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Religioni del mondo classico

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RELIGIONI DEL MONDO CLASSICO
12/02/2018
Lo studio delle religioni del mondo classico ha una sensibilità, una duttilità metodologica. Studiare
le religioni politeiste non è semplicemente studiare un mito, perché la religione è qualcosa di
pandemico. Bisogna ragionare sul politeismo non come su un ennesimo oggetto di studio lontano nel
tempo, ma come un buon modo per pensare anche a categorie che non necessariamente sono legate
all’antichità. Due ragioni:
1. Disposizione critica: ragionamento sui fenomeni. Nella prima parte impareremo a leggere i
fenomeni. Il culto di Afrodite è uno dei campi di battaglia della storia degli studi sulle religioni
antiche ancora aperto.
2. Riflessioni sul politeismo in generale. Analisi dei tre grandi blocchi delle religioni classiche.
Bisogna partire dalla religione minoico-micenea. Degli Etruschi e della loro religiosità
sappiamo pochissimo. Non abbiamo un asset così coerente.
I punti di riferimento sono punti che parzialmente si possono assegnare alla mitologia e
all’antropologia. Afrodite gode di una stagione di grande fortuna nella storia degli studi. Alcune
studiose che lavorano in Belgio e a Parigi si occupano proprio di Afrodite.
IL CULTO DI AFRODITE BISESSUALE
Ciò che interessa non è solo lavorare sui culti di Afrodite fra maschio e femmina, ma anche lavorare
sulla zona di confine che il culto di Afrodite delimita: una zona in cui sembrano essere compresenti
in Afrodite sia il genere maschile sia il genere femminile.
Luigi Palma di Cesnola: figura molto importante, uno dei pochi italiani nella guerra di secessione
americana. È diventato il primo direttore del Metropolitan di New York fino al 1904, anno della sua
morte. Era un archeologo e in particolare studiava Cipro, la terra di Afrodite, studiava il suo contesto
archeologico ed era molto famoso per essere un mercante di antichità. Era interessato ai grandi musei
del mondo, a quelli americani e londinesi. Nella vignetta satirica è presente la contaminazione tra
Afrodite uomo e Afrodite donna.
FILONE DI ALESSANDRIA (I secolo d.C.)
Politeismo: indica la devianza dalla norma. Per gli antichi greci e romani, non è consapevole, non c’è
(salvo per l’Egitto) un tentativo di creare un solo dio. È una condizione naturale e non esiste la
possibilità del monoteismo. Non ci si pone il problema dell’alternativa. Come nasce la necessità
dell’unicità? Jane Assman ha ragionato moltissimo sulla creazione dei monoteismi: Assman è un
filosofo contemporaneo, uno studioso di religiosità egizia molto oggetto di critiche. Le sue sono teorie
che individuano dei temi fondamentali. Egli parte spesso nei suoi libri dalla citazione di un passo
dell’Esodo (Io sono il signore Dio tuo…, non avrai altro dio all’infuori dei me). La caratteristica
dell’individuarsi del monoteismo ebraico e cristiano: il monoteismo ebraico si fonda sulla reazione
ad un politeismo; gli ebrei sono monoteisti per contrasto. Il monoteismo è, secondo Assman, una
reazione al politeismo nella religiosità egizia. Assman, per il momento in cui il monoteismo nasce,
ha utilizzato due definizioni diverse: monoteismo immaturo (che non ha ancora una sua identità forte:
monoteismo è ciò che non è politeismo) e monoteismo geloso (la divinità monoteista non sopporta di
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essere messa sullo stesso piato della bilancia rispetto ad altre divinità). Ciò consente ad Assman di
articolare una serie di ipotesi interpretative.
Il politeismo è definitivamente sconfitto nella civiltà occidentale? No. Hegel dice: dobbiamo avere
una nuova mitologia, ma questa mitologia deve essere al servizio delle idee. “Monoteismo della
ragione e del cuore, politeismo dell’arte”. Il dio come voce, come volto dell’emozione, la pluralità
divina come medium dell’arte e dell’immaginazione.
La presenza degli antichi miti nella psiche; Jung dice che noi non conviviamo più con i fantasmi di
Venere, di Giove, ma non ci siamo liberati dei fatti psichici che furono responsabili della nascita delle
divinità. Freud parlava di archeologia della mente: “Riporto in vita gli antichi dei”. Per Freud il
linguaggio mitico è la declinazione corale e universale del linguaggio dell’inconscio. Gli antichi miti
abitano in ciascuno di noi, sono nella nostra testa. Sulla scorta di Jung, Hillman ha ragionato su questi
testi: parla di Pan, Ermes, Orfeo per spiegare qualcosa che è legata alla nostra psiche. Nella latinità
un autore che si pone su questa scia è sicuramente Lucrezio. Nel De Rerum Natura (terzo libro)
Lucrezio dice “non esiste Tantalo, non esiste Dite, sono tutti già nella nostra testa”. I mostri
dell’antichità non sono mai usciti dalla nostra esperienza della vita psichica. Visto in quest’ottica il
politeismo sembra essere una condizione dell’anima, più che una vera e propria fede.
Politeismo e monoteismo sono aspetti di un modo di concepire la religiosità.
Uno dei temi cardini della religiosità antica è il rapporto fra verità e menzogna: la religione monoteista
così come ammette un solo dio, un solo modo di adorare la divinità, allo stesso modo non ammette
che una verità. Si articola in termini dicotomici: verità e menzogna, più di una verità non esiste. Ciò
lo dice Antonio Tabucchi in uno dei suoi scritti “Il dubbio è politeista”. Il politeismo infatti non
conosce l’esistenza della verità unica. Ciò che non è mai accaduto in Grecia e a Roma sono le guerre
di religione, non esiste il problema della distinzione. I Romani infatti si sono messi in una posizione
di estrema apertura (tessitura profonda della loro religiosità). I Greci e i Romani non sono tolleranti,
almeno nella misura in cui non sanno di doverlo essere. Il concetto di tolleranza infatti nasce con
Sant’Agostino (→ si devono tollerare i giudei).
Tema della verità: il monoteismo ha la verità unica, il politeismo invece no. i greci pensavano che
l’unico contenuto veridico fosse ciò che derivava direttamente dagli dei. Nell’episodio in cui i
compagni di Odisseo stoltamente sacrificano e mangiano le vacche del Sole che non potevano
assolutamente essere toccate, come si può capire che questa cosa è assolutamente vera dal punto di
vista religioso? Lo sappiamo perché le muse sono i testimoni autoptici. Questo divieto religioso è tale
perché le muse erano presenti quando questo divieto è stato stabilito. Nella Teogonia di Esiodo, egli
dice di aver incontrato le muse le quali sanno cantare bene cose che sono identiche al vero, ma che
non è detto che siano vere (eu katakosmon aeidein: cantare bene per ordine, citazione omerica)
INTERPRETATIO DIVINA: tema tipicamente romano
Cosa significa interpretatio?
•
Tradurre gli dei: Tacito dice che in un certo contesto straniante rispetto al territorio romano,
ci sono divinità che sono interpretate come Castore e Polluce, in quanto fratelli e giovani. Non
c’è alcuna soluzione di continuità tra le divinità romane e quelle dei Naharvali, ma è
automatico, nell’interpretatio romana, riconoscere in due divinità ignote due divinità note. Ci
sono dei casi, come quelli del dio Bertunno, che viene venerato anche con un altro nome senza
che ciò costituisca un problema.
2
•
•
Assimilazione: decisamente peculiare della cultura romana. È il passo successivo
all’interpretatio.
Integrazione: i Castore e Polluce di cui parla Tacito sono perfettamente inseriti nel pantheon
romano.
Bettini: Teoria dei Frattali (paragonabile al cavolfiore e all’onda di Hokusai). La forma grande è un
insieme delle sue parti piccole: la parte piccola è identica alla grande. È una teoria che Bettini utilizza
in modo molto provocatorio, ma è molto utile perché cerca di spiegare qualcosa che altrimenti sarebbe
complessa da spiegare: il problema dell’unicità e contemporaneamente della polimorfia della
divinità greca e romana. La divinità è essa stessa una e molteplice. Afrodite è l’esempio classico di
quanto questa consapevolezza non sia mai abbastanza matura. Afrodite non è una, non sono da
ricercare le sue origini, perché nell’origine c’è questa petizione all’unicità. Rinunciare a questo
richiamo vuol dire rinunciare a pensare in un modo in cui siamo abituati a pensare. Esempio: Dioniso:
è uno degli dei più studiati di tutta la religiosità greca. Per molto tempo c’è stato un dibattito
sull’origine di Dioniso, da dove viene? È un dio orientale, perché alcuni aspetti del suo culto (follia,
trans, irrazionalità) ne fanno qualcosa di non ben catalogabile. Di questo aspetto di Dioniso si sono
occupati gli studiosi più importanti fino al 1953 quando la decifrazione della lineare B ci ha permesso
di leggere il nome del dio su una tavoletta. Dioniso dunque non arriva dalla Tracia o dall’India,
Dioniso è greco, perché la lineare B è greco.
Il molteplice è racchiuso nella stessa idea del divino. Ce lo racconta il viaggiatore Pausania: egli parla
di uno Zeus Labrandeo (raffigurato con le mammelle): egli si pone non in una situazione di
discontinuità rispetto a Zeus Olimpico, bensì è lo stesso.
RUTH BENEDICT: modello che oppone la cultura della vergogna alla cultura della colpa. Essa è
stata spedita in Giappone nel corso della seconda guerra mondiale per studiare gli usi e i costumi dei
Giapponesi. Il Giappone è l’unica cultura contemporanea che si pone in continuità con la religiosità
greca e romana. Nel “Crisantemo e la Spada” dice che nella cultura giapponese c’è una tensione
dicotomica tra una cultura di colpa e una cultura di vergogna. Il tema della vergogna e della colpa è
anche un tema che potremmo bilanciare tra i due poli opposti di monoteismo e politeismo: la cifra
caratteristica del politeismo è la società di vergogna. La società di vergogna incanala anche il modo
in cui viene adorata la divinità, nel senso che se siamo immersi in una società di vergogna, ciò
significa che ciò che ci spinge ad agire non è un’intima consapevolezza di azione individuale, ma
siamo spinti da una condizione di vergogna nel fare un gesto che la comunità non approverebbe. La
preghiera individuale, l’intimo rapporto con la divinità, non ha un ruolo fondamentale, ha un ruolo
fondamentale ciò che accade alla luce del sole. Aiace si suicida per la vergogna. Il tema degli altri
che ti vedono, è un tema fortissimo. La cultura della vergogna è la cultura che permea questa nozione
di religiosità che è greca e latina.
Civiltà minoico-micenea
Questa civiltà ci lascia numerosi reperti. Prima del 1900 della civiltà minoico-micenea si sapeva poco
o nulla. Omero cita Minosse, Platone ci dice che era un grande legislatore e Tucidide nell’Archeologia
fa riferimento alla sua talassocrazia. Nel marzo del 1900 il direttore del museo archeologico di Oxford
Arthur Evans, scopre la civiltà minoica.
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13/02/2018
Lezione 2
Religiosità minoica: precede la civiltà greca e romana.
Malattia delle origini: cercare l’origine della divinità. Alla base c’è una teoria celebre che è quella
che tutte le divinità femminili del pantheon greco, romano, miceneo, e minoico, derivino da un
calderone generale che possiamo inquadrare sotto il cappello della grande dea madre.
Steatopigia
Quel che è stato detto è che tutto ciò che noi possiamo immaginare in connessione al culto delle dee
femminili deriverebbe dalla dea madre, le cui fattezze morbide (steatopigia ritrovata in Turchia)
richiamano il tema della fertilità. Ciò che sappiamo per certo è che questa dea madre è una dea che
presiede in generale alla fertilità. Luca Bombardieri studia approfonditamente questa divinità.
La potenzialità è sicuramente quella
immaginifica: creare una relazione tra
momenti del divino che sono molto diversi
gli uni dagli altri in modo tale da metterli in
una condizione armonica e coerente.
Anche la civiltà minoica ha la sua
POTHNIA che genericamente presiede alla
vita, così potente da ricevere le stesse
offerte di tutte le altre divinità messe
insieme. Altro dettaglio importantissimo di
questa iconografia: sui braccioli del trono
sono rappresentati dei leoni: la dea infatti è
anche una signora delle fiere. Non è
semplicemente una divinità che presiede al
mondo animale, ma che si lega agli
animali. Questa dea è stata paragonata ad
Artemide, ed è stata messa in connessione
diretta con la civiltà minoica.
Per Evans e Sir James Fraser la regola è
questa: tutte le divinità sono divinità
vegetali, sono legate alla natura.
Figura 1 steatopigia ritrovata in Turchia
Il mondo minoico lo collochiamo prima della Greca e di Roma. La civiltà minoico-micenea è come
se fosse stata scoperta in 3 modi diversi:
-
la scoperta di Micene ad opera di Schliman (1871)
scoperta della civiltà minoica ad opera di Evans (1900)
la civiltà minoico micenea è riscoperta da capo ad opera di Michael Ventris nel 1953. Una
scoperta rivoluzionaria. Evans era convintissimo che persino i poemi omerici fossero stati scritti
in una lingua minoica e poi tradotti in greco dai micenei.
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Questi tre step ci costringono ad una riflessione molto complicata, per 2 ragioni:
-
per il modo in cui i minoici e i micenei ci parlano, per la lingua in cui ci comunicano. In che modo
i minoico-micenei adoravano la divinità? Abbiamo due possibilità:
• una legata alla documentazione scritta. Ma abbiamo un problema. La civiltà minoico
micenea ha avuto tre scritture: una scrittura gereoglifica che è completamente indecifrata,
una lineare A, e poi una lineare B più tarda che però gli studiosi credono che si possa in
qualche modo sovrapporre alla lineare A (2000 a.C.). La lineare B avrebbe accompagnato
i minoico-micenei fino alla distruzione della civiltà minoica e poi si sarebbe estesa nella
Greca continentale, in particolare a Pilo. Di queste l’unica decifrata è la B poiché utilizza
una successione di lettere ignote ma chiaramente in lingua greca. La lineare A è la lingua
dei minoici, la lineare B è la lingua dei Micenei. “I Minoici sono un dipinto senza
didascalie”. Una civiltà in grado di rappresentarsi visivamente in maniera così potente ma
che non ha una letteratura alle spalle. Attualmente infatti ciò che noi abbiamo è un elenco
di divinità e di offerte.
