lOMoARcPSD|24541734 Il Principe - Machiavelli Letteratura Italiana (Università Ca' Foscari Venezia) Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo. Scaricato da Ludovica Veneran ([email protected]) lOMoARcPSD|24541734 IL PRINCIPE La vasta esperienza che Machiavelli ebbe modo di approfondire sugli affari di stato e di governo lo portò a delineare la figura di un governante ideale, in grado di reggere uno stato forte e di affrontare con successo sia gli attacchi esterni sia le sollevazioni dei sudditi all'interno. Nella maggior parte dei suoi scritti tratteggiò un'analisi politica molto realista della situazione a lui contemporanea, confrontandola con esempi tratti dalla storia, soprattutto da quella romana. Nella sua opera più famosa, Il Principe (1513-14, ma pubblicato a stampa solamente nel 1532), analizzò i vari generi di principati e di eserciti, e cercò di delineare le qualità necessarie a un principe per conquistare e conservare uno stato, e per ottenere il rispettoso appoggio dei sudditi. Secondo Machiavelli, ciò che permette a un principe di mantenere il controllo del proprio stato non va cercato in un comportamento corretto o morale; occorre bensì guardare la "realtà effettuale della cosa": se questa è dominata dalla lotta, il principe dovrà imporsi con la forza. L'affermazione, che è stata spesso interpretata come una difesa del dispotismo e della tirannia di principi quali Cesare Borgia, si basa sulla convinzione che chi governa non debba essere vincolato dalle tradizionali norme etiche: è meglio essere amato che temuto, oppure è meglio il contrario? La risposta è che sarebbe auspicabile essere entrambe le cose ma, dovendo scegliere, poiché risulta difficile unire le due qualità, per un principe è molto più sicuro essere temuto che amato. Il concetto è così tradotto nell'asciutta prosa di Machiavelli: "Nasce da questo una disputa: s'elli è meglio essere amato che temuto, o 'l converso. Respondesi, che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma, perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell'uno de' dua". Secondo Machiavelli, un principe dovrebbe interessarsi solo del potere e sentirsi vincolato solo da quelle norme (tratte dalla storia) che conducono le azioni politiche al successo, superando gli ostacoli imprevedibili e incalcolabili posti in gioco dalla Fortuna. “Il Principe” espone fondamentalmente le norme che sono necessarie a un sovrano per fondare uno stato e conservarlo. Machiavelli ritiene che un principe deve preferire l’essere temuto all’essere amato; deve sacrificare la virtù all’interesse dello stato; deve, quando lo richiedono le necessità politiche, saper anche mancare la parola data. La teoria che il fine giustifica i mezzi, fu più tardi criticata e ritenuta immorale: in realtà Machiavelli ha voluto andare dietro alla realtà vera delle cose, ha cioè considerato le cose come sono e non come dovrebbero essere. Non è che egli non apprezzi la virtù, ma in quell’età di prepotenze e di violenza soltanto un principe energico e senza scrupoli avrebbe potuto fare dell’Italia uno stato unito e potente. Il libro comincia con una dedica a Lorenzo de’ Medici il giovane (che resse il governo di Firenze dal 1513, più di nome che di fatto, poiché era molto più forte l’autorità del capo di famiglia Giovanni, papa Leone X dallo stesso anno). È impossibile che il Machiavelli riconosca in questo mediocre signore il suo principe ideale; la lettera è perciò diretta all’uomo così virtuoso che sappia attuare i suoi insegnamenti. In alcune lettere a Francesco Vettori, Machiavelli sosteneva la volontà di indirizzare l’opuscolo al fratello di Giovanni, Giuliano; ma già manifestava il dubbio che da Giuliano non sarebbe stato letto né capito, quindi già pochi mesi dopo maturò l’idea di cambiare destinatario. In questa Dedica afferma che molti sogliono ingraziarsi i principi con doni di