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diritto comunitario

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INTR - LE ORIGINI E LO SVILUPPO DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA
L’ideale di un continente europeo non più diviso in tanti stati si afferma fin dal XIX secolo, ma
l’occasione per realizzare queste idee si presenta solo alla fine della II guerra mondiale i cui danni
convincono i politici dell’epoca all’inevitabilità di un processo di integrazione come unico rimedio
per evitare il ripetersi di eventi tanto dannosi. Questo movimento, favorito dalla nascente
contrapposizione sovietico-americana, inizialmente riguarda solo alcuni stati dell’Europa
occidentale, infatti, gli stati orientali diedero vita ad organizzazioni militari (Patto di Varsavia) ed
economiche (COMECON) che facevano riferimento all’Unione Sovietica.
L’integrazione dell’Europa occidentale segue due metodi distinti:
 la cooperazione intergovernativa (metodo tradizionale) in cui gli stati partecipanti
cooperano tra loro come soggetti sovrani creando apposite strutture per organizzare questa
cooperazione; caratteristiche principali sono:
o la prevalenza di organi di stati (nei principali organi risiedono persone che
agiscono come rappresentanti degli stati di appartenenza e ne seguono le direttive);
o la prevalenza del principio di unanimità (garanzia del diritto di veto);
o l’assenza o rarità del potere di adottare atti vincolanti (le deliberazioni
dell’organizzazione hanno natura di raccomandazioni, l’adozione di decisioni
vincolanti è in genere sottoposta al principio dell’unanimità).
Il primo settore in cui si è applicato questo metodo è quello della cooperazione militare (causato
dalla divisione nei blocchi orientale ed occidentale) che vide l’istituzione di organizzazioni
finalizzate a garantire la difesa collettiva in caso di attacco armato:
 l’UEO (Unione dell’Europa Occidentale) fondata a Bruxelles nel 1948 da
Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi,
Portogallo, Spagna e Regno Unito ed altri stati che partecipano come
osservatori il cui organo principale è il Consiglio composto dai
rappresentanti permanenti degli altri stati o quando si riunisce a livello
interministeriale dai Ministeri degli esteri e della difesa e le cui deliberazioni
vengono prese all’unanimità. L’UEO è stata “rivitalizzata” nel 1984, e con i
trattati di Maastricht (92) e di Amsterdam (96) è diventata lo strumento con
cui attuare la componente relativa alla sicurezza e alla difesa comune (PESC)
[prospettiva abbandonata dopo il trattato di Nizza (2001)];
 la NATO (Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) fondata col
trattato di Washington nel 1949, che non è un’organizzazione prettamente
europea in quanto vi appartengono anche USA e Canada; il suo organo
principale è il Consiglio del Nord Atlantico composto dai rappresentanti
permanenti degli altri stati o quando si riunisce a livello interministeriale dai
Ministeri degli esteri e della difesa e le cui deliberazioni vengono prese
all’unanimità.
Nel settore dell’integrazione economica il metodo intergovernativo prende il via dall’esigenza di
gestire il piano Marshall, che prevedeva aiuti finanziari dell’America all’Europa subordinati alla
condizione che la loro gestione avvenga in maniera coordinata fra tutti gli stati beneficiari. Per
rispondere a tale condizione Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia,
Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera e Turchia creano
l’OECE (Organizzazione Europea per la Collaborazione Economica) istituita col trattato di Parigi
del 1948. L’organo principale è il Consiglio, in cui siede un rappresentante per ogni stato membro
(designato in funzione della materia), che delibera all’unanimità. Esauritasi la funzione originaria
dell’istituzione, l’OECE avrebbe dovuto trasformarsi in una zona di libero scambio fra gli stati
membri ma si verificarono alcune divergenze, infatti alcuni stati (Belgio, Germania, Francia, Italia,
Lussemburgo e Paesi Bassi) optarono per forme di integrazione economica ancora più spinte dando
vita alle tre comunità europee, gli altri istituiscono a Stoccolma nel 1960 l’EFTA (European Free
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Trade Association). L’OECE viene trasformata a Parigi nel 1960 nell’OCSE (Organizzazione per
la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) al quale aderiscono anche USA e Canada.
Nel settore della cooperazione politica, culturale e sociale va ricordato il Consiglio d’Europa
(Londra 1949) che ha compiti e obiettivi assai ampi come conseguire un’unione più stretta tra gli
stati membri, salvaguardare i principi e gli ideali che costituiscono il loro patrimonio comune…
L’organo principale è il Comitato dei ministri nel quale siedono i ministri degli esteri degli stati
membri o i loro rappresentanti permanenti. Lo strumento d’azione principale consiste nel
predisporre e concludere convenzioni internazionali, tra cui la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma 1950) che comprende il
catalogo dei diritti dell’uomo e un meccanismo di controllo internazionale del rispetto di tali diritti,
la Corte Europea dei diritti dell’uomo.
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anche se il metodo della cooperazione intergovernativa fece conseguire in pochi anni gli
obiettivi auspicati, gli strumenti di tale cooperazione presentavano elementi di notevole
debolezza in quanto agivano efficacemente solo attraverso il consenso unanime di tutti gli
stati, per questo si superò il principio dell’unanimità con innovative forme di cooperazione
dando vita al cosiddetto metodo comunitario le cui caratteristiche sono:
o la prevalenza di organi di individui (le persone che siedono nella maggior parte
delle istituzioni comunitarie rappresentano se stesse e non lo stato dal quale
provengono e sono pertanto portatrici di proprie scelte e decisioni);
o la prevalenza del principio maggioritario;
o l’ampiezza del potere di adottare atti vincolanti;
o la sottoposizione degli atti ad un sistema di controllo giurisdizionale di legittimità.
La nascita di questo metodo si ebbe a Roma il 9 maggio 1950 con la famosa Dichiarazione
Schuman in cui il ministro degli esteri francese diede origine al processo di integrazione europea
proponendo di mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una
comune Alta Autorità, nel quadro di un'organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi
europei. Questa proposta venne accolta da sei paesi : Belgio, Francia, Germania, Italia,
Lussemburgo e Paesi Bassi che costituirono a Parigi nel 1951 la CECA (Comunità Europea del
Carbone e dell’Acciaio). Questa istituzione presenta dei caratteri originali rispetto alle precedenti in
quanto si basa su quattro istituzioni:
 l’Alta autorità che ha il ruolo centrale ed è composta da un numero di persone pari
al numero di stati membri nominate dagli stati stessi in funzione della loro
competenza professionale; può emanare, oltre ai pareri, anche decisioni (vincolanti
in tutti gli elementi)e raccomandazioni (vincolanti solo negli scopi);
 il Consiglio speciale dei ministri composto da un rappresentante per ogni stato
membro ed ha funzioni consultive rispetto all’Alta autorità anche se il suo parere è
vincolante solo per le materie in cui è previsto che l’alta autorità deliberi su parere
conforme del Consiglio;
 l’Assemblea comune riunisce i rappresentanti dei parlamenti nazionali ed ha
funzione consultiva;
 la Corte di giustizia esercita funzioni di controllo giurisdizionale sulla legittimità
degli atti e sul comportamento delle istituzioni.
La facilità con la quale la CECA entra in funzione e il suo contributo al settore carbo-siderurgico
spingono i sei stati fondatori ad immaginare di estendere il metodo nel settore della difesa. Tant’è
che a Parigi nel 1952 si negozia e firma il trattato istitutivo della CED (Comunità Europea di
Difesa) che prevede un organo indipendente al quale spetta il comando unificato delle forze armate
di tutti gli stati membri: il commissariato, affiancato poi da un Consiglio dei ministri, da
un’Assemblea e da una Corte di giustizia. Questo trattato però non entrò mai in vigore a causa del
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rifiuto dell’assemblea nazionale francese di ratificarlo sia per motivi storici contingenti che per la
perdita di sovranità che avrebbe investito gli stati europei.
Dopo il fallimento della CED seguirono alcuni anni di stasi terminati in occasione della Conferenza
di Messina del 1955 in cui si decide di rilanciare il processo di integrazione costituendo un apposito
comitato di studio con il compito di formulare proposte per allargare ad altri settori l’esperienza
della CECA. Il comitato formula un duplice progetto: l’istituzione di un mercato comune generale
e la necessità di prevedere un regime speciale per alcuni settori tra cui quello dell’energia nucleare.
Il progetto porta, a Roma nel 1957, alla firma del trattato (TCE) [trattato quadro considerata
l’ampiezza della sua portata] che istituisce la CEE (Comunità Economica Europea) e la CEEA
(Comunità Economica dell’Energia Atomica)[o EURATOM].{…va ricordato inoltre che in seguito
al trattato sull’unione europea (TUE) Maastricht 1992, la denominazione è cambiata in CE}.
Il quadro istituzionale delle due nuove comunità rispecchia quello della CECA solo che la
Commissione prende il posto dell’Alta autorità.
All’indomani dei Trattati di Roma, quindi, il quadro dell’integrazione comunitaria cominciava ad
essere piuttosto complesso in quanto ognuna delle tre comunità aveva proprie istituzioni e regole di
funzionamento, perciò si tenta da allora di pervenire alla fusione delle tre comunità.
-la prima tappa si ebbe all’atto stesso della firma dei Trattati di Roma dove venne firmata la
convenzione su alcune istituzioni comuni delle Comunità europee per effetto della quale le tre
comunità si trovarono ad avere la Corte di Giustizia e l’Assemblea parlamentare in comune;
-la seconda tappa è costituita dal Trattato che istituisce un Consiglio ed una
Commissione unici delle Comunità europee (Trattato sulla fusione degli esecutivi) firmato a
Bruxelles nel 1965;
-la terza tappa si è realizzata in coincidenza con la scadenza del trattato CECA nel 2002
con la scelta dei paesi membri di non rinnovare il vecchio trattato e facendo così ricadere il settore
carbosiderurgico nel campo di applicazione del mercato comune generale.
Altro sviluppo importante della Comunità riguarda il suo allargamento che si verifica in questo
ordine:
1957 Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo
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1973 Regno Unito, Irlanda e Danimarca
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1980 Grecia
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1985 Spagna e Portogallo
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1995 Austria, Finlandia e Svezia
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2004 Slovenia, Polonia, Ungheria, Rep. Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, 25
Malta e Cipro
2007 Romania e Bulgaria
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Questo allargamento da 6 a 27 stati membri fa dell’integrazione europea un progetto assai diverso
da quello originale rendendone obsoleta la struttura istituzionale immaginata precedentemente;
uno dei più grandi problemi tutt’ora esistente è quello che viene definito deficit demografico in
quanto l’istituzione dotata di maggiori poteri è il Consiglio, in cui viene rappresentato il potere
esecutivo di ciascuno stato membro e non quello legislativo, che esercita poteri, che se dovessero
essere esercitati a livello nazionale, sarebbero prerogativa dell’organo parlamentare.
Per porre fine a questo problema si cercò di ampliare i poteri del Parlamento infatti, quando
vengono approvati ed entrano in vigore i trattati di Lussemburgo (1970) e di Bruxelles (1975), noti
come trattati di bilancio, al Parlamento europeo vengono attribuiti ampi poteri in merito
all’approvazione del bilancio unificato delle tre Comunità; in quella stessa epoca si da attuazione ad
una norma TCE che consentiva il passaggio al suffragio universale diretto per l’elezione dei
membri del Parlamento. Forte di ciò, il Parlamento moltiplicò le iniziative per favorire questa
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riforma e dopo lunghissime discussioni e proposte nel 1986 si firma l’Atto Unico Europeo (AUE)
che introduce due novità per quanto riguarda i poteri del Parlamento: la procedura di parere
conforme che impedisce al Consiglio di approvare specifici atti senza l’assenso del Parlamento e la
procedura di cooperazione che costringe il consiglio all’unanimità qualora non intenda
conformarsi alle proposte parlamentari di emendamento. Successivamente nel 1992 a Maastricht
viene firmato il Trattato sull’Unione Europea (TUE) con il quale i poteri del parlamento vengono
ulteriormente ampliati grazie alla procedura di codecisione che realizza effettivamente il sistema
bicamerale in quanto nessuna delle istituzioni è in grado di imporre alle altre la propria volontà.
Successivamente col trattato di Amsterdam (1997) si è esteso il campo di applicazione della
procedura di codecisione ad altri settori, anche se nei settori di politica estera e sicurezza comune
(PESC) e in materia penale e di polizia [II e III pilastro dell’istituzione] i poteri parlamentari sono
ancora limitati.
Questa tendenza è stata contrastata dalla riemersione della dimensione intergovernativa con
l’istituzione, per esempio, del Consiglio Europeo quale organo al di sopra del Consiglio e
dell’intera struttura istituzionale comunitaria, con l’incarico di dare l’impulso necessario allo
sviluppo dell’integrazione europea e di definirne gli orientamenti politici generali. La prassi di
convocare riunioni tra le massime cariche degli stati membri ha inizio già negli anni 60, ma venne
istituzionalizzata nel vertice tenuto a Parigi nel 1974. Queste riunioni servivano per far fronte alle
questioni di grande rilevanza politica (adesione nuovi stati, convocazione conferenza per la
revisione dei trattati) che si bloccavano in sede di Consiglio. La composizione è sempre quella di
Parigi, e cioè i capi di stato, di governo, i ministri degli esteri degli stati membri più il presidente
della Commissione assistito da un altro membro della commissione. Le deliberazioni vengono
assunte all’unanimità (o quantomeno per consensus) e sono estrinsecate nelle conclusioni della
presidenza. Il trattato di Amsterdam ha comunque coinvolto il Consiglio europeo in alcuni
procedimenti relativi all’assunzione di decisioni comunitarie di notevole rilevanza.