• I nomi delle divinità talvolta sono già presenti nelle tavolette della lineare B: Zeus,
Artemide, Dioniso, Atena, Era. Ma noi della divinità abbiamo solamente i nomi. Non
abbiamo niente che ci autorizzi a pensare che non ci sia soluzione di continuità tra un
mondo e l’altro.
Adorazione degli dei e luoghi di adorazione:
1. La religiosità minoica era una religiosità delle altezze, dei picchi, delle montagne. Molti santuari
dedicati alle divinità a Creta sono in cima alle montagne. L’immagine più plastica è questa: si può
vedere rappresentata la dea, avente in mano uno scettro, in cima ad una montagna
2. Altro luogo sono le caverne. Noi sappiamo che ad Amniso in una grotta c’era un culto
importantissimo non solo per i Cretesi, ma anche per i Greci. Il culto della divinità Ilizia. Ilizia
appare anche nel pantheon greco; è la divinità delle nascite, che presiede ai parti. Compare nel
mito della nascita di Eracle, ma appare in maniera sporadica, è quasi una divinità tangenziale,
secondaria. Ma per i minoico-micenei Ilizia era una divinità fondamentale.
3. Altro luogo sono le case: è stato provato che una parte non secondaria del palazzo di Cnosso era
dedicata al culto della divinità. Anche la stanza che appartiene al quartiere nord-orientale (stanza
del quartiere dalle doppie corna): è stata ritrovata una divinità femminile con le braccia alzate; è
chiaramente un contesto sacrificale di devozione per la divinità. Proprio questo ha fatto
propendere per l’idea che il primo labirinto fosse il palazzo di Cnosso (teoria accantonata).
4. Altro luogo sono le tombe: di recente è stato scoperto che attorno alle famose tombe di Micene
c’erano delle aree sacre dedicate al culto della divinità. Come avveniva il culto intorno a queste
tombe? Omero dice che la danza rappresentata sullo scudo di Achille è quella che Dedalo ha
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inventato per Arianna. Questo dettaglio costruito da Omero ci aiuta a illuminare un dettaglio del
modo in cui i minoici adoravano la divinità: letteralmente a passo di danza. La danza è uno degli
elementi fondamentali che definisce la civiltà minoica. Peter Warren ha chiarito che la civiltà
minoica ha un modo molto particolare di adorare la divinità che è fatto eminentemente di
performance, di gestualità. Una civiltà così come è mai possibile che non abbia una storia, un
epos, una letteratura? È possibile dal momento che il loro modo di adorare la divinità era diverso,
era il gesto, la danza, la coreografia. È una religiosità che non ha parole, non ha riti; ha un tesoro
molto importante di visi, di gesti, di divinità ritratte. La civiltà minoica adora la divinità con il
gesto (danza, gesto coreografico, processione).
Festività celebrate nel mondo antico:
11-14 febbraio
Festa che è stata rimpiazzata dal carnevale: è una festa greca: le Antesterie. Insieme alle Panatenee
è la più celebre. Durava dall’11 al 14 febbraio. L’altra invece è la festa dei Lupercali e siamo in
ambito latino (messa in relazione alla festa di San Valentino).
ANTESTERIE: festa che si sviluppa in tre giorni (ogni giorno dal tramonto al tramonto):
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Primo giorno: giorno dei PYTHOI = brocche in cui tradizionalmente si racchiudeva il vino
nuovo. Le brocche venivano aperte e ci si avviava festanti e lieti al tempio di Dioniso, il Dioniso
Lymnaios (delle Paludi). Ad Atene questo Dioniso aveva un tempio che veniva aperto solo una
volta all’anno e proprio durante il secondo giorno. È un Dioniso che si mette direttamente in
connessione con le anime dei morti.
Secondo giorno: giorno dei KOES (dei boccali): le anime del trapassato (CHERE) si aggiravano
nella città. La morte entra in contatto con il mondo dei vivi. Ci si maschera e le case venivano
chiuse con la pece perché i morti non potessero entrare. Era una giornata in cui si beveva, in cui
anche i bambini bevevano (per i bambini era una sorta di rito di iniziazione), anche agli schiavi
era consentito bere assieme ai loro padroni. Ciascuno aveva il proprio boccale che era
esclusivamente suo e che non poteva condividere con nessuno. Inoltre ognuno portava un pezzo
di pane che non si poteva condividere con nessuno. Ciò è legato al mito di Oreste: dopo aver
ucciso la madre Clitennestra, Oreste è inseguito dalle Erinni (demoni che presiedono ai delitti di
sangue). Viene istituito il processo nell’Areopago di Atene. Quando Oreste arriva ad Atene per
essere giudicato è in una condizione particolare: è un contaminato, poiché si è macchiato di un
atroce delitto. Il fatto di aver ucciso la madre lo rende un intoccabile. Gli ateniesi perciò gli
consentono di prender posto alla tavola solo se porterà il suo boccale che non potrà condividere
con nessuno.
Terzo giorno: giorno delle PIGNATTE (pentole): giorno in cui si cucinava. In particolare si
cucinava una specie di pastone, una sorta di focaccia imbevuta di miele con tutti i cereali, il
cosiddetto Pan Spermia. Venivano allestiti 14 altari nella città tanti quanti erano stati i pezzi di
Dioniso che era stato fatto a pezzi dai Titani. Il corpo del dio era sostituito dunque da un’offerta
della natura che in qualche modo lo rappresenta (come l’ostia cristiana che sta per il corpo di
Cristo). In questa terza giornata veniva venerato anche Ermes Psicompompo, che portava le anime
dei morti nell’Ade. La sua funzione era quella di riportare le anime dei morti, che avevano invaso
la città, nell’oltretomba (volo delle anime guidate da Ermes).
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LUPERCALI (13-15 febbraio): a Roma. È una festa antichissima che originariamente rappresentava
una festa che aveva la funzione di proteggere le greggi dai lupi. La genesi etimologica a proposito del
nome è quella che vuole originato il termina da lupo e arceo (tengo lontano il lupo). In verità a Roma
c’era un sodalizio, un clan diviso in due che accoglieva due distinti gruppi di lupercali. Lo scopo era
quello di adorare il dio Luperco che potrebbe essere associato al dio Fauno. Avveniva sotto la quercia
in cui si credeva che il pastore avesse trovato Romolo e Remo. La festa era articolata in tre momenti
diversi:
-
prima fase: due ragazzi giovani venivano tratti fuori dal gruppo, si sacrificavano delle capre e un
cane. Il sacrificio simboleggia il passaggio alla vita adulta.
Seconda fase: Dopo il sacrificio la loro fronte veniva spalmata con il sangue delle vittime
sacrificali, che poi veniva deterso con della lana imbevuta di latte.
Terza fase: Successivamente i giovani venivano chiamati ad una corsa intorno al colle palatino,
correvano nudi e con delle fruste fatte con le pelli degli animali prima sacrificati. Quando
incontravano una donna in età fertile, quest’ultima non si scostava e riceveva un colpo di frusta,
come segno di buon auspicio.
È stato detto che questo fosse un rito di purificazione: il latte è legato infatti alla purezza. Ma le offerte
di latte e miele erano anche tipiche delle divinità degli inferi. Il secondo momento è un momento
molto interessante: il tema della corsa intorno a un perimetro. È un tema che si trova anche altrove: è
il tema delle danze sacre e magiche per proteggere ciò che era dentro al perimetro. I luperci infatti
stanno sicuramente proteggendo il Palatino. L’ultima parte è un rito della fertilità.
Questo tipo di festa, molto lontana dai canoni di una possibile festa cristiana, viene accantonata. C’è
un tentativo di riesumarla intorno al ‘400. Ma il papa Gelasio I sostituisce i Lupercali con la festa del
martire Valentino, uomo convertito al cristianesimo e diventato vescovo a soli 21 anni. Egli viene
arrestato e decapitato (proprio il 14 febbraio) per aver celebrato il matrimonio tra la cristiana Serapia
e il romano Sabino (per questo è ricordato come il patrono degli innamorati).
19/02/2018
Lezione 3
Le parole per dirlo: l’interazione con il divino
Il problema di identificare la natura fondamentale della divinità non è indifferente, è un po' il fulcro
di questi studi. Come studiare la religiosità? Ci viene richiesto un’elasticità di prospettiva. La divinità
greca e quella latina è una e molteplice (la teoria dei frattali proprio questo dice: la capacità del dio
di essere unico e molteplice). Fra tutti gli esempi di divinità uno degli esempi più plastici è proprio
quello del culto di Afrodite, una divinità di cui conosciamo moltissime possibili origini (molti inizi
possibili) e contemporaneamente Afrodite è una delle divinità più contraddittorie del pantheon greco
a partire dal modo in cui veniva rappresentata: una dea dell’amore, ma anche della morte, una dea
invincibile ma anche molto fragile (ferita da Diomede), una dea che tiene in mano lo specchio ma che
ha anche la barba, una dea che è il distillato della femminilità ma che è anche una divinità guerriera.
Il dio è vis e numen contemporaneamente: la sua natura è composta contemporaneamente di forza
esteriore e di potenza divina. Forza e potenza sono un tutt’uno che danno la natura della divinità. il
dio è fatto delle sue innumerevoli interazioni, le modalità attraverso cui la divinità entra in relazioni
con il mortale che la venera. È un’identità che non è catalogabili nel tempo e nello spazio. La divinità
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dei greci e dei romani è una divinità antropomorfa, ma in verità non necessariamente la
rappresentazione della divinità è stata antropomorfa, specie per i romani, per i quali si parla di
rappresentazione aniconica. Ma tendenzialmente la divinità ha una forma antropomorfa: anche il
nome è un nome umano, che gli umani riescono a comprendere e ad addomesticare. L’altro elemento
fondamentale che appartiene alla religione greca è l’epiteto: proprio nell’interazione tra nome ed
epiteto si gioca l’interazione tra l’uno e il molteplice (Apollo può essere Apollo medico, Apollo il
vate). Tutti questi elementi sono stabiliti attraverso l’epiteto. La fusione fra la personalità della
divinità, la sua biografia, la fusione tra Afrodite nata dai genitali del padre e il culto di Afrodite è per
l’esattezza l’istante in cui viene enucleato il rito (interazione tra l’elemento narrativo e il culto). La
terza modalità di interazione è l’immagine (nome, epiteto, immagine). La quarta modalità è il
racconto mitico. Dal racconto mitico in aggiunta si passa alla vera manifestazione della divinità che
è composta da visibilità, sonorità, manifestazioni olfattive ed emotive.
La divinità può presentarsi in vari modi, ma tendenzialmente la manifestazione della divinità circonda
gli uomini e di volta in volta diventa accessibile attraverso canali diversi. Caso di Aiace e invisibilità
del dio: questo caso è molto utile nel modo in cui è stato rappresentato da Sofocle. Egli mette in scena
una tragedia molto complessa in cui riflette anche sul modo in cui la divinità diventa accessibile
all’essere umano. La tragedia si apre con una divinità già presenta: la divinità è Atena e il personaggio
è Odisseo. Atena è la divinità tutelare di Odisseo, il quale ha un momento di tentennamento. Odisseo
dialoga con Atena, egli sente la divinità ma non la vede. In questo caso la divinità è invisibile ma
presente attraverso la manifestazione sonora. Ma gli spettatori vedono la divinità sulla scena: si crea
quella complicità tra autore e pubblico che mette il pubblico in una condizione privilegiata rispetto al
protagonista. Il pubblico infatti vede e sente la divinità: il ventaglio dell’interazione è più ampio. La
situazione si complica ancor di più quando diventa perno del dramma il protagonista Aiace.
Quest’ultimo, reso folle da Atena, fa mattanza di una mandria di buoi credendoli i suoi compagni.
Atena agisce depauperando Aiace di un suo strumento percettivo: non la vista fisica ma la vista
razionale. Aiace è folle perché è cieco (velo di tenebra che rende temporaneamente ciechi gli umani).
La follia non è vista come una patologia della psiche, ma viene dal di fuori. Aiace non vede, ma vede
Atena. La sua modalità percettiva del divino è attivata su un altro livello (indovini spesso ciechi, ma
gli unici in grado di vedere realmente la divinità). Sofocle ragiona sugli interessi della divinità.
Quando tutti i linguaggi convergono viene attivata la dimensione della religiosità. “il divino è giorno
notte, guerra pace, sazietà fame, è tutto e contemporaneamente uno” (Eraclito).
Approccio emotivo, ma anche fisico sensoriale alla divinità è molto importante.
LE PAROLE PER DIRLO
Bisogna dare priorità alle parole che ci vengono dalla lingua latina. il latino è molto più utile per
ragionare di parole connesse alla religione. Qual è il nostro problema nel costruire un vocabolario
della religiosità antica? Le radici della lingua greca e della lingua latina si ritrovano nel grande
calderone del linguaggio indo-europeo. Ricerca dell’origine. Quando si lavora su questi temi in una
prospettiva più ampia, si deve constatare che la matrice indo-europea appartiene ad un numus in cui
la dimensione della religiosità non è divisa da tutto il resto, ma è immanente. Se tutto è religione è
difficile trovare le parole della religione. Ciò nonostante, lavorando sulle parole chiave, si scoprono
cose interessanti. 2 binari oppositivi:
1. Religio:
• mondo greco →i greci hanno threskeuo e poi threskeia: seguire scrupolosamente le
prescrizioni religiose. Questa parola in verità compare abbastanza tardi nel mondo greco.
