Sapere della fede e figure metafisiche

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Sapere della fede e figure metafisiche
Giuseppe Lorizio
1. Sul nesso teologia/metafisica
Mi preme innanzitutto far notare come la necessità di uno stretto legame fra il sapere della fede e il
sapere metafisico sia imprescindibile e di fatto costitutivo di entrambe le forme e non solo sul piano
teoretico, o se si vuole epistemologico, bensì storicamente offerto alla nostra riflessione, nella misura in cui
essa non resta vittima dei luoghi comuni storiografici e non si lascia guidare eccessivamente dalla fantasia
interpretativa finalizzata a delle tesi da difendere a tutti i costi. Mi dispenso naturalmente dall’insistere sulla
distinzione fra teologia cosiddetta naturale o razionale (mi piace di più il sintagma “teologia filosofica”) e il
sapere della fede, strictu sensu, chi ascolta saprà ben operare tale distinzione all’interno dei diversi contesti
e ben oltre le oscillazioni semantiche, cui farò riferimento, e tuttavia la mediazione della teologia filosofica,
nonostante venga oggi spesso denigrata e volentieri abbandonata dalla teologia tout court, rimane punto
nodale e decisivo per una corretta impostazione della relazione fra sapere della fede e pensiero metafisico.
Consapevole di nuotare controcorrente, anche da questo punto di vista, il teologo Wolfhart
Pannenberg, nelle sue lezioni napoletane del 1986 (dietro le quali ci sono i seminari monachesi tenuti in
collaborazione con Dieter Henrich su teologia e metafisica), ha sostenuto con vigore la necessità di tale
nesso e nel contempo l’urgenza di porre mano a un radicale e serio rinnovamento del pensiero metafisico:
“Se questo non avviene, allora l’autointerpretazione teologica della fede si limita ad esprimere un impegno
soggettivo del teologo. Soprattutto il discorso teologico intorno a Dio richiede, per la sua pretesa di avere
valore di verità, il riferimento a un pensiero metafisico, poiché il discorso su Dio è rimandato a un concetto
di mondo che può essere assicurato solo mediante una riflessione metafisica. La teologia cristiana perciò
deve augurarsi ed accogliere con favore il fatto che la filosofia prenda di nuovo sul serio, come un compito
del pensiero contemporaneo, la sua grande tradizione metafisica. Certo un simile rimando alla metafisica
oggi viene ammesso solo raramente dai teologi. Tuttavia esso risulta già dal fatto che la dottrina teologica su
Dio, senza il riferimento di una metafisica, cade in mano a un soggettivismo kerygmatico o alla
demitizzazione, e spesso a tutt’e due”.
E, a proposito di questo profondo legame, alla sentenza del teologo si può affiancare qualche
passaggio di quel testo-manifesto della critica all’ontoteologia, costituito dal saggio di Martin Heidegger
Identität und Differenz, in quella sezione che contiene le tesi esposte in un seminario del 1956-57, dedicato
proprio alla Scienza della logica di Hegel. “La metafisica – scrive Heidegger – non è soltanto teo-logica, ma
anche onto-logica. Soprattutto essa non è soltanto l’una oppure anche l’altra. Piuttosto la metafisica è teologica perché è onto-logica. È onto-logica perché è teo-logica. La costituzione onto-teologica dell’essenza
della metafisica non può essere chiarita né sulla base della teologia, né sulla base dell’ontologia, posto che
qui siano sufficienti per ciò che resta da pensare [bedenken] dei chiarimenti. Resta infatti ancora impensato
a partire da quale unità l’ontologica e la teologica appartengano ad un ambito comune [zusammen gehören],
impensata resta la provenienza di tale unità, impensata la differenza delle cose diverse che essa unifica.
Giacché palesemente non si tratta solo della fusione di due discipline della metafisica a sé stanti ma
dell’unità di ciò che viene interrogato e pensato nell’ontologica e nella teologica”. Naturalmente il filosofo
si farà carico di pensare questo impensato e di esibire gli esiti della propria riflessione, dei quali riferiremo
criticamente in seguito, intanto ci preme sottolineare come da prospettive certamente non affini venga
mostrato il legame e si tenti di interpretarlo.