Un altro campo in cui è riemersa la dimensione intergovernativa dell’Unione sono le votazioni a
maggioranza qualificata del Consiglio. Il TCE prevede infatti che in numerosi casi il Consiglio voti
a maggioranza qualificata, ma alcuni stati manifestarono resistenze di fronte al rischio di vedere
approvate deliberazioni nonostante il proprio voto contrario. In particolare la Francia nel 1965
decide di non partecipare alle riunioni del Consiglio bloccandone i lavori ed aprendo la fase della
cosiddetta crisi del seggio vuoto. La soluzione venne trovata nel corso di una riunione straordinaria
dei ministri degli esteri tenuta a Lussemburgo nel 1966 (compromesso del Lussemburgo) in cui si
stabilì che qualora un membro del consiglio faccia valere che sono in gioco interessi molto
importanti del proprio stato, la discussione sarebbe proseguita per un ragionevole lasso di tempo al
fine di pervenire a soluzioni che possano essere adottate da tutti i membri del Consiglio.
Le riserve nei confronti del voto a maggioranza qualificata si riproposero in vista dell’adesione di
Austria, Finlandia e Svezia, sciolte con il compromesso di Ioannina (1994) in cui si definì la
minoranza di blocco, cioè il numero di voti sufficiente a bloccare la formazione della maggioranza
qualificata per allungare i periodi di discussione fino a raggiungere una soluzione che raccolga una
maggioranza superiore al minimo necessario.
Con il passare del tempo gli Stati membri avvertirono il bisogno di estendere la cooperazione anche
ad altri campi e così l’AUE introduce 4 nuovi settori (ricerca scientifica e tecnologia, ambiente,
ambiente di lavoro, politica regionale), il TUE ne introduce 7 (cooperazione allo sviluppo,
protezione dei consumatori, reti transeuropee, sanità pubblica, industria, cultura e soprattutto
l’UEM (Unione Economica e Monetaria)), il Trattato di Amsterdam introduce l’intero settore dei
visti, diritto di asilo, immigrazione, circolazione dei cittadini terzi, occupazione e cooperazione
doganale e da ultimo il trattato di Nizza aggiunge delle competenze in campo di cooperazione
economica e finanziaria con i paesi terzi. L’assegnazione di queste competenze comporta
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l’assoggettamento dei nuovi settori ai principi del metodo comunitario e non sempre gli stati
membri hanno accettato di agire nel modo descritto infatti a partire dagli anni 70 si assiste
all’affermarsi di forme di cooperazione tra stati comunitari, collegate all’attività della Comunità, ma
svolte secondo il metodo tradizionale della cooperazione intergovernativa.
Il settore più importante in cui si verifica questo è quello della politica estera generale in quanto il
TCE attribuisce alla competenza comunitaria solo un aspetto della politica estera, quello degli
scambi commerciali internazionali, ma gli stati comunitari hanno bisogno di un coordinamento
degli aspetti anche non commerciali per rendere efficaci le loro azioni sul piano internazionale,
questo coordinamento non avviene in sede comunitaria preferendo dare vita a periodiche riunioni
dei Ministri degli Esteri o dei Capi di Stato o di Governo. Dopo un lungo periodo il coordinamento
delle politiche estere nazionali viene trattato dall’AUE nella sua seconda parte in cui si disciplina la
Cooperazione Politica Europea (CPE) in materia di affari esteri, ma tra questo e le comunità viene
mantenuta una netta distinzione che comincia a venir meno con il TUE che trasforma la CPE in
Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e le affianca un terzo settore di attività: la
cooperazione in materia di Giustizia e Affari Interni (GAI). La PESC e la GAI, insieme alle
(allora) tre comunità sono ricondotte all’Unione Europea al cui sviluppo le varie componenti sono
tenute a contribuire. Figurativamente infatti l’UE si presenta come un tempio greco con un frontone
sorretto da tre pilastri, il primo è la cooperazione comunitaria, il secondo è il PESC e il terzo è il
GAI, il frontone sono le disposizioni comuni contenute nel TUE e il pronao dalle disposizioni finali.
Anche se distinti i tre pilastri sono funzionalmente legati l’uno all’altro in quanto gestiti da un
unico quadro istituzionale: Consiglio, Commissione e Parlamento anche se con modalità d’azione
molto diverse. Un ulteriore passo verso l’assimilazione tra i tre pilastri ha luogo coi trattati di
Amsterdam e di Nizza con i quali gran parte delle competenze GAI vengono trasferite nel primo
pilastro, e quindi comunitarizzate, lasciando al terzo pilastro la sola Cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale.
La progressiva e imperfetta riconduzione al metodo comunitario delle forme di cooperazione
intergovernativa ha avuto come prezzo una certa contaminazione nello stesso metodo comunitario
nel quale si sono infiltrate soluzioni intergovernative. Esempio di ciò è il frequente ricorso a forme
di cooperazione differenziata (perché applicabile ad un numero ristretto di stati): l’Europa a più
velocità, fenomeno nato come soluzione di ripiego al quale ricorrere nel caso in cui l’estensione
della competenza comunitaria possa essere bloccata da un numero molto limitato di stati membri
che permette agli stati che lo volessero di andare avanti nel processo di integrazione senza gli stati
contrari.
Un esempio è l’Accordo di Schengen del 1985, finalizzato a ridurre i controlli fisici sulle persone
alle frontiere, inizialmente firmato solo da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi, o
l’Unione Economica e Monetaria che ha visto stati esclusi dal progetto sia per scelta sia perché non
rispettavano i parametri di accesso.
Negli ultimi decenni le riforme dei trattati si sono susseguite con ritmo incalzante (AUE 1986, TUE
1992, T. Amsterdam 1997 e T. Nizza 2001), peraltro dal TUE in poi si è inaugurata la prassi di
inserire in ciascun trattato una clausola che fissa l’anno del successivo trattato, in particolare, al
trattato di Nizza sono allegate due dichiarazioni: la Dichiarazione relativa all’allargamento
dell’Unione europea che definisce la composizione degli organi comunitari una volta che si sarà
realizzato l’ingresso di 10/12 nuovi stati e la Dichiarazione relativa al futuro dell’Europa con la
quale si delinea il percorso da seguire per aprire un dibattito più approfondito e ampio sul futuro
dell’unione e dovrà riguardare:
- le modalità per stabilire più precisamente la ripartizione di competenze tra Unione e Stati
membri;
- lo status della carta dei diritti fondamentali dell’Unione;
- una semplificazione dei Trattati;
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- il ruolo dei parlamenti nazionali nell’architettura europea.
Si stabilisce infine che il Consiglio da tenersi a Laeken nel 2001adotti una dichiarazione contenente
iniziative appropriate. Così il Consiglio nel dicembre 2001 ha approvato la dichiarazione di
Laeken che si occupa di definire con più precisione le questioni da risolvere, ma l’aspetto più
interessante consiste nell’aver deciso di convocare una Convenzione che alla fine dei lavori
redigerà un documento che sarà il punto di partenza della conferenza intergovernativa che prenderà
le decisioni finali. La Convenzione ha eseguito il mandato ricevuto trasmettendo al Presidente del
Consiglio europeo nel 2003 il progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, i
lavori della CIG continuarono fino al dicembre dello stesso anno quando si prese atto della
mancanza di accordi su alcuni punti centrali e si decise di sospendere i lavori, ripresi poi nel 2004,
anche grazie al cambio di maggioranza verificatosi con le elezioni spagnole, che hanno portato
all’accordo finale su un testo di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa approvato dal
Consiglio a Bruxelles nel 2004. Nonostante il riscorso al termine Costituzione, il testo è un Trattato
di cui è prevista la formale abrogazione ed è diviso in quattro parti:
I – (forse la sola che meriterebbe il nome di costituzione) contiene norme generali riguardanti le
competenze, le istituzioni, gli atti, la membership;
II – riproduce con lievi modifiche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea;
III – contiene disposizioni del TCE e del TUE con rilevanti modifiche;
IV – contiene norme generali e finali che trattano la procedura di revisione ordinaria e sull’entrata
in vigore.
In tutto la Costituzione è composta da 448 articoli, 36 protocolli e 50 dichiarazioni.
La dichiarazione relativa alla ratifica del trattato che adotta una Costituzione per l’Europa prevede
che, trascorsi due anni dalla firma del trattato e quattro quinti degli stati membri lo abbiano
ratificato, mentre uno o più stati membri abbiano incontrato difficoltà nelle procedura di ratifica, la
questione sia deferita al Consiglio europeo, e così è successo infatti in Francia e nei Paesi Bassi si è
creata una situazione di stallo a causa dell’esito negativo dei referendum popolari indetti in questi
due paesi; lo stesso Consiglio, preso atto di ciò ha deciso una pausa di riflessione. Possibili
soluzioni a questo blocco possono essere:
a) rinegoziazione del Trattato;
b) sottoposizione alla ratifica solo della prima parte della Costituzione;
c) entrata in vigore solo nei paesi disposti a ratificarlo (rischio di frantumare l’Unione).
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I – IL QUADRO ISTITUZIONALE
La struttura su cui si regge l’Unione Europea è alquanto complessa, al suo interno si distinguono
cinque istituzioni:
- Parlamento europeo
- Corte di Giustizia
- Consiglio
- Corte dei Conti.
- Commissione
(La Costituzione prevede un nuovo quadro istituzionale che comprende il Consiglio Europeo e non
la Corte dei Conti e modifica anche le denominazioni degli organi: il Consiglio si chiamerà
Consiglio dei Ministri, la Commissione diventerà Commissione europea e la Corte di Giustizia sarà
dell’Unione Europea e non più delle Comunità europee.)
Quindi le istituzioni sono le stesse tanto per la CE quanto per l’Unione, quindi l’insieme del sistema
è gestito da un quadro istituzionale unico, accanto al quale operano numerosi comitati ed altri
organi minori con funzioni consultive e preparatorie. Il carattere unitario del quadro istituzionale
assicura che le azioni svolte nell’ambito dei tre pilastri dell’Unione siano coordinate secondo il
principio di coerenza; altro importante principio esplicitato nel TUE (art. 5) e nel TCE (art. 7) è il
principio delle competenze di attribuzione che dispone che le istituzioni esercitano le loro
attribuzioni alle condizioni e ai fini previsti dai trattati e dalle successive disposizioni, la cui
violazione trova apposita sanzione nel vizio di incompetenza che comporta l’illegittimità dell’atto.
Un terzo principio, non espressamente sancito da nessuna norma, ma individuato dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia è il principio di leale collaborazione in forza del quale le
istituzioni devono collaborare lealmente tra di loro e con gli stati membri; infine è opportuno
menzionare il principio del rispetto dell’acquis comunitario che non permette di proporre o
approvare atti che costituiscano regressioni rispetto alla cooperazione già raggiunta.
Il parlamento
Originariamente chiamato Assemblea, l’istituzione ha assunto prima con propria deliberazione e poi
con l’art. 3 AUE la denominazione di Parlamento Europeo. I suoi membri sono eletti a suffragio
universale diretto ogni 5 anni e i suoi componenti sono soggetti al divieto del doppio mandato, è
composto da 785 membri a garanzia dell’adeguata rappresentanza dei popoli degli stati riuniti nella
comunità, organizzati in gruppi politici composti da almeno 19 persone provenienti da almeno 1/5
degli stati membri. Il Parlamento Europeo dispone di alcuni organi tra i quali spicca il Presidente
che dirige i lavori del Parlamento e lo rappresenta nelle relazioni internazionali, nelle cerimonie,
negli atti amministrativi e giudiziari; i presidenti dei gruppi e il presidente del parlamento si
riuniscono formando la Conferenza dei Presidenti. Il Parlamento può lavorare in aula (dove
possono partecipare tutti i membri) o in commissione, ci sono a loro volta due tipi di commissioni:
le commissioni permanenti, previste dal regolamento interno, che trattano gli affari di cui
l’istituzione è investita a seconda della materia, e le commissioni temporanee d’inchiesta.
Le funzioni più importanti sono:
- la partecipazione all’adozione degli atti dell’Unione;
- il controllo politico.