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Prima di Erodoto non ne abbiamo traccia. Non sembra esistere una parola che possa descrivere tutto
ciò che appartiene al culto e alla pratica religiosa. Questo verbo infatti è usato da Erodoto per
descrivere le pratiche religiose degli Egizi. È una nozione di pratica e non di credenza. Ci troviamo
difronte al nucleo della religiosità greca: la religione greca non è affare di fede, non è sentimento
religioso, ma è atto, pratica. È un rapporto fatto di competenze religioso (modo in cui praticamente si
venera il divino).
Le molte forme del divino (Esiodo, Le opere e i giorni): veniva dalla Beozia. È un epos
didascalico indirizzato al fratello. Mito delle 5 età dell’uomo: alcuni studiosi hanno colto in
questi 5 momenti diversi, un’evoluzione, altri invece hanno voluto leggere non una scansione
cronologica ma hanno voluto leggere queste ere come coppie oppositive. La prima stirpe
dorata ha alcune caratteristiche che appartengono all’età dell’oro (assenza di morte, di fatica,
di dolore, serenità). Questa prima stirpe di essere umani intrattiene con la divinità dei rapporti
privilegiati. “La terra avvolge questa progenie e poi finiscono per trasformarsi in demoni.
Sono i custodi degli esseri umani. A questa stirpe dorata ne segue un’altra: la progenie
argentea, del tutto dissimile dall’aurea stirpe per aspetto e pensiero: non vogliono sacrificare
sugli dei. La parola themis è il fulcro di questo passo: è qualcosa che rende la religione un
insieme di pratiche religiose e contemporaneamente ne riverbera la sacralità. È sacro e santo
nello stesso tempo.
La seconda progenie d’argento sembra rimanere fanciulla per tutta la sua vita, non sembra
esserci l’evoluzione fisiologica del mondo umano. Zeus, adirato, li nascose e li trasformò in
demoni che stanno sotto la terra. Zeus è adirato perché questi uomini non sanno e non vogliono
fare ciò che è un sacro dovere degli uomini: adorare la divinità nei templi sacri. Il problema
di questi uomini non è che non adorino la divinità ma che non sono capaci di farlo dal punto
di vista pratico. Quello che emerge è che la divinità entra in contrasto con l’umano per il modo
in cui gli esseri umani danno forma alla loro adorazione nei confronti del divino. Il simposio
di Platone: vittoria del poeta tragico Agatone. All’interno del simposio c’è il dialogo tra
Diotima e Socrate, ma anche il discorso del comico Aristofane sull’amore: l’arroganza degli
uomini fa sì che non siano in grado di venerare correttamente la divinità. Zeus allora divide
gli uomini per far in modo di avere più sacrifici.
Altro esempio è Tantalo, punito negli Inferi: quando la divinità arriva a casa sua inaspettata,
egli decide di far prevalere il sacro dovere dell’ospitalità sulla prassi religiosa. Perciò fa a
pezzi il figlio Pelope per darlo impasto agli immortali. Non ha alcuna importanza il sentimento
sottostante. Le due parole che ci servono per la Grecia per ora sono: themis (obbligo e insieme
sostanza della religione) e poi threskeuo (insieme di dispositivi religiosi).
•
Mondo romano → religio. Anche per gli antichi l’etimologia del termine religio è dibattuta. Il
suggerimento che ci da Cicerone: religio deriva da legere (scegliere). “Quelli che riprendevano
diligentemente e sceglievano tutto ciò che si riferisce al culto degli dei, costoro sono stati
chiamati religiosi da relegere”. Essere religiosi significa, per Cicerone, selezionare un corpo
di racconti o di culti oggetto di una particolare venerazione, perciò è una forma di scelta. A
questa opzione interpretativa noi colleghiamo anche l’idea che il termine religio significhi
prima di tutto, remora, scrupolo, attenzione per la scelta. In un passo del Curculio di Plauto il
poeta dice: “vocat me ad cenam; religio fuit, denegare volui”. Religio in questo caso vuol dire
scrupolo (qui non siamo in una dimensione del divino ma in una dimensione di scelta).
Altro frammento di Accio: Nunc, Calcas finem religionum fac (qui ha la sfumatura di scrupoli
religiosi).
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Lattanzio invece fa derivate religio da “ligare” (legare): “siamo costretti e relegati dal vincolo,
dalle catene della pietas. Dio si lega all’uomo e se lo attacca attraverso la pietà”. La religio
sarebbe la catena tra essere umano e divino.
Questo valore dato alla pietas e a questo vincolo non è dell’Urbe, perché la pietas non è il
sentimento che lega la religiosità dei romani, bensì l’osservanza delle regole. Hanno ragione
entrambi, perché stanno descrivendo un humus diverso: quella di Cicerone, a differenza di
quella di Lattanzio, è una religione fatta di atti comunitari
2. Superstitio:
• La lingua greca ha solo un termine che vuol dire superstizione: deisidaimonia (deido: temere
→timore dei demoni). È il modo in cui ci si rapporta ai demoni, a fare la differenza. All’inizio
avere paura dei demoni probabilmente è stato un atto corretto, quando però i demoni si
sviliscono, la deisidaimonia diventa qualcosa di diverso, diventa paura del magico.
20/02/2018
Lezione 4
La lingua greca, straordinariamente ricca di termini polisemici, è a tratti, per quanto riguarda la
religione, povera. Per indicare superstizione i Greci utilizzano la parola deisidaimonia. I demoni
che si temono sono quasi spiriti maligni che non meritano di essere venerati. La questione si amplia
e si complica nel momento in cui ci volgiamo alla lingua latina, che ci offre una serie di spunti di
riflessioni che il greco non ci consente a tratti. Superstizione deriva dal termine latino “superstitio”
la quale però si lega a due parole latine:
-
Superstes: superstite
Superstitiosus: indovino
La superstitio dunque in che modo si lega all’idea del superstite e dell’indovino? L’origine è la stessa,
ma si pongono alcuni problemi. La questione è stata molto dibattuta. Interpretazioni:
-
-
-
Interpretazione letterale per superstes porta all’idea di superstitio come di sopravvivenza di
tradizioni religiose che sopravvengono al mutamento dei codici religiosi
Otto nel suo studio sulla religio, dice che la parola superstitio non va spiegata a partire dal
vocabolario latino, ma come calco della parola greca ekstasis. Walter Otto fa una sovrapposizione
fra “ek” greco e “super” latino e fra “sto” e “istemi” (stare, rimanere, essere collocati). Tuttavia
la sostanza che sta dietro la parola estasi è diversa: l’estasi è una condizione della psiche che può
essere o meno messa in relazione con la divinità. La divinità dell’estasi è tradizionalmente il dio
Dioniso. I rituali dionisiaci contemplano l’estasi, l’uscire fuori da sé per accedere alla dimensione
del divino, oppure l’aprire il proprio corpo per l’immersione del divino. L’estasi è un tema forte
dell’esplicarsi dell’atteggiamento religioso, ma non è solo questo: l’estasi infatti non ha mai una
coloritura magica, misterica. Perciò difficilmente è utile questa interpretazione di Otto.
Secondo Muller-Graupa superstes è un eufemismo per gli spiriti dei morti…i morti sono sempre
vivi; possono sempre ricomparire come demoni. Sono gli spiriti che sono sopravvissuti alla morte.
La superstitio quindi è la qualità astratta dei superstiti e superstitiosus come “posseduto dagli
spiriti malvagi”.
Margadant invece pensa al senso di superstes come di testimone e quindi il superstitiosus sarebbe
colui che è un testimone della divinità. La lingua latina non ci consente però di mettere in relazione
il tema della testimonianza con la religione. I mortali non vengono chiamati a testimoniare. Ciò è
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-
sicuramente vero per la cultura e la religione latina, ma forse un punto a favore di questa
interpretazione è che così non è nella religione greca: il mortale che testimonia un avvenimento
dovuto alla divinità è chiamato ad un ruolo solenne. Nella religione greca il testimone autoptico
è assolutamente centrale e ha un legame della divinità diverso. Cecrope viene chiamato a
testimoniare la contesa di Atena e Poseidone per il controllo dell’Attica. Cecrope viene chiamato
ad essere il testimone muto di un avvenimento che non lo riguarda. In Grecia il tema della verità
è un tema molto fluido e labile: non esiste una verità assoluta; la verità è legata al fatto di essere
testimone dell’evento. I detrattori di Margadant non hanno dunque considerato che, allargando un
po' lo sguardo, la nozione di testimonianza sia in qualche modo legata alla religione greca.
Beneveniste: dà la sua ipotesi → “secondo me è il caso di ritornare all’idea che un superstes sia
qualcuno che in qualche modo, sopravviva”. Super infatti non indica semplicemente ciò che sta
sopra, ma anche ciò che va oltre, che si allunga in avanti (supercilium: sopracciglio). Superstes
dunque come sopravvissuto, come testimone di un evento a cui altri non sono sopravvissuti,
anche della morte. Quindi la superstitio è la qualità astratta che descrive la condizione di
sopravvivenza dopo la morte. Inoltre egli dice che il superstitiosus è colui che sembra conoscere
i fatti come un sopravvissuto, ma in realtà non è mai stato presente nel momento in cui questi fatti
sono accaduti.
Che cos’è quindi l’indovino in Grecia e a Roma? Per dare una risposta si potrebbe citare il famoso
incontro fra Odisseo e le sirene. Si è discusso molto e a lungo sulle dinamiche dell’incontro e sulle
ragioni per cui Odisseo trova le sirene irresistibili. Le sirene di Odisseo sono bruttissime e certamente
non possono esercitare alcun tipo di seduzione legato all’aspetto fisico. Ad essere irresistibile è il loro
canto. Anche gli Argonauti incontrano le sirene ma in queste caso gli umani sono fortunati poiché è
li presente Orfeo che canta più forte delle sirene e perciò la nave Argo riesce a sopravvivere. Ma il
canto delle sirene di Odisseo non è irresistibile, è il loro contenuto ad essere irresistibile: esse infatti
cantano la guerra di Troia. Il profeta, nella cultura greca e latina, è colui che conosce così
profondamente il passato da poter interpretare il futuro. Le sirene non erano presenti quando Odisseo
ha combattuto a Troia, perciò, secondo la ricostruzione di Benveniste, sono superstiziose: hanno
saputo raccontare un evento a cui non erano presenti. L’indovina conosce profondissimamente il
passato, tutto il passato, persino quello a cui non è stato presente, e successivamente interpreta il
futuro.
SACER VERSUS SANCTUS
Sacer ingloba tutto ciò che ha che fare con la sfera della consacrazione agli dei, ma anche con il tema
della venerazione, dello stupore del timore che suscita il rapporto con la divinità. Sacer deriva da una
radice indoeuropea: SAKRO. La parola sacer ci pone difronte ad una grande tematica delle religioni
dle mondo antico: il tema del sacrificio. La parola sacer è uno dei termini di cui si compone la parola
sacrificio: sacrum+facere (fare qualcosa di sacro). Il sacrificio in che senso si lega così potentemente
al senso del sacro? Perchè un atto che sottintende l’uccisione ha a che fare con la matrice della
sacralità? Ciò si lega al significato e al valore primo del termine sacrificio. Che cosa significa
uccidere, sacrificare una vittima e offrirla agli dei? Significa collocare la vittima in una zona che la
rende appartenente agli dei, significa toglierla dalla sfera umana e renderla inattaccabile dalla
comunità degli uomini. Uno dei segmenti fondamentali è quello in cui agli animali da sacrificare
vengono tagliati i peli sul capo che poi vengono gettati sul fuoco. Questo è l’istante in cui la vittima
viene consacrata agli dei: non può più tornare indietro (nonostante essa sia ancora viva, non lo è già
più, perché una parte di sé è stata data agli dei, il sacrificio si è già completato). L’animale è collocato
in una sfera dell’intangibile. Il sacrificio è il modo in cui il sacro trova la sua incarnazione reale.
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“L’uomo sacro è colui che il popolo ha giudicato per un’azione malvagia: quest’uomo non è
consentito in nessun modo che venga immolato, ma se qualcuno lo uccide non è giudicato” (Festo).
In questo caso si parla di un uomo colpevole di un’azione ingiusta; quest’uomo non può essere
sacrificato, ma nel momento in cui viene ucciso, colui che lo uccide non verrà giudicato.
La natura peculiare di un eroe come Edipo è proprio questa: egli si rende conto che c’è qualcuno che
sta infettando la città di Tebe, perché è corrotto nell’animo e dice: “Nessuno lasci che il proprio spazio
sia contaminato dalla presenza di un uomo che ormai è sacer da un’altra parte”. Anche in questo caso
è la dimensione dell’intangibile (Edipo) ad essere la dimensione del sacro.
SANCTUS
“Santo è ciò che viene difeso dall’attacco malevole degli uomini e difeso” (Digesto). Santo è ciò che
non è né sacro né profano. Sanctus deriva dal verbo sancio (sancire). Sacer è tutto ciò che non è
profano, nel senso etimologico del termine, mentre santo è ciò che una disposizione interna alla
comunità umana ha stabilito essere inviolabile. La sacralità è una condizione misteriosa e intangibile,
la santità è una condizione che viene dal basso. Sacer è il sacro implicito, mentre sanctus è quello
esplicito (sante sono le leggi ad esempio). Questa santità viene avvolta e circondata dalla dimensione
del sacro. Troia ad esempio è sacra, una via è sacra, un monte è sacro, ma un muro è santo, una
persona è santa, una legge è santa. La crasi di questi due universi è sacrosanto: ciò che è santo per
mezzo di un’azione sacra.
La parola sanctus ha una sua evoluzione: noi usiamo molto la parola santo. Il termine infatti
appartiene anche alla religione cristiana. Che cosa è avvenuto ad un certo punto in cui sono diventati
santi gli eroi, i luoghi e i morti? La parola santo ha tirato a sé tutte le pertinenze del sacro: santo è la
regola e santo è tutto ciò che sottostà alla regola. Sanctus è diventato equivalente del termine
“venerandus”. A questo punto si pone il problema non solo della santità ma anche dell’atteggiamento
verso la santità. La santità dunque non è più solo una condizione, ma necessita di un atto religioso
che la affianchi.
