Il consumo elettorale: la comunicazione politica in Italia da

DANIELE PITTERI
Il consumo elettorale: la comunicazione
politica in Italia da Berlusconi a oggi
Per parlare di comunicazione politica, prima ancora di entrare nello specifico di ciò che avviene in Italia, è opportuno delineare il tipo di rapporto
che si viene ad instaurare fra comunicatori e utenza, soprattutto fra comunicatori e un tipo di utenza abbastanza particolare, quella che i sociologi definiscono “consumatori”. Oggi consideriamo la comunicazione politica come
elemento della quotidianità, laddove per quotidianità si intende una presenza
costante sugli organi di informazione in grado di esercitare una pressione
sull’utenza, quindi sui potenziali elettori.
Dal 1994 in poi, cioè da quando Berlusconi ha fatto il proprio ingresso
sulla scena politica, è cambiato il concetto stesso di elettore: Berlusconi ha
cercato di uniformare il concetto di elettore a quello di consumatore impostando un movimento politico, prima ancora che un partito, su una serie di
valori e contenuti che presenta al pubblico degli elettori sotto forma di merce
da acquistare. Alla stregua di un’azienda, il movimento di Berlusconi propone il proprio prodotto esaltandone i vantaggi competitivi, per gli elettori e
per il sistema generale, rispetto alla concorrenza. Berlusconi ha sicuramente
portato un’innovazione molto forte rispetto al sistema politico preesistente e
alle modalità di offerta degli optional politici. La sua strategia è stata chiara
sin dall’inizio tanto è vero che ha organizzato il suo partito sfruttando la propria forza vendita, utilizzando fondamentalmente le strutture aziendali deputate alla vendita di spazi pubblicitari (non è un caso che alcuni presidenti delle regioni come Galan o Ghigo siano degli ex dirigenti di Publitalia) e politiche di marketing, di chiara matrice aziendalista, molto mirate.
Questa strategia ha provocato il profondo cambiamento di cui sopra, dal
momento che il suo ingresso sulla scena politica e la successiva vittoria elettorale hanno costretto le altre parti politiche a fare i conti con un tipo di strategia differente rispetto al passato. La strategia berlusconiana si è rivelata
molto aggressiva e al contempo molto innovativa rispetto alle modalità di
comunicazione politica alle quali l’Italia era abituata, rivoluzionandone il
contesto: anche la controparte ha cominciato a confrontarsi in modo diverso
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con gli elettori e quindi a considerare a sua volta gli elettori come potenziali
clienti, come consumatori. La politica è diventata una merce da vendere e le
varie aziende, centro-destra e centro-sinistra, riempiono di vantaggi il proprio prodotto tentando di convincere i consumatori/elettori ad acquistarlo.
Allora prima di tutto bisogna capire come si imposta il rapporto con il consumatore.
Oggi, ci troviamo di fronte ad una tipologia di consumo che ha subíto
evoluzioni radicali nel giro degli ultimi due decenni. Il primo grande cambiamento è avvenuto negli anni Ottanta, epoca in cui improvvisamente, per
una serie di motivi di ordine sociopolitico e culturale, c’è stata una presa di
coscienza del ruolo di consumatore. In passato le modalità di consumo erano
guidate da necessità di tipo pratico, necessità che negli anni Sessanta, per
esempio, erano prettamente materiali: l’Italia era un Paese in crescita, rinato
dopo una grande guerra che l’aveva dilaniato. Indubbiamente la ripresa è stata agevolata dagli aiuti economici che gli Stati Uniti d’ America hanno ampiamente elargito all’Italia, nazione di grande importanza nello scacchiere
politico e militare internazionale.