Per svolgere la seconda funzione dispone di numerosi canali attraverso i quali riceve informazioni
sull’operato delle altre istituzioni e degli stati membri. L’informazione periodica e regolare è
assicurata dalla presentazione allo stesso di relazioni da parte degli altri organi, soprattutto dalla
Commissione che presenta la relazione generale annuale. Il Parlamento dispone inoltre del potere
di procurarsi autonomamente informazioni attraverso le interrogazioni, le audizioni e l’iniziativa
dei singoli attraverso: le petizioni (su materie che rientrano direttamente nel campo d’attività della
comunità), il ricorso al Mediatore europeo (per lamentare casi di cattiva amministrazione
nell’azione delle istituzioni e degli organi comunitari) e le denunce (di infrazione o di cattiva
amministrazione nell’applicazione del diritto comunitario). A fronte di questi strumenti di
informazione il Parlamento dispone di poteri sanzionatori nei confronti della Commissione
espressi nel potere di approvare una mozione di censura che, una volta presentata, può essere
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discussa solo dopo tre giorni dalla data del deposito, deve essere votata con scrutinio pubblico e
approvata dai due terzi dei voti espressi e a maggioranza dei membri che compongono il
Parlamento. Se approvata, i membri della commissione devono abbandonare collettivamente le loro
funzioni, quindi la mozione comporta le dimissioni dell’intero organo. Il controllo del Parlamento
sul Consiglio si traduce sul controllo giurisdizionale presentando ricorso alla Corte di Giustizia
contro atti o comportamenti avuti dal consiglio senza rispettare i poteri parlamentari.
Il Consiglio
Il Consiglio è un tipico organo di stati in quanto è composto da soggetti che rappresentano i
Governi dei singoli stati ed è formato da un rappresentante di ciascun stato membro a livello
ministeriale, abilitato a impegnare il governo dello stato membro. [L’attuale versione non esclude
la possibilità di rappresentanza di un governo regionale, sempre che, in base alla costituzione di
quello stato, questi abbiano rango ministeriale (Germania). Il processo di formazione della
posizione del governo italiano è oggetto di disposizioni nel consiglio che hanno lo scopo di favorire
un’ampia partecipazione di tutti gli organi e soggetti interessati, e cioè: parlamento, regioni,
province autonome, parti sociali e categorie produttive]. Il consiglio non è un organo permanente
in quanto si riunisce di volta in volta, con la conseguente possibilità per uno Stato di nominare di
volta in volta un rappresentante diverso a seconda della riunione; normalmente viene designato il
ministro competente per la materia iscritta all’ordine del giorno, nella prassi si parla quindi di
formazioni specializzate. Vi sono, però, casi in cui gli stessi trattati indicano la composizione del
Consiglio, indicando quali ministri devono riunirsi; in altri casi si prescrive che il consiglio si
riunisca nella composizione dei Capi di Stato e di Governo per decidere quali stati membri
ammettere alla terza UEM o si danno anche ipotesi di Consiglio a dimensione ridotta come
l’ipotesi in cui alla terza fase UEM non siano stati ammessi tutti gli stati membri.
All’interno del Consiglio il rappresentante di uno stato membro a turno esercita la Presidenza
svolgendo un ruolo molto importante in quanto si assume la carica di Presidente del Consiglio
europeo e di tutti gli altri organi la cui composizione riflette quella del consiglio. Il presidente ha
innanzitutto il compito di convocare le riunioni e stabilirne l’ordine del giorno.
I modi di deliberazione del Consiglio sono: la maggioranza semplice, la maggioranza qualificata e
l’unanimità, scelte dalla norma dalla quale il consiglio intende trarre il potere da esercitare. La
maggioranza qualificata viene calcolata attraverso un sistema di ponderazione di voti, mentre nella
maggioranza semplice e l’unanimità ciascun componente dispone di un voto indipendentemente
dalle dimensioni e dall’importanza dello stato di appartenenza. Nel nuovo regime, modificato dal
Trattato di Nizza, la maggioranza qualificata prevede tre condizioni, le prime due sempre
applicabili, la terza solo se un componente del consiglio ne fa richiesta, e cioè:
1 - il raggiungimento di una soglia minima di voti ponderati secondo una tabella di ponderazione
del tutto nuova;
2 – il voto favorevole di almeno la maggioranza dei membri qualora le deliberazioni siano fatte su
proposta della Commissione, se non c’è la proposta ella commissione occorre il voto favorevole di
almeno due terzi dei membri;
3 – gli stati membri che compongono la maggioranza devono rappresentare almeno il 62% della
popolazione (criterio demografico).
Il sistema dell’unanimità invece ha la particolarità dell’astensione costruttiva che prevede che
l’assenza di membri e rappresentanti non ostacolino le deliberazioni del Consiglio per le quali è
prevista l’unanimità.
È importante distinguere il Consiglio da altri organi che hanno una composizione simile, il TCE
infatti si riferisce spesso a decisioni che devono essere prese collegialmente dai rappresentati degli
stati membri che non agiscono per conto del Consiglio, ma si riuniscono in coincidenza delle
riunioni del Consiglio creando le decisioni dei rappresentanti degli Stati membri riuniti in sede
di Consiglio pubblicate sulla G.U. e non soggette al controllo giurisdizionale della Corte di
giustizia. Il Comitato dei Rappresentanti Permanenti (CORE-PER) riunisce i rappresentanti
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diplomatici che ciascun stato membro accredita verso l’Unione Europea, è un organo che assicura
una notevole continuità di lavoro ed è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio e
dell’esecuzione dei compiti che il Consiglio le assegna. In sostanza il COREPER costituisce un
filtro tra Commissione e Consiglio in quanto esamina preliminarmente tutte le proposte che la
Commissione vuole sottoporre al Consiglio. Il Consiglio è assistito inoltre dal Segretario generale
che è l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune (signor PESC) e dal
Vicesegretario generale che è il responsabile del funzionamento del Segretariato generale con
funzioni di formulazione, preparazione e attuazione di decisioni riguardanti la politica estera. La
Costituzione unisce la figura dell’Alto rappresentante con quella del membro della Commissione
responsabile delle relazioni esterne istituendo la carica di Ministro degli esteri dell’Unione che ha
poteri di iniziativa e decisione nel settore della PESC. Le funzioni del Consiglio sono: provvedere
al coordinamento delle politiche economiche generali degli Stati membri, disporre del potere di
decisione e se del caso conferire alla Commissione le competenze di esecuzione delle norme che
stabilisce.
La Commissione
La Commissione è un organo di individui che non sono legati da vincoli di rappresentanza ad uno
Stato membro, è composto da 27 membri incluso il Presidente ed un numero imprecisato di vicepresidenti. Tali membri devono soddisfare i requisiti di indipendenza e professionalità,sono scelti
in base alla loro competenza generale e durano in carica 5 anni. La procedura di nomina prevede
una deliberazione del Consiglio a maggioranza qualificata e distingue la nomina del Presidente da
quella degli altri membri (1.designazione Presidente – 2. approvazione del Parlamento – 3.
Consiglio e Presidente adottano l’elenco delle altre persone – 4. presidente e commissione sono
soggetti all’approvazione del Parlamento – 5. il Consiglio nomina a maggioranza qualificata
Presidente e membri della Commissione). Il Presidente riveste un ruolo centrale in quanto definisce
gli orientamenti della commissione e la sua organizzazione interna. I compiti della Commissione
sono :
- custodire la legittimità comunitaria vigilando sull’applicazione delle disposizioni dei
Trattati;
- avere un generale potere di raccomandazione formulando pareri nei settori definiti dai
trattati quando questi lo ritengano necessario;
- avere un autonomo potere di decisione partecipando alla formazione degli atti del
Consiglio e del Parlamento alle condizioni previste dai trattati;
- esercitare competenze di esecuzione conferitegli dal Consiglio.
La Corte di giustizia
La Corte si articola al suo interno in più rami dotati ognuno di piena autonomia funzionale e
amministrativa e cioè: la Corte di giustizia, il Tribunale di primo grado e le camere
giurisdizionali (tribunale della funzione pubblica), tutti organi di individui.
La Corte di giustizia
Le fonti normative che disciplinano l’attività della Corte di giustizia sono contenute nei trattati
TCE e TUE e nel protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia della Comunità europea allegato
al TCE e per questo ne condivide la natura giuridica. Infine va ricordato il regolamento di
procedura stabilito dalla Corte stessa ma che necessità dell’approvazione del Consiglio a
maggioranza qualificata.
La composizione della Corte è articolata in un giudice per ogni Stato membro (27) ed è inoltre
assistita da 8 avvocati generali che hanno il compito di presentare conclusioni motivate sulle cause
che, conformemente allo statuto della corte, ne richiedono l’intervento. Queste conclusioni
contengono il parere dell’avvocato generale su come la Corte dovrebbe decidere la causa ma non
sono vincolanti. Per quanto riguarda la nazionalità degli avvocati generali la prassi vuole che vi
siano sempre 4 avvocati generali con nazionalità di ciascuno degli Stati membri maggiori (It, Ger,
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Fr, UK) mentre i restanti 4 siano ricoperti a rotazione da persone degli altri Stati membri. La
nomina di giudici e avocati avviene di comune accordo tra i Governi degli Stati membri e il
mandato dura 6 anni..
La Corte opera nelle seguenti formazioni di giudizio:
- sezioni (formazione ordinaria) composte da tre o cinque giudici;
- grande sezione formata da 11 giudici, tra cui il presidente che la presiede, ed è convocata
quando lo richiede uno Stato membro o un’Istituzione che è parte in giudizio;
- seduta plenaria con la partecipazione di tutti i giudici è convocata per ipotesi particolari.
Le principali funzioni della Corte hanno natura giurisdizionale, ma ha anche funzioni di natura
consultiva attraverso i pareri che le possono essere richiesti da Parlamento, Consiglio,
Commissione e Stati membri; caratteristica dei pareri della corte è il loro valore parzialmente
vincolante.
Il Tribunale di primo grado
Anche il funzionamento e l’organizzazione del Tribunale di primo grado sono disciplinati da
disposizioni contenute nel TCE, nello Statuto della Corte di giustizia ed infine il proprio
regolamento di procedura (di concerto con la Corte di giustizia e poi sottoposto all’approvazione del
Consiglio a maggioranza qualificata). Per quanto riguarda il rapporto istituzionale, Corte di
giustizia e Tribunale coesistono all’interno della stessa istituzione, mentre per quanto riguarda il
rapporto giurisdizionale il Tribunale si trova in posizione di subordinazione rispetto alla Corte
visto che le sue decisioni sono impugnabili davanti alla Corte. La composizione, la nomina e la
durata del mandato sono simili a quelli della Corte, a parte il fatto che il Tribunale non dispone di
avvocati generali anche se li può convocare per cause di particolare importanza. Circa le
formazioni di giudizio vediamo che il Tribunale funziona in sezioni di 3 o 5 giudici. Il
regolamento di procedura disciplina poi i casi in cui il Tribunale si riunisce in seduta plenaria, in
grande sezione o si statuisce nella persona di un giudice unico. La competenza di primo grado
del Tribunale comporta due limiti: la competenza esclusiva della Corte e l’istituzione delle Camere
giurisdizionali (il Tribunale della funzione pubblica dell’Unione europea che ha competenza di
primo grado sul contenzioso con il personale delle istituzioni e degli organi dell’Unione).
Comunque il tribunale non copre tutte le azioni sottoposte al giudizio della Corte ed ha
competenza diretta in primo grado su:
- ricorsi proposti da persone fisiche o giuridiche contro le istituzioni o gli altri organi;
- ricorsi d’annullamento per inazione proposti dagli Stati membri contro la Commissione;
- ricorsi di annullamento proposti dagli Stati membri contro il Consiglio.
Le Camere giurisdizionali
Introdotte dal Trattato di Nizza sono incaricate di conoscere in primo grado tutte le categorie di
ricorsi proposti in materie specifiche. La prima Camera giurisdizionale è stata voluta dal Consiglio
ed è il Tribunale della funzione pubblica (TFP) competente in primo grado a pronunciarsi sulle
controversie tra le Comunità e i loro agenti comprese quelle tra gli organi o tra gli organismi e il
loro personale per le quali la competenza è attribuita alla Corte di giustizia (contenzioso del
personale).
La Corte dei conti
La Corte dei conti è un organo di individui formata da un cittadino per ciascun stato membro,
nominati dal consiglio all’unanimità previa consultazione del Parlamento ogni 6 anni. Le funzioni
della Corte sono disciplinate dal TCE e riguardano il compito di assicurare la legittimità e la
regolarità delle entrate e delle spese accertando la sana gestione finanziaria; gli atti più rilevanti
della Corte sono la Dichiarazione presentata al Parlamento e la Relazione annuale pubblicata sulla
G.U..
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Altri organi
Il Comitato economico e sociale è lo strumento di espressione degli interessi delle varie
componenti di carattere economico sociale della società civile organizzata, in particolare dei
produttori, agricoltori, vettori, lavoratori, commercianti, artigiani e dei liberi professionisti,
composto da 353 membri nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata.
Il Comitato delle regioni è composto da un numero di membri pari a quelli del Comitato
economico e sociale rappresentativi delle collettività regionali e locali; i membri devono essere
titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una comunità regionale o locale oppure
politicamente responsabili davanti ad una assemblea eletta.
Entrambi devono essere consultati dal Consiglio o dalla Commissione sia quando è previsto dal
TCE che quando essi lo ritengono necessario; nel primo caso il parere è obbligatorio ma non
vincolante, nel secondo è totalmente facoltativo.