vario tipo; per questo egli decide di fargli dono della cosa che stimi più di ogni altra: la conoscenza delle gesta degli uomini grandi, conoscenza che mi sono Scaricato da Ludovica Veneran ([email protected]) lOMoARcPSD|24541734 guadagnato attraverso l'esperienza del presente e con uno studio continuo degli eventi passati. Afferma la semplicità stilistica dell’opera, che dovrà essere apprezzata quindi non per a ricercatezza degli artifici retorici ma solo per l’utilità e la profondità dei suoi contenuti. Non intende mostrarsi presuntuoso, ma solo porsi “come un geometra” da una prospettiva diversa per riuscire a capire l’operato del principe. Nel primo capitolo si parla delle tipologie di principato e come si conquistano; i principati sono ereditari o nuovi. I nuovi o sono interamente nuovi (come Milano per Francesco Sforza), o sono delle nuove acquisizioni di uno stato ereditario (come Napoli per il re di Spagna). Gli abitanti di questi territori acquisiti molto spesso vivevano già sotto un Principe oppure erano liberi: e si conquistano o con le armi di altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù. Nel secondo capitolo tratta in particolare dei principati ereditari: è più facile mantenere quest’ultimi che Stati nuovi: basta seguire la strada degli antenati e temporeggiare nelle situazioni difficili; anche gli attacchi esterni non sono una grande minaccia. Un principe ereditario poi non ha molti motivi di esercitare violenze, dunque sarà più amato degli altri, a meno che non abbia dei vizi odiosi. Il terzo capitolo dal titolo “I Principati Misti”, tratta di quanto sia difficile mantenere un principato nuovo: se è una nuova acquisizione, il Principe si troverà a dover trattare con i nuovi sudditi e questo comporta sempre un uso della violenza, ovvero di eserciti e altro, cosicché lo odieranno sia quelli che non volevano un nuovo Principe, sia quelli che lo hanno aiutato a conquistare il potere, perché ne saranno di sicuro meno contenti di quanto pensassero. Un principe nuovo, per farsi valere, deve offendere tutti, anche chi l’ha voluto. In questo capitolo parla anche di due tipi di principati misti: quelli vicini e simili per usanze al principato conquistatore, che sono anche i più facili da mantenere, e quelli lontani e diversi, che sono i più difficili. Secondo Machiavelli, la cosa migliore per conservare il secondo tipo di principato, è che vengano mandate delle colonie e che il principe vi risieda, cosa appunto che Luigi XII non fece. È in questo capitolo che si nota il pensiero politico del Machiavelli: il popolo in armi può respingere anche il più agguerrito degli eserciti. Nel quarto capitolo afferma che potrebbe apparire strano che, dato le difficoltà che si incontrano nel mantenere un nuovo stato, portando l’esempio che nonostante la morte di Alessandro Magno, che da poco aveva conquistato l'Asia, i nuovi territori non si ribellarono. I Principati o sono governati da un Principe assoluto, come il sultano turco ottomano (attorniato da servi, incaricati per sua grazia e concessione come ministri e funzionari), oppure dal Principe insieme ai nobili (che posseggono tale rango grazie alla loro discendenza), che controllano sudditi e Stati propri, come il re di Francia. Il primo ha più autorità, il secondo deve rispettare una nobiltà numerosa. Togliere il potere al primo è più difficile (bisogna contare solo sulle proprie forze per la difficoltà nel corrompere i servi che al sovrano assoluto devono tutto il loro potere), ma poi è più facile restare al comando, perché, una volta uccisa tutta la famiglia del Principe, non ci sono altri avversari temibili. Togliere il potere al secondo è più facile, ma i nobili, che magari ti hanno aiutato, poi insidiano il tuo potere. Il quinto capitolo descrive il modo in cui si debbano governare quelle città e quei principati, che prima di essere conquistati erano liberi e avevano leggi proprie. Il Machiavelli ci dà tre metodi: distruggerla totalmente, come fecero i Romani con Capua, Numanzia e Cartagine (metodo più efficace). Oppure abitare personalmente il territorio esercitando il potere in maniera più diretta; infine istituire un’oligarchia governata a distanza che mantiene invariati ordinamenti e leggi precedenti alla conquista. Scaricato da Ludovica Veneran ([email protected]) lOMoARcPSD|24541734 La conclusione che si trae è che il modo più efficace per mantenere il potere in uno stato dotato di leggi proprie è distruggere la struttura dello stato conquistato, dal momento che le rivolte nascono sempre dal ricordo di una precedente condizione. Nel sesto capitolo si parla di quanto sia più stabile un principato nuovo conquistato con le proprie armi e capacità, cioè con la virtù, piuttosto di uno conquistato con la fortuna. Meno un principe si appoggia sulla fortuna più sarà facile per lui restare al potere, e sarà ancora più facile se andrà ad abitare nel territorio appena conquistato. Quanto è più grande la virtù del Principe, tanto più sarà facile acquistare principati nuovi e mantenerli. Sono citati numerosi esempi di grandi perché bisogna sempre seguire l’esempio di personaggi illustri: anche se non si riesce ad eguagliare la loro virtù, almeno si prova ad imitarla (CFR Mosè, Teseo, Ciro, Romolo). Quelli che divengono principi per virtù, come questi grandi uomini, vi arrivano con difficoltà, ma con molta facilità mantengono il potere. Le difficoltà derivano dal fatto che, per arrivare al principato, devono introdurre nuovi istituti e metodi di governo, e, in questo modo, hanno contro coloro che traevano vantaggi dal vecchio ordinamento, e come deboli sostenitori gli altri; così se i nemici dovessero attaccare, contando solo su questi deboli sostenitori, il nuovo principe sarebbe spodestato, perché lo difendono debolmente, in modo da temporeggiare e unirsi poi ai primi se le cose andassero male. Il settimo capitolo parla della fragilità dei principati conquistati con la fortuna, come Cesare Borgia che, persa la fortuna (appoggio del padre papa Alessandro VI), perse anche lo stato. Quelli che diventano principi di stati acquistati con la sorte, lo diventano assai facilmente ma difficilmente li mantengono, perché si basano sulla volontà e sulla sorte di chi ha concesso loro questo privilegio. Non sanno né possono mantenersi in quello stato: non sanno perché essendo sempre vissuti alle spalle di altri, non sono per natura capaci di comandare; non possono perché non hanno le forze che possono essere loro fedeli. Cesare conquista una gran parte d'Italia grazie all’aiuto del padre, ma viene preso in esempio per essersi comunque comportato in modo virtuoso, avendo attuato tutti i provvedimenti che un principe prudente deve adottare per mettere le barbe a quegli stati che non ha acquisito con mezzi propri. Egli fallisce soltanto per estrema “malignità di fortuna” (la morte del padre e la malattia concomitante dello stesso Cesare): infatti se non fosse stato malato e accerchiato dagli eserciti, sicuramente sarebbe riuscito a mantenere saldamente i suoi interessi. Tra i vari metodi per conquistare per conquistare uno stato c’è anche quello attraverso l’omicidio del regnante precedente. Da privato cittadino infatti esistono due modi di diventare principe che non siano attribuibili alla virtù e alla fortuna: questi sono la scelleratezza o infamia, e attraverso il favore dei propri cittadini (questo è più frequente nell’ambito delle repubbliche). Perché alcuni principi siano riusciti a mantenere il potere e a vivere al sicuro senza eventuali complotti contro di loro mentre altri no, dipende dalle crudeltà perpetrate. Nell’ottavo capitolo infatti si nota la distinzione tra crudeltà momentanea, necessaria (si fa una volta sola per necessità che poi si converte in utilità per i sudditi) e crudeltà permanente, non necessaria. Nel nono capitolo Machiavelli parla di principato civile quando un privato cittadino, aiutato dal popolo o dai nobili, diventa principe della patria. Vi sono differenze se si diventa principe con l’aiuto del popolo o dei nobili: con i nobili si hanno maggiori difficoltà perché essi si considerano uguali al principe, però sono più facili da Scaricato da Ludovica Veneran ([email protected]) lOMoARcPSD|24541734 sconfiggere perché pochi. Comunque, l’elemento principale, in un caso o nell’altro, è farsi amico il popolo, altrimenti non si ha rimedio nelle avversità. I nobili fanno principe uno di loro, non potendo resistere al popolo, mentre il volgo fa principe qualcuno per difendersi. Nel decimo capitolo esamina le qualità dei Principati che si distinguono in principi che sono indipendenti nella milizia da altri e il principe che invece ha sempre bisogno dell’aiuto di altri. I primi possono sostenere con le proprie forze una battaglia campale, i secondi invece hanno bisogno di rifugiarsi dentro le mura per difendersi da esse. Quando non si possiedono delle forze militari proprie, bisogna infatti sapersi difendere, rafforzando le proprie fortificazioni e attuando una tattica difensiva, ma un tale principato non si può reputare forte. Vi sono anche dei principi che possiedono stati che non governano e sudditi che non comandano (undicesimo capitolo): questi sono i principi ecclesiastici. L’unica difficoltà dei principati ecclesiastici sta nell’ottenerli, poiché si conquistano con virtù e fortuna, ma si possono mantenere senza l’una e senza l’altra. Una volta ottenuti, il principe potrà non preoccuparsi della possibilità di perderli, perché questa forma di potere ha fondamento nelle istituzioni religiose, che sono tanto potenti da mantenere i suoi principi al potere in un modo o nell'altro. Di conseguenza questi sono principati sicuri e felici. In questo capitolo Machiavelli fa anche delle considerazioni sui vari papi che si sono succeduti e sulla stima che hanno suscitato: prima di Alessandro VI, il papato godeva di poco credito, ma con tutto quello che egli fece per il figlio Cesare Borgia, di cui abbiamo parlato prima, finì, alla morte sua e del figlio, per avvantaggiare il papato che ne ereditò le conquiste. Poi venne il tempo di Giulio II che oltre a trovarsi uno stato della Chiesa molto grande, escogitò un modo per fare soldi mai attuato prima: la vendita delle indulgenze. Egli inoltre conquistò Bologna, sottomise i Veneziani e cacciò i Francesi dall’Italia. Il dodicesimo capitolo tratta degli eserciti; affinché un principato sia solido deve posare su buone leggi e buoni eserciti. Essi possono essere propri o mercenari, ausiliari o misti. Per Machiavelli le milizie mercenarie costituiscono uno dei più grandi inconvenienti per i principi che se ne servono, perché poco fedeli e interessati solo ai privilegi personali loro connessi e quindi portano all’instabilità dello stato da cui sono stati ingaggiati e soprattutto un maggiore rischio per lo stato di essere assoggettato da capi stranieri. Tutta la sua opera di storico e di scrittore è una battaglia contro le compagnie di ventura; egli parla anche di Venezia e Firenze che accrebbero il loro potere grazie a truppe mercenarie. Accadde ciò però solo per una serie di condizioni favorevoli. Le truppe di tipo ausiliario (capitolo tredicesimo), cioè quelle fornite da regni stranieri, sono le peggiori, in quanto se perdi è la tua rovina e se vinci hai il rischio che ti facciano loro prigioniero e che non se ne vadano più come successe all’imperatore di Costantinopoli con diecimila Turchi, chiamati perché lo supportassero in Grecia e terminata la guerra, resero schiava la Grecia stessa. Tra l’altro sono anche più unite e organizzate di quelle mercenarie. Inoltre un principe non è davvero saggio se non è in grado di riconoscere i mali fin dal principio. Per cui senza un esercito composto da sudditi e cittadini propri, ci si deve affidare in tutto alla fortuna, non essendo il principe in grado di difendersi nelle situazioni avverse. E sarà facile organizzare le proprie armate se si prenderà come esempio Filippo, padre di Alessandro Magno. Il quattordicesimo capitolo verte sul rapporto tra il principe e le armi in generale: l’unico compito che un principe deve assolutamente svolgere per tenersi lo stato sta comandando è dedicarsi alle armi anche in tempo di pace, come fece Francesco Sforza diventando, da semplice cittadino, duca di Milano. Per tenersi in allenamento Scaricato da Ludovica Veneran ([email protected]) lOMoARcPSD|24541734 deve praticare spesso la caccia e imparare a conoscere la natura dei luoghi dove vive; un buon principe deve saper imitare quello che in passato fecero i principi migliori. L’autore porta come esempio di principe perfetto Filipomene, che dovunque andasse si interrogava sul modo, in quella situazione, per ritararsi, per rincorrere il nemico ritirato e per attaccare. Comincia dal capitolo quindicesimo l’esame delle qualità spirituali del principe che costituisce il problema centrale del trattato. Il Machiavelli afferma in questo capitolo che un principe, per restare al potere, deve comportarsi anche in maniera non buona senza curarsi della cattiva fama derivata da questo comportamento. Infatti, è inevitabile che un uomo che si vuole comportare da buono in mezzo a gente non buona vada in rovina. Per l’autore, un principe si deve mettere sullo stesso piano morale di chi governa. Sarebbe lodevole se di tutte le caratteristiche (generosità o avidità, pietà o crudeltà, e via dicendo) un principe possedesse solo quelle buone, ma data la condizione umana questo non è possibile. Di conseguenza, egli deve evitare i vizi che gli farebbero perdere il potere, ma non deve fare a meno delle qualità che gli sono utili per regnare con efficacia. Ciò che è buono moralmente rischia di essere dannoso politicamente, e viceversa ciò che risulta politicamente utile, rischia di essere scorretto moralmente. La contraddizione è inevitabile. Nel sedicesimo capitolo si parla della munificenza e della parsimonia. La munificenza è considerata in maniera negativa: all’inizio ti fa avere una buona fama, dopo, finiti i soldi, ti costringe a imporre tasse e quindi ad essere odiato dai sudditi e poco stimato dagli altri per la povertà. L’unico momento in cui bisogna essere munifici è quando ci si impadronisce di beni altrui, come fecero Ciro e Cesare. La parsimonia invece, anche se all’inizio non ti farà godere di buona fama, dopo, vedendo che si è capaci di difendersi e di conquistare anche senza gravare sulla popolazione, ti farà considerare uomo generoso. Vengono citati gli esempi di Papa Giulio II che usò la munificenza solo per salire al potere, dedicandosi dopo alla guerra, Luigi XII che riuscì, per la sua grande parsimonia, a fare tante guerre senza tasse extra. In conclusione, è meglio che un principe si tenga il nome infame di avaro, per cui non però odiato, piuttosto che si acquisti quello di scialacquatore, che genera odio oltre che infamia. Il diciassettesimo capitolo è incentrato sulla domanda: meglio essere amati piuttosto che temuti o temuti piuttosto che amati? Per il Machiavelli un principe, per tenere i suoi sudditi uniti e fedeli, può essere ritenuto crudele e deve essere temuto al punto da non essere né odiato né amato. Comunque, la crudeltà è indispensabile in guerra. È meglio essere temuti perché gli uomini sono di questa natura: mentre gli fai del bene e in tempo di pace sono pronti ad offrire la loro vita per te, quando arrivano le avversità invece si ribellano. Il peggior male di un principe è farsi odiare. L’odio è la causa primaria della rovina di un regno: quindi è bene che colui che governa si faccia temere al punto giusto in modo da non essere odiato. Lo farà stando lontano dai possedimenti e dalle donne dei suoi sudditi e condannando a morte solo quando la causa sia più che giustificabile, ma soprattutto stando attento alla roba d'altri, perché gli uomini dimenticano presto la morte del padre piuttosto che la perdita del loro patrimonio. In conclusione, amando e mendo gli uomini secondo il loro piacimento, il buon principe deve fondarsi sul suo, ingegnandosi solo di fuggire l’odio. Nel diciottesimo capitolo si parla di lealtà. Essa è una cosa molto lodevole, ma non necessaria al compimento di grandi imprese, anzi l’esperienza insegna che coloro che non si sono curati della lealtà hanno sempre prevalso. In questo capitolo sono elencati anche due metodi di combattimento quello con le leggi e quello con la forza. Questi due metodi si completano a vicenda e un buon principe deve possedere tutti e due. Gli uomini guardano molto alle apparenze, quindi un buon regnante deve apparire Scaricato da Ludovica Veneran ([email protected]) lOMoARcPSD|24541734 leale, clemente, religioso, onesto e umano anche se non lo è, ma deve essere sempre pronto a mutarsi nell’esatto contrario. Insomma, un principe deve badare al risultato non ai mezzi con cui ci arriva. Ad un principe è necessario sapere usare la bestia e l’uomo e siccome deve saper usare bene la parte animale, deve prendere di questo la qualità della volpe e del leone, perché il leone non si difende dai lacci e la volpe non si difende dai lupi. Deve essere volpe per conoscere i lacci, e leone per scacciare i lupi; coloro che sono solo leoni non se ne intendono. Il diciannovesimo capitolo è come un riassunto di tutte le caratteristiche che un principe deve avere per farsi ben volere: non deve appropriarsi delle cose del popolo, non deve essere superficiale, effemminato e pauroso, ma deve apparire coraggioso, grande e con molta forza di carattere. Qualora non offrisse questa immagine di sé, deve avere due paure: i sudditi e le potenze straniere. Dalle congiure l’unico aiuto può venire dal popolo, in quanto non sempre i congiurati rispecchiano il volere di tutti, invece per sconfiggere un nemico devi possedere un buon esercito. Come solito il Machiavelli fa molti esempi storici di cui ne cito uno riguardante una congiura fallita: Messer Annibale Bentivoglio, principe di Bologna fu ucciso dai Canneschi. Subito dopo l’omicidio, il popolo di Bologna uccise tutta la famiglia dei Canneschi e mise a capo di Bologna un lontano parente del Bentivoglio, figlio di fabbro. In conclusione, un principe deve stare attento a non inasprire i nobili e a soddisfare il popolo in modo da non temere le congiure. Nel ventesimo capitolo, si parla di quanto possa essere utile disarmare i sudditi o alimentare le fazioni popolari o costruire fortezze. Diciamo che per quanto riguarda il disarmo dei sudditi, si può rivelare positivo quando si è di fronte a un principe nuovo con un nuovo principato, in quanto vengono gratificati quelli che armi, mentre se agisci al contrario vengono offesi, invece quando un principe conquista una provincia è necessario disarmarla, escludendo naturalmente quelli che sono stati dalla tua parte, ma col tempo indebolendo anche quest’ultimi. Passando alle fazioni, per l’autore, le divisioni interne non sono state mai qualcosa di positivo, anzi rendono le città più fragili di fronte al nemico. Continuando con le fortezze fin dai tempi antichi si è avuta l’abitudine di edificare queste fortificazioni, ma gente più recente come Niccolò Vitelli e Guidobaldo da Montefeltro le smantellò. Perché questo? Il Machiavelli dice che chi ha più paura del popolo che dei nemici costruisce fortezze, chi il contrario non le costruisce e ribadisce dicendo che la fortezza più sicura è il non essere odiati dal popolo. Il capitolo ventunesimo parla ancora di come un principe possa dare una buona immagine di