrui quando questa risulti fittizia. Tornando al caso Micheletti, nel 1992 la Spagna, invocando il diritto internazionale generale, ha sostenuto di non esser tenuta a riconoscere la cittadinanza conferita dall’Italia se questa non fosse effettiva, come sarebbe risultato dal fatto che il sig. Micheletti – che viveva a Buenos Aires e che successivamente si era trasferito nella città di Santander - non era mai stato in Italia e non parlava la lingua italiana. La Corte di Giustizia di Lussemburgo, tuttavia, ha affermato che il dovere di riconoscimento delle cittadinanze fra gli Stati membri è assoluto e incondizionato; fra gli Stati membri dell’Unione europea non vige quindi la clausola di salvaguardia riconosciuta dal diritto internazionale, secondo la quale gli Stati possono non riconoscere le cittadinanze altrui quando queste non sono effettive. Diez-Picazo ritiene che alla luce dell’art. 17 del Trattato, della dichiarazione n. 2 annessa al Trattato stesso e della sentenza Micheletti, si possono trarre tre insegnamenti. Il primo è che, come già 4 affermato in precedenza, la cittadinanza dell’Unione europea si definisce attraverso quelle degli Stati membri, non però mediante una scelta collettiva ma attraverso 15 o, in futuro, 25 scelte normative individuali. La somma delle normative nazionali sulle rispettive cittadinanze definisce la cittadinanza dell’Unione europea. Il secondo insegnamento è che l’Unione europea, nel definire la propria cittadinanza, si discosta chiaramente da quanto avviene normalmente nelle esperienze federali. Si tratta di un aspetto importante, perché definire la cittadinanza vuol dire definire uno degli elementi classici dell’organizzazione politica, al pari, ad es., del territorio. Nelle principali esperienze federali è competenza della federazione la definizione della cittadinanza federale. La Costituzione degli Stati Uniti, per es., al par. VIII del capo I, attribuisce al Congresso federale la potestà di fissare le norme generali sulla naturalizzazione; il celebre XIV emendamento, inoltre, stabilisce che tutte le persone nate o naturalizzate in territorio statunitense sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato membro in cui risiedono. Diez-Picazo osserva come in tal caso la logica sia inversa a quella dell’art. 17 del Trattato della Comunità, poiché la Costituzione sottrae agli Stati membri ogni competenza in materia di cittadinanza (non a caso il XIV emendamento è stato approvato nel 1868, cioè dopo la guerra civile, con l’intento di sottrarre agli Stati schiavisti il diritto di regolare la propria cittadinanza e di conseguenza il diritto di non riconoscere come cittadini coloro che erano stati ridotti in schiavitù). Norme simili si trovano in altre Stati federali: gli artt. 16, 73 e 116 della legge fondamentale di Bonn stabiliscono chiaramente che è competenza della federazione disciplinare la cittadinanza federale. La terza conclusione che si può trarre dal quadro legislativo e giurisprudenziale comunitario è che il contenuto della cittadinanza dell’Unione europea è differente da quello del diritto internazionale come definito dalla sentenza Nottebhom, che limita il dovere di riconoscimento alla effettività della cittadinanza. La cittadinanza europea si trova dunque a metà strada tra una logica federale e una logica internazionale. Da un lato, non si è giunti ad una definizione in chiave federale della cittadinanza europea poiché non è il Trattato della Comunità che disciplina la cittadinanza; dall’altro non si segue più la logica propria del diritto internazionale, poiché ogni Stato continua a definire la propria cittadinanza per rinvio alla cittadinanza dell’Unione, rinunciando però ai meccanismi di salvaguardia tipici dei rapporti internazionali puramente intergovernativi. Diez-Picazo rileva che il rapporto tra cittadinanza europea e identità nazionale degli Statti membri non è dato solo dal modo di attribuire la cittadinanza europea. L’art. 17 del Trattato dispone che è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Questa però è la versione italiana del Trattato. In altre versioni, come quella francese, inglese, spagnola si ricorre ad una diversa terminologia. Nella versione spagnola, per es., non si dice “è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro”, ma “è cittadino dell’Unione chiunque abbia 5 la nazionalità di uno Stato membro”. Mentre in Italia si utilizza il termine “cittadinanza” (nel codice civile, per es., si trovano le norma sulla cittadinanza), altri ordinamenti europei ricorrono all’espressione “nazionalità”, che infatti compare nelle rispettive versioni del Trattato sulla Comunità europea. Le locuzioni “cittadinanza” e “nazionalità” individuano realtà normative diverse ed hanno una pluralità di significati. Diez-Picazo ritiene che, quantomeno da un punto di vista giuridico, vi sono sostanzialmente due concezioni distinte alle quali si fa riferimento quando si utilizza il termine cittadinanza ovvero nazionalità. In un primo senso si indicano tutti quei diritti e a volte doveri che sono associati alla res pubblica: il diritto di essere elettore e di essere eleggibili alle cariche pubbliche; il dovere di prestare il servizio militare, etc. In secondo luogo, la cittadinanza può essere intesa come uno “status”, che comporta il godimento di altri diritti. In tal senso, la distinzione cittadino-non cittadino ha un significato simile a quello storicamente assunto dalla contrapposizione libero-schiavo, padre-figlio, maschio-femmina, chierico-laico. Diez-Picazo ribadisce l’importanza di questo duplice volto della cittadinanza, poiché nel primo senso, che è quello classico, essa esiste solo nei paesi liberal-democratici, mentre nei regimi dittatoriali e dispotici non ci sono cittadini ma soltanto sudditi. Nel secondo senso, invece - che in spagnolo, inglese, francese si indica con il termine nazionalità - la cittadinanza esiste in qualsiasi contesto, democratico o non democratico. Diez-Picazo osserva come la cittadinanza nel senso di status, che è poi quello usato dal Trattato nelle versioni non italiane, sia in crisi un po’ dappertutto, soprattutto perché contribuisce sempre meno a definire l’ambito soggettivo di applicabilità delle leggi. La sfera dei soggetti destinatari delle leggi penali, amministrative, di polizia, è infatti solitamente definito attraverso il criterio della territorialità (in realtà le stesse leggi penali tendono oggi ad essere universali); analogamente, per le leggi tributarie vale il criterio della territorialità o della residenza. In definitiva, la cittadinanza come status serve per definire ciò che gli internazionalisti chiamano la legge “personale”, cioè i rapporti di famiglia, il matrimonio, etc.; ciò peraltro avviene solo in alcuni paesi, perché ad es. negli ordinamenti di common law la legge personale è definita non in base alla cittadinanza ma piuttosto in base al criterio della residenza. Se si considera inoltre che l’art. 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dispone che ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica (come sostanzialmente già prevedeva il codice napoleonico), la cittadinanza come status è praticamente vuota di contenuto. L’unico diritto che viene attribuito sulla base della cittadinanza come status è quello di residenza e di circolazione sul territorio degli stati: tutti gli individui hanno il diritto di risiedere e di circolare nel territorio dello Stato del quale si ha la cittadinanza. Con questa sola eccezione, la cittadinanza come status, che in altri paesi europei è denominata nazionalità, serve soltanto – e nemmeno in tutti gli ordinamenti giuridici – a definire la c.d. legge personale. 6 Diez-Picazo si chiede quale sia il rapporto tra nazionalità (o cittadinanza come status), di cui si fa menzione nell’art. 17 del Trattato, e cittadinanza dell’Unione europea. Cosa significa che l’art. 17 del Trattato attribuisca la cittadinanza dell’Unione attraverso la nazionalità? Considerando quanto sostenuto sino ad ora, è cioè che il concetto di nazionalità o di cittadinanza come status è piuttosto vuoto di contenuti nel mondo contemporaneo, l’art. 17 ha una pluralità di significati. Intanto bisogna constatare che non è l’unico modo concepibile di attribuire la cittadinanza. Sarebbe logicamente e politicamente concepibile attribuire la cittadinanza dell’Unione europea mediante un altro criterio, per esempio quello della residenza: ogni persona che risieda legalmente nel territorio dell’Unione europea ne sarà cittadino e godrà dei diritti successivamente enumerati: i diritti politici, il diritto a rivolgersi all’Ombudsman, il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni politiche, etc. Diez-Picazo ritiene inoltre che non rappresenterebbe certo una novità attribuire la cittadinanza attraverso il criterio della residenza. Nella maggior parte degli Stati membri degli Stati Uniti, per esempio, anteriormente alla prima guerra mondiale, si riconosceva l’elettorato attivo e passivo a qualsiasi persona – di sesso maschile e, fino alla guerra civile, di razza bianca - che fosse legalmente residente in quello Stato e che accettasse di servire la guardia nazionale. Questa è una concezione della cittadinanza classica, tipica dell’impero romano: si è cittadini perché si serve l’esercito. Per gli Stati Uniti, d’altronde, non è mai stato problematico definire in tal modo il concetto di cittadinanza degli Stati membri, in quanto paese di dimensioni continentali e sicuramente in espansione. Diez-Picazo ricorda che la possibilità di attribuire i diritti di cittadinanza ai semplici residenti è venuta meno solo con lo scoppio della prima guerra mondiale: non perché gli Usa, nel 1914, abbiano cessato di essere un paese di accoglienza di immigrati, ma solo per ragioni precauzionali legate alla partecipazione al conflitto bellico. Non vi è dunque, né da un punto di vista logico, né da un punto di visto assiologico, nessuna ragione per cui la