Ma la forza maggiore di rinascita è consistita nella volontà di riscatto
del popolo italiano che ha prodotto risultati straordinari: fra il 1959 e il 1960,
infatti, l’Italia ha avuto una crescita del prodotto interno lordo superiore al
10 per cento, dato che nel mondo occidentale rappresenta una cosa molto rara e, soprattutto all’epoca, unica. Questo ha creato la sensazione diffusa che
finalmente nel nostro Paese fosse tornato, più che la ricchezza, il benessere
sensazione che in termini di consumo si tradusse in una tendenza all’acquisizione del diritto di cittadinanza. Vale a dire che esistevano determinati
beni, considerati stabili e duraturi, che consentivano al consumatore di sentirsi parte di una nazione che stava rinascendo, che stava vivendo un momento di forte crescita economica. Questi beni erano il frigorifero, la lavatrice, il
telefono e così via. I sociologi, parlano di acquisizione del diritto di cittadinanza perché il possesso di questi beni in qualche modo cambiava la vita
consentendo, per esempio, all’emigrante a Torino di comunicare con i propri
genitori che vivevano a Caltanissetta. Il frigorifero per la prima volta permetteva una modalità di conservazione degli alimenti completamente diversa
dal momento che consentiva di fare la spesa anche solo una volta alla settimana, cioè quando si è liberi dal lavoro.
Questa prima parte del consumo, che trova il suo periodo di massimo
splendore negli anni Sessanta, si conclude più o meno alla fine degli stessi anni, momento in cui il contesto sociopolitico ed economico vive cambiamenti
tali da far parlare i sociologi di epoca della distinzione: una volta acquisito il
diritto di cittadinanza si comincia ad avvertire l’esigenza di distinguersi dagli
altri. Ormai tutti si sentono italiani, tutti hanno il televisore, il frigorifero, la
carne in scatola, la bacinella di moplen e il detersivo per lavare in lavatrice,
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ma c’è chi fa l’operaio e chi l’impiegato. C’è chi appartiene a un ceto che ha
un potere d’acquisto differente da chi appartiene a un altro ceto e lo segnala
tramite il possesso di determinati prodotti. La variabile distintiva principale
sta nel prezzo: i prodotti diventano un simbolo indicativo dello stato sociale
nella misura in cui dicono immediatamente agli altri la classe sociale di appartenenza di chi li possiede, diventano degli status symbol. Ad essa si accompagna una seconda variabile distintiva, legata alla tipologia di beni da acquisire. In quegli anni status symbol erano considerati, infatti, anche oggetti
quali i jeans o l’eskimo: gli anni Settanta sono caratterizzati dalla contestazione giovanile e operaia, momenti di frattura iniziali di una stagione difficile
per il paese. Chi aderiva alla protesta rifiutava questo sistema di beni simbolici, indicatori sociali delle diverse classi d’appartenenza, e al contempo sottolineava l’appartenenza ad un’ideologia contraria a questa utilizzando altri oggetti a loro volta simbolici di uno stato sociale.
È importante ricordare che verso la fine degli anni Sessanta, a fronte di
una stabilità dei consumi di primaria importanza, percentualmente aumenta
la spesa dei cosiddetti consumi secondari, vale a dire i consumi culturali: gli
italiani raggiunto il diritto di cittadinanza, quindi un certo benessere, cominciano a spendere i propri soldi anche per divertirsi. Questo andamento crescente resiste più o meno fino al 1972 anno della crisi petrolifera, periodo
che in Italia abbiamo chiamato dell’austerity dal momento che la vita del
Paese viene rivisitata in chiave parsimoniosa finalizzandola al risparmio
energetico. In questo stesso periodo l’Italia vive un momento politico particolarmente delicato determinato dall’insorgere del terrorismo, di una conflittualità sociale sempre più temibile tanto da indurre gli italiani a non uscire di
casa per un senso di paura diffuso. Nel 1977, inoltre, si assiste ad una nuova
contestazione studentesca che però rispetto a quella del ’68 avanza molto velocemente verso l’estremismo e la clandestinità non facendo altro che aumentare il clima di terrore: si scopre che alcune delle istituzioni di cui andava fiera l’Italia, le università ad esempio, si rivelano palestre di estremismo.