IL SACRO IN GRECIA
I Greci hanno molti modi per indicare ciò che è sacro:
-
Hieròs: parentela accertata con il vedico isirah = forte, potente, vitale. È un aggettivo che si
collega molto bene a divinità, personaggi mitologici, ma si usa anche per definire il vento. In
greco si trova spesso in forma di epiteto (Hieròs è anche un’armata greca, la bilancia di Zeus è
sacra, la testa di Zeus è sacra, le aie su cui si batte il grano sono sacre, un vallo è sacro). Abbiamo
un grande problema: innanzitutto non sembrano essere armoniche l’una con l’altra e in alcuni casi
ci proiettano in una dimensione noi potremmo agganciare la tensione verso il sacro: ad esempio
l’aia della fattoria perché è sacra, perché lo è un vallo o un carro? Perché è la divinità ad essere
chiamata in gioco. Il vallo descritto è quello che circonda la casa di Calipso. Questi elementi sono
sacri hanno a che fare con la divinità: la sacralità è una qualità che permea azioni, momenti della
vita umana di una dimensione assoluti. Sono sacri perché la divinità li ha resi tali. L’unico esempio
misterioso sul quale gli esperti si dibattono è il canto XVI dell’Iliade (vv.404-408): qui il paragone
non è con la dimensione divina ma è con il pescatore. Patroclo è paragonato ad un pescatore che
tira su il suo pesce hieròs. Unico caso in cui l’aggettivo è riferito ad una dimensione in cui il
divino non è minimamente presente nemmeno come termine di paragone: molto probabilmente
questa è la sopravvivenza di un uso della radice vedica che si riconnette a ieròs: il sacro, ma anche
il potente, il vitale. In questo caso il pesce sarebbe “guizzante”.
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-
Hazomai, hagios e hagnos: crine di viola, dolceridente, veneranda (agna) Saffo → frammento
di Alceo. È la descrizione più nota della poetessa Saffo, ma è anche un frammento molto
interpretato. Una delle ragioni del contendere sul piano interpretativo è proprio l’aggettivo agna.
Perché Saffo è venerando, perché per Alceo è agna? È stato detto che Saffo potrebbe essere
vergine, oppure pura, così pura da essere intangibile. Ma bisogna guardare meglio gli altri epiteti
che compongono il frammento: crine di viola è un epiteto che spesso in Omero è associato ad
Afrodite, e dolceridente sembra un aggettivo che è pensato per evocare un altro aggettivo:
filomeides (che ama il sorriso), anch’esso associato ad Afrodite. Entrambi sono perciò aggettivi
che abitualmente si riferiscono alla divinità. Dunque bisogna pensare che l’aggettivo veneranda
non sia messo a caso. È come se Alceo avesse distillato l’essenza del sacro, che è per l’appunto
la sua capacità di veicolare un’emozione sacra. È come se Alceo stesse descrivendo il sentimento
che in lui genera la vista o la presenza di Saffo; un sentimento che non è solo forma d’amore, ma
è qualcosa che è simile all’emozione che genera il contatto con la divinità: sospendere il respiro
e quasi arretrare a quella che ha tutte le caratteristiche di una visione. A questi terrmini si aggiunge
un’altra parola: hosios. È un sacro reso tale dalla comunità degli uomini. Omero non lo usa.
Hagios e hazomai sono parole che riguardano proprio l’atteggiamento del fedele nei confronti del
fenomeno divino.
22/02/2018
Lezione 5
Sali: praticano il culto con una danza rituale. Questa danza si compie in un modo molto specifico.
È una danza in tondo che descrive un perimetro ed è una delle danze che definiamo guerriere
perché danzano con lo scudo battendo il ritmo su di esso. La loro danza rende sacer ciò che loro
avvolgono. Ma in verità i Sali fanno un altro mestiere: proteggono un unico scudo, lo scudo che
si diceva che Giove avesse fatto cadere dall’alto e che fosse stato raccolto da Numa Pompilio e
che rappresentasse perciò la fortuna di Roma (lo scudo dunque è santo, circondato da uno spazio
sacro che è la danza dei Sali).
Una delle manifestazioni più importanti della divinità, e nel caso della cultura greca dell’eroe, è
il tema del nome (nome nomen: nel nome c’è un presagio). Ci sono però alcuni casi in cui il nome
svela alcune peculiarità della figura divina o eroica che sembrano nascoste nella loro biografia.
ODISSEO: le etimologie legate al nome raccontano delle cose che noi non conosciamo.
È ricondotto al verbo odussomai (odiare): il nome sarebbe il ricordo di un fatto sgradevole e
doloroso, accaduto prima della nascita del bambino. Il nonno di Odisseo, il padre di Penelope,
Autolico ha un nome che significa “l’uomo che si trasforma da solo in lupo”. Questo ci ricorda
un passaggio molto bello dell’Odissea, quando Odisseo si presenta alla reggia di Itaca travestito
da mendicante e viene riconosciuto dalla sua nutrice grazie alla ferita (ferita araldica che
contrassegna l’eroe. È qualcosa che rende un eroe perfettamente identificabile). Omero fa cenno
per la prima volta ad una pratica di magia: la ferita del bambino Odisseo è stata guarita dai
compagni di Autolico che hanno cantato un incantamento che ha permesso di risanarla.
L’etimologia più famosa è quella raccontata da Sileno di Chio: racconta qualcosa di scabroso che
ha a che fare col concepimento di Odisseo su cui le fonti del mito sono in ombra. L’idea è che la
madre Euticlea lo avrebbe partorito “un giorno in cui Zeus pioveva con grande intensità” (in greco
“kata ten odòn osen o Zeùs”).
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PROTESILAO: un oracolo aveva stabilito che il primo che avesse toccato terra sulla spiaggia di
fronte a Troia, sarebbe morto. Gli eroi dunque si guardano bene dal mettere per primi a terra il
piede. Ma la sposa di Protesilao, Laodamia, intuisce e si attacca al marito tentando di trattenerlo.
Lui la rassicura e parte in guerra, ma non appena mette piede a terra, muore. Infatti Protesilao
sarebbe un composto di protos + laos (colui che è il primo fra il suo popolo). Tuttavia la figura
di Protesilao non è una figura eroica importante tanto da essere considerato il primo del popolo.
Il nomen di Protesilao conterrebbe già il nucleo seminale della sua fine. In questo caso davvero il
nome sarebbe un presagio. Pur non essendo famoso, è lo sposo di Laodamia, creatura
meravigliosa a cui a tratti, la tradizione mitica, attribuisce l’invenzione della statua. Ella infatti,
dopo la morte di Protesilao, fa costruire una statua del marito e la tiene con sé nel letto. Viene poi
scoperta e la statua di cera viene gettata nelle fiamme. Lei, consumata dal dolore, si getta nelle
fiamme con la statua.
ERACLE: significa solo una cosa, significa “gloria (kleos) di Era” (colui che ha la gloria
attraverso Era). Zeus tradisce Era (Zeus sembra incarnare una potenza generatrice
indifferenziata). Si innamora di Alcmena (la storia è raccontata nell’Anfitrione di Plauto) e si
trasforma in Anfitrione e si reca a casa della donna, si unisce ad essa e rimane incinta.
Successivamente Anfitrione, tornato dalla guerra, si unisce ad Alcmena, generando Ifìcle,
gemello mortale di Eracle. Era dunque è nutrita da un odio profondo nei confronti di Eracle. Come
è possibile che allora il suo nome significhi “gloria di Era”? Dobbiamo far riferimento al momento
in cui Eracle è messo sulla pira, sta morendo, ma a quel punto Zeus chiede ad Era di adottare
Eracle e di farne un suo figlio. Era fa passare attraverso le sue vesti Eracle, come se stesse
partorendo Eracle. Questo diventa a pieno titolo una divinità, e attraverso la sua apoteosi,
raggiunge l’Olimpo.
DIONISO: abbiamo in questo caso il grande problema delle origini. Dioniso viene da lontano.
Noi nelle tavolette di lineare B leggiamo DI-WO-NU-SO. Effettivamente questo dio era già
presente nel linguaggio miceneo, quindi non ha nulla di straniero, è il più autoctono. Di Dioniso
non sappiamo nulla, salvo che era già associato a Zeus (gen. DI-OS + seconda parte più difficile→
potrebbe trattarsi di un nome trace per “figlio”, riscontrabile nel toponimo NUSA e nei nomi di
ninfe NUSAI.
Garcìa Ramòn propone anche l’interpretazione della prima parte del nome come DIS, due volte,
quindi “due volte bambino”, data la tradizione della sua doppia nascita, ma il digamma miceneo
esclude questa ipotesi. Si ricollegherebbe a due ipotesi diverse. Dioniso nasce 2 volte in 2 modi
diversi:
-
Viene concepito in un bosco da Semèle unitasi a Zeus. Venuta a conoscenza del tradimento, la
dea Hera – sotto le sembianze di una vecchia nutrice di Semele – finse di non credere che il padre
del bimbo nel grembo della principessa (incinta ormai di sei mesi) fosse proprio Zeus, a meno
che la giovane non convincesse il suo amante a rivelarsi nel suo vero aspetto. Semele seguì quel
consiglio e quando Zeus rifiutò di accondiscendere, gli negò il suo letto. Furibondo, il dio allora
le apparve fra tuoni e folgori in tutta la sua gloria, tuttavia la visione di tanto splendore uccise la
giovane. Fu allora che Hermes salvò il bambino: lo prese, infatti, e lo cucì in una coscia di Zeus,
dove egli poté maturare per altri tre mesi venendo poi alla luce. Per questo motivo Dioniso è
detto nato due volte o anche il fanciullo della doppia porta.
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-
Esiste un altro Dioniso: Dioniso Zagreo figlio di Persefone. Fu fatto a pezzi dai Titani, messo a
bollire e arrostito. Viene ricostruito dei suoi 14 pezzi e rassembrato. L’unico pezzo di Dioniso
andato perduto era il cuore (gli verrà dato poi dagli dei un cuore di gesso). Il due volte nato è
contemporaneamente nato da Semele e da Zeus e poi due volte nel senso di smembrato e poi
riaggregato.
Tre divinità: le MOIRE (parche in latino). Apparentemente la storia mitica della dea non sembra
c’entrare quasi nulla con il culto della divinità.
Ci sono divinità che in una fase iniziale della loro mitologia sono una e poi diventano tante (caso
delle Erinni). Ma il caso più interessante è quello delle Moire. All’inizio non sono tre, non hanno un
nome, ma è una sola (la Moira). Soltanto in un caso, in particolare quando Apollo rimprovera tutti gli
dei perché non stavano impedendo ad Achille di fare scempio del corpo di Ettore. In Omero non ci
sono le moire, bensì la Moira, una divinità che è di fatto una personificazione. Essa rappresenta per
l’esattezza la parte del destino, quel destino che ci è assegnato alla nascita. Non rappresenta in
generale la tuche (la sorte che può essere sia positiva che negativa), ma è esattamente quella porzione
di destino che tocca a tutti noi quando nasciamo. Tocca anche agli dei.
ERMES: figlio di Maia e di Zeus. Viene alla luce sul monte Cilleno, in Arcadia. Viene alla luce in
una grotta. Quando Ermes viene alla luce, esce dalla grotta, e vede una tartaruga. La uccide e crea la
lira (la cetra). Modella della biografia eroica: appena nato è già in grado di compiere un’impresa. Ma
Ermes è un dio: e si chiede quale sia la sua moira (la sua parte del destino: le Moirai sono state già
tutte assegnate). Egli dunque ruba le mandrie del fratello Apollo e successivamente canta un’altra
Teogonia, e si assegna una parte. La Moira è un oggetto straniero: è qualcosa di intangibile ma è
anche qualcosa di estremamente concreto: è noi e contemporaneamente è quella parte di un ordine
cosmico di cui a noi tocca un segmento. Ben presto le moire diventano tre:
1. Cloto: colei che fila il destino
2. Lachesi: distribuisce il lotto
3. Atropo: non si può voltare indietro
Esiodo, nella Teogonia, cita le Moire e in due casi viene citata la loro genesi, nella stessa opera.
•
“La notte quindi generò la sorte odiosa, e la nera Kere, e la Morte, e il Sonno, generò la stirpe
dei sogni, generò il biasimo e sventura dolorosa. Generò anche le Moire e le Kere: Cloto,
Lachesi ed Atropo.”
È una genesi che le conduce alla matrice più oscura dell’universo, ossia la notte. Esse sono anche
figlie del nulla, sono anche inquietanti, sono ciò che fa paura, non sono divinità rassicuranti. Nascono,
dice Esiodo, in compagnia del biasimo (moiros: antichissima parte del destino). Poi Esiodo ribalta la
questione e quasi in chiusura del suo poema:
•
“Per seconda Zeus sposò la splendida Themis (divinità dell’ordine prestabilito) che generò le
ore, eunomìa (equilibrio delle leggi), dike (la giustizia) e la pace fiorente e le Moire cui grande
onore diede Zeus prodente”.
La timè (l’onore) è la parte di destino che viene assegnata, la parte di onore che viene assegnata
(Criseide è la timè di Achille ad esempio). I Greci combinavano sorte (moira) in una sorta di selezione
esclusiva che permetteva ai migliori di scegliere prima. La stessa cosa pare sia accaduta nel momento
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in cui i fratelli hanno dovuto scegliere le parti dell’universo: c’è stato un sorteggio ma Zeus ha scelto
per primo. Qui però è lo stesso Zeus che attribuisce alle Moire le timai.
Questa seconda genealogia sembra una copia rovesciata della precedente. La prima infatti è legata al
caos, al nero profondo della notte, all’irrazionale, la seconda invece è legata all’ordine (le Moire sono
figlie di Themis). Ma è proprio la dimensione della religiosità a spiegarci questa ambivalenza e a
fonderla in un’unica figura.
LE MOIRE: prima genesi esiodea
Platone cancella l’Ade di Omero e si inventa una nuova storia che crea una nuova narrativa dell’aldilà.