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II – LE PROCEDURE ITERISTITUZIONALI PER L’ADOZIONE DI ATTI
DELL’UNIONE
Per procedura iteristituzionale si intende la sequenza di atti o fatti provenienti da più di
un’istituzione politica richiesta dai Trattati affinché la volontà dell’Unione si possa manifestare
attraverso determinati atti giuridici.
In realtà i Trattati prevedono numerose procedure iteristituzionali, alcune riguardano solo
l’approvazione di atti specifici come la procedura di bilancio e la procedura per la conclusione
di accordi internazionali, ma le procedure più frequentemente utilizzate non si distinguono in
funzione della natura del potere esercitato dalle istituzioni coinvolte o in relazione al tipo di atti da
adottare, ma dal ruolo che in esse spetta alle varie istituzioni, in particolare al Parlamento.
Per stabilire quale procedura vada seguita di volta in volta bisogna definire la base giuridica
dell’atto che si intende adottare, cioè individuare la disposizione del Trattato in cui si attribuisce alle
istituzioni il potere di adottare un determinato atto; sarà la disposizione così individuata a indicare
la procedura istituzionale da seguire. Considerate le grandi differenze tra procedure l’individuazione
delle stesse è un’operazione alquanto delicata e complessa anche perché potrebbe far sorgere
conflitti tra le istituzioni.
La corretta individuazione della base giuridica dipende dall’analisi dello scopo e del contenuto
dell’atto, se lo stesso atto presenta una pluralità di scopi e contenuti, la base giuridica va dedotta dal
c.d. centro di gravità dell’atto, mentre non dovrà tenersi conto di scopi o componenti secondari; se
non è nemmeno possibile individuare il centro di gravità l’atto dovrà avere una base giuridica
plurima consistente in tutte le disposizioni del trattato corrispondenti ai suoi scopi e contenuti. Se
tuttavia tali disposizioni prevedono procedure decisionali diverse la base giuridica sarà scelta
preferendo la disposizione di portata più generale e in nessun caso potrà essere preferita una base
giuridica che pregiudichi i poteri di partecipazione del Parlamento alla procedura decisionale.
La procedura di base
L’art. 250 non definisce una procedura decisionale precisa ma si limita disciplinare i poteri
rispettivi di Consiglio e Commissione quando il primo è chiamato dal TCE ad adottare un atto su
proposta della seconda, esso si combina con le varie disposizioni del TCE e secondo la materia
dell’atto definisce il modo di deliberazione del Consiglio (maggioranza qualificata/unanimità) o
prescrive la consultazione obbligatoria del Parlamento europeo, dando vita ad una sorta di
procedura di base, denominata a volte procedura di consultazione quando il Parlamento ha
unicamente funzione consultiva piuttosto che i poteri maggiori previsti dalle procedure di
cooperazione e codecisione; non sempre la procedura di base è consultiva.
La procedura si apre con la proposta della Commissione, in quanto si ritiene che tale istituzione
sia portatrice dell’interesse generale della Comunità considerate le sue caratteristiche di
indipendenza e professionalità; l’esclusiva di questo potere è andata attenuandosi col tempo ed è
stato riconosciuto il potere di sollecitare proposte anche al Parlamento, al Consiglio stesso, al
Consiglio europeo e con la nuova Costituzione anche ai cittadini dell’Unione (almeno un milione di
cittadini appartenenti a un numero significativo di stati membri).
Partendo dal presupposto che la Commissione è la portatrice dell’interesse generale della Comunità,
mentre il Consiglio rappresenta gli interessi di ciascuno Stato membro, il TCE (art. 250) limita il
potere di modifica della proposta del Consiglio e prevede che un atto che costituisce emendamento
della proposta può essere emanato solo deliberando all’unanimità e per evitare situazioni di stallo
la Commissione può modificare o ritirare la proposta in ogni fase delle procedure che portano
all’adozione dell’atto comunitario.
La fase della consultazione viene prevista da singole disposizioni del TCE che specificano, di volta
in volta, se per l’adozione di atti in determinate materie sia necessario il parere di un’altra
istituzione o organo, in particolar modo del Parlamento europeo. Esistono tre tipi di pareri:
1. parere facoltativo che si verifica quando il Consiglio lo chiede spontaneamente ed è
facoltativo e non vincolante;
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2. parere consultivo quando è previsto dalla disposizione del trattato rilevante ed è
obbligatorio ma non vincolante;
3. parere conforme che è una procedura limitata a pochissimi ma importanti casi (adesione di
nuovi Stati all’Unione) ed è obbligatorio e vincolante quindi se viene rifiutato il Consiglio
non può deliberare l’atto proposto.
La Corte di giustizia ha contribuito ad accrescere l’importanza della consultazione del Parlamento
che deve essere effettiva e regolare; per quanto riguarda il termine per l’emanazione del parere
il TCE stabilisce il limite massimo solo in materia di accordi internazionali, per gli altri pareri il
Parlamento è tenuto a rispettare il principio di leale collaborazione emanando il parere in un
termine ragionevole tenendo conto delle eventuali richieste avanzate dal Consiglio per ottenere
una delibera urgente.
La procedura di cooperazione
Disciplinata dall’art. 252 sopravvive solo nell’UEM e si basa su un sistema in cui la proposta della
Commissione è sottoposta ad una doppia lettura del Parlamento e del Consiglio: la prima fase
prevede una preventiva lettura del Parlamento che emette un parere consultivo sulla proposta della
Commissione a cui segue la prima lettura del Consiglio che si limita ad approvare, a maggioranza
qualificata, una posizione comune; la seconda fase prevede nello stesso ordine un’altra lettura del
Parlamento e del Consiglio. Il Parlamento può:
A. approvare la posizione comune o omettere di pronunciarsi nel termine di tre mesi;
B. respingere la posizione comune a maggioranza assoluta;
C. proporre degli emendamenti alla posizione comune. (in quest’ultimo caso la Commissione
viene nuovamente coinvolta per formulare, sulla scorta degli emendamenti proposti dal
Parlamento, un proposta riesaminata che viene trasmessa al Consiglio accompagnata dagli
emendamenti parlamentari non recepiti e dal parere della Commissione sugli stessi).
Nella seconda lettura il Consiglio ha più possibilità infatti può:
[A] adottare definitivamente l’atto in conformità alla posizione comune;
[B] può adottarlo solo all’unanimità;
[C] 1 – a maggioranza qualificata approva la proposta riesaminata della Commissione;
2 – all’unanimità approva gli emendamenti del Parlamento non accolti dalla Commissione;
3 – sempre all’unanimità può modificare la proposta riesaminata.
La procedura di codecisione
Prevista nell’art. 251 si fonda anch’essa su un sistema di doppia lettura che, però, può essere
totalmente o parzialmente evitata. La prima fase si apre con la proposta della Commissione inviata
contemporaneamente a Consiglio e Parlamento che elabora un parere consultivo; con la prima
lettura del Consiglio la procedura potrebbe anche finire se quest’ultimo approva proposta della
Commissione ed emendamenti del Parlamento. In caso contrario il Consiglio adotta, a maggioranza
qualificata, un posizione comune dando inizio alla seconda fase in cui il Parlamento può:
A. approvare al posizione comune o omettere di pronunciarsi nel termine di tre mesi;
B. respingere la posizione comune a maggioranza assoluta;
C. proporre degli emendamenti alla posizione comune. (in quest’ultimo caso la Commissione
viene nuovamente coinvolta per formulare, sulla scorta degli emendamenti proposti dal
Parlamento, un parere).
Nella seconda lettura il Consiglio può:
[A] adottare l’atto in conformità alla posizione comune;
[B] arrestare la procedura perché l’atto non si considera adottato;
[C] 1 – adottare tutti gli emendamenti del Parlamento (all’unanimità per gli emendamenti
contrari al parere della Commissione a maggioranza qualificata approva la proposta
riesaminata della Commissione) e l’atto si considera adottato;
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2 – non approvare gli emendamenti ed aprire la terza fase nella quale viene convocato un
comitato di conciliazione composto da membri di Consiglio, Parlamento e Commissione
con il compito di elaborare un progetto comune sulla base della posizione comune e degli
emendamenti parlamentari. Se il comitato non riesce ad approvare un progetto comune in
sei settimane l’atto non è adottato, se invece lo approva, il testo sarà definitivamente
approvato (terza lettura) da Parlamento e Consiglio, in mancanza dell’approvazione
dell’una o dell’altra istituzione l’atto non è adottato.
Le procedure del II (PESC) e del III (GAI) pilastro
Il primo pilastro si distingue nettamente dagli altri due per il ruolo degli organi di persone, il
principio maggioritario, il carattere vincolante degli atti delle istituzioni comunitarie e la loro
relativa sottoposizione al controllo di legittimità della Corte di Giustizia; i Trattati di Amsterdam e
Nizza, tuttavia hanno permesso una certa “contaminazione” degli ultimi due pilastri da parte del
primo anche se importanti differenze permangono tuttora.
Cominciando dalla PESC ricordiamo innanzitutto che il Consiglio europeo non si limita a dettare
principi e orientamenti generali della politica estera e di sicurezza comune ma adotta anche dei veri
e propri atti giuridici: le strategie comuni che fissano gli obiettivi, durata e mezzi che l’Unione e
gli Stati membri devono mettere a disposizione.
Le deliberazioni del Consiglio in ambito PESC sono prese all’unanimità e posto che le astensioni
non la escludono, si è introdotto l’istituto dell’astensione costruttiva cioè, la delibera del Consiglio
è validamente assunta ma non vincola lo Stato membro astenuto (inapplicabile se il numero degli
Stati membri che vi fanno ricorso è rilevante); per gli atti mancanti di proposta della Commissione
(che riguardano l’adozione o l’attuazione di decisioni sulla base di una strategia comune o quando
nominano un rappresentante speciale) è previsto il voto a maggioranza qualificata che può essere
paralizzato dalla clausola di salvaguardia che impedisce, per importanti motivi di politica
nazionale, al Consiglio di adottare l’atto e di deferire la questione al Consiglio europeo che, come al
solito, delibera all’unanimità.
La Commissione è pienamente associata ai lavori nel settore della politica estera e sicurezza
comune anche se il potere di proposta viene condiviso con gli stati membri; al Parlamento
europeo rimane un ruolo molto ridotto tanto che non esiste una vera e propria consultazione
sistematica.
Nel pilastro di Cooperazione di polizia e giudiziaria in maniera penale al Consiglio europeo
non viene riconosciuto alcun ruolo, invece la disciplina delle deliberazioni del Consiglio distingue
tra casi che richiedono l’unanimità, cioè: ● posizioni comuni ● decisioni-quadro ● decisioni ●
convenzioni tra gli stati membri, e casi che richiedono la maggioranza qualificata cioè le misure
necessarie all’attuazione delle decisioni. Come nella PESC il potere di proposta della
Commissione è condiviso con gli Stati membri, mentre il ruolo del Parlamento europeo è
accresciuto in quanto deve essere sempre consultato, tranne quando il Consiglio adotta posizioni
comuni.
La cooperazione rafforzata
L’istituto della cooperazione rafforzata si è affermato con il Trattato di Amsterdam, rappresenta la
piena accettazione dell’Europa a più velocità e ha come scopo quello di consentire ad un gruppo
di Stati membri di utilizzare le procedure, le istituzioni ed i meccanismi decisionali del TCE o del
TUE per instaurare tra loro forme di cooperazione non condivise da tutti gli Stati membri. La sua
disciplina è piuttosto articolata infatti accanto alle disposizioni generali (art. 43 e 45 TUE),
esistono disposizioni specifiche relative al primo e al terzo pilastro. Il Trattato di Amsterdam non la
prevedeva nel secondo pilastro, in quanto il meccanismo dell’astensione costruttiva rappresentava
soluzione alternativa; il Trattato di Nizza lo ha introdotto. Per istituire una cooperazione rafforzata è
necessario che questa risponda a numerosi requisiti e cioè deve:
- essere diretta a promuovere gli obiettivi dell’Unione;
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-
rispettare i Trattati e il Quadro istituzionale unico;
rispettare l’acquis;
rimanere nell’ambito delle competenze dell’Unione;
non recare pregiudizio al mercato interno;
riunire almeno 8 Stati membri rispettando competenze, obblighi e diritti degli stati non
partecipanti;
- essere aperta a tutti gli Stati membri.
La disciplina dell’autorizzazione all’instaurazione di una cooperazione rafforzata varia da pilastro
a pilastro, infatti per il II (PESC) l’art. 27 TUE prevede che la richiesta sia presentata dagli Stati
membri al Consiglio che, raccolto il parere della Commissione, decide a maggioranza qualificata
con possibilità di opposizione da parte di uno Stato che invochi motivi di importante interesse
nazionale; nel I e nel III pilastro, disciplinati rispettivamente dagli art. 11 e 40 TUE, la richiesta di
cooperazione è presentata inizialmente alla Commissione o in assenza al Consiglio da almeno otto
Stati membri che, previa consultazione del Parlamento (parere conforme solo nei casi in cui sia
prevista la procedura di codecisione)delibera a maggioranza qualificata.
