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Sindrome di Down: Valutazione Interventi e Strategie

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI SUOR ORSOLA BENINCASA
Dipartimento di scienze formative, psicologiche e della comunicazione
Corso di formazione per il conseguimento della specializzazione
per le attività di sostegno agli alunni con disabilità scuola
secondaria di secondo grado
ELABORATO DI APPROFONDIMENTO TEORICO SU:
LA SINDROME DI DOWN: IMPLICAZIONI PER LA
VALUTAZIONE DEGLI INTERVENTI
Un’analisi delle strategie di presa in carico multidisciplinare nei
bambini e negli adulti
Candidato
Maria Correale
Matricola
AD3006630
Anno Accademico 2023 - 2024
1
“Conoscerò il rumore dei tuoi passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri
passi mi fanno nascondere sotto terra, il tuo mi farà uscire della tana, come una
musica”
(Il Piccolo Principe)
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INDICE
INTRODUZIONE……………………………………………………………………4-5
CAPITOLO I
1.1 COS’E’ LA SINDROME DI DOWN……………………………….……….........6-7
1.2 LE CARATTERISTICHE FENOTIPICHE DELL’ABERRAZIONE
CROMOSOMICA………………………………………......................................8-10
1.3 PROBLEMI NEUROLOGICI LEGATI ALLA SINDROME DI DOWN…......10-12
CAPITOLO II
2.1 JOHN LANGDON DOWN E LA DENOMINAZIONE “SINDROME DI DOWN”
…………………………………….................……………………...........................13-14
2.2 LA DISABILITA’ INTELLETTIVA NELLA SINDROME DI DOWN………14-16
2.3 LA MEMORIA A BREVE E LUNGO TERMINE………………………….…16-18
2.4 LE PAROLE E LA COMUNICAZIONE NELLE PERSONE CON SINDROME DI
DOWN………………………………………......………………………………….18-19
2.5 DIAGNOSI INVASIVE E NON INVASIVE……………………….................19-21
CAPITOLO III
3.1 L’ATTO DEI BISOGNI EDUCATIVI: VERSO L’INCLUSIONE SCOLASTICA
………………………...................……………………………………….…………22-23
3.2 APPROCCI E POSSIBILI INTERVENTI EDUCATIVI NELLA SINDROME DI
DOWN ………………………………………...................……………………...…23-25
3.3 INSERIMENTO NELLA SOCIETA’ MODERNA PER LE PERSONE CON
SINDROME DI DOWN: LA STORIA DI GIORGIO E PIERPAOLO……………25-28
3.4 LA FAMIGLIA E LA SCUOLA ………………………………………............28-30
3.5 LE COPERATIVE SOCIALE: TECNICHE E TERAPIE PER CREARE BENEFICI
A LUNGO TERMINE ………………………………...…......………………….…30-32
3.6 ASSOCIAZIONI, EVENTI E MANIFESTAZIONI PER LA SINDROME DI
DOWN ……………………………………………………………………..............32-34
CONCLUSIONE……………………………………………………………………34-36
BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………36-39
SITOGRAFIA………………………………………………………………….………39
3
INTRODUZIONE
Ho scelto di approfondire questo tema perché, durante gli anni delle scuole medie, ho
avuto una compagna affetta da sindrome di Down. Nonostante presentasse una forma
lieve della condizione, riusciva a seguire le lezioni senza particolari difficoltà. La sua
presenza in classe era fonte di gioia: era sempre allegra, disponibile e rappresentava per
tutti noi un esempio di positività. Pur incontrando qualche ostacolo in alcune materie, è
riuscita a concludere il percorso scolastico insieme a noi. In seguito, però, le nostre strade
si sono divise a causa di un suo trasferimento in un’altra città.
Questa esperienza mi ha fatto riflettere sull’importanza dell’educazione inclusiva, non
solo per chi vive direttamente la disabilità, ma anche per l’intero gruppo classe.
L’inclusione rappresenta infatti un’occasione di crescita personale e sociale, capace di
arricchire profondamente la nostra esperienza quotidiana. La sindrome di Down, come
altre condizioni simili, non è una malattia, ma una caratteristica che accompagna la
persona per tutta la vita. È fondamentale, quindi, promuovere una società che sappia
accogliere senza restrizioni o pregiudizi.
Per comprendere meglio questa realtà, possiamo immaginare di aprire un libro scritto con
un alfabeto diverso e con ritmi inusuali: all’inizio potremmo sentirci spaesati, ma è
proprio questa diversità che caratterizza la visione del mondo di chi è affetto dalla
sindrome di Down. Una diversità cromosomica che si traduce in una percezione unica e
ricca di sfumature.
Storicamente, la percezione della sindrome di Down e, più in generale, delle disabilità, è
profondamente cambiata. Durante la Rivoluzione francese del 1789, questa condizione
era considerata una malattia e i soggetti venivano spesso emarginati dalla società. Nel
corso dell’Ottocento, grazie a studiosi come Pinel, Esquirol e Gugghenbuehl, iniziò un
lento processo di riconoscimento della dignità umana delle persone con disabilità.
Nel tempo, la terminologia è cambiata notevolmente: da “anormali”, “idioti” e “minorati”
si è passati a espressioni più rispettose come “disabili”, “diversamente abili” e “persone
con disabilità” (Pesci G., Pesci S., 2005; Cesaro, 2015).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sottolinea che il termine “handicap” non
indica una persona con deficit, ma una condizione di svantaggio che limita o impedisce
la realizzazione di attività considerate normali per un essere umano. Secondo la
4
classificazione dell’OMS, la disabilità è il risultato di una complessa interazione tra la
condizione di salute dell’individuo e i fattori personali e ambientali che lo circondano.
La sindrome di Down è una delle poche condizioni in cui la diagnosi viene effettuata
subito dopo la nascita, generando spesso una situazione di forte stress emotivo nei
genitori, che si trovano ad affrontare sfide a lungo termine. È importante ricordare che
ogni bambino è unico e non è possibile prevedere con certezza le sue potenzialità. Come
vedremo nei capitoli successivi, interventi come la pet therapy, la musicoterapia, le arti
terapie e lo sport rappresentano strumenti preziosi, offrendo occasioni di socializzazione
e contribuendo al benessere sia mentale che fisico della persona.
5
CAPITOLO I
1.1 Che cos’è la sindrome di down
La sindrome di Down rappresenta la causa più frequente di disabilità intellettiva di origine
genetica a livello mondiale, con una prevalenza stimata di circa 1 caso ogni 1000-1100
nati vivi secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si tratta di una condizione
dovuta alla presenza di un cromosoma 21 soprannumerario (trisomia 21), che comporta
caratteristiche fenotipiche specifiche e può coinvolgere diversi organi, tra cui il cuore,
con una frequenza elevata di cardiopatie congenite. La sindrome è inoltre associata a un
aumentato rischio di sviluppare patologie come la malattia di Alzheimer ad esordio
precoce, leucemie, alcuni tipi di cancro e la malattia di Hirschsprung1.
Le manifestazioni cliniche della sindrome di Down possono variare notevolmente da
individuo a individuo, sia per quanto riguarda le caratteristiche fisiche che le capacità
cognitive e adattive. Dal punto di vista del funzionamento intellettivo, il ritardo mentale
associato alla sindrome di Down può essere classificato secondo i livelli di gravità
individuati dal DSM-IV: lieve (QI 50-70), moderato (QI 35-49), grave (QI 20-34) e
gravissimo (QI inferiore a 20). La maggior parte dei soggetti presenta un livello di
disabilità lieve o moderato, che si traduce in difficoltà di linguaggio, ragionamento,
memoria, attenzione e competenze sociali.
Tuttavia, alcuni individui possono raggiungere una buona autonomia nella vita
quotidiana, mentre altri necessitano di un supporto costante.
Dal punto di vista genetico, la sindrome di Down si presenta in tre principali varianti:
Trisomia 21 classica: interessa circa il 95% dei casi e si caratterizza per la presenza di tre
copie complete del cromosoma 21 in tutte le cellule dell’organismo.
Trisomia 21 a mosaico: rappresenta circa il 2% dei casi e si manifesta quando solo una
parte delle cellule presenta la trisomia, mentre le altre hanno un assetto cromosomico
normale. Questa forma può comportare manifestazioni cliniche meno evidenti.
1
E’ una delle più comuni malformazioni congenite dell'intestino.
6
Trisomia 21 da traslocazione: riguarda circa il 3% dei casi e si verifica quando una parte
o tutto il cromosoma 21 è attaccato a un altro cromosoma, di solito il 14. Questa forma
può essere ereditaria2.
La sindrome prende il nome dal medico inglese John Langdon Down, che nel 1866
descrisse per la prima volta le caratteristiche fenotipiche e comportamentali di un gruppo
di individui con questa condizione presso il Royal Earlswood Asylum in Inghilterra.
Down si ispirò agli studi di Johann Friedrich Blumenbach e di Édouard Séguin per
proporre una classificazione delle diverse forme di disabilità mentale, distinguendo tra
condizioni congenite, accidentali e dello sviluppo. Nel suo lavoro, Down osservò tratti
fisici come il volto ampio, le pieghe epicantali agli occhi, la macroglossia e la bassa
statura, oltre a una personalità variabile e difficoltà linguistiche.
Per molti anni, la sindrome fu denominata impropriamente “mongolismo” a causa della
presunta somiglianza dei tratti somatici con alcune popolazioni asiatiche, una
terminologia oggi abbandonata grazie anche all’intervento di numerosi ricercatori e a una
lettera pubblicata su “The Lancet” negli anni Sessanta, che raccomandava l’uso dei
termini “sindrome di Down” o “trisomia 21”.
Un contributo fondamentale alla comprensione della base genetica della sindrome fu dato
dal medico francese Jérôme Lejeune3, che nel 1959 identificò la presenza di un terzo
cromosoma 21 come causa della condizione, insieme alla ricercatrice Marthe Gautier.