Questo sentimento di paura generalizzato accanto a quella contrazione
dei consumi già in essere si protrae fino al termine del decennio alla fine del
quale il nostro Paese vive un ulteriore cambiamento: gli anni Ottanta cominciano all’insegna di una seconda grande rivoluzione del consumo.
In quegli anni, infatti, sotto la spinta di quello che appare essere un momento di forte rinnovamento dell’Italia, periodo segnato dall’avvento sulla
scena politica di Bettino Craxi, si ha la sensazione che il Paese viva un rinnovato slancio economico anche se, nel volgere di pochi anni, ci si rende
amaramente conto del carattere illusorio di quella sensazione: gli italiani si
trovano di fronte ad un debito pubblico di proporzioni terzomondiste, ad una
gestione malata della cosa pubblica e di conseguenza anche della cosa privata; si accorgono di un’esasperata opacità dei sistemi di gestione clientelare
del potere assolutamente endemici ad un sistema come il nostro, ma che in
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quel periodo superavano la cosiddetta soglia di normalità. Al di là dei risultati, bisogna riconoscere a Craxi di essere stato capace di infondere una speranza nuova agli italiani e di averli convinti che il nostro Paese fosse nuovamente in fase di boom, che si aprissero nuove possibilità di arricchimento. Il
craxismo ha creato condizioni tali per cui gli italiani hanno avuto la sensazione di poter essere protagonisti della propria vita e quindi della vita pubblica, come se l’Italia fosse diventata un grande palcoscenico.
In termini di consumo questo ha favorito la comparsa di tre figure rimaste fino ad allora abbastanza nascoste per quanto fondamentali: il designer,
lo stilista e il pubblicitario. A ben pensarci queste tre figure creano superficie, apparenza: il designer è quello che progetta il modo in cui gli oggetti si
presentano al mondo; lo stilista progetta abiti quindi superfici. Per quanto riguarda il pubblicitario, è ovvio che il suo mestiere sia soprattutto apparenza.
I tre diventano i taumaturghi degli anni Ottanta, condizionano moltissimo il
decennio con la loro capacità di cogliere l’essenza di protagonismo venutasi
a sviluppare nel Paese. Si tratta di un protagonismo di matrice non egoistica
ma fortemente individualistica: i soggetti hanno voglia di esprimere se stessi
apertamente, di porsi nel mondo in maniera egoriferita. I sociologi parlano di
consumo teatralizzato, un consumo, cioè, fortemente legato all’apparire, all’acquisto di beni attraverso i quali denotare non più uno stato ma uno stile.
In quegli anni non si parla più di status symbol, ma di prodotti che denotano
agli altri più che il potere d’acquisto lo stile di vita, che diventano la chiave
di lettura primaria per capire chi è il soggetto-consumatore, che cosa pensa,
che cosa vorrebbe essere e verso che cosa tende.
Gli anni Ottanta hanno creato una consapevolezza individualistica del
consumo, hanno condotto il consumatore ad acquisire una capacità di decisione autonoma relativamente ai consumi da operare, hanno creato le condizioni affinché si sviluppasse un consumo slegato dal contesto socio-politico
generale dell’Italia. Ma la crisi che ha segnato la fine del decennio ha anche
reso l’Italia consapevole di essere un Paese pieno di debiti, terribilmente corrotto e con delle storture molte radicate e anche un po’ fastidiose. Il consumo
teatralizzato degli anni Ottanta, inteso anche come acquisto d’impulso, che
ha la sua ragion d’essere in quegli anni in cui si ha la sensazione di essere
parte di una società florida, favorisce dunque i soggetti nell’acquisizione individuale del loro essere consumatori ma, nel momento in cui si arriva alla
consapevolezza che la società ricca e florida non c’è più, il soggetto- consumatore abbandona il comportamento d’acquisto impulsivo e comincia a ragionare sui prodotti, a decidere cosa acquistare.