cittadinanza nel senso dei diritti politici che attribuisce il Trattato o la Carta debba essere definita mediante la nazionalità, essendovi altri criteri come appunto quello della residenza nello Stato di cui si vuole essere cittadini. Diez-Picazo osserva inoltre che, poiché il Trattato e, ora, il progetto di costituzione europea, attribuiscono la cittadinanza europea attraverso le (cioè rinviando alle) nazionalità degli Stati membri, il corpo politico europeo si modella sulla base delle diverse sensibilità dei singoli Stati membri. A tal proposito è molto utile la classica comparazione tra la disciplina tedesca e quella francese. In Germania, fino alla recentissima riforma che, peraltro, non è stata poi così rivoluzionaria, limitandosi a liberalizzare parte della disciplina risalente al 1912, la nazionalità tedesca si definiva, prevalentemente, sullo ius sanguinis, al di là del quale, l’acquisto della nazionalità tedesca risulta, se non impossibile, molto difficile, al punto che numerose persone nate e 7 cresciute in Germania, che parlano solo il tedesco e non sono mai vissute in nessun altro paese, non hanno la nazionalità tedesca, né la possibilità legale di averla mai. In Francia, invece, la nazionalità si attribuisce non soltanto sulla base dello ius sanguinis, ma anche, in larga, misura sulla base dello ius soli e di una normativa per ottenere la naturalizzazione storicamente “generosa”. Quelle stesse persone che in Germania sono nate in territorio tedesco ma non ne avranno mai la nazionalità, in Francia sono francesi e possono anche assumere la carica di ministro. La concezione tedesca della cittadinanza, quindi, è differente da quella francese. Mentre in Germania hanno una concezione etno-culturale della Nazione, i francesi ne hanno piuttosto una percezione civico-repubblicana. In definitiva, definire la cittadinanza europea mediante rinvio alle diverse cittadinanze nazionali implica accettare ciascuna “percezione” nazionale e dunque rinunciare ad una percezione collettiva e omogenea. In questo senso, Diez-Picazo ritiene che, dinanzi alla disposizione recata dall’art. 17 del Trattato – che sarà quasi certamente riprodotta nella Costituzione europea - parlare di “we the people” al singolare sarà una finzione, in quanto non c’è un “we the people”, non c’è un unico modo di definire la cittadinanza, che invece costituisce il prodotto di una pluralità di “percezioni” nazionali (è quindi più opportuno utilizzare il plurale). Sicuramente quest’idea trova sostegno nella previsione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione europea, là dove prevede che l’Unione rispetta le identità nazionali degli Stati membri; uno di modi per rispettare le identità nazionali degli Stati membri è, appunto, lasciare loro il diritto ad avere la propria visione di cittadinanza, con la quale, assieme a quella degli altri paesi membri, si dà vita al corpo politico composito che è l’Unione europea. Al di là delle diverse percezioni e dei diversi modi di intendere il corpo politico, secondo DiezPicazo occorre chiedersi cosa comporta, da un punto di vista pratico, la cittadinanza europea per una democrazia su scala continentale. Il relatore ritiene che la cittadinanza europea comprenda tutti i diritti politici tipici di una democrazia contemporanea. In quest’ottica, la cittadinanza europea è uno strumento perfettamente adatto per costruire una democrazia su scala continentale. Si potrebbe eccepire l’assenza di corrispondenti doveri civici, e segnatamente del “classico” dovere di prestare il servizio militare; quest’ultimo, tuttavia, nella maggior parte dei paesi dell’Unione è stato abrogato o comunque molto ridimensionato. Incidentalmente, Diez-Picazo osserva che il dovere di difendere la patria è tipico di una certa tradizione continentale ma non di quella anglosassone. Gli inglesi e gli americani non hanno mai concepito il servizio militare come un dovere civico in senso giuridico, tant’è che, tranne in periodi di guerra, esso non è mai stato obbligatorio. Cosa diversa è invece l’obbligatorietà sociale della difesa della patria. Diez-Picazo ritiene che, da un punto di vista pratico, i diritti inerenti alla cittadinanza europea, a partire dal Trattato di Maastricht, costituiscono uno “strumento” completo. Si può infatti avere una 8 struttura politica democratica dell’Unione europea semplicemente con i diritti che sono enunciati negli artt. 17 e ss. del Trattato sulla Comunità europea. Secondo alcuni autori, questi diritti rappresentano una sorta di embrione di un demos europeo e che, a partire da questi diritti si potrebbe costruire un vero demos europeo. Diez-Picazo considera però il concetto di demos europeo molto sfuggente e confessa di non aver mai capito, forse perché giurista troppo pratico, perché esso venga elevato a condizione per l’esistenza di una democrazia su scala continentale. In primo luogo, se si vuole costruire un demos, una identità collettiva europea, questi diritti non aggiungono nulla alla condizione di coloro che vivono nel paese dove sono nati; in altri termini, da un punto di vista pratico questi diritti migliorano la condizione degli europei cosmopoliti, ma non degli europei provinciali, ossia della grande maggioranza di coloro che continuano a vivere e ad abitare nel paese in cui sono nati e cresciuti, e che quindi si sentiranno ragionevolmente delusi da questa grande promessa della cittadinanza europea. Diez-Picazo non pensa che questo problema riguardi il concetto di demos, che gli appare fumoso ed equivoco. Ci sono due modi – pur con diverse sfumature - di definire un corpo politico. Si può sostenere, alla maniera tedesca, che esiste un corpo politico nel momento in cui si condividono certe caratteristiche culturali, certe lealtà irrazionali, puramente emozionali. Oppure si può concepire un corpo politico in modo puramente razionale, alla maniera francese, per cui esso è composto da coloro che contribuiscono a gestire la cosa pubblica. D’altronde, questo era il modo di concepire il corpo politico dei romani o dei greci. Perciò, affermare che la costruzione di un corpo politico su scala continentale necessità di qualcosa di più della cittadinanza, in fondo, vuol dire aderire ad una “visione tedesca” invece che ad una visione francese. Diez-Picazo conclude con un breve accenno alla tematica degli stranieri. Dal 1992, cioè da quando il Trattato di Maastricht ha introdotto la cittadinanza europea, si sono versati fiumi d’inchiostro non solo sulla cittadinanza europea ma sulla cittadinanza in generale. Si è riesumato il vecchio testo del sociologo inglese Marshall, Citizenship and Social Class, del 1950, che in realtà è un testo mediocre, da cui a suo giudizio non si impara nulla che non si sapesse già dalla lettura di qualche buon manuale di diritto costituzionale o di teoria dello Stato. Tutta questa ossessione accademica, intellettuale e politica per il concetto di cittadinanza ha fatto sì che gli si attribuisse qualsiasi significato, soprattutto per invocare l’estensione di diritti e prestazioni sociali ad ogni membro della collettività, per il solo fatto di esserne membro. Questo insistere sul concetto di cittadinanza, che da dieci anni dilaga in Europa, comporta la diffusione di un messaggio secondo cui cittadinanza è sinonimo di solidarietà, di patriottismo, di servizi pubblici. Ma in tal modo si dimentica che la cittadinanza ha anche un lato oscuro, e che perché ci siano cittadini bisogna che ci siano stranieri. Diez-Picazo afferma di non volere essere il sostenitore di un concetto allargato di cittadinanza, ma 9 contemporaneamente concorda con Luigi Ferrajoli col ritenere che la rinascita dell’idea di cittadinanza in Europa negli ultimi 10 anni coincide – probabilmente non per caso - con il momento in cui l’Europa ha cessato di essere un continente di emigranti per trasformarsi in un continente di immigrati. In altri termini, nel momento in cui gli europei hanno smesso di girare il mondo colonizzando altre terre si riscopre il concetto di cittadinanza, dimenticando che sono stati quegli stessi europei coloro che hanno fatto ricorso allo ius communicationis per giustificare la libertà di movimento di ogni essere umano in tutte le parti del mondo. Non si tratta dunque di difendere posizione puramente demagogiche, ma un conto è non difendere politiche demagogiche, altra cosa, molto diversa, è non essere consapevoli che tutto questo entusiasmo per l’idea di cittadinanza è in qualche misura dovuto ad un diffuso atteggiamento xenofobo. Interviene, interrogando il relatore e interrogandosi, Sergio STAMMATI, il quale premette di non avere sotto gli occhi il testo del trattato di Maastricht e di Amsterdam, bensì il testo del Progetto di Costituzione europea, che si riferisce alla cittadinanza all' art. 8 della I parte e, agli artt. 39 - 46 della II. Ciò che in tali disposizioni può notarsi è che, in una certa, non ristretta, misura, non viene rispettato il collegamento istituito dall’art. 8, primo comma, nelle parole introduttive, del progetto, il collegamento, cioè, tra la cittadinanza dell’Unione e la cittadinanza degli Stati membri, perché, accanto ad ipotesi nelle quali questo collegamento è rispettato, altre se ne trovano nelle quali esso non è rispettato. Ad esempio, nell’art. 41, II parte, del progetto concernente il diritto ad una buona amministrazione, incluso nel titolo V, relativo appunto alla cittadinanza, nel quale si dice che "ogni individuo" ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate…etc. etc. A Stammati pare evidente che qui si vada e si voglia andare ben al di là del collegamento di principio, all'apparenza automatico, fra cittadinanza dell'Unione e cittadinanza di uno qualsiasi degli Stati membri, e che ci sia, invece, un’apertura incondizionata, nei confronti di ogni "persona" relativamente ai diritti indicati, che prescinde da ogni suo particolare status di cittadinanza (nell'Unione o al di fuori dell'Unione) o di apolidia. Questa