Sul versante più proprio del sapere della fede il Magistero della Chiesa cattolica afferma con forza
tale legame e la necessità di un pensiero autenticamente metafisico per il sapere teologico. I compiti che la
Fides et ratio assegna ai pensatori credenti riguardano infatti:
A. le implicazioni metafisiche della teologia
[Mi preme concludere questa Lettera enciclica rivolgendo un ultimo pensiero anzitutto ai teologi, affinché
prestino particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di Dio e compiano una riflessione da
cui emerga lo spessore speculativo e pratico della scienza teologica. Desidero ringraziarli per il loro servizio
ecclesiale. Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle ricchezze più originali
della tradizione cristiana nell’approfondimento della verità rivelata. Per questo, li esorto a recuperare ed
evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità per entrare così in un dialogo critico ed esigente
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tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia o
invece in contrapposizione con la parola di Dio - FeR 105],
B. la necessità della metafisica e dell’ontologia per la teologia
[è necessaria [per la teologia] una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i
dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. È
un’esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in
particolare, è un’esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo,
Dio stesso. Non intendo qui parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una particolare corrente
storica. Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l’empirico, e voglio
rivendicare la capacità che l’uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo
vero e certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la metafisica non va vista in alternativa
all’antropologia, giacché è proprio la metafisica che consente di dare fondamento al concetto di dignità della
persona in forza della sua condizione spirituale. La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato
per l’incontro con l’essere e, dunque, con la riflessione metafisica FeR 83 ]
[Se compito importante della teologia è l’interpretazione delle fonti, impegno ulteriore e anche più delicato ed
esigente è la comprensione della verità rivelata, o l’elaborazione dell'intellectus fidei. Come già ho accennato,
l’intellectus fidei richiede l’apporto di una filosofia dell'essere, che consenta innanzitutto alla teologia
dogmatica di svolgere in modo adeguato le sue funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli inizi di questo secolo,
secondo cui le verità di fede non sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato rifiutato e rigettato;
ciò nonostante, rimane sempre la tentazione di comprendere queste verità in maniera puramente funzionale. In
questo caso, si cadrebbe in uno schema inadeguato, riduttivo, e sprovvisto dell’incisività speculativa necessaria.
Una cristologia, ad esempio, che procedesse unilateralmente “dal basso”, come oggi si suole dire, o una
ecclesiologia, elaborata unicamente sul modello delle società civili, difficilmente potrebbero evitare il pericolo
di tale riduzionismo – FeR 97],
C. Il lavoro di scavo e di rinnovamento cui il sapere metafisico deve essere sottoposto, in quanto
non è più possibile ripetere schemi antiquati e pensare la fede con categorie obsolete
[La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre.
La ragione profonda di questa riservatezza sta nel fatto che la filosofia, anche quando entra in rapporto con la
teologia, deve procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe altrimenti garanzia che essa
rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un processo razionalmente controllabile. Di poco aiuto
sarebbe una filosofia che non procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e specifiche
metodologie – FeR 49]
[Se l'intellectus fidei vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla filosofia
dell'essere. Questa dovrà essere in grado di riproporre il problema dell’essere secondo le esigenze e gli apporti
di tutta la tradizione filosofica, anche quella più recente, evitando di cadere in sterili ripetizioni di schemi
antiquati. La filosofia dell'essere, nel quadro della tradizione metafisica cristiana, è una filosofia dinamica che
vede la realtà nelle sue strutture ontologiche, causali e comunicative – FeR 97].
A questo auspicio di rinnovamento del pensiero metafisico, propugnato anche nel titolo italiano delle lezioni
di Pannenberg, cercheremo ora di offrire qualche traccia di risposta, individuando tee figure possibili e
feconde per un rinnovamento della metafisica a partire dalla teologia e dalla fede che in essa si esprime.
2. Per un rinnovamento del pensiero metafisico in prospettiva teologica
Dal punto di vista del sapere teologico il movimento di radicale rinnovamento del pensiero metafisico
da più parti invocato rinviene le sue radici nella fede e nei suoi contenuti fondamentali. Si tratta di cogliere
ed esprimere teoreticamente la valenza speculativa (ontologica e metafisica dell’evento cristologico) e di
articolarla nei termini di un sapere che prima ancora di caratterizzarsi come previo rispetto alla fede e alla
teologia, sarà “ricavato dalle viscere della cristiana religione” e di essa si nutrirà costantemente pur
esprimendo tutta la drammaticità della ricerca autentica e del salto, che pure si richiede dalla fede alla
ragione, un approccio di più ardua comprensione per il credente, che, se intende esercitare autenticamente la
ratio philosophica, è chiamato a disporsi a compiere un passaggio ben più rischioso e ardito, che gli
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consenta di affrontare con adeguata libertà il cammino del pensiero speculativo e percorrerne in forma non
mascherata (il larvatus prodeo non può essere la sua divisa) le tappe. Se ben compreso e attuato questo
atteggiamento, mentre da un lato risponde all’esigenza kenotica di “gestire le categorie dello svuotamento e
dell’abbandono”, costituisce d’altra parte la migliore risposta in actu exercito alla provocazione
heideggeriana secondo cui il cristiano che filosofa bara, perché finge di cercare ciò che ha già trovato.
Eppure è la fede stessa nel Dio crocifisso ad esigere questa kenosi, dove la capacità di perdere la propria vita
riguarda anche la propria appartenenza pacificamente abitata come luogo in cui il possesso della certezza
prevarica la ricerca della verità.
L’orizzonte nel quale ci sembra debba muovere il movimento di rinnovamento del pensiero
metafisico che qui si auspica, sarà quello del “pensiero rivelativo”, dove appunto emerge il nesso profondo
fra libertà e verità e di entrambe con la persona, nozione davvero centrale dell’antropologia cristiana. Il
nesso inscindibile tra persona, verità e libertà, che il “pensiero rivelativo” riconosce come costitutivo di
un’autentica e liberante conoscenza è stato tematizzato in alcune figure rappresentative della filosofia
contemporanea ed efficacemente esposto nelle pagine introduttive dell’importante volume di Luigi Pareyson
intitolato, Verità e interpretazione: “quando la libertà cessa di reggere il vincolo originario di libertà e
persona, tutto si trasforma. La verità dilegua, lasciando il pensiero vuoto e disancorato, e scompare anche la
persona, ridotta a mera situazione storica. L’armonia fra dire, rivelare ed esprimere, si rompe, e tutti i
rapporti ne risultano sconvolti e profondamente alterati. Rivelazione ed espressione si separano
definitivamente: senza verità, l’aspetto rivelativo della parola è puramente apparente e si riduce a una
razionalità vuota e priva di contenuto; non più riferita alla persona nella sua apertura rivelativa, ma alla
situazione nella sua mera temporalità, l’espressione diventa inconsapevole e occulta. La natura della parola
degenera e si sfalda: da un lato un discorso la cui vuota razionalità non si presta che a un’utilizzazione
tecnica e strumentale, e dall’altro, mascherato dal discorso esplicito, il vero significato di esso, cioè
l’espressione del tempo”. L’assunzione di una prospettiva rivelativa suggerisce al pensiero alcuni percorsi
che Pareyson indica con le seguenti formule: non il nulla, ma l’essere – non l’Abgrund, ma l’Ugrund, non il
misticismo dell’ineffabile, ma l’ontologia dell’inesauribile, dove si invoca una “trasvalutazione della
parola”, che ci consente di spezzare una lancia contro il pensiero dominante sia nella cultura diffusa che in
quella accademica, che assume una concezione utilitaristica e convenzionalistica del linguaggio, ponendolo
nel dominio meramente antropologico, come mera espressione di quel “pensiero calcolante”, corrispondente
heideggeriano del “pensiero espressivo”, che il “pensiero rivelativo” è chiamato a smascherare e
oltrepassare. “Dipendenza senza eteronomia” è la formula che Paul Ricoeur ha coniato per indicare il
rapporto testimonianza-parola-rivelazione nel tentativo di superare sia lo scoglio del sacrificium intellectus,
inammissibile in rapporto all’idea di rivelazione, sia la pretesa filosofica della “trasparenza totale” della
verità, dove “la conquista di un nuovo concetto di verità come manifestazione – nel senso di rivelazione –
richiede il riconoscimento della vera dipendenza dell’uomo che non è sinonimo di eteronomia”.
Cercando di non dimenticare questo orizzonte fondamentale, tenterò ora di indicare le possibili
direzioni che un rinnovamento del pensiero metafisico può intraprendere, richiamando alcuni luoghi,
momenti e pensatori, che hanno dedicato la loro ricerca e la loro riflessione, più o meno dichiaratamente, a
questo compito, raccogliendo le tappe del percorso intorno alle tre espressioni: “ontologia della dedizione”,
“ontologia trinitaria” e “metafisica della carità”, per quanto concerne il loro contenuto speculativo. Si tratta
di tre momenti di un percorso nel quale dal primo si dischiude il secondo orizzonte e dal primo e dal
secondo il terzo, quindi la loro successione non va pensata in termini di tre settori separati, ma in senso
inclusivo e dischiusivo di senso. È anzitutto nel primo momento, quello della “ontologia della dedizione”
che va – a mio avviso – situato il metodo fenomenologico, che tuttavia viene incluso anche nel secondo in
una prospettiva più propriamente fondativa, fino a raggiungere l’accoglienza speculativa del fondamento
stesso nella terza tappa. Il coinvolgimento e la scelta di pensatori rappresentativi di ciascuna delle tre
formule non intende esprimere una esclusività nei contenuti del loro pensiero, piuttosto tende a sottolineare
una direzione di marcia, che può includere anche gli altri momenti e di fatto non di rado li ha presenti e li
evoca.
2.1. L’“ontologia della dedizione” costituisce insieme il punto di partenza ed in certo senso il gradino più
basso di questo itinerario. In questo orizzonte speculativo si tratta di pensare il fenomeno nella prospettiva
del dono e del dono originario, ritenendo in tal modo di poter superare le ormai dilaganti critiche
all’ontoteologia, muovendo in una direzione non sempre immune da una sorta di deriva nichilista. Il
tentativo – e penso in particolare al pensiero di Jean-Luc Marion, che intende muoversi sul piano
rigorosamente fenomenologico, rifiutando ogni possibile commistione ontologica e tanto meno metafisica –
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resta degno di tutta la nostra attenzione critica, capace cioè da un lato di subirne il fascino, dall’altro di non
lasciarsi irretire ed inibire nell’intento di proseguire il cammino, approdando ai due successivi momenti. Sul
versante gnoseologico questa proposta intende richiamare la necessità del superamento di un pensiero
concettuale per declinarsi nel senso e nell’orizzonte del pensiero iconico, dove il rendersi visibile
dell’invisibile (la filigrana cristologica è evidente) si offre appunto attraverso l’e„kën, che si pone in
contrapposizione drammaticamente dialettica rispetto all’e‡dwlon, vero e proprio protagonista del
cosiddetto pensiero rappresentativo. Ne L’idolo e la distanza e nel successivo e suggestivo saggio intitolato
La croisée du visible Marion tematizza la contrapposizione, attraversando, in compagnia di Nietzsche,
Hölderlin e Dionigi, ma senza dimenticare von Balthasar, la differenza ontologica heideggeriana, letta e
interpretata anch’essa in chiave idolatrica, e proponendo appunto la “distanza” come luogo e cifra della
trascendenza. Rivive in queste pagine la contrapposizione fra essere e Dio, la cui identificazione
minaccerebbe i più grandi pensatori (e Marion nomina Heidegger e san Tommaso). Ecco come Marion
svolge la propria critica all’idolatria filosofica, chiamando in gioco la rivelazione cristiana ed i suoi eventi
fondamentali: “[...] avanziamo una prima domanda: l’Incarnazione e la Resurrezione del Cristo investono il
destino ontologico o restano un avvenimento puramente ontico? E poi quest’altra: un’obiezione
all’indipendenza ontologica di Dio è strettamente legata all’anteriorità irrefutabile del “soggiorno divino”
che dovrebbe accoglierlo; ma appunto, in che cosa può dipendere Dio dal soggiorno che Gli prepara
l’umanità (in questa o quella figura della storia del mondo)? In realtà, un idolo dipende interamente da
questo presupposto, in quanto lo riflette, gli dà un nome e vi trova il proprio volto. Ma l’annuncio ebraico e
la rivelazione cristiana mettono in gioco, sullo sfondo di una critica all’idolatria di cui il pensiero moderno
non ha ancora potuto fare a meno, una venuta del Dio fra i suoi che si attesta persino quando “i suoi non lo
ricevettero” (Gv 1,11). L’assenza del “soggiorno divino” più che limitare o impedire la manifestazione, ne
diventa invece la condizione - come distruzione di ogni idolo che abbia preceduto l’impensabile - la
caratteristica - Dio solo può rivelarsi nel momento e nel luogo in cui nessun altro ente divino può esistere - e
persino il rischio più grande - Dio si rivela spogliandosi della gloria divina”.
La radicalizzazione di questo movimento di spoliazione ha prodotto Dio senza essere, opera
programmatica e spesso fraintesa, anche se certamente discutibile. La scrittura della parola Dio con la
sovrapposizione di una croce può essere una civetteria, significativa però di un modo/moda di interpretare il
rapporto con l’essere, che qui va pensato nella dimensione appunto della dedizione originaria, dove “[...] il
dire Do impone di ricevere il dono, e - poiché il dono avviene solo nella distanza - di restituirlo. Restituire il
dono, giocare in ridondanza la donazione impensabile è qualcosa che non si dice, ma si fa. Alla fine dei
conti, l’amore non si dice, ma si fa. Solo allora può rinascere il discorso, ma come un godimento, un giubilo,
una lode”. La rivelazione è allora puro dono e questa sua caratteristica fondamentale ha valenza speculativa,
ossia mette in gioco lo stesso pensiero, chiamato a regredire dalla metafisica, superando la “differenza
ontologica”, e, preoccupandosi del darsi stesso dell’amore originario ed originante, aggiunge: “Solo la
distanza può dare all’essere che la vanità divenga dono senza ragione, poiché solo lei, che si abbandona in
questi doni, sa riconoscere nella Gelassenheit un’icona della carità”. Qui Marion - sulla scia di Blondel recupera la tematica eucaristica, inserendola nel suo discorso “fenomenologico”, che a questo punto assume
sembianze teologiche: “L’Eucaristia diventa così il banco di prova di ogni sistematica teologica, perché,
conglobando tutto, lancia al pensiero la sfida più decisiva”. Il filosofo tenta di mettere in luce la dimensione
rivelativa del mistero eucaristico, attraverso il concetto di “presenza” come “dono”, in un saggio fuori testo,
che può essere letto come prezioso contrappunto alla tematica derridiana del “dono senza presente”, che
caratterizza il commercio in cui esercita i propri calcoli la ragione economica: qui al contrario il dono è al
presente, in quanto realizza la presenza dell’Altro nella storia e nella vita di ciascuno. L’atteggiamento
adorante di fronte al pane e al vino, consegnati per noi, realizza la “presenza” del Signore e vince ogni
idolatria religiosa e speculativa: “Solo nella preghiera diventa possibile una “spiegazione”, cioè una lotta tra
l’umana incapacità di ricevere e l’insistente umiltà di Dio che non cessa di colmare. E se non sarà sconfitto
in questa lotta, il pensiero non riuscirà mai a vincere speculativamente”.