In sostanza qui Platone enuncia una teoria sull’immortalità dell’anima. Qui Platone ci spiega che cosa
fisicamente accade alle anime dopo la morte: ci parla di una voragine celeste e ci spiega come le
anime si apprestino ad incarnarsi. Le anime hanno delle moirai pronte per loro e per un meccanismo
combinatorio e di scelta, mettono le mani sui destini che stanno loro difronte. Possono scegliere i loro
destini e questi saranno il loro nuovo futuro. La moira la si sceglie e l’ordine in cui si sceglie viene
stabilito dal sorteggio. Questa visione di Platone: c’è un fuso che gira e al vorticare del fuso
presiedono le sirene e le Moire. Qui abbiamo un’ulteriore genesi delle Moire: sono figlie di ANAGKE
(la necessità). Le anime passeranno sotto il trono della necessità prima di incarnarsi. Le Moire però
hanno sempre gli stessi nomi e hanno sempre gli stessi compiti. In Platone le Moire sono nel regno
dei morti, sono dunque nella morte.
Compaiono le Moire in un insieme circoscritto di tavolette: ci sono circa 40 tavolette provenienti dai
contesti più vari (in Magna Grecia per esempio vicino a Crotone). Sono state trovate nelle sepolture
di morti non qualsiasi in un arco cronologico che va dal V-IV secolo a.C. sino al III d.C. Sono lamine
d’oro ritrovati in sepolture di defunti quasi sempre cremati, ed erano appoggiate o sulla bocca, o sugli
occhi dei morti. Sono state definite come dei passaporti per l’aldilà che però toccavano non ai mortali
qualsiasi, ma agli iniziati ai misteri. Forse i misteri eleusini (ipotesi scartata perché non sono state
ritrovate sino ad ora tavolette d’oro ad Eleusi). Si tratta invece di lamine di misteri orfici. A Turi sono
state ritrovate tre sepolture: da qui proviene una lamina che corrisponde ad una tipologia. Queste
lamine sono scritte in greco, in esametri, con una scrittura molto poco raffinata ma con un minimo di
interesse estetico (le lamine vengono a volte battute per renderle più interessanti dal punto di vista
estetico).
Nella lamina ritrovata a Turi compare appunto la Moira. Ciò che interessa è il momento in cui
l’iniziato ai sacri misteri vola via per il suo destino immortale e la sua sorte è stata stabilita dalla
moira. Lui stesso è stato domato dalla moira. C’è chi ha voluto vedere in questi morti del Timpone
piccolo di Turi, dei morti fulminati, dal momento che viene citato il saettatore celeste.
Papiro di Derveni (lungo 3 m) in cui abbiamo l’altra grande teogonia oltre a quella esiodea, in cui
sono nuovamente presenti le Moire. Zeus è definito come la Moira. (passaggio: Zeus dominato dalle
Moire in Omero, Zeus padre delle Moire in Esiodo, Zeus è la moira in questo papiro).
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Lezione 6
26/02/2018
Le moire sono interessanti per due ragioni; da un lato mostrano l’oscillazione numerica delle divinità
antiche e dall’altro ci offrono delle possibilità interessanti per il rapporto fra il racconto mitico e il
culto della divinità. dal punto di vista mitico le Moire vengono ricordate ben due volte nella Teogonia
di Esiodo, con due genesi molto diverse. Questa oscillazione delle origini è uno deggli elementi più
importanti che caratterizzano anche la figura di Afrodite.
-
-
Vv. 211-219: le Moire sono messe in relazione con la Notte, in una zona non antropomorfa. In
questo caso sono associate ad una serie di personificazioni che hanno un potente carattere
inquietante. La stirpe dei sogni è collocata, nella geografia degli antichi, subito prima del regno
dei morti. Sono figlie dunque della Notte: idea della creatura dal sesso indistinto che genera altre
creature (monogenesi di una divinità femminile) è molto inquietante. La Notte, senza unirsi ad
alcuno, la Notte genera il biasimo e la sventura dolorosa, e le Esperidi. Generò anche le Moire e
le Kere, inesorabili vendicatrici. I tre nomi delle Moire rimangono fissi: Cloto dà l’idea del filo
che viene generato, Lachesi dà l’idea del taglio del filo, e Atropo alla lettera colei che non si volta
mai indietro (il destino che non può essere mutato). Nel mito di Er, nella repubblica di Platone, le
Moire sono figlie di ANAGKE (necessità).
Fine del poema: Zeus sposa la splendida Themis (l’ordinamento; ciò che viene prescritto, che
precede la legge che invece è prescrizione umana). Generò legge, pace e le Moire. In entrambi i
casi c’è l’idea di concedere agli uomini il bene e il male, ma il contesto è ribaltato. Nella prima
generazione le Moire sono affiancate dalle Kere, inesorabili vendicatrici, mentre nella seconda
sono affiancate da Pace e Giustizia.
Le Moire e la nascita: visione positiva
Antonino Liberale (Metamorfosi): declinazione in prosa delle Metamorfosi di Ovidio. Antonino è
interessato alla Metamorfosi.
“A Tebe, Preto ebbe come figlia Galintiade. Questa era una vergine amica e compagna di giochi di
Alcmena, figlia di Elettrione. Quando Alcmena, incinta di Eracle, era in travaglio, le Moire e Ilizia,
per compiacere Era, le impedivano di partorire. Esse stavano sedute, sia le Moire sia Ilizia, con le
mani intrecciate. Allora Galintiade nel timore che le doglie facessero impazzire Alcmena, corse da
esse e annunciò che, per volere di Zeus, ad Alcmena era nato un figlio maschio, e che esse erano
cadute in disgrazia (le loro timai erano state abolite). Quando udirono ciò, le Moire rimasero
sbalordite e sciolsero subito le mani, e in quello stesso istante le doglie abbandonarono Alcmena, ed
Eracle potè venire alla luce” [magia dei nodi: ci sono versioni del mito in cui le Moire e Ilizia hanno
le gambe intrecciate; quando il nodo è sciolto il parto può avvenire]. Le Moire trasformarono
Galintiade in un’infida donnola: essa riceve il seme tramite le orecchie e partorisce emettendo il feto
dalla gola”.
I padri della Chiesa hanno usato l’esempio della donnola per spiegare qualcosa che in natura è
impossibile spiegare. Perché i padri della chiesa sono interessati alla donnola? Per spiegare
l’immacolata concezione: se esiste un animale che concepisce attraverso le orecchie, in questo stesso
modo ha concepito Maria: è proprio il raggio divino a fecondare Maria.
Qui le Moire sono in connessione alla nascita e non alla morte. Le Moire in connessione alla nascita
sono citate anche nella VI olimpica di Pindaro in cui si parla della nascita dell’indovino Iamo. Nel
momento in cui nasce ci sono Ilizia e le Moire. La cintura scarlatta gioca lo stesso ruolo delle mani
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intrecciate. Nell’iconografia medievale e rinascimentale, la cintura slacciata indica la Madonna già
matura, che ha partorito, la cintura stretta invece indica la Vergine.
Moire connesse al tema della morte
Esempio che viene dal mito di Er, nella Repubblica di Platone. Le anime si ritrovano in una pianura
e ricevono in sorte la possibilità di scegliere la nuova moira, il nuovo destino. Le Sirene intonano una
sola nota e su questa armonia le Moire cantano. In Platone si parla esplicitamente non della sorte che
tocca a ciascun mortale, ma del problema del presente, del passato e del futuro (le Moire sono tre
figure a cui spetta ricoprire tutto l’arco della temporalità).
Le moire in relazione al passato ritornano in alcune tavolette (Magna Grecia, Creta e Tessaglia), su
alcune lamine, privilegio di un gruppo ristretto di persone iniziate ai misteri orfici. In un gruppo di
lamine (a Turi, vicino Crotone) in cui appare “moira edamase” → mi domò il destino.
Le Moire investono interamente la sfera dell’esistenza umana: sono indissolubilmente legate alla
morte e contemporaneamente alla nascita.
Papiro di Derveni: altra teogonia. Zeus è definito la Moira possente. Siamo in uno scenario diverso
da quello della Teogonia di Esiodo. La Moira e Zeus sono la stessa cosa. In Esiodo invece, Zeus
genera le Moire, e Omero ci dice come Zeus stesso fosse assoggettato alla Moira (“Io sosterrei i
Troiani, ma mi tocca fare un passo indietro, perché non decido io”; nella psicostasia Zeus capisce che
il suo cuore batte per Ettore, ma Zeus non ha potere decisionale). Qui invece la Moira, siamo in
ambito orfico, e Zeus sono la stessa cosa, perché Zeus è tutto, è l’inizio e la fine. Zeus è primo e
ultimo, è il mezzo è la testa, da lui deriva qualsiasi cosa. Quindi c’è uno slittamento ulteriore: il
destino, la parte e Zeus sono la stessa cosa.
IL CULTO
Pausania (II libro, Descrizione della Grecia): si descrive il santuario delle Moire.
“Ogni anno si sacrificano pecore gravide e si fanno libagioni con miele e acque e si usano fiori invece
che ghirlande. Riti simili si praticano anche sull’altare delle Moire”.
Le Moire hanno lo stesso tipo di culto delle Eumenidi, ossia le Erinni addomesticate. Possono essere
addomesticate solo attraverso il culto. Questi culti sono un po' fuori città. L’altare delle Moire è nella
parte del bosco che è allo scoperto (dimensione limitrofa tra la civiltà umana e la natura
indifferenziata). Il tema del miele e dell’acqua o del latte sono delle spie per capire che qui abbiamo
a che fare con divinità che si collocano al confine tra la vita e la morte. Le Moire e le Eumenidi non
possono essere venerate così come si venera Zeus, perché sono divinità pericolose che vanno
accostate con attenzione.
Se noi guardiamo i casi in cui le Moire vengono citate su un’epigrafe funebre, ci rendiamo conto che
sono le divinità della vita, della famiglia, della nascita. Mai, come nelle Moire, noi troviamo fuse tutta
la sfera positiva della famiglia e della nascita e tutta la sfera plumbea della morte. Sembra esistere un
convincimento che rimarrà saldo sino all’età della tragedia, che prevede il fatto che la vita degli esseri
umani non sia fatta da un’esistenza individuale, ma che la famiglia condivida un unico tessuto vitale.
La comunità quindi ha un unico tessuto vitale che viene di volta in volta assegnato attraverso le Moire.
È un tema molto facile da leggere e da utilizzare quando si legge anche l’Alcesti di Euripide. La
ragione per cui Admeto può fare il patto con Thanatos, e per cui ottiene che un membro della famiglia
possa morire al posto suo, la ragione ultima è il fatto che la famiglia di Admeto condivida un tot di
esistenza, dove ciò che viene assegnato ad uno viene tolto all’altro (non ci si deve stupire se le Moire
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vengono citate nelle epigrafi funebri così come nelle cerimonie che hanno a che fare con le nascite).
Non ci stupisce allo stesso modo che le Moire si trasformino ad un certo punto, in fate. Le fate tipiche
delle favole, ad esempio le fate madrine della bella addormentata nel Bosco. Le fate sono tre, arrivano
al momento della nascita, ma in quell’istante esatto c’è già il germe che potrebbe portare alla fine:
c’è il fuso (l’anima esterna del personaggio che è già potenzialmente foriero di morte). Le fate sono
tre esattamente come le Moire. Ci sono degli studi importanti che testimoniano come ci sia stata una
migrazione di competenze dalle Moire alle Fate.
Riassumendo è importante chiarire come questo impossibile matrimonio tra nascita e morte nel culto,
è perfettamente tenuto insieme dalla narrazione mitica che allude al fatto che le Moire hanno di fatto
due volti diversi (dove c’è la nascita di qualcuno c’è la morte di qualcun altro).
ERA
Associazione fra Era e il pavone.
Siamo abituati ad intendere Era come una divinità di matrice panellenica. Non sembra essere una
divinità con una dimensione locale ben individuata, ma sembra essere sin da sempre la sposa di Zeus.
In una tavoletta in lineare B proveniente da Pilo (TAVOLETTA TN) troviamo Zeus ed Era già
associati. Subito dopo vengono citati due nomi DI-WI-IA e PO-SI-DA-E-JIA (divinità femminili il
cui nome è la declinazione femminile della divinità maschile). Con ogni probabilità dunque la
religiosità minoico-micenea associava alla divinità maschile quella femminile. Zeus ed Era dunque
sono uniti da sempre.
Ma che caratteristiche ha Era?
Nel IV libro dell’Iliade, Zeus è molto adirato con Era per la cattiveria nell’odiare e nel perseguitare i
Troiani. Zeus la chiama “pazza”, la accusa di perseguitare i figli di Priamo. Zeus ama Troia perché
gli altari in suo onore non mancano mai di offerte sacrificali. Zeus dunque minaccia esplicitamente
Era e lei risponde:
“Ebbene, vi sono tre città a me carissime: Argo e Sparta e la spaziosa Micene”. Le divinità greche,
rarissimamente nell’Iliade, parlano delle città a cui sono legati. Argo, Sparta e Samo sono le città in
cui Era veniva venerata più che altrove.
Era è dunque già nell’Iliade una divinità locale, e in particolare è la divinità di Argo. È la prima volta
in cui noi possiamo vedere all’opera come le città possano improntare la narrazione epica. Qui, con
ogni evidenza, visto che i resti archeologici ci parlano di un culto ben vivo nell’VIII secolo, Era è la
divinità di Argo e Omero lo ricorda spesso. Era è argiva. Ciò ci permette di apprezzare il rapporto tra
dimensione di culto panellenica e dimensione di culto locale.
Era è colei che protegge i matrimoni, è l’emblema del matrimonio, è la sposa per eccellenza. Ma dal
punto di vista del culto, questo non è evidentissimo. Pausania descrive il santuario di Era ad Argo e
di una statua di Era.
La statua di Era è seduta su un trono, ed è di notevole grandezza; fatta d’oro e d’avorio, è opera di
Policleto: in una mano porta una melagrana, nell’altra uno scettro. Lasciamo andare ciò che riguarda
la melagrana (non è lecito parlarne → rimanda al culto di Persefone e Demetra)”.