sé, un’immagine di uomo grande e di ingegno eccellente. In politica interna deve essere deciso, deve premiare o castigare in maniera esemplare. In politica estera deve farsi ammirare e deve stupire i sudditi con grandi imprese come Ferdinando d’Aragona, ma soprattutto deve sempre schierarsi a favore di qualcuno e mai restar neutrale in modo che il tuo alleato si senta legato da un patto di amicizia e di riconoscenza e non ti abbandoni mai. Per dare una buona immagine, il principe deve anche istituire delle feste e partecipare ai raduni di quartiere sempre però con grande maestà e dignità. Non è di poca importanza per il principe l’elezione dei suoi ministri (capitolo ventiduesimo) che sono buoni o no secondo la prudenza del principe. Quando sono fedeli e intelligenti si può considerarlo savio, altrimenti non si può avere un buon giudizio di lui. Quando il principe e i ministri possono fidarsi l’uno dell’altro, il beneficio è reciproco, il principe è ben stimato e può confidare nella solidità del proprio Stato. Il ventitreesimo capitolo parla degli adulatori. Un principe deve fidarsi solo di poche persone sincere e veritiere che avrà scelto all’interno del suo Stato. Deve sentire solo loro e comunque l’ultima decisione deve aspettare sempre a lui. Chi pensa che per un Scaricato da Ludovica Veneran ([email protected]) lOMoARcPSD|24541734 principe sia sufficiente circondarsi da buoni consiglieri, sbaglia. Infatti, un principe saggio non sarebbe in grado di gestire consiglieri più saggi di lui e prendere decisioni proprie; quindi i buoni consigli devono derivare dalla saggezza del principe e non la saggezza del principe dai buoni consigli. Nel ventiquattresimo capitolo vi è come un rimprovero verso i principi italiani che persero il loro Stato, come Federico d’Aragona, il re di Napoli e Ludovico il Moro, duca di Milano. Le motivazioni sono varie, ma comuni: non possedevano un esercito proprio, erano detestati dal popolo o dai nobili. Colpa loro quindi, non della fortuna: in tempo di pace non hanno pensato che sarebbero venuti tempi avversi e, una volta trovatosi in una tale situazione, hanno pensato a fuggire, sperando che il popolo, oppresso dai vincitori, li richiamasse. Le uniche buone difese sono quelle che dipendono da sé e dalla propria virtù. Nel venticinquesimo capitolo il Machiavelli adopera una similitudine per descrivere la fortuna. Essa è come un fiume che quando è in piena distrugge tutto quello che trova, ma quando è calmo gli uomini possono creare argini in modo da incanalare e domare tale forza. Ma la fortuna dirige la sua furia dove sa che non sono stati creati argini per indirizzarla. Un principe, che vive fidando solo su di essa, all’improvviso può andare in rovina, questo perché la fortuna ha cambiato direzione. Quindi, per il Machiavelli ha successo colui che si adatta ai tempi. Dopo vari esempi questo capitolo si conclude con un’altra similitudine: la fortuna viene paragonata a una donna. Solo gli impetuosi la possono dominare. Infatti, è compagna dei giovani, impavidi e meno cauti. L’ultimo capitolo è un’esortazione rivolta al principe di Casa dei Medici affinché riunisca l’Italia sanando le ferite, ponendo fine ai saccheggi e alle imposizioni fiscali che continuano a lacerarla. Contando che gli eserciti svizzeri e spagnoli non sono così terribili come si dice, egli potrebbe creare un terzo esercito che li vinca. Il Machiavelli conclude rassicurando che un nuovo regnante sarebbe accolto da tutti a braccia aperte. Gli ultimi versi sono tratti da "Italia mia" del Petrarca. Appare come un ulteriore incitamento rivolto al nuovo principe proprio dal Petrarca anche se scritto circa duecento anni prima: la virtù affronterà la furia degli stranieri; il combattimento sarà corto perché l’antico valore che fu del popolo romano nei cuori italici non è ancora morto. Scaricato da Ludovica Veneran ([email protected])