La procedura per la conclusione degli atti internazionali
La procedura per negoziare e concludere accorsi internazionali della Comunità con gli Stati terzi o
con le altre organizzazioni internazionali è disciplinata dall’art. 300 TCE che prevede l’apertura del
negoziato in seguito alla delibera a maggioranza qualificata del Consiglio su raccomandazione della
Commissione alla quale spetta svolgere il negoziato accompagnata da eventuali comitati previsti dal
Consiglio ed attenendosi alle direttive che il Consiglio può impartire. La firma, la conclusione e la
sospensione dell’accordo sono decise dal Consiglio sempre a maggioranza qualificata. Con
esclusione degli accordi di politica internazionale il Parlamento è sempre consultato dal Consiglio
e il suo parere è meramente consultivo a parte nei casi di ● accordi di associazione ● accordi che
organizzano procedure di cooperazione ● accordi che hanno ripercussioni finanziarie influenti per
la Comunità ● accordi che implicano la modifica di un atto adottato con la procedura di
codecisione (art. 251).
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III – L’ORDINAMENTO COMUNITARIO
La Corte di giustizia ha sempre qualificato la Comunità e l’Unione europea come enti portatori di
propri ordinamenti giuridici distinti sia dall’ordinamento internazionale che dagli ordinamenti
interni degli Stati membri; questa situazione sarà comunque superata dalla Costituzione che abolirà
la struttura a pilastri, ricondurrà tutte le competenze e le politiche dell’Unione nell’ambito di un
unico trattato e ne riconoscerà la personalità giuridica portando alla fusione del diritto dell’Unione
in un ordinamento onnicomprensivo.
L’ordinamento comunitario si basa su un sistema di fonti di produzione del diritto che riposa su un
un’unica distinzione: fonti di diritto primario (TCE e le altre fonti di cui il TCE riconosce pari
natura[atti di base]) e fonti di diritto secondario o derivato (atti che le istituzioni della Comunità
hanno il potere di adottare in virtù del TCE[atti di esecuzione o di attuazione]). Tra i due livelli ci
possono essere delle fonti intermedie la cui giuridicità deriva dal TCE ma prevalgono sul diritto
secondario, si tratta di una categoria eterogenea che può comprendere i principi generali, le norme e
gli accordi di diritto internazionale.
Tra le fonti secondarie figurano categorie di atti molto diversi, in particolare l’art. 249 contempla
tre categorie di atti vincolanti (regolamenti, direttive e decisioni) ma non prevede alcuna gerarchia
tra loro, in quanto il TCE specifica, materia per materia, il tipo di atto che può essere adottato
evitando conflitti tra atti appartenenti a categorie diverse.
Gli atti di diritto derivato si distinguono anche in funzione delle istituzioni dalle quali sono
adottati, infatti l’art. 249 prevede che possono essere emanati dal Parlamento congiuntamente al
Consiglio, dal Consiglio, dalla Commissione e dalla BCE. Spesso però gli atti della Commissione
sono emanati in forza di una delega contenuta in un atto base del Parlamento e del Consiglio o solo
del Consiglio, o gli atti del Consiglio danno attuazione a un piano adottato congiuntamente da
Parlamento e Consiglio stesso e solo in questi casi, gli atti di attuazione devono rispettare l’atto di
base, ma al di fuori di questa ipotesi manca una regola, anche implicita, che stabilisca la prevalenza
degli atti adottati da un’istituzione rispetto a quelli adottati da un’altra. L’eventuale conflitto tra atti
indipendenti tra di loro e adottati da due diverse istituzioni andrà risolto in termini di individuazione
della base giuridica.
Le fonti del diritto primario: il trattato CE
Le fonti del diritto primario comunitario sono contenute perlopiù nel TCE; natura di fonti primarie
hanno anche i protocolli allegati al TCE, al TUE , ai trattati CECA e CEEA. Per prassi all’atto
finale della CIG convocata per approvare i trattati di revisione del TCE o del TUE vengono
allegate alcune Dichiarazioni aventi ad oggetto una o più disposizioni del Trattato che possono
essere di tre tipi: a) dichiarazioni della Conferenza; b) dichiarazioni di uno o più stati membri;
c)dichiarazioni di una o più istituzioni; le prime possono fare da guida per l’interpretazione delle
disposizioni alle quali si riferiscono, ma non costituiscono un vero e proprio vincolo, le ultime due
hanno minore rilevanza perché non emanano da coloro (almeno non tutti) che detengono
collettivamente il potere di revisione.
Una delle questioni centrali dello studio giuridico dell’Unione consiste nell’individuare la natura
giuridica del TCE tra il considerarlo un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale e
considerarlo una carta costituzionale di un’entità di tipo statuale.
A sostegno della prima ipotesi si può invocare il fatto che il TCE e il TUE siano stati conclusi
seguendo formule e procedimenti propri dei trattati internazionali ed anche la maniera in cui sono
stati scritti gli articoli del TCE in quanto prevalgono le norme riferite agli Stati membri ai quali
vengono imposti diritti e doveri, facendogli mantenere la propria sovranità delegandone l’esercizio
agli organi comunitari.
Ponendoci invece in una prospettiva interna al sistema giuridico comunitario non si può negare che
il TCE assolve ad una funzione di natura costituzionale in quanto definisce la struttura
istituzionale, le procedure per l’adozione degli atti di diritto derivato, prevede una serie di norme
materiali che dettano i principi e le regole di base applicabili ai vari settori della competenza
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comunitaria e regola i rapporti tra i soggetti degli ordinamenti interni degli stati membri;
quest’ultima caratteristica rende impossibile confinare l’ordinamento comunitario nell’ambito di
quello internazionale rendendo impossibile la configurazione del TCE come un semplice trattato
internazionale.
Da parte sua la Corte di giustizia considera il TCE come una costituzione; questa considerazione si
riflette nei criteri interpretativi contestuali e teleologici usati dalla Corte. Un altro criterio
interpretativo è quello detto dell’effetto utile (la Corte preferisce l’interpretazione che consente di
riconoscere alla norma la maggiore effettività possibile di modo che gli scopi prefissati siano
facilmente raggiungibili).
Il TCE può essere modificato ricorrendo alla procedura di revisione (art. 48 TUE) che consiste di
due fasi:
- la fase preparatoria in cui il Consiglio deve esprimere parere favorevole alla convocazione
di una conferenza tra i rappresentanti degli Stati membri (CIG) per deliberare sulle eventuali
modifiche; il parere viene dato su un progetto presentato dal Governo di qualsiasi Stato
membro o dalla Commissione sul quale vengono consultati il Parlamento, la Commissione o
la BCE se riguarda modifiche istituzionali nel settore monetario;
- una volta che il Consiglio ha espresso voto favorevole la CIG viene convocata dal
Presidente del Consiglio passando così alla fase deliberativa. Le modifiche ai Trattati
devono essere stabilite all’unanimità ed entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti
gli Stati membri, quindi l’esito della procedura di revisione è rappresentato da un nuovo
trattato.
La Costituzione prevede una nuova procedura di revisione che dopo la decisione a maggioranza
semplice del Consiglio europeo favorevole all’esame delle modifiche proposte da uno Stato
membro, dalla Commissione o dal Parlamento convoca una Convenzione (che riunisce
rappresentanti dei Governi, del Parlamento europeo, della Commissione, dei Parlamenti nazionali e
dei Paesi candidati all’adesione) che adotta una raccomandazione che sarà sottoposta alla CIG
secondo il metodo attuale. I limiti al potere di revisione riguardano le norme che compongono il
“nocciolo duro”dell’ordinamento, e cioè le norme sul: sistema giurisdizionale previsto dal
Trattato, la libertà di circolazione, la concorrenza e quelle che sono espressione di principi
generali del diritto comunitario.
Un altro modo per modificare i trattati è previsto dall’art. 49 del TUE che disciplina la procedura
di adesione all’Unione da parte di nuovi Stati; secondo questo articolo possono presentare domanda
di adesione ogni Stato europeo che rispetti i principi dell’art. 6 (libertà, democrazia, diritti
dell’uomo…). Anche questa procedura si articola in due fasi:
1. la domanda di adesione deve essere approvata all’unanimità del Consiglio, previa
consultazione della Commissione e su parere conforme del Parlamento;
2. gli Stati hanno il compito di stabilire le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti da
apportare ai Trattati (concludendo un trattato di adesione che deve essere ratificato da
tutti gli Stati contraenti e attraverso questa procedura possono essere apportati solo degli
adattamenti e non delle vere modifiche).
Questa procedura è stata modificata nella prassi con l’usanza di svolgere contemporaneamente le
due fasi sotto il controllo diretto del Consiglio europeo che ne determina i tempi e le modalità di
svolgimento; gli ultimi due allargamenti hanno visto l’affermarsi di una fase preliminare detta dei
negoziati di preadesione nel corso della quale lo Stato candidato deve dimostrare di rispondere ad
alcuni criteri.
La nuova procedura prevista dalla Costituzione rispecchia molto quella prevista dall’art. 49 ma
introduce la possibilità di recesso dall’Unione.
I principi generali del diritto
Tra le fonti intermedie si segnalano innanzitutto i principi generali del diritto comunitario che
includono i principi di:
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 non discriminazione;
 competenza di attribuzione;
 libera circolazione;
 di sussidiarietà;
 tutela giurisdizionale;
 di proporzionalità.
In secondo luogo troviamo i principi generali del diritto comuni agli Stati membri utilizzati
maggiormente per verificare la legittimità del comportamento delle istituzioni e degli Stati membri
in relazione alla posizione dei singoli. Tra questi si segnalano i principi:
 di legalità;
 del contraddittorio;
 della certezza del diritto;
 di proporzionalità.
Tra questi è compresa un’ulteriore tipologia di principi, cioè quelli attinenti alla protezione dei
diritti fondamentali dell’uomo. In origine questi non erano disciplinati dai trattati facendo correre
il rischio che, per effetto del trasferimento di determinati poteri dagli Stati membri alla Comunità, i
singoli subissero una diminuzione di tutela, non essendo applicabili alla Comunità le forme di
protezione dei diritti dell’uomo garantite dalle Costituzioni nazionali o dagli accordi internazionali
ai quali gli Stati membri aderivano. Una forte reazione a questa situazione si ebbe da parte delle
Corti costituzionali italiana e tedesca che partendo dal presupposto che le norme per l’adesione alla
Comunità europea non consentono di derogare le altre fonti riguardanti i diritti fondamentali della
persona umana, devono essere rispettate anche dagli atti adottati dalle istituzioni comunitarie. In
caso di contrasto le due Corti devono assicurare la prevalenza delle norme costituzionali impedendo
che l’atto comunitario trovi applicazione nell’ordinamento interno. Questa soluzione però comporta
un attentato al carattere unitario del diritto comunitario. La Comunità ha cercato rimedio a questa
lacuna da un lato adottando la Dichiarazione comune (Lussemburgo 1977) in cui Parlamento
europeo, Consiglio e Commissione manifestano la loro adesione ai principi fondamentali, ma si
tratta di un atto privo di valore giuridico, dall’altro la Corte di giustizia recupera in via
giurisprudenziale una forma comunitaria di tutela dei diritti fondamentali basata su due postulati:
● il rifiuto di ammettere che la validità di un atto di un’istituzione possa essere messa in discussione
alla luce di norme nazionali ● la riconduzione della tutela dei diritti fondamentali ai principi
generali del diritto che le istituzioni comunitarie devono rispettare e la cui osservanza è sottoposta
al giudizio della Corte. Quindi secondo l’impostazione della Corte i diritti fondamentali vanno
tutelati nell’ordinamento comunitario in quanto rientranti nei principi generali del diritto, e al fine
di definire il contenuto di questi diritti e la portata della tutela che deve essere accordata ad essi, la
Corte utilizza come fonti di ispirazione le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e i
trattati internazionali che riguardano la tutela dei diritti dell’uomo. Questo comporta che alla
Corte sia riservato il compito di individuare i diritti da considerare fondamentali alla luce delle
esperienze costituzionali degli Stati ma anche di determinare il contenuto e la portata dei suddetti
diritti. Ma la circostanza che la Corte non sia tenuta ad applicare un testo scritto attribuisce un
elevato grado di flessibilità ai suoi interventi in materia di diritti umani accrescendo
l’imprevedibilità dei risultati; per ovviare a questo problema il Consiglio europeo di Colonia del
1999 ha promosso l’elaborazione di una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che
sancisca l’importanza e la portata di detti principi. La Carta fu approvata nel Consiglio europeo
tenutosi a Biarritz nel 2000 e fu proclamata dai presidenti di Commissione, Parlamento europeo e
Consiglio nel Consiglio europeo di Nizza del 2000. Contrariamente agli auspici di alcuni stati, la
Carta è ancora priva di valore normativo autonomo, ma la solennità del processo di elaborazione
ne fanno comunque uno strumento interpretativo privilegiato per ricostruire la portata dei diritti
fondamentali protetti dall’ordinamento comunitario.
Le funzioni dei principi generali sono:
 criteri interpretativi;
 parametro di legittimità per gli atti delle istituzioni;
 parametro di legittimità per alcuni comportamenti degli stati membri (se esiste
collegamento tra il comportamento dello stato e il diritto comunitario [competenza]).