Entrambi i passi insistono però sulla verginità di Era: Era è vergine e quando non lo è recupera la sua
verginità.
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La connessione tra l’Era dell’epica e l’Era del culto di Argo, è una connessione antichissima. È molto
raro trovare le divinità adorate con gli stessi epiteti con cui vengono ricordate nell’epica. Nel caso di
Era invece avviene una cosa singolare: è stato ritrovato un anello che forse appartiene all’Heraion di
Argo e che è appartenente alla fondazione Paul Getty di Malibù. L’anello ha inciso LEUKOLENOS:
dalle bianche braccia. Questo epiteto è per l’appunto uno degli epiteti più importanti di Era all’interno
dell’Iliade. Dunque sembra evidente mettere in relazione il contesto argivo con l’epos omerico. In
effetti intorno all’VIII secolo, gli Argivi avranno lasciato un frammento del loro culto locale nella
declinazione della divinità come appare nell’Iliade. Zeus inoltre non ha nessun culto ad Argo che non
sia come sposo di Era.
Caratteristiche del culto:
prevedeva una processione, una danza in armi e delle gare di atletica. Ad Argo la statua veniva portata
in pompa magna in processione. L’importanza della statua di Era in processione viene ricordata da
una storia frutto di versioni declinate in tutti i modi: Cleobi e Bitòne. Sono due kouroi dorici (mancano
infatti del sorriso arcaico): il basamento su cui sono collocati si può far risalire al VI secolo a.C. Sono
famosi per essere uno degli esempi utilizzati dal saggio Solone. Sono i figli di una sacerdotessa argiva
che si trova nella necessità di trasportare la statua della divinità ma i suoi buoi non sono tornati dal
campo. Cleobi e Bitòne dunque trasportano la statua al posto dei buoi. La madre, contenta, pregava
che il dio concedesse ai figli ciò che per un uomo di meglio fosse possibile concepire. I due morirono,
e vennero innalzate le statue (muore giovane chi è caro agli dei; la vecchiaia infatti è fonte di
vergogna. il massimo è morire all’apoteosi dello splendore fisico). Le statue di cui parla Erodoto
molto probabilmente sono quelle ritrovate.
Lezione 7
27/02/2018
Era è interessante perché in apparenza e in sostanza è possibile osservare il rapporto dinamico tra
culto locale e sistema panellenico. Nel caso di Era, si tratta con tutta evidenza, per lo meno lo
possiamo dire a partire dalla prima fase della redazione scritta dei poemi omerici (VIII secolo a.C.),
che Era non abbia del tutto una ricaduta panellenica ma sia una divinità che appartiene ad Argo e
all’Argolide in generale. Sull’anello, appartenente al VI secolo a.C., è inciso l’epiteto
LEUKOLENOS, epiteto tipico di Era e della tradizione epica. È raro trovare nel culto un epiteto
presente nell’epos, ma questo è uno di quei casi.
Il culto argivo risale all’VIII secolo a.C. Il rapporto fra l’era dei poemi omerici e l’Era del culto argivo
è in qualche modo dinamico. Il culto argivo ha influenzato i poemi omerici.
La ragione per cui è accostata alle Moire, è che Era è una divinità del matrimonio, degli amori
regolari, che hanno un recinto nella convenienza sociale. E tuttavia è una divinità che sembra però
avere come leitmotiv la verginità (paradossalmente).
Era stessa diceva “Care al mio cuore sono Argo, Micene e Sparta”. Ciò che noi sappiamo è che Era
veniva venerata a Platea in Beozia. Ciò è molto ben testimoniato da Pausania, nel suo libro sulla
Beozia. “I Plateesi hanno un tempio di Era notevole per grandezza e per le statue che l’adornano.
Appena entrati vediamo una statua di Rea che reca a Crono il sasso avvolto in fasce, fingendo che
sia il figlio che l’ha partorito; poi una statua che chiamiamo Telea”.
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Era qui è messa in relazione con una dimensione teogonica, primordiale. Nasce in un momento in cui
le divinità dell’Olimpo devono trovare il proprio potere saldo. È una dea delle origini. Non è un caso
che venga venerata dunque accanto a Rea.
Pausania parla inoltre della festa dei Dedali in onore di Era.
XOANON: indica un tipo di statua che è fatta solo di legno e che di solito è un piccolo idoletto.
Pausania fa un’osservazione importantissima: noi troviamo sulla lineare B il nome di Dedalo, ma non
sappiamo se questa parola alluda direttamente al personaggio mitico, oppure ad una precisa tipologia
di oggetti, ossia gli oggetti “fatti alla Dedalo” (DAIDALLEIN: modo di costruire alla maniera di
Dedalo). I dedali si chiamano così grazie al loro creatore (Dedalo) oppure sono i dedali stessi a dare
il nome al creatore? Per DAIDALLEIN si intende soprattutto l’arte del cesello, del dettaglio, delle
piccole statue. Infatti gli archeologi dicono che i Minoici fossero il popolo dei particolari, mentre i
Micenei delle grandi mura.
La festa dei Dedali sarebbe stata appunto in onore di Era. Un altro tratto particolare è il momento in
cui Pausania spiega com’era questa festa dei Dedali, e fra le cose più interessanti dice: “In un bosco
i Plateesi dispongono ogni sorta di carne cotta. Di ogni altro uccello non si preoccupano, invece
tengono d’occhio i corvi, quando questi si avvicinano. Osservano su quale albero andrà a posarsi
quello fra i corvi che ha preso la carne, e l’albero viene tagliato. Da quell’albero vengono ricavati i
dedali”.
Grazie a Pausania abbiamo traccia di un particolare, ossia la dimensione talvolta aniconica delle statue
di culto. Questi dedali non sembrano essere antropomorfi, ma potrebbero essere semplicemente dei
blocchi di legno. Infatti si dice che a Samo le prime statue di Era fossero aniconiche. Stagione in cui
la rappresentazione antropomorfa della divinità, per quel che riguarda il culto, non aveva
quell’urgenza per quel che riguardava invece le fonti letterarie. Ci sono le statue di culto che non
necessariamente hanno una dimensione antropomorfa. La dimensione di culto in questo caso non va
a braccetto con la dimensione letteraria.
SAMO: l’isola in cui si diceva che era fosse nata. Era anche il luogo dove la dea si era sposata con
Zeus ed era il luogo in cui le due divinità ebbero una relazione segreta per circa 300 anni. Samo è
un’isola in cui una delle cifre prevalenti della divinità era proprio il suo essere vergine (Samo = isola
PRTHENIA). Samo era un crocevia di traffici mercantili e dunque le offerte votive provenivano da
tutto il Mediterraneo (lebeti, crateri, gioielli, scarabei egiziani). Anche sul sito di Perachora, vicino
Corinto, troviamo un tempio dedicato alla dea.
Sono stati trovati ad Argo, a Perachora e a Samo sono stati trovati dei modellini di casa di tipologie
diverse e altrettanti modellini di nave di cui non sappiamo ancora dare risposta. I modellini di nave
sono molto diversi: non hanno lo stile stereotipo tipico degli ex voto, ma sono molto specifici.
L’archeologo francese De Polignàc ha messo in rapporto queste due tipologie di offerte votive e ha
ipotizzato che i modellini di casa fossero dedicati da donne, mentre i modellini di nave da uomini
(differenza di genere nella dedica di offerte alla divinità). Con ogni probabilità Era, essendo i suoi
santuari collocati in prossimità di siti importanti dal punto di vista della navigazione, risulta essere
una divinità patrona della navigazione. Con ogni probabilità queste navi a questo alludono.
ARGO: Nel tempio di Era argiva (il più antico) si diceva anche che riposassero le spoglie mortali di
Arianna, figlia di Minosse e si diceva essa avesse una statua affianco a quella di Era. Com’ era finita
Arianna ad Argo? C’era finita perché Arianna, nell’ultima fase della sua vita, la fase che segue
all’abbandono di Teseo a Nasso, viene prelevata dal corteo di Dioniso. Arianna segue il dio anche
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quando Dioniso si reca in terra argiva per combattere contro l’eroe nazionale di Argo: Perseo, colui
che decollò Medusa. Quest’ultima era stata una bellissima ragazza di cui si era invaghito il dio
Poseidone. Il dio la violenta e gli dei la puniscono ingiustamente per essersi unita ad una divinità in
un recinto templare, trasformandola in un mostro. Perseo incastona la testa della Medusa nel suo
scudo e ciò gli permette di pietrificare chiunque lo guardi. Arianna combatte con il suo Dioniso contro
Perseo, il quale tuttavia riesce a pietrificare Arianna con il suo scudo (lo sappiamo Nonno di Panopoli
nell’opera “Le Dionisiache”, in cui appunto racconta le imprese di Dioniso). Questo è uno dei casi in
cui la creatura mortale trasmigra direttamente nella sua immagine di culto: è dunque Arianna stessa
trasformata in statua.
C’è un altro aspetto del culto di Era ed è connesso al nome di Eracle. Eracle significa proprio “gloria
di Era”. Il legame fra i due si sostanzia non nella biografia estesa della vita dell’eroe, ma nel momento
in cui l’eroe muore. Tornato dalla guerra, in compagnia di una concubina della quale si era invaghito,
trova ad aspettarlo Deianira. Lei, volendo riconquistare il suo amore, ricorda di essere stata salvata
da Eracle mentre il centauro Nesso cercava di farle violenza, facendo scoccare una delle sue famose
frecce avvelenate (intinte nel sangue dell’Idra di Lerna). Il centauro, però volendo vendicarsi dell’eroe
che lo stava uccidendo, dice a Deianira di intingere un batuffolo di lana nel suo sangue poiché questo
sarebbe stato un potente filtro d’amore” (in realtà il suo è un sangue avvelenato poiché appunto è
stato ucciso dalla freccia contaminata). Deianira ricorda questo filtro e, nel tentativo di riconquistare
l’amore di Eracle, intinge la veste dell’eroe nel sangue del centauro e la veste corrode Eracle.
Quest’ultimo, non sopportando il dolore, si suicida. Quando sta per morire, Zeus si ricorda di questo
figlio e chiede alla sposa di far tacere l’ira e adottare Eracle facendone suo figlio. Era fa questo gesto
che poi faranno gli imperatori romani: adotta Eracle facendolo passare attraverso le sue vesti (lo dice
Diodoro Siculo). In un’altra versione della storia Era allatta Eracle al seno facendone così suo figlio.
Questo tema di Era che allatta Eracle è un tema presentissimo: a volte Era è consenziente a volte
invece no: per esempio quando Afrodite viene ferita da Diomede, la madre le racconta che quando
Era era stata costretta da Zeus ad allattare Eracle, era stata ferita al seno proprio a causa della sua
irruenza.
Il mito dice che l’intera via Lattea sia nata proprio dal latte di Era che si ritrae all’irruenza di Eracle.
Per riassumere i tratti di Era:
-
Divinità locale
Il culto di Era argiva è coerente con la prima redazione scritta dell’Iliade: fra dimensione del culto
e dimensione panellenica del mito c’è un rapporto.
Dal punto di vista letterario la divinità è legata al matrimonio
Dal punto di vista cultuale la caratteristica della divinità è la verginità.
Accanto a questa Era c’è anche l’Era della navigazione (modellini di navi)
Esiste anche un’altra declinazione di Era il cui mito viene utilizzato per spiegare il nome dell’eroe
Eracle e la nascita della via Lattea.
Importante è soffermarsi su un secondo aspetto: ossia il rapporto fra dimensione locale e dimensione
panellenica, fra culto e declinazione letteraria di una vita di una divinità o di un eroe. La Grecia non
è uno stato ma è un arcipelago di città e di isole. Ciò importa dal punto di vista della religiosità. Ci
sono casi in cui le realtà locali rispecchiano le realtà panelleniche, talvolta invece siamo di fronte a
qualcosa di diverso, e ci sono in cui casi in cui il culto della religiosità locale è cosi insistente da
modificare anche la biografia mitica anche in chiave panellenica. Tipico esempio, la guerra di Troia.
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Esempi per capire questo rapporto:
-
-
1. Il caso di Teseo: Teseo ha una lettura molto ambivalente nelle fonti che lo descrivono.
Leggendo Plutarco scopriamo che Teseo era stato uno stupratore, che quando era anziano
aveva violentato Elena, ancora bambina, ma era anche un eroe molto pietoso. Quando torna a
casa da Creta e apprende la morte del padre, lui non arresta la pratica devozionale nei confronti
della divinità per ringraziarle del suo ritorno, ma solo dopo aver terminato la prassi sacrificale
si reca a verificare se veramente il padre si fosse suicidato gettandosi dall’acropoli. Ma il suo
legame con la divinità è forte (paragonabile ad Enea). Ci interessa per due ragioni:
Località vs panellenismo: in Odissea XI, viene descritta la posizione di Teseo nel momento in
cui l’eroe è nell’Ade. Viene ricordato il momento in cui Teseo porta via Arianna da Creta verso
la sacra rocca di Atena, ma non ne gode, perché Atena la uccide prima. Teseo non ha approfittato
di Arianna e in questo caso dunque l’eroe non è una figura negativa. Ciò che è evidente è che
questo spezzone è filo-ateniese e con ogni probabilità ha una redazione filo-ateniese (lo capiamo
anche per una ragione linguistica: infatti troviamo scritto DIONISOU →desinenza attica e non
DIONISOIO come di solito). Con ogni probabilità l’XI libro dell’Odissea quindi è un libro scritto
per un pubblico ateniese. Abbiamo dunque un esempio plastico di come la dimensione locale e
del culto, impronti la dimensione panellenica. Una visione del loro eroe molto diversa da quella
che restituiscono le varianti del mito.
Rispetto alla fortuna di questo eroe, possiamo dire qualcosa su un altro tema che ricade sul mito.