Si parla oggi di marketing maieutico per intendere una modalità nuova
di fare mercato a partire dagli stimoli che il consumatore dà alle aziende che
producono beni: il consumatore proietta sui prodotti la concezione che ha di
se stesso e del mondo che vive.
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Il passaggio dagli anni Ottanta agli anni Novanta segna dunque il cambiamento del consumatore che da individualista diventa, per così dire, personalista attento al benessere della propria persona ma consapevole del fatto che questo benessere personale è integrato al benessere degli altri. Si
fanno strada nuove sensibilità: la sensibilità alla salute diventa una sensibilità all’ambiente, da personale diventa sociale, la sensibilità personale ad
una vita tranquilla diventa sensibilità sociale nel momento in cui sono percepite in maniera forte problematiche legate al più ampio scenario mondiale, ma che in modo più o meno indiretto coinvolgono tutti.
Non è un caso che oggi si parli di cause related marketing per intendere
una nuova strategia aziendale, tesa ad un operare sul mercato da parte delle
imprese prevedendo azioni che apportino un valore aggiunto al marchio, che
siano in grado di valorizzarlo in un ambito anche profondamente diverso da
quello strettamente commerciale del prodotto. Diversi sono gli esempi: il latte Berna raccoglie un miliardo per la costruzione di un nuovo ambulatorio in
un ospedale pediatrico; l’Eni restaura la facciata di San Pietro; Dash raccoglie fondi per costruire un orfanotrofio nell’Africa dilaniata dalle guerre etniche. Non si tratta di sponsorizzazioni ma di azioni autonomamente decise
dalle aziende le quali vogliono dotare il proprio marchio di quei valori di tipo socio-culturale cui il consumatore è sensibile, valori, naturalmente, che
servono anche a creare fidelizzazione, a fare in modo che il consumatore annoveri nelle proprie opzioni di scelta caratteristiche diverse da quelle tradizionali – prezzo, qualità – e compia la propria scelta d’acquisto anche sulla
base di queste.
È questo il variegato quadro di riferimento all’interno del quale si inserisce la strategia, messa in atto da Berlusconi: trattare il possibile elettore come consumatore; vendere un prodotto politico, ideologico, e quindi non lavorare più sugli elementi di contenuto strategico, di promessa sui quali si basava prima la comunicazione politica. Dal 1994 egli offre il proprio prodotto
politico come il migliore possibile costringendo, in qualche modo, la parte
avversa ad adeguarsi alle nuove modalità di comunicazione.
Ci sono naturalmente alcuni punti critici: innanzitutto il fatto che gli italiani sono abbastanza intelligenti da distinguere un prodotto materiale come
una bottiglia di acqua minerale, da un prodotto ideale come quello di un voto
alle elezioni. La spinta all’acquisto di una bottiglia di acqua minerale, piuttosto che di un’altra, è di tipo razionale. L’acquisto di un determinato prodotto
politico rispetto ad un altro contempla sicuramente una parte di razionalità
ma c’è anche una forte parte di emozionalità, determinata dalla storia politica del nostro Paese che comunque è stata sempre polarizzata fra bianchi e
rossi, fra comunisti e democristiani, fra clericali e mangiatori di bambini, fra
Peppone e Don Camillo, e, per quanto siano cambiati i tempi, questa spinta
ideologica non è mai del tutto scomparsa.
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Inoltre, a partire dalla fine degli anni Ottanta, molti avvenimenti sono
intervenuti a modificare di volta in volta il contesto d’azione dei soggetti: la
caduta del muro di Berlino ad esempio, quindi la fine del regime comunista,
la sfiducia nel sistema di gestione del potere, l’affrancamento dal potere politico della magistratura, nonostante ora si abbia la sensazione che sia diventato un potere politico a sua volta. Infine, come si è visto, è sicuramente cambiata la capacità di discernimento del consumatore.
L’intuizione di Berlusconi, allora, è stata proprio di lavorare presentandosi con un prodotto politico medio, funzionale a conquistare quello che oggi i
sociologi chiamano consumatore maieutico, vale a dire quel consumatore che
ragiona sulle proprie scelte, un elettore mobile e non polarizzato. Va segnalata
comunque una certa debolezza della sua strategia se opposto ad uno schieramento non polarizzato: quando il capo della parte a lui avversa fu Prodi, ha
potuto soltanto lavorare sul tentativo di convincimento di quell’elettorato non
polarizzato; mentre, in modo molto più efficace, nel momento in cui il leader
è divenuto D’Alema, un ex-comunista, ha saputo sfruttare con maggior successo un sentimento non ancora di appartenenza ideologica della sinistra ma
di appartenenza ideologica avversa alla sinistra e quindi ha saputo lavorare
contemporaneamente sull’opposizione e sull’omologazione. L’omologazione
dell’elettorato, cui ha teso Berlusconi, va intesa come la ricerca di un consenso medio a fronte di un prodotto medio, non polarizzato, che in qualche modo
può accontentare tutti perché è un prodotto che non va contro qualcuno in
particolare ma può avere dei vantaggi per persone anche distanti fra di loro.
Berlusconi vende un prodotto in grado di soddisfare potenzialmente
chiunque, ma d’altra parte, quando insorge la necessità, vende un prodotto
polarizzato: in un anno e mezzo di governo D’Alema è riuscito in qualche
modo ad inculcare in quella parte di italiani avversa all’ideologia comunista
che c’era un comunista al governo, nonostante sia evidentemente illogico
pensare D’Alema come un novello Stalin.
Un prodotto politico medio in grado di raccogliere il più ampio pubblico
possibile, un prodotto inizialmente non polarizzato costruito su pochi e semplici elementi concettuali quali la novità, la proposta di ostacolare i comunisti al governo e il legittimo diritto degli italiani che vengono dal basso, dei
lavoratori, di prendere il potere, di decidere del proprio destino: chiara commistione, questa, di elementi razionali ed emozionali.
È innegabile che Berlusconi, al di là di qualsiasi giudizio di valore, abbia portato un’innovazione nelle modalità di relazione politica in Italia, talmente radicale che ne ha dovuto tener conto anche la sinistra nel momento in
cui si è trovata di fronte ad un uomo che, per la prima volta, non vendeva più
ideologia, quindi non lavorava più sulla sola emotività ma anche sulla razionalità degli elettori attraverso la presentazione dei vantaggi competitivi del
suo prodotto. La sinistra ha ricevuto un forte contraccolpo rispetto alle mo150
dalità secondo cui ha sempre gestito la comunicazione politica e il rapporto
con l’elettore che è di tipo ideologico ed emozionale. E allora anche la sinistra con l’Ulivo, crea un prodotto medio esattamente uguale a quello di Berlusconi ma che in più è capace di colpire il consumatore attraverso quell’elemento solidaristico al quale anche il consumatore che fa la sua scelta razionale, non è indifferente. Elemento che in Berlusconi invece manca del tutto.
Infatti, nel mettere a nudo le disfunzioni della sinistra, Berlusconi antepone
sempre al malessere dei cittadini quello delle imprese.
Chi ha la possibilità di leggere con un po’ di strumenti più articolati le
modalità di comunicazione che un politico attua, si rende immediatamente
conto che l’impostazione aziendalista di Berlusconi è profondamente compenetrata alla sua visione di politica. Ma quest’impostazione non può essere
utilizzata nel governo di un Paese per un motivo molto semplice: la visione
aziendalista tiene conto solo maggioranza, la visione di governo deve tener
conto anche della minoranza. La visione aziendalista è una visione conflittuale, nel senso che le decisioni si prendono rispettando il criterio del pragmatismo per cui si lavora solo sulle leve paganti per l’azienda e si eliminano
quelle ritenute improduttive. Ma quando questa logica viene applicata al
complesso sistema di gestione di una nazione inevitabilmente si creano delle
storture perché, volente o nolente, ci si deve confrontare con una fetta del
paese improduttiva (i pensionati per esempio) che viene penalizzata da una
politica del genere. In termini aziendali, i cosiddetti rami secchi che non producono utili vengono tagliati ed è giusto che sia così, ma in termini politici
questo ragionamento non regge per i motivi di cui si è detto prima. Probabilmente Berlusconi non ha in mente di governare l’Italia in tale modo, però
genera questo tipo di sensazione.
Il Polo, dal ’94 ad oggi, ha organizzato la propria comunicazione politica su pochissimi elementi. Nelle occasioni pubbliche tutti gli esponenti del
Polo non sono mai in contraddizione fra di loro perché utilizzano gli unici tre
concetti che riempiono il loro discorso e che ripetono costantemente. Da un
punto di vista comunicativo questo è molto efficace perché uno degli elementi su cui basa qualunque capacità comunicativa è quella della ripetizione.
La comunicazione pubblicitaria ha due elementi fondamentali, uno metaforico e uno anaforico: il primo serve a creare mondi fantastici, a produrre suggestioni capaci di toccare emotivamente il ricevente. Il procedimento anaforico rende razionale invece, lo sfasamento semantico operato dalla metafora
agendo sulla sfera del desiderio; cossicchè l’elemento metaforico è efficace
solo se sostenuto da una serie di elementi anaforici: elementi in parte strutturali e in parte retorici, relativi al discorso. I messaggi pubblicitari tendono alla ripetizione di alcuni concetti basilari quali le caratteristiche del prodotto, il
marchio, il nome dell’azienda produttrice, il logo del prodotto. Questo è un
meccanismo interno alla retorica della pubblicità che viene sempre affiancato dal meccanismo tecnico della ripetizione: il messaggio diventa tanto più
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efficace quanto più si vede, ma per vedersi deve avere anche una collocazione precisa e, quindi, deve essere ripetuto sempre nello stesso modo, nello
stesso spazio, alla stessa ora e con la stessa scadenza. Uno spot, pur capace
di creare suggestione e di toccare l’emotività, perde in efficacia se mandato
in onda una volta sola; l’efficacia sta appunto nella programmazione costante
all’ora in cui si è certi di raggiungere il proprio target.
L’elemento della ripetizione è fondamentale, e se Berlusconi lo ha capito sin dal 1994, la sinistra ha impiegato due anni per comprenderlo e per utilizzarlo in epoca Prodi in modo molto efficace, perdendo in epoca D’Alema
tale capacità anche perché la coalizione che lo sorreggeva era molto meno
compatta, per quanto composta suppergiù dagli stessi elementi di quella che
spalleggiava Prodi.
Nelle ultime elezioni regionali, volendo andare ad analizzare la comunicazione delle due parti, la sconfitta della sinistra è di ordine strategico-comunicativo: innanzitutto queste elezioni sono state la dimostrazione che la legge
sulla par condicio non è una legge liberticida perché ha vinto la parte più efficace dal punto di vista comunicativo. Berlusconi in questo caso si è rivolto
sia ad una parte di elettorato sicuramente fidelizzato che ormai comprava il
suo prodotto medio, sia ad una parte di elettorato che in qualche modo aveva
una qualche difficoltà ad interloquire con la parte avversa. L’elemento vincente dell’opposizione è stato quello di polarizzare la situazione, scelta di ordine strategico prima ancora che di contenuto, dal momento che ha costretto
anche il Governo a polarizzarsi a sua volta.
In un Paese come l’Italia in cui, come giustamente dice Cacciari, ci sono
delle tensioni nel tessuto sociale a causa di cambiamenti avvenuti secondo
modalità completamente diverse rispetto al passato, è indubbio che si sia arrivati alla rivendicazione da parte dei singoli territori della possibilità, se non
proprio di autogovernarsi, di avere voce in capitolo sul proprio governo. Le
elezioni amministrative, a fronte anche della nuova legge che consente maggiore autonomia alle Regioni, sono state l’espressione della possibilità di autogoverno di un territorio ma, se il governo centrale sposta questa sfida da un
livello territoriale ad un livello nazionale non fa altro che sotterrare la rivendicazione territoriale delle singole regioni, quindi va contro gli elettori. D’Alema in qualità di capo del Governo ha accettato la sfida di Berlusconi, ha
portato al centro del dibattito una questione così sentita in Italia quale quella
amministrativa territoriale e localizzata in cui l’interesse non è la vittoria nazionale ma la produttività e la possibilità di autogoverno che hanno i cittadini sul proprio territorio, perdendo così ogni fiducia da parte dei cittadini che
non si sono sentiti capiti nell’intimo bisogno di autogovernarsi.
Se la situazione generale è oggi più o meno quella descritta, va tuttavia
messo in evidenza come ancora una volta nel nostro Paese fare politica e comunicare politica seguano strade del tutto particolari, tali anche da produrre
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delle forti ed evidenti carenze. La comunicazione politica italiana è denotata
da alcuni profondi vuoti che ci inducono a pensare ad una capacità di relazione con l’elettorato - di tutte le parti politiche - quantomeno incompiuta, se
non addirittura inadeguata e per certi versi un po’ primitiva.
La comunicazione politica infatti avviene a vari livelli: esiste un primo livello gergale, interno ad un microcosmo che è quello parlamentare; c’è poi un
secondo livello, che è quello del dialogo fra i cittadini e i politici e che ormai
qui da noi si esplica solo attraverso il mezzo televisivo; si tratta di un tipo di comunicazione propagandistico di cui ancora una volta è stato Berlusconi il primo
a servirsi appieno sfruttandone le caratteristiche mediatiche per potenziare la
sua comunicazione. Esiste infine un terzo livello di comunicazione politica che
avviene anche attraverso i mezzi di comunicazione, ma soprattutto attraverso le
azioni, perché la politica comunica facendo, la politica è un prodotto che esiste
nel momento in cui si fa, è come il cinema, del cui prodotto si prende coscienza
nel momento in cui si forma davanti agli occhi di chi lo guarda.
Potremmo chiamare questo terzo livello di comunicazione politica segnaletico, caratterizzato cioè da alcuni elementi che i consumatori-elettori
hanno imparato a leggere. Il livello gergale è di stretta competenza dei parlamentari, quello propagandistico sfrutta le potenzialità dei mezzi di comunicazione, e la relazione con un consumatore/elettore non più totalmente polarizzato e radicato ad alcune cose come in passato. Il livello segnaletico finora
è stato completamente trascurato dalla politica italiana, al contrario che in altre nazioni laddove si presta invece molta attenzione a questo livello della
comunicazione politica. Basti fare un paragone con la Germania o con la
Francia in cui il rapporto fra politici ed elettori avviene su piccoli segnali
concreti di comunicazione intesi non come attuazione del prodotto politico
ma come indicazione della strategia politica. Quindi si parla già di politica,
di comunicazione sulla politica e non di comunicazione politica. In Italia la
comunicazione sulla politica è mancante: se si va ad analizzare il livello segnaletico si scopre che i politici italiani di entrambe le parti entrano in contraddizione relativamente a ciò che fanno e a ciò che esprimono; i segnali
che mandano sono completamente contrastanti con quelli che hanno mandato il giorno precedente e con quelli che manderanno il giorno successivo.
L’assenza di questo livello comunicativo è particolarmente grave perché
denota un’assenza ben più profonda, il reale senso del governo, il reale senso
dell’azione politica che i nostri politici fanno. Forse gli elettori non ne sono
ancora del tutto coscienti ingabbiati e irretiti come sono dalle strategie dialettiche, pubblicitarie e bassamente televisive della comunicazione politica. Ma
trattandosi principalmente di consumatori attenti non tarderanno a rendersene conto. Allora, forse, si aprirà una fase di attività politica matura anche nel
nostro Paese.
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