è certo l’infrazione più evidente, ma non è l'unica. Per Stammati una riflessione la merita senz'altro anche l’art. 42, relativo al diritto di accesso ai documenti, in cui si dice che "qualsiasi cittadino dell’Unione" (e qui siamo dentro allo schema-base), ma poi si soggiunge che "qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro", ha il diritto di accedere ai documenti delle istituzioni, etc. Anche qui è innegabile che sia oltrepassato lo schema generale, anche se si resta al di qua dello schema precedente (quello dell’art. 41), che, per il fatto di poggiare interamente su un sostrato personale, esibisce tutta la sua universalità. Ciò che conta, comunque, è che anche qui il riferimento a persone fisiche o giuridiche 10 che risiedano o abbiano la sede sociale in uno Stato membro porti oltre il limite espresso dal collegamento basilare dell'art.8, I parte, del progetto. In fattispecie come quelle indicate potrebbe vedersi il nascere di quella che alcuni denominerebbero "cittadinanza amministrativa" (ne ha parlato recentemente Arena), distinta dalla cittadinanza politica, la quale, piuttosto che contenuta in quest'ultima, sarebbe il contenitore di quella, infrangendo i nostri schemi, i nostri comuni modi di pensare. Il progetto costituzionale, ci si chiede allora, è semplicemente incoerente (include nella cittadinanza ciò che nulla ha a che fare con la cittadinanza), o introduce un concetto di cittadinanza che travalica quello dell'art.8, I parte? Interrogativi questi che aprono indirettamente la strada a una riflessione più ampia sul tema, che appare, del resto, direttamente suscitata dal divieto (art.21,II) di "qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza". Ma di ciò si parlerà in un altro dei seminari programmati. In relazione, poi, a quanto esposto dal Prof. Diez-Picazo sul diverso modo di intendere il concetto di cittadinanza, come nazionalità (concezione chiusa) o come semplice insieme unitario di diritti e doveri (concezione aperta), a Stammati sembra che, nel fare riferimento al concetto di cittadinanza-nazionalità, le versioni linguistiche del progetto diverse da quella italiana, come quelle citate dal relatore (spagnola, inglese etc.), siano chiaramente più restrittive di quella italiana del medesimo progetto. In quest'ultima, infatti, il concetto di cittadinanza non viene fondato sul presupposto di un preesistente ed autonomo concetto di nazionalità, ma mostra d' essere un concetto distinto e del tutto indipendente da quello del quale appare, anzi, più precisamente, il contenitore. Per Stammati sembra, per ciò, inevitabile porsi a tale proposito non soltanto problemi di coordinamento orizzontale fra le versioni linguistiche nazionali del progetto, ma, in special modo, problemi di coordinamento verticale di tutte le versioni con lo spirito complessivo del testo costituzionale progettato. Innegabilmente diverse, e non di poco, sembrano infatti le conseguenze dell'accettazione dell'una o dell'altra concezione della cittadinanza e, dunque, diventa quanto mai importante accertare se il diritto costituzionale europeo possa considerare indifferente l'adesione dei diritti nazionali all'una o all'altra delle due accezioni considerate della cittadinanza, o se, al contrario, come egli non può che pensare, il diritto europeo non possa ammettere su un tema basilare come quello considerato cruciale nel presente, e destinato vieppiù a diventarlo nel futuro, divaricazioni tanto ampie (e recezioni tanto ristrette...) come quelle che lo stesso relatore ha voluto opportunamente segnalare. Luis Maria DIEZ-PICAZO, con riferimento alla buona amministrazione e al diritto di accesso ai documenti, si richiama a quanto detto nella relazione. Questi diritti sono stati aggiunti in un momento successivo con il Trattato di Maastricht, ma già esistevano nel diritto comunitario derivato. Il relatore è d’accordo con Sergio Stammati sul fatto che metterli nel capitolo relativo alla 11 cittadinanza abbia molto poco senso. Il diritto ad una buona amministrazione, ad esempio, è un diritto di tutti, anche dei non residenti. Una persona che abita nel Marocco, negli Stati Uniti o in Argentina e a cui in un momento dato viene applicato il diritto comunitario, ebbene, anche questa persona avrà il diritto ad una buona amministrazione. Ed infatti, se siamo pronti ad accettare che il dovere di motivazione dei provvedimenti amministrativi che incidono sui diritti e i doveri delle persone è un dovere costituzionale, quando si tratta di provvedimenti amministrativi che hanno come destinatari cittadini o residenti, come potremmo concepire che, quando non si tratta di cittadini o residenti, si provveda come nell’anciènt regime? Carteler mon bon plaisir? Questo sarebbe un po’ eccessivo, dal momento che, presumibilmente, la buona amministrazione è per tutti. In materia di accesso ai documenti, invece, il Prof. Diez-Picazo ritiene ci sia una ratio per escludere i non residenti. Comunque, l’opinione del relatore è che questi diritti probabilmente si troverebbero meglio sistematicamente fuori dal capitolo sulla cittadinanza; in questo egli si trova d’accordo con Stammati, anche se, a suo modo di vedere, non è gravissimo da un punto di vista di tecnica normativa, perché anche nelle Costituzioni nazionali siamo molto abituati a reinterpretare i termini relativi ai soggetti titolari di certi diritti. Nell’esperienza di tutte le Costituzioni nazionali certi diritti, che la Costituzione attribuisce letteralmente ai soli cittadini, con la prassi legislativa e la giurisprudenza vengono estesi, ex Constitutione, in quanto diritti costituzionali, anche a stranieri e a persone giuridiche (perché le persone giuridiche non sono cittadini). Dunque, per concludere sul punto, il Prof. Diez-Picazo ritiene che questi diritti starebbero meglio sistematicamente fuori, ma se sono dentro quel capitolo non è gravissimo, considerata la tradizione di “incoerenza” dei testi costituzionali. Invece, la seconda domanda formulata da Stammati pone dei problemi difficili. In italiano le cose sono relativamente più semplici: qualsiasi persona che abbia la cittadinanza italiana automaticamente ha la cittadinanza europea. In spagnolo, in francese, in inglese, è cittadino europeo colui che ha la nazionalità, ad esempio, spagnola. Nazionalità è, in spagnolo, come in inglese e francese, quella del codice civile, cioè cittadinanza-status, quella che serve, ad esempio, per definire la legge personale, ma non è l’equivalente di cittadinanza in quanto complesso di diritti e doveri politici. Il relatore formula, a questo punto, un esempio. Immaginiamo che domani il legislatore spagnolo, nell’uso delle proprie competenze costituzionali, decida di dare il diritto di suffragio attivo e passivo nelle elezioni politiche nazionali a qualsiasi straniero, comunitario o extracomunitario, che risieda in territorio spagnolo (pura ipotesi), ad esempio agli americani o ai marocchini che risiedano legalmente in Spagna (in realtà si tratterebbe soprattutto di latinoamericani, dato che in Spagna c’è una comunità molto numerosa di latino-americani). Questi soggetti avrebbero i diritti politici, la cittadinanza in senso stretto, ma non avrebbero la nazionalità. 12 Dunque, sorge la seguente questione: se l’unica versione ufficiale del trattato fosse quella italiana, quelle persone sarebbero automaticamente cittadini europei, ma, con la versione spagnola, francese, inglese del trattato o della Costituzione, quelle persone non sarebbero cittadini europei. Qui sia le parole, sia le idee che sono dietro queste parole hanno una certa importanza. Questo equivoco tradizionale dell’idea di cittadinanza, che significa due cose diverse, le quali in un certo punto, ma soltanto in un certo punto, si toccano; il fatto che i diritti politici tradizionalmente sono stati attribuiti attraverso la nazionalità (ma con eccezioni, ad esempio quella degli americani nell’ottocento); questa ambiguità, questo equivoco, nelle parole e nelle idee, cittadinanza e nazionalità, hanno una certa importanza. (L’esempio, però, probabilmente non sarebbe la Spagna, che è un Paese un po’ bigotto e probabilmente non agirebbe per prima. Possiamo immaginare, invece, i Paesi Bassi, uno Stato membro che potrebbe decidere di aprire la via da quelle parti. Anche se non conosciamo la versione olandese del trattato, dobbiamo riconoscere che il problema è sempre lì). Dietro queste cose ci sono potenzialmente delle questioni pratiche. Sergio STAMMATI chiarisce che il suo interrogativo era se, considerandone lo spirito complessivo, il diritto europeo debba considerarsi favorevole all’una o all’altra delle due accezioni del concetto di cittadinanza. DIEZ-PICAZO premette, che, almeno nelle lingue europee con cui egli ha una certa familiarità, la versione italiana è minoritaria. Premesso questo, il relatore ipotizza che la Corte di Lussemburgo, in una situazione ipotetica del genere di quella da lui descritta, potrebbe anche ragionare in questi termini: malgrado le versioni letterali io preferisco, perché mi sembra più aperta, la nozione di cittadinanza di cui alla versione italiana del trattato, per cui qualsiasi persona che abbia i diritti politici riconosciuti dall’ordinamento di uno Stato membro dobbiamo considerarlo cittadino dell’Unione europea, anche se non è “nazionale” dello Stato in questione. Il problema pratico si pone anche perché in alcuni ordinamenti nazionali la disciplina della nazionalità-cittadinanza non è omogenea. Per esempio, i britannici hanno diversi livelli di nazionalità, di serie A, di serie B, di serie C, ognuna con diritti più o meno estesi. Dunque per esempio quelli di Gibilterra, oppure quelli dei Paesi del Commonwealth, che hanno il diritto di risiedere in Gran Bretagna, ma non automaticamente il diritto di essere elettori ed eleggibili. Dietro questo vi è potenzialmente tutto un campo di problemi pratici e con implicazioni politiche ed ideologiche. Roberto NANIA