Nella presente edizione vengono pubblicate tutte le opere di Pindaro (520-518 a.C.), il più grande esponente della lirica corale arcaica. Nell’edizione alessandrina, la produzione di Pindaro, eccezionalmente ampia, occupava 17 libri ordinati per generi: Inni, Peani, Prosodi, Parteni, Iporchemi, Encomi, Treni, Epinici. Sopravvivono integralmente solo quattro libri degli Epinici, divisi secondo le gare panelleniche di cui celebravano i vincitori: essi contengono rispettivamente 14 odi Olimpiche, 12 Pitiche, 11 Nemee, 8 Istmiche. Le altre opere sono note solo da numerosi frammenti in cui appaiono grandiose descrizioni del mondo divino, racconti mitici, solenni enunciati etici e anche tratti di arguta grazia e voci d’amore. L’epinicio di Pindaro si articola secondo tre linee tematiche svolte con grande varietà di motivi: l’elogio, che contiene un succinto riferimento al vincitore e all’occasione sportiva; il mito, collegato sovente con la famiglia o con la patria del celebrato, che costituisce la parte di maggiore ampiezza e impegno poetico; e la gnome, ossia l’enunciazione di sentenze religiose e morali. Enzo Mandruzzato ci restituisce con la sua traduzione un “Pindaro arcaico” in tutta la sua lontananza: considerato per tutta l’antichità di gran lunga il maggiore dei lirici, come diceva Quintiliano, parrebbe infatti inassimilabile al mondo moderno. Eppure il soggiorno nel suo mondo arcaico — è la tesi del saggio introduttivo — non è meno attraente di quelle civiltà lontane che proprio oggi si cerca di conoscere e di non lasciar perire. Ma con la luce del mondo greco, l’energia dell’intelligenza e il gusto del gratuito, che sono il seme di tutte le conquiste della civiltà occidentale. Enzo Mandruzzato (Bologna, 1934) è uno dei più noti grecisti e latinisti italiani: sue sono le traduzioni dal greco di Esopo, Eschilo ed Euripide (oltre che di Pindaro) e dal latino di Fedro, Catullo, Marziale e Orazio. Ha scritto anche numerosi saggi, poesie e romanzi. Tra gli ultimi scritti ricordiamo: Il piacere del latino (Mondadori, 1991), Omero. Il racconto del mito (Mondadori, 1998), Diario di un dopoguerra 1918-1922 (Rizzoli, 2005) e I dèmoni. Undici confessioni apocrife (Il Poligrafo, 2006). BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE direttore GIOVANNI REALE segretari: Alberto Bellanti Vincenzo Cicero Diego Fusaro Giuseppe Girgenti Roberto Radice © 2010 RCS Libri S.p.A., Milano 978-88-58-70050-1 Prima edizione digitale 2010 da edizione Bompiani Il Pensiero Occidentale gennaio 2010 Immagine di copertina: Raffaello, Il Parnaso, Pindaro (part.). Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani Cover design: Polystudio. Visita il sito www.bompiani.eu e diventa fan di Bompiani su Facebook (http://www.facebook.com/pages/Bompiani/111059814766) Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. E’ vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata INTRODUZIONE di Enzo Mandruzzato PINDARO E IL SUO TEMPO La Beozia, d’estate — la stagione vera della Grecia — è un’immensa ciotola gialla e tragica, tra monti dai nomi memorabili, feconda e brulla, dove il lago Copaide — da cui si recidevano le canne per i auti — è scomparso e quello di Ilice s’a ossa netto, irregolare e atroce come una piaga. Tebe (Tive) è un villaggio rozzo e afoso, i ricordi di Orcomeno o di Cheronea o di Gla, un tempo sospesa sulle acque, sono sperduti nella calura. Il turista, quasi contento che non ci sia «niente da vedere», ha fretta di risalire gli orli della ciotola e di scorgere il mare o l’acropoli di Atene o Delfi. Anche per un turista di due millenni fa, Strabone, Tebe non aveva «neppure l’aspetto di quello che si dice un villaggio». Né Pausania più tardi la trovò molto diversa. Eppure, con l’aiuto delle guide, girò la Cadmea dalle sette porte, ricettacolo di tante memorie, vide le tombe di Melanippo, dei gli di An one, il luogo del loro rogo dove ancora restava la cenere, le sepolture dei personaggi del teatro attico, Giocasta e Tiresia, Eteocle e Polinice ai cui riti funebri si ripeteva ogni anno, fedele come il miracolo di S. Gennaro, il fenomeno del fumo che si divideva. Molti i templi, nei dintorni, tra cui quello caro a Pindaro di Apollo Ismenio, con opere di artisti come Prassitele o Fidia. Ma ciò che contava di più erano i ‘luoghi’: dove Cadmo vinse il Serpe, dove sedeva la profetessa Manto, dove la terra inghiottì An arao, e nessun animale veniva a brucarvi l’erba né alcun uccello si posava sulle colonne che delimitavano quello spazio. Al tempo di Pausania si confondevano le rovine già mitiche, come la dimora e il talamo di Alcmena, dove fu concepito Eracle, con quelle storiche come le tombe dei morti della guerra contro Filippo o della stessa casa di Pindaro, che Alessandro Magno aveva ordinato di risparmiare dalla distruzione. Pareva e pare ancora questo il prodigio della Beozia. Gli scavi non offrono che ‘luoghi’. Non si trovano pietre squadrate e si può sospettare che le famose mura di An one non fossero che terrapieni; del resto quelle da lui mosse per magia — «col canto» —, indicate a Pausania, erano informi. La terra — la Dea Madre — è in tutto ed eguaglia tutto. Non c’è neppure la sublime civetteria delle solitudini della campagna romana al tempo di Goethe o di Micene già al tempo di Strabone. Terra bonaria e senza tempo dove l’Ismeno si perde nella sterpaglia e tra i pollai e la fonte di Dirce, conosciuta solo dagli abitanti più umili che non si sono mai mossi di lì, si nasconde in un muretto di ciottoli come una serpe. Allora nalmente ci si può rendere conto di trovarsi in uno dei luoghi più segreti e spirituali d’Europa, nella Palestina della religiosità greca e veramente occidentale. Qui nacque Pindaro, a Tebe, la «madre mia» come diceva, e che onorò sempre con fedeltà, dolore e orgoglio; o più esattamente a Cinoscefale, nell’immediata campagna, dove la famiglia avrà avuto le sue terre ed egli avrà eretto il sacello della Dea Madre dove officiarono le glie. A Del si celebravano le Pitiche; «la festa del quinto anno» — così lui stesso immaginò il suo più antico ricordo — «con i suoi cortei di bovi, quando ebbi il primo nido tra le fasce, nell’amore». Era dunque l’agosto di quel deducibile 518 a.C.1 La famiglia era una delle più illustri di tutta la Beozia, gli Egidi, venuti da Sparta, poi ancora migratori ed «ecisti», in Laconia, a Tera, a Cirene, dove il ramo dei Battìadi sopravviveva a vicissitudini secolari (P. IV). Questo signi cava essere di sangue reale; il vero regno, come a Sparta, era fuso con il sacerdozio e non identi cato con il potere. Il culto avito era quello di Apollo Carnèo (P. V, 79-81), del cui tempio di Tera restano i ruderi con gra ti del tempo di Pindaro, devoti ed erotici. Della parlata beote non restano in Pindaro tracce pure, e non è vero che «atticizzasse» troppo come diceva Corinna, la celebre poetessa di Tanagra; ma è vero che il linguaggio della poesia lo portò presto lontano. Le prime fonti della poesia erano in Beozia ma da secoli vi attingevano poeti d’altri paesi, e attualmente il maestro della lirica corale era uno ionio, il brillante Simonide di Ceo. Beote fu invece l’autore della Teogonia, la Genesi dei greci, Esiodo, lettura primaria come quella di Omero, ma più data. Nulla però lo formò come le memorie viventi, i segni di ciò che noi diciamo «mito» e che per lui e per tutti era semplicemente la verità, la «parola» che è il ricordo e il ricordo che è, come ogni verità, presenza. Il suo patriottismo restò sempre qualcosa di cultuale e di universale; Pindaro poteva sentirsi al centro dell’Ellade e perciò del mondo, come molti greci, ma con un certo privilegio anche rispetto la ben più potente Sparta e la progredita Ionia. La vicina Del era il centro anche geogra co della terra. All’esterno, all’orizzonte, c’erano il grandioso e il favoloso: i regni d’oriente, la Lidia e l’Egitto, ora uni cati nell’Impero persiano, e nell’occidente di Ulisse l’avventurosa Sicilia, gli Etruschi e i Fenici, le isole dei Beati, e le colonne di Eracle che rimasero sempre per Pindaro il simbolo del limite umano, e i remoti Cimmerii (i Celti?), ospiti di Apollo, dai quali venivano ogni anno a Delo le offerte, avvolte nella paglia.2 Della sua prima giovinezza tebana restano pochi versi e alcuni aneddoti riguardanti sempre Corinna. Pare che la poetessa, bellissima donna del resto, non lo lasciasse in pace. Lo batté in gare di poesia (merito della bellezza, dice Pausania, o forse del purismo) ed è chiaro