SETTIMANA n. 4/03

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27 aprile 2014
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attualità pastorale
Dopo Costantino
fedi e laicità
La spinta per fare del cristianesimo la religione dell’impero fu avversata da san Martino. Capacità
critica similare è oggi richiesta alle fedi per non subire la privatizzazione della fede. L’insufficiente
laicità e le nostalgie della cristianità. Il caso francese e le domande per tutti.
Si pensa talvolta, parlando di una «svolta
costantiniana», che la conversione di Costantino nel 312, quando diventa signore di Roma
dopo la sua vittoria al ponte Milvio, e l’editto
di tolleranza firmato a Milano da Licinio nel
313, significhino l’avvio di un impero da subito cristiano. Le cose non sono andate così.
La cristianizzazione del sistema imperiale costituisce un lungo processo storico, segnato da
rapporti di forza politici e religiosi, con un ritorno del paganesimo con Giuliano l’apostata,
verso il 360, e una molto lenta trasformazione delle mentalità.
Si dovrebbe distinguere meglio le tappe di
questa complessa evoluzione: c’è stato anzitutto, con Costantino e a partire dall’editto di
Milano, la fine delle persecuzioni anticristiane e un insieme di misure che manifestano
una tolleranza sempre più ampia rispetto ai
cristiani. Ci sarà, alla fine del secolo, con Teodosio, la separazione ufficialmente proclamata fra impero e religione pagana, che si accompagna, con l’editto di Tessalonica, nel febbraio del 380, con il riconoscimento pubblico
della fede cattolica come legge dell’impero e
religione di stato.
Martino il riformatore. Ma l’intervento
del potere pubblico in favore del cristianesimo non deve oscurare la permanenza del pa-
ganesimo in numerosi settori della società, in
particolare nell’aristocrazia senatoriale a Roma, dove uomini di cultura, come il prefetto
Simmaco, si oppongono all’affermazione della fede cristiana, e anche nelle campagne dove
le devozioni pagane restano molto vive, come
lo mostrano, in Gallia, le polemiche del monaco e vescovo Martino.
Non bisogna perdere di vista questo scarto
che resta profondo fra potere politico che favorisce la religione cristiana e le mentalità che
restano attaccate alle tradizioni pagane. Si deve tener conto delle metamorfosi di tali tradizioni durante il Basso Impero, dopo il terzo secolo; come hanno chiarito Henri-Irénée Marrou e Peter Brown, gli uomini e donne della
tarda antichità, a differenza dei pagani dei due
primi secoli, sono affascinati dall’esperienza
religiosa. Si interrogano sull’aldilà. Cercano di
comprendere il mistero del mondo e delle divinità. La cristianizzazione dell’impero non
deve oscurare l’effervescenza religiosa interna
al paganesimo.
Se mai dovessimo stabilire un rapporto fra
impero romano in via di cristianizzazione e
società moderne, bisogna da subito prendere le misure di una radicale differenza. Nel
mondo dell’antichità pagana, poi cristiana,
fra vita religiosa e vita politica prevalgono relazioni di alleanza. La religione o le religioni
ispirano e animano le città. Ne sono il cemento. Potere politico e potere religioso beneficiano, ciascuno a suo modo, della sacralità che supera l’individuo. Per dirlo in forma
diretta, il cristianesimo poco a poco succede
al paganesimo come religione di stato. Constatazione esplicita che può avviare giudizi
più o meno perentori che segnano l’intera lettura della storia della Chiesa. Dopo Adolf von
Harnack, alcuni la considerano una deriva costante e un tradimento dell’evangelo di Cristo, sognando un ritorno alle origini presunte pure da ogni compromissione col potere
politico.
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Don Milani e poi?
Il cardinale di Firenze, G. Betori, ha annunciato su Toscana oggi (20 aprile) la formale
riabilitazione del volume di Milani, Esperienze pastorali (Lef, 1958). Non ci fu nessun
decreto di condanna ma la comunicazione
della Congregazione della dottrina della
fede al card. E. Della Costa di ritirare il libro dal commercio per motivi contingenti,
evitando ristampe. Cambiate le contingenze, viene meno ogni sospetto. Il Regno
lo presentò ampiamente e positivamente
(n. 12,1958) con un dossier e una recensione di S. Burgalassi, accettando poi le disposizioni del S. Ufficio (n.1,1959). La geniale novità dell’impostazione pastorale
del priore di Barbiana venne aspramente
criticata anche se ha continuato ad alimentare lo zelo pastorale di molti preti e laici.
L’attuale è una bella notizia velata dal rammarico del ritardo e delle occasioni perdute. Essa diventa un’appassionata richiesta di invenzione e di coraggio nell’annuncio del Vangelo a cui le nostre comunità cristiane non possono sottrarsi.
etica
La Corte e l’eterologa p. 3
vita ecclesiale
I due papi “santi” p. 4
società
La guerra “istituzionalizzata” p. 7
cultura
Le “parole” di M. Veladiano p. 14
settimana 27 aprile 2014 | n° 16
A
lla fine dell’anno anniversario dell’editto di Milano (firmato nel febbraio del 313), in occasione della visita all’Accademia di Francia del patriarca
Bartolomeo di Costantinopoli, il 28 febbraio
scorso, l’accademico mons. Claude Dagens, arcivescovo di Angoulême, ha letto quell’avvenimento sulla base delle sfide di oggi. Non per segnalare le continuità (cf. l’intervento del card.