premette che svolgerà alcune considerazioni in ordine sparso sull’onda delle sollecitazioni che provengono dalla relazione introduttiva, così articolata e stimolante. La sua 13 impressione è che quanto è stato detto confermi che la questione della cittadinanza europea sia irriducibile ad una mera aggiunta verbale rispetto alla cittadinanza nazionale come si è voluto talvolta criticamente suggerire. Assai esplicito in questo senso risulta, ad esempio, il volume di Cartabia-Weiler dove si dice, appunto, che tutto sommato il riconoscimento anche della cittadinanza europea ai cittadini dei paesi dell'Unione non aggiunge niente a quanto già racchiuso nella cittadinanza nazionale, in particolare sotto il profilo della dotazione dei diritti che quest'ultima posizione comporta. In questo modo si finisce forse per sottovalutare la valenza del diritto alla circolazione su tutto il territorio europeo che rappresenta il nucleo specifico della cittadinanza europea e sul quale si è giustamente richiamata l'attenzione in sede di introduzione. Certo, appare più ornamentale, almeno nella prospettiva mediterranea, il diritto di rivolgersi all’Ombudsman europeo, ed altrettanto potrebbe dirsi per il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo; mentre del tutto scontata, come ha notato Diez-Picazo appare l'azionabilità delle posizioni soggettive vantate nei confronti della Pubblica Amministrazione. Nondimeno, per tornare al punto, tutt'altro che retorico è il diritto alla libera circolazione, perché questo diritto amplifica in termini che non hanno precedenti nella storia europea l’insieme dei diritti che sono detenuti dai cittadini nazionali, a cominciare da quelli di natura economica, sicché ne risulta ampiamente trascesa la mera dimensione "turistica". Muovendo da qui egli sente anche di non condividere l'ipotesi pessimistica – benché fondata su considerazioni non trascurabili - sul senso di estraneità che tuttora prevarrebbe tra i cittadini dei paesi europei nei confronti della nuova posizione di cittadinanza. Non andrebbero dimenticate le grandi aspettative di crescita del benessere collettivo e della qualità della vita individuale suscitate dal processo di integrazione europea, per cui il problema più serio sembra piuttosto quello di riuscire ad appagare tali aspettative, in modo che, come purtroppo è sembrato accadere da noi con l'unificazione monetaria, non si determinino reazioni collettive di disillusione e di disaffezione le cui conseguenze non sono facilmente prevedibili: un paradosso, questo dell'Europa che si converte in fattore di impoverimento e di revoca di posizioni acquisite, che neppure il varo della costituzione europea potrebbe adeguatamente fronteggiare. Un’ulteriore considerazione di Nania concerne l'ipotesi, molto diffusa tra gli studiosi, che la cittadinanza europea riproponga un paradigma, quello della cittadinanza appunto, ormai obsoleto perché troppo legato alla nozione di Stato unitamente alla quale ha preso vita e destinato pertanto ad accompagnarne la parabola (si vogliono qui richiamare, in termini molto sintetici ma si spera fedeli, le posizioni di Francesco Cerrone). Peraltro, tanto più incongrua apparirebbe l'adozione di tale schema concettuale se si pensa alla difficoltà di inquadrare la stessa Unione in una dimensione squisitamente statale. Ora, occorrerebbe chiedersi, ad avviso di Roberto Nania, se nella rimodulazione della nozione di cittadinanza nel contesto dell’Unione europea, non prevalga piuttosto il legame con il territorio, per 14 cui se lo Stato è obsoleto o comunque relativizzato dai processi di globalizzazione, resta comunque integro il rapporto tra cittadini e territorio, assunto questo in tutte le valenze culturali che in esso si esprimono. Non a caso, a parere di Nania, proprio il dato della continuità territoriale del continente sembra essere il nucleo più qualificante della cittadinanza europea e proprio su questo pare fondarsi in definitiva il senso di identità che vi si dovrebbe coniugare. Sotto questo aspetto, Nania ammette di trovare problematica l’estensione ad esempio della libertà di circolazione, prima fra tutte, ai non europei (estensione che sembra essere in qualche modo anticipata dalle formulazioni del Trattato di Nizza). D'altro canto, egli ritiene che, secondo una comune acquisizione, esistano i diritti che hanno senz'altro una vocazione universalistica (e qui lui collocherebbe, anche sull’onda della dottrina internazionalistica, non solo la dignità umana e tutte le libertà che, come ricordava il relatore, nonostante vengano attribuite dalla Costituzione italiana ai cittadini, per giurisprudenza pacifica della Corte Costituzionale sono riconosciute di pertinenza della persona umana in quanto tale, ma anche, sulla scorta della giurisprudenza internazionale, la proprietà privata e la libertà d'impresa; ciò anche tenendo conto del fatto che sempre di più gli stranieri assumono iniziative di carattere imprenditoriale e dimostrano capacità di acquisizione di beni). Altro è tuttavia il diritto alla circolazione, in cui si è ravvisato il nucleo essenziale della cittadinanza europea. Ove si generalizzasse il diritto alla circolazione, l’impressione di Nania è che ne risulterebbe fortemente compromessa anche l’ultima istanza di mantenimento della nozione di cittadinanza. Ciò senza dire che la costruzione della cittadinanza nelle costituzioni nazionali europee (e qui l’interventore richiama quanto è stato detto sul rapporto di rinvio che in materia sussiste tra la cittadinanza europea e le cittadinanze nazionali) è sempre il frutto di un delicato equilibrio di diritti e di doveri. Certo, taluni doveri hanno conosciuto, come ha sottolineato il relatore con riferimento al servizio militare, un indubbio processo di relativizzazione, ma ciò non toglie che alla base stessa delle costituzioni vi sia una complessiva richiesta di integrazione nella comunità e nei suoi valori. Nessuno può negare che sotto questo aspetto costituisca un problema cruciale, anche di ordine costituzionale, la creazione di cerchie collettive di credenze e di comportamenti, che mettono in forse la tenuta del binomio diritti/doveri che è proprio del costituzionalismo europeo. Peraltro, il parallelismo con la vicenda statunitense non appare del tutto tranquillizzante, dal momento che nel caso europeo la cittadinanza è leggibile non tanto come dato in via di realizzazione ma come fattore di identificazione e di perimetrazione culturale. Ciò non significa beninteso che si debba assecondare, come teme il relatore, una valenza addirittura xenofoba del concetto o comunque antagonistica e di rigetto. Significa invece affermare la ineludibilità di un bilanciamento, che è tutto da inventare, tra il mantenimento dell’identità europea e l’esigenza di integrazione e di accoglienza nei confronti di chi guarda all’Europa come ad un nuovo punto di riferimento. 15 DIEZ-PICAZO precisa che non intendeva trasmettere un messaggio di scetticismo. Il relatore desidera chiarire di non essere per niente scettico, in assoluto, sul valore della previsione di una cittadinanza europea. Quello che ha inteso dire con la sua relazione è che, al contrario di tutti coloro, e sono molti, che pensano che per avere un demos ci vuole qualcosa di più di una cittadinanza, la sua convinzione è che basti la cittadinanza. Coloro che vogliono un demos dicono che la cittadinanza europea può essere l’embrione di un demos. Diez-Picazo dissente da questa opinione; la cittadinanza non può essere un embrione perché non aggiunge niente a tutti quei milioni di europei che vivono nello stesso Paese in cui sono nati. Questo è quello che egli intendeva dire. Quanto al resto, l’opinione del relatore è che la cittadinanza europea aggiunga molto, intanto il fatto che è garantito a livello massimo normativo il diritto di suffragio attivo e passivo per l’unico Parlamento che abbiamo a scala continentale, il che non è poco; e poi senza dubbio, come sostenuto da Nania, il diritto di residenza e di circolazione, che non è poco nemmeno, perché ormai qualsiasi persona può risiedere dove vuole entro il territorio dell’Unione senza bisogno di chiedere nessun permesso (cioè ha bisogno di iscriversi nel Comune di residenza, ma quello lo hanno tutti gli europei nel proprio Paese, quello è un dovere amministrativo che pesa su tutte le persone). Il relatore aggiunge, poi, che la Corte di Giustizia ha già riconosciuto che il diritto di residenza ha effetto diretto. Fino a questo punto Diez-Picazo si trova d’accordo con Nania. Egli desidera, invece, fare alcune osservazioni sulle altre cose dette da Roberto Nania. Il relatore è d’accordo sul fatto che ci può essere una cittadinanza senza Stato; ad esempio, i Romani avevano una cittadinanza, S. Paolo era molto orgoglioso di essere cittadino romano, e lì lo Stato nel senso in cui noi lo intendiamo non c’era, dunque la cittadinanza in quel senso significa essere membro di un corpo politico (che il corpo politico in certi periodi storici si sia organizzato attraverso la forma Stato è un’altra storia). Lo Stato non è sempre esistito e probabilmente non esisterà sempre. Sul fatto che lo Stato è obsoleto, poi, il relatore si sente d’accordo, ma con alcune precisazioni. Intanto, una cosa che in genere si dimentica quando si parla di costituzione europea, costituzionalismo europeo, costituzionalizzazione dell’Europa, ecc, è che alla fine c’è il problema della coazione. Il diritto è coazione nel senso proprio di uso della forza fisica. Ecco, l’Unione europea, in quanto organismo politico, ha rinunciato all’uso della forza. Sono gli Stati il braccio armato dell’Unione europea, cioè se eventualmente (e a volte succede, e c’è giurisprudenza di Lussemburgo sul problema) bisogna andare da una ditta e fare un registro contro la volontà del soggetto bisognerà inviare un poliziotto, e quel poliziotto qual è? Sarà la Guardia di Finanza, il Carabiniere, e questo è nei Trattati. Il braccio armato