che quando rimproverò la collega Mìrtide di mettersi in gara con Pindaro — lei, «nata donna» — nascondeva una risata impertinente. Lo incolpò anche di fare poco uso del mito; Pindaro replicò con un inno a Tebe così copioso di mitologia che Corinna esclamò: «ma con la mano si semina, non col sacco!», al che Pindaro sbottò in un «porca beote!» che, in italiano, non suona bene. Ma è un esempio di traduzione come calco-errore. Non solo il porco non era nell’antichità animale discriminato, ma sia l’epiteto che l’ambiguo aggettivo erano condivisi da Pindaro, con suo vero sdegno (O. VI, 141-3). Rapporti allegramente borgognoni, com’è nello stile di certe vecchie aristocrazie. Oltre i monti c’erano due grandi richiami: la sacra Del e la già intelligente, la già nemica Atene. Quando vi andasse Pindaro e quanto e come vi stesse è problematico, perché la guerra era scoppiata subito dopo le riforme democratiche di Clistene del 508 e durò incattivita per un numero di anni e con una conclusione che Erodoto si dimenticò di precisare. Ma non si può credere che Pindaro ci andasse prima, in età infantile; dovettero esserci schiarite che aprirono, almeno eccezionalmente, quei con ni pieni di rancore comunale. Certo ad Atene ebbe il suo principale maestro, Laso di Ermione, riformatore del ditirambo, ricordato da Pindaro con considerazione. Vi conobbe forse Simonide e certo Eschilo, di cui ammirò «il linguaggio grande». Molte cose avrà ammirato ad Atene, e soprattutto gli ateniesi, la loro cultura acerba e pia, già protetta dai Pisistratidi, la loro «agorà tutta arte», come la evocò dopo la distruzione quando non poteva essere in gran parte che un indimenticabile ricordo. Ma la rivoluzione democratica non possiamo pensare che l’approvasse: una ristrutturazione numerica, che ignorava i dolci legami feudali, le tradizioni senza tempo delle fratrie, per no i patronimici, per no il ritmo lunare dell’anno e il sacrale numero dodici sostituiti dal computo solare e dall’aritmetico dieci. Pindaro avrà ignorato queste anticipazioni della Convention e avrà continuato a vedere «l’altra» Atene. Ma, da ragazzo e dopo, avrà anche trovata naturale la crociata del vecchio mondo, Sparta in testa, braccio secolare di Del , contro quella città orgogliosa. È notevole tuttavia che non dicesse mai una parola contro Atene. Potendo, loderà per no gli Alcmeonidi, se non come democratici, almeno come esuli che avevano tanto operato per la ricostruzione del tempio del co di Apollo distrutto da un incendio. Sarà felice, un giorno lontano, di poter celebrare Atene «cittadella dell’Ellade» e — nalmente — «divina». Se di Atene fu ospite, a Del fu di casa. L’aureo particolarismo greco permetteva più patrie, e Del era quella della fede, era la città di Apollo, il Dio per cui aveva, osserva Jaqueline Duchemin, una devozione più segreta. Dobbiamo pensarlo nell’intimità sacerdotale degli hosioi («i santi»), partecipe dei segreti del santuario in cui il misticismo più sincero si fondeva con quella che diciamo la «politica», categoria di cui non solo Pindaro e il vecchio mondo, ma neppure i nuovi uomini che venivano creandola avevano la minima coscienza. Avrà partecipato alla trascrizione e alla delicata interpretazione dei messaggi del Dio, trasmessi dalla voce della Pizia. Ciò poteva far parte delle competenze di un poeta o, come ancora si diceva, d’un «cantore», aoidós. «L’esprit de Delphes», quella Empfindlichkeit, quel riformismo sottile e quasi inconscio, quell’illuminismo devoto, hanno in uenzato e incoraggiato profondamente lo spirito e la poesia di Pindaro. Il culto è anche luogo, e particolarmente nel mondo antico il divino non era «dovunque». Pindaro è impensabile senza quelle pietre, quelle rovine ancora oggi incomparabili e diverse, nella valle solitaria dominata dalle Fedriadi, e soprattutto non deve essere pensato senza il suo sacerdozio, a cui l’oracolo stesso diede un eccezionale crisma3 e che sarà ricordato per secoli con un rito commosso.4 I dialoghi «del ci» di Plutarco danno un’idea chiara di quel mondo, in una fase molto più moderna ma non più interiore. Le eterne sentenze che brillavano sul tempio di Apollo erano sempre il punto di partenza di ogni meditazione. La più celebre, il «conosci te stesso», o meglio il suo signi cato ben de nito da Plutarco — la nullità del mortale di fronte all’eterno5 — appare in Pindaro non solo con frequenza, ma con la perentorietà non petita e la violenza del dogma. Così l’arte si faceva davvero servizio divino. E «servire » diventava gioia: un giorno — Pindaro era già un «celebrato profeta», aóidimos prophata — appena gli venne all’orecchio che nel santuario, per le Prossenie, mancavano i coreuti del sacro peana, Pindaro accorse «per togliere di di coltà i fedeli»: «sono sceso col cuore di un ragazzo che obbedisce alla nobile madre» (fr. Peani 6). Sono sceso: era il termine che si usava per la Pizia,6 di regola una ragazza delle montagne intorno a Del , il Parnasso di Apollo, l’Elicona dove Esiodo aveva «visto» la danza delle Muse. Non può essere casuale che le prime composizioni sicuramente databili siano connesse con il santuario. La prima senza controversie è la decima pitica, in onore di un campione degli Alèuadi, la più potente dinastia della Tessaglia con gli Scopadi, commissionata dal più autorevole, Torace, «tiranno» di Làrissa. Si apre con un’invocazione o meglio un nesso quasi programmatici: «Felice Lacedèmone, / fortunata Tessaglia, / l’una e l’altra regnate da una stirpe / del sangue di Eracle dalla nobile guerra…». Era il 498 e Pindaro aveva vent’anni. E evidente l’orgoglio del giovanissimo per quella «ospitalità cortese» e sono probabili suoi disegni o speranze su quella dinastia di cui approvava senza riserve la «giustizia nella Città» o, diremmo noi, la «politica». Ma era già una pericolosa, nuovissima politica. Nel 498, senza che nessuno se ne fosse veramente accorto, il memorabile scontro «tra la Grecia e l’Asia» era cominciato. Il cinquantennio delle «guerre mediche» avrebbe trasformato nel profondo la civiltà greca, e si sa che è quasi impossibile prescindere dall’avvenuto. Per no uno storico come Polibio rimprovera Pindaro d’avere tradito la storia, cioè la causa della Grecia, e cita questo passo di un iporchema: «dolce è la guerra per chi non ne ha esperienza: ma a chi la conosce ne trema in nitamente il cuore, se si avvicina…», completato da un’altra testimonianza: «ogni cittadino dia serenità alla vita pubblica e miri alla Pace, che fa grandi i cuori, che è tutta luce; tolga dalle menti il Disordine con le sue vendette, che porta povertà e nutre di odio la giovinezza…». Parole così responsabili, idealistiche e pindariche che postulano un «momento» giusti catore, in realtà non abbastanza precisato da Polibio. Ma i grecisti moderni, più patrioti dei greci, hanno calcato la mano; Ticho von Wilamowitz per esempio vide addirittura nella decima pitica un minaccioso sottinteso contro Nasso colpevole di difendersi dall’attacco persiano. Semplicemente, l’ode è al di fuori degli eventi; a parte lo spirito del ‘genere’ poetico e della gara liturgica, concepita sempre come «tregua», per Pindaro quegli eventi erano piuttosto gravi e minacciosi che giudicabili con un sentimento sicuro. Al tempo dell’ode si sapeva in concreto: che la Ionia, tributaria di Dario, il «re senza pari» come lo chiamerà un combattente, Eschilo, si era ribellata; che la rivolta era guidata da Aristagora ex tiranno di Mileto e suddito di Dario, compartecipe della spedizione contro la libera Nasso e geloso rivale dell’ammiraglio persiano; che aveva chiesto e non ottenuto l’aiuto di Sparta e che Atene ed Eretria avevano mandato alle consorelle ioniche un aiuto, poco più che formale, di dieci triremi; che i ribelli erano stati battuti e, con orrore universale, avevano incendiato il santuario della Dea Madre a Sardi. Il giudizio e il volere divino non si erano chiariti. Sui tragici sviluppi che seguirono, invece, non è pervenuta alcuna parola di Pindaro: la dura repressione della rivolta, la distruzione di Mileto che sconvolse il popolo ateniese, la spedizione punitiva di Dario contro Atene ed Eretria. Il «re senza pari» certo ebbe la mano pesante; non solo non ammise riparazioni, ma impose a tutte le Città greche una scelta tra la guerra e il vassallaggio; ma era anche vero che alla sua immensa forza univa la più provata venerazione per gli Dei della Grecia. Il mondo laico, lo stesso dualistico mondo cristiano, non può capire del tutto