Angelo Scola nel dicembre del 2012 in Sett.
1/2013 p. 3), ma le discontinuità e i richiami.
Dalla polarità cristianesimo-paganesimo si
passa a laicità-religioni, con suggestioni che stimolano sia la Chiesa come gli stati.
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settimana 27 aprile 2014 | n° 16
Di fronte a tali interpretazioni
critiche, è possibile opporvi una realtà storica, spesso mal conosciuta
ma molto vivace. Dal IV secolo la
fede cristiana in Dio si manifesta
come una forza critica, o piuttosto
come istanza di discernimento: si
tratta di sapere chi è veramente
conforme alla verità del Cristo e all’Evangelo nella relazione fra stato
cristiano e Chiesa.
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La croce non la porpora. Le
testimonianze migliori del fenomeno si trovano in un testo che è
stato molto largamene conosciuto
e diffuso dalla fine del quarto secolo. Si tratta della Vita Martini,
composta dal monaco Sulpizio Severo e nel quale si percepisce perché alcuni ambienti, soprattutto
monastici, non accettino che la
Chiesa franco-romana e i suoi vescovi si accomodino al secolo. Martino è il prototipo del combattimento spirituale e della denuncia
dei compromessi con il potere politico. Si sa che il soldato Martino,
venuto dalla Pannonia, ha incontrato il Cristo nella persona di un
povero con cui ha condiviso il
mantello, vicino ad Amiens, durante un inverno molto freddo. Ma
non sempre si conosce un secondo
racconto in cui, alla fine della stessa Vita Martini, il vescovo di Tours
è testimone di un’apparizione di
Satana, travestito da Cristo imperatore, coperto con un mantello di
porpora e con un diadema sul capo. Di fronte all’apparizione trionfante, Martino smaschera rapidamente la prepotenza: «No – afferma – il Signore Gesù non ha affatto predetto che tornerà rivestito di
porpora, né di un diadema ostensivo. Per quanto mi riguarda, non
crederò alla venuta di Cristo, se
non si presenta con gli abiti e
l’aspetto che aveva nella sua passione e se non porta chiari i segni
della croce» (S. Sévère, Vita Martini, 24.7, traduzione di J. Fontaine,
Sources chrétiennes 133, p. 309).
Divenuto vescovo, Martino è
stato fedele alla sua scoperta giovanile: sa che la sola forza dei cristiani è quella che viene dalla croce di Gesù Cristo. Non è per nulla
un santo trionfante. È un uomo
che ha vissuto sotto il segno del
dono di sé e della povertà. Non solo lotta per la causa di Cristo, ma
comprende se stesso dalla parte
del Cristo rifiutato, perseguitato,
oggetto di disprezzo e di insulti,
per tutto il tempo delle sue lotte
per l’evangelizzazione delle campagne. Davanti a un potere politico diventato cristiano, afferma nei
suoi atti la primazia della sequela e
dell’imitazione del Cristo povero.
Così si manifesta la missione
profetica della Chiesa davanti all’impero cristiano: non si tratta solo di resistere alle potenze del
mondo, si tratta di rendere esplicita la libertà della Chiesa e la volontà di far agire la carità del Cristo
nel mondo. Si può dire che Martino è stato nel IV secolo un vescovo
riformatore nella Chiesa franco-romana.
Inscriversi nella laicità. Sono convinto che la fede cristiana in
Dio può e deve inscriversi nelle nostre società cosiddette moderne,
con tutto quello che le caratterizza, i cui tratti sono indicati da parole spesso astratte come desacralizzazione, secolarizzazione, de-cristianizzazione e pluralismo religioso.
Ma l’importante non è contenuto nei termini, bensì nell’esigenza primaria di «inscriversi» (la
parola è di Péguy). Essa significa
che, come cristiani, non ci rassegniamo ad essere spettatori impotenti di evoluzioni irresistibili che
condannerebbero il cristianesimo
ad un’evacuazione più o meno totale. Come è detto nella Lettera dei
vescovi ai cattolici di Francia del
1996: «Ci teniamo ad essere riconosciuti non solo come eredi, solidali d’una storia nazionale e religiosa, ma anche come cittadini,
che partecipano della vita attuale
della società francese, che ne rispettano la laicità costitutiva e che
desiderano manifestarvi la vitalità
della loro fede».
Ma, prima di evocare le condizioni e le esigenze dell’inscrizione
del cristianesimo dentro la nostra
società, va riconosciuto il balzo
vertiginoso che oso fare, passando
senza precauzioni dal IV al XXI secolo e dall’impero divenuto cristiano alla Repubblica divenuta
laica.