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Il diritto internazionale generale e gli accordi internazionali
La Comunità è un soggetto di diritto internazionale autonomo rispetto agli stati che la
compongono e per questo è tenuta a rispettare le norme di diritto internazionale che la vincolano
unicamente nei confronti degli stati terzi; gli stati membri non possono applicare tali principi tra
loro quando agiscono nel campo di competenza dell’Unione.
Gli accordi internazionali con stati terzi sono di 3 tipi:
a) accordi internazionali conclusi dagli Stati membri,che generalmente non fanno parte
dell’ordinamento comunitario, ma assumono rilevanza solo nella misura in cui possono
essere invocati dagli Stati membri contraenti come causa di giustificazione per il mancato
rispetto di obblighi comunitari. Nel caso di accordi stipulati prima della data in cui il
Trattato è entrato in vigore si applica un principio di diritto internazionale (recepito
dall’Unione nell’art. 307 [clausola di compatibilità]) secondo cui un trattato non può essere
modificato o abrogato da un trattato successivo; nel caso contrario è stata configurata un
sostituzione della Comunità negli accordi degli Stati membri contraenti;
b) accordi internazionali conclusi dalla Comunità con Stati terzi o altre organizzazioni
internazionali occupano un posto molto importante all’interno dell’ordinamento comunitario
anche se la competenza esterna della comunità ha portata limitata in quanto soggiace alla
competenza d’attribuzione;
c) accordi internazionali conclusi dalla Comunità e dagli Stati membri utilizzati di fronte a
ipotesi di accordi riguardanti materie che non rientravano affatto nella competenza
comunitaria o erano sottoposte alla competenza concorrente di Comunità e Stati membri.
Gli atti delle istituzioni
L’art. 249 TCE contiene l’elencazione degli atti tipici, ma non esaustivamente in quanto taluni
articoli del trattato prevedono l’emanazione di atti diversi o autorizzano le istituzioni ad adottare atti
rispondenti ad una delle denominazioni utilizzate nell’art. 249 ma con caratteristiche proprie, quindi
atti atipici. Accanto a questi ultimi la Commissione pubblica periodicamente delle comunicazioni
per rendere noto il modo in cui intende applicare le norme del trattato con riferimento a determinate
categorie di fattispecie.
Gli atti tipici sono 5:
 regolamenti;
atti normativi
 direttive;
atti VINCOLANTI
 decisioni;  atto amministrativo
 raccomandazioni;
 pareri.
atti NON VINCOLANTI
I regolamenti hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente
applicabili in ciascuno degli Stati membri. La caratteristica della portata generale indica la natura
normativa dell’atto in quanto pone delle regole di comportamento alla generalità dei soggetti che lo
devono rispettare in tutti i suoi elementi (obbligatorietà generale); inoltre la diretta applicabilità
in ciascuno degli Stati membri riguarda l’adattamento degli ordinamenti interni che avviene
automaticamente e direttamente (effetti diretti) e quindi i regolamenti sono atti ad attribuire ai
singoli dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare.
Le direttive, disciplinate dal terzo comma dell’art. 249, vincolano lo Stato membro a cui sono
rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi
nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La direttiva ha portata individuale, è obbligatoria in
tutti i suoi elementi e non gode della diretta applicabilità in quanto gli Stati membri sono tenuti a
modificare l’ordinamento interno per assicurare che il risultato voluto sia raggiunto. L’obbligo di
attuazione è assoluto per ciascun stato membro e va adempiuto entro il termine di attuazione
fissato dalla direttiva stessa; inoltre lo Stato membro non può adottare provvedimenti in contrasto
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con l’obiettivo della direttiva (obbligo di stand-still). Gli Stati membri sono competenti
unicamente per la scelta delle forme e dei mezzi di attuazione anche se non sono del tutto liberi in
quanto è necessario che gli strumenti scelti dal legislatore nazionale siano idonei a produrre le
modifiche richieste.
Le decisioni sono obbligatorie in tutti i suoi elementi per i destinatari da loro designati. Quindi
coniugano le caratteristiche dei due atti precedenti in quanto sono obbligatorie in tutti i loro
elementi e individuali in quanto si riferiscono solo ai destinatari da esse designati.
Gli atti del secondo e del terzo pilastro
Gli atti del III pilastro possono essere:
 le posizioni comuni che definiscono l’orientamento dell’unione in merito ad una questione
specifica;
 le decisioni quadro che vengono adottate per il riavvicinamento delle disposizioni
legislative e regolamentari degli Stati membri e sono vincolanti per gli Stati membri
quanto al risultato, salva restando la competenza delle autorità nazionali su forma e mezzi;
 le decisioni che sono vincolanti e non hanno efficacia diretta;
 le convenzioni.
Gli atti del II pilastro sono molto diversi dagli atti comunitari e sono:
 le strategie comuni che sono atti decisi dal Consiglio europeo su raccomandazione del
Consiglio che poi le attua. Sono atti di altissima politica che stabiliscono le linee guida su
cui l’Unione deve muoversi nel settore della politica estera quindi fissano i rispettivi
obiettivi, le durata e i mezzi che l’Unione e gli Stati membri devono mettere a disposizione;
 le azioni comuni disciplinate dall’art. 14 TUE affrontano specifiche tematiche in cui si
ritiene necessario un intervento operativo dell’Unione e definiscono obiettivi, portata e i
mezzi di cui l’Unione deve disporre, le condizioni di attuazione e la durata. Esse hanno
valore vincolante;
 le posizioni comuni non riguardano questioni operative ma si limitano a definire
l’approccio dell’Unione su una particolare questione geografica o tematica.
Gli atti delle istituzioni nella Costituzione
Il progetto di Costituzione introduce innovazioni per quanto riguarda la tipologia degli atti: infatti
distingue solo tra atti legislativi e atti di altra natura.
Gli atti legislativi possono essere:
 leggi europee con le caratteristiche degli attuali regolamenti e
 leggi quadro europee corrispondenti alle direttive.
Gli atti non legislativi possono essere:
 regolamenti europei che pur non avendo natura legislativa hanno portata generale e sono
rivolti a dare attuazione a specifiche disposizioni della Costituzione; possono essere
configurati sia come regolamenti per l’obbligatorietà, sia come direttive in quanto non
godono della diretta applicabilità. Si distinguono a loro volta:
o regolamenti europei delegati emanati dalla Commissione in forza di delega
contenuta in una legge europea che servono per completare o modificare determinati
elementi non essenziali della legge;
o regolamenti europei d’esecuzione contengono misure necessarie all’attuazione di
atti giuridicamente obbligatori quando richiedono condizioni uniformi di esecuzione;
 decisioni europee obbligatorie in tutti i loro elementi per gli stati destinatari.
L’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto comunitario
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I Trattati dell’Unione europea di presentano come trattati internazionali e non meraviglia che l’Italia
abbia dato loro esecuzione ricorrendo alla procedura standard, cioè l’ordine di esecuzione dato con
legge dal Parlamento al Capo dello Stato affinché ratifichi il Trattato.
Più difficile è risultato il compito di assicurare l’attuazione del diritto comunitario secondario per
l’attuazione del quale inizialmente si ricorreva ad una delega legislativa al Governo, finché non è
stato adottato un nuovo meccanismo di attuazione degli atti comunitari con la legge La Pergola che
introduce un meccanismo legislativo annuale: ogni anno il Parlamento approva una legge
comunitaria che contiene provvedimenti rivolti a rendere conforme l’ordinamento italiano a tutti
gli obblighi comunitari che vengono a maturazione entro l’anno di riferimento. Vengono previsti tre
metodi principali attraverso i quali la legge comunitaria opera per modificare l’ordinamento
interno:
a) l’attuazione diretta che prevede l’abrogazione o la modifica delle disposizioni statali
vigenti dalla stessa legge comunitaria e può essere seguita quando: 1 – le disposizioni statali
vigenti sono in contrasto con gli obblighi specificati; 2 – le disposizioni statali vigenti sono
oggetto di procedure di infrazione avviate dalla commissione delle Comunità europee nei
confronti della Repubblica italiana;
b) la delega legislativa al governo;
c) l’attuazione in via regolamentare e amministrativa che rappresenta l’elemento di
maggior rilievo introdotto dalla legge La Pergola in quanto il regolamento emanato in forza
di questa disposizione è in grado di modificare norme di legge preesistenti grazie
all’espressa autorizzazione del Parlamento; si opera pertanto la delegificazione delle materie
interessate.
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IV - FONTI COMUNITARIE E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI
Caratteristica propria dell’ordinamento comunitario consiste nel riconoscere come titolari di
soggettività giuridica non soltanto gli Stati membri, ma anche coloro ai quali tale soggettività
spetta nell’ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri, creando le due dimensioni delle
norme comunitarie: internazionale e interna.
Di tipo internazionalistico sono una serie di diritti e obblighi che la Comunità, attraverso le sue
istituzioni, o ogni Stato membro può far valere nei confronti di un altro Stato membro o di
un’istituzione.
Alla dimensione interna dell’ordinamento di ciascun Stato membro appartengono i rapporti
giuridici interessati dal diritto comunitario che coinvolgono soggetti di tali ordinamenti; possono
essere rapporti orizzontali quando contrappongono un soggetto privato ad un altro, o rapporti
verticali quando sorgono tra un soggetto privato e un soggetto pubblico. Il diritto comunitario può
intervenire in questi rapporti o con l’effetto sostituzione quando fornisce la disciplina di tali
rapporti con i regolamenti che sono direttamente applicabili e quindi costituiscono fonte normativa
all’interno degli ordinamenti nazionali, o con l’effetto di opposizione quando l’ordinamento detta
principi generali o regole particolari contrarie alle norme interne.
In questi casi la norma comunitaria produce effetti diretti (ha efficacia diretta) negli ordinamenti
interni, ciò implica il fatto che il soggetto nei cui confronti la norma produce effetti favorevoli può
pretenderne il rispetto (efficacia diretta in senso sostanziale) e in caso di mancato rispetto anche
l’invocabilità in giudizio. Le norme comunitarie possono assumere rilevanza normativa anche
attraverso due forme di efficacia indiretta : l’interpretazione conforme alla quale sono soggetti i
giudici nazionali e il risarcimento del danno proveniente dalla mancata attuazione di una norma
non direttamente applicabile.
I presupposti dell’efficacia diretta
L’efficacia diretta quindi non è una caratteristica di ogni norma comunitaria e l’onere di verificare
la presenza della caratteristiche sostanziali (sufficiente precisione e incondizionatezza) spetta al
giudice nazionale.
Il presupposto della sufficiente precisione riguarda la formulazione della norma e richiede la
specificazione di: a) titolare dell’obbligo; b) titolare del diritto; c) contenuto del diritto-obbligo
creato dalla norma stessa. L’incondizionatezza invece riguarda le clausole che subordinano
l’applicazione della norma ad ulteriori interventi normativi. Ai fini dell’efficacia diretta la
destinatarietà formale della norma non ha alcun rilievo.
In linea di massima i presupposti dell’efficacia diretta sono gli stessi qualunque sia il tipo di norma
comunitaria.
Per quanto riguarda le disposizioni del Trattato va rilevato che alcune di esse si riferiscono
espressamente ai singoli (norme in materia di concorrenza) quindi i Trattati producono effetti sia nei
rapporti orizzontali che in quelli verticali, quindi hanno efficacia diretta orizzontale e verticale.
Gli accordi internazionali conclusi dalla Comunità con Stati terzi hanno anche il problema
dell’efficacia diretta in quanto è possibile che soggetti privati siano interessati a far valere la
disciplina contenuta in tali accordi per contestare quella prevista dagli Stati membri o dalle
istituzioni. .Per ovviare a questo problema la Corte dedica particolare attenzione al contesto, la cui
analisi si svolge in due tempi: prima bisogna dimostrare che la natura e la struttura di un atto
internazionale permetta di riconoscere effetti diretti e successivamente è necessario provare che la
specifica disposizione presenti le caratteristiche della sufficiente precisione e della
incondizionatezza.
I regolamenti non hanno problemi del genere in quanto la caratteristica della diretta applicabilità
implica che le disposizioni dei regolamenti siano anche capaci di produrre effetti diretti.
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Il caso delle direttive e delle decisioni
Nell’ambito delle direttive l’efficacia interna risponde ai criteri di sufficiente precisione,
incondizionatezza e la portate temporale e soggettiva.
Siccome la disciplina dei rapporti giuridici interni rientranti nell’oggetto della direttiva non viene
imposta dalla direttiva stessa ma dalle norme di attuazione di ciascuno Stato, le direttive hanno
efficacia normativa interna indiretta o mediata; gli effetti diretti si creano dopo la scadenza del
termine di attuazione. Per quanto riguarda invece la portata soggettiva vediamo che le direttive
hanno solamente efficacia diretta verticale in quanto i privati non possono essere considerati
responsabili della mancata attuazione e anche perché il mero fatto che l’applicazione di una
direttiva inattuata comporti effetti sfavorevoli per i singoli non sempre porta a classificare le
fattispecie come ipotesi di efficacia diretta orizzontale (rapporti triangolari [un privato invoca
l’applicazione di una direttiva inattuata nei confronti di un organo pubblico sia a titolo principale
che per gli altri soggetti la cui posizione verrebbe compromessa dall’applicazione della direttiva];
direttive che prevedono procedure comunitarie di controllo [in quanto non sono dirette ad attribuire
ai singoli diritti o a definire la disciplina dei loro rapporti contrattuali, ma riguardano adempimenti
prescritti a carico dei soli Stati membri]; successione di norme interne [per i casi in cui la più
recente norma interna sia incompatibile con una direttiva rispetto alla precedente]).