dell’Unione sono gli Stati, il che pone altri problemi giuridici. Con questo Diez-Picazo intende dire che, se nella tradizione di Max Weber, Kelsen, ecc, continuiamo a 16 pensare che il diritto ha qualche cosa a che vedere con l’uso della forza, l’uso della forza è sempre negli Stati. Dunque, lo Stato è obsoleto, ma non troppo, fino a un certo punto, perché prima o poi ognuno può trovarsi con il poliziotto, anche con il poliziotto che dà esecuzione a norme di diritto europeo, che è pur sempre un poliziotto “nazionale”. Quanto al problema dei doveri, a parere del relatore si tratta di una questione molto difficile. In proposito egli confessa di sentirsi alcuni giorni più liberale, altri più repubblicano. Probabilmente le sue simpatie più profonde sono repubblicane, nel senso che non c’è libertà senza impegno, o meglio la libertà non è gratuita. Detto questo, ci sono anche alcune concezioni per le quali la libertà non bisogna pagarla, perché è un diritto. Questa è soprattutto la tradizione giuridica anglosassone, ma non quella politica, perché gli anglosassoni hanno sempre avuto l’idea per cui i doveri si impongono per vie non giuridiche (ad esempio, è la pressione sociale quella che obbliga i ragazzi ad andare ad arruolarsi nell’esercito quando la Patria è in pericolo, senza che ci sia nessuna legge sull’arruolamento obbligatorio). Dunque, a parere del relatore è difficile, in linea generale, prendere posizione sui doveri. Con particolare riferimento al processo di integrazione europea, poi, DiezPicazo sottolinea che, anche da un punto di vista economico e fin dalle origini, esso ha avuto, piuttosto, un senso liberatorio. L’Unione europea ci ha liberato progressivamente di tante piccole costrizioni statali che avevamo, anche se poi tendiamo a dimenticare. Vivevamo sotto una maglia di regolamentazioni nazionali assurde, in tantissime cose. In questo senso l’Unione europea è stata liberatrice e in questo senso può darsi che questo processo si identifichi meglio con una concezione filosofica liberale, piuttosto che con una concezione repubblicana-mazziniana. Su questo punto il relatore confessa di avere mixed feelings. Quanto, infine, al tema importante dell’identità culturale, Diez-Picazo ritiene, anche per averlo scritto in qualche occasione, che non sono mai state le nazioni e le identità collettive a creare gli Stati e gli organismi politici, ma è piuttosto vero il contrario. Ad esempio, non è stata l’identità nazionale italiana a creare lo Stato italiano. Ci sono stati alcune persone che hanno deciso di unificare l’Italia e poi hanno creato la scuola. Se si prende ad esempio il libro “Cuore”, si comprende come la costruzione dell’identità italiana è avvenuta sulla base del maestro, dell’invio dei prefetti, del servizio militare obbligatorio e, in ultima istanza, sulla base della RAI, che ha unificato la lingua italiana. Stessa cosa vale per i tedeschi: la prima cosa che ha fatto Bismarck dopo l’unificazione tedesca è il Kulturkampf, ivi incluso l’Hochdeutsch, ovvero l’unificazione normativa della lingua tedesca. Dunque, non è che ci fosse già la Nazione tedesca, così come la conosciamo oggi, e poi quella nazione tedesca ha creato lo Stato. Questo vale anche per Paesi molto meno sospettabili. Il relatore racconta a questo punto una storia che ha sentito una volta da Yves Mény, oggi Presidente dell’Istituto Universitario Europeo. Nella guerra franco-prussiana lo Stato Maggiore 17 Imperiale ha discusso a lungo se inviare a lottare i soldati di leva bretoni, in primo luogo perché la Bretagna è una terra molto cattolica, quindi era di dubbia lealtà alla causa bonapartista, ma soprattutto perché gli ufficiali dello Stato Maggiore sapevano che i soldati di leva bretoni non parlavano il francese. Dal momento che andare a lottare con i soldati che non capiscono gli ufficiali è quantomeno un rischio, lo Stato maggiore ha deciso di non inviare i soldati di leva bretoni. Nel 1914, cioè 34 anni dopo, i bretoni sono andati tutti a lottare nelle trincee. Cosa c’era stato nel frattempo? La scuola repubblicana. Dunque, anche in Francia, che è il paradigma della Nazione, nel senso che è uno Stato che storicamente si identifica con la Nazione, in quello stesso periodo in cui Bismarck andava imponendo il Kulturkampf, c’è stata la scuola repubblicana. Con questo DiezPicazo intende dire che la sua opinione è che sono piuttosto gli Stati, cioè il potere politico, a creare le identità, e non le identità a creare il potere politico. Interviene Gaetano AZZARITI, il quale ritiene che la relazione di Diez-Picazo abbia con chiarezza e in via pragmatica accreditato una precisa tesi teorica e di ricostruzione storica del concetto di cittadinanza. Una tesi che si potrebbe riassumere in questo modo: la cittadinanza europea risulta essere un concetto vuoto. Vuoto soprattutto se espressamente confrontato con la pienezza del concetto di cittadinanza che la storia del costituzionalismo (o la storia tout court) ci ha consegnato. Come è noto, infatti, proprio tramite la lotta per la cittadinanza si sono storicamente realizzati i diritti costituzionali. Il passaggio da suddito a cittadino (lo ricordava Diez-Picazo) esprime un tornante storico decisivo, su cui si è determinato gran parte del diritto costituzionale moderno. Può dirsi che la cittadinanza rappresenti una delle categorie fondanti il costituzionalismo moderno. Nel passaggio dalla cittadinanza (tradizionalmente intesa) alla cittadinanza europea, tanto la profondità storica quanto l’importanza teorica vengono meno. Ciò spiega perché la esaustiva relazione di Diez-Picazo non abbia trattato delle questioni tradizionali della cittadinanza. Non si è, infatti, fatto alcun cenno, parlando della cittadinanza europea, ai classici argomenti della “cittadinanza come partecipazione” o della “cittadinanza come appartenenza”. Il che si giustifica poiché in Europa la “cittadinanza come partecipazione” appare poca cosa, mentre non c'è nessuna possibilità di declinare la cittadinanza europea “come appartenenza”, che è - nella riflessione tradizionale sulla cittadinanza - l’accezione più densa di significato. Azzariti ritiene che questa povertà concettuale sia stata ben sintetizzata da Diez-Picazo quando ha affermato che “la cittadinanza europea si riduce a status”. Infatti, chi volesse esprimere la plusvalenza di significato costituzionale della nozione di cittadinanza (la “pienezza”, di cui s’è detto), dovrebbe proprio distinguere la cittadinanza dal mero status. Se, come ha dimostrato Diez18 Picazo, la cittadinanza europea è lo status, questo vuol dire che la cittadinanza in ambito europeo è priva di ogni plusvalenza di significato: è dunque “vuota”. Alla luce delle considerazioni appena svolte, Azzariti pone al relatore due domande. La prima di carattere generale, con riferimento al dibattito sul c.d. processo costituente europeo, sulla Carta dei diritti europea e sul Trattato costituzionale europeo (che entro breve tempo la CIG si propone di approvare). E’ nota la tesi secondo cui prima la “Carta dei diritti fondamentali” (approvata a Nizza), ora la “Costituzione europea” (recte: il “Trattato che istituisce una costituzione per l’Europa”), dovrebbero servire a dare una identità politica all'Europa. Ma quale identità è possibile se le categorie costitutive, che dovrebbero caratterizzare l’hanimus di un processo di costruzione di una specificità europea, appaiono “vuote”? Non sarà certo solo la cittadinanza a dare un volto all’Europa, e la costruzione delle identità dei popoli è certo questione assai complessa, ma non può negarsi che la “vuotezza” della cittadinanza europea rappresenti almeno un ostacolo alla costruzione di un'identità: sotto questo profilo la c.d. “Costituzione europea” non ha forza identitaria. Per la costruzione, se non di un’identità, almeno di una comunanza di popolo, rispetto agli attuali testi “di rango costituzionale”, appaiono più utili altri strumenti “sociali”: la radiotelevisione, la scuola, l’istruzione e la cultura. S’intende che la questione che si solleva, per la sua complessità, va molto al di là dell'accenno che si sta qui facendo, ma almeno può servire ad evitare facili illusioni: la cittadinanza europea, intesa come status, non solo non dà identità, ma non può contribuire neppure a determinare un modello europeo di sviluppo; tanto più se lo si vuole contrapposto o comunque alternativo ad altri modelli di sviluppo, in particolare quello statunitense. Qual è – chiede Azzariti – l’opinione del relatore sul ruolo della cittadinanza europea nel processo di costruzione di un’identità europea e in generale sulle questioni da ultimo sollevate? La seconda domanda che Azzariti pone riguarda la capacità della cittadinanza europea di affrontare, in via di fatto, le questioni che il costituzionalismo contemporaneo, l'ordinamento comunitario, le società contemporanee ci pongono. Se insomma la cittadinanza europea sia – anche solo da un punto di vista pragmatico - adeguata ai tempi. L'impressione di Azzariti, anche in riferimento alle osservazioni svolte da Diez-Picazo, è che la questione “di fatto” (sociale e politica) presupposta dal tema della cittadinanza sia quella dalle immigrazioni. Diceva Diez-Picazo di stare attenti alla xenofobia, avvertendo il pericolo che la cittadinanza alla fine fosse uno schermo per dare sfogo agli spiriti più xenofobi. E allora – ritiene Azzariti - questo è il tema che dovremmo direttamente affrontare, al di là delle povere disposizioni normative contenute oggi nei Trattati e nella “Carta dei diritti”, domani nel “Trattato costituzionale”. Anche perché il tema della “cittadinanza cosmopolitica” e dei diritti degli immigrati è – questo sì – una questione di assoluto rilievo costituzionale, riguardando il nuovo conformarsi dei popoli, e delle democrazie che questi formano, 19 essendo ormai segnati ed attraversati – popoli e democrazie – da imponenti flussi migratori. Problemi di mobilità delle persone in diversi