BENVENUTO CELLINI Il confronto con gli antichi rappresenta uno degli argomenti dominanti nel Rinascimento. La situazione complessiva delle arti visive risulta nell’insieme sfavorevole se paragonata al primato della retorica, della musica e della poesia. La pittura e la scultura risultano prevalentemente escluse dal novero delle arti liberali (comprendenti grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia e musica). La disputa tra la parola e l’immagine propone un paragone che tende a favore del primo contendente: un esercizio ecfrastico degno di un gareggiamento con le opere d’arte a tal punto da rendere visibili attraverso le parole, modelli puramente immaginati. Questa proposizione (l’equivalenza fra le due discipline sotto l’egida dell’ut pictura poesis) mostra la pittura come un modello derivativo, inadatto a qualificare le arti figurative nella propria peculiarità. Alcuni intagli del canto X del Purgatorio di Dante conducono all’idea di un rapporto fra gli artisti e le opere, superando l’astratta descrizione ecfrastica e introducendo una nuova figura, quella dell’artista, accostata arditamente in parallelo con il poeta. Petrarca (nei sonetti 77 e 78 del RVF) farà lo stesso nel celebrare Simone Martini, paragonando l’artista agli antichi: il ritratto di Laura deriva da una visione divina, una bellezza incorporea che Martini riesce a rappresentare attraverso un atto artistico di mediazione possibile soltanto dopo averla vista in Paradiso, da cui Laura proviene. Questo paragone viene sviluppato durante il Quattrocento fiorentino, in particolare tra pittura e scultura. Nel 1542 viene istituita, per volontà del duca Cosimo I de’ Medici, l’Accademia fiorentina. L’accademia, grazie a Benedetto Varchi diventa un punto di riferimento nel panorama culturale. In questa sede prende avvio il “sondaggio” di Varchi partendo dal commento ad un celebre sonetto di Michelangelo Non ha l’ottimo artista alcun concetto. In Due lezzioni di messer Benedetto Varchi (dedicato a Bartolomeo Bettini, mercatante in Roma) coinvolge gli artisti in una intervista corale a mezzo epistolare. In particolare, Varchi, nelle prime due sezioni della seconda lezione affronta il tema del paragone tra le arti e investe del problema un gruppo di otto maestri d’arte. Benvenuto Cellini è tra questi e si schiera palesemente a favore della scultura Dico che l’arte della scultura infra tutte l’arte che s’interviene disegno è maggiore sette volte […] ritenendo come mostro di eccellenza nelle arti Michelangelo, ribadisce che La differenza che è dalla scultura alla pittura è tanta quanto è dalla ombra e la cosa che fa l’ombra. Benvenuto Cellini (1500-1571) fu orafo, scultore e scrittore d’arte, dal temperamento paranoide, violento, nella sua Vita ripercorre attraverso un codice biografico ed autobiografico già esistente, la sua storia. [Cellini, grande assente nella prima redazione delle Vite del Vasari (del 1550), con il quale non scorreva buon sangue, in primis perché Vasari sosteneva il primato della pittura, poi il carattere e l’atteggiamento profondamente diverso e infine il “vassallaggio” del Vasari nei confronti di Cosimo I, porta Cellini a definirlo “Giorgetto Vassallario aretino, dipintore”]. Il codice linguistico adottato non si basa sulla prosa bembiana, ma sulla cultura e la lingua letteraria fiorentina che affonda le sue radici nel secolo del Quattrocento. L’archetipo letterario per uno scrittore fiorentino come Cellini è la Commedia di Dante. La Vita, in gran parte dettata a un garzone di bottega figlio di Michele Goro, in parte scritta direttamente da lui tra il 1558 e il 1566, venne pubblicata solo nel 1728 da Antonio Cocchi. La mutualità espressiva del Cinquecento conta molti artisti-scrittori (Michelangelo, Leonardo, Alberti, Raffaello, Vasari) che avevano l’intento di superare la visione riduttiva di artista-artigiano