Altri studiosi che si sono occupati della sindrome di Down includono Édouard Séguin,
che sviluppò metodi educativi specifici per persone con disabilità intellettiva, e Allen
Crocker, noto per i suoi contributi in ambito pediatrico e sociale.
In sintesi, la sindrome di Down è una condizione complessa, caratterizzata da una grande
variabilità clinica e funzionale, con diversi livelli di gravità e numerose implicazioni sia
mediche che sociali. Il progresso scientifico e sociale degli ultimi decenni ha permesso
un netto miglioramento della qualità e dell’aspettativa di vita delle persone con sindrome
di Down, che oggi possono raggiungere una vita media di oltre 60 anni nei paesi
sviluppati.
2
3
https://docpharma.com/approfondimenti/patologie/sindrome-di-down/
https://www.donnemedico.org/wp-content/uploads/download.pdf.
7
1.2 Le caratteristiche fenotipiche dell’aberrazione cromosomica
La sindrome di Down presenta un insieme di caratteristiche fenotipiche particolari, che
da sempre hanno attirato l’attenzione di medici, genetisti e ricercatori. Questi tratti,
sebbene riconoscibili, non definiscono la persona nella sua interezza, ma rappresentano
piuttosto una mappa visibile dell’alterazione genetica sottostante, ovvero la presenza di
un cromosoma 21 in più. La descrizione accurata di queste caratteristiche è stata
fondamentale non solo per la diagnosi clinica, ma anche per comprendere meglio la
complessità di questa condizione.
Dal punto di vista cranio-facciale, la sindrome di Down si manifesta con un volto
tipicamente piatto e rotondo, accompagnato da una fronte ampia e spaziosa. Gli occhi,
caratterizzati da una forma a mandorla, presentano una piega cutanea chiamata epicanto,
che conferisce loro un aspetto unico e facilmente riconoscibile. Inoltre, sull’iride sono
spesso presenti delle macchie bianche, note come macchie di Brushfield, che sono state
ampiamente descritte da autori come Lowe e Donaldson (1980). Il naso è piccolo e con il
ponte nasale appiattito, mentre la bocca tende a essere piccola, spesso leggermente aperta
a causa della lingua protrusa, una condizione nota come macroglossia.
Le orecchie, di dimensioni ridotte e con una forma arrotondata, sono generalmente
impiantate più in basso rispetto alla norma.
Queste caratteristiche non si limitano al volto, ma si estendono a tutto il corpo. Il collo è
corto e robusto, talvolta accompagnato da un eccesso di pelle nella zona della nuca, che
contribuisce a dare un aspetto particolare alla silhouette. Le mani sono corte e larghe, con
dita tozze e spesso con la presenza di una sola linea palmare, la cosiddetta “plica simiana”
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o “solco palmare unico”, un segno dermatoglifo che ha attirato l’attenzione di studiosi
come Lissauer e Carroll (1995). Anche i piedi presentano caratteristiche distintive, come
la presenza di uno spazio più ampio tra il primo e il secondo dito, noto come “segno del
sandalo”.
Dal punto di vista muscolare, una delle peculiarità più evidenti è l’ipotonia, ovvero un
tono muscolare ridotto, che interessa oltre il 95% dei neonati con sindrome di Down,
come evidenziato da Vianello (2003). Questa condizione si manifesta già nei primi mesi
di vita e si traduce in una maggiore lassità articolare e in una flessibilità superiore alla
media, che può influenzare lo sviluppo motorio e la coordinazione. Un segnale precoce
di ipotonia è dato dal fatto che, quando si solleva un neonato per metterlo in posizione
seduta, la testa tende a rimanere indietro rispetto al corpo, a causa della scarsa forza
muscolare del collo.
Questi aspetti fisici sono spesso accompagnati da un ritardo nello sviluppo motorio e
cognitivo. Come sottolineano Chapman e Hesketh (2000), il ritardo cognitivo nella
sindrome di Down varia da lieve a moderato, ma non impedisce alle persone di
apprendere, comunicare e instaurare relazioni sociali significative. Anzi, molti soggetti
mostrano una spiccata capacità empatica e una gioia di vivere che trascendono le
caratteristiche fisiche.
Dal punto di vista medico, la sindrome di Down comporta anche una serie di rischi per la
salute che richiedono attenzione e monitoraggio costante. Circa la metà degli individui
presenta difetti cardiaci congeniti, che possono variare in gravità e richiedono interventi
specialistici fin dai primi anni di vita. Inoltre, è fondamentale controllare regolarmente la
vista, l’udito, la funzione tiroidea e la salute dentale, poiché queste aree sono
frequentemente coinvolte. L’ipotiroidismo, ad esempio, è una condizione endocrina
comune che contribuisce a rallentare il metabolismo e favorisce l’aumento di peso, un
problema che interessa circa il 50% delle persone con sindrome di Down, insieme a fattori
come l’ipotonia e uno stile di vita spesso poco attivo.
Un altro aspetto importante riguarda l’invecchiamento precoce, che si manifesta con una
maggiore incidenza del morbo di Alzheimer già in età relativamente giovane. Studi
recenti, come quelli di Wisniewski e colleghi (2015), hanno evidenziato come la trisomia
21 favorisca l’accumulo di placche amiloidi nel cervello, accelerando il declino cognitivo.
9
Nonostante queste sfide, è importante ricordare che la sindrome di Down non è definita
solo da un insieme di tratti fisici o da limitazioni. Come ha sottolineato il genetista Jérôme
Lejeune, che per primo identificò la causa cromosomica della sindrome nel 1959, ogni
persona con trisomia 21 ha un proprio percorso di vita, con potenzialità e capacità uniche.
La ricerca scientifica ha fatto passi da gigante nel comprendere come questa piccola
anomalia cromosomica possa influenzare non solo l’aspetto esteriore, ma anche lo
sviluppo cognitivo e la salute generale, permettendo oggi interventi più mirati e una
migliore qualità della vita.
1.3 Problemi neurologici legati alla sindrome di down
La sindrome di Down, oltre alle caratteristiche fisiche e alle comorbilità mediche più
evidenti, comporta una serie di problematiche neurologiche che si manifestano lungo tutto
l’arco della vita, dalla prima infanzia fino all’età senile.
Questi disturbi riflettono la complessità dell’alterazione genetica sottostante e le
conseguenze che essa ha sullo sviluppo e sul funzionamento del sistema nervoso centrale.
Nei primi anni di vita, uno dei segni neurologici più evidenti è l’ipotonia muscolare,
presente in oltre il 95% dei neonati con sindrome di Down (Vianello, 2003). Questa
riduzione del tono muscolare si traduce in una maggiore lassità articolare e in un ritardo
nell’acquisizione delle tappe motorie fondamentali, come il controllo della testa, la
posizione seduta e la deambulazione. L’ipotonia rende i movimenti più faticosi e rallenta
lo sviluppo motorio, ma non impedisce la conquista di queste abilità, che spesso arrivano
con tempi più lunghi rispetto ai bambini tipici. Accanto a questo, possono manifestarsi
disturbi neurologici come crisi epilettiche, che in alcuni casi si presentano sotto forma di
“assenze” o brevi perdite di contatto con l’ambiente, difficili da riconoscere senza
un’adeguata osservazione clinica.
Dal punto di vista neuroanatomico, studi su feti affetti da sindrome di Down hanno
evidenziato anomalie significative già nelle prime fasi dello sviluppo cerebrale. In
particolare, si osserva una riduzione del numero di cellule nelle aree dell’ippocampo, del
giro dentato e del giro para ippocampale, regioni fondamentali per l’apprendimento e la
memoria (Capelli, 2017). Inoltre, è stata riscontrata una maggiore incidenza di apoptosi
cellulare e una ridotta proliferazione neuronale, con un aumento della presenza di
10
precursori gliali a discapito di quelli neuronali. Questi aspetti strutturali sono alla base dei
deficit cognitivi e di memoria tipici della sindrome.
A livello molecolare, la trisomia 21 comporta un’alterata espressione di alcuni geni
chiave, come DYRK1A e GIRK2, che influenzano i processi di neurogenesi e plasticità
sinaptica. In particolare, è stato dimostrato che il potenziamento a lungo termine (LTP),
un meccanismo elettrofisiologico cruciale per la memoria e l’apprendimento, è
compromesso nell’ippocampo di individui con sindrome di Down (Contestabile et al.,
2013). Queste alterazioni contribuiscono a spiegare le difficoltà di apprendimento e le
limitazioni cognitive che caratterizzano la condizione.
Durante l’infanzia e l’adolescenza, oltre ai ritardi cognitivi e motori, possono emergere
disturbi comportamentali come deficit di attenzione, iperattività e, in alcuni casi, sintomi
riconducibili allo spettro autistico (SIP, 2023)4. Questi aspetti richiedono un’attenzione
multidisciplinare, con interventi educativi e terapeutici mirati a favorire lo sviluppo
globale della persona.
Con l’avanzare dell’età adulta, le problematiche neurologiche si complicano
ulteriormente. Uno dei fenomeni più rilevanti è l’elevato rischio di sviluppare una forma
precoce di demenza di tipo Alzheimer. La presenza di un cromosoma 21 in più comporta
una sovra espressione del gene APP (Amyloid Precursor Protein), che porta a un
accumulo accelerato di beta-amiloide nel cervello, favorendo la neuro degenerazione
(Wisniewski et al., 2015). Questo processo si traduce in un declino cognitivo progressivo,
che spesso si manifesta già intorno ai 40-50 anni, con perdita di memoria,
disorientamento, cambiamenti della personalità e difficoltà nelle attività quotidiane.