Raramente la Corte si è pronunciata sull’efficacia diretta delle decisioni ma ha riconosciuto la
possibilità che le decisioni possano essere invocate sia dalle istituzioni che da qualsiasi soggetto
interessato al suo adempimento.
L’obbligo di interpretazione conforme
L’obbligo di interpretazione conforme è la prima forma di efficacia indiretta e consiste nell’obbligo
per gli operatori giuridici e i giudici di interpretare le norme in conformità con il diritto comunitario
anche se incontra alcuni limiti e cioè: l’esistenza di un margine di discrezionalità che consente
all’interprete di scegliere tra più interpretazioni possibili anche se questo obbligo non può servire da
fondamento ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale e il limite temporale che
impedisce all’obbligo di sorgere prima della scadenza del termine di attuazione.
Il risarcimento del danno
Un’altra forma di efficacia indiretta consiste nel riconoscere che la normativa comunitaria può
essere fonte di un diritto al risarcimento del danno, in quanto, qualora gli organi di uno degli Stati
membri ledano il diritto attribuito ad un singolo da una norma comunitaria direttamente efficace,
provocando un danno, questi organismi sono tenuti al risarcimento. Più problematica è l’ipotesi di
mancata attuazione di una direttiva priva di efficacia diretta, in questi casi, il comportamento
omissivo degli organi statali impedisce il sorgere del diritto che la direttiva intendeva garantire ai
singoli, per cui il pregiudizio non si rapporta alla lesione di un diritto già sorto, ma ne precede il
sorgere. In questi casi si può parlare di efficacia indiretta della direttiva posto che il diritto al
risarcimento è un diritto a sé stante e non un’integrazione o un’alternativa.
Le condizioni necessarie al sorgere del diritto al risarcimento sono:
1- la norma comunitaria violata deve essere diretta a garantire diritti ai singoli danneggiati, il
cui contenuto possa essere individuato in base alla norma stessa;
2- la violazione della norma deve essere sufficientemente grave e manifesta;
3- tra la violazione e il danno deve esistere un nesso di causalità diretto.
Le condizioni formali e sostanziali per l’esercizio del diritto al risarcimento dipendono dalle varie
legislazioni nazionali salvo il rispetto dei limiti di competenza.
La disciplina processuale della tutela dei diritti di origine comunitaria
Le norme comunitarie possono essere invocate davanti ai giudici degli Stati membri per ottenere la
tutela giurisdizionale delle posizioni create in loro favore da tali norme; in linea di massima la
definizione degli aspetti processuali (termini di prescrizione o decadenza, giudice competente,
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domande proponibili…) spetta all’ordinamento nazionale dello Stato membro nel cui ambito la
norma comunitaria è azionata (autonomia processuale degli Stati membri) anche se incontra
alcuni limiti:
- le modalità definite dal diritto nazionale per l’esercizio di posizioni di derivazione
comunitaria non possono essere meno favorevoli di quelle applicate per la protezione in via
giudiziaria di posizioni analoghe, di origine puramente interna (principio di equivalenza);
- le modalità non possono essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente
difficile l’esercizio dei diritti di derivazione comunitaria (principio di effettività).
Il primato del diritto comunitario
La capacità del diritto comunitario di produrre effetti diretti all’interno degli ordinamenti degli Stati
membri pone il problema dei conflitti che possono sorgere tra norme comunitarie e norme interne
incompatibili, problema risolto dal principio del primato del diritto comunitario secondo il quale
le norme nazionali non possono in alcuna maniera ostacolare l’applicazione del diritto comunitario
all’interno degli ordinamenti degli Stati membri.
Il principio del primato si salda con l’efficacia diretta altrimenti la norma comunitaria non potrebbe
creare dei diritti in capo ai soggetti di quegli ordinamenti degli Stati membri in cui fossero presenti
norme interne incompatibili e l’efficacia delle norma comunitaria varierebbe così da uno Stato
membro all’altro. Di fronte alle incertezze manifestate dalla giurisprudenza di alcuni giudici
nazionali la Corte di giustizia ha precisato che l’ordinamento comunitario non solo impone la
prevalenza della norma comunitaria sulla norma interna, ma determina anche le modalità attraverso
cui tale prevalenza deve trovare applicazione e in particolare l’organo competente a farlo valere;
l’incompatibilità di una norma interna non esime lo Stato membro interessato dall’abrogazione o
dalla modifica della norma.
La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana
La piena accettazione del principio del primato da parte della Corte costituzionale italiana è risultata
particolarmente difficoltosa; inizialmente partiva dall’assunto che, secondo l’ordinamento
costituzionale italiano,l’unico procedimento per rendere inapplicabile una legge in vigore è la
dichiarazione di incostituzionalità (134 Cost.) e quindi cercava di individuare un “aggancio” che le
consenta di riconoscere valenza costituzionale al diritto comunitario e comporti di conseguenza
l’incostituzionalità della norma di legge contraria.
Successivamente la Corte valorizzò l’art. 11 deducendone che sono possibili limitazioni di sovranità
con leggi ordinarie e in particolare che queste leggi non ostacolino, attraverso l’emanazione di leggi
successive, la diretta applicabilità dei regolamenti prescritta nell’art. 249 TCE, quindi il giudice
italiano può disapplicare una legge interna contraria al diritto comunitario qualora questa preceda
nel tempo la norma comunitaria, in caso contrario il giudice non potrà far altro che sollevare la
questione di legittimità costituzionale e attendere la decisione della Corte.
Dopo la sentenza Simmenthal (<<il giudice nazionale incaricato di applicare nell’ambito delle propria
competenza le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme,
disapplicando all’occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale,
anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro
procedimento costituzionale>>…) la Corte costituzionale modifica il proprio orientamento con la
sentenza Granital nella quale si rifiuta di assimilare le norme comunitarie a quelle nazionali
rendendo impossibile usare i metodi di risoluzione previsti tra norme nazionali e proponendo il
criterio della competenza, quindi bisognerà stabilire se la materia disciplinata rientra tra quelle che
l’Italia ha accettato, in conformità con l’art. 11, di limitare la propria sovranità in favore della
Comunità. Comunque la Corte costituzionale esclude in due ipotesi il potere del giudice di applicare
immediatamente la norma comunitaria:
1. norma comunitaria contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e ai
diritti dell’uomo;
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2. norme di legge dirette a impedire il rispetto dei principi fondamentali del Trattato.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione il principio del primato del diritto comunitario su
quello interno ha trovato un’esplicita consacrazione nel nuovo testo dell’art. 117 <<la potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto […]dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario>>.
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V – IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE
L’ordinamento comunitario comprende un sistema di tutela giurisdizionale che assicura la
protezione delle posizioni giuridiche nate per effetto del diritto comunitario; questo sistema è
ripartito tra giudice comunitario (Corte di giustizia, Tribunale di primo grado e Tribunale della
funzione pubblica) e giudici degli Stati membri. La competenza esclusiva del giudice comunitario è
determinata dal TCE e comprende le cosiddette competenze dirette e cioè:
 ricorsi per infrazione (proposti nei confronti di uno Stato membro accusato di aver
violato gli obblighi derivanti dal Trattato);
 ricorsi d’annullamento (con i quali viene contestata la legittimità degli atti delle
istituzioni);
 ricorsi in carenza (con i quali si vuole far constatare l’illegittimità delle omissioni
addebitabili alle istituzioni);
 ricorsi per risarcimento (che mettono in gioco la responsabilità extracontrattuale delle
istituzioni).
Al di fuori di tali azioni vige la competenza dei giudici nazionali.
Questi due livelli di tutela non operano in maniera distinta per evitare che nell’applicazione del
diritto comunitario i giudici nazionali possano pregiudicare l’uniformità delle disposizioni di tale
diritto; infatti il TCE nell’art. 234 prevede la procedura del rinvio pregiudiziale grazie alla quale il
giudice nazionale ha la facoltà o l’obbligo di deferire alla Corte di giustizia le questioni riguardanti
il diritto comunitario preservandone il carattere uniforme.
Il ricorso per infrazione (art. 226 e 227 TCE)
L’oggetto del ricorso è la violazione da parte di uno Stato membro di uno degli obblighi a lui
incombenti in virtù del presente Trattato e può riguardare la violazione di qualsiasi obbligo
derivante dal Trattato o degli atti adottati in base ad esso ed è presa in considerazione nel suo
obiettivo manifestarsi.
Il procedimento per proporre un ricorso per infrazione varia a seconda del soggetto che ne assume
l’iniziativa, di solito è la Commissione (art. 226) in quanto custode della legalità comunitaria, ma
anche uno Stato membro (art. 227) può farlo. In entrambi i casi sono previste due fasi:
- la fase precontenziosa che favorisce la composizione amichevole del conflitto ed è una
condizione di ricevibilità del ricorso alla Corte;
- la fase contenziosa che prevede il ricorso alla Corte di giustizia e l’emanazione di una
decisione giudiziaria.
L’art. 226 disciplina il caso in cui la scelta di dare avvio al procedimento e di portarlo a termine
spetta alla Commissione che gode di ampio potere discrezionale; in pratica la fase precontenziosa si
articola nei seguenti momenti:
a. invio allo stato membro di un atto non formale , la lettera di messa in mora, con cui la
Commissione, dopo aver contestato determinati comportamenti, fissa un termine entro il
quale presentare le proprie osservazioni;
b. presentazione delle osservazioni (in mancanza la Commissione può passare alla fase
successiva)
c. emissione di un parere motivato nel quale si espongono in via definitiva gli addebiti mossi
allo Stato e lo invita a conformarsi entro il termine fissato; atto non obbligatorio in quanto il
potere di constatare l’infrazione commessa da uno Stato membro non spetta alla
Commissione ma la Corte di giustizia.
Il passaggio alla fase contenziosa è possibile soltanto una volta che il termine fissato nel parere
motivato sia decorso invano. Una volta presentato il ricorso alla Corte di giustizia, l’eventuale
eliminazione da parte dello Stato membro della violazione contestata non comporta alcuna
conseguenza sull’esito del giudizio perché la situazione dell’infrazione si cristallizza al momento
della presentazione del ricorso. La fase contenziosa termina con una sentenza di mero
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accertamento (non di accertamento costitutivo né di condanna) che non contiene né gli
adempimenti né il termine entro il quale lo Stato dovrà provvedere.
La mancata o ritardata adozione dei provvedimenti necessari per uniformarsi alla sentenza può
indurre la Commissione ad avviare nei confronti di uno Stato membro un secondo procedimento
di infrazione per violazione dell’art. 228 che conduce ad una vera e propria sentenza di condanna
e al pagamento di una sanzione pecuniaria.
L’art. 227 invece disciplina il procedimento di infrazione avviato su iniziativa di uno Stato
membro secondo cui lo Stato deve rivolgersi alla Commissione chiedendole di agire nei confronti
dell’altro Stato membro. La Commissione deve porre gli stati interessati di presentare in
contraddittorio le loro osservazioni scritte e la Commissione emette un parere motivato; se non lo
fa entro tre mesi dalla domanda lo Stato può presentare ricorso direttamente alla Commissione.
Il ricorso di annullamento (art. 230 e ss.)
Il ricorso di annullamento è la forma principale di controllo giurisdizionale di legittimità per gli
atti delle istituzioni comunitarie. Gli atti impugnabili sono definiti facendo riferimento a tre criteri:
1- autore (gli atti : adottati congiuntamente da Parlamento e Consiglio secondo la procedura
di codecisione;  del Consiglio;  della Commissione;  della BCE;  del Parlamento);
2- tipo (l’art. 230 perla genericamente di atti quindi sono ritenuti impugnabili sia gli atti tipici
{regolamenti direttive e decisioni [art. 249]} che quelli atipici);
3- effetti (permette di limitare l’impugnazione ad atti suscettibili di creare effetti giuridici
obbligatori).
I soggetti legittimati a proporre il ricorso (legittimazione attiva) sono divisi in tre categorie:
1- ricorrenti privilegiati (Stati membri, Parlamento, Consiglio, Commissione) il cui diritto di
ricorso non è soggetto ad alcun limite;
2- ricorrenti intermedi (Corte dei conti, BCE) la cui legittimazione a ricorrere è
specificatamente finalizzata a salvaguardare le loro prerogative;
3- ricorrenti non privilegiati (persone fisiche e giuridiche) le cui condizioni per il ricorso
sono restrittive e delineano due ipotesi distinte:
 quando la persona fisica o giuridica impugna una decisione nei suoi confronti, cioè una
decisone di cui il ricorrente sia destinatario e occorre soltanto dimostrare di avere interesse a
ricorrere;
 quando una persona fisica o giuridica impugna un atto di cui formalmente non è il
destinatario, in quanto appare come un regolamento o una decisione rivolta ad altre
persone. Per ricorrere contro un atto del genere il ricorrente deve dimostrare che l’atto lo
riguarda direttamente e individualmente.