ed in questo senso è esemplare l’opera letteraria di Cellini, non soltanto nobile cultore di arti plastiche, ma abile scrittore in prosa e in versi. L’artista si muove tra uno stile sublime e umile. Umile inteso come comico, burlesco, un realismo spinto fino al grottesco e al triviale che caratterizza molti episodi. La scrittura celliniana viene definita espressivistica, ricca di contrasti formali, contaminazioni o deformazioni verbali, la tendenza a similitudini animalesche (Benvenuto stesso si definisce “aspide” e “dragone”, elementi che evocano una serie di qualità morali e psicologiche); l’intarsio stilistico è ottenuto non tanto con il sublime che si inserisce in episodi a predominante carattere umile, quanto con il processo inverso, ossia elementi in stile umile che si inseriscono in episodi caratterizzati da un livello stilistico (e contenutistico) predominante maggiormente elevato. Per esempio, Baccio Bandinelli, l’antagonista di Benvenuto, è definito “Buaccio”, dalla deformazione del nome, Lattanzio Gorini (colui che sospese a nome di Cosimo I i pagamenti per il Perseo) è definito “secco e sottile” e “omiciattolo”. (L. Banella, La scrittura di Benvenuto Cellini: tra pluristilismo, espressivismo e realismo pp. 171-177) Anche gli accenni alla malattia si costruiscono sul realismo, le rappresentazioni dei sintomi delle malattie sono sempre estremamente accurate, grottesche, questo realismo crudo ed “espressivisticamente” plastico è volto a creare empatia nel lettore nei confronti di Benvenuto. (Ivi, p. 186) Emblematico è il tono tragico della narrazione dell’episodio che occupa i capp. I 84-85, in cui Benvenuto ha la febbre e le allucinazioni, qui si innesta la visione del Caronte dantesco, giunto al suo capezzale per caricarlo nella sua barca e portarlo negli Inferi. […] Inmentre che io gnene disegnavo con le parole bene (Vita, I, 84, p. 302) questa frase denota una efficacia descrittiva di Cellini che corrisponde alla reificazione del personaggio “disegnato a parole” descritto con grande icasticità. Benvenuto “disegna con le parole” il temibile Caronte dantesco e in senso lato con la Vita offre un “disegno” alternativo, fatto di parole, della propria personalità e produzione artistica. Cellini riesce a disegnare bene con le parole la creatura infernale che lo minaccia anche in virtù della grande lezione appresa dai due maestri fiorentini, Dante e Michelangelo. (G. Rizzarelli, Disegnare con le parole. La doppia creatività di Benvenuto Cellini pp. 42-43) Nel sonetto 127 delle Rime (appartiene al gruppo di componimenti in cui Cellini prende posizione contro la pittura a favore della scultura, in risposta all’inchiesta di Varchi), l’espressione “disegnare con le parole” cambia di significato con il passaggio dal disegno alla pittura. Chi col parlar dipingie, altri con carte permette di chiarire come Benvenuto mai avrebbe voluto “dipingere con le parole”, ma volutamente sceglie di “disegnare” al pari di Dante e Michelangelo. Nel sonetto di Cellini “i falsi colori” celano e serrano la verità; pertanto, “chi col parlar dipingie” compie un’azione opposta al “disegnare con le parole” perché mente e nasconde quella realtà che la poetica di Benvenuto vuole svelare e rendere viva. (Ivi, pp. 53-54) Cellini iniziò la sua educazione e la sua attività artistica come orafo prima a Firenze, poi a Siena, Bologna e Pisa. A Roma, studiò la volta della Cappella Sistina di Michelangelo e gli affreschi della Farnesina di Raffaello. Da questo momento la vita di Cellini può essere suddivisa in tre periodi: dal 1523 al 1540 risiedette a Roma, dove lavorò come orefice, anche per i papi Clemente VII e Paolo III, in seguito tra il 1540 e il 1544, si trasferì a Parigi presso Francesco I. Nel 1545 tornò a Firenze, dove rimase fino alla morte. Rientrato a Firenze, Cellini accentuò il suo impegno nel campo della scultura e soprattutto della fusione in bronzo di grandi statue. La commissione del Perseo da parte di Cosimo I per Piazza della Signoria, da collocarsi sotto la loggia dei Lanzi, rappresentò un monito verso tutti i nemici della dinastia medicea tornata al potere. Il mito d’amore e di metamorfosi viene dunque utilizzato in chiave politica. Il tema del Perseo è molto presente nelle pagine dell’autobiografia come un leitmotiv dominante, è il centro verso cui la narrazione si orienta. Dal momento in cui Cellini riceve l’incarico, si riempie di orgoglio, si sente appartenere alla genealogia di grandi autori passando da Donatello attraverso le sculture di Michelangelo, indiscusso punto di riferimento. Il fil rouge che lega la Vita è l’esperienza delle cose, “essere uomo conosciuto” come esplicita nell’incipit dell’opera, attore assoluto è l’io e la costruzione della storia procede per cerchi concentrici intorno all’io che è insieme narratore e protagonista (Cellini mette in scena Benvenuto); quindi, il senso dell’esistenza che si materializza attraverso quell’impresa sublime in cui Benvenuto si proietta, rappresentata dalla creazione del Perseo. Oltre a questo moto di orgoglio, Cellini celebra anche “lo stupore”, il tributo che il pubblico riserva all’opera dell’artista, lo scarto dell’abbozzo e il prodotto definitivo che enfatizza il risultato raggiunto come un miracolo. Esempi ne sono il lavoro svolto per Madonna Porzia (la nobildonna romana gli commissiona un lavoro di legatura per i suoi diamanti, la quale riconoscendo le virtù artistiche di Cellini, gli affiderà altre opere suggellando l’iniziazione del destino dell’artista nella Roma papale. Questo episodio mostra un’atmosfera di affetti lievi e pacati secondo una tradizione stilnovistica), il bottone per Clemente VII e il modellino della saliera per il cardinale Ippolito d’Este. Un altro topos frequente nelle vite di artisti è rappresentato dall’invidia dei rivali che gettano discredito sul lavoro dell’artista, anche qui il rivale più inviso è Baccio Bandinelli. La parte finale della Vita diventa una sorta di poema epico attraverso il quale Benvenuto superando le avversità giunge alla meta. L’esposizione della statua in Piazza della Signoria è il coronamento di un percorso, nonostante i rapporti con Cosimo si raffredderanno, e un riconoscimento pubblico di ammiratori entusiasti. Cellini si identifica con la sua creatura. (M. Palumbo, Un tema narrativo nella «Vita» di Benvenuto Cellini: «L’impresa» del Perseo, pp. 311-316) Cellini, per l’occasione, aveva realizzato oltre ad un modello in cera, anche un modello in bronzo (entrambi conservati al Museo del Bargello di Firenze), solo dopo che l’idea del Perseo incontrò l’approvazione del duca, l’artista passò dall’oreficeria alla scultura monumentale. Questa grande opera avrebbe gareggiato per valore artistico con le sculture esistenti nella piazza, facendo da pendant alla Giuditta di Raffaello. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale fu sopraffatto da attriti suscitati dalle invidie di corte e dal carattere collerico di Benvenuto (colloroso lo definiva il padre, il fuoco è il suo elemento: con il fuoco lavora per fondere i metalli, e uno dei primi ricordi della sua vita è la visione della salamandra nelle fiamme avvenuta all’età dei cinque anni), fino al compenso finale che si rivelò inferiore a quanto l’artista si aspettava. La scrittura della Vita paradossalmente scaturisce dall’improvviso crollo di prestigio di Cellini, (inspiegabilmente a detta degli storici il Perseo suscita turbamento in Cosimo I), da qui la sua volontà di autocelebrarsi come devoto servitore della famiglia medicea e instaurare un dialogo attraverso la scrittura con il duca. Anche nelle Rime Cellini dà sfogo alla “delusa rassegnazione dell’uomo messo da parte dal suo signore e protettore”, ma non con spirito rinunciatario, bensì contraddistinto da uno spavaldo proposito di rivalsa morale. In questa prospettiva si capisce il carattere singolare della produzione in versi dell’autore, ai margini del petrarchismo bembista. A questo proposito dobbiamo segnalare che nell’ambito dell’imitazione del modello perfetto della scrittura letteraria abbiamo due schieramenti: il primo proposto da Bembo fondato sul classicismo che prevede Virgilio e Cicerone per il latino, Petrarca e Boccaccio per l’italiano. Il secondo, che si estende dalla letteratura alle arti figurative, che si basa sul classicismo fondato sull’imitazione e contaminazione eclettica di più modelli. Queste due posizioni si rifanno entrambi all’aneddoto di Elena dipinta da Zeusi, ma con conclusioni opposte. La prima proposta ritiene che Zeusi abbia raggiunto la perfezione nella rappresentazione della bellezza di Elena e quindi si debba imitare ed emulare l’opera. La seconda proposta ritiene che ci si debba rifare alla metodologia adottata da Zeusi, il quale dipinge Elena con l’imitazione e la contaminazione eclettica di più modelli. Cellini è un convinto sostenitore della tesi dell’imitazione eclettica secondo l’insegnamento di Michelangelo. (P. Sabbatino, L’imitazione nelle opere di Benvenuto Cellini, pp. 1-2) Questo concetto viene ripreso nella produzione poetica che ruota attorno a Perseo, il sonetto Feci Perseo, o Dio, com’ogni uom vede (Rime, 105), nel quale agli artisti al v. 4 “Usar quel Zeuse”, agli artisti viene richiesto di seguire la metodologia di Zeusi rappresentando le parti più belle che l’occhio coglie nei corpi, proprio come Cellini rivendica di aver fatto nel suo capolavoro. Inoltre, la statua di Perseo fatta a immagine e somiglianza di sé stesso diventa il simbolo della leggerezza, quella leggerezza in grado di volare al di sopra della pesantezza che caratterizza i suoi rivali, in una Firenze cortigiana arrogante e prepotente. (Ivi, pp. 14-18) Questa leggerezza contrasta, ma allo stesso tempo si accompagna, all’esperienza della scrittura in carcere che nella Vita e nelle rime viene superata come pura esperienza fisica, fino a trasformarsi in un momento essenziale di riflessione che investe la dimensione spirituale e morale. La prigionia all’interno delle carceri romane (tra il 1538-1539) viene reinterpretata come un percorso iniziatico, sintesi tra la Vita Nova e la Commedia, in cui il prigioniero-dannato si trova in un’iniziale situazione infernale, per poi giungere alla salvifica visione finale. Nel 1538 Cellini viene accusato di essersi impossessato durante il sacco di Roma, di alcuni gioielli di Clemente VII, viene dunque arrestato e imprigionato a Castel Sant’Angelo. Cellini sostiene di essere stato arrestato a torto. Il capitolo in terza rima in lode della prigione (I, 128) diretto a Luca Martini è una lamentatio tra toni seri e toni ironici: il carcere viene definito come il luogo della sofferenza, con una funzione istruttiva, catartica e spirituale “Chi vuol saper quant’è il valor de Dio,/ e quant’uomo a quel Ben si assomiglia,/ convien che stie ‘n prigione, al parer mio” (vv. 1-3). L’esperienza carceraria nella Vita viene descritta come un percorso di purificazione, mentre nelle Rime emerge maggiormente il tema dell’ingiustizia, i topoi presenti si rifanno all’invocazione a Dio, l’iniquità della pena, la servitù verso il Signore. (G. Crimi, La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini tra la Vita e le rime, pp. 88-89) Tra il 1565 e il 1567 Cellini porta a compimento il Trattato dell’oreficeria e il Trattato della scultura, due opere notevoli non soltanto per le questioni tecniche, ma anche per i ricordi personali che le animano, nonché per la sottesa tematica manieristica incentrata su una “poetica del difficile” che mira a una valorizzazione estrema della “bravura” dell’artista, della sua capacità di dominare e plasmare la materia.