A questo si aggiungono altre problematiche neurologiche frequenti nella sindrome di
Down, come le apnee ostruttive del sonno, che sono legate alla conformazione anatomica
delle vie aeree superiori e contribuiscono a un sonno frammentato e a una ridotta
ossigenazione cerebrale durante la notte. Le apnee notturne inducono stanchezza diurna,
difficoltà di concentrazione e possono aggravare il declino cognitivo (MSD Manuali,
2023)5.
4
Società italiana pediatria (https://sip.it/2023/05/26/il-bambino-con-sindrome-di-down/)
5
https://www.msdmanuals.com/it/professionale/pediatria/anomalie-cromosomiche-egenetiche/sindrome-di-down-trisomia-21
11
Infine, va considerata l’instabilità delle articolazioni cervicali, in particolare a livello
atlanto-assiale e atlanto-occipitale, che può causare compressione midollare e
manifestazioni neurologiche come debolezza, alterazioni della deambulazione e disturbi
della funzione vescicale e intestinale (MSD Manuali, 2023). Per questo motivo, è
fondamentale un monitoraggio clinico regolare e, in alcuni casi, un intervento chirurgico
preventivo.
12
CAPITOLO II
2.1 John Langdon Down e la denominazione “Sindrome di Down”: La storia
La definizione di quella che oggi conosciamo come sindrome di Down affonda le sue
radici in un contesto storico e scientifico che risale alla metà del XIX secolo. Tutto ebbe
inizio nel 1866, quando il medico britannico John Langdon Down pubblicò il suo celebre
lavoro intitolato “Observations on an Ethnic Classification of Idiots”. In questo testo,
Down descrisse per la prima volta in modo sistematico un gruppo di individui con
caratteristiche fisiche e cognitive ricorrenti, che egli associò a una particolare forma di
ritardo mentale. Fu proprio in questo studio che coniò il termine “mongolismo”,
basandosi sulla somiglianza apparente tra i tratti somatici di questi pazienti e quelli delle
popolazioni di etnia mongola, secondo le teorie antropologiche allora in voga.
John Langdon Down, direttore del Royal Earlswood Asylum for Idiots nel Surrey,
dimostrò uno sguardo clinico sorprendentemente moderno per la sua epoca. Osservando
attentamente i suoi pazienti, notò un insieme di caratteristiche distintive: il viso piatto e
rotondo, gli occhi a mandorla con la piega epicantica, la lingua prominente e un ritardo
nello sviluppo cognitivo e motorio. La sua descrizione fu così accurata che ancora oggi
rappresenta la prima vera caratterizzazione scientifica della condizione. Tuttavia, è
importante sottolineare che la terminologia e le interpretazioni di Down erano
inevitabilmente influenzate dal contesto culturale e scientifico del XIX secolo, in cui le
teorie razziali e l’atavismo erano diffuse e accettate anche tra gli studiosi più autorevoli.
Il termine “mongolismo” rifletteva questa visione, basata sull’erronea convinzione che la
condizione fosse una forma di “regressione” evolutiva verso caratteristiche
“mongoliche”. Questa classificazione, oggi riconosciuta come priva di fondamento
scientifico e culturalmente offensiva, rimase in uso nella comunità medica e nella
letteratura scientifica per quasi un secolo. Solo a partire dagli anni Sessanta si iniziò a
mettere in discussione questa nomenclatura.
Nel 1961, un gruppo internazionale di genetisti, tra cui lo psichiatra Lionel Penrose, il
genetista Jérôme Lejeune e persino un nipote di John Langdon Down, Norman LangdonDown, scrisse una lettera al direttore della rivista The Lancet chiedendo l’abbandono del
termine “mongolismo”. Essi sottolinearono come questa parola fosse imbarazzante,
13
fuorviante e carica di connotazioni razziali inaccettabili, proponendo di sostituirla con
termini più appropriati come “sindrome di Down” o “trisomia 21”. La stessa Repubblica
Popolare Mongola, membro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 1965
richiese formalmente la rimozione di ogni riferimento al “mongolismo” nelle
pubblicazioni ufficiali, contribuendo così al definitivo superamento della vecchia
denominazione.
La scelta del termine “sindrome di Down” rappresentò non solo un riconoscimento del
contributo pionieristico di John Langdon Down nella descrizione clinica della condizione,
ma anche un importante passo avanti verso un linguaggio più rispettoso e inclusivo nei
confronti delle persone con disabilità. Questo cambiamento terminologico segnò una
svolta nella storia della medicina, evidenziando come la scienza non sia solo un insieme
di conoscenze, ma anche un campo in continua evoluzione culturale e sociale.
Oggi, mentre utilizziamo il termine “sindrome di Down”, riconosciamo il valore storico
della scoperta di Down, ma anche i limiti e le distorsioni del suo approccio,
profondamente radicati nelle idee e nei pregiudizi del suo tempo. La storia di questa
denominazione ci ricorda che la medicina deve sempre confrontarsi con la necessità di
evolversi non solo nei contenuti scientifici, ma anche nel modo in cui parla e si rapporta
alle persone, promuovendo dignità, rispetto e inclusione.
2.2 La disabilità intellettiva nella sindrome di down
La disabilità intellettiva nelle persone con sindrome di Down si manifesta con un profilo
cognitivo eterogeneo, che varia da lieve a moderato e coinvolge diverse funzioni
cognitive fondamentali quali l’apprendimento, il problem solving e l’adattamento sociale
(Chapman, 2006; Grieco et al., 2015). Dal punto di vista neuropsicologico, la sindrome
di Down comporta un funzionamento cerebrale atipico, con alterazioni nelle funzioni
esecutive, nell’attenzione e nella memoria di lavoro, che influenzano in modo
significativo l’autonomia personale e sociale (Pennington et al., 2003; Edgin et al., 2015).
Recenti studi genomici e proteomici, come quelli condotti dal team di Laura Cancedda e
Andrea Contestabile presso l’Istituto Italiano di Tecnologia e l’IRCCS Giannina Gaslini
di Genova, hanno identificato nuovi geni e processi biologici alterati alla base della
disabilità intellettiva nella sindrome di Down, aprendo la strada a potenziali terapie
14
farmacologiche mirate a migliorare le capacità di apprendimento e memoria (Cancedda
et al., 2024)6. Questi risultati rappresentano un importante passo avanti rispetto ai
tradizionali approcci riabilitativi, che rimangono comunque fondamentali per valorizzare
le potenzialità individuali.
I bambini con sindrome di Down mostrano un significativo ritardo nello sviluppo motorio
e linguistico rispetto ai loro coetanei, con un impatto diretto sul processo di acquisizione
delle competenze cognitive e sociali (Chapman, 2006). La personalità è spesso descritta
come “umorale” o variabile, con progressi nell’apprendimento che possono risultare
instabili e soggetti a regressioni temporanee (Fidler et al., 2005). Tali variazioni
richiedono un approccio educativo flessibile e personalizzato, che tenga conto delle
specificità cognitive e comportamentali di ogni individuo.
La diagnosi e la valutazione della disabilità intellettiva si basano sull’analisi del
funzionamento intellettivo generale, misurato attraverso test standardizzati come la
WPPSI (Wechsler Preschool and Primary Scale of Intelligence) per i bambini in età
prescolare e la WISC (Wechsler Intelligence Scale for Children) per bambini e
adolescenti (Wechsler, 2014). Nei bambini con sindrome di Down, il quoziente
intellettivo (QI) tende a collocarsi mediamente tra 60 e 66 nei primi tre anni di vita, con
una diminuzione progressiva fino a valori compresi tra 32 e 38 nell’adolescenza
(Silverman, 2007). Tale declino riflette sia le caratteristiche neurobiologiche della
trisomia 21 sia le sfide ambientali e sociali che influenzano lo sviluppo cognitivo.
La disabilità intellettiva nella sindrome di Down non è un’entità statica, ma un continuum
che varia in base a molteplici fattori, tra cui la gravità del deficit cognitivo, il livello di
supporto educativo e familiare, e la presenza di comorbilità mediche (Chapman et al.,
2010). È per questo che la pedagogia speciale si concentra sulla promozione delle capacità
residue e sull’inclusione sociale, valorizzando l’unicità di ogni persona e favorendo
l’autonomia attraverso interventi educativi e riabilitativi mirati (Fidler, 2005).
Nonostante le difficoltà, molte persone con sindrome di Down sviluppano abilità sociali
significative e mostrano una spiccata capacità empatica, come evidenziato da studi di
Cooper et al. (2007), che hanno anche rilevato un minor rischio di psicopatologie rispetto
6
https://informatori.it/flash-news/ricerca-e-sviluppo/nuovi-geni-identificati-per-la-disabilitaintellettiva-nella-sindrome-di-down/
15
ad altri gruppi con disabilità intellettiva. Questo sottolinea l’importanza di un approccio
integrato che consideri non solo gli aspetti cognitivi, ma anche quelli emotivi e
relazionali.
In conclusione, la disabilità intellettiva nella sindrome di Down rappresenta una sfida
complessa che richiede un approccio multidisciplinare e personalizzato, basato sulle più
recenti scoperte scientifiche e sulle migliori pratiche educative. La ricerca in corso, sia a
livello genetico che farmacologico, offre nuove speranze per migliorare la qualità della
vita e le capacità cognitive delle persone con trisomia 21, aprendo la strada a interventi
sempre più efficaci e mirati.
2.3 La memoria a breve e lungo termine
La memoria rappresenta una delle funzioni cognitive più importanti per l’apprendimento
e l’adattamento alla vita quotidiana. Nelle persone con sindrome di Down, però, questa
funzione presenta caratteristiche particolari che influenzano in modo significativo il modo
in cui acquisiscono, conservano e richiamano le informazioni. Comprendere queste
peculiarità è fondamentale per progettare interventi educativi e riabilitativi efficaci e
personalizzati.