Paesi che non sono certo quelli riconducibili ad un nuovo international style of life, bensì a quelli ben più drammatici e complessi delle migrazioni di masse alla ricerca di condizioni di vita accettabili. Ritiene Azzariti che l’Europa, per le cose fin qui dette e per le considerazioni più ampie sulle modalità della costruzione dell'Unione europea, non sia in grado di affrontare queste problematiche. Le soluzioni classiche, quella velleitaria del controllo totale delle frontiere e quella dell’esclusione/controllo degli stranieri, che sembrano tutt’ora dominare la cultura istituzionale europea, si mostrano inidonee. La problematica della circolazione delle persone è diventata oggi di incredibile complessità e Azzariti condivide pienamente l’opinione espressa in questa sede da altri che sono già intervenuti: la soluzione non può essere l’apertura indiscriminata delle frontiere, perché questo non sarebbe un modo di risolvere il problema sociale e politico non riducibile alla libertà di movimento. Tuttavia, è chiaro che il diritto di cittadinanza inteso solo come esclusione non sembra essere una risposta possibile. Soluzione impossibile non solo (o non tanto) perché politicamente e moralmente non condivisibile (in fondo politicamente e moralmente ciascuno può intenderla in modo diverso), ma perché di fatto illusoria, se misurata all’estensione dei flussi di persone e alle trasformazioni relative all'emigrazione dei popoli, non arrestabili solo con leggi che facciano argine a difesa della “fortezza Europa”. A questo punto Azzariti si chiede se per tentare di risolvere o quantomeno orientarsi nel ginepraio sollevato dalla questione delle migrazioni dei popoli non si possano recuperare le declinazioni tradizionali della cittadinanza stessa, quelle cui si accennava all'inizio di questo intervento, ovvero la cittadinanza come “appartenenza” e come “partecipazione”. Non solo – come si accennava in precedenza - per favorire la costruzione di una effettiva identità europea, ma anche per affrontare con maggiore consapevolezza il problema delle migrazioni che la storia ci pone dinanzi. Anche in questo caso, data la complessità della questione, non è possibile esporre con chiarezza i diversi aspetti della prospettiva evocata, ma in via esemplificativa può riprendersi quanto diceva DiezPicazo, quando ricordava il principio di effettività, che vale come eccezione nell'ordinamento internazionale. E se, ipotizza Azzariti, questo principio diventasse la regola? Ci si chiede cioè se una declinazione adeguata alle trasformazioni delle Nazioni e degli Stati della nozione di “cittadinanza come appartenenza” non potrebbe essere formulata utilizzando il principio di effettività, che, se rapportato alla cittadinanza esalta il principio di residenza, ma non come eccezione (come è nell’ordinamento internazionale), quanto piuttosto come regola (come potrebbe stabilirsi nell’ordinamento europeo). Si tratta, in fondo, di un principio molto antico (ad esempio, la Francia pose il problema dello ius soli durante la rivoluzione francese, all'origine dello Stato moderno). Oggi, se si ritiene esaurita l’età delle Nazioni o degli Stati assoluti, appare giunto il 20 tempo di puntare sulla residenza. Una residenza che leghi le persone, non solo al suolo, ma anche alle culture, alle esperienze, che insomma diventi “appartenenza” ad una comunità che non può mai darsi per statica. In questa prospettiva i “cittadini” sarebbero quelli che operano stabilmente in un territorio. Rimane – enorme – il problema dei criteri di che di volta in volta possono adottarsi per determinare in concreto la cittadinanza, ma almeno avremo cambiato il criterio guida: non più l’esclusione ma la residenza-appartenenza. Entro questa prospettiva appaiono, invece, riduttive le indicazioni fornite da Roberto Nania: limitare la cittadinanza a circolazione, favorire alcuni valori costituzionali prevalenti in questa fase storica come l’impresa e la proprietà. Questo quadro sembra ad Azzariti espressione di una visione sacrificata della complessità delle soggettività, delle culture, dei popoli, della ricchezza del diritto costituzionale e dei “valori” che esso ha espresso e che continua ad esprimere. La prospettiva richiamata sembra ad Azzariti un contributo alla pregiudizievole idea secondo cui nel mondo domina un pensiero unico, il neoliberismo imperante, cui tutti - le ragioni del costituzionalismo tra questi - devono piegarsi. Una visione francamente ben poco rassicurante dei rapporti costituzionali. Così, ritiene Azzariti, non è né deve essere, pertanto una discussione sulle virtualità del concetto di cittadinanza non limitata al diritto di circolazione (e al suo asservimento ai valori dell’impresa e della proprietà) appare quanto mai utile. Azzariti conclude con un'ultima battuta ironica sugli Stati: gli Stati s’e detto in questa aula ripetutamente, sono “obsoleti”. Può aggiungersi che anche i popoli sono “obsoleti”, visto che la Costituzione europea non la stanno facendo i popoli europei: la Conferenza Intergovernativa (ma ci si potrebbe riferire anche alla Convenzione, che ha elaborato il progetto in discussione di “Trattato costituzionale”), infatti, è composta in modo eterogeneo e in base ad alcuni principi classici del costituzionalismo – quello della rappresentanza politica ad esempio – può discutersi la natura esclusivamente statuale, ma certamente nessuno può dire che vi siano rappresentati i popoli. Inoltre, anche la sovranità sembra essere diventata “obsoleta”, sempre più conquistata da “nuove forme” e condizionata da “nuovi sovrani”. Ma andando avanti di questo passo a qualcuno potrebbe sorgere il sospetto che, in fondo, i veri “obsoleti” siamo noi! Dobbiamo avere infatti presente che le cose cambiano, ma spetta a noi capire i cambiamenti: non tanto rileva dire che lo Stato (ma anche il popolo o la sovranità) è superato, quanto capire in che modo e cosa c’è dopo lo Stato (nazione). Insomma, dobbiamo fare uno sforzo di rimeditazione profonda anche sui concetti tradizionali. Prima di ritenere superata la cittadinanza come appartenenza e come partecipazione (ovvero la pienezza della cittadinanza), sarebbe opportuno provare, invece, a declinarla per adeguarla alle rapide ed indiscutibili trasformazioni epocali cui stiamo assistendo. 21 DIEZ-PICAZO risponde alle due domande poste da Gaetano Azzariti. La prima è quella sull’identità. Bisogna chiedersi: si può avere un’unione politica senza un’identità? Il relatore pone una premessa: egli è spagnolo, e dunque la vita gli ha insegnato a vivere politicamente senza identità. In Spagna si tenta (o, almeno, la maggioranza delle persone tenta) di fare le cose senza esagerare troppo sul versante dell’identità, perché quello è un versante di cui potrebbe dirsi: meglio non aprire il vaso di Pandora. Fatta questa premessa, Diez-Picazo esprime la sua perplessità sulla nozione di identità, dal momento che l’identità si definisce in maniere diverse in contesti diversi, cioè alcuni Paesi hanno un’identità di tipo culturale, altri di generi diversi. Ad esempio, non sono le stesse cose che definiscono la fortissima identità dei francesi, o quella dei tedeschi, o degli americani. Questi sono tre Paesi con un fortissimo senso di identità, che però si costruisce intorno a cose diverse. Può essere interessante riflettere su un dato, che il relatore confessa di aver scoperto solo recentemente. La parola demos, che è quella che esprime l’identità (c’è bisogno di un demos perché ci sia democrazia, e non ci sarà identità se non c’è un demos), in origine stava ad indicare la “circoscrizione elettorale” introdotta nella riforma politica e costituzionale di Clistene nel 508 a.C. Questa circoscrizione era puramente geometrica, cioè Clistene ha preso Atene e l’ha quadricolata per abolire le antiche tribù. Quindi, la democrazia in origine non era un fatto naturale, né identitario, ma un fatto geometrico; lo stesso demos è geometrico, almeno nel 508 a.C. Con questo il relatore intende dire che il concetto di identità gli sfugge. Quanto alla seconda domanda, ovvero se la cittadinanza europea è sufficiente, il Prof. Diez-Picazo, pur consapevole di essere in minoranza (non nell’incontro che ha odierno, ma in Europa), dice di essere fra coloro che credono di sì, che sia sufficiente. Se era sufficiente per gli ateniesi, nel 508 a.C., non si vede perché non debba essere sufficiente per noi, nel 2003. Per avere una democrazia bisogna che ci siano cittadini, diritto di suffragio attivo e passivo, libertà di espressione, mezzi di comunicazione liberi, ecc. Ma che il sentimento di identità debba essere simile tra trecento milioni di persone, non si comprende il perché. Detto questo, è vero che il grosso problema sono gli immigrati, ma c’è anche un altro problema, di grande attualità, ovvero quello della guerra e della pace. Prima o poi bisogna inviare i soldati; i soldati, quando sono inviati, sanno che possono morire. Come convincere i soldati ad andare eventualmente a morire se non è per la Patria, perché pro patria mori, ma anche pro Unione europea mori? Non è facile da dire, però va considerato che i soldati andavano a morire anche sotto governi liberi prima che ci fossero le identità nazionali. I fiorentini andavano a lottare contro i senesi, oppure anche contro le truppe imperiali (Machiavelli). Qui non c’era un’identità di tipo nazionale. Anche sotto governi liberi la gente andava a morire in guerra per sentimenti che non erano nazionali, erano di un altro tipo. Il relatore, a fronte di tutto questo, ritiene che ci troviamo di fronte alla difficoltà di costruire categorie politiche, ma anche 22 giuridiche, che non rispondano più a quello che lui indica come “il paradigma del romanticismo”. Ovvero: in grandissima misura tutta la teoria dello Stato e i concetti giuridici sui quali siamo stati educati e che ancora oggi usiamo sono concetti romantici, nazionalisti ma anche romantici, e dunque la sfida è quella di