Il tema della reliquia. L’eroe Teseo ha un destino un po' strano. Viene accusato da tutte le fonti
di essere stato responsabile della morte del padre, di aver provocato il suicidio del padre. Teseo
entra prestissimo in una zona d’ombra. Egli ha finito la sua vita nell’isola di Sciro, un po'
dimenticato da tutti (Sciro: isola in cui di rifugia Achille in abiti femminili per scampare alla
guerra di Troia). Sciro si presta ad ospitare Teseo ormai anziano. Teseo, ormai anziano, durante
una passeggiata, scivola già da un sentiero di montagna e muore in un modo inglorioso. Ciò che
noi sappiamo è che era sepolto nell’isola di Sciro. Ad un certo punto, in un’occasione speciale
per gli Ateniesi (la battaglia di Maratona del 490 a.C.), gli Ateniesi vedono al loro fianco
combattere un’ombra (il fantasma gigantesco di Teseo). La cosa si fa interessante quando si pone,
dopo le guerre persiane, il problema di accentuare quella gloria panellenica che ha Atene. Si pensa
perciò di riportare a casa le ossa di Teseo per farne un vero e proprio oggetto cultuale. Ciò che è
interessante è la corrente fra il mito e il culto e il culto e il mito: Teseo ritorna in auge quando si
decide che si ha bisogno di un eroe nazionale. Il culto di Teseo è stabilito e quando arriva la
reliquia accade che anche l’immagine di Teseo è rivista. L’immagine biografica dell’eroe si
riplasma per servire al culto. Il culto eroico come dimensione civile e religiosa ha bisogno della
sua reliquia.
2. Il caso di Pelope: fatto a pezzi da Tantalo e dato in pasto alle divinità (banchetto e sacrificio
sono uniti). Le divinità arretrano inorridite, tranne Demetra che, ancora in preda al dolore per
la perdita della figlia Persefone, addenta la spalla di Pelope. La spalla d’avorio, che aveva
sostituito la spalla dell’eroe quando era stato ricostruito, viene recuperata e viene riportata nel
luogo in cui l’eroe aveva sconfitto il tiranno Enomao. Esso infatti sottoponeva i pretendenti
della figlia Ippodamia ad una cruenta gara coi carri. Ma Pelope sconfigge Enomao. A Pisa,
una regione greca dell’Elide, sorgerà Olimpia. Si racconta che ad un certo punto un pescatore
dell’Eubea (Demarato) avesse tirato su con le reti una spalla gigantesca e che poi fosse andato
dall’oracolo di Delfi dove si erano recati anche gli abitanti dell’Elide che chiedevano un
responso. L’oracolo dice a Demarato di restituire la spalla agli abitanti dell’Elide poiché
serviva loro per fondare il culto di Pelope.
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3. Il caso di Aristomene: eroe dei Messeni. Il re porta i Messeni alla vittoria. Si diceva che esso
fosse stato salvato dal cadere da un dirupo da un’aquila. Poi era stato sepolto vivo e aveva
seguito una volpe che scavava un tunnel sotterraneo, uscendo vivo. Si diceva anche che, in
fuga dalla Messenia, avesse trovato rifugio a Rodi e che gli abitanti di Rodi gli avessero dato
sepoltura. Quando però scoprono la sepoltura, il corpo di Aristomene è ancora integro e il
cuore è ricoperto di peli. Sembra che i cuori eroici siano sempre ricoperti di peli. Ad un certo
punto viene riesumato, il suo corpo viene riportato in Messenia, e nel 476, nella battaglia di
Leuttra (che vede Sparta sconfitta da Tebe sostenuta da una falange di Messeni) la falange dei
Messeni è guidata dal fantasma Aristomene. Pausania dice che i Messeni, nel culto di
Aristomene, legavano un toro ad una colonna: se il toro riusciva a scuotere la colonna ci
sarebbe stata fortuna per i Messeni, in caso contrario ci sarebbe stata sfortuna.
Lezione 8
1/03/2018
LA RELIGIOSITÀ DELL’URBE
La religiosità romana, ancor meno di quello che era quella greca, è una religiosità dogmatica: non ha
dogmi e non conosce nessun tipo di peccato. Questo perché quella romana è una religiosità fiduciosa:
il romano crede fermamente che la divinità sia dalla sua parte. È un modo di venerare gli dei che entra
a far parte di tutti gli aspetti della vita umana. Un altro tema forte è l’inclusività e l’accoglienza dei
culti che vengono da fuori.
Ritroviamo traccia di un modello che già abbiamo visto in atto nella religiosità greca: il problema
dell’unicità e della frammentazione della divinità. a Roma c’è un’intera categoria che gioca sul
concetto dell’uno e del molteplice (diverse declinazioni del divino). Ma la religiosità romana gioca
anche sul numero: abbiamo diversi Giovi ma li abbiamo anche al plurale (abbiamo la dea Venere, ma
abbiamo anche le Veneri, abbiamo Giunone ma abbiamo anche le Giunoni). La religiosità romana
infatti sembra essere una religiosità che ha pochi punti saldi e trasforma queste divinità in qualcosa
che è molteplice dichiaratamente da subito.
Castiglioni – Mariotti: i primi usi della parola religio hanno a che fare con il tema dello scrupolo, con
il fatto di essere perfettamente capaci di adorare la divinità. il tema del sentimento religioso associato
alla religio è un tema solo tangenziale. Il nucleo forte è proprio la pratica corretta nell’adorazione
della divinità.
ROMA è la divinità per eccellenza. Rispetto a Roma, il senato è il GENIUS tutelare: tocca al senato
proteggere il carattere divino dell’Urbe e alimentare la devozione religiosa dei cittadini. C’è la magia
di una città che è contemporaneamente città, comunità, e divinità. di conseguenza naturalmente
esistono, ancor più di ciò che accade per la religione greca, i professionisti del culto (la classe
sacerdotale). Ogni cittadino a venerare adeguatamente la divinità, non semplicemente la triade
capitolina (Giove, Giunone e Minerva), ma ciascuna divinità.
A questo si associa il carattere indigeno o esotico del culto. Che cosa abbiamo di unicamente romano
nella religione romano, e che cosa proviene da fuori? Sorgono alcuni problemi: né la monarchia, né
la Repubblica né l’impero si è concepito come antitetico/diverso dagli altri. La civiltà greca definisce
sé stessa come antitesi dei barbari (si possono dunque delineare delle caratteristiche che appartengono
alla religiosità greca, ad esempio la devozione religiosa, la corretta gestione di un simposio, il non
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uscire dagli schemi diversamente fissi; mentre i barbari sono l’antitesi dei civili, l’antitesi del greco).
Per ciò che riguarda Roma ciò non è possibile: rarissimamente troviamo considerazioni dogmatiche
che hanno a che fare con una pretesa autenticità, oppure una chiusura rispetto all’esterno. Gli unici
casi li troviamo nei territori di confine, dove le condizioni molto dure fanno sì che si generi un’identità
romana (meccanismo di difesa). Una teoria ormai decisamente sorpassata e capitanata da Vissola
(grande studioso di religiosità romana) si fondava sul presunto isolamento religioso dei Romani nella
fase delle origini (Roma avrebbe avuto una stagione di isolamento che le avrebbe permesso di
delineare un sistema devozionale suo proprio; questo momento di isolamento sarebbe finito nella
prima occasione che noi abbiamo di vedere un contatto tra i Romani e ciò che c’è fuori, ossia con i re
Etruschi → la dimensione religiosa dunque, tramite il contatto con il mondo etrusco, va
contaminandosi). Tuttavia questo aspetto di originario isolamento è stato accantonato.
Se unicità c’è stata, l’unicità è sparita tuttavia molto presto. Come avviene invece la formazione
dell’identità religiosa dei Romani? Bisogna fare due esempi e in entrambi i casi la stagione è quella
della seconda guerra punica:
1. 217 a.C. → i Romani scelgono di trasferire la statua di Venere (che è Afrodite), che svettava sul
cucuzzolo di Erice, e di portarla a Roma. Il culto di Venere di Erice è un culto molto antico ed è
il più importante di tutta l’area mediterranea. È un culto delle vette, particolarmente ricco: si
diceva che sul suo altare bruciassero tutta la notte le carni delle vittime sacrificali. Rappresenta il
luogo dove Enea, arrivando in Italia, ha deciso di dare sepoltura al padre Anchise. Quando Venere
arriva in Italia e viene fondato il culto, portata idealmente da suo figlio Enea, non si chiama
Venere ma Afrodite. Infatti il culto della KRAIA (divinità delle alture) è un culto greco. Ad un
certo punto, quando il rapporto con Annibale si fa incerto, i Romani decidono di prendere la statua
di Afrodite e di trasferirla sul Capitolino. I Romani hanno però una Venere che somiglia molto da
lontano ad Afrodite, perché si potrebbe paragonare alla dea Flora (la dea della vegetazione). È la
Venere dei giardini, degli orti, è l’Afrodite del popolo, che presiede agli aspetti più comuni, più
semplici, quotidiani. Dunque quando la statua di Afrodite giunge a Roma, c’è già un’altra divinità
Venere. C’è dunque un momento in cui le due divinità devono compenetrarsi: Venere scivola
nell’ombra per lasciare il posto a quella che effettivamente è la Venere dei Romani, la madre di
Enea. La Venere dei giardini, degli orti, degli amori semplici scivola sì nell’ombra, viene scalzata
dal Capitolino, ma rimane in molti culti della città. Veniva venerata infatti insieme ad una creatura
mitica, ossia la FORTUNA VIRILIS, stranissimo connubio tra seduzione amorosa, rappresentato
da Venere, e una declinazione al maschile della sorte positiva.
2. I Romani entrano in contatto con la grecità e nel 205 o nel 204 portano a Roma la famosa pietra
nera che rappresentava la dea Madre. Prima viene collocata nella casa di Scipione, poi nel tempio
della Vittoria e poi sul colle Palatino. La pietra è aniconica e ci pone una serie di problemi che
hanno a che fare con la natura aniconica delle rappresentazioni divine di Roma delle origini. i
Romani, secondo alcuni studiosi, hanno avuto una stagione di devozione cultuale, in cui
l’immagine non era antropomorfa bensì aniconica. La dea Madre non è semplicemente aniconica
ma è identificata con una figura divina importantissima, il cui culto ha radici frigie antichissime.
Il culto è a Pessinunte (Frigia): è chiamata Madre degli dei, ed è chiamata anche Cibele. Essa è
rappresentata con un leone ai suoi piedi, nella sezione concava del braccio tiene uno specchio e
porta sulla testa una o due torri. La rappresentazione della testa femminile con le torri è ancora
una delle rappresentazioni dell’Italia (è un modello rappresentativo che parte dall’VIII secolo a.C.
e arriva sino al V secolo d.C. e poi rimane come modello rappresentativo dell’Italia).
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Caratteristiche di Cibele:
-
-
È una divinità civile, matronale, che ha ai suoi piedi un leone, che reca in mano un bastone del
culto, tiene nell’altra uno specchio, e in testa porta una corona.
Patrona della montagna: veniva venerata negli antri di montagna
Contemporaneamente c’è un elemento di femminilità rappresentato dallo specchio (spesso
presente nelle rappresentazioni di Afrodite). Si ricollega perciò ad una dimensione molto ampia
che ha a che fare con la seduzione.
Veniva venerata nelle fessure della montagna, perché le fessure evocherebbero la vulva femminile
(dea della fertilità)
Protegge la città (lo si deduce dalla corona sul capo)
La madre degli dei è già delineata come divinità antropomorfa molto prima del 205 a.C.; è molto
significativo che, dovendo accogliere un culto come quello della grande Madre, i Romani scelgano
una pietra nera. Questo ci introduce ad un altro tema molto affascinante: contemporaneamente chi
studia le divinità antiche nella loro dimensione di prassi cultuale, si trova ad oscillare tra due sirene
opposte: da un lato gli studiosi vengono richiamati all’idea che si deve smettere di cercare le origini:
se si vuole leggere un fenomeno cultuale lo si deve guardare nel suo contesto. Questo è molto vero
in particolare per la religiosità greca, una religiosità non dello stato, ma delle città.
Quando Euripide mette in scena l’Elena, anche sul piano panellenico, il destino della donna si biforca.
Ciò è accaduto quando Stesicoro, a cui gli Spartani avevano commissionato un’ode per Elena, scrive
una nuova ode in cui la nuova Elena è quella di Euripide. La necessità e la volontà degli Spartani di
avere una storia di Elena che si conformasse ad un’eroina, riesce a trasformare il racconto a livello
panellenico. Perciò se noi non guardiamo il contesto, e guardiamo oltre, in generale, ci sfuggono molti
dettagli. Ma la verità è che la malattia delle origini è una malattia di cui non riusciamo a liberarci.
La dea Madre potrebbe essere assimilata a Era (Giunone), Afrodite (Venere), Atena (Minerva),
Artemide (Diana). Sembra perciò racchiudere le caratteristiche di molte divinità. Jane Arrison
immaginava che questa grande madre fosse il tessuto connettivo di tutte le divinità, sia dal punto di
vista del culto sia dal punto di vista della narrazione mitica.
IL MITO DI CIBELE
Cibele, madre degli dei, potente e fertile, venerata nei crepacci di montagna. Di lei si innamora Zeus
(parliamo di un culto che arriva dalla Frigia) che cerca di possederla, ma non riuscendovi genera con
lei, in un modo non ben delineato, una figura misteriosissima che si chiama Agditis, divinità di una
bellezza abbagliante ermafrodita. Le divinità, gelose della sua bellezza, lo privano delle sue parti
maschili e dall’evirazione di questa creatura cadono gocce di sangue che fertilizzano il terreno. dal
terreno nasce un albero il cui frutto verrà mangiato da una divinità (Nana). Mangiando il frutto, rimane
incinta e questa unione stranissima genera Attis. Attis, giovane di bellezza abbagliante e di cui le
divinità sono gelose. Vi sono moltissime rappresentazioni iconografiche di Attis: ha in testa un
berretto con la punta (un berretto frigio, ma è anche contemporaneamente il berretto degli schiavi
liberati e talvolta il berretto delle divinità messaggere). Questo giovane uomo sposa la figlia del re
frigio e al matrimonio dei due si presenta Cibele e, così come accade quando Zeus si presenta di fronte
a Semele, la vista di Cibele porta tutti alla follia. Attis in particolare si auto-evira e dalle gocce del
suo sangue nascono le viole. La madre lo trasformerà in un albero: il pino.