L’identificazione dei casi in cui tale doppio requisito (interesse diretto e individuale) sia
soddisfatto, genera un problema interpretativo che può essere superato distinguendo a
seconda che l’atto impugnato sia:
a) una decisione rivolta ad un’altra persona fisica o giuridica (che non sia uno Stato
membro), l’onere probatorio da superare non è eccessivo in quanto basta dimostrare che il
ricorrente è portatore di un interesse qualificato all’annullamento dell’atto;
b) un regolamento o una decisione rivolta a uno o più Stati membri le difficoltà non
sorgono nell’individuare l’interesse diretto ma l’interesse individuale in quanto la
giurisprudenza comunitaria applica una formula particolarmente rigorosa che determina
come aspetto rilevante non il fatto che l’atto impugnato colpisca il ricorrente ma a quale
titolo il ricorrente sia colpito, quindi se l’atto produce effetti giuridici soltanto sulla
posizione individuale o se produce effetti giuridici diversi rispetto a quelli che si verificano a
carico di tutti gli altri soggetti.
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I vizi di illegittimità che possono essere fatti valere nell’ambito di un ricorso d’annullamento sono:
- incompetenza che può essere interna, quando l’istituzione che ha emanato l’atto non ha il
potere di farlo, o esterna quando l’atto non rientra nella competenza comunitaria;
- violazione delle forme sostanziali che sussiste quando non sono rispettati dei requisiti
formali di tale importanza da influenzare il contenuto dell’atto come le procedure o la
violazione dell’obbligo di motivazione;
- violazione del Trattato e di qualsiasi regola del diritto relativa alla sua applicazione che
è il più invocato dal momento che ingloba anche i due precedenti vizi, ed è espressione del
principio della gerarchia delle fonti comunitarie;
- sviamento di potere che si verifica raramente e riguarda gli atti emanati da istituzioni che
ne hanno il potere ma perseguono scopi diversi da quelli per i quali il potere le è stato
attribuito.
Il termine di ricorso è di due mesi e decorre:
a. dalla pubblicazione sulla GUCE, se è stato pubblicato;
b. dalla notificazione, se è stato notificato;
c. in mancanza di pubblicazione o notifica, dal giorno in cui il ricorrente ha avuto conoscenza
dell’atto.
L’efficacia delle sentenze di annullamento, disciplinata dall’art. 231, prevede che la sentenza ha
portata generale e retroattiva, l’atto è nullo erga omnes, e la nullità retroagisce al momento in cui
l’atto è stato emanato, con l’eccezione dei Regolamenti per i quali la Corte di giustizia, ove lo reputi
necessario, precisa gli effetti del regolamento annullato che devono essere considerati come
definitivi.
Il ricorso in carenza (art. 232 TCE)
Il ricorso in carenza costituisce un’altra forma di controllo giurisdizionale della legittimità del
comportamento delle istituzioni, in particolare, degli eventuali comportamenti omissivi delle stesse.
I presupposti del ricorso quindi sono:
o l’esistenza di un obbligo di agire a carico dell’istituzione in causa (quindi non si può
ricorre contro l’omissioni di atti rimessi alla discrezionalità delle istituzioni);
o la violazione dell’obbligo stesso a condizione che :
 l’istituzione in causa sia stata previamente richiesta di agire;
 sia scaduto il termine di due mesi da tale richiesta senza che l’istituzione
abbia “preso posizione”. [fase precontenziosa]
La richiesta di agire (nota come messa in mora) deve essere formulata in maniera che l’istituzione
comprenda che in caso di inerzia rischia di subire la presentazione del ricorso e indicare con
precisione i provvedimenti che l’istituzione è richiesta di adottare.
Per interrompere la mora è sufficiente che l’istituzione prenda posizione adottando un atto anche
con contenuti non coincidenti con la richiesta. Se l’istituzione non prende posizione entro due mesi
dalla richiesta il soggetto che la ha presentata può presentare ricorso alla Corte di giustizia entro
ulteriori due mesi. [fase contenziosa]
I soggetti contro i quali può essere proposto un ricorso in carenza (legittimazione passiva) sono:
o Parlamento europeo;
o Consiglio;
o Commissione;
o BCE.
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I soggetti dotati di legittimazione attiva sono previsti dall’art. 230 e sono gli stessi che possono
adire il ricorso di annullamento. Se il ricorso viene accolto il giudice comunitario emana una
sentenza di accertamento che non colma la carenza o condanna l’istituzione responsabile
dell’omissione, ma fa sorgere a suo carico un obbligo di agire.
Il ricorso per risarcimento danni (art. 235)
La competenza del giudice comunitario è limitata alla responsabilità extracontrattuale, quindi il
ricorso per risarcimento si configura come un rimedio residuale rispetto alla tutela che possono
offrire i giudici nazionali.
I presupposti della responsabilità extracontrattuale vanno tratti dai principi generali comuni ai
diritti degli Stati membri e sono:
o danno effettivo;
o nesso causale tra danno e comportamento delle istituzioni;
o illegittimità di questo comportamento;
o ed altri principi se il comportamento delle istituzioni ha un ampio margine di discrezionalità
e, in particolare, nell’adozione di atti normativi (regolamenti) implicanti scelte di politica
economica in cui non basta dimostrare l’illegittimità del comportamento ma anche che:
 la norma sia destinata a conferire diritti ai singoli;
 si tratti di una violazione grave e manifesta.
Il termine di prescrizione è di cinque anni dal momento in cui avviene il fatto che dà loro origine.
La competenza pregiudiziale (art. 234)
La competenza pregiudiziale può o deve, secondo i casi, essere chiamata ad esprimersi in via
pregiudiziale sulle questioni riguardanti il diritto comunitario che si pongono nell’ambito di un
giudizio instaurato davanti ad una giurisdizione di uno degli Stati membri. Quindi la Corte ha
competenza indiretta perché le questioni non sono sollevate dalle parti interessate e limitata in
quanto esamina le questioni di diritto comunitario sollevate da un giudice nazionale.
Questo meccanismo, oltre ad essere in rimedio giurisdizionale effettivo, ha un duplice scopo in
quanto da un lato tende a evitare che ciascun giudice nazionale interpreti e applichi le norme
comunitarie come se si trattasse di norme nazionali col rischio di infrangere l’unitarietà del diritto
comunitario, e dall’altro offre ai giudici nazionali uno strumento di collaborazione per superare le
difficoltà interpretative che il diritto comunitario può sollevare.
Non si può dire che esista una gerarchia tra giudici nazionali Corte di giustizia anche perché
quest’ultima non esercita alcun tipo di controllo sulla competenza del giudice nazionale o sulla
regolarità del giudizio stesso, ma impone solo dei requisiti riguardanti il contenuto del
provvedimento di rinvio che consistono nella definizione dell’ambito di fatto e di diritto in cui si
inseriscono le questioni sollevate soprattutto se si riferiscono al settore della concorrenza con
situazioni di fatto e di diritto complesse. In mancanza di sufficienti informazioni al riguardo o di
sussistenza delle ipotesi patologiche (controversie fittizie, questioni manifestamente irrilevanti e
questioni puramente ipotetiche), la Corte non può giungere ad una interpretazione adatta al caso e si
può riservare la facoltà di non rispondere.
La competenza pregiudiziale può essere attivata soltanto da un organo che svolge una funzione
giurisdizionale o se risponde ad altri requisiti, cioè una serie di elementi quali:
 l’origine legale dell’organo;
 il suo carattere permanente;
 l’obbligatorietà della sua giurisdizione;
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


la natura contraddittoria del procedimento;
il fatto che l’organo applichi norme giuridiche;
sia indipendente.
Rispetto al rinvio pregiudiziale, la posizione dei giudici nazionali varia secondo che essi emettano
decisioni contro le quali sia possibile proporre un ricorso giurisdizionale interno o no, nel primo
caso il rinvio è oggetto di una semplice facoltà, nel secondo di un obbligo.
La facoltà di rinvio dei giudici non di ultima istanza implica che questi sono liberi di scegliere se
sollevare o meno le questioni di diritto comunitario, l’obbligo di rinvio invece a carico dei giudici
di ultima istanza prevede degli elementi di flessibilità quando:
- la questione sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga
fattispecie, che sia stata già decisa in via pregiudiziale;
- la risposta da dare alle questioni risulti da una giurisprudenza costante della Corte che,
indipendentemente dalla natura del procedimento in cui sia stata prodotta, risolva il punto
di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere;
- quando la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non
lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata
(atto chiaro); prima di concludere in questo senso il giudice deve:
o verificare che la stessa soluzione si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati
membri;
o raffrontare le diverse traduzioni linguistiche dell’atto;
o tenere conto della non necessaria coincidenza tra il significato di una medesima
norma in diritto comunitario e in diritto interno;
o ricollocare la norma comunitaria nel suo contesto e alla luce delle sue finalità.
Dall’ art. 234 risulta che la competenza pregiudiziale della Corte può riguardare questioni di
interpretazione e di validità. Le questioni pregiudiziali di interpretazione possono avere ad
oggetto il Trattato (TCE nella versione ratione temporis compresi i protocolli allegati) e gli atti
compiuti dalle istituzioni della Comunità e della BCE (atti previsti dall’art. 249,
raccomandazioni, pareri, atti atipici, accordi internazionali e atti privi di efficacia diretta) mentre le
questioni pregiudiziali di validità possono aver ad oggetto soltanto gli atti compiuti dalle istituzioni
della Comunità o della BCE.
Le sentenze della Corte hanno valore generale che travalica i confini del giudizio nel cui ambito le
questioni pregiudiziali sono state sollevate e retroattivo in quanto la sentenza chiarisce il
significato e la portata della norma quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata dal
momento delle sua entrata in vigore; inoltra la Corte si riserva il potere di limitare nel tempo la
portata delle proprie sentenze pregiudiziali per esigenza di certezza del diritto e di tutela
dell’affidamento.
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VI - LE COMPETENZE DELL’UNIONE EUROPEA
L’art. 5 sintetizza alcuni principi generali riguardanti al portata delle competenze comunitarie e le
condizioni per il loro esercizio.
Il primo comma delinea il principio di attribuzione secondo cui “la Comunità agisce nei limiti
delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente Trattato”,
anche se la portata di questo principio risulta meno rigida di quel che sembra in quanto la Corte di
giustizia ha ammesso che, pur in mancanza di esplicita attribuzione, la Comunità può essere
considerata competente quando l’esercizio di un potere risulti indispensabile per il raggiungimento
degli obiettivi dell’ente (teoria dei poteri impliciti) e il Trattato nell’art. 308 ha previsto una
parziale deroga al principio prevedendo che, anche quando la Comunità non abbia i poteri previsti,
il Consiglio può deliberare all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il
Parlamento sul funzionamento del mercato comune prendendo le disposizioni del caso. La norma in
esame consente nuove azioni, ma non deviazioni o deroghe rispetto alla disciplina materiale fissata
nello stesso Trattato.
Bisogna ora distinguere tra competenze esclusive e concorrenti; nei settori di competenza
esclusiva la competenza degli Stati membri è preclusa anche quando quella della Comunità non è
completa; nei settori a competenza concorrente invece, Comunità e Stati membri esercitano i loro
poteri senza che questi ultimi adottino misure che rischino di compromettere la realizzazione degli
scopi del Trattato e quindi la sopravvivenza dalla competenza degli Stati è legata ai tempi e ai modi
con cui è esercitata la competenza comunitaria. Accanto a questi tipi di competenze, ne esiste un
terzo tipo, in alcuni settori infatti la competenza comunitaria va esercitata in parallelo attraverso
azioni destinate a sostenere, coordinare e integrare quelle degli Stati membri.
Il principio di sussidiarietà è previsto dall’art. 5 e prevede che nei settori in cui la Comunità non
ha piena competenza, la Comunità stessa può intervenire se a motivo delle dimensioni e degli effetti
dell’azione, gli obiettivi possano essere realizzati meglio a livello comunitario. Inoltre questo
principio costituisce una garanzia per gli Stati membri che le loro competenze in materie
concorrenti non vengano limitate o cancellate quando non si giustifichi in relazione alla maggiore
efficienza dell’azione comunitaria rispetto a quella degli Stati membri.
Il principio di proporzionalità invece prevede che l’azione della Comunità non vada al di là di
quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del trattato e comporta delle restrizioni
riguardo:
a) il tipo di atto da adottare (a parità di condizioni, le direttive dovrebbero essere preferite ai
regolamenti e le direttive quadro a misure dettagliate);
b) il contenuto dell’atto (che dovrebbe lasciare il maggior spazio possibile alle decisioni
nazionali, purché sia garantito lo scopo della misura e siano soddisfatte le prescrizioni del
Trattato).
I casi in cui la Comunità ha competenza esterna (a concludere accordi internazionali) sono due:
1. competenza esterna normativamente prevista quando il Trattato dispone espressamente che la
Comunità può concludere accordi internazionali;
2. competenza esterna parallela: la Corte di giustizia ha stabilito che la comunità può concludere
accordi internazionali in tutte le altre materie per le quali disponga del potere di adottare atti sul
piano interno (principio del parallelismo).
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