che cosa signi casse. Ci limitiamo a riferire il giudizio conclusivo che darà un politico realista e protagonista dei fatti come Temistocle: «tutto hanno fatto gli Dei e gli Eroi», e ad aggiungere che questo giudizio va inteso alla lettera. Prima di quegli eventi il volere degli Dei poteva trapelare solo attraverso le parole della profetessa di Del ; e Del era estremamente prudente o, come si dirà più tardi, «medizzava». Ma sarebbe un errore pensare alla banalità del calcolo o dello spavento. Più tardi il santuario non mancherà di coraggio e di una dignità che daranno pieno credito ai miracoli tramandati da Erodoto (VIII, 36-39). Questo Vaticano greco, che non godeva dei vantaggi del razionalismo e del dualismo moderni, sentiva tragicamente la propria responsabilità. L’ammiraglio di Dario, navigando verso l’Attica, si fermò a onorare Delo, dove era «nato» Apollo. Pareva continuare, accanto alla intollerabile violenza — la hybris —, la sfarzosa pietà di Creso di Lidia, compensata da un miracolo celebrato da Bacchilide.7 Ippia, il philómusos, il pio, pareva ricondurre ad Atene nonostante tutto il buon tempo, «il tempo saturnio» come fu ricordato, di suo padre Pisistrato. Era come se gravasse sull’Ellade una forma di vita così nuova da giusti care lo sgomento e il silenzio. Tutte le scelte delle Città ebbero una riserva non propriamente politica e non si risolsero in azione, tranne quelle di Atene. Ma la vittoria di Maratona fu l’evento chiari catore. Gli spartani, i primi soldati dell’Ellade, trattenuti senza disapprovazione di nessuno dalla particolare fase della luna, arrivarono tardi sul campo di battaglia e manifestarono una profonda soddisfazione su cui nessuno avrebbe ironizzato. Era una liberazione non solo dai persiani, ma dall’oscurità del futuro. Sul campo erano rimasti dalla parte «giusta» — come a Jemappes nel 1792 — duecento caduti. Il prudente Dario non ripeté la spedizione. Certo a Ecbàtana ci si proponeva di riprendere e risolvere de nitivamente la questione greca, ma in Grecia, proprio per la grandezza del pericolo passato, si poteva pensare che fosse nito e che si fosse tornati al mondo normale. Le odi di Pindaro del 490, 488 e 486 celebrano la virtù liale di Antìloco, il prodigio della Gorgone decapitata, la bellezza delle Càriti venerate ad Orcomeno. La democrazia ha esiliato un amico, Megacle, e Pindaro è lieto di celebrarne la vittoria, a Del (P. VII). Sempre a Del ha conosciuto il giovane, meraviglioso Trasibulo, degli Emmenidi di Agrigento, vincitori alle quadrighe, ai quali il poeta rende un omaggio eccezionale (P. VI). E Trasibulo, perfetto nelle gare pubbliche, è nel convito «dolce come un favo» e la sua presenza, come quella di Attide per Sa o, dissolve i duri con ni del reale in una tras guranione dionisiaca, leonardesca. L’«inganno» è prezioso, perciò reale, è un «grande mare d’oro» (fr. enc. 5). Nel 481, dopo una decisione travagliatissima8 e quattro anni di preparativi, il glio e successore di Dario, Serse, riprese la marcia, con mezzi e organizzazione enormemente più radicali. Anche la preparazione politica dovette essere adeguata. La storiogra a moderna nega fede sia all’alleanza preventiva con Cartagine che alle trattative per un soccorso da parte di Gelone di Siracusa, il più potente ‘tiranno’ di tutta l’Ellade; parrebbe impossibile che Gelone promettesse in buona fede 20.000 opliti mentre l’isola era minacciata dalla tradizionale nemica. Ma forse le due notizie si confermano reciprocamente: la grandiosità e l’ambizione un po’ ‘coloniale’ di Gelone erano altrettanto vere della repentinità delle alluvioni cartaginesi. Anche questa ebbe il carattere dell’imprevisto. In tal caso l’orgoglio di Sparta e Atene, che nonostante il pericolo ri utarono l’aiuto di Gelone perché condizionato da una proporzionata partecipazione al comando generale, fu la salvezza proprio della Sicilia e perciò il trionfo completo dell’Ellade. Nulla sappiamo meglio sulla spedizione di Serse che lo spirito con cui mosse il processionale esercito asiatico, gigantesca pantomima liturgica che ra gurava la marcia stessa di Zeus, presente e non visibile sul suo carro che precedeva quello del Re dei re; la presenza e il nome stesso di Serse erano sostitutivi di quelli del Dio supremo.9 La otta navigava di conserva all’esercito. L’uno e l’altra rappresentavano tutti i popoli, compresi i greci dei tre principali dialetti. Dalla solita imposizione di vassallaggio discrezionale — «dare la terra e l’acqua» — furono escluse Sparta e Atene, contro cui puntava la spedizione. Per tutti gli altri popoli la scelta fu penosa e non omogenea, in particolare tra i tessali dove Torace e gli Alèuadi erano lomedi accaniti, e in Beozia. All’assemblea di Corinto, Sparta, Atene, Platea e molte città soprattutto peloponnesiache giurarono la resistenza a oltranza e imposero ad Egina la pace con Atene e ne ottennero la preziosa alleanza. Nasceva, mal definibile anche per noi, un concetto nuovo. Per tutti, Atene dimostrò una larghezza di vedute che non signi cava meno del suo valore militare. Fallita la difesa nella valle di Tempe, la seconda strozzatura, le Termopili, sarebbero state una difesa indispensabile ma non de nitiva. Alle spalle si sarebbe forti cato l’Istmo, tagliando fuori Atene. La Pizia, con materna avvedutezza e misteriosa durezza verso i delegati ateniesi, ingiunse a questi di difendersi dietro «mura di legno». Con uguale intelligenza Temistocle interpretò giusto, trasferirsi sui mare. Quando Temistocle lo disse nell’assemblea sgomenta, si vide Cimone levarsi e appendere vistosamente il morso del suo cavallo al tempio di Pallade. Un gesto che forse spiega la ragione per cui a Posidone si sacri cavano cavalli, da tempo immemorabile, da quando i migratori si trovarono di fronte il mare. La popolazione civile fu trasferita quasi tutta a Salamina e un intero popolo si a dò alle navi. Del sancì il nuovo culto dei Venti; poco dopo un’eccezionale tempesta ristabilì a danno dei persiani una relativa parità di forze navali. La resistenza alle Termopili e il sacri cio di Leonida simboleggiarono la qualità del valore spartano, l’alké, la resistenza, come Salamina dimostrò quella di Atene, la vera vincitrice della battaglia e della guerra. Merito non poco contestato. E Pindaro da Egina, dove eseguiva la quinta istmica in onore di un campione della famiglia amatissima degli Psalichidi, lo rivendicava intero alle poche navi della sacra isola dorica: ma ora, in Ares, ora è testimone una terra d’Aiace, Salamina, che marinai d’Egina hanno salvata nella morte di uomini infiniti mentre il cielo di Zeus pioveva sangue. Ma subito, con uno dei suoi tratti di alta eloquenza, s’interrompe: — No, spegni il vanto nel silenzio. Zeus comparte bene e male, Zeus di tutto signore… E il futuro era davvero sulle ginocchia di Zeus: la guerra non solo non era nita, ma il destino di Tebe restava particolarmente e tragicamente incerto. L’oligarchia beote non aveva nulla a che fare con i ‘tiranni’ che si appoggiavano ai persiani contro le rivendicazioni popolari, e un « popolo» beote e patriota, vittima dell’oligarchia, dev’essere un anacronismo di Tucidide (III, 62, 4). C’era semplicemente divisione e smarrimento. La vecchia Beozia non aveva ‘accettato’ la guerra, cioè la realtà, e il sentimento dominante doveva essere stato proprio quello manifestato da Pindaro nei versi citati da Polibio. Alle Termopili molti tebani si erano battuti più come ostaggi che come alleati dei greci. Le città erano state salvate in extremis dalla rappresaglia persiana per intercessione e testimonianza dei macèdoni. Ora la Beozia aveva scelto duramente la fedeltà alla causa dell’invasore, e Tebe era divenuta il quartier generale di Mardonio che ora conduceva le operazioni. Serse, dopo Salamina, logicamente, era tornato; la cerimonia della presa di possesso, con l’alleanza di tutti gli Dei dei luoghi, si era trasformata in una guerra. Nell’anno seguente, a Platea, avvenne lo scontro decisivo, con la piena vittoria degli alleati sotto il comando di Pausania, re di Sparta. I beoti, che avevano di fronte proprio gli ateniesi, si batterono con tetro valore. Pausania assediò Tebe e impose la consegna dei responsabili dell’alleanza con Serse. Dolorosa scelta che si risolse con la loro consegna volontaria, favorita da qualche lusinga. Ma Pausania li fece uccidere tutti. La Beozia, distrutta e disonorata, era stata la maggiore vittima della guerra. Nessuno poteva capirlo più di Pindaro, ospite a Egina, insieme vicino e più staccato dagli avvenimenti. Pare che avesse anche lui i suoi morti, come quei «quattro valorosi» cui accenna nella quarta istmica, e compiangerà il comandante Asopodoro caduto per la causa sbagliata. Nella ottava istmica, scritta appunto ora a Egina e per un egineta, si solleva con immensa pena e volontà al mondo luminoso del mito e alla speranza: «Anche a me, / sebbene la mia anima sia triste, / domandano per lui la Musa d’oro… ». Si augurava che le due patrie, la vincitrice e la vinta, in una guerra ugualmente imposta e subita, si ricordassero di essere glie dello stesso padre, come era avvenuto al tempo della sua infanzia. E credeva ancora, come prima, nella Hesychia, la Pace, l’Ordine. Vedeva quella che diremmo — non c’è l’espressione nelle lingue moderne — una Provvidenza dell’evento, nella liberazione dal «macigno di Tantalo» dell’annessione persiana. Ma quando più tardi nel nome di questa «libertà» — non quella della democrazia — farà l’elogio di Atene, pare che i compatrioti se ne sdegnassero e lo multassero. Gli Ateniesi invece lo compensarono col doppio dell’ammenda, con la prossenìa, una statua e soprattutto una oggettiva ammirazione. Era nello stile delle due Città. Nel 476 Pindaro andò a visitare la patria di Trasibulo, la sfarzosa Sicilia. È pensabile che viaggiasse con Agesìdamo, olimpionìca di quell’anno e dedicatario della undicesima olimpica e della futura decima, già solennemente promessa, entrambe piene di letizia; e che si fermasse ospite suo a Locri Epize rii, dove scoprì il poeta Senocrate e il suo misterioso ritmo «locrese», una vera rivelazione per Pindaro, anzi una «provocazione» che lo lasciò felice e febbrile, simile (forse navigava) «al del no nel mare, mosso da un dolce suono di auto». pensabile in ne che la prima tappa siciliana fosse la reggia-fortezza di Ierone a Siracusa. La vittoria di Gelone sui cartaginesi — nello stesso giorno di Salamina, dice Erodoto — aveva aperto il periodo più splendido forse di tutta la storia della Sicilia. Non solo l’incubo fenicio pareva dissipato per sempre — e in e etti per settant’anni non si fece più sentire — ma pareva realizzato un miracolo anche maggiore, l’uni cazione dell’isola, sotto il duplice scettro degli Emmènidi di Agrigento e dei Dinomènidi di Siracusa, legati da studiati vincoli di matrimoni e uniti dal prestigio di Gelone. Il passato tempestoso — lotte spietate di classe, tirannie atroci, trapianti di intere popolazioni, costruzioni e distruzioni titaniche, uniche forse nella storia dell’antichità — pareva più remoto del mito. Gelone, eroico e democratico, saggio anche nella vittoria, riconosciuto «re» dal popolo siracusano per riconoscenza e ammirazione, aveva chiuso i tempi di Falaride e iniziato quelli di Creso. «L’abbondanza regnava ovunque», scrive Diodoro. Decine di migliaia di schiavi cartaginesi, prigionieri di guerra, lavoravano alla costruzione dei superbi templi di Agrigento e Siracusa, volti al sole nascente. Chi conosce la Sicilia ricorda i simbolici rocchi di colonne rimasti per sempre sbozzati nelle cave di Cusa. Agrigento, «la più bella delle città dei mortali», sul suo gigantesco tamburo dorato, e Siracusa, con i suoi chilometri di mura con uenti nel castello di Eurialo («la Borchia»), sono le sole città antiche che umilino anche per estensione le loro discendenti moderne. Quando Gelone morì, circa un anno prima della venuta di Pindaro, «tutta la folla dei cittadini — racconta Diodoro — l’accompagnò alla sepoltura e il popolo poi gli innalzò qui un monumento magni co e in seguito gli decretò gli onori dovuti agli Eroi»: una vera beati cazione. Per sua precisa volontà, gli era succeduto il fratello Terone e un altro fratello, Polizalo, aveva sposato la vedova, Damarete, figlia di Terone re di Agrigento. L’ammirazione di Pindaro era legittima, e anche una certa soggezione che traspare dalla prima olimpica, sebbene fosse accolto, possiamo credere, come meritava un poeta famoso che aveva già celebrato il re morto e onorato con due odi la città e la famiglia della regina (P. XII e VI). Si sentì simile a Demodoco nella reggia dei Feaci « molto cari agli Dei », quando «staccò dal chiodo la cetra» (vv. 21-22). Sapeva che lo ascoltavano «spiriti sapienti». Forse anche Simonide? Bacchilide mandava da lontano il suo quinto epinicio. Eschilo, certo presente alla prossima rappresentazione delle sue Etnee, era almeno atteso. Lì nell’«Isola», a Ortigia, dove la fonte Aretusa sgorgava dalle acque sacre dell’Alfeo di Olimpia, la più celebre delle odi pindariche legava Ierone a Pelope, il grande regno dell’occidente alle più remote tradizioni dell’Ellade cavalleresca. L’e etto sarà stato magni co; e solenne anche fu l’ode di un grado minore per il condottiero Cromio, cognato del re, la prima nemea, evocatrice di Eracle infante. Ma poi la con denza e l’amicizia nasceranno; due frammenti di un iporchema mostrano un Pindaro che sollecita dal re con molta grazia il dono di uno dei carri siciliani, unici al mondo. Poi, per molti anni, la distanza dello spazio e del potere faranno quell’amicizia sempre più delicata e grave. Ma ad Agrigento il poeta non fu più simile a Demodoco; qui si trovò tra amici e correligionari. Le Teossenie della terza olimpica erano un rito quasi di casa, e vi si celebravano i Dioscuri ed Elena, cioè la fraternità della giovinezza eroica e l’eterna bellezza; culto dorico che Pindaro fu commosso di riscoprire. La seconda olimpica contiene tutti i trion , quello dell’amicizia consolatrice, del sangue e del «mistero» comune, la sorte delle anime e la sorte di Terone. La critica tende più o meno a sentirci il neo ta (e niente può essere più stonato d’un neo ta) che molto avrebbe imparato nell’isola di Persefone e nella patria di Empedocle. Ma Pindaro veniva da Del , non meno di Eleusi e con più universale autorità madre dei ‘misteri’, L’eccezionalità del discorso non deve ingannarci. L’antico, e meno che mai del tempo di Pindaro, non nominava l’anima invano; e ancora in piena età imperiale neppure sospetteremmo nel sereno Plutarco tanta violenza mistica e un concetto dell’oltretomba così puntiglioso e addirittura medioevale se non ci fosse pervenuto il suo De sera. Quella eccezionalità ci dà invece la misura della spiritualità e della reciproca fede dell’ospitalità emmenide. Né fu la sola fraternità di spirito. La seconda istmica ci rivela a gran distanza e in certo senso per caso che Senocrate, il padre di Trasibulo, tranquillamente ignorato dalle fonti, incarnò quello che diremmo l’ideale cavalleresco di Pindaro, l’uomo «dal dolce fuoco» — glykéia orghé — che ispirava «gli a anni e gli agi» e la valorosa eleganza della vita cortese. Non mancava neppure il legame dei ri uti e delle inimicizie comuni, quei «corvi» che «stridono contro la sacra aquila di Zeus», e in cui gli scoliasti videro — ma tacendo prove e riferimenti che sarebbero stati in grado di conoscere — e molti moderni vedono ancora, i rivali Simonide e Bacchilide. Proprio per quella alta ‘cortesia’ ci domandiamo se era verosimile, in quell’atmosfera sacrale e regale, una polemica così personalistica a danno di due poeti autorevoli e molto bene accolti nelle due corti. La rivalità c’era, ma bisogna vedere quale tono poteva avere; una polemica letteraria in un’età senza ‘letteratura’ non è meno anacronistica che importuna. Si pensa a un altro duale (l’uso del duale — O. II 158 — è l’argomento principe), al dantesco « giusti son due» del canto di Ciacco, così poco chiaro — e lì si poteva essere più espliciti — che neppure gli immediati lettori e posteri seppero fare nomi plausibili. L’apparente invettiva deve conservare la nobile genericità o veridicità della gnome innica. Qui si parla dei falsi «sapienti», falsi perché non hanno la sapienza nativa, evidentemente mistica, posseduta dal re e dal cantore e altri presenti e assenti. Poteva esserci posto anche per il profano Simonide e il facile Bacchilide. Il quale, del resto, imitando palesemente Pindaro nel suo terzo epinicio, ha tutta l’aria di rispondere (magari proclamandosi, a scanso di equivoci, «usignolo di Ceo») con ugualmente alta «cortesia». Non sappiamo quanto durasse il soggiorno siciliano, cioè quando e come altre gare e vittorie lontane abbiano richiamato il poeta. Non sappiamo particolarmente se nel 474 fosse a Del , per la vittoria del dedicatario della nona pitica, o anche a Tebe, dove è stato accusato di dimenticarsi — proprio lui — non solo della Città, ma delle sue memorie; o se era ancora in Sicilia nell’anno dei due massimi trion del proprio ideale e di Ierone, la vittoria sugli Etruschi a Cuma e la fondazione di Etna. Quella ripeteva Salamina, assicurando i con ni dell’Ellade, questa simboleggiava — in certo senso tutti i trion erano simbolici agli occhi di Pindaro — l’a ermazione o la restaurazione del mondo dorico. Per altri era la cacciata dei vecchi cittadini ionici di Catania e la loro sostituzione con diecimila veterani ed emigrati di origine dorica, ma per Pindaro era la continuazione della marcia dell’antico Egimio e della sua «buona legge», una di quelle che non si scrivono e non si insegnano, esse pure «innate»; e per noi non meno mute e remote delle lapidi anonime e dei minuti dókana della pingue Laconia. Ma anche Pindaro, come Platone tanti anni dopo e in tutt’altro modo, doveva restare deluso nel sogno d’una «eunomìa», o «buona legislazione», siciliana. Il contrario di essa, l’«isonomìa», o «la legge uguale per tutti», trionfò rapidamente nell’isola. Nel 472 morì il buon Terone e gli successe il disastroso Trasideo che mosse guerra a Ierone, fu battuto, deposto e condannato a morte. Agrigento rivendicò la sua libertà, anche se non senza la protezione del re siracusano. Non sappiamo la sorte degli altri due Emmenidi di nostra conoscenza, Senocrate e Trasibulo. Pindaro celebrò la prestigiosa vittoria di Ierone del 470 mandandogli l’attuale prima pitica, una delle sue odi più solenni e gravi, in cui paragona il re a Filottete, gli indica l’esempio di Creso e gli ricorda l’avvenire, cioè il glio e la città dorica di cui questi era signore. Più tardi (si direbbe) gli inviò la seconda pitica, una delle più misteriose, il cui centro non è certo una vittoria agonale; forse è la comune tristezza, il solidale orgoglio di credere sempre e soltanto al proprio valore. Il paradigma non è più Creso ma Radamanto, il giusto dell’oltretomba, al di là del tempo e delle opinioni umane. Come nella seconda olimpica per Terone, crediamo che ci siano anche qui nemici comuni o meglio resi comuni dal sentimento del poeta. A loro è riservata la parte nale dell’ode, che ribadisce in tono minore e oscuro, d’intesa, ciò che è stato detto con l’a resco grandioso della prima parte. Quei «fanciulli» che prediligono le scimmie (le prepongono a un Radamanto, penseremmo, ma nessuno ha saputo spiegare de nitivamente questo simbolo), e così le «volpi» calunniatrici, debbono essere i nemici del re. Con i propri, Pindaro è più iroso e pronto alla vendetta — salva sempre la legge divina — ma sa anche che la vendetta, dal caso e prima dalla cattiva coscienza, verrà certo. Pindaro, che scrive da Tebe, era stato profondamente o eso, e certo in ciò che gli era più caro. In tal caso, non tanto da un’accusa di filo-tirannia come si suppone, quanto nella sua missione di poeta dei giusti. Nel 466 il pio re morì. In quell’istante a Del piombò a terra uno dei suoi doni votivi, la colonna di bronzo che secoli dopo ancora si mostrava; così rovinò la sua signoria. Il fratello minore dovette fuggire a Locri, le istituzioni d’un tempo furono ripristinate, i vecchi cittadini di Catania scacciarono i Dori e abolirono il nome di Etna. Quella che Pindaro aveva chiamato uno «stuolo rapace» — la maggioranza popolare — tenne il potere non senza imitare anche certi abusi della democrazia, come l’ostracismo, il diritto del popolo sovrano di esiliare senza processo qualunque cittadino. Non sappiamo né quando né dove Pindaro mandò a Trasibulo la sua seconda istmica, ma crederemmo senz’altro in occasione della morte di Senocrate. E la nostra memoria non può non evocare il dantesco Guido del Duca e la sua nostalgia del buon tempo antico. Non andava certo meglio nella madre patria. Con l’espandersi della potenza ateniese la democrazia ripullulava ovunque. Dalla dorica Egina Pindaro guardava con di denza e a volte con dolorosa disapprovazione le vicende di quella città scandalosa. Non è da escludere che contrapponendo la solida e forte «gloria del sangue» di un campione egineta (N. III) a quell’uomo «buio» che «assaggia innumerevoli valori», pensi ad Atene, al suo sperimentalismo politico, a quella violenta dialettica troppo lontana dall’ideale pindarico della Hesychia. Certo avrà riconosciuto le benemerenze di Cimone come difensore dell’Ellade e non poteva non ammirare quell’ateniese così ‘dorico’ e così leale sostenitore della leadership a due, Sparta e Atene, «le gambe» dell’oplita greco, come diceva, in lotta contro la Persia. Nel 468, all’Eurimedonte, Cimone aveva battuto il nemico, si sarebbe detto de nitivamente, e fu probabilmente allora che Pindaro levò il suo inno ad Atene, con grande sdegno dei concittadini. Ma le vittorie sul mondo extraellenico erano per lui qualcosa di sublime e negativo, il salvataggio da un male che avrebbe voluto inesistente; le celebrava ma poi tendeva a dimenticarle.10 Il suo ideale inconscio era un’Ellade articolata in spazi solenni e rispettati, dove i «fondatori di città» si avventuravano rari dietro l’imperioso consiglio di Apollo (P. IV). Soprattutto, il prestigio di Cimone era precario. Una ‘sinistra’, quella del giovane Pericle e dell’odiato E alte, guadagnava spazio, non senza l’irresistibile forza dell’imponderabile, della propaganda spicciola, dei piani inclinati. Ne era complice qualcosa di maligno che nasceva nel mondo dorico, di cui Pausania fu il terribile esempio. Non si era mai visto nella storia — ma la storiogra a non era nata — un caso Pausania. Il re, il vincitore di Platea, è corrotto dallo sfarzo persiano, ha rapporti con il nemico, mira a una signoria personale, profana la tradizione, lo stile, tutto quello che Pindaro chiama «la legge di Egimio». Tucidide lo dirà chiaro che Pausania distrusse il prestigio morale di Sparta, ciò che era anche una grande forza politica. Nel 464 a Sparta ne decisero la morte. Si era rifugiato nel tempio di Pallade; i luoghi sacri godevano d’un diritto d’asilo assolutamente inviolabile. Allora si vide la madre del re, in silenzio, posare una pietra sulla soglia. Su quella fu costruito il muro e la porta bloccata; lo spiarono e non permisero che spirasse nel luogo sacro, ma il sacrilegio restò. Al quale molti, probabilmente anche Pindaro, attribuirono il disastroso terremoto che avvenne poco dopo, che rase al suolo Sparta, provocò l’insurrezione dei Messeni e degli eterni schiavi Iloti e in ne causò la rottura con Atene. Mai si toccò meglio con mano quanto la serena Sparta fosse un accampamento di dominatori militari — gli Spartiati — su un mondo di schiavi pieni di odio. Cimone non tollerò, e accorse in aiuto all’assedio di Itome, la fortezza degli insorti. Non solo Itome non fu espugnata, ma gli spartani licenziarono quelle truppe, dice Plutarco, troppo ardimentose. Tornarono furiosi e la Città si vendicò dello smacco ostracizzando Cimone. La politica delle «due gambe» della Grecia era nita. Sormontò la democrazia di E alte, che osò diminuire non poco il potere della cittadella della tradizione, l’Areopago, del quale Eschilo nell’Orestea (458) difese con energia l’origine divina. L’assassinio di E alte non rallentò l’imperialismo democratico. Atene si lanciò in una guerra su tutti i fronti e di scala grandiosa, contro la Persia, a Cipro, in Egitto, e contemporaneamente contro i vicini, Corinto, Epidauro e naturalmente Egina. Sparta aveva ri utato nobilmente l’alleanza proposta dal nuovo Re dei re, Artaserse; ma poi non poté non intervenire, prima per procura e in ne direttamente. La provocazione più grave fu l’invasione da parte dei Focesi della piccola Doride, la culla della loro gente. Sparta vi mandò 11.500 opliti e pensò di fare della Beozia un antemurale contro Atene. Permise che Tebe ricostruisse le mura e diventasse ancora la capitale e la fortezza dell’antico paese. Come tanti anni prima, le due glie dell’Asopo, come si esprimevano la Pizia e Pindaro, combattevano a anco contro la hybris. Ma furono ancora meno fortunate. Atene batté Egina per mare e si lanciò sulla Beozia, saccheggiandola orrendamente e mirando a tagliare fuori gli opliti peloponnesiaci che marciavano per il ritorno. Ci si scontrò presso Tanagra, passata alla storia come una scon tta di Atene perché così la de nirono Tucidide (I, 108) e sulle sue orme il beote Plutarco. Ma Diodoro, che disponeva di più fonti e si pose già il problema, parla circostanziatamente di vittoria e Polieno ha letto da altre parti dettagli militari. Probabilmente Tucidide la giudicò una scon tta nella sostanza, perché gli ateniesi, nonostante le gravi perdite, non riuscirono ad impedire il ritorno degli opliti, che durante la marcia fecero allegramente strage dei preziosi olivi attici. Ad ogni modo, solo due mesi dopo, la guerra fu decisa a Enò ta, chiara e de nitiva scon tta dei beoti, che si batterono con disperazione. In una di queste due battaglie cadde quello Strepsiade che Pindaro rievoca nella settima istmica con dolore e ammirazione. Poco dopo tramontò anche Egina, per sempre. Atene le impose il disarmo, un pesante tributo e l’«alleanza». Era il 457, Pindaro aveva superato i sessant’anni. Verrà la pace e verrà anche la rivincita, col tempo. Dopo un decennio quando Atene, domata dalla sua stessa energia, aveva stabilito un con ne di zone d’in uenza con la Persia (450) e una tregua con Sparta, Tebe batté gli ateniesi a Coronea (448) e tornò il centro d’una risorta confederazione beote, con la restaurazione dei suoi antichi governi aristocratici. Tre anni dopo fu sancita una «pace di trent’anni» tra Sparta e Atene. In astratto, Pindaro morì — a ottant’anni, in Argo, a fianco dell’amato, meraviglioso Teòsseno — rasserenato e vendicato. Nei suoi epinici la severa tristezza viene sempre velata, perché non ci si presenta in gramaglie agli Dei, e la deprecazione, non meno del dolore, si puri ca nella gnome perché l’«invettiva» archilochea Pindaro si era severamente proposto di bandirla; e consigliava di chiudere nell’ombra il dolore dell’uomo. Ma sentì certo molto acutamente il tramonto di ciò che aveva amato e creduto eterno e mai veramente veduto, quello che noi diciamo troppo esternamente il suo ‘ideale aristocratico’ o, meglio, il suo arcaico mondo dorico. Soprattutto proprio nella sua apparente vittoria. Non era più il regno degli Eroi, quello di Pausania, o quello del tristo e corrotto Leotichide. I «buoni» erano spesso di là, erano un Aristide, un Cimone, un Temistocle; di là, lo sentiva, avvenivano tutti gli scandali, compresi quelli che Sofocle chiamava, con parola ambivalente e sacrale, deiná, qualcosa di terribile, bellissimo e invincibile, e nulla, aggiungeva, è più deinón dell’uomo. Di quell’uomo che per Pindaro era sempre «un sogno d’ombra», nulla senza il divino, anzi nulla proprio nella luce del divino. PINDARO «ARCAICO» Il tempio e l’ode, accostamento spontaneo che per primo fece Pindaro, è l’analogo della Divina Commedia come cattedrale gotica. Similitudini opposte per due poeti e due civiltà che le in nite distanze lasciano consimili. Si richiamano per la loro eccezionalità e per la comune distanza dal nostro punto di osservazione. Innanzi tutto il tempio dorico non era solo quello che vediamo, maestose colonne e misure simmetriche, l’opposto perciò del gotico. C’erano i fregi, il colore, gli ornati, il tetto — questa ovvietà così di cile da sostituire con l’immaginazione — il chiuso, il folto, l’abitato, il cultuale. Il peristilio non era che la cornice d’un quadro dominato dall’horror vacui. L’uomo arcaico colma sempre le pareti bianche. Vive in un mondo sonoro, pullulante e multicolore da cui non sa appartarsi. Si direbbe che l’avvento del razionale comporti la rarefazione e la solitudine, nel cielo e nella terra. Allora la geometria e il bianco trionfano: il Cinquecento, Versailles, i parchi all’italiana, i boulevards, le ville, i piani regolatori… A volte un incendio risolse il trapasso, come fu per la Roma neroniana. Le città moderne sono divenute tali prima delle necessità del traffico. Anche il cielo si fa spoglio, soprattutto di divinità. Sì allontanano (con i progressi dell’astronomia) e si riducono di numero. Nell’età di Cicerone, Varrone recuperò i nomi di decine di migliaia di antichissime divinità romane. I superstiti templi dell’India sovrabbondano di «Dei sconosciuti». Le odi di Pindaro avevano saghe già dimenticate nell’età ellenistica. Ogni angolo della Grecia ne era pieno, anzi del mondo. Erodoto reperiva un culto speci co nella minuscola Halo nell’Acaia Ftiotide (VII, 197). Il rapporto numerico uomodivinità era opposto a quello delle età moderne; intorno alla coppia Adamo-Eva alitarono innumerevoli potenze, quegli «angeli» la cui sola sezione ribelle ha per sempre costituito «legione» e, come si sa, non difettò mai nel mondo; nel monologo biblico di Jahweh non mancano strani plurali, com’è noto, e Jahweh stesso, ingiungendo di non onorare altro Dio, ne ammetteva implicitamente una pluralità nel vasto mondo «delle genti», gettata nell’ombra dalla «fedeltà» del suo popolo; ma non senza di coltà e tradimenti. Su questo politeismo esclusivista s’innesterà facilmente il monoteismo loso co. L’uomo era minimo e bisognoso del divino anche in questa povertà numerica, oltre che nella mortalità, nella debolezza e nell’ignoranza. Il mondo divino era la realtà, non meno di quella che le età della scienza hanno chiamato la «materia», concetto molto più incomprensibile per un Pindaro che per uno Schelling. Tutto questo ricordiamo brevemente per comprendere un poco questo poeta eccezionale, non meno unico di Dante, ma non altrettanto favorito dall’equivoco di tradizioni, principi e concezioni che riteniamo uguali o simili. I santi e i dogmi di Dante restano quelli della fede tradizionale. La lingua, l’imitazione, l’abitudine e la retorica ci illudono di capirlo. A Firenze c’è la sua «casa». Dante nella vita liturgica, o il Dante che assiste a un autodafé con orrore non ideologico (Purg. XXVII, 16-18), lo capiamo. Abbiamo un nome per quasi tutte le cose che furono sue, continuate o no. Ma per Pindaro non abbiamo nessun nome, neppure equivoco. Gli stessi «agoni» non esistono; ‘Dio’ si traduce in tutte le lingue moderne, ma non in greco; siamo tutti d’accordo, per no gli atei, che il politeismo è una forma inferiore di religiosità, senza considerare che il popolo più religioso del mondo, gli indiani, è politeista e che il Mahatma, colpito a morte, cadde invocando Rama. Ma per il politeismo non c’è tolleranza neppure in questi tempi di mani tese tra fedi che si sono selvaggiamente combattute. Non c’è storico che non si rallegri di promuovere al monoteismo (o ‘quasi’) Eschilo, o Pindaro, o Seneca. I quali non avrebbero capito, esattamente come Gandhi, poiché ‘politeismo’ e ‘monoteismo’ non erano termini opposti e neppure legittimi. Il divino (to theion) era inesauribile, molto più della stessa foltissima vita. Tutti i luoghi avevano Dei e, dice Pindaro, «Dio è tutto». Ovunque si era loro ospiti e viaggiando ci si informava del loro nome «oggettivo».11 Durante la sua marcia, Serse dava ordini severi perché i luoghi sacri fossero individuati e rispettati. I più antichi abitatori erano i più informati sui loro Dei e sulle loro vicende; era questo il «mito» o il «logos», cioè la «parola» dei popoli. Da essa attingevano i logogra e la stessa «ricerca» — o in greco «storia» — di un Erodoto. Ci fu una suprema responsabilità della trasmissione della parola veridica, il logos étymos come si dirà poi, distinta dalle parole irresponsabili. Alla base del mito — come della liturgia — c’è l’orrore della smemoratezza, cioè del mito senza fede. In età mature, Cesare, a contatto con i Celti, popolo di civiltà arcaica, stupì che i loro bardi ricordassero con esattezza lunghissimi poemi, e osservò che la scoperta della scrittura aveva ridotto la capacità mnemonica. Non pensò che la perdita consapevole del proprio passato non è meno orribile per un popolo che per un individuo. Pindaro ereditò questo concetto solenne del mito come verità, cioè come «ricordo», ciò che salva dall’oblio (lethe) ed è appunto a-létheia; e perciò del dovere, indefettibile come il Giuramento (orkos), d’un’assoluta veridicità. Non c’è nessuna retorica nel suo continuo «in verità vi dico», in quella «verità» che sente inerente alle stesse gare panelleniche, che sono tradizione e rivelazione. Ascoltava certo con devozione le memorie delle famiglie, delle comunità e dei sacerdoti e ne nutriva la propria cultura, anzi, come diceva, la propria «sapienza», sophía. Sentiva troppo bene che il logos è idealmente anteriore a qualunque parola scritta, era la rivelazione data dal tempo degli Eroi, alle origini, in un tempo la cui perdita gli rendeva più preziosa la «parola» e più venerandi i segni e i simboli che erano sopravvissuti, come immagini o formule sacre, alla loro stessa intelleggibilità. Ma non senza che mancassero da parte sua — il sophós è un interprete12 — cautelosi ritocchi e revisioni.13 Colla parola scritta il mito — e la liturgia, «ripetizione» del non dimenticabile — perderanno la loro vera ragione di essere. Il logos assumerà progressivamente un signi cato opposto. Con la verità nascerà la menzogna e il sophós diventerà un personaggio libresco, problematico e isolato, quello che diciamo l’uomo di cultura. È signi cativo che ci manchi la parola per il ‘medioevo’ pindarico. ‘Arcaismo’ resta il termine più accettabile, ma non riscattato dall’accezione implicita dell’incompiutezza e da quella gratuita della cupezza e della ‘barbarie’. Vico concepiva l’uomo omerico come una sorta di centauro. Tutta la secolare riscoperta e la rivalutazione dell’antichità è avvenuta in chiave di razionalismo e poi illuminismo. Per no la nostalgia romantica della grecità era rivolta al momento più maturo del grande secolo, e il caso di Goethe, entusiasta di Euripide e non di un Eschilo, era tutt’altro che eccezionale. Eccezionale, anche in questo, fu Hölderlin. La grande lologia ottocentesca, di ispirazione positivista, cercò con venerazione intuizioni e precorrimenti scienti ci, frugando e illuminando gli sparsi frantumi. Si fecero severe distinzioni fra tempi, popoli e classi, Ioni illuminati e Dori retrivi, democrazie progressiste e aristocrazie chiuse, aggrappate ai propri privilegi, «al vecchio mondo della mitologia», ai giochi panellenici e alla poesia corale. Non abbastanza il merito estetico e l’analogia ideologica — «Pindaro come Bossuet» — salvarono quel tempo corrusco e sconosciuto. Eppure ciò che più l’uomo arcaico ignora è proprio il senso dell’incompletezza, il petrarchesco e già romantico inexpletum quiddam. Le proprie esperienze, le proprie «sentenze», riempiono il mondo; neppure l’esclusione dal mistero e dall’impossibile, dalle «colonne d’Eracle» motivo così insistente in Pindaro, dà la tristezza della privazione spirituale. Il titanismo non tenta e il dottor Faust non è ancora nato. Dante si appaga senza pentimenti del «quia», del quale del resto conosce benissimo i limiti; per quanto lo riguarda, sa anche ciò che l’attende nell’al di là, un purgatorio particolarmente laborioso per ciò che concerne la «superbia» (Purg. XIII, 136-8). Solo questa assenza dell’inde nito rese possibile un poema esaustivo della verità, come quello dantesco. Ma non occorreva tanta scienza. Per quanto il mondo fosse lacunoso, i conti tornavano sempre. Dio era in nito e la storia era nulla. Anche per Pindaro la storia era nulla e il tempo qualcosa di unitario. C’erano due piani speculari, come il cielo e la terra, il divino e l’umano. Erodoto distingue due sole età, quella degli Dei e degli Eroi, alla quale appartiene anche Minosse, e «quella che diciamo la generazione degli uomini» (III, 123). Ma la atemporalità di quel cielo, che non si cala più all’umano, ma lo illumina e lo muove, gli comunica la stessa natura meravigliosamente fenomenica. La storia non fa, non si svolge, non ha progetti e ni. Come per Dante, dopo gli «avventi», non ci sono che eventi; per Dante, veri turni di potere14 e per Pindaro misteriosi corsi e ricorsi delle grandi casate.15 Su un piano privo della terza dimensione, gli uomini sono uguali nella virtù e nella colpa. Non c’è progresso né preistoria né «mito» (Dante non dubita della realtà storica di un Ulisse o di un Rifeo) e neppure la poesia e l’arte, come categoria pura. Al di fuori del «vero» non c’è che il presente, quel multicolore presente di cui la vista non si stancava. La vista è il sentimento principale dell’uomo arcaico; non solo Pindaro è un grande visivo. La stessa sintesi dei fatti è di regola una visione ed è inevitabile pensare alle «metope» delle sculture arcaiche, greca e romanica, agli artisti di Selinunte come a Wiligelmo o all’Antelami. Le distanze non dividono e il mondo arcaico, ripetiamolo, è l’opposto dell’uniformità. La quarta pitica, la più narrativa e la più «romantica» delle odi di Pindaro, è un immenso fregio in cui spiccano le metope dell’apparizione di Giasone o della venuta di Pelia. In Erodoto, narratore di fatti umani, sono forse ancora più evidenti. Al centro di tutta la saga shakespeariana di Cleomene, ricchissima di motivi potenzialmente psicologici e patologici, il narratore vede soprattutto un gesto, le dita del re che fanno il computo delle lune della gravidanza della sposa (VI, 69). L’ultima visione della saga presenta il maligno seduto sul sacco del denaro del tradimento (VI, 72). Arione appare in una prima metopa sulla poppa della nave da cui si getterà in mare e in una seconda a Corinto, già salvato da un del no, ma in entrambe con l’abito di gala dell’aedo (I, 24). Il particolare (le dita di Cleomene, il sandalo di Giasone ecc.) come ‘centro’ visivo e sintesi narrativa ha una logica fantastica di misteriosa necessità. In Erodoto la successione degli eventi ha a volte le tipiche sequenze del Novellino.16 Cominciamo a non meravigliarci dei «voli pindarici», e vedremo che in sostanza il modo di raccontare di Pindaro non di erisce molto da quello del «padre della storia». Questa gioia di guardare spiega l’amore per l’eleganza, la vita bella, l’‘oggetto’ in particolare. Erodoto, che semina lacune e le colma qualche volta per caso, descrive da tecnico la corazza di lino che fu per gli spartani (e per lui) un casus belli molto più onorevole di quello puramente politico (III, 47). (Anche Elena di Sparta fu casus belli: mai donna fu più onorata di essere oggetto.) Signi cativo l’episodio di Policrate, signore di Samo, minacciosamente perseguitato dalla buona fortuna. Timoroso dell’«invidia degli Dei», accettò il consiglio di sacri care a loro «la cosa a cui più dava valore». Pensò a lungo e dovette riconoscere che era un suo splendido anello, ben descritto da Erodoto. Lo gettò in mare con profondo dolore. Fu il suo sacri cio di Isacco, anche perché l’invidia degli Dei non puniva la fortuna ma la sempre presunta autonomia umana. E come ad Abramo, il dono fu graziosamente reso (sia pure con stile occidentale, attraverso l’allegro Caso, che glielo fece trovare a banchetto nel ventre d’un pesce). Inutile ricordare, durante la «barbarie ritornata» (molto signi cativa l’infelice espressione del Vico), il fascino delle pietre preziose, i lucenti versi dell’Intelligenza, le «preziose gioie» del Paradiso dantesco, il suo Eden che è una prodigiosa ore ceria su un nitido smalto. Non altrimenti sentiva Pindaro. L’oro, il simbolo con cui s’apre la prima olimpica, «che la tarma non guasta ed è fortissimo sul cuore dei mortali», può ben essere « glio di Zeus» (fr. inc. 97). Il simbolo della poesia, anche per Pindaro missione e allegoria di verità, è un irrepetibile manufatto che la Musa fonde in «oro e candido avorio e ordaliso / raccolto lungo il mare alla rugiada» (N. VII, 1179). Altro che cupezza e ieraticità. L’uomo arcaico sente tutto in chiave di quella che diceva la heorté, la festa-solennità in cui l’onnipresente vita associata trionfava come la natura in una giornata di sole. Manca del tutto il concetto di festa come ‘riposo’ e non c’è niente di meno pindarico d’una «triste domenica». La festa comincia già nel concetto di dolore come una sorta di vergogna: «ed è bene nascondere nell’ombra / la sventura, divina e inaccettabile» (fr. Inni. 4), e culmina proprio nella grande gara rituale, di cui l’inno è il « ore», per tradurre l’irrepetibile áoton, che è orealità ma sta ai ori conosciuti come un animale araldico a quelli della storia naturale. Pindaro condanna con tutta l’anima «chi amministra nel chiuso della casa / la sua ricchezza, e intanto ingiuria e irride…». Tra le sue virtù cardinali c’è quella che Erodoto chiama la megaloprépeia e che si traduce perfettamente — concetto, accezioni e rilievo sociale — con la «larghezza» raccomandata da Brunetto Latini17 o la «magni cenzia» esaltata nella giornata culminante del Decameron. L’episodio erodoteo di Silosonte18 potrebbe essere benissimo di Boccaccio e molti gesti della decima giornata sono di un mondo pindarico. «Donare» è la grande virtù che Pindaro raccomanda al re Ierone (P. I, 174); e «profondere è gioia». Davvero non vede soddisfazione più schietta della «gioia di contendere / con tutti i greci, e il lusso dei cavalli» (I. IV, 51-52). Senza questo sentimento non possiamo capire come «allevare cavalli» sia virtù così alta e commovente; è il commovente del gratuito. Osservare che il cavallo è il simbolo delle aristocrazie è vero ma un po’ astratto; ed è vero anche che se l o potevano permettere solo i ricchi, come dice Aristotele, ma mettere sullo stesso piano la quadriga pindarica e la Rolls-Royce non è «discrezione» di storico. L’oro, il dono, la stessa «mercede» (misthós) data al poeta — tanto rilevata da scoliasti e da critici, particolarmente italiani — fa sempre parte di quella luce, non è concetto economico; un’economia pura non esiste per Pindaro, come per Dante e per no per Machiavelli, così medioevale di tempra e di gusto al confronto con l’amico Guicciardini. Pindaro fu certo poeta delle aristocrazie, ma con uno spirito che tutte quelle che noi diciamo classi contribuivano, secondo i ruoli, a perpetuare, nonostante certi sordi, ineguali sconvolgimenti. Le maturazioni sociali sono sempre collettive e inespresse fino alle rivoluzioni. Tutto questo reclama l’analogia con quel gotico che cori termine pindarico chiamiamo « orito», quando le età ferree — per Pindaro, il mondo di Esiodo — versavano la loro energia nella copiosità e la forza nella grazia o nel sorriso, senza perdere il loro massiccio patrimonio di certezze. L’analogia ci fa pensare che gli eccezionali Rinascimenti — Fidia, Sofocle o Michelangelo — sono una falda labile tra queste due lunghe età di cui, a dispetto dell’equivoco concetto di derivazione, è necessario riconoscere l’autonomia e la compiutezza. Abbiamo parlato di ‘gusti’ e ‘ruoli’ più che di personalità come ormai le intendiamo: non la scienza mancava, sebbene episodica e inseparabile da quella aneddotica esemplare con la quale è stata tramandata (il caso Talete); mancava ciò che diciamo la psicologia. Per questo non abbiamo potuto fare la storia di Pindaro, che pure fu un personaggio; lui stesso non avrebbe saputo farla. Contemporanei e posteri immediati non ci hanno tramandato di lui che miracoli,19 nomi,20 luoghi e sentenze, appunto le categorie della letteratura arcaica. Non si può parlare di reticenza, perché Pindaro non vedeva ragione di tacere di sé nonostante l’u cialità dell’inno, né si può incolpare la pochezza quantitativa delle notizie che è di quasi tutti gli scrittori dell’antichità. Solo l’ombra dell’età si avverte, e magari a dispetto dei dati cronologici esterni: di solito fredde cifre tramandate dagli scoliasti che disponevano degli elenchi dei vincitori delle gare olimpiche e pitiche. Ne consegue che le Nemee e le Istmiche a ondano quasi tutte nel buio. Le puntigliose questioni cronologiche si basano sulla scelta tra cose eterogenee, dati esterni e poesia, cifre e stile, cifre e storia interiore. Il caso più urtante è quello dell’undicesima pitica, per la quale la scelta tra il 474 e il 454 delle tabelle cronologiche signi ca attribuire un sentimento così eccezionalmente oraziano (vv. 85 sgg.) o a un Pindaro nel ore degli anni o a un Pindaro vegliardo, e fare della sua inaspettata lode per la mediocritas, sociale e non, o uno stato d’animo o una sorta di estrema conversione. Per di più, il più probabile 474 non è a atto all’unisono con la Stimmung della pitica nona, certamente di questo anno. Complessivamente, tranne la breve aurora almeno riconoscibile della decima pitica, e il tardo tramonto dell’austera ottava, la poesia di Pindaro non ha storia. Analoga delusione sul piano concettuale. Si direbbe che l’uomo arcaico abbia realizzato alla lettera l’ideale storicistico più maturo, espresso da Ernesto Renan, «la convivence de toutes les choses». È stata molto rilevata l’osservazione di Erodoto sulla relatività della morale, passo che in realtà non ha nulla a che fare con lo scetticismo etico (III, 38). Ma Pindaro può dare sorprese anche maggiori. La sua severa dirittura non gl’impedisce di raccomandare l’adattabilità del polipo, consiglio pratico che condivide con il prosaico e rancoroso Teognide (fr. inc. 10). Nessuno più di lui onora gli Dei e la loro giustizia, ma gli capita di asserire che «nelle opere vince la Tyche, non la forza», e dobbiamo ricordarci con un po’ di sforzo che la Tyche è anche un «Dio in incognito» (fr. inc. 9); un altro frammento elogia la legge del più forte (fr. inc. 49) e una nemea asserisce che «un più forte elimina l’anteriore diritto» (N. IX, 35-6). Dobbiamo ancora ricordarci del signi cato sacro dell’evento, che dà luogo a una sorta di amoralismo religioso. È interessante — lo notiamo di sfuggita come un esempio — il termine «sventura» (symphoré) che Erodoto usa per ciò che noi diremmo soltanto uxoricidio (III, 50). Del resto l’aretà viene dagli Dei; l’autonomia umana, che è sempre colpa, si estende in qualche misura sul piano etico. Tutti ricordano come l’amore fosse per Elena una vera e propria imposizione della spietata Afrodite. Ma appunto, la psicologia non esiste. L’arte gurativa dà di tutto questo un equivalente in quello che diciamo il sorriso eginetico, croce del naturalismo e delizia dell’estetismo. Variabilissimo nella sua sostanza, esprime il sentimento anteriore al giudizio e all’analisi di esso. Ma è notevole che si comunichi di più e si realizzi più assolutamente in chiave di serenità e di luce. Per tutto questo la personalità di Pindaro ti attrae come quella di certi personaggi del Paradiso dantesco, un Cacciaguida o un San Pietro, la cui aureola paradisiaca non impedisce una solida umanità. Tratti umani e caserecci spiccano sul fondo grandioso dei convincimenti. C’è un candore beote, paesano e sanguigno, in contrasto col rigore o la fantasia severa di Eschilo, di cui non si può mai sorridere. C’è un fondo di letizia che fa perdonare ingenuità, grandezza ed esclusioni. C’è una meravigliosa svagatezza nei suoi grandi consensi. Questo «sapiente» sa sorridere come nessuno delle cinquanta belle etere che il suo inno presenta agli Dei, ma non soltanto agli Dei (fr. enc. 3). La poesia dà l’immortalità e Pindaro ne è religiosamente certo, ma nessun poeta moderno avrebbe mai paragonato la gioia dell’arte a un bel bagno caldo (N. IV, 5-7). Certi interni, soprattutto nei frammenti delle opere perdute, hanno un’intimità placida che doveva a ascinare Orazio. I suoi eroi s’impongono sempre, tanto se ne intendeva, per quanto non si capisca sempre bene che cosa abbiano fatto di bello (non ne esisteva il problema), ma capita anche di trovare un Eracle piccolotto (I. IV, 96) e di sorprenderlo cucinarsi con cura la carne (fr. inc. 48). Ciò che manca è l’altra faccia del «tragico», il «satiresco», il parodistico, ma non già l’umorismo; è quello dell’ammirazione che si fa con denziale, e che serpeggia sempre nell’epos, non solo omerico. Si rinviene anche nei Fioretti, epos dei santi umbri, d’una civiltà cioè che non possiede Sigfrido e Rolando.21 Ma nessun poeta moderno supera Pindaro nella rappresentazione dell’eroico, della morte e del divino. L’eroico è sempre giovinezza, quella dell’efebo Pelope che scende nella notte purissima a invocare da Posidone il rischio mortale per odio della vita e della morte meschine, o di Castore che supplica Zeus di condividere col fratello il giogo della morte (N. X, 144 sgg.). La morte non è mai né il nulla né — a parte il «mistero», ciò di cui si tace — resurrezione, è l’inesprimibile, austeramente surreale: pire che fumano bianche, fuori del tempo (N. IX, 53). Ignora sempre il melodrammatico, questo poeta per eccellenza musicale. La morte è sempre presente e non è né prova né dramma: è limite, è realtà. A un felice, a un vincitore, ricorda che le sue belle membra sono un mantello che dovrà mutare con quello della terra (N. XI, 24-26). Pindaro parla della mortalità con l’austera e cacia che oggi è solo dei semplici che non conoscono l’inganno e il potere delle parole. Il divino è rappresentato con una «verità» che lo riscatta da tutto il preteso antropomor smo a cui lo inchioda la prodigiosa bellezza della statuaria classica. Neppure il velo magico dell’arte arcaica lo copre con più pudore della luminosa parola pindarica. Nulla negli Dei è prevedibile e perciò umano, neppure la bontà. Appaiono immediati come il pensiero ma anche con la totalità ovvia e imprescindibile del pensiero; per questo non sono mai spettacolo. L’arte di Pindaro è sempre casta, anche nel colorismo e nel barocco arcaico, mai però come nella visione e nella parola degli Dei. «Tu sei glio mio…» dice Zeus a Polluce quando «gli andò di faccia» (N. X, 152). Resta di loro il ricordo frammentario del sogno. Epiteti e attributi sono allusioni più che particolari, e nulla è più completo del loro nome. A volte il poeta osserva le sue visioni. Quando Pallade appare in sogno a Bellerofonte per donargli il morso di Pegaso e destano all’azione, dice: «La potenza divina / edi ca leggera /