L’essere ermafrodito che nasce tramite una fecondazione non ben definita è presente in tutte le
mitologie orfico-pitagoriche (negli Uccelli di Aristofane, gli uccelli stessi cantano la loro Teogonia
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per ribadire la loro superiorità sul mondo degli uomini: gli uccelli sono eterni e derivano tutti da
quest’uovo primordiale che la notte sforna e cova senza essere fecondato. Da questo nascerà Eros,
divinità con le ali colorate ed Ermafrodita). Queste sono le condizioni molto arcaiche di un tessuto
narrativo ancestrale che descrivono il mito di Cibele in rapporto ad Attis.
IL CULTO A ROMA DI CIBELE
Ci racconta Livio che, di fronte alla minaccia punica, i libri Sibillini avessero suggerito di portare a
Roma la statua della grande Madre, prelevandola a Pessinunte, da cui la grande Madre proveniva. I
libri Sibillini avevano chiesto la mediazione di Attalo, il quale ha guidato la spedizione dei Romani.
Ma quando la barca che trasportava la pietra nera, è arrivata sul Tevere, si è incagliata. Una donna,
Claudia, considerata una donna dai facili costumi, chiede alla dea di consentirle di guidare la statua
fino a Roma se avesse pensato che lei fosse una figura integerrima. Claudia attacca la corda alla nave
e miracolosamente tira la nave in città. La statua viene prima collocata a casa di Scipione Nasica,
uomo integerrimo, poi nel tempio della dea Fortuna, e poi sul Palatino.
Veniva venerata dal 15 marzo al 21 marzo (Primavera). Erano feste orchestrate dai sacerdoti della
grande Madre (i Galloi). Questi sacerdoti non erano romani e i Romani non partecipavano alle
processioni in onore della dea. Le feste ruotavano attorno ai temi che fanno riferimento alla follia
della divinità. le feste per la grande madre avevano danze orgiastiche, anche sciamaniche (danze
molto simili a quelle dei dervisci rotanti che ruotano su sé stessi ed entrano in uno stato di trans.
Quando si entra in questo stato di possessione, l’uomo esce da sé ed entra in contatto con il divino→
condizione di chi entra in uno stato di trans, esce da sé stesso ed entra in contatto con la divinità). i
Galloi sono EKTHEOI: escono fuori di sé, fanno danze utilizzando strumenti a fiato e percussioni. I
sacerdoti sono vestiti di una veste color zafferano (tra il giallo e il porpora) che è una veste femminile,
e si truccano. Il tema della veste gialla è un tema che verrà utilizzato tanto in Aristofane parlando di
Dioniso: è la veste del sacerdote di Dioniso e della divinità, ma è anche una veste femminile. Il
culmine della festa era il momento in cui il sacerdote capo, in preda alla trans, si mutilava e arrivava
fino al punto di evirarsi (l’evirazione reale o evocata era il culmine della festa).
Il culto di Attis e di Cibele è in effetti uno dei culti che più hanno offerto al cristianesimo, iniziando
dalla cosa più semplice: il pino addobbato (nascita e morte della divinità). La castità dei sacerdoti:
essi sono un clan sacerdotale di eunuchi, e poi l’idea del sangue del dio che viene versato per nutrire
la comunità (evocando l’eucarestia). Perchè è così importante questo esempio della grande madre?
Per due aspetti:
 I libri Sibillini dicono ai Romani di inglobare un culto frigio. L’uso è politico: sconfiggere
Annibale.
 L’altro aspetto è che nessun Romano prendeva parte attiva: contemporaneamente i Romani
accolgono questo culto ma non lo interpretano in prima persona, poiché sentito come disturbante.
Il modo è inglobare ed essere in grado di tenere lontano. Esempio del culto straniante che viene
dalla Frigia e che viene inglobato a Roma.
C’è qualcosa di soltanto romano nella religione romana?
Quel che di più romano non c’è sono queste divinità: CONSIVUS, FLUVIONIA, FLUONIA,
VITUMNUS, SENTINUS, ALEMONA, divinità della macinazione dei cereali, dell’aratura, dei semi,
del nutrimento dei semi (etc.). Questo gruppo di divinità è ciò che di veramente romano che abbiamo
nella religiosità romana. Si chiamano in blocco INGITAMENTA e sono la migliore espressione di
quella specificità e di quella moltitudine di cui si è parlato primo. La religione romana si individua
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nel gesto, nel gesto non solo collettivo, ma anche nel gesto minuscolo. Queste infatti più che divinità
sono pertinenze divine che vanno evocate. L’atto religioso, il gesto è inutile se non viene
accompagnato dalla parola che evoca la divinità e le sue pertinenze.
Metamorfosi di Ovidio: vv. 164-180. Nell’empireo dove vengono tutti chiamati gli dei, non c’è
semplicemente un banchetto, c’è una città con il suo Palatino e le divinità abitano i palazzi e le divinità
stesse hanno persino i loro penati, ossia le divinità tutelari della patria.
Lezione 9
6/03/2018
Ci sono alcuni caratteri peculiari che ci permettono di capire la religiosità romana dandole una
giusta collocazione nel panorama dei politeismi antichi.
Alcuni ex voto provengono dalla Sardegna (precisamente dal museo di Cagliari) e che vengono dalla
baia di Chia, sito composito con delle aree anche puniche. Qui è stato ritrovato un insieme di ex voto
che hanno la caratteristica di essere dedicati alla divinità in ringraziamento o come auspicio. È stato
ritrovato un ex voto rappresentante una divinità che si chiama Bes, la quale veniva venerata in Egitto
e anche nell’area punica, e che veniva rappresentata come un nano. Di essa si diceva che aiutasse a
scongiurare il malocchio e che proteggesse il benessere e la serenità del devoto. In particolare Bes
era anche un dio guaritore, e queste statuette a questa sua caratteristica si riferiscono (particolare è il
modello iconografico a becco d’uccello).
Che cosa rende la religione romana veramente tale e che cosa la distingue dalla religione greca?
Questione della presenza o meno a Roma di culti che provengono da fuori. Peculiarità, specifica della
religione romana, di mescolare le carte: i Romani sembrano non accorgersi della difficoltà
rappresentata dal fatto di accogliere divinità che non appartengono al loro tessuto indigeno. A dire il
vero, in un passo dell’Eneide, quando Giunone e Giove si confrontano, Giunone chiede e pretende da
Giove che il tessuto della futura Roma (quando la guerra di Troia sarà finita) sia italico: cancellazione
dell’origine troiana per privilegiare ciò che di autoctono c’è. Tuttavia non si arriva mai ad intaccare
la natura aperta della prassi devozionale.
Uno dei casi più interessanti è quello che riguarda due divinità: i Lari. Molto spesso sono
rappresentati in coppia e hanno sempre questa iconografia: sono ragazzi molto giovani, vestiti di un
abito che arriva fino al ginocchio, allacciato con una cintura molto stretta. In mano hanno due oggetti:
•
•
un RHYTHON → sorta di coppa conica variamente decorata, molto spesso con teste d’ariete e
di leone, quasi sempre in bronzo, che venivano utilizzate nel simposio per mescere il vino. I
Greci e i Romani non bevevano vino puro, bensì vino tagliato secondo una procedura molto
rigida. Vi erano dunque questi grandi crateri in cui il coppiere mesceva il vino con l’acqua.
L’altro oggetto che tengono in mano è una patera, una tazza alla romana (KYLIX: in greco
→una coppa che si alza verso il volto). Questa tazza recava un medaglione all’interno spesso
decorato con una testa di Gorgone oppure con la testa di Dioniso (il convitato, alzando la coppa,
si trovava dinnanzi ad una sorta di MEMENTO MORI: la morte è in agguato, anche nei momenti
di allegria →c’è sempre un richiamo alla sobrietà.
Spesso i Lari vengono rappresentati con al centro una figura molto più seria: la divinità suddetta è il
GENIUS: il genio tutelare della casa.
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I Lari sono interessanti e pienamente romani. Maurizio Bettini ha scritto un saggio in cui accosta i
Lari alle statuette del presepe; dice che i LARES COMPITALES venivano festeggiati l’ultimo giorno
dell’anno. Si trattava dei Lari non di una singola famiglia, ma di un intero quartiere di Roma. Queste
statuette dei Lari venivano adornate con delle piccole palle di lana e con delle bambole. A questa
venerazione dei LARI COMPITALES, Bettini mette in relazione un’altra pratica: a Natale i Romani
celebravano i Saturnalia, in onore del dio Saturno sotto la cui egida il mondo aveva visto il dispiegarsi
dell’età dell’oro. Fra i riti che avvenivano nei Saturnalia, uno in particolare prevedeva che venissero
costruite delle piccole statuette di gesso, i SIGILLARIA, che venivano vendute nei banchetti e che
costituivano i doni dei Saturnali. Dopo qualche giorno, si celebrava appunto la festa dei Lari
Compitali. Ciò che Bettini dice, mettendo in relazione il presepe con i Lari, è che effettivamente le
due cose sembrano molto simili. In entrambi i casi abbiamo infatti statuette di gesso. Tuttavia c’è una
differenza: mentre la tradizione del presepe (che noi collochiamo nello stesso periodo in cui i romani
collocavano i Saturnalia) prevede che le statuette abbiano tutte una particolare iconografia, per quello
che riguarda Roma è tutto diverso (i Lari sono divinità che nascono come divinità molto intime della
vita familiare: in camera, in cucina → sono ciò che corrisponde al culto familiare, sono le divinità
esclusivamente romane che ciascuna famiglia venera). Quando però si festeggiavano i Lari nel
quartiere e non nella famiglia, le statuette appartenevano a tutti: non abbiamo mai traccia di un
momento oppositivo, perchè tutte le statuette, di qualsiasi tipo, potevano convivere. Due esempi che
appartengono a fasi molto diversi:
-
I LARES di Trimalcione descritti da Petronio: i suoi lari sono statuette sì, ma sono anche una
parte di sé.
I LARES di Alessandro Severo: quest’ultimo addirittura aveva due LARARI. Il suo biografo ci
dice che “se non si era giaciuto con la moglie, al mattino Alessandro sacrificava nel suo larario”
(doveva essere puro). Non è la Roma delle origini, ma è la Roma che ha assorbito tradizioni
religiose straniere. L’impero Romano è quello che più si plasma costruendo un’identità propria e
contemporaneamente accogliendo l’identità dell’altro: per cui nel larario di Alessandro Severo
c’era Orfeo, Virgilio, Abramo, Cristo e altri simili. Per la cultura latina tutto si costruisce con una
biblioteca già a disposizione e per quel che riguarda i Lari, ciò è evidentissimo.
VERGINE ASTREA (costellazione della Vergine)
È una creatura mitica singolare: i Romani sostengono di averla accolta dal mondo greco. Secondo la
tradizione Astrea sarebbe figlia di Astreo, oppure di Zeus e di Temi. Si diceva che essa fosse stata
una delle ultime divinità a lasciare la terra degli uomini alla fine dell’età dell’oro: essa segnala che
l’età dell’oro è veramente finita. Nonostante tutto ciò che dicevano i Romani, Astrea in Grecia non
esiste. Dunque i Romani hanno accolto qualcosa dal mondo greco e lo hanno trasformato in qualcosa
di tipicamente romano, la creazione della vergine Astrea che finisce per essere identificata con la
costellazione della Vergine, per coincidere poi sia con quel momento in cui finisce l’età dell’oro (la
terra non produce più i suoi frutti) sia con quel momento in cui ritorna l’età dell’oro (REDIIT VIRGO:
“ormai ritorna la Vergine, ormai una nuova progenie scende dall’alto dei cieli” dice Virgilio
nell’Eneide). È interessante perché il momento in cui il ciclo della storia romana si rinnova coincide
con la propaganda augustea. L’elemento della mitologia greca è riplasmato e rifunzionalizzato
per lo scopo dell’ideologia di Augusto. Questa scelta di utilizzare Astrea per segnalare questa catarsi
del ciclo dei secoli, non è limitata al solo impero romano, ma la ritroviamo in una stagione, ossia il
regno di Elisabetta I d’Inghilterra (prima metà del 1500). Essa, alle prese con la necessità di creare
un tessuto di propaganda che le consentisse di dominare un impero, quello inglese, in costante
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crescita, sceglie di richiamare il tema della costellazione della VIRGO, della vergine Astrea.
Elisabetta vuole e dichiara esplicitamente di incarnarsi nella vergine Astrea.
Una delle due caratteristiche peculiari della religiosità romana è la straordinaria capacità di assorbire
divinità e caratteristiche del culto che provengono da altre regioni e di restituirle come un fattore
fortemente caratterizzato.
L’altro elemento è il desiderio di permeare l’intero tessuto della vita quotidiana con una miriade di
divinità e di competenze divine. Questo viene dal fatto che effettivamente Roma, oltre alla classica e
famosa triade capitolina e ad alcuni eroi che provengono però dalla religiosità greca, è la vera divinità.
La monarchia, il senato e l’imperatore sono ministri del culto di questa divinità, ossia Roma. Il dio è
dunque nelle piccole cose. Ecco dunque la nascita di questa categoria molto particolare che appartiene
solo alla religiosità romana: gli INDIGITAMENTA. Sono divinità che si sa benissimo che cosa devono
fare ma che hanno una zona di pertinenza piccolissima. Molto interessante è un affresco che Ovidio
ci dà nel primo libro delle Metamorfosi , ossia la Teogonia di Latina e la successiva antropogonia (le
pietre che Deucalione→figlio di Prometeo e Pirra→ figlia di Epimeteo si sono gettati dietro le spalle
si plasmano fino a diventare le ossa, e la terra che sta loro intorno forma i tessuti molli). Ma nel primo
libