Capitolo 1
Le basi sperimentali della
meccanica quantistica
1.1
Introduzione
Dopo le intuizioni di Galileo e Newton, ci fu un lungo periodo di assestamento durante il quale si edificò l’intero corpo di ciò che oggi chiamiamo fisica
classica, comprendente, in particolare, i principi della dinamica, sia nella
forma di Newton che in quella, meno familiare per i chimici, di Hamilton,
l’elettromagnetismo, l’ottica ondulatoria e la termodinamica. Questa solida
base scientifica permetteva di razionalizzare tutti, o quasi, i fenomeni fisici
noti all’epoca. La situazione cambiò radicalmente con i primi esperimenti
riguardanti l’interazione luce-materia, effettuati a cavallo dei secoli XIX e
XX: non solo la teoria non permetteva di razionalizzare le nuove osservazioni
sperimentali, ma in alcuni casi conduceva a risultati inaccettabili.
Tra i casi più emblematici c’è quello dello spettro di emissione di cavità radianti - il cosiddetto corpo nero. Se si riscalda un corpo qualsiasi
questo emette radiazione elettromagnetica; nel caso in cui il corpo ha forma di una piccola cavità – si pensi al piccolo foro di osservazione di una
fornace per la cottura della terracotta o più semplicemente al forno di un
pizzaiolo con un’apertura infinitamente piccola – la radiazione emessa ha
due importanti proprietà: i) non dipende dal materiale che costituisce la
cavità; ii) dipende significativamente dalla temperatura. Ad alte temperature la radiazione emessa cade nella regione del visibile (come accade ad
esempio al sottile filo di tungsteno riscaldato ad alte temperature per effetto Ohm nelle normali lampadine ad incadescenza), mentre a temperature
1
2CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
più basse la radiazione cade prevalentemente nella regione dell’infrarosso.
La termodinamica e l’elettrodinamica classica non solo erano incapaci di
spiegare in che modo lo spettro di una cavità radiante variasse con la temperatura e la frequenza, ma addirittura conducevano a risultati fisicamente
inaccettabili, secondo i quali l’intensità e quindi l’energia della radiazione
tendeva all’infinito all’aumentare della frequenza, la cosiddetta catastrofe
ultravioletta.
Questo fenomeno e molti altri potevano essere spiegati solo a patto di
introdurre un principio del tutto nuovo: l’esistenza di stati microscopici
discreti, con valori ben determinati di alcune grandezze fisiche, quali ad
esempio l’energia ed il momento angolare. La maggior parte di questi nuovi
fenomeni erano connessi a processi di interazione radiazione-materia, ma
in alcuni casi essi riguardavano interazioni tra corpuscoli microscopici, in
assenza di radiazione elettromagnetica, come nel caso dell’esperimento di
Franck-Hertz.
Altre osservazioni emblematiche, come ad esempio le figure di interferenza osservate bombardando con un fascio di elettroni un cristallo di nickel,
potevano essere facilmente spiegate solo assumendo che un fascio di elettroni
si comporta in certe condizioni come un fascio di radiazione elettromagnetica, seguendo le leggi dell’ottica ondulatoria. In certe altre condizioni, gli
esperimenti mostrano che anche la radiazione elettromagnetica si comporta
come un fascio di particelle (effetto Compton), segue cioè le leggi di conservazione dell’energia e della quantità di moto che si utilizzano per trattare la
cinematica di particelle macroscopiche. In definitiva, le nuove osservazioni
mostravano che in alcuni esperimenti risultava più conveniente utilizzare un
approccio di tipo corpuscolare, mentre in altri risultava più efficace l’approccio ondulatorio, una dicotomia passata alla storia come ”dualismo”
onda-materia.
In realtà, man mano che la nuova teoria andava sviluppandosi, si osservò come essa fosse perfettamente conciliabile con le vecchie leggi della
fisica classica, che ingloba completamente, e ne rappresentasse perciò il naturale ampliamento ai sistemi microscopici. Questo concetto rappresentò
una tappa fondamentale nello sviluppo della nuova teoria, talmente importante da essere sancito in uno dei principi storicamente più importanti della
meccanica quantistica, il principio di corrispondenza.
In questo capitolo si mostrerà come per spiegare lo spettro del corpo
nero Planck arrivò alla prima formulazione dell’esistenza di stati ad ener-
1.2. GRANDEZZE RADIOMETRICHE
3
gia discreta, i cosiddetti stati quantici, 1 e come Einstein, interpretando
l’effetto fotoelettrico, introdusse la legge di proporzionalità tra frequenza
della radiazione ed energia; due leggi che, fuse nei famosi postulati di Bohr,
rappresentano i fondamenti della moderna spettroscopia. Si passerà poi
all’analisi degli spettri atomici e da questi alla formulazione di Bohr dell’atomo di idrogeno con la prima ipotesi di quantizzazione del momento
angolare.
1.2
Grandezze radiometriche
Prima di affrontare lo studio del corpo nero, definiamo alcune grandezze di
uso comune nello studio dell’interazione radiazione materia. L’intensità di
una sorgente di radiazione elettromagnetica si ottiene misurando il flusso di
energia in un certo intervallo di tempo dt:
Φ=
dE
dt
[ergs−1 ; W]
Il flusso determinato ad ogni specifica frequenza o lunghezza d’onda,
raccogliendo l’energia in un intervallino di frequenza ν−ν+δν o di lunghezza
d’onda λ − λ + δλ, è chiamato flusso specifico di radiazione o flusso radiante
spettrale:
dEλ
[ergs−1 cm−1 ; Wm−1 ]
Φλ =
dt
.
Per convertire Φν in Φλ e viceversa si sfrutta il principio di conservazione
dell’energia nell’intervallo spettrale:
Φν dν = −Φλ dλ.
(1.1)
Il segno meno è necessario in quanto un aumento di frequenza corrisponde
ad una diminuzione di lunghezza d’onda e permette di avere sia Φν che Φλ
positive.
c
−dλ
= 2 Fλ
(1.2)
Φν = Φλ
dν
ν
1
Si osservi che il termine quantizzazione è improprio quando riferito all’energia, al suo
posto andrebbe utilizzato il termine discretizzazione
4CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Si definisce intensità radiante spettrale Iν o brillanza Bν il flusso radiante
per unità di angolo solido:
Iν =
dΦν
dΩ
[Wsr−1 ]
(1.3)
Il simbolo sr indica lo steradiante, l’unità di misura dell’angolo solido. Lo
si utilizza solo quando necessario in quanto si tratta di un numero puro,
essendo definito, in analogia con il radiante, come il rapporto tra l’area
della superficie sferica sottesa ad un cono di angolo solido dΩ ed il quadrato
della distanza dal vertice del cono, si veda figura 1.1.
Figura 1.1: Definizione di angolo solido
Si definisce infine densità di radiazione uλ l’energia radiante per unità
di volume.
1.3
Lo spettro del corpo nero
Definiamo corpo nero un corpo che assorbe tutta la radiazione incidente
senza rifletterne neanche una minima quantità. In parole piú tecniche, il
1.3.
LO SPETTRO DEL CORPO NERO
5
corpo nero2 ha potere assorbente αν unitario a qualsiasi frequenza ν.
Il corpo nero non esiste in natura ma si può realizzare con un semplice
stratagemma: si consideri una cavità con pareti scabre e con un foro di uscita di superficie infinitesima rispetto alla superficie interna della cavità. La
radiazione elettromagnetica entra atraverso il foro ed urta contro le pareti
della cavità venendo in parte assorbita ed in parte riflessa. Indicando con
α il coefficiente di assorbimento del materiale che costituisce le pareti della
cavità e con I0 l’intensità della radiazione entrante, la frazione assorbita è,
per definizione, Iass =I0 α e la frazione riflessa ovviamente I0 (1 − α). Considerando che le pareti della cavità sono scabre, il raggio sarà riflesso in una
direzione diversa da quella di incidenza ed inciderà nuovamente sulle pareti
della cavità, cambiando ad ogni urto la sua traiettoria, cosı̀ come illustrato
in figura 1.2. Se il foro ha un’estensione superficiale piccola rispetto alle
pareti della cavità saranno necessari molti urti prima che il raggio riflesso
esca dalla cavità. Dopo il primo urto con le pareti della cavità, il raggio
riflesso avrà intensità pari a
I1 = I0 (1 − α) .
Dopo n urti:
In = I0 (1 − α)n .
Anche se il coefficiente di assorbimento non è molto elevato, bastano relativamente pochi urti per far diminuire drasticamente l’intensità della luce
incidente. Per α=0.3, un valore non molto elevato e facilmente ottenibile
con i materiali presenti in natura per qualunque frequenza della luce incidente, dopo 50 urti l’intensità della luce incidente sulla superficie interna
della cavità si è ridotta ad un centimilionesimo di quella iniziale, una quantità non più misurabile, per cui il coefficiente di assorbimento dell’intera
cavità risulta unitario.
Unicità del corpo nero Se opportunamente eccitato, ad esempio per
via termica, il corpo nero emette radiazione elettromagnetica in un vasto intervallo di frequenza. Sperimentalmente si osserva che la radiazione emessa
da una simile cavità è indipendente dalla forma e dimensione della cavità,
cosı̀ come non dipende dal materiale che costituisce la cavità, ma dipende
soltanto dalla temperatura. Questo comportamento apparentemente sor2
l’articolo determinativo è qui utilizzato in quanto esiste un unico (non un generico)
corpo nero, le cui proprietà sono indipendenti dalla forma, dal materiale utilizzato, etc.
6CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Figura 1.2: Cammino della radiazione all’interno del corpo nero
prendente è in realtà una conseguenza del fatto che il coefficiente di assorbimento della cavità è unitario ed è facilmente spiegabile in base ai principi
della termodinamica. Si consideri il seguente esperimento ideale. Due cavità diverse, sia per il materiale utilizzato che per forma, sono poste in due
termostati alla stessa temperatura; il fascio di radiazione emesso dall’una
è focalizzato sul forellino dell’altra e viceversa, ad esempio attraverso uno
specchio ed un’opportuna lente, come mostrato in figura fig. 1.3. Se, per
assurdo, l’intensità radiante emessa dal corpo 1 fosse maggiore dell’intensità
radiante emessa dal corpo 2, allora la cavità 2 assorbirebbe più energia di
quanta ne riesce ad emettere, riscaldandosi rispetto al corpo 1. Dopo un
certo tempo il corpo 1 che emette più energia del 2 si raffredderebbe e ci
sarebbe passaggio di energia da un corpo più freddo ad uno più caldo, ma
ciò è vietato dal secondo principio della termodinamica. Ne consegue che
la radiazione emessa dalla cavità, lo spettro del corpo nero,3 è indipendente dalla natura del materiale con cui è costruita la cavità e dipende solo
dalla temperatura. Questo è un punto estremamente importante in quanto
stabilisce che l’emissione specifica (l’emissione in un intervallino infinitesimo di frequenza ν − ν + dν) è una funzione universale dell’energia e della
temperatura e come tale deve essere ricavabile da principi primi.
3
Lo spettro di una radiazione elettromagnetica è la funzione di distribuzione delle
frequenze in essa contenute.
1.3.
LO SPETTRO DEL CORPO NERO
7
Figura 1.3: Apparato sperimentale per la dimostrazione dell’unicità del
corpo nero
Lo spettro del corpo nero Lo spettro del corpo nero è mostrato in
fig. 1.4; in condizioni di equilibrio termodinamico, quando cioè lo spettro
della radiazione emessa dalla cavità non varia nel tempo, valgono le quattro
leggi seguenti:
• Per piccole frequenze l’intensità specifica di radiazione è proporzionale
alla temperatura ed al quadrato della frequenza,
Iν ∝ ν 2 T
(legge di Rayleigh-Jeans);
• per grandi frequenze l’intensità specifica di radiazione decade esponenzialmente al crescere della frequenza,
Iν ∝ ν 3 exp (−ν/T )
(legge di Wien);
• la frequenza a cui cade la massima emissione dipende linearmente
dalla temperatura,
νmax = cost × T
(legge dello spostamento di Wien);
• la potenza dell’emissione per unità di superficie è proporzionale alla
quarta potenza della temperatura,
W = σT 4 ,
legge di Stefan-Boltzmann,
con σ =5.67 ×10−8 Wm−2 K−4 .
In virtù dell’unicità del corpo nero, lo spettro della radiazione emessa dal
corpo nero deve essere ottenibile da principi primi, quali ad esempio le tre
leggi della termodinamica e le leggi dell’elettrodinamica classica. Malgrado i numerosi sforzi, non fu possibile ottenere una funzione che rispettasse
tutte le osservazioni sperimentali. Dalla termodinamica è possibile ricavare
con estrema facilità la legge di Stefan-Boltzmann, mentre dalle leggi dell’elettromagnetismo è possibile ottenere la legge di Rayleigh-Jeans. Tuttavia,
8CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Figura 1.4: Lo spettro del corpo nero
poiché in elettrodinamica classica l’energia della radiazione non dipende
dalla frequenza, la fisica classica prevede che la legge di Rayleigh-Jeans deve valere sia alle basse che alle alte frequenze, in evidente contrasto con i
risultati sperimentali.
Consideriamo una cavità radiante all’equilibrio termico. In tali condizioni lo spettro emesso non varia nel tempo, un ipotetico osservatore vedrebbe
le pareti interne della cavità brillare in modo uniforme, senza disomogeneità
di colore. In queste condizioni, per ogni punto della cavità si ha uguaglianza
tra potenza assorbita ad una certa frequenza e potenza emessa alla stessa
frequenza.
dWνass = dWνem .
(1.4)
Poiché la potenza assorbita è pari alla potenza incidente per il coefficiente
di assorbimento,
dWνass = αν dWνinc ,
(1.5)
e dal momento che il coefficiente di assorbimento del corpo nero è unitario,
la potenza emessa è proporzionale alla densità di radiazione all’interno della
cavità, che come visto (par. 1.2) è proporzionale all’intensità specifica di
1.3.
9
LO SPETTRO DEL CORPO NERO
radiazione Iν .
La legge di Stefan-Boltzmann La radiazione presente nella cavità
può essere trattata alla stregua di un gas, la cui pressione dipende dalla
densità di energia (p = uν /3)4 . Dal primo principio della termodinamica:
dU = dQ − pdV = T dS − pdV
derivando rispetto al volume si ottiene:
∂U
∂S
∂p
=T
−p=T
−p
∂V T
∂V T
∂T V
(1.6)
(1.7)
Poiché
∂U
∂V
= uν
e
p=
T
uν
3
(1.8)
si ha:
T
uν =
3
∂uν
∂T
−
uν
,
3
(1.9)
dalla quale, separando le variabili ed integrando si ottiene:
dT
duν
=4
uν
T
(1.10)
uν = cost × T 4
(1.11)
La potenza emessa dal corpo nero non è altro che la densità specifica
di radiazione presente nella cavità per unità di tempo (W=J/s) sommata su tutte le frequenze (vedi eq. (1.27)) e pertanto la relazione trovata
precedentemente è proprio la legge di Stefan-Boltzmann.
La legge di Rayleigh-Jeans Planck cercò di ottenere l’espressione
di uν dalle leggi della elettrodinamica classica. È noto che una particella
elettrica in movimento assorbe ed emette radiazione elettromagnetica. Se la
particella viene posta in un campo di radiazione elettromagnetica di densità
uν , essa assorbe energia pari a:
dεass =
4
πe2
uν dt,
3m
(1.12)
Si rimanda ai testi di elettrodinamica classica per la dimostrazione di tale relazione
10CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
dove e è la carica elettrica e m la massa della particella. Inoltre se la
particella oscilla intorno una certa posizione di equilibrio essa emette energia
pari a:
dεem =
2e2 ω 2
Ēdt
3mc3
(1.13)
con ω = frequenza angolare di oscillazione (ω = 2πν) e Ē= energia
media degli oscillatori alla temperatura T. L’equazione 1.13 si ottiene dall’equazione di Larmor che stabilisce che la potenza irradiata da una carica
elettrica accelerata è:
2
Wem = 3 q 2 |v̇|2
3c
dove q è la carica e v̇ la sua accelerazione. Assumendo che le cariche sulla
superficie della cavità si muovono di moto armonico, ossia soggetti ad una
forza di richiamo del tipo:
F = −kx,
l’accelerazione a cui è soggetta una particella è:
|v̇| = kx/m.
Ricordando che la frequenza di oscillazione è data dalla relazione:
r
1
k
,
ν=
2π m
si ottiene:
|v̇| = ω 2 x.
L’espressione precedente contiene la variabile x incognita. È possibile esprimere la x attraverso un’altra grandezza di cui possiamo conoscere il valor
medio in funzione della temperatura, ossia l’energia media dell’oscillatore.
Considerando che per un oscillatore armonico l’energia totale è data da:
1
1 ω 2 A2
Etot = T + V = kA2 =
2
2 m
con A che denota l’ampiezza massima di oscillazione, ne risulta che il termine
ω 2 x2 può essere sostituito dal rapporto Ē/m, dove Ē è una sorta di energia
1.3.
11
LO SPETTRO DEL CORPO NERO
media dell’oscillatore. Cos’ facendo si ottiene:
Wem =
2
2 2 4 2
q ω x = 3 q 2 ω 2 Ē
3
3c
3c
Planck partı̀ dall’ipotesi che le particelle che costituiscono le pareti della
cavità avessero elettroni debolmente legati (elettroni di valenza) che fossero
responsabili dell’assorbimento ed emissione della radiazione. Assorbendo
energia questi elettroni oscillano e, in accordo con la meccanica classica,
emettono energia sotto forma di radiazione elettromagnetica.
All’equilibrio termico, quando cioè la radiazione emessa è stazionaria:
εass = εem ,
(1.14)
2e2 ω 2
πe2
uν dt =
Ēν dt
3m
3mc3
(1.15)
ovvero:
con: ω =2πν. Risolvendo rispetto a uν :
uν =
8πν 2 Ēν
2ω 2 Ēν
=
.
c3 π
c3
(1.16)
Per determinare l’energia media degli oscillatori, Planck utilizzò la distribuzione di Boltzmann, che stabilisce che all’equilibrio termico la frazione
di particelle dNE /N che possiede energia E è:
dNE
= cost e−E/kB T ,
N
dove N è il numero totale di particelle e kB è una costante denominata
costante di Boltzmann. L’energia media posseduta da ogni oscillatore ad
una certa temperatura è:
R∞
Eν dNEν
0
Ēν = R∞
0
R∞
Eν N0 exp (−Eν /kB T ) dEν
0
dNEν
= R∞
,
N0 exp (−Eν /kB T ) dEν
0
Ponendo x = Eν /kB T ( dEν = kB T dx), si ottiene
(1.17)
12CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
2 2
N0 kB
T
Ēν =
N0 kB T
R∞
x exp (−x) dx
0
R∞
= kB T.