È anzitutto chiaro che il sacro
non è pervasivo di tutto l’ordine
politico moderno, anche se esiste,
alla fine del XIX secolo, una sacralità repubblicana, dotata di una filosofia, di una morale e di un personale con l’incarico di incarnarla.
Bisogna ancora precisare: il modello che regge il mondo dell’antichità pagana, poi cristiana, è un
modello di relazioni ordinarie fra
il piano religioso e il piano politico.
Le nostre società moderne sono
sempre più rette da un modello fatto, se non di separazione, quanto
meno di distinzione e di distanza
fra Chiesa e stato, fra le autorità
spirituali e le autorità politiche.
Con l’affermazione conseguente
della non confessionalità dello stato e del suo non coinvolgimento
nell’ambito religioso.
Tenendo conto di ciò, resta da
capire la parte più complessa: la situazione offerta alle religioni e
specialmente alla religione cristiana, e più specificatamente ancora
alla Chiesa cattolica e ai cattolici,
nella società francese attuale.
marginalizzazione e presenza, sono senza dubbio interdipendenti.
Da un lato, le credenze religiose
sono rinviate alla sfera della vita
individuale, a quello che si chiama
il privato. Può succedere a dei credenti, cattolici o protestanti, che vivono nella nostra società, di interiorizzare tale separazione tra fede
personale e impegno pubblico.
L’ambito del credere resta un settore a lato dell’esistenza, come un
segreto nascosto nella coscienza. I
giovani subiscono talvolta le conseguenze di tale privatizzazione
della fede. Hanno difficoltà a esprimere le loro ragioni di credere, soprattutto quando li si deride. Vi è
qui un necessario lavoro educativo: come dare ai giovani cristiani i
modi di dire in libertà le ragioni
della fede davanti a chi afferma le
ragioni di altre adesioni religiose,
ebree o islamiche, come anche
non-credenti e agnostiche?
D’altro lato – ed è il paradosso
– le religioni sono oggi esposte sulla piazza pubblica. E questo vale
anzitutto per l’islam che è diventata la seconda religione più praticata di Francia e il referente principale della laicità, dal momento
che un ministro dell’Interno, divenuto presidente della Repubblica,
imitando Napoleone che, nel 1807,
ha unificato gli ebrei di Francia
sotto un unico Gran Rabbinato, ha
cercato di organizzare il culto musulmano.
Da questo momento ciò che si
dice e si pensa di tutte le religioni
dipende da ciò che si dice e si pensa dell’islam e dei musulmani, nei
quali molti percepiscono una minaccia per l’ordine pubblico, soprattutto se si considera che tale
religione relativamente nuova non
sembra capace di integrarsi nel regime di laicità.
Davanti a queste reazioni malfidenti più o meno giustificate, che
valgono anche in rapporto coi cattolici, il potere politico oscilla fra
due estremi: o percepisce realtà e
manifestazioni religiose come mi-
Claude Dagens
arcivescovo di Angoulême
ATTUALITÀ
n. 16 - 27 aprile 2014
settimanale - anno 49 (69)
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Credere e partecipare. Siamo posti davanti a un fenomeno
paradossale. Le religioni sono oggi, a un tempo, respinte, più o meno marginalizzate, eppure presenti sulla scena politica. Nel bene e
nel male le due caratteristiche,
nacce almeno potenziali da denunciare, o colloca il valore delle
religioni nell’ambito sociale o culturale come forze di solidarietà o
istituzioni di memoria, soprattutto se dispongono di un ricco patrimonio.
Ma, al di là di queste reazioni
opposte e difficilmente gestibili,
esiste una difficoltà più radicale
che tocca il terreno educativo. Si
tratta della «rottura della tradizione e della trasmissione» che si è
prodotta nella nostra società da circa quarant’anni. Ogni educatore
deve affrontare una sfida di rilievo: come permettere alle giovani
generazioni di appropriarsi di una
storia il più possibile comune, con
valori comuni e non solo con differenze e preferenze individuali?
E come far comprendere – e comprendere noi stessi – che abbiamo
bisogno di questa memoria comune per affrontare il presente, tanto
più che esso è segnato dall’incertezza e spesso dalla paura del futuro?
Permettetemi un sogno. In questa settimana di preghiera per
l’unità dei cristiani, ortodossi, protestanti e cattolici, non chiedo di
pregare ma di sperare che – a parte le enormi difficoltà che ci sono
davanti, le incomprensioni persistenti, i radicalismi risorgenti da
ogni dove, e in particolare dall’ambito religioso e politico – ci siano fra noi uomini e donne semplicemente ragionevoli capaci di un
confronto aperto, di spiegare i termini che usano, in particolare laicità e religione e anche cristianesimo, che si impegnano ad offrire
agli altri la possibilità di fare appello alla propria coscienza, alla libertà della coscienza e all’intelligenza e – perché no – alla loro reale disponibilità al rispetto, alla
comprensione e all’amore. Abbiamo la libertà di compiere questa
missione, se lo vogliamo.
Reg. Trib. di Bologna n. 3238 del 22-12-1966
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