ricostruire -non la chiameremo teoria dello Stato, perché chiamarla teoria dello Stato, se lo Stato è obsoleto, è un po’ difficile- si potrebbe forse dire una teoria dello Stato obsoleto, o del post-Stato, sulla base di categorie non romantiche. Durante i secoli gli esseri umani hanno vissuto con categorie non romantiche anche sotto governi liberi. Dunque, può immaginarsi che si tratti di una vera sfida, ma non necessariamente deve ritenersi che sia impossibile. La questione sta tutta lì, nello sbarazzarsi delle categorie romantiche. Il problema è che c’è tantissima gente in Europa che non ne vuole sapere, perché si trova a proprio agio in un universo concettuale romantico. Il punto di vista del relatore è che, se vogliamo costruire qualcosa di nuovo, il paradigma romantico non funziona. Egli confessa, però, di non avere un paradigma alternativo. Se un giorno l’avrà, lo racconterà, ma per il momento si limita a fare la diagnosi della situazione. Gianluca BASCHERINI si associa ai ringraziamenti a Luis Maria Diez-Picazo per gli stimoli e per la sintesi che è riuscito a portare sul tema della cittadinanza. Quindi, ricollegandosi a quanto detto da Azzariti e da Diez-Picazo, egli ricorda i lavori di Chabod o di Edgar Morin sull’idea di Europa, dai quali emerge chiaramente come l’idea di Europa appaia come un concetto polemico che si sviluppa per sottrazione e contrapposizione: europeo, dunque, è il non-barbaro, non-asiatico e così via. Diez-Picazo ha toccato alcuni punti molti interessanti nel ragionamento sulla cittadinanza: quello dell’effettività, quello della residenza, tutti punti che, a parere di Bascherini, riconducono a quanto detto da Azzariti e accennato da Diez-Picazo nella conclusione della sua relazione, cioè che il problema di fondo è quello del rapporto tra questi cittadini europei che andiamo disegnando e gli stranieri. Richiamandosi anche a quanto detto da Roberto Nania, Bascherini ritiene che il nodo della circolazione non sia una questione secondaria. La sua opinione è che non sia affatto casuale che ciò che rimane collegato alla cittadinanza come status è solo circolazione e possibilità di fissare la residenza, in un contesto in cui si cerca di creare uno spazio completamente libero per le merci e i capitali e, invece, quando si tratta di circolazione delle persone questo spazio appare sempre più perimetrato da confini di diversa origine e natura. Il fatto di fissare alla libertà di movimento delle persone dei limiti che non si vogliono più fissare alla libertà di movimento delle merci e dei capitali, non è una dimenticanza, ma è una scelta voluta, la quale - per quanto concerne i migranti - si traduce in una sussunzione dei fenomeni migratori entro una visione, nel migliore dei casi, economicista, del lavoratore migrante come riserva di forza-lavoro a seconda della congiuntura necessaria oppure eccedente e dunque allontanabile. E sintomatico a questo riguardo è il tentativo in 23 atto di sostituire al permesso il contratto di soggiorno. Anche un altro aspetto della relazione di Diez-Picazo, a parere di Bascherini, è interessante: ovvero il fatto che non vi sia alcuno ostacolo, né logico, né assiologico, a pensare di costruire la cittadinanza su categorie altre da quelle dell’appartenenza. Forse un percorso possibile per dare nuovo significato alla libertà di circolazione ed alla cittadinanza può essere quello di immaginare forme multilevel di cittadinanza, di una cittadinanza di residenza tali da garantire uno statuto chiaro dei diritti e dei doveri del migrante mediante imputazioni progressive delle diverse situazioni giuridiche soggettive a partire proprio delle sue scelte di residenza; in grado dunque di rapportare il singolo individuo alla pluralità di ordinamenti che insistono su di un territorio. Su questo, tra l’altro, Bascherini è dell’opinione che sarebbe interessante anche ragionare su quelli che sono i filoni giurisprudenziali nazionali e comunitari, sul riconoscimento concreto dei diritti agli stranieri, adesso agli stranieri extracomunitari. La Corte Costituzionale italiana, ad esempio, nella sua recente giurisprudenza ha riconosciuto una serie di diritti agli stranieri, tanto in materia sociale quanto in tema di libertà personale e diritto alla difesa non ragionando sulle categorie cittadino/straniero bensì partendo dal dato della residenza (v. ad es. le sentt. C. Cost. nn. 454/1998, 161/2000 e 105/2001). Bascherini, inoltre non concorda del tutto con Diez-Picazo riguardo la mediocrità del testo di Marshall. Chiaramente questo, come ogni testo va calato nel tempo e nel contesto in cui ha visto la luce: in questo caso il dibattito del laburismo inglese sullo stato sociale negli anni Cinquanta del Novecento. Ciononostante, a parere di Bascherini, il merito di questo testo, più che nelle conclusioni cui questo perviene, sta nell’aver offerto una chiave di lettura storica e non dommatica dei processi di cittadinanza - e di allargamento dei diritti a soggetti in precedenza esclusi dal loro godimento - e dunque una dimensione di lettura di questi processi altra rispetto a quella su cui tradizionalmente si concentrano i giuristi. Marshall in fondo non fa che proporre una ricostruzione di lungo periodo della storia moderna della cittadinanza tendente a porre a suo coronamento lo stato sociale ed i diritti da questo garantiti. Forse è sulla scorta di questo processo che noi ancora oggi ci interroghiamo di cittadinanza, perché in realtà siamo anche emotivamente legati a quel processo storico di allargamento dei diritti che è iniziato nella seconda metà dell’ottocento e che probabilmente si è concluso nell’ultimo quarto del Novecento, nell’arco di un secolo che ha portato al riconoscimento dei diritti ad una categoria di soggetti molto più ampia rispetto a quella cui esso era stato riconosciuto dalle carte rivoluzionarie prima e del liberalismo poi. Sull’identità è stato già detto molto, per cui Bascherini non si azzarda ad intervenire, se non osservando che ad oggi la nostra identità, tra le varie carte che teniamo nel portafoglio, sia definita molto più dalla carta di credito, che non dalla carta di identità. La sua impressione è che questo tema si sia evidenziato come assolutamente problematico. Diceva giustamente Diez-Picazo: è difficile capire il 24 rapporto, se è la politica o il potere che crea l’identità o viceversa. L’opinione di Bascherini è che oggi le identità come le appartenenze siano molteplici ed a volte conflittuali. E questo rende il territorio sempre meno univocamente significativo in termini di delimitazione degli interessi di una comunità e dei diritti dei singoli partecipanti ad essa. Ancora, tra i meriti della relazione di DiezPicazo, sta l’aver evidenziato le tensioni che oggi attraversano la categoria della cittadinanza e le difficoltà che si incontrano a doverla utilizzare oggi senza aggettivarla. Si potrebbe pensare che sia anche la mancanza di altri sostantivi a portarci a dover ragionare, per quanto riguarda la spettanza di diritti, in termini di cittadinanza. Sulla questione dei migranti Bascherini ritiene insufficiente dirsi a favore o contro le frontiere aperte. L’azzeramento delle quote e la chiusura delle frontiere non sembrano ridurre i flussi di ingresso, bensì soltanto incrementare la percentuale degli ingressi clandestini, i quali peraltro costituiscono- storicamente- una componente strutturale dei flussi migratori. In questo senso non è servito militarizzare le coste. E neppure affondare navi. La questione, allora, non è se le frontiere sono aperte o chiuse; o, su un altro piano se una società multietnica sia o meno auspicabile. Le migrazioni costituiscono un dato strutturale delle società moderne ed oggi la società multietnica è un destino, non una scelta per anime belle; le alternative oggi, realisticamente, riguardano le modalità (più o meno conflittuali, più o meno regolate) attraverso cui gli ordinamenti- nazionali e sovranazionali- si dispongono ad approcciare questa realtà. DIEZ-PICAZO inizia da Marshall e, sulle considerazioni di Bascherini in proposito, osserva che è vero che i testi di diritto costituzionale e di altre materie giuridiche in materia di cittadinanza sono piuttosto lacunosi. Per questo, allora, le considerazioni di Bascherini lo inducono a dire: «Touchè!». Ciò premesso, può darsi che mediocre sia un aggettivo un po’ troppo forte, però l’opinione del relatore è che sia un libro che non merita la fama di cui gode, perché in fondo è un libricino in cui si espone la classica tripartizione dei diritti in diritti civili, politici e sociali, vera nel momento in cui in Inghilterra c’era il grande lancio del Welfare State in senso contemporaneo. Detto questo, la grande critica che, a suo parere, va fatta a Marshall - a Marshall soprattutto, perché Marshall è il punto di riferimento di tutti quelli che usano in maniera indiscriminata la parola cittadinanza per parlare di qualsiasi cosa - è che se mettiamo i diritti civili, la proprietà, di cui parlava Roberto Nania, o i diritti sociali, come il diritto alla salute, il diritto alla scuola (libro “Cuore”), se questi li mettiamo sotto l’ombrello della cittadinanza, compiamo un’operazione che: a) non ha niente a che vedere con quello che tradizionalmente si è inteso con cittadinanza; e b) dal punto di vista ideologico, non compiamo un’operazione neutrale, bensì un’operazione per effetto della quale hanno un diritto “innato” alla scuola o alla proprietà i nazionali; quanto agli altri…si vedrà. E questo è ciò che si 25 desume dal libro di Marshall (scritto da un militante del Labour Party!). Fare quella ricostruzione scorretta di categorie storiche per finire con l’affermare che solo i nazionali hanno diritto a certe cose, devono avere diritto a certe cose, sembra a Diez-Picazo, in primo luogo, concettualmente sbagliato; in secondo luogo, ideologicamente sbilanciato. Con il suo giudizio sul libro di Marshall egli non intendeva dire se non questo. Il relatore affronta, quindi, la questione del rapporto tra i cittadini e le carte di credito, per dire che egli si trova solo parzialmente d’accordo con Bascherini. Che i ricchi vivano meglio e abbiano maggiori possibilità, non c’è alcun dubbio. Inoltre, se uno deve scegliere se essere ricco o povero, sceglie di essere ricco, questo è certo. Detto questo, il relatore fa presente che accanto al suo studio a Madrid c’è un commissariato di polizia, di quelli dove devono andare a regolare la loro situazione gli extracomunitari. Di solito c’è una lunghissima fila, e gli americani degli Stati Uniti fanno la fila lì, con tutti gli altri, e quelli normalmente poveri non sono. Questa considerazione serve a DiezPicazo per dire che le norme giuridiche contano. Di certo egli non augura a nessuno di dover fare le file, né è contento perché gli americani devono fare la fila, quello che intende dire è che in quella fila ci sono, anche se in minoranza, delle persone che non sono affatto povere, né provengono da paesi del Terzo mondo. Quanto alle naturalizzazioni, sulle quali Bascherini ha fatto l’esempio della Francia, il relatore ritiene che si potrebbero menzionare anche gli Stati Uniti. Su questo tema, confessa Diez-Picazo, nella sua famiglia colei che veramente conosce questo tema è sua moglie, che gli raccontava qualche tempo fa di una statistica (del 1998, 1999 o 2000, ma comunque piuttosto recente; e comunque il trend è sempre lo stesso), secondo la quale il numero complessivo di persone che in quell’anno sono state naturalizzate negli Stati Uniti era il doppio della somma delle persone naturalizzate in tutti i Paesi dell’Unione europea con una popolazione complessiva paragonabile ed un PIL paragonabile. Questo vuol dire che gli Stati Uniti sono molto più assorbenti, il doppio per essere precisi, dell’Unione europea, e questo ha a che vedere non solo con condizioni economiche, ma anche con condizioni mentali. Gli americani hanno una cultura dell’accoglienza che la maggior parte degli Stati dell’Unione europea non ha. Il relatore, riportando questa statistica, intende dire che la spiegazione puramente economicista va presa con molta moderazione, e questo elemento è molto significativo se si fa il paragone tra gli Stati Uniti e l’Unione europea oggi. Diez-Picazo vuol dire, poi, un’ultima cosa in merito a quanto ricordato da Bascherini su come si definisce l’Europa per Chabod e gli altri. Il relatore non si pronuncia su queste questioni metafisiche, ancora una volta, per una propria incapacità fisiologica per le questioni metafisiche. Comunque, va ricordato che nel Trattato sull’Unione europea (ma questo si diceva già nel Trattato di Roma) le condizioni per essere ammesso come Stato membro dell’Unione europea erano quelle di essere uno Stato che rispetti i principi di cui all’art. 6, cioè lo Stato di diritto, i diritti umani, etc… Che cos’è, allora, uno Stato 26 europeo? Che la Svizzera sia uno Stato europeo, suo malgrado, su questo non c’è dubbio. Ma, man mano che ci spostiamo verso altre latitudini, le cose possono non essere assolutamente chiare. Ad esempio – dopo aver citato sua moglie, il relatore adesso citerà la madre - la madre di Diez-Picazo sostiene sempre che la maniera più saggia di fare un’eventuale transizione democratica di Cuba sarebbe la reintegrazione sotto l’autorità della Corona spagnola. Sicuramente gli americani non sarebbero d’accordo, però i cubani sono stati spagnoli fino al 1898, poi gli americani hanno vinto la guerra, altrimenti avrebbero continuato ad essere spagnoli. Quello è uno Stato europeo? Immaginiamo che Cuba decida di essere ragionevole e di tornare sotto l’autorità della Corona: vi sarebbero le condizioni perché Cuba diventasse parte - non Stato membro, ma parte - dell’Unione europea? Non è facile a dirsi. L’impressione del relatore è, però, che la metafisica abbia poco a che fare con queste cose. Ad esempio, una volta a Diez-Picazo in aeroporto è stato presentato un deputato europeo che andava a casa, e casa sua era nell’isola della Reunion, che è nell’Oceano Indiano ed è territorio dell’Unione europea. Dunque, non è affatto semplice dire che cosa sia l’Europa effettivamente. Alberto VESPAZIANI vuole fare una domanda relativa al rapporto tra la cittadinanza europea e il diritto di difesa, sulla base di una suggestione proveniente dall'intervento di Gianluca Bascherini. L'impressione di Vespasiani è che nel corso della relazione introduttiva la cittadinanza europea sia stata presentata come una categoria da cui possono fluire dei diritti, in verità molto pochi, come ha argomentato Diez-Picazo, presentando una concezione aritmetica della cittadinanza europea, come di un risultato di una somma delle discipline dei vari ordinamenti nazionali, e di cui, quindi, si potrebbe fare anche a meno. Il relatore, quindi, ha un po’ diversificato, dicendo che quelli che se lo possono permettere e viaggiano ne beneficiano un po’ di più rispetto ai provinciali, che rimangono fermi. Nel corso della discussione, invece, la cittadinanza è diventata più una risorsa di tipo simbolico, dato che sono stati invocati i concetti classici di identità, appartenenza e partecipazione. Vespaziani vuole fare una domanda che si riferisce al punto della relazione introduttiva in cui è stato evocato S. Paolo. Diez-Picazo ha detto: S. Paolo era molto orgoglioso della cittadinanza. Però, prosegue Vespaziani, questo orgoglio si potrebbe anche interpretare in modo pragmatico. Quando S. Paolo diceva di essere cittadino romano, si riferiva al fatto che per questo egli aveva il diritto ad un giusto processo. Allora, la domanda di Vespaziani è: non ci potrebbe essere spazio per la cittadinanza europea come di una strategia argomentativa? E cioè, in fondo noi dovremmo anche essere un po’ cauti nell'escludere che un domani, nelle corti, i giuristi europei facciano leva sul concetto di cittadinanza europea per proteggere altre situazioni giuridiche. Ciò soprattutto con riferimento all'estensione del principio di non discriminazione sulla base della nazionalità. Di 27 fronte ad un probabile aumento della mobilità sociale, è possibile che aumentino i conflitti di fronte alle corti, dove i cittadini europei potrebbero invocare la tutela di diritti fondamentali compromessi da disposizioni legislative e da pratiche amministrative locali ancorate al principio di nazionalità. In questo senso, si potrebbe cercare di difendere un po’ il futuro della categoria della cittadinanza europea. DIEZ-PICAZO ribadisce ancora una volta di non essere scettico sulla cittadinanza europea, bensì sull’utilizzazione in chiave romantica della cittadinanza europea. Per il resto, egli crede che la cittadinanza europea sia un bene. Infatti, ci sono alcuni diritti senza dubbio molto utili, quello di suffragio e quello di libertà di circolazione; questi diritti sono utilissimi e sono inerenti alla cittadinanza europea. Il relatore è, invece, piuttosto scettico sull’uso romantico dell’idea di cittadinanza, soprattutto perché lo trova inutile, a maggior ragione inutile se l’obiettivo da raggiungere è quello di un’unione politica. Questa, infatti, non si può fare sulla base di categorie romantiche. Detto questo, Diez-Picazo prende in considerazione il diritto ad un giusto processo. Il nesso con la cittadinanza, egli osserva, valeva ai tempi di S. Paolo, mentre oggi il diritto ad un giusto processo ce l’hanno tutti. Il diritto ad un giusto processo (art. 6 della Convenzione dei diritti umani) è un diritto di tutti, per cui, ad esempio, un keniano che arriva anche illegalmente in Europa ha il diritto ad un giusto processo (cosa diversa è quale processo sia). Per dirla con la rivoluzione francese, questo è un diritto dell’uomo, non un diritto del cittadino, almeno nel costituzionalismo moderno, contrapposto al costituzionalismo antico. E qui si torna a Marshall: il rischio perverso di abusare del termine cittadinanza è che possiamo finire per attribuire diritti, che nella tradizione del costituzionalismo moderno sono diritti dell’uomo, ai soli cittadini, cioè ridurli. Il diritto ad un giusto processo, invece, è un diritto di tutti. Alberto VESPAZIANI desidera effettuare una precisazione. Egli intendeva dire che forse c’è anche uno spazio per l’estensione del principio di non discriminazione. E’ evidente che se si accresce la mobilità sociale, soprattutto della forza lavoro, è probabile che aumentino i conflitti davanti alle Corti per questioni di tutela di situazioni giuridiche non agganciate direttamente alla nazionalità. In questo senso forse la cittadinanza europea può allargare la valutazione dei diritti. DIEZ-PICAZO è d’accordo, ma purché si parli di diritti in qualche misura inerenti ai cittadini. Ci sono tanti altri diritti, però, per i quali tale inerenza non sussiste. Si può fare l’esempio dell’eguaglianza di remunerazione uomo-donna: stesso lavoro, stessa remunerazione (è un principio che è nel Trattato dal 1957). Questo diritto ha a che fare con la cittadinanza europea? Ovvero, una 28 donna che sia impiegata di una società con sede legale nell’Unione europea, anche se il suo luogo di lavoro non è nemmeno nel territorio dell’Unione europea, ad esempio un’impiegata di una ditta dell’Unione europea, non diciamo a New York, perché lì c’è la legislazione americana, ma in Marocco, che invoca le disposizioni del Trattato sulla parità di retribuzione, ha il diritto o non ha il diritto? Se abusiamo del concetto di cittadinanza, finiremo per costruire un ordinamento meno garantista di quello che avevamo senza il concetto di cittadinanza. Detto questo, il relatore desidera non essere frainteso. Egli ritiene che la cittadinanza europea sia una cosa buona, ma cittadinanza significa che uno partecipa nella cosa pubblica, e significa anche che uno ha il diritto di entrare e di uscire. Quanto agli altri diritti, è preferibile non abusare della cittadinanza, perché si finirebbe per restringere la sfera dei beneficiari di questi diritti. 29