Un interessante sviluppo, parallelo, di questa ontologia della dedizione ha messo in campo una
ulteriore suggestione speculativa nella forma della “metafisica del perdono”, di cui abbiamo una consistente
elaborazione nel voluminoso saggio di Alain Gouhier, dedicato a questa tematica. In Marion la spinta delle
prime opere verso una “metafisica della carità”, impostata a livello di abbozzo nelle pagine di Prolégomènes
à la charité mentre si accompagna all’analisi fenomenologica cristallizzata nei saggi su Husserl ed
Heidegger, contenuti in Réduction et donation, sembra subire una sorta di battuta di arresto nel volume
Étant donné. Interessante per il nostro percorso la posizione di Marion circa la metafisica, lucidamente
espressa in una recente conferenza romana: “la metafisica si costituisce come scienza unificata soltanto dal
momento in cui il concetto determina l’ente e lo porta su se stesso. Ma questa realizzazione impedisce tanto
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l’accesso all’ente in sé, quanto all’essere che si sottrae alla rappresentazione. Da ciò proviene il paradosso
della modernità: finché la metafisica non ha né nome, né costituzione, affronta bene il suo ruolo ontico e
ontologico, ma non appena un concetto di ente gli assicura un nome e un sistema, sottomette il suo ruolo
ontico e ontologico all’esigenza trascendentale. Da cui un altro paradosso: finché non c’è “metafisica”, la
domanda metafisica resta aperta, per chiudersi non appena c’è una “metafisica”. In poche parole, la
metafisica non si costituisce che perdendosi, e non si raggiunge che ignorando se stessa”.
Questo “perdersi” deve comunque essere considerato penultimo rispetto a un ritrovarsi più ricco e
coinvolgente. La radice cristologica, teologica e quindi ontologica della dedizione è stata espressa come
Leitmotiv e tema fondamentale in alcune pagine particolarmente pregnanti dell’ultima fatica di Pierangelo
Sequeri a tutti nota, dedicate all’eidetica dell’evento fondatore: “Dio è dedizione. Chi nega la verità della
dedizione nega Dio. Anche se ciò fosse fatto in nome della vera religione e della imperscrutabile giustizia di
Dio. La corrispondenza della rivelazione e della storia, qui, è perfetta. […] Il dono incondizionato di sé,
l’accoglienza dell’altro nella sua stessa differenza, la solidarietà con il suo illimitato desiderio di vita, la
fedeltà della libera obbedienza alle esigenze della giustizia, il riscatto dell’altro nel perdono e nella
riconciliazione: sono tutte figure di una simbolica della verità del mondo che è, nella sua radice,
rigorosamente teologica. Esse esprimono la verità di quella relazione originaria che coincide precisamente
con la posizione stessa dell’ente finito […]. In tale prospettiva si può dire che la differenza ontologica è la
verità intrascendibile della dedizione di Dio: sicché è escluso ogni risolutivo assorbimento del finito
nell’originario di un assoluto indifferenziato ed estraneo alla vita storica. E che la dedizione di Dio è il senso
indefettibile della differenza, sicché è esclusa ogni dualistica interpretazione della libertà assoluta che dà
luogo e tempo alla vita storica del mondo […] la questione del senso, insomma, è immediatamente connessa
alla questione della “gratuità” dell’ente e rinvia inevitabilmente all’orizzonte della libertà”. L’attenzione si
sposta così dal versante fenomenologico a quello teologico-fondamentale, attraverso un percorso affine
(magari per assonanza), ma non omologabile, a quello proposto da Marion nei saggi precedentemente
analizzati.