(1.18)
exp (−x) dx
0
Si osservi che l’energia media non dipende dalla frequenza.
La densità di energia uν si ottiene sostituendo la eq. (1.18) nella eq. (1.16):
8πν 2
kB T,
(1.19)
c3
che è proprio la legge di Rayleigh-Jeans.
Catastrofe ultravioletta Secondo le leggi dell’elettrodinamica classica, questo risultato deve valere per qualsiasi frequenza ed a qualsiasi temperatura; invece la eq. (1.19) si accorda con le curve sperimentali solo per quel
che riguarda l’andamento a basse frequenze. Ad alte frequenze lo spettro
sperimentale presenta un massimo e decade esponenzialmente ed è evidente che tale andamento non è previsto dalla eq. (1.19). L’espressione 1.19
non presenta alcun massimo e non segue la legge di Wien per le alte frequenze. Per ogni valore di T , l’equazione 1.19 rappresenta nel piano ν, uν
una parabola con vertice nell’origine. Al crescere della frequenza, la densità di radiazione uν aumenta monotonamente, tendendo ad infinito per
ν → ∞. Questo risultato è inaccettabile ed è passato alla storia con il nome
di catastrofe ultravioletta.
Il fatto che la stessa equazione si accordi con i dati sperimentali solo per
frequenze basse suggerisce che nella realtà le alte frequenze fossero“tagliate”
da qualche meccanismo non presente nella meccanica classica. Tale meccanismo deve far parte delle leggi fondamentali della natura, dal momento
che si è dimostrato che la legge di emissione del corpo nero è universale,
indipendente dalla natura del corpo.
Questo nuovo principio si trovò grazie al lavoro di Planck, che, modificando il procedimento che lo aveva condotto alla legge di Rayleigh-Jeans,
propose la giusta forma di uν .
Il modello a stati discreti di Planck Gli integrali che appaiono
nella eq. (1.17) corrispondono all’ipotesi classica secondo la quale l’energia è
una viariabile continua. Planck dimostrò che abbandonando questa ipotesi
era possibile ottenere un’espressione per uν che si accordasse con i dati
sperimentali. Ciascuno dei due integrali che compaiono nella eq. (1.17) può
essere riscritto come sommatoria su quantità infinitesime di energia:
uν =
1.3.
13
LO SPETTRO DEL CORPO NERO
Ē =
∞
P
nε exp (−nε/kB T )
lim n=0
∞
P
ε→0
(1.20)
exp (−nε/kB T )
n=0
Se ora si rende ε finito, ammettendo quindi che solo alcuni valori di
energia sono permessi, e si pone x = exp (−ε/kB T ), l’espressione precedente
diviene:5
P
n
nx
nεx
n
Ē = P n = εx P n
x
x
n
n
d
εx dx
n−1
P
=
n
P
P nn
x
x
n
=
εx
ε
εx/ (1 − x)2
=
=
,
1/ (1 − x)
1−x
1/x − 1
n
cioè:
Ē =
(1.21)
ε
(1.22)
eε/kB T − 1
che è ben diversa dal valore classico Ē = kB T .
Sostituendo nella eq. (1.16), si ottiene:
uν =
ε
8πν 2
c3 exp (ε/kB T ) − 1
(1.23)
Affinché la (1.23) soddisfi la legge di Wien basta porre:
ε = hν
(1.24)
È facile controllare che l’espressione di uν è ora corretta sia per basse
che per alte frequenze. Infatti per frequenze piccole possiamo sviluppare
l’esponenziale in serie di potenze intorno a ν = 0:
exp(hν/kB T ) = 1 + hν/kB T,
per cui:
uν =
hν
8πν 2
8πν 2
≈
kB T,
c3 exp (hν/kB T ) − 1
c3
(1.25)
in accordo con la legge di Rayleigh-Jeans.
Se invece ν è grande exp(hν/kB T >> 1 e quindi:
5
Si ricordi che per x < 1, come nel nostro caso, la serie geometrica
P
n
xn vale 1/(1−x)
14CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
8πhν 3
exp (−hν/kB T )
(1.26)
c3
in accordo con la legge di Wien.
Planck postulò che, per un oscillatore di frequenza ν, l’energia permessa
potesse variare secondo multipli interi della grandezza hν; h è una costante
chiamata costante di Planck il cui valore numerico, dedotto interpolando lo
spettro del corpo nero, è 6.626 × 10−34 Js.
L’equazione eq. (1.23) conduce anche alla legge di Stefan-Boltzmann
ed alla legge di spostamento di Wien ed inoltre permette di esprimerne
le costanti di proporzionalità misurate sperimentalmente in termini delle
costanti universali h, c e kB .
Per quanto riguarda la legge di Stefan-Boltmzmann, basta considerare
che secondo la legge di radiazione di Planck la densità di radiazione è proporzionale al cubo della frequenza moltiplicata per una funzione del rapporto
ν/T , in altre parole uν = ν 3 f Tν . Pertanto:
uν =
W =
Z
∞
uν dν =
0
Z
∞
3
ν f
0
ν T
dν
Posto ora x= ν/T si ha:
Z ∞
Z ∞
ν 3
4
W =
ν f
dν = T
x3 f (x)dx = cost T 4
T
0
0
(1.27)
(1.28)
L’ultima eguaglianza deriva dal fatto che il valore dell’integrale è un numero
finito dal momento che x3 f (x) tende a zero per x → ∞.
Resta infine da provare che la formula di Planck soddisfa la legge dello
spostamento di Wien. Ciò semplicemente corrisponde al cercare i punti di
estremo della legge di radiazione del corpo nero di Planck:
hν
d 8πν 2
d
uν =
=0
3
dν
dν c exp (hν/kB T ) − 1
(1.29)
La risoluzione della derivata porta alla relazione:
−1
hνmax
hνmax
hνmax
exp
−1
exp
3−
kB T
kB T
kB T
Ponendo x = hνmax /kB T , si ottiene l’equazione trascendente:
(1.30)
1.3.
15
LO SPETTRO DEL CORPO NERO
35
35
ex
(1−x/3)(−1)
30
30
25
25
20
20
15
15
10
10
5
5
0
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
0
Figura 1.5: Risoluzione numerica dell’equazione trascendente ex = (1 −
x/3)−1
ex = (1 − x/3)−1 ,
(1.31)
che deve essere risolta numericamente o graficamente. In figura è mostrata la soluzione grafica, che mostra l’esistenza di una seconda soluzione
oltre quella banale x = 0. Detta c1 tale soluzione, abbiamo:
xmax = c1 =
hνmax
,
kB T
(1.32)
ovvero:
c1 kB
· T,
(1.33)
h
che effettivamente mostra la dipendenza lineare della frequenza di massimo
dalla temperatura.
Per ottenere l’espressione della densità di energia in funzione della lunghezza d’onda uλ non è sufficiente sostituire a ν il suo corrispettivo c/λ,
ma cone visto nel par 1.2 è necessario uguagliare la densità di energia in un
intervallino λ,λ + dλ alla densità di energia in un intervallino ν,ν + dν:
νmax =
−uλ dλ = uν dν
da cui:
uλ = uν c/λ2 =
1
8πhc
5
λ exp (hν/kB T ) − 1
(1.34)
(1.35)
È importante ora capire perché la sostituzione di un integrale con una
somma su livelli discreti fornisce la giusta formula della radiazione del corpo
16CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
nero. Come si è detto a proposito della catastrofe ultravioletta, la trattazione classica fallisce nel caso delle alte frequenze: è necessario introdurre un
meccanismo che tagli le alte frequenze. Il meccanismo proposto da Planck
assume che affinché una frequenza entri in gioco nello spettro del corpo nero
è necessario che ci siano due stati, la cui energia differisca di hν, tra i quali
possa avvenire scambio di energia per via radiativa. Il processo di assorbimento di energia comporta il passaggio di un oscillatore da uno stato a
più bassa energia ad uno a più alta energia, mentre, per quanto riguarda
l’emissione è necessario passare da uno stato a più alta energia ad uno a
più bassa energia. Per osservare emissione ad una data frequenza ν è perciò
necessario che sia popolato uno stato n la cui energia differisca da quello
dello stato fondamentale di una quantità:
En − E0 = hν
La distribuzione di Boltzmann mostra che la probabilità che uno stato sia
popolato decade esponenzialmente all’aumentare della sua energia:
dNE ∝ exp(−E/kB T )
(1.36)
È proprio questo il meccanismo di taglio delle alte frequenze: non si
osserva emissione ad alta frequenza nello spettro del corpo nero perché la
probabilità di popolare gli stati a più alta energia tende rapidamente a zero
all’aumentare dell’energia. Nello stesso modo si spiega perché all’aumentare
della temperatura lo spettro si estende nella regione di più alte frequenze e
la frequenza di picco aumenta.
1.3.1
Postulati di Bohr
La risoluzione di Planck del problema del corpo nero poggia su due assunzioni fondamentali. La prima è che gli oscillatori – gli elettroni di valenza
del materiale che costituisce le pareti della cavità, al cui moto sono attribuiti sia l’emissione che l’assorbimento di radiazione – possano assumere solo
valori discreti di energia, cosicché nell’applicare la statistica di MaxwellBoltzmann bisogna utilizzare una somma anziché un integrale. La seconda
assunzione è che l’energia della radiazione elettromagnetica è direttamente
proporzionale alla frequenza, la costante di proporzionalità h fu ricavata per
la prima volta da Planck interpolando numericamente i dati sperimentali
1.3.
LO SPETTRO DEL CORPO NERO
17
relativi all’emissione delle cavità radianti con l’espressione 1.23. Sulla base
di tali assunzioni, una data frequenza ν si osserva nello spettro se e solo se
esistono due stati la cui differenza di energia E2 − E1 è proprio uguale a hν
e se lo stato ad energia E2 è popolato.
Le ipotesi avanzate da Planck si devono accettare come nuovi principi
della fisica che riguardano tutti i moti periodici, altrimenti si tratterebbe di
ipotesi ad hoc prive di valore scientifico. Esse furono perciò formalizzate da
Bohr nei due seguenti postulati:
1. Gli stati stazionari (stabili) di un qualunque sistema fisico non sono in
generale tutti quelli previsti dalla fisica classica; vi è un certo numero
di stati “permessi” che sono caratterizzati da valori ben determinati
ed in generale discreti dell’energia e di altre proprietà.
2. Se un sistema fisico subisce una transizione da uno stato 1 (permesso
secondo il postulato precedente) ad un altro stato 2 (anch’esso permesso), e se la transizione avviene con emissione o assorbimento di
radiazione elettromagnetica, la frequenza di quest’ultima deve essere
pari a:
|E2 − E1 |
(1.37)
ν=
h
dove E2 ed E1 sono le energie degli stati permessi considerati. Naturalmente, si ha un processo di assorbimento se (E2 − E1 ) > 0 o di
emissione nel caso opposto.
I postulati di Bohr furono introdotti come principi fondamentali della fisica nella prima fase di sviluppo della meccanica quantistica. Negli sviluppi
successivi alla loro enunciazione, in particolare con l’avvento dell’equazione
di Schrödinger non ci fu più bisogno di tali postulati, in quanto entrambi
sono ricavabili da quest’ultima che, insieme ad altri postulati, fornisce una
descrizione dei sistemi microscopici in accordo con le osservazioni sperimentali. I due postulati di Bohr sono validi per qualsiasi sistema fisico, sia esso
macroscopico che microscopico, per ragioni che saranno chiare poi, danno
risultati incompatibili con la fisica classica solo per sistemi microscopici. 6
6
È bene chiarire che l’espressione “quantizzazione dell’energia” (adoperata spesso) è
imprecisa. Una grandezza fisica è quantizzata quando essa può assumere solo valori che
sono multipli interi di una certa quantità. La carica elettrica è una grandezza quantizzata in quanto assume solo valori che sono multipli interi della carica dell’elettrone o
del protone. Vedremo che il momento angolare di un atomo è quantizzato perché può
assumere solo valori che sono multipli interi della costante di Planck.
18CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Estratto da : N. Bohr , ”On the quantum theory of line spectra”
”La teoria quantistica degli spettri a righe si fonda sui seguenti presupposti fondamentali:
-Che un sistema atomico può sempre e soltanto esistere in una certa
serie di stati corrispondenti ad una serie discontinua di valori per la sua
energia, e che perciò qualsiasi variazione dell’energia del sistema, incluse emissione ed assorbimento di radiazione elettromagnetica, deve avvenire
mediante completa transizione tra due stati. Questi stati verranno indicati
come ’stati stazionari’ del sistema.
- Che la radiazione assorbita od emessa durante la transizione tra due
stati stazionari è “monocromatica” ed ha una frequenza ν data dalla relazione:
E ′ − E ′′ = hν
dove h è la costante di Planck e dove E ′ ed E ′′ sono i valori dell’energia nei
due stati in considerazione.
Le ipotesi di Planck, formalizzate nei due postulati di Bohr, forniscono
un’immediata spiegazione del perché gli spettri atomici hanno una struttura
a righe.
1.4
Modello del corpo nero secondo Einstein
Einstein diede una semplicissima derivazione della formula di Planck basandosi sui postulati di Bohr ed ipotizzando per la prima volta il fenomeno
dell’emissione indotta, che troverà in seguito un’importante applicazione
pratica nel laser.
Einstein ipotizzò che all’interno della cavità radiante si instaurasse una
situazione di equilibrio dinamico, tale che l’energia totale, e conseguentemente anche le popolazioni dei vari livelli discreti di energia, fosse costante
nel tempo. Considerò per semplicità solo due stati, uno stato fondamentale
ad energia ǫ1 ed uno eccitato ad energia ǫ2 , ed assunse che la popolazione
dei due stati fosse regolata dalla statistica ordinaria di Maxwell-Boltzmann:
g1 hν
g1 − ǫk1 −ǫT2
g1 e−ǫ1 /kB T
N1
=
=
e B = e kB T ,
−ǫ
/k
T
2
B
N2
g2 e
g2
g2
(1.38)
dove g1 e g2 sono i fattori di degenerazione degli stati 1 e 2. Sia dz12 il
numero di atomi che passa dal livello 1 al livello 2 per assorbimento di
1.4. MODELLO DEL CORPO NERO SECONDO EINSTEIN
19
radiazione; dz12 sarà proporzionale all’intervallo di tempo, alla popolazione
dello stato 1 ed alla densità specifica di radiazione:
dz12 = N1 B12 uν dt,
(1.39)
dove B12 è il coefficiente di proporzionalità che rappresenta la probabilità
che un atomo passa dallo stato 1 allo stato 2 per assorbimento di radiazione
per unità di tempo e di densità di radiazione. Allo stesso modo, il numero
di atomi che dal livello 2 decade al livello 1 è dato dall’espressione:
dz21 = N2 (B21 uν + A21 ) dt,
(1.40)
dove A21 è la probabilità che un atomo decada spontaneamente al livello
fondamentale, che quindi non dipende dalla densità del campo elettromagnetico, e B21 è invece la probabilità di emissione stimolata, la probabilità che un fotone alla giusta frequenza induca il decadimento di uno stato
eccitato, con emisione di un fotone alla stessa frequenza.
Einstein introdusse quindi un concetto nuovo: gli oscillatori che si trovano in uno stato eccitato ad energia E2 , possono decadere allo stato fondamentale non solo per decadimento spontaneo, ma anche per effetto di
un’interazione con un fotone, la cui frequenza sia proprio pari a (E2 - E1 )/h.
Quando all’interno della cavità si raggiunge una situazione di equilibrio
le popolazioni dei due stati energetici deve essere stazionaria, non deve cioè
dipendere dal tempo:
dz12 = dz21 ,
(1.41)
e quindi:
N1 B12 uν = N2 (B21 uν + A21 ) ,
(1.42)
da cui si ricava l’espressione della densità di radiazione:
uν =
N2 A21
A21
=
.
N1 B12 − N2 B21
N1 /N2 B12 − B21
(1.43)
Sostituendo la eq. (1.38) si ottiene:
uν =
A21 /B21
g1 B12 hν/kB T
e
g2 B21
−1
.
(1.44)
Se si riesce a dimostrare che il fattore moltiplicativo dell’esponenziale vale
circa 1 e che il numeratore è proporzionale a ν 3 , l’espressione eq. (1.56)
20CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
coincide con la formula di Planck eq. (1.24)
Per tale dimostrazione Einstein considerò due casi limiti, l’uno corrispondente a T tendente ad infinito, l’altro al caso di frequenze piccole per
il quale vale la legge di Rayleigh-Jeans. È evidente che all’aumentare della
temperatura il contributo alla diseccitazione per emissione spontanea diviene trascurabile, in quanto la potenza della radiazione aumenta con la
quarta potenza della temperatura. Pertanto per T → ∞ possiamo trascurare il contributo di decadimento spontaneo nella condizione di equilibrio
1.42:
N1 B12 uν dt = N2 B21 uν dt.
(1.45)
Per T tendente ad infinito vale anche:
g1
N1
=
N2
g2
(1.46)
g1
B21
=
.
g2
B12
(1.47)
Combinando le due condizioni:
Inoltre per basse frequenze la eq. (1.44) deve coincidere con la formula di
Raleygh-Jeans (uν = 8πν 2 kB T /c3 ), perché quando hν diventa molto piccolo,
in questo caso rispetto a kB T , il cosiddetto quanto termico, valgono le leggi
della fisica classica. Perciò per hν < kB T :
uν =
e ne risulta:
A21 /B21
hν/k
BT −
e
1
=
A21 kB T
8π
= 3 ν 2 kB T,
B21 hν
c
8πν 3 h
A21
=
B21
c3
(1.48)
(1.49)
Sostituendo quest’ultima espressione in quella di uν otteniamo la formula
di Planck.
La semplice trattazione di Einstein dello spettro di emissione del corpo
nero è di notevole importanza in quanto introduce per la prima volta il
fenomeno dell’emissione stimolata. Inoltre ha anche il merito di fornire
un’espressione che permetta di valutare la velocità di emissione spontanea.
L’equazione 1.48 ci fornisce infatti il valore della velocità di radiazione spontanea A21 in termini della velocità di emissione stimolata e della
frequenza della transizione. Si osservi la dipendenza della velocità di emis-
1.5. L’EFFETTO FOTOELETTRICO
21
sione spontanea dal cubo della frequenza di transizione. Ciò stabilisce che
maggiore è la frequenza della transizione maggiore sarà la probabilità di
emissione spontanea. Per questo motivo la spettroscopia di emissione è utilizzata nella regione delle alte frequenze, a partire dal visibile. Nelle regioni
a più basse frequenze, IR e microonde, la probabilità di emissione spontanea
è bassa e si preferisce perciò registrare lo spettro in assorbimento.
Il concetto di emissione stimolata, a quel tempo non ancora osservato
sperimentalmente, trovò applicazione pratica sessanta anno dopo, con lo
sviluppo dei LASER.7 In un laser l’amplificazione del campo di radiazione
avviene proprio per emissione stimolata: un fotone interagendo con un centro radiante che si trova già in uno stato eccitato ne provoca la transizione
ad uno stato a più bassa energia, con emissione di radiazione alla stessa
frequenza del fotone incidente. Poiché i fotoni sono bosoni, il fotone emesso
avrà massima probabilità di avere anche stessa fase e stessa direzione di
propagazione del fotone incidente. Facendo avvenire numerosi8 eventi di
emissione stimolata, si riesce ad ottenere una situazione in cui si hanno solo
fotoni uguali, con stessa fase e direzione di propagazione (coerenza temporale e spaziale), cosicché il segnale può essere amplificato per interferenza
costruttiva.
1.5
L’effetto fotoelettrico
L’effetto fotoelettrico è anch’esso un fenomeno che riguarda l’interazione tra
onde elettromagnetiche e materia. Si basa sulla capacità di vari materiali di
emettere elettroni se irradiati con radiazione elettromagnetica ad opportuna
lunghezza d’onda. Tale caratteristica è particolarmente importante nel caso
di materiali metallici a causa dei loro bassi potenziali di ionizzazione.
Si consideri il circuito in figura 1.6, costituito da un galvanometro (G), un
generatore di forza elettromotrice (A) ed una campana di vetro all’interno
della quale sono contenuti due elettrodi metallici collegati al generatore.
All’interno della campana è fatto il vuoto per evitare complicazioni dovuti
agli urti tra i fotoelettroni emessi e l’aria. Il circuito di fig. 1.6 è ovviamente
un circuito aperto, per cui anche imponendo un’alta differenza di potenziale
tra gli elettrodi non si osserva circolazione di corrente. Tuttavia, se uno
dei due elettrodi è irradiato con radiazione elettromagnetica ad opportuna
7
8
acronimo di Light Amplifier by Stimulated Emission Radiation
in senso statistico
22CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Figura 1.6: Dispositivo sperimentale per lo studio dell’effetto fotoelettrico.
lunghezza d’onda (λ), l’elettrodo si ionizza, i foto-elettroni emessi vengono
catturati dall’altro elettrodo e si osserva passaggio di corrente.
L’esperienza consiste nell’irradiare il campione metallico con una radiazione elettromagnetica di opportuna λ e misurare l’intensità di corrente
prodotta, a diverse differenze di potenziale (ddp) tra il catodo e l’anodo. I
fotoelettroni emessi dalla lastra metallica sono accelerati verso l’anodo da
ddp positive, mentre ddp negative tendono a riportare l’elettrone sul catodo.
L’intensità di corrente osservata in funzione della ddp applicata è mostrata in figura 1.7. Si osservi che l’intensità della corrente (i) aumenta
all’aumentare della ddp applicata, fino a raggiungere un “plateau”, che corrisponde a potenziali sufficientemente elevati da far sı̀ che tutti i fotoelettroni emessi raggiungano l’anodo. È importante notare, che anche per valori
negativi di ddp, si osserva ancora un’intensità di corrente diversa da zero.
Ciò significa che gli elettroni sono emessi con una certa velocità, cosicché è
necessario applicare un potenziale negativo, un controcampo per evitare che
gli elettroni emessi raggiungano l’anodo ed annullare l’intensità di corrente
nel circuito.
Le caratteristiche più rilevanti del fenomeno si possono riassumere nei
seguenti punti:
1.5. L’EFFETTO FOTOELETTRICO
23
Figura 1.7: Intensità di corrente in funzione della ddp applicata.
1. esiste una frequenza di soglia della radiazione incidente (ν0 ) al disotto
della quale non si verifica nessuno effetto;
2. esiste un potenziale d’arresto (stopping potential) V0 , indipendente
dall’intensità della radiazione incidente, al di sotto del quale nessun
elettrone emesso raggiunge il catodo;
3. l’emissione dei fotoelettroni è istantanea se la frequenza della radiazione incidente è maggiore della frequenza di soglia e non avviene per
nulla in caso contrario;
Sia V0 il valore del potenziale per il quale l’intensità di corrente risulta
nulla. Ricordando che l’energia è il prodotto della carica per il potenziale,
e · V0 rappresenta l’energia che bisogna fornire al sistema per evitare che
un fotoelettrone emesso arrivi al catodo, in altre parole e · V0 rappresenta
l’energia cinetica con cui è emesso un fotoelettrone. Per il principio di
conservazione dell’energia eV0 deve essere pari alla differenza tra l’energia
del raggio incidente e quella necessaria per estrarre un elettrone dalla lamina
metallica che funge da catodo, una sorta di potenziale di ionizzazione che
per materiali in fase solida è si denota con il termine funzione lavoro Φ.
eV0 = energia della radiazione - Φ
24CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Tutte queste osservazioni sperimentali erano difficilmente razionalizzabili dalle leggi dell’elettrodinamica classica. Secondo l’elettrodinamica classica, il rilascio di elettroni è sı̀ dovuto all’interazione della materia con il
campo elettrico della radiazione incidente, ma il meccanismo di interazione è lo stesso di quello ipotizzato da Planck nella sua trattazione del corpo
nero: una carica immersa in un campo elettromagnetico di densità uν assorbe energia secondo la eq. (1.12), producendo un’oscillazione dell’elettrone
intorno alla propria posizione di equilibrio. Quando l’ampiezza di oscillazione diventa sufficientemente grande si ottiene la fotoemissione dell’elettrone,
con conseguente allontanamento della particella dal metallo.
Questa interpretazione era in disaccordo con le osservazioni sperimentali
visto che faceva dipendere il fenomeno fotoelettrico dalla densità della radiazione e quindi dall’intensità della radiazione utilizzata per produrre l’effetto
e non dalla frequenza. Inoltre, secondo il meccanismo di interazione previsto dall’elettrodinamica classica, è sufficiente irradiare il campione per un
tempo sufficientemente lungo a che gli elettroni accumulino energia cinetica
pari alla funzione lavoro del materiale, fatto che implica che l’energia è trasferita con continuità e non attraverso pacchetti discreti come ipotizzato da
Planck. Si sarebbe quindi dovuto osservare un ritardo tra l’inizio dell’irraggiamento e l’emissione di un fotoelettrone, proporzionale all’intensità della
luce utilizzata. Tale ritardo però non era osservato, l’istantaneità del processo, ed il fatto che V0 dipendesse solo dalla frequenza erano perciò chiari
indizi che l’elettrodinamica classica, come già per la radiazione del corpo
nero, non è in grado di spiegare fenomeni inerenti l’interazione luce-materia.
Se si riporta in grafico |V0 | in funzione della frequenza della radiazione
si ottiene un andamento lineare come quello mostrato in figura 8.
25
1.5. L’EFFETTO FOTOELETTRICO
Figura 8. Effetto fotoelettrico. Dipendenza dell’energia cinetica (-eV0 ) dei
fotoelettroni emessi dalla frequenza
Einstein per primo osservò che il coefficiente di proporzionalità, la pendenza della retta, era proprio uguale alla costante di Planck, che appariva
nella equazione del potere emissivo specifico del corpo nero. Einstein postulò
dunque la famosa relazione:
E = hν
(1.50)
L’esistenza di una frequenza di soglia è spiegata immediatamente: l’energia non dipende dall’intensità della radiazione ma dalla frequenza. Quando
la frequenza è tale che il prodotto hν non è almeno uguale a Φ l’energia
necessaria per estrarre un elettrone dal catodo, l’effetto non avviene, non
essendoci energia sufficiente per estrarre gli elettroni.
La mancanza di ritardo nell’emissione dell’elettrone fu spiegata da Einstein con l’introduzione del concetto di fotone. L’esperimento avviene come se l’energia della radiazione luminosa fosse concentrata in una piccola
porzione di spazio, assimilabile ad un pacchetto d’onda o corpuscolo. Il
fatto che a parità di frequenza, l’intensità di corrente aumenta all’aumentare dell’intensità della luce incidente è spiegato affermando che l’intensità
è proporzionale alla densità di fotoni del fascio radiante, pertanto maggiore
l’intensità radiante, maggiore sarà il numero di fotoni incidenti e quindi il
numero di fotoelettroni emessi.
L’introduzione del concetto di fotone da parte di Einstein segnava il
ritorno alla teoria corpuscolare della luce, proposta già senza successo da
Newton. Come vedremo nel prossimo capitolo, l’introduzione del concetto
di fotone comporterà notevoli implicazioni sull’interpretazioni di alcuni fenomeni, quali la polarizzazione e l’interferenza, che erano state spiegati con
estrema facilità dall’ottica ondulatoria. Sarà necessario introdurre concetti
rivoluzionari per riconciliare la teoria ondulatoria con quella corpuscolare e
proprio questo tentativo porterà alla nascita della meccanica quantistica.
26CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
1.6
L’esperienza di Franck-Hertz
L’esperienza di Franck-Hertz ha giocato un ruolo importante nello sviluppo della meccanica quantistica, dimostrando che i postulati di Bohr non si
applicano solo ai casi di interazione della materia con la radiazione elettromagnetica, ma anche a processi in cui il trasferimento di energia riguarda
due corpuscoli microscopici. In questo esperimento atomi neutri sono fatti
interagire con un fascio di elettroni, dimostrando che anche in questo caso
devono valere le stesse leggi introdotte da Planck e Bohr: un atomo può
variare la sua energia interna solo di quantità finite, uguali alle differenze
di energia tra gli stati permessi, gli stati stazionari postulati da Bohr.
Il dispositivo utilizzato per questa esperienza è mostrato in figura 9; si
tratta di uno speciale triodo costituito da un catodo che riscaldato emette
elettroni, una griglia che funge da acceleratore di elettroni ed una placca.
Figura9: Dispositivo utilizzato per l’esperienza di Franck-Hertz
In tale triodo il catodo è collegato a terra e la griglia g, situata a distanza
l dal catodo, è collegata ad un potenziometro che permette di portarla
ad un potenziale Vg variabile. La placca è tenuta ad un potenziale Vp =
Vg − dV ; nell’esperimento ∆V è mantenuto costante. In questo dispositivo
gli elettroni emessi dal filamento vengono accelerati dal campo fra il catodo
e la griglia, che supporremo, per semplicità, uniforme. Perciò gli elettroni
1.6. L’ESPERIENZA DI FRANCK-HERTZ
27
che raggiungono una distanza x dal catodo, acquistano un’energia cinetica
pari a eVg x/l (approssimazione del campo uniforme).
Se il potenziale alla griglia è maggiore del controcampo imposto tra la
griglia e la placca, se cioè Vg > ∆V , e se gli elettroni giunti all’altezza della
griglia non hanno perso energia per urto con altre particelle, la loro energia
cinetica T = eVg è sufficiente a superare il controcampo, buona parte degli
elettroni giungono alla placca ed un misuratore di corrente opportunamente
collegato in serie tra la griglia e la placca rivelerà una corrente crescente al
crescere di Vg .
Ciò è effettivamente quello che si osserva quando nella campana di vetro
contenente il triodo è fatto il vuoto. Le cose cambiano radicalmente se
invece vengono introdotti nel contenitore vapori di mercurio, estremamente
rarefatti.
L’andamento dell’intensità di corrente in presenza di vapori di Hg in
funzione di Vg è mostrato in figura 10. Al crescere di Vg , per Vg maggiore ∆V , si osserva che per un tratto iniziale la corrente di placca Ip cresce
all’aumentare di Vg , come nel caso in cui non sono presenti vapori di mercurio. Tuttavia, quando Vg raggiunge un valore critico, per il mercurio 4,86
V, la curva di Ip in funzione di Vg presenta un’inflessione, seguita da una
progressiva diminuzione. Aumentando ulteriormente Vg , la corrente alla
placca raggiunge un valore di minimo relativo e poi riprende a salire. Per
un potenziale Vg = 9, 72 V, doppio del precedente, si presenta una nuova
inflessione, che dà inizio a una seconda diminuzione di Ip , seguita ancora
da un tratto ascendente. In definitiva, si osservano dei picchi di corrente
che cadono a valori di Vg multipli interi di un certo potenziale che per il
mercurio vale 4.8 V.
28CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Figura 10. Andamento dell’intensità di corrente in funzione di Vg .
Questo andamento della corrente non è facilmente spiegabile se non ipotizzando urti anelastici,9 con cessione di energia tra gli elettroni e gli atomi
di Hg. È possibile spiegare il fenomeno come segue. La prima inflessione
è dovuta ad urti anelastici che avvengono inizialmente in numero minimo
perché gli elettroni raggiungono l’energia di 4,86 eV solo nelle immediate
vicinanze della griglia. Al crescere di Vg , la regione in cui gli elettroni hanno
energia uguale o maggiore di 4,86 eV diviene più grande e gli urti efficaci
più probabili; il numero di elettroni che cedono per urto energia agli atomi
di mercurio aumenta e la corrente diminuisce perché l’energia residua di tali
elettroni è insufficiente a vincere il controcampo per raggiungere la placca.
Quando però Vg aumenta ulteriormente, gli elettroni che hanno subito un
urto anelastico con atomi di Hg hanno spazio sufficiente per essere accelerati
ed arrivare alla griglia con un’energia cinetica superiore a e·∆V . La corrente
ricomincia a crescere, fino a quando non accade che gli elettroni che hanno
già ceduto energia per collisione con un atomo di Hg sono accelerati ad una
velocità tale da consentire un secondo urto con trasferimento di energia. A
questi valori di Vg si osserva una nuova diminuzione della corrente. Allo
stesso modo si spiegano tutti gli altri picchi a valori di Vg crescenti.
9
Per urto anelastico si intende qui un urto in cui parte dell’energia cinetica è
immagazzinata da una delle due particelle sotto forma di energia interna
1.7. L’EFFETTO COMPTON
29
Si deve concludere che gli atomi di mercurio subiscono collisioni accompagnate da trasferimento di energia a gradi di libertà interni solo quando
l’energia trasferita è di 4.86 eV. Questa quantità di energia deve essere
proprio quella necessaria a promuovere un atomo di mercurio dallo stato
fondamentale ad uno a più alta energia. Questa è già una prima indicazione della validità dei postulati di Bohr, tanto più che determinando la
lunghezza d’onda corrispondente ad un quanto di energia di 4.86 eV si trova 254 nm, in ottimo accordo con la lunghezza d’onda della riga di risonanza
del mercurio atomico, che cade a 253,62 nm. Aggiungiamo che osservazioni
apposite permettono di mettere in evidenza che il triodo descritto emette
effettivamente la riga ultravioletta in questione, come dev’essere, giacché gli
atomi eccitati per urto devono tornare, prima o poi, allo stato fondamentale.
1.7
L’effetto Compton
La conferma definitiva dell’ipotesi del fotone di Einstein si ottenne con il
lavoro di Compton, che mette in particolare evidenza il comportamento
corpuscolare dei fotoni. L’esperimento di Compton ha infatti fornito un’informazione supplementare riguardo alle proprietà dei fotoni, mostrando che
essi non solo posseggono una ben determinata quantità di energia, dipendente dalla frequenza della radiazione, ma hanno anche una precisa quantità
di moto.
L’esperimento mediante il quale Compton ha verificato l’esistenza dei
fotoni consiste nel fare incidere un fascio monocromatico di raggi X su di un
campione e misurare a diversi angoli di diffusione l’intensità della radiazione
diffusa in funzione di λ. Lo schema dell’esperimento è riportato nella figura
11.È costituito da una sorgente di raggi X, un elemento di dispersione in
grado di selezionare una data λ, un diffusore, cioè un cristallo atomico, ed
una lastra fotografica o un rilevatore.
30CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Figura 11. Effetto Compton:l’urto tra l’elettrone ed il fotone conserva la
quantità di moto
Quando i raggi X colpiscono il cristallo, la radiazione viene diffusa e si
propaga in tutte le direzioni. L’intensità della luce diffusa è registrata a
diversi valori di θ, l’angolo tra la direzione di propagazione della luce incidente e quella del fotone diffuso, si veda fig. 11. Compton osservò che,
sebbene il fascio incidente fosse monocromatico, i raggi diffusi hanno picchi
di intensità a due diverse λ, come mostrato in figura 12. Un picco cade sempre alla stessa lunghezza d’onda della radiazione incidente, il secondo picco
invece sempre a lunghezze d’onda maggiori del precedente. La differenza
tra la lunghezza d’onda dei due picchi dipende dall’angolo di osservazione
ed aumenta all’aumentare di quest’ultimo, secondo la relazione:
∆λ = λ′ − λ ≃ 0, 024 × (1 − cos θ)
(1.51)
con λ espressa in Å.
L’esperimento fu ripetuto da Compton usando campioni di diversi materiali, ma la relazione tra le lunghezze d’onda dei due picchi osservati risultò
sempre la stessa. Egli concluse pertanto che il fenomeno doveva dipendere
non dalle caratteristiche specifiche delle varie sostanze utilizzate, ma dai
costituenti stessi della materia, ossia gli elettroni.
1.7. L’EFFETTO COMPTON
31
Figura 12. Effetto Compton: intensità della radiazione diffratta in funzione di λ
a diversi valori di θ
La presenza di un’onda diffusa a lunghezza d’onda λ′ non può essere
spiegata dalle leggi della fisica classica. Infatti secondo la fisica classica
un’onda monocromatica di una certa lunghezza d’onda λ dovrebbe indurre
un’oscillazione negli elettroni del materiale colpito dalla radiazione esattamente alla stessa frequenza dell’onda incidente. Essendo poi gli elettroni
particelle cariche, nel momento in cui oscillano emettono anch’essi radiazione elettromagnetica in tutte le direzioni, alla stessa lunghezza d’onda di
quella incidente λ.
Compton spiegò i risultati sperimentali ipotizzando che il fascio incidente
fosse costituito da corpuscoli, i fotoni, e che questi interagissero con gli
elettroni come delle vere e proprie particelle, cosicché l’interazione tra fotoni
ed elettroni può essere considerata come un urto elastico tra due particelle.
Quando il fotone urta un elettrone può trasferire parte della propria
energia a quest’ultimo ed essere riemesso con un’energia minore di quella
iniziale. Ciò è possibile perché la radiazione scelta (raggi x) ha “dimensione”
(lunghezza d’onda) paragonabile con quella dell’elettrone.
L’occorrenza di un urto con parziale cessione di energia dal fotone all’elettrone che lo diffonde spiega perché la λ del secondo picco è sempre
maggiore di quella incidente: nell’urto il fotone ha ceduto una parte della
propria energia all’elettrone e pertanto il fotone diffuso ha minore energia.
32CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Il picco occorrente sempre alla stessa λ è invece dovuto ad urti elastici con
elettroni di guscio interno, più fortemente legati ai nuclei; questi danno
luogo ad urto elastico, senza trasferimento di energia, e pertanto non contribuiscono al cosiddetto spostamento Compton, ossia all’effetto legato alla
viariazione di λ.
Compton applicò a questo processo di diffusione le leggi della fisica classica che regolano i processi di collisione tra corpuscoli, e cioè la legge di
conservazione della quantità di moto e dell’energia.
Le due condizioni da soddisfare sono la conservazione dell’energia e della
quantità di moto.
Per quanto riguarda la condizione di conservazione dell’energia, possiamo
scrivere
hν = hν ′ + (m − m0 )c2
(1.52)
dove (m − m0 )c2 è l’espressione relativistica della variazione di energia
dell’elettrone.


1

(1.53)
hν = hν ′ + m0 c2  q
−1
v 2
1− c
Ricordando che ν =
c
λ
si ottiene:
hc
hc
= ′ + m0 c2
λ
λ
1
p
1 − (v/c)2
−1
!
(1.54)
Per quanto riguarda la conservazione della quantità di moto, è noto
che se un oggetto assorbe completamente un’energia U da un fascio di radiazione, il raggio radiante trasferisce all’oggetto un impulso pari a U/c.
Ipotizziamo quindi che ogni fotone trasferisca all’oggetto un impulso pari a
h/λ. La quantità di moto è una grandezza vettoriale per cui tutte le componenti del vettore quantità di moto devono rimanere invariate per effetto
della collisione. Possiamo quindi scrivere due equazioni scalari, una per la
componente x e l’altra per la componente y:
* Lungo x
h
m0 v
h
= ′ cos θ + p
cos ϕ;
(1.55)
λ
λ
1 − (v/c)2
* Lungo y
0=
m0 v
h
sin θ + p
sin ϕ.
′
λ
1 − (v/c)2
(1.56)
33
1.8. SPETTRI ATOMICI.
Abbiamo quindi tre equazioni che regolano la variazione di cinque grandezze: λ,λ′ ,θ, v e ϕ . Possiamo utilizzare due equazioni per eliminare le due
grandezze relative all’elettrone, v e ϕ ed ottenere un’equazione che mette in
relazione le altre tre quantità. Il risultato è:
λ′ − λ =
h
(1 − cosθ),
me c
(1.57)
dove mhe c =0.024 Å, in perfetto accordo con i risultati sprimentali.
La trattazione di Compton riesce a dimostrare con successo le osservazioni sperimentali. La trattazione fatta da Compton considera il processo di diffusione di fotoni come conseguenza di urti elastici tra corpuscoli,
elettroni e fotoni, ipotesi che implicitamente ammette che la radiazione ha
caratteristiche corpuscolari.
1.8
Spettri atomici.
Un altro problema di difficile comprensione che si presentò agli inizi del
secolo XX era quello di spiegare la struttura fine degli spettri atomici. La
presenza di righe era già stata osservata circa un secolo prima nello spettro
della radiazione solare, grazie al lavoro di Fraunhofer (1787-1926). Si tratta
di righe nere (oggi se ne conoscono varie migliaia), dovute all’assenza nella
radiazione solare di segnale a certe lunghezze d’onda, si veda figura 1.8.
Grazie ad un potente spettrometro, almeno per quell’epoca, costruito da se
stesso Fraunhofer fu in grado di individuare un certo numero di tali righe.
La spiegazione di questo fenomeno risiede nell’assorbimento selettivo della
radiazione solare da parte di atomi e molecole presenti nella fotosfera, righe
più deboli, o nella cronosfera, righe più intense. Queste righe furono poi
identificate anche in emissione ed alcune di loro assegnate a precise speie
molecolari. Dato che ogni tipo di molecola o ione ha un proprio spettro di
emissione e di assorbimento, caratteristico della specie, lo studio delle righe
di Fraunhofer ha dato informazioni rilevanti non solo sulla composizione
dell’atmosfera solare, ma, attraverso particolari analisi dell’effetto Doppler
sulle righe di Fraunhofer, si sono ottenute indicazioni sul moto dello strato
assorbente dell’atmosfera solare. Gli spettri a righe sono comuni a tutte le
zone della radiazione elettromagnetica.
34CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Figura 1.8: Righe di Fraunhofer nella radiazione solare
Qui ci occuperemo in particolare dello spettro a righe del sistema più
semplice, l’atomo di idrogeno.
L’elettromagnetismo classico prevede che cariche in moto accelerato irradino energia elettromagnetica. Per l’atomo di idrogeno, si potrebbe quindi
cercare di stabilire una relazione tra la frequenza osservata e la frequenza
delle oscillazioni dell’elettrone. L’atomo di idrogeno potrebbe comportarsi
come una piccola antenna radio: la radiazione elettromagnetica induce oscillazioni dell’elettrone, possibilmente in un’orbita intorno al protone, e viene
quindi assorbita. Questo modello però non si concilia con l’osservazione di
uno spettro a righe: l’atomo di idrogeno costituisce, sotto certi aspetti, un
sistema isolato al quale non viene fornita energia da fonti esterne, e bisogna
dunque apettarsi che la frequenza dell’elettrone e quindi anche della radiazione emessa o assorbita varino con continuità, il che non può conciliarsi con
la presenza di righe nette. C’è un’ulteriore, evidente difficoltà: se l’elettrone
oscilla intorno al nucleo dovrà emettere energia elettromagnetica, a spese
della propria energia cinetica. Diminuendo l’energia cinetica diminuisce anche la forza centrifuga che mantiene l’elettrone ad una certa distanza dal
nucleo. Ciò comporta una variazione del raggio dell’orbita dell’elettrone,
per cui la distanza elettrone-nucleo cambierebbe continuamente portando
alla previsione che l’atomo non è stabile.
Bohr superò questa difficoltà ipotizzando, come Planck aveva fatto per
spiegare la radiazione del corpo nero, l’esistenza di stati stazionari dell’atomo di idrogeno, da cui esso non emette energia. La radiazione è emessa solo
quando l’atomo passa da uno stato stazionario con energia Ei ad un altro
stato con energia minore Ej . L’energia emessa è, in accordo con Planck:
Ei − Ej = hν
(1.58)
Per conoscere le frequenze previste, Bohr sviluppò un proprio modello, che
ebbe grande influenza sugli sviluppi futuri della meccanica quantistica, alla
35
1.8. SPETTRI ATOMICI.
cui base c’è l’ipotesi che l’elettrone si muova in un’orbita circolare di raggio
r intorno al protone. Dalla seconda legge di Newton:
mv 2
e2
=
,
4πǫ0 r2
r
(1.59)
dove il termine a sinistra rappresenta la forza di attrazione coulombiana e
quello a destra il prodotto massa-accelerazione. Possiamo facilmente risalire all’energia cinetica dell’elettrone; assumendo un sistema di riferimento
centrato sul nucleo che si muove con esso:
T =
e2
.
8πǫ0 r
(1.60)
L’ energia totale del sistema è:
E =T +V =−
e2
.
8πǫ0 r
(1.61)
Dal momento che il raggio può assumere qualsiasi valore, lo stesso vale
anche per l’energia. Pertanto, nell’ottica classica, fissare specifici valori di
energia significa fissare dei valori di r ”permessi”; dato r, tutti le proprietà
del sistema sono determinate. La velocità dell’elettrone si può ricavare dalla
eq. (1.59):
s
e2
= v.
4πǫ0 mr
La frequenza di rotazione ν0 è data da:
s
v
e2
=
.
ν0 =
2πr
16π 3 ǫ0 mr3
(1.62)
(1.63)
La quantità di moto è:
p = mv =
s
me2
,
4πǫ0 r
ed infine per il momento angolare si ottiene:
s
me2 r
,
L=p×r =
4πǫ0
(1.64)
(1.65)
36CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
in quanto per l’assunzione che le orbite sono circolari il vettore quantità di
moto è sempre ortogonale al vettore posizione. Bohr trovò che la necessaria quantizzazione del raggio dell’orbita si mettesse in evidenza nel modo
più semplice attraverso la quantizzazione del momento angolare, avanzando
l’ipotesi che L potesse assumere solo valori che sono multipli interi della
costante di Planck h̄. Si osservi che questa è una vera e propria quantizzazione, del tutto analoga a quella della carica elettrica, e di nuovo compare la
costante di Planck. Dalla quantizzazione del momento angolare si ottiene:
r = n2
h 2 ǫ0
.
πme2
(1.66)
Sostituendo quest’ultima espressione nella eq. (1.61), si ottiene l’espressione
che determina l’energia degli stati stazionari
E=−
1 me4
,
n2 8ǫ20 h2
(1.67)
con n numero intero positivo che può assumere tutti i valori a partire da 1.
1.8. SPETTRI ATOMICI.
37
Figura 13. Diagramma dei livelli energetici dell’atomo di idrogeno indicante i
numeri quantici dei vari livelli ed alcune delle transizioni che compaiono nello
spettro.
La formula di Bohr permetteva immediatamente di spiegare il principio
di combinazione di Ritz; infatti, poiché ∆E=hν, una transizione tra due
stati quantici è prevista cadere a frequenza :
1
1
me4
,
(1.68)
−
ν= 2 2
8ǫ0 h j 2 i2
Ora, indicando con RH , costante di Rydberg, la quantità:
38CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
RH =
me4
,
4ǫ20 ch3
(1.69)
otteniamo la formula di Ritz per il calcolo delle lunghezze d’onda corrispondenti alle righe atomiche:
1
1
1
,
(1.70)
= RH
−
λ
j 2 i2
Figura 14. Diagramma dei livelli energetici dell’atomo di idrogeno indicante i
numeri quantici dei vari livelli ed alcune delle transizioni che compaiono nello
spettro.
1.9
Principio di corrispondenza
Le evidenze sperimentali a favore dell’ipotesi degli stati discreti avanzata
da Planck iniziarono ad essere numerose e tutte coerenti tra loro. Il valore della costante di Planck ottenuto dallo studio della radiazione del corpo
nero si accordava perfettamente con quello ottenuto da Einstein dalla variazione del potenziale di soglia nell’effetto fotoelettrico e con quello ottenuto
da Bohr dallo spettro a righe dell’atomo di idrogeno. Nonostante ciò la
nuova teoria non si sarebbe mai affermata se Bohr non avesse mostrato come le predizioni ottenute da questa si accordavano perfettamente a quelle
1.9. PRINCIPIO DI CORRISPONDENZA
39
ottenibili dalle leggi della fisica classica, quando le dimensioni dei sistemi
tendevano al limite macroscopico. Bohr formulò un principio, noto con il
nome di principio di corrispondenza, che stabilisce che per numeri quantici
molto grandi, la fisica quantistica si riduce alla fisica classica. Solo cosı̀ si
riuscirono a superare le inevitabili resistenze del vecchio mondo scientifico.
Il raggio dell’orbita dell’elettrone intorno al nucleo nell’atomo di idrogeno si ottiene ponendo n=1 nella (eq. (1.66)). Per n=1 si ottiene 5.3 10−11 ,
ma se si pone n=10000 il raggio diventa n2 volte più grande ossia dell’ordine dei millimetri. Questo atomo è cosı̀ grande da far pensare che il suo
comportamento possa essere descritto esattamente dalla fisica classica. Verifichiamo che ciò sia vero, calcolando la frequenza emessa sia utilizzando lo
schema classico che l’ipotesi quantistica.
Classicamente la frequenza emessa è uguale al numero di rivoluzioni che
l’elettrone effettua nell’unità di tempo:
ν class =
v
2πr
(1.71)
Sostituendo l’espressione di v ottenuta in precedenza, otteniamo il valore
della frequenza secondo la fisica classica
ν class =
me4 1
4ǫ20 h3 n3
(1.72)
La frequenza di emissione secondo il modello quantistico, considerando una
transizione da n a n+1, è
2n + 1
1
1
quant
= RH
(1.73)
ν
= RH 2 −
n
(n + 1)2
(n + 1)2 n2
Quando n è grande l’espressione in parentesi quadra tende a 2/n3 . Ne segue
che:
2
(1.74)
ν quant = RH 3
n
Sostituendo il valore di RH , c.f. eq. (1.69):
ν quant =
me4 1
4ǫ20 h3 n3
(1.75)
Abbiamo dimostrato che per dimensioni macroscopiche la frequenza classica
coincide con quella quantomeccanica. Questo risultato è noto con il nome
40CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
di proncipio di corrispondenza e sancisce che per sistemi macroscopici la
meccanica quantisitca coincide con quella classica.
1.10
Onde e Corpuscoli: l’ipotesi di de Broglie
Partendo dalla considerazione che la natura è generalmente simmetrica,
Louis de Broglie, all’epoca studente di dottorato, estese le proprietà della radiazione elettromagnetica a corpuscoli microscopici. Se la radiazione
elettromagnetica in alcuni esperimenti mostra natura ondulatoria ed in altri natura corpuscolare perché la stessa caratteristica non può essere estesa
anche ad un fascio di particelle ben collimato? de Broglie avanzò pertanto
la rivoluzionaria ipotesi che ad una particella in moto a velocità v dovesse
essere associata una lunghezza d’onda:
λ=
h
h
=
,
p
mv
(1.76)
cioè la stessa relazione che lega lunghezza d’onda e quantità di moto nella
radiazione elettromagnetica.
Utilizzando la relazione precedente, de Broglie riuscı̀ ad ottenere la condizione di quantizzazione della componente z del momento angolare postulata da Bohr. Assumiamo infatti che il moto di rotazione dell’elettrone
intorno al nucleo sia associato ad un’onda stazionaria. La condizione di
stazionarietà per un’onda in oscillazione tra due fermi è che la distanza tra
i fermi deve essere uguale ad un numero intero di mezze lunghezze d’onda.
Applichiamo tale condizione ad un’orbita di Bohr, considerando però che
in questo caso abbiamo bisogno che l’onda prodotta dalla prima rivoluzione
effettuata dall’elettrone intorno al nucleo interferisca in maniera costruttiva
con l’onda relativa al nuovo moto di rivoluzione. Dal momento che lo spazio
percorso tra due successive oscillazioni di un elettrone intorno al nucleo è
2πr, la condizione di stazionarietà è:
2πr = nλ,
n = 1, 2, 3, 4
(1.77)
Sostituendo alla lunghezza d’onda l’espressione ipotizzata da de Broglie:
1.10. ONDE E CORPUSCOLI: L’IPOTESI DI DE BROGLIE
41
Figura 1.9: Un’artistica visione dell’atomo di idrogeno mostrante l’elettrone
che ruota intorno al nucleo descrivendo un’orbita stazionaria secondo de
Broglie, che si ripete identicamente dopo un giro completo
h
2πr = n ,
p
pr = n
h
2π
(1.78)
dal momento che le orbite sono circolari pr = Lz e ne consegue la condizione
di quantizzazione del momento angolare introdotta da Bohr per spiegare lo
spettro dell’atomo di idrogeno.
L’ipotesi di de Broglie trovò conferma sperimentale pochi anni dopo,
quando Davisson e Germer nel 1927 osservarono per la prima volta fenomeni
di diffrazione facendo incidere un fascio di elettroni su di un cristallo di
nichel.
42CAPITOLO 1. LE BASI SPERIMENTALI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
1.11
L’equazione di Schrödinger
Per sviluppare ulteriormente le nuove idee emerse dalle osservazioni effettuate su scala microscopica è necessario trovare l’equazione che fornisse gli stati
stazionari postulati da Bohr. Questo problema fu affrontato con successo
da Schrödinger, il quale propose la famosa equazione:
HΨ = EΨ
dove H è il cosiddetto operatore hamiltoniano e Ψ è la funzione d’onda. La
risoluzione di questa equazione ad autovalori ed autofunzioni permetteva di
trovare le energie degli stati stazionari postulati da Bohr ed associava a tali
stati una funzione d’onda sul cui significato fisico torneremo tra breve.
L’equazione di Schrödinger è un postulato della meccanica quantistica
ed è quindi da considerarsi come un principio primo della fisica, non derivabile. È però interessante discutere il percorso che fu impiegato per il
raggiungimento di questa equazione. Il fatto che l’equazione che fornisce gli
stati stazionari debba necessariamente essere un’equazione ad autofunzioni
risulterà chiaro nel prossimo capitolo, quando studieremo l’effetto di una
misura su un sistema microscopico. Qui illustriamo un percorso fisicamente
ragionevole che conduce all’equazione di Schrödinger partendo dall’equazione delle onde di D’alembert nella sua forma più generale ed introducendo
l’ipotesi di de Broglie.10
Si parta dall’equazione generale di D’Alembert che regola il moto ondulatorio:
1 ∂ 2 Φ(x, y, z, t)
∇2 Φ(x, y, z, t) = 2
v
∂ 2t
dove Φ(x, y, z, t) fornisce l’ampiezza delle oscillazioni in funzione delle coordinate e del tempo, v è la velocità dell’onda e ∇2 è il laplaciano
∇2 =
∂2
∂2
∂2
+
+
∂x2 ∂y 2 ∂z 2
Le soluzioni dell’equazione di D’Alembert possono essere fattorizzate
in un prodotto di una funzione delle sole coordinate ed una funzione del
tempo. Assumiamo per semplicità che il moto ondulatorio avvenga in una
sola direzione:
10
Sembra che questa era la strada utilizzata da Wolfgang Pauli nelle sue lezioni al
politecnico di Zurigo
43
1.11. L’EQUAZIONE DI SCHRÖDINGER
Φ(x, t) = Ψ(x)cos(ωt + c)
Sostituendo nell’equazione alle onde:
ω2
4π 2
∂2
Ψ(x)
=
−
Ψ(x)
=
−
Ψ(x)
∂x2
v2
λ2
Introduciamo ora l’ipotesi di de Broglie λ =
(1.79)
h
p
∂2
4π 2 p2
Ψ(x) = − 2 Ψ(x)
∂x2
h
Poiché l’energia del sistema può essere scritta comme somma di energia
cinetica ed energia potenziale
E =T +V =
p2
+ V (x)
2m
p2 = 2m(E − V (x))
Sostituendo l’equazione alle onde si scrive:
∂2
4π 2
Ψ(x)
=
−
2m (E − V (x)) Ψ(x)
∂x2
h2
−h̄2 ∂ 2
Ψ(x) + V (x)Ψ(x) = EΨ(x)
(1.80)
2m ∂x2
che è la ben nota equazione di Schrödinger , che fornisce gli stati stazionari e le relative energie di una particella in moto lungo la direzione x
e sottoposta ad un campo di energia potenziale V (x). La funzione Ψ(x) è
detta funzione d’onda della particella. Il modulo quadro di tale funziona
rappresenta, secondo l’intepretazione probabilistica della Scuola di Copenaghen, la funzione densità di probabilità di trovare la particella in un certo
volumetto infinitesimo dello spazio, si veda paragrafo ?? 3.7 per ulteriori
approfondimenti.