Partiamo dalla memoria a breve termine, quella capacità che ci permette di trattenere
temporaneamente informazioni utili per compiti immediati, come ricordare un numero di
telefono o seguire una semplice istruzione. Nella sindrome di Down, questa memoria a
breve termine, soprattutto nella sua componente verbale, risulta spesso compromessa. Ciò
significa che le persone possono avere difficoltà a mantenere e manipolare informazioni
linguistiche in tempo reale, come sequenze di parole o istruzioni orali, e questo può
influire negativamente sull’apprendimento scolastico e sulle attività quotidiane che
richiedono attenzione e concentrazione. Numerosi studi, tra cui quelli di Jarrold e
Baddeley (2000)7, hanno evidenziato come lo “span verbale” – cioè la quantità di
informazioni verbali che si riescono a mantenere – sia inferiore rispetto a quello di
bambini con pari età mentale senza sindrome di Down.
Al contrario, la memoria a breve termine visuo-spaziale, che riguarda la capacità di
ricordare e manipolare immagini o posizioni nello spazio, sembra essere relativamente
7
Deficit in STM verbale
16
preservata. Questo significa che i bambini e gli adulti con sindrome di Down spesso
riescono a ricordare meglio informazioni visive o spaziali rispetto a quelle verbali. Questa
differenza è stata confermata da studi come quelli di Vicari e colleghi (2004), e suggerisce
che l’apprendimento attraverso canali visivi o pratici possa rappresentare una strategia
efficace per compensare le difficoltà verbali.
Passando alla memoria a lungo termine, che è responsabile della conservazione delle
informazioni per periodi prolungati, troviamo un quadro più complesso. La memoria a
lungo termine si divide in due grandi categorie: la memoria implicita, che riguarda abilità
non consapevoli come le capacità motorie o il condizionamento, e la memoria esplicita,
che invece implica la consapevolezza e include la memoria episodica (ricordi di eventi
personali) e la memoria semantica (conoscenze generali). Nelle persone con sindrome di
Down, la memoria implicita tende a essere relativamente intatta, permettendo di acquisire
abilità pratiche e motorie con un certo grado di successo. Al contrario, la memoria
esplicita, soprattutto quella episodica e semantica, mostra spesso delle difficoltà. Studi
come quelli di Carlesimo, Vicari e Morotta (1994; 2004) hanno evidenziato come questi
soggetti presentino un ridotto effetto di “clustering semantico”, cioè una minore capacità
di organizzare e raggruppare le informazioni in base al significato, il che rende più
difficile il recupero delle parole o dei concetti nel tempo.
Queste peculiarità della memoria, unite a un funzionamento cerebrale atipico a livello di
ippocampo e corteccia prefrontale, spiegano in parte le difficoltà cognitive e di
apprendimento tipiche della sindrome di Down (Chapman, 2006; Maugeri, 2020).
Tuttavia, è importante sottolineare che esiste una grande variabilità individuale: non tutti
manifestano gli stessi livelli di difficoltà e molti possono sviluppare strategie
compensative efficaci.
Per questo motivo, l’intervento educativo deve essere pensato tenendo conto di queste
differenze. Favorire l’uso di supporti visivi, attività pratiche, ripetizioni strutturate e
rinforzi positivi può aiutare a potenziare la memoria e l’apprendimento. Inoltre, lavorare
sul miglioramento delle funzioni esecutive e dell’attenzione può facilitare la codifica e il
recupero delle informazioni (Pennington et al., 2003; Edgin et al., 2015).
La memoria nelle persone con sindrome di Down si caratterizza per una compromissione
selettiva della memoria verbale a breve termine e della memoria esplicita a lungo termine,
mentre la memoria visuo-spaziale e implicita risultano più conservate. Questa
17
complessità richiede un approccio educativo flessibile e personalizzato, che sappia
valorizzare le risorse cognitive residue e compensare le difficoltà, con l’obiettivo di
favorire un apprendimento efficace e una migliore qualità della vita.
2.4 Le parole e la comunicazione nelle persone con sindrome di down
La comunicazione verbale nelle persone con sindrome di Down è caratterizzata da un
profilo di sviluppo atipico che coinvolge sia la produzione che la comprensione del
linguaggio. Numerosi studi (Vicari, 2001; Abbeduto et al., 2007; Chapman, 2006) hanno
evidenziato come il ritardo nello sviluppo del linguaggio sia una delle caratteristiche più
marcate della sindrome, con difficoltà che si manifestano in particolare a livello
fonologico, morfosintattico e lessicale. L’eloquio tende a essere lento, la pronuncia spesso
imprecisa e la struttura grammaticale delle frasi semplificata, con frequenti omissioni di
articoli, preposizioni e congiunzioni.
Nonostante queste difficoltà, la comprensione linguistica risulta generalmente più
avanzata rispetto alla produzione verbale. Questo significa che molti bambini e adulti con
sindrome di Down comprendono più parole e frasi di quante ne riescano a produrre,
evidenziando una discrepanza tra le competenze ricettive e quelle espressive (Abbeduto
et al., 2007). Tale asimmetria è particolarmente evidente nei primi anni di vita, quando il
ritardo nella comparsa delle prime parole è compensato da un uso intensivo della
comunicazione non verbale.
La comunicazione non verbale, infatti, assume un ruolo centrale nell’interazione sociale
delle persone con sindrome di Down. Gesti, espressioni facciali, sguardi e supporti visivi
diventano strumenti privilegiati per esprimere bisogni, emozioni e intenzioni, soprattutto
nei primi anni di vita (Caselli et al., 1998). I bambini con sindrome di Down mostrano un
repertorio gestuale particolarmente ampio, utilizzando sia gesti deittici-come indicare
oggetti o persone per richiamare l’attenzione dell’interlocutore-sia gesti rappresentativi,
che mimano azioni o concetti specifici (ad esempio, portare la mano alla bocca per
indicare il mangiare). Questi gesti non solo facilitano la comunicazione, ma aiutano anche
a colmare il divario tra le competenze cognitive e quelle linguistiche, consentendo una
partecipazione attiva nelle interazioni sociali.
18
La letteratura (Stefanini, Bello & Caselli, 2007; Zampini & D’Odorico, 2009) sottolinea
come l’uso dei gesti nei bambini con sindrome di Down persista più a lungo rispetto ai
coetanei con sviluppo tipico. Mentre nei bambini tipici il gesto tende progressivamente a
essere sostituito dalla parola, nei bambini con sindrome di Down la comunicazione
multimodale (gesto + parola) rimane una strategia stabile e funzionale, spesso con
combinazioni in cui gesto e parola esprimono la stessa informazione. Questo repertorio
gestuale arricchito rappresenta una risorsa preziosa, da valorizzare anche in ambito
educativo e terapeutico.
Un ulteriore elemento di supporto alla comunicazione è rappresentato dalle strategie
comunicative alternative e aumentative (CAA), come l’uso di sistemi di immagini,
simboli, tabelle comunicative o dispositivi tecnologici. Questi strumenti, largamente
raccomandati dalla letteratura internazionale (Light & McNaughton, 2012), possono
potenziare significativamente la capacità comunicativa, favorendo l’autonomia, la
partecipazione sociale e l’inclusione scolastica e lavorativa.
L’intervento educativo e riabilitativo sul linguaggio nelle persone con sindrome di Down
deve essere precoce, intensivo e multidisciplinare, coinvolgendo logopedisti, insegnanti,
educatori e famiglie. È fondamentale creare un ambiente comunicativo ricco di stimoli,
che favorisca l’uso di frasi semplici, ripetizioni, parole chiave e supporti visivi, senza
trascurare l’importanza della gestualità e della comunicazione non verbale. A casa,
l’utilizzo di un linguaggio chiaro, frasi brevi, onomatopee e gesti può facilitare la
produzione linguistica e rafforzare la relazione affettiva e sociale.
In conclusione, la comunicazione nelle persone con sindrome di Down si costruisce su
un equilibrio dinamico tra parole e gesti, tra linguaggio verbale e non verbale. Valorizzare
entrambi i canali significa non solo favorire lo sviluppo linguistico, ma anche riconoscere
e rispettare la specificità comunicativa di ciascun individuo, promuovendo così una reale
inclusione e una migliore qualità della vita.
2.5 Diagnosi invasive e non invasive
La diagnosi della sindrome di Down rappresenta un momento cruciale sia per la gestione
prenatale della gravidanza sia per la pianificazione degli interventi successivi alla nascita.
Questa condizione genetica, causata dalla presenza di una copia extra del cromosoma 21,
19
può essere identificata attraverso diverse modalità diagnostiche, suddivise principalmente
in prenatali e postnatali.
Negli ultimi anni, la diagnosi prenatale della sindrome di Down ha beneficiato di notevoli
progressi grazie allo sviluppo di tecniche di screening non invasive. Il test del DNA fetale
libero circolante, noto come NIPT (Non-Invasive Prenatal Testing), ha rivoluzionato la
pratica clinica. Il NIPT, effettuato tramite un semplice prelievo di sangue materno,
utilizza avanzate tecnologie come il Next Generation Sequencing (NGS) per analizzare
frammenti di DNA fetale presenti nel sangue della madre, permettendo di rilevare la
trisomia 21 con una sensibilità e specificità estremamente elevate: l’affidabilità per la
sindrome di Down supera il 99,9%, con un rischio praticamente nullo per la gestante e il
feto. Il NIPT può essere eseguito già dalla decima settimana di gravidanza e, oltre alla
sindrome di Down, consente di individuare altre anomalie cromosomiche come la
sindrome di Edwards (trisomia 18) e la sindrome di Patau (trisomia 13). Tuttavia, è
importante ricordare che il NIPT è un test di screening, non diagnostico, e pertanto un
risultato positivo deve sempre essere confermato tramite test diagnostici invasivi come
l’amniocentesi o la villocentesi.
Oltre al NIPT, la diagnosi prenatale si avvale di altri strumenti fondamentali come
l’ecografia del primo trimestre, in particolare la misurazione della translucenza nucale,
che consente di identificare marker morfologici associati a un aumentato rischio di
trisomia 21. Questi esami, combinati con i test biochimici materni, permettono di stimare
il rischio individuale e guidare le successive scelte diagnostiche.
Quando i test di screening indicano un rischio elevato, si procede con test diagnostici
invasivi-come l’amniocentesi o la villocentesi-che consentono di prelevare cellule fetali
per l’analisi cromosomica diretta tramite cariotipo o tecniche molecolari come la FISH
(Fluorescence In Situ Hybridization). Questi esami rappresentano il gold standard per la
diagnosi definitiva della sindrome di Down, ma comportano un rischio, seppur basso, di
complicanze per il feto, e sono pertanto riservati ai casi in cui il rischio stimato dai test di
screening sia significativo.
Dopo la nascita, la diagnosi può essere sospettata sulla base di caratteristiche fenotipiche
tipiche-come la presenza di tratti somatici peculiari (plica palmare unica, viso
arrotondato, ipotonia muscolare) -ma la conferma definitiva si ottiene solo tramite analisi
citogenetica del cariotipo, che permette di identificare la presenza della trisomia 21 e di
20
distinguere tra le diverse forme genetiche della sindrome (trisomia libera, traslocazione o
mosaicismo).
La possibilità di una diagnosi precoce, soprattutto grazie ai test non invasivi come il
NIPT, consente una migliore preparazione psicologica e organizzativa delle famiglie,
oltre all’attivazione tempestiva di interventi educativi e sanitari mirati, fondamentali per
il benessere e lo sviluppo della persona con sindrome di Down. Autori come Novelli,
Cornelisse e Chitty hanno sottolineato l’importanza della consulenza genetica nel
percorso diagnostico, affinché le famiglie possano ricevere informazioni chiare, supporto
emotivo e orientamento sulle opzioni disponibili.
In confronto ad altre anomalie cromosomiche la diagnosi di trisomia 21 dà risultati più
soddisfacenti mentre negli altri casi (vedi scheda) che sono meno frequenti i risultati sono
meno soddisfacenti. Ovviamente nel caso di positività del test è sempre necessaria una
conferma mediante tecniche diagnostiche convenzionali. Anche quando il test molecolare
da un risultato negativo è opportuno procedere con uno screening del I trimestre o l’esame
ecografico che pone un sospetto di anomalia cromosomica.
In conclusione, la diagnosi della sindrome di Down si avvale oggi di un approccio
integrato che combina test di screening non invasivi, come il NIPT e l’ecografia del primo
trimestre, con metodiche diagnostiche invasive, riservate ai casi a rischio elevato, per
ottenere una conferma definitiva. Questa strategia consente di ridurre i rischi per madre e
feto, garantendo al contempo un’elevata accuratezza diagnostica e la possibilità di una
presa in carico tempestiva e mirata della famiglia e del neonato. Tuttavia, è fondamentale
che ogni risultato venga interpretato all’interno di un percorso di consulenza genetica, per
offrire alle famiglie informazioni chiare e supporto nelle scelte, assicurando così una
gestione consapevole e personalizzata della gravidanza e della nascita.
21
CAPITOLO III
3.1 L’atto dei bisogni educativi: verso l’inclusione scolastica di tutti
Le persone con sindrome di Down presentano specifiche esigenze educative che
richiedono tempi, metodi e strategie di apprendimento diversificati, in grado di rispondere
alle loro caratteristiche cognitive e comportamentali. Parallelamente, sul piano sociale, è
fondamentale promuovere competenze relazionali e capacità di autodeterminazione,
aspetti imprescindibili per favorire una reale inclusione e partecipazione attiva nella
comunità (Vicari, 2010; Ferlazzo, 2015).
Il concetto di Bisogni Educativi Speciali (BES) nasce dal riconoscimento che ogni
studente porta con sé una propria diversità, che non deve essere considerata un limite,
bensì una risorsa da valorizzare. In questo senso, l’inclusione scolastica rappresenta un
passaggio fondamentale, che supera la semplice integrazione: non si tratta più di adattare
l’alunno al contesto scolastico, ma di trasformare la scuola stessa affinché possa
accogliere e valorizzare tutte le differenze (Ainscow, Booth & Dyson, 2006; Loreman,
2010).
Una svolta normativa significativa in Italia è stata rappresentata dalla Direttiva MIUR del
27 dicembre 2012, che ha ridefinito il concetto di BES ampliandolo oltre la tradizionale
distinzione tra alunni con disabilità certificata e alunni senza diagnosi clinica. Questa
direttiva ha introdotto una visione più ampia e inclusiva delle difficoltà scolastiche,
riconoscendo come BES non solo le disabilità e i disturbi specifici dell’apprendimento,
ma anche svantaggi socio-economici, culturali, linguistici e situazioni di disagio
temporaneo (MIUR, 2012).
In questa prospettiva, la scuola è chiamata a riconoscere e rispondere a una pluralità di
bisogni, personalizzando gli interventi didattici attraverso strumenti quali il Piano
Didattico Personalizzato (PDP) e il Piano Educativo Individualizzato (PEI). Questi
strumenti consentono di definire obiettivi educativi calibrati sulle potenzialità e difficoltà
di ciascun alunno, promuovendo la partecipazione attiva e lo sviluppo delle competenze
in un contesto che valorizzi la diversità come risorsa e non come ostacolo (Cornoldi &
Vianello, 2011; Tomlinson, 2014).
22
L’inclusione, pertanto, non è un atto formale o un mero adempimento burocratico, ma un
processo dinamico e complesso che coinvolge l’intera comunità educante - docenti,
famiglie, compagni di classe e territorio - e si fonda sul principio della corresponsabilità
educativa e della promozione di pari opportunità per tutti (Booth, Ainscow & Kingston,
2006). Solo attraverso una cultura condivisa dell’accoglienza e della valorizzazione delle
differenze è possibile realizzare una scuola realmente aperta a tutti, capace di trasformare
la diversità in occasione di crescita personale e collettiva (Florian, 2014).
Il PEI e il Profilo di Funzionamento rappresentano strumenti fondamentali per
personalizzare gli obiettivi educativi e monitorare i progressi, mentre metodologie
didattiche attive come la didattica laboratoriale, il cooperative learning e l’apprendimento
per scoperta favoriscono la partecipazione e l’inclusione di tutti gli studenti (Vygotskij,
1978; Johnson & Johnson, 1999).
Infine, la scuola inclusiva si configura come un vero e proprio progetto culturale e
politico, che richiede un impegno costante e condiviso da parte di tutti gli attori coinvolti,
per costruire un ambiente educativo capace di accogliere, valorizzare e sostenere ogni
studente nel suo percorso di crescita e apprendimento (UNESCO, 1994; MIUR, 2012).
Se desideri, posso fornirti anche riferimenti bibliografici completi o suggerimenti per
integrare esempi pratici e casi di studio.
3.2 Approcci e possibili interventi educativi nella sindrome di Down
Gli interventi educativi rivolti alle persone con sindrome di Down devono essere precoci,
intensivi e multidisciplinari, tenendo conto della plasticità cerebrale e delle potenzialità
individuali (Vicari, 2010; Cornoldi & Vianello, 2011). La letteratura scientifica sottolinea
come un approccio personalizzato e multisensoriale favorisca un apprendimento più
efficace, coinvolgente e duraturo (Youlearnt, 2025).
Uno degli approcci più efficaci è il metodo multisensoriale, che integra stimoli visivi,
tattili, uditivi e cinestesici per compensare le difficoltà nella memoria verbale e potenziare
l’apprendimento globale. Ad esempio, in una lezione di matematica, l’uso di grafici
colorati, manipolazione di oggetti concreti e canzoni tematiche permette di coinvolgere
diversi canali sensoriali, facilitando la comprensione e la memorizzazione (Youlearnt,
2025; Specchio Riflesso, 2024). Questo approccio risponde ai diversi stili di
23
apprendimento e valorizza le risorse cognitive residue, rendendo l’esperienza educativa
più motivante e accessibile.
Un altro strumento fondamentale è la Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA),
che utilizza simboli, immagini e tecnologie assistive per facilitare l’espressione e la
comprensione, superando le barriere linguistiche tipiche della sindrome di Down (Light
& McNaughton, 2012). La CAA favorisce l’autonomia comunicativa e l’inclusione
sociale, offrendo modalità alternative di interazione efficaci sia in ambito scolastico sia
familiare.
Il peer tutoring, ovvero il coinvolgimento attivo dei compagni di classe come modelli e
facilitatori dell’apprendimento, rappresenta una strategia preziosa per stimolare non solo
le competenze cognitive, ma anche quelle sociali e relazionali (Topping, 2005).
Attraverso il supporto reciproco e la collaborazione, si promuove un clima inclusivo e
partecipativo, valorizzando la diversità come risorsa.
L’apprendimento esperienziale, basato su attività pratiche e contestualizzate come
laboratori, orti didattici o progetti di gruppo, consente di consolidare le competenze in
modo significativo e motivante (Kolb, 1984). Queste esperienze favoriscono
l’applicazione concreta delle conoscenze, stimolano la curiosità e incoraggiano
l’autonomia.
La pedagogia speciale, come evidenziato da autori quali Ferlazzo (2015) e Vicari (2010),
si fonda sul riconoscimento dell’unicità di ogni alunno con sindrome di Down e sulla
valorizzazione delle sue potenzialità, superando una visione centrata esclusivamente sul
deficit. L’intervento educativo non mira solo a compensare le difficoltà, ma a creare
ambienti di apprendimento inclusivi, stimolanti e accoglienti, dove la diversità diventa
occasione di crescita per tutta la comunità scolastica.
Fondamentale è la collaborazione tra educatori, famiglie e specialisti, che consente di
progettare percorsi personalizzati e coerenti con le esigenze individuali, favorendo
l’autonomia, la socializzazione e l’acquisizione di competenze funzionali alla vita
quotidiana (Cornoldi & Vianello, 2011).
L’uso di strategie didattiche specifiche, come la scomposizione dei compiti complessi in
fasi più semplici, l’impiego di supporti visivi, la strutturazione di routine prevedibili e la
ripetizione costante, si è dimostrato particolarmente efficace per facilitare
24
l’apprendimento e la partecipazione attiva degli alunni con sindrome di Down (Youlearnt,
2025; Soloformazione, 2025).
Infine, approcci innovativi come il metodo Snoezelen, basato sulla stimolazione
multisensoriale controllata in ambienti protetti, offrono opportunità terapeutiche e
educative per migliorare l’attenzione, la comunicazione e il benessere emotivo (Borgione,
2023). Questi ambienti multisensoriali sono particolarmente utili per lavorare sulle abilità
sensoriali e cognitive, creando un contesto sicuro e motivante per l’apprendimento.
In sintesi, l’intervento educativo nella sindrome di Down deve essere articolato, flessibile
e centrato sulla persona, combinando metodologie tradizionali e innovative per
valorizzare le potenzialità individuali e promuovere una reale inclusione scolastica e
sociale.
Se desideri, posso aiutarti a integrare riferimenti bibliografici completi o suggerire esempi
pratici di attività educative.
3.3 Inserimento nella società moderna per le persone con sindrome di Down: la
storia di Giorgio e Pierpaolo
Per favorire una vita autonoma e soddisfacente delle persone con sindrome di Down, è
fondamentale iniziare precocemente, idealmente già dall’adolescenza, percorsi educativi
e formativi mirati all’acquisizione di competenze di vita quotidiana. Tra queste, le
cosiddette life skills – abilità pratiche come la gestione del denaro, l’uso dei mezzi
pubblici, la cura personale e la gestione del tempo – rappresentano la base imprescindibile
per promuovere l’indipendenza e l’autonomia (Schalock et al., 2010; Wehmeyer, 2013).
Parallelamente, la formazione professionale gioca un ruolo chiave nel processo di
inserimento sociale e lavorativo, offrendo opportunità di tirocini, stage e inserimenti
lavorativi in contesti protetti o ordinari, che consentono di sviluppare competenze
specifiche e di sperimentare concretamente il mondo del lavoro (Verdonschot et al., 2009;
Butterworth et al., 2016).
Uno dei modelli innovativi di autonomia abitativa è rappresentato dal cohousing assistito,
che permette una separazione graduale dalla famiglia in un contesto protetto e supportivo,
promuovendo responsabilità, autonomia e relazioni sociali significative (Bigby & Fyffe,
2018). Per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, strumenti come il job coaching e i
25
programmi di supported employment si sono dimostrati efficaci nel facilitare
l’inserimento e la permanenza nel mercato del lavoro, offrendo supporto personalizzato
e continuo (Wehman, 2013; Cimera, 2011). Inoltre, i percorsi di sollievo per le famiglie
rappresentano un elemento essenziale per sostenere il benessere di tutti gli attori coinvolti
nel processo di inclusione (Kober & Eggleton, 2002).
Un aspetto centrale di questo percorso è la costruzione di reti comunitarie accoglienti, che
superino stigma e pregiudizi, riconoscendo e rispettando il diritto delle persone con
sindrome di Down alla sessualità, alle relazioni affettive e alla partecipazione attiva nella
vita sociale e civica (Cuskelly & Bryde, 2004; McGuire & Bayley, 2011).
L’inserimento delle persone con sindrome di Down è un processo complesso e
multidimensionale che coinvolge molteplici agenzie educative, con la scuola e la famiglia
come pilastri fondamentali per lo sviluppo globale dell’individuo. La scuola rappresenta
il primo contesto sociale in cui il bambino con sindrome di Down può sperimentare
relazioni, apprendere regole di convivenza e sviluppare competenze cognitive e sociali
(Ainscow, Booth & Dyson, 2006). È essenziale che l’ambiente scolastico sia inclusivo,
capace di accogliere la diversità e di adattare i percorsi didattici alle esigenze specifiche
di ciascun alunno, favorendo la partecipazione attiva e il senso di appartenenza al gruppo
classe (Florian, 2014). La collaborazione tra insegnanti curricolari, di sostegno, educatori
e famiglie è imprescindibile per la definizione di obiettivi personalizzati e per il
monitoraggio costante dei progressi, in un’ottica di corresponsabilità educativa (Booth &
Ainscow, 2011).
Le agenzie educative extrascolastiche, quali centri diurni, associazioni, cooperative
sociali e servizi territoriali, svolgono un ruolo determinante soprattutto nella fase di
transizione dall’adolescenza all’età adulta. Questi servizi offrono opportunità di
socializzazione, formazione e avviamento al lavoro, sostenendo la persona con sindrome
di Down nel percorso verso una maggiore autonomia e integrazione sociale (Verdonschot
et al., 2009). La famiglia, dal canto suo, resta un punto di riferimento costante, sia come
luogo di affetto e sicurezza, sia come promotrice di esperienze di autonomia e di scelte
consapevoli. Il coinvolgimento attivo dei genitori nei progetti educativi e formativi
rafforza la coerenza degli interventi e favorisce una crescita armonica dell’individuo, nel
rispetto delle sue potenzialità e dei suoi desideri (Turnbull et al., 2015).
26
L’inserimento sociale e lavorativo delle persone con sindrome di Down è il risultato di
un percorso educativo che mira a potenziare le abilità adattive, relazionali e professionali.
La progettazione di attività mirate, la promozione di esperienze di autonomia e la
costruzione di reti di supporto tra scuola, famiglia e territorio sono elementi chiave per
favorire una reale inclusione (Schalock et al., 2010). È fondamentale che la società nel
suo complesso superi la logica dell’assistenzialismo, riconoscendo il diritto di ogni
persona a partecipare attivamente alla vita sociale e lavorativa, secondo le proprie
capacità e aspirazioni (Oliver, 1996; United Nations, 2006).
In occasione della recente Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, l’AIPD
(Associazione Italiana Persone Down) ha scelto di dedicare l’attenzione a due storie
emblematiche: quelle di Giorgio e Pierpaolo, due uomini con sindrome di Down che
rappresentano una realtà troppo spesso ignorata. Un’indagine condotta da AIPD e Censis,
nell’ambito del progetto Non uno di meno, ha infatti evidenziato una grave lacuna: gli
adulti con disabilità sono i grandi assenti dei servizi e della programmazione sociale. Per
loro, spesso, non esiste un futuro al di fuori della famiglia o delle strutture residenziali,
talvolta inadeguate. La prima storia è quella di Giorgio.
Giorgio ha 50 anni e vive in una casa di riposo per anziani, nonostante la sua energia e
vitalità. Dietro la porta della sua stanza, tiene sempre un trolley pronto, nella speranza di
poter tornare presto a quella che chiama “casa nostra”: il progetto di autonomia abitativa
dell’AIPD, dove ha sperimentato brevi periodi di indipendenza. La sua storia è segnata
da abbandoni e perdite. Nato in una famiglia benestante, suo padre lo lasciò una settimana
dopo la nascita, incapace di accettare la sua sindrome di Down. Cresciuto con la madre,
insegnante, Giorgio ha avuto un’infanzia ricca di stimoli: era bravo a scuola, suonava il
pianoforte e nuotava a livello agonistico. Ma a 30 anni, tutto è cambiato. Sua madre,
colpita da una demenza precoce, si trasferì in una struttura, portandolo con sé. Dopo la
sua morte, Giorgio è rimasto lì, circondato da anziani, in un silenzio innaturale per un
uomo della sua età. Per un breve periodo, è stato accolto dalla seconda moglie del padre,
che lo ha amato come un figlio. Ma quando anche lei è morta improvvisamente, Giorgio
è tornato in una casa di riposo. Oggi l’AIPD di Campobasso, guidata da Giovanna
Grignoli, sta lavorando per offrire alternative: una casa-famiglia dove i ragazzi con
disabilità possano vivere in autonomia. “Purtroppo siamo arrivati tardi per Giorgio”,
ammette Grignoli, “ma speriamo di portarlo presto da noi. Lui aspetta solo quello.”
27
L’altra storia è quella di Pierpaolo che rispetto a Giorgio ha avuto una vita più felice e
spensierata grazie alla sua situazione familiare.
Pierpaolo, 57 anni, vive a Campobasso con la sorella Emilia, 68 anni, che lo accompagna
con amore nella sua quotidianità. Lui frequenta un laboratorio artistico dell’AIPD, mentre
lei divide il suo tempo tra l’attività di imprenditrice agricola, il ruolo di caregiver e lo
sport. Insieme, guardano al futuro con ottimismo, consapevoli che la loro unione sia la
forza che li sostiene.
Queste storie mostrano quanto sia urgente creare servizi dedicati agli adulti con disabilità.
Oggi, le uniche risposte arrivano dalle associazioni, che operano tra difficoltà economiche
e ritardi nei finanziamenti.
“Senza risorse, non possiamo garantire un futuro dignitoso a queste persone”, scrive
Gianfranco Salbini, presidente nazionale AIPD. “Chiediamo al Governo di intervenire,
perché nessuno resti indietro.”
La storia di Giorgio e Pierpaolo fa capire che servono politiche inclusive, non solo quando
non ci sono più alternative. Perché ogni persona, a qualsiasi età, merita di vivere una vita
piena, non solo di assistenza, ma di possibilità. Quindi l’inserimento delle persone con
sindrome di Down deve essere inteso come un processo integrato e continuo, che valorizzi
la persona nella sua interezza e favorisca la costruzione di una vita piena, autonoma e
socialmente partecipata.
3.4 La famiglia e la scuola
La famiglia rappresenta il punto di riferimento primario e insostituibile nella vita della
persona con sindrome di Down, accompagnandola lungo tutto il percorso di crescita e
sviluppo (Turnbull et al., 2015). Tuttavia, le famiglie spesso si trovano a fronteggiare un
carico assistenziale ed emotivo significativo, che richiede un adeguato sostegno e una rete
di supporto efficace (Schalock et al., 2010). In questo contesto, la scuola assume un ruolo
cruciale nel costruire un’alleanza solida e collaborativa con le famiglie, basata
sull’ascolto attivo, il rispetto reciproco e il riconoscimento delle competenze genitoriali
(Booth & Ainscow, 2011).
La co-progettazione educativa diventa così un elemento centrale, attraverso cui scuola e
famiglia definiscono insieme gli obiettivi educativi e le strategie da adottare nel Piano
28
Educativo Individualizzato (PEI), strumento fondamentale per personalizzare il percorso
formativo (Florian, 2014). La relazione tra famiglia e scuola costituisce un pilastro
imprescindibile nel processo di crescita e inclusione delle persone con sindrome di Down,
poiché la famiglia è il primo ambiente educativo, luogo di affetto, sicurezza e stimolo,
dove il bambino sviluppa le sue prime competenze relazionali e comunicative (Dunst &
Trivette, 2009).
La scuola, d’altro canto, rappresenta il contesto privilegiato in cui tali competenze
possono essere ulteriormente potenziate e valorizzate, offrendo occasioni di
socializzazione, apprendimento e confronto con la diversità (Ainscow, Booth & Dyson,
2006). Perché l’inclusione sia autentica e non solo formale, è necessario instaurare una
reale alleanza educativa tra genitori, insegnanti e specialisti, fondata sulla condivisione di
obiettivi, strategie e aspettative (Merialdo, 2023). La collaborazione scuola-famiglia si
concretizza nella progettazione di percorsi personalizzati, nella co-costruzione del PEI e
nella partecipazione attiva alle scelte che riguardano la vita scolastica e sociale del
bambino (Cornoldi & Vianello, 2011).
Come sottolineato dalla pedagogia speciale, il coinvolgimento della famiglia non deve
limitarsi alla mera informazione, ma deve trasformarsi in una partecipazione attiva e
consapevole, capace di valorizzare le risorse e le potenzialità di ciascun membro
(Ferlazzo, 2015). Solo attraverso un dialogo costante e una corresponsabilità educativa è
possibile superare le barriere culturali e organizzative che ancora oggi ostacolano il pieno
riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità, promuovendo una scuola realmente
aperta a tutti, capace di accogliere, sostenere e accompagnare ogni alunno nel suo
percorso di crescita e autonomia (UNESCO, 1994).
In alcuni contesti, esperienze come i Gruppi di Parola per genitori e i Patti di
Corresponsabilità Educativa favoriscono un dialogo aperto e costruttivo, rafforzando il
legame tra scuola e famiglia e migliorando il benessere complessivo della persona con
sindrome di Down (ANCoS Aps Roma, 2025). Questi strumenti rappresentano momenti
di confronto, formazione e supporto, fondamentali per costruire una rete educativa coesa
e inclusiva.
In conclusione, la sinergia tra famiglia e scuola è essenziale per garantire un percorso
educativo efficace e inclusivo, che riconosca e valorizzi la diversità come risorsa e
promuova il pieno sviluppo delle potenzialità della persona con sindrome di Down.
29
Se vuoi, posso aiutarti anche a integrare riferimenti bibliografici completi o suggerire
esempi di buone pratiche.
3.5 Le cooperative sociali: tecniche e le terapie per creare benefici a lungo termine
Le cooperative sociali svolgono un ruolo cruciale nel promuovere l’inclusione lavorativa
e sociale delle persone con sindrome di Down, agendo come un ponte tra il mondo della
formazione, la famiglia e il mercato del lavoro (Borzaga & Tortia, 2006). Queste realtà,
nate in Italia con la Legge 381/1991, costituiscono enti del Terzo Settore dedicati a
favorire l’integrazione sociale e professionale di persone con disabilità e altri soggetti
svantaggiati (Zamagni, 2010).
Le cooperative sociali offrono percorsi di formazione professionale mirati, che
permettono agli utenti di acquisire competenze specifiche in settori diversificati come il
catering, l’agricoltura sociale, l’artigianato e i servizi alla persona (Borzaga & Santuari,
2014). Attraverso laboratori didattici, attività pratiche e tirocini, le persone con sindrome
di Down possono sviluppare abilità operative e relazionali in ambienti protetti ma
stimolanti, favorendo così un apprendimento significativo e motivante (Verdonschot et
al., 2009).
Un aspetto fondamentale dell’attività delle cooperative sociali è la facilitazione
dell’inserimento lavorativo, realizzato grazie a collaborazioni con aziende che accolgono
persone con disabilità tramite contratti di apprendistato, borse lavoro o percorsi di
supported employment (Wehman, 2013). Queste esperienze consentono di vivere un
contesto professionale reale, promuovendo la dignità, l’autonomia e la cittadinanza attiva
(Butterworth et al., 2016).
Le cooperative sociali svolgono inoltre un importante ruolo nella tutela dei diritti delle
persone con sindrome di Down, offrendo supporto legale e consulenza per contrastare
discriminazioni e promuovere gli accomodamenti ragionevoli necessari a garantire pari
opportunità nel mondo del lavoro e nella vita sociale (Oliver, 1996; European Disability
Forum, 2015).
Esempi concreti di queste attività sono rappresentati da realtà come la Cooperativa
Sociale Rose Blu, che da oltre vent’anni promuove l’integrazione sociale e lavorativa
attraverso progetti di agricoltura sociale, laboratori creativi e comunità di tipo familiare
30
per persone con disabilità (Cooperativa Rose Blu, 2024). Progetti come l’Orto-Frutteto
Solidale di Villa San Giovanni, realizzato su terreni confiscati alla ‘Ndrangheta,
testimoniano come il lavoro agricolo possa diventare strumento di riscatto sociale e
inclusione (P&G Italia, 2023). Analogamente, la Cooperativa Sociale La Fonte a Sesto
Fiorentino e la Cooperativa Sant’Anna a La Spezia offrono percorsi di inserimento
lavorativo e formazione post-scolastica per giovani con sindrome di Down e altre
disabilità (Cooperativa La Fonte, 2024).
Tuttavia, nonostante i successi, permangono alcune criticità, come la limitata diffusione
territoriale di queste cooperative in alcune aree del Paese e la necessità di maggiori risorse
economiche e umane per sostenere progetti innovativi e di qualità (ISTAT, 2022). La
sfida futura consiste nel rafforzare queste realtà, promuovendo reti di collaborazione tra
istituzioni, imprese e terzo settore per ampliare le opportunità di inclusione e garantire
percorsi di vita dignitosi e autonomi alle persone con sindrome di Down.
In sintesi, le cooperative sociali rappresentano un pilastro fondamentale per l’inclusione
sociale e lavorativa delle persone con sindrome di Down, offrendo percorsi personalizzati
di formazione, lavoro e supporto che valorizzano le capacità individuali e promuovono la
partecipazione attiva nella società.
Molto importanti per l’aiuto ai ragazzi con sindrome di down sono le terapie come: pet
therapy, la musicoterapia e lo sport.
La pet therapy, o terapia assistita con animali, si è dimostrata particolarmente efficace nel
potenziare le competenze sociali, favorire l’interazione e aumentare il coinvolgimento dei
bambini con sindrome di Down in attività positive. La presenza di un animale, in
particolare il cane, facilita la comunicazione, la regolazione emotiva e la capacità di
instaurare relazioni di fiducia, riducendo ansie e paure. Studi recenti hanno evidenziato
come la pet therapy migliori l’attunement emotivo e la regolazione delle emozioni,
offrendo ai bambini un ambiente accogliente e non giudicante, capace di stimolare la
partecipazione e la motivazione. Inoltre, prendersi cura di un animale contribuisce a
rafforzare il senso di responsabilità e l’autostima, promuovendo l’autonomia e la gestione
delle routine quotidiane.
La musicoterapia rappresenta un altro strumento prezioso: integrare la musica nelle
attività terapeutiche aiuta a migliorare la memoria, la comunicazione e le abilità sociali
nei bambini con sindrome di Down. Attraverso lezioni di gruppo, il canto, il movimento
31
e l’uso di strumenti musicali, i ragazzi imparano a esprimersi, a collaborare e a rafforzare
la propria autostima. La musicoterapia, infatti, favorisce l’inclusione, stimola la creatività
e contribuisce a sviluppare capacità attentive e di ascolto, elementi fondamentali per una
crescita armoniosa.
Anche lo sport gioca un ruolo centrale nel percorso di crescita dei ragazzi con sindrome
di Down. La partecipazione ad attività sportive, anche semplici e adattate, contribuisce a
migliorare la coordinazione motoria, la forza muscolare, l’equilibrio e la resistenza fisica.
Oltre ai benefici fisici, lo sport rafforza la fiducia in sé stessi, la capacità di lavorare in
gruppo e la gestione delle emozioni, offrendo occasioni di socializzazione e divertimento.
È importante proporre giochi e attività accessibili, che tengano conto delle difficoltà di
coordinazione e permettano a tutti di sperimentare il successo e la soddisfazione
personale.
In conclusione, l’integrazione di pet therapy, musicoterapia e sport nei percorsi educativi
e riabilitativi rappresenta una risorsa fondamentale per promuovere il benessere globale
delle persone con sindrome di Down, sostenendo non solo lo sviluppo delle abilità
pratiche e relazionali, ma anche la qualità della vita e l’inclusione sociale
3.6 Associazioni, eventi e manifestazioni per la Sindrome di Down
L’Associazione Italiana Persone Down (AIPD), fondata nel 1979, rappresenta una delle
realtà più significative nel panorama italiano per la tutela, il sostegno e la promozione dei
diritti delle persone con sindrome di Down (AIPD, 2024). Nata dall’iniziativa di un
gruppo di famiglie desiderose di condividere esperienze e combattere stereotipi, l’AIPD
si è evoluta nel tempo, ampliando il proprio raggio d’azione e consolidando una rete di
sezioni diffuse su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo primario è sempre stato quello
di favorire l’autonomia, l’indipendenza, la socializzazione e lo sviluppo delle capacità di
ciascuna persona con trisomia 21, superando pregiudizi e barriere culturali (Bertelli,
2010).
Anche a livello locale, associazioni come AllegraMente Onlus a Napoli incarnano questi
principi, offrendo ai ragazzi con sindrome di Down opportunità concrete di crescita e
inclusione, contrastando il pregiudizio attraverso attività educative, culturali e ricreative
(AllegraMente, 2023).
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Il 21 marzo, Giornata mondiale per la sindrome di Down, rappresenta un momento di
grande rilevanza per informare, formare e sensibilizzare l’opinione pubblica su questa
condizione genetica. In questa occasione, numerose iniziative si svolgono in tutta Italia e
nel mondo, coinvolgendo associazioni, istituzioni e cittadini (Down Syndrome
International, 2025).
Tra gli eventi più rilevanti si annoverano webinar e convegni tematici, come quelli
organizzati dall’Associazione Italiana Terapia Occupazionale (AITO) che, con il
convegno “Esperienze di terapia occupazionale”, approfondiscono le strategie
riabilitative più efficaci. Parallelamente, SporT21 Sicilia promuove incontri come
“Progettare il futuro della sindrome di Down. Nuove frontiere della ricerca”, che mettono
in luce le innovazioni scientifiche e le prospettive future per migliorare la qualità della
vita (AITO, 2025; SporT21 Sicilia, 2025).
A livello internazionale, la rete Down Syndrome International coordina la 14ª Conferenza
mondiale in occasione della Giornata mondiale, ospitata presso le Nazioni Unite a New
York, con eventi paralleli a Ginevra. Il tema del 2025, “Improve Our Support Systems”,
sottolinea l’importanza di rafforzare i sistemi di supporto per le persone con sindrome di
Down e le loro famiglie, promuovendo politiche inclusive e servizi adeguati (Down
Syndrome International, 2025).
Le iniziative culturali, come la proiezione di film e documentari – tra cui il celebre
Wonder e numerosi cortometraggi che raccontano esperienze di vita reale –
contribuiscono a diffondere una maggiore conoscenza e a favorire l’inclusione sociale,
sensibilizzando il pubblico attraverso narrazioni autentiche e coinvolgenti (Smith, 2018).
Queste manifestazioni, diffuse su tutto il territorio nazionale e sostenute da associazioni
come AIPD, CoorDown e Anffas, mirano a valorizzare il protagonismo delle persone con
sindrome di Down, promuovendo la loro autonomia e sensibilizzando la società sui diritti
e sulle necessità di un sostegno adeguato. Tali azioni si inseriscono in un quadro più
ampio, in linea con gli obiettivi della campagna internazionale per il 2025, che punta a
garantire pari opportunità, inclusione e qualità della vita per tutte le persone con disabilità
(UNCRPD, 2006; CoorDown, 2024).
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CONCLUSIONE
Giunti al termine di questo percorso di approfondimento, emerge chiaramente quanto la
sindrome di Down rappresenti una realtà complessa e, al contempo, profondamente
affascinante. Non si tratta semplicemente di una definizione medica o di un elenco di
caratteristiche fisiche e cognitive, ma di un’esperienza umana che coinvolge direttamente
le persone, le loro famiglie e la società nel suo complesso. Raccontare la sindrome di
Down significa narrare storie di vita, di sfide quotidiane, di conquiste, di relazioni e di
crescita personale. Significa anche interrogarsi sul modo in cui la società ha guardato e
continua a guardare la diversità, spesso con pregiudizi, ma anche con crescente apertura
e consapevolezza.
Negli ultimi decenni, la percezione della sindrome di Down ha subito una trasformazione
radicale. Se in passato dominavano esclusione e stereotipi, oggi la parola chiave è
inclusione. Questo cambiamento è frutto dell’impegno costante di famiglie, insegnanti,
operatori sanitari, associazioni e delle stesse persone con sindrome di Down, che hanno
saputo dimostrare al mondo le proprie capacità, i propri talenti e il desiderio di partecipare
attivamente alla vita sociale (Chapman, 2006; Fidler, 2005).
La scienza ha contribuito in modo determinante a questa evoluzione. La scoperta della
trisomia 21 nel 1959 da parte di Jérôme Lejeune ha segnato una svolta fondamentale,
consentendo diagnosi sempre più precoci e precise (Lejeune, 1959). Oggi, grazie ai
progressi della genetica e delle tecniche non invasive come il test del DNA fetale libero
circolante, è possibile identificare la sindrome già durante la gravidanza (Bianchi, 2015).
Questa possibilità apre però importanti riflessioni etiche sul valore della vita e
sull’accoglienza della diversità, temi che la società deve affrontare con responsabilità e
umanità (Gillon, 2003).
Sul piano medico, i progressi nella presa in carico multidisciplinare hanno migliorato
significativamente la qualità della vita delle persone con sindrome di Down. La
collaborazione tra pediatri, cardiologi, logopedisti, fisioterapisti, psicologi e altri
specialisti permette oggi di offrire interventi tempestivi e personalizzati fin dai primi mesi
di vita (Bull, 2011). Terapie riabilitative quali fisioterapia, logopedia, musicoterapia e pet
therapy non solo aiutano a superare difficoltà specifiche, ma favoriscono anche la
socializzazione e il benessere emotivo (Fusar-Poli et al., 2019).
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Un aspetto spesso sottovalutato riguarda la salute a lungo termine. Le persone con
sindrome di Down presentano una maggiore predisposizione a patologie come cardiopatie
congenite, disturbi tiroidei e, con l’avanzare dell’età, la malattia di Alzheimer
(Wisniewski et al., 2015). La ricerca scientifica è impegnata nello sviluppo di strategie
preventive e terapie innovative, con risultati promettenti nell’uso di farmaci per
l’Alzheimer anche in questo contesto (Head et al., 2016).
Se la medicina ha fatto grandi passi avanti, la vera sfida rimane l’inclusione sociale. Leggi
come la 104/92 in Italia e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità
hanno sancito l’inclusione scolastica come diritto fondamentale (MIUR, 1992; UNCRPD,
2006). Tuttavia, la realtà quotidiana presenta ancora ostacoli materiali e culturali. Non
basta inserire un bambino con sindrome di Down in classe: è necessario creare scuole
accoglienti, con insegnanti preparati, strumenti adeguati e didattiche personalizzate che
valorizzino le potenzialità di ciascuno (Florian, 2014).
L’inclusione si estende oltre la scuola. Crescendo, le persone con sindrome di Down
aspirano a lavorare, costruire relazioni affettive, vivere in autonomia. Negli ultimi anni
sono nate esperienze positive di inserimento lavorativo, grazie all’impegno di
associazioni, cooperative sociali e aziende sensibili (Wehman, 2013). Secondo dati AIPD,
circa il 20% degli adulti con sindrome di Down in Italia è occupato, soprattutto in settori
come ristorazione, commercio e servizi, un dato in crescita ma ancora insufficiente
(AIPD, 2023).
L’autonomia personale è un tema centrale: i “progetti di vita indipendente” aiutano le
persone con sindrome di Down a gestire la quotidianità, dalla spesa alla cucina, dai
trasporti alla gestione economica, rafforzando autostima e senso di appartenenza sociale
(Wehmeyer & Schalock, 2001).
Un elemento che mi ha profondamente colpito è il valore che la diversità porta nelle nostre
vite. Le persone con sindrome di Down spesso manifestano una straordinaria capacità di
empatia, una gioia di vivere contagiosa e una visione unica del mondo. Le loro storie,
conquiste e sorrisi ci ricordano che la normalità è un concetto relativo e che la vera
ricchezza risiede nella diversità (Siperstein et al., 2007).
Anche lo sport, l’arte e lo spettacolo contribuiscono a cambiare l’immaginario collettivo.
Atleti come Nicole Orlando, pluricampionessa paralimpica, o Pablo Pineda, primo
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laureato europeo con sindrome di Down, sono simboli di una nuova normalità, in cui le
barriere vengono superate e i sogni possono realizzarsi (Orlando, 2020; Pineda, 2013).
Nonostante i progressi, molte sfide restano aperte. Le famiglie chiedono maggiore
sostegno economico e psicologico, mentre le persone con sindrome di Down reclamano
ascolto, autonomia e protagonismo. La politica e le istituzioni devono continuare a
investire in ricerca, formazione e servizi adeguati (UNICEF, 2019).
Il cambiamento più profondo, tuttavia, deve avvenire dentro ciascuno di noi. Imparare a
vedere la sindrome di Down non come un limite, ma come una forma preziosa di diversità
umana, è il primo passo verso una società veramente inclusiva. Una società in cui nessuno
venga lasciato indietro e ogni persona possa sentirsi accolta, valorizzata e rispettata.
In conclusione, la sindrome di Down ci insegna che la diversità non è un ostacolo, ma
una risorsa. Ci invita a superare pregiudizi, ad aprirci all’incontro e a riconoscere il valore
unico di ogni individuo. Solo così potremo costruire un futuro in cui “inclusione” non sia
solo una parola, ma una realtà vissuta quotidianamente nelle scuole, nei luoghi di lavoro,
nelle famiglie e nei cuori di tutti noi.
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