2.2. L’“ontologia trinitaria”, che molto opportunamente Klaus Hemmerle ha indicato come un compito
imprescindibile per la teologia contemporanea, ha tuttavia una lunga storia e può vantare il riferimento a
figure di notevole rilievo dal punto di vista speculativo, anche in ambito mistico. La costituzione trinitaria
propria dell’Assoluto trascendente cristianamente creduto e pensato, e che Marion certamente intravede ed
indica, ma non tematizza esplicitamente, invoca di essere percepita e riflessa non solo in rapporto appunto al
mistero dell’Unitrinità o Triunità (Florenskij) di Dio, l’Essere eterno, bensì a livello della struttura stessa
dell’essere finito (uomo e cosmo). Procedendo a ritroso, rispetto a Marion, e tralasciando le riprese
teologiche, mi limito ad indicare come luogo paradigmatico e speculativamente rilevante di questo sviluppo
speculativo che nasce dall’evento Cristo la lezione di Edith Stein, così com’è contenuta nella sua opera
maggiore: Essere finito e Essere eterno. La ripresa dell’antropologia trinitaria, che considera l’essere umano
finito come immagine dell’Essere eterno trinitario, se da un lato si inquadra nella tradizione origeniana e
agostiniana, nonché bonaventuriana più autentica, d’altra parte include dei riferimenti fecondi alla tematica
ad esempio del corpo soggettivo, che la Stein chiama “corpo vitale”, distinguendo fra Körper e Leib ed
introducendo così una categoria tipica dell’ontologia fenomenologica, di cui è certamente debitrice, ma che,
per tanti versi, richiama il senso cristiano della corporeità e la sua valenza personale e spirituale. Il quadro
gnoseologico qui è dato dalla concezione della verità, anch’essa trinitariamente strutturata, secondo le
dimensioni logica, ontologica e trascendentale. La dottrina dell’anima rimanda alla mistica del castello
interiore e ad essa di fatto si ispira, in maniera fin troppo esplicita: “L’anima è lo “spazio” al centro di
quella totalità composta dal corpo, dalla psiche e dallo spirito; in quanto anima sensibile (Sinnenseele) abita
nel corpo, in tutte le sue menti e parti, è fecondata da esso, agisce dando ad esso forma e conservandolo; in
quanto anima spirituale (Geistseele) si eleva al di sopra di sé, guarda al mondo posto al di fuori del proprio
io – un mondo di cose, persone, avvenimenti -, entra in contatto intelligentemente con questo, ed è da esso
fecondata; in quanto anima, nel senso più proprio, però, abita in sé, in essa l’io persona è di casa. Qui si
raccoglie tutto ciò che entra provenendo dal mondo sensibile e da quello spirituale, e qui ha luogo la disputa
interna muovendo dalla quale si prende posizione, ricavandone ciò che diventerà più propriamente
personale, la componente essenziale del proprio io, ciò che (parlando metaforicamente) si “trasforma in
carne e sangue”. L’anima in quanto “castello interiore”, come l’ha chiamata la nostra santa madre Teresa,
non è puntiforme, come l’io puro, ma è uno spazio, un castello con molte abitazioni, dove l’io si può
muovere liberamente, andando ora verso l’esterno, ora ritirandosi sempre più verso l’interno”.
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In tempi nei quali la figura dell’angelo ritorna e richiama l’interesse dei filosofi, mentre viene quasi
del tutto dimenticata dai teologi, leggere la pagine dell’opera della Stein, in cui si delinea una vera e propria
angelologia filosofico-teologica, può addirittura risultare di sconcertante attualità e comunque istruttivo. Qui
come in tutto il libro il riferimento al tomismo e all’aristotelismo che vi è sotteso non è mai un freno per la
speculazione ontologico-trinitaria, sebbene imprima al cammino un andamento duale e bipolare. La
prospettiva di fondo resta comunque cristologica e trinitaria: “Cristo è primogenito della creazione. Il
mistero della Meschwerdung allaccia fra la divinità e l’umanità in Cristo un vincolo unico, ipostatico. Egli è
Fülle der Menschheit come è Fülle der Gottheit. La somiglianza dell’uomo al Cristo, dovuta in anticipo
all’incarnazione, non rovescia i termini dell’immagine trinitaria nell’uomo, cioè il mistero della persona,
della sua formatività, dalla profondità oscura al sorgere della luce. Il Verbo scende, s’immerge
kenoticamente nel profondo dell’umanità. A questo mistero della persona gli angeli non giungono. È la
profondità umana che fa la libertà e la potentia oboedentialis, dunque predispone al fiat del Verbo e della
Vergine, e provvede la santa umanità di Gesù con appartenenza all’umanità e con una singolarità
impenetrabile. La cristologia teologica e mistica di Edith Stein non manca di cenni antropologici che
puntano su un Cristo intersoggettivo, inesauribile, maestro, eroe, pellegrino, celestiale… nella diversità dei
suoi aspetti. Altrettanti frammenti, strali, punti e segni mirabili che la carmelitana pensosa e devota attinge
dal cuore della verità” (X. Tilliette).
Eppure nonostante la fatica speculativa della Stein, il compito di una ontologia trinitaria relazionata
al sapere della fede, nel nostro tempo resta ancora da svolgere. Siamo nani che poggiano sulle spalle di
giganti, ma non possiamo semplicemente ripetere la loro lezione. L’impresa che Rosmini ha egregiamente,
anche se incautamente, portato a termine per l’Ottocento e la Stein per il Novecento, resta una promessa per
il terzo millennio. Sviluppando le indicazioni di Klaus Hemmerle, si possono percorrere sentieri davvero
interessanti e pregnanti per una ricerca teoretica che comprenda la ripresa del tema dei praeambula fidei e
delle sue motivazioni profondamente teologiche: “se l’ontologia dell’essere creato è già un’ontologia
trinitaria in senso aurorale, in quanto è un’ontologia dell’essere che viene per amore da Dio (exitus),
l’ontologia dell’essere ricreato per Cristo nello Spirito è un’ontologia trinitaria, in senso prolettico, cioè per
anticipazione reale: è già un’ontologia dell’essere creato inserito per Cristo nello Spirito del dinamismo
della vita trinitaria dell’Amore (fatta salva la distinzione di creato e Increato); ma non è ancora un’ontologia
trinitaria in senso definitivamente compiuto, o escatologico, perché l’essere creato e ricreato si compirà in
quanto perfetta immagine dell’Azione trinitaria, nella Trinità, solo nell’eschaton” (Coda, EP, 176). Viene
così ampiamente ed esaurientemente ricuperato il carattere previo dell’istanza metafisica rispetto alla fede e
al sapere che essa esprime e al tempo stesso si esprime con chiarezza quell’istanza veritativa propria della
ragione creata in rapporto alla dimensione cosmico-antropologica della rivelazione ebraico-cristiana, dove
l’istanza dell’essere trinitariamente articolato non esclude, ma invera e supera mirabilmente quella dell’Uno
e delle sue esigenze.
Una ulteriore articolazione di una ontologia trinitaria, capace di interpellare la postmodernità e la
sua cultura, pensiamo possa esprimersi a partire da una rigorizzazione teoretica di un approccio
fenomenologico-esistenziale alle figure dell’alterità, della interiorità e della gratuità, secondo un percorso
che mentre utilizza i dati della fenomenologia francese più recente e raccoglie l’eredità levinasiana,
individua nel legame agapico l’unico possibile autentico legame fra l’immanenza o solitudine radicale della
soggettività e le istanze dell’alterità con le sue irruzioni e le sue pretese; progetto per il quale fin qui ci
siamo limitati a raccogliere dei materiali e che a nostro avviso merita ulteriori fatiche ermeneutiche e
teoretiche.
2.3. La metafisica della carità. Il precedente cenno al “vincolo” ci consente di raggiungere i paraggi del
terzo momento della nostra riflessione, che può trarre spunto dal famoso frammento 582 di Pascal: “Ci
facciamo un idolo della stessa verità; perché la verità senza la carità non è Dio, è la sua immagine e un idolo
che non bisogna amare né adorare; e meno ancora bisogna amare o adorare il suo contrario che è la
menzogna”. Qui si tratta da un lato di recuperare l’orizzonte agapico dell’ontologia trinitaria e di quella
della dedizione, dall’altro di pensare Dio secondo il suo nome proprio dato nel Nuovo Testamento nella
parola che più di ogni altra esprime la sua natura e quindi di uscire da una visione della carità prettamente
prassistica e velleitaria o addirittura sentimentale e banalmente affettiva, per attingere alla feconda
identificazione dell’essere con l’agape. Un primo passo a ritroso, proprio tramite il tema del “vincolo” ci
porta all’incontro con l’ultima sezione di quell’altro capolavoro del pensiero cristiano che è L’Action di
Maurice Blondel: “L’essere è amore; quindi se non si ama, non si conosce niente. E per questo la carità è
l’organo della conoscenza perfetta. Essa depone in noi quello che è nell’altro. E rovesciando, per così dire,
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l’illusione dell’egoismo, ci inizia al segreto di qualsiasi egoismo diretto contro di noi. Nella misura in cui le
cose esistono, agiscono e ci fanno patire. Accettare questa passione, recepirla attivamente, significa essere
in noi quello che esse sono in loro. Dunque escludersi da sé, mediante l’abnegazione, significa generare in
sé la vita universale […] Ciò che si impone necessariamente alla conoscenza non è altro che l’apparenza. E
ciascuno conserva nel fondo l’intima verità del proprio essere singolare. In me c’è qualcosa che sfugge agli
altri, e che mi innalza al di sopra di tutto l’ordine dei fenomeni. E anche negli altri, se sono come me, c’è
qualcosa che mi sfugge, e che sussiste solo se mi è inaccessibile. Io non sono per loro come sono per me, ed
essi non sono per me come sono per loro. L’egoismo è sconvolto dalla sola idea di tanti egoismi
antagonistici. E, nonostante tutta la luce della nostra scienza, rimaniamo avvolti nella solitudine e
nell’oscurità. Soltanto la carità, collocandosi nel cuore di tutti, vive al di sopra delle apparenze, si comunica
fino all'intimità delle sostanze, e risolve completamente il problema della conoscenza dell'essere”. Il
corrispondente di Blondel, Lucien Laberthonnière, ha potuto così coniare la formula “metafisica della
carità”, che poniamo al culmine del nostro percorso speculativo, ma che ci impone (nonostante una serie di
comprensibili resistenze) un ulteriore passo indietro, fino alla formulazione più matura e compiuta di una
ontologia trinitaria riflessa ed articolata nel quadro di una metafisica della carità.
E il passo indietro ci situa in rapporto rammemorante con la più autentica tradizione del pensiero
credente, ponendoci a riflettere su quella metafora della “terza navigazione” che un interprete autorevole ha
utilizzato per indicare la prospettiva agostiniana e quella del pensiero agapico cristiano in generale in
rapporto alla prospettiva erotica platonica. Prospettive che opportunamente oltre che in rapporto al bello,
vengono pensate ed interpretate in rapporto all’essere: “Platone, come è noto, connette strutturalmente
l’eros con l’Essere. Non solo eros è un “legame”, ossia un nesso strutturale dell’essere (una legge
dell’essere), ma, per la sua funzione mediatrice sintetica in senso dinamico, è la via che porta al Bello in sé,
che è puro essere, e quindi è la via verso l’Essere. Il bello cui porta eros è infatti il Bello “in se stesso, per se
stesso, con se stesso, come forma unica, che sempre è”. E l’Iperuranio, che è appunto il luogo metafisico da
cui proveniamo e a cui eros riporta attraverso la bellezza, è il luogo dell’Essere: “L’essere che realmente è,
senza colore, privo di figura e non visibile, e che può essere contemplato solo dalla guida dell’anima, ossia
dall’intelletto, e attorno a cui verte la conoscenza, occupa questo luogo”. Anche Agostino, sia pure in
maniera differente, e in altra direzione, collega l’amore con l’Essere, in quanto interpreta l’Incarnazione non
solo come un calarsi del Verbo, che è puro essere, nel divenire, per riportare l’uomo all’essere eterno, ma
interpreta anche quel desiderio di Dio, che l’uomo sente nel proprio cuore come desiderio dell’Essere”
(Reale, 43-44).
La possibilità dunque di “raccogliere”, ossia tener insieme l’essere e Dio passa attraverso la logica
dell’incarnazione e della redenzione, sicché il teologo Ratzinger, così può affermare: “Il primato del Logos e
il primato dell’amore si rivelano identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla base
di tutte le cose ma come amore creatore fino a diventare compassione verso al creatura. La dimensione
cosmica della religione che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua dimensione esistenziale, la
questione della redenzione, si compenetrarono e divennero una cosa sola […]. Il tentativo di ridare, in
questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per
così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassia e sulll’ortodossia. Al livello più profondo il suo contenuto
dovrà consistere oggi – come sempre in ultima analisi – nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in
quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera.
Nella loro unità essi sono il vero fondamento e lo scopo di tutto il reale”. Riceve qui consistenza la legittima
alterità tra fede e ragione che l’incipit della Fides et ratio evoca con la metafora delle due ali. In questa
prospettiva la relazione della dimensione cosmica della redenzione con la ragione si esprime nei termini
della creazione e quella tra la dimensione storica della redenzione e la fede si esprime nei termini della
rivelazione. La suddetta metafora suggerisce un approccio al rapporto fede/ragione che, mentre esclude ogni
riduzionismo ed inclusivismo, propugna l’ideale di una collaborazione armonica fra queste due
imprescindibili dimensioni dell’esistenza, così il rapporto fra di loro si costituisce a partire da una situazione
di autentica e reciproca alterità e di irriducibile identità ed in termini decisamente asimmetrici. La fede è
altra cosa rispetto al ragionare e la ragione (meglio forse sarebbe parlare delle diverse forme di razionalità)
si costituisce come realtà altra rispetto al credere. Per il cristiano il salto nella fede (e la sequela che esso
comporta) risulta comunque necessario ed ineludibile, in quanto il credere non si pone al termine di un
percorso razionale come suo compimento o esito scontato o realizzazione ultima. E d’altra parte il cammino
della ragione filosofica esige una cesura rispetto alle credenze e quindi il rischio di un “abbandono” o
“distacco”, che richiede la matura consapevolezza da parte di chi osa filosofare di mettere costantemente in
gioco le proprie credenze e certezze.
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3. Conclusione
La consistenze diffidenza di diversi settori della teologia contemporanea nei confronti della
metafisica (della parola e di ciò che la parola esprime) mi suggerisce di concludere con alcune espressioni di
de Chirico, rivolte a coloro che denigravano l’assunzione del termine metafisica per designare il suo
progetto pittorico: “La parola "metafisica" con cui battezzai la mia pittura, sin da quando lavoravo a Parigi
negli anni sottili e fecondi dell'avantiguerra destò pure tra gli intellettualoidi delle rive secuane stizze,
malumori e malintesi non trascurabili. La parola "metafisica" fa nascere un mucchio di malintesi, specie in
quelle menti stitiche che non avendo lo sforzo salutare della creazione vivono di plagi e di luoghi comuni e
spruzzano la loro bile cronica ogni qualvolta gli capita sotto il naso un che che superi la cerchia delle loro
capacità intellettive. Alle menti di molti di questi rappresentanti europei della fauna antropoide dell'Africa e
dell'America (cercopitechi, semnopitechi, miopitechi), la parola metafisica fa nascere fosche visioni di
nuvolaglie e di grigiume, grovigli caotici e masse tenebrose. In Francia il malinteso si estese fino ad
attribuire l'invenzione della metafisica ai tedeschi, e ricordo le lotte che ebbi a sostenere per fare accettare il
terribile vocabolo che insospettiva anche i benpensanti. Ora io nella parola "metafisica" non ci vedo nulla di
tenebroso; è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare "metafisica" e tanto più
metafisici mi appaiono quegli oggetti che per chiarezza di colore ed esattezza di misure sono agli antipodi
di ogni confusione e di ogni nebulosità. [da Noi metafisici del 1919 di de Chirico].
Roma 5 settembre 2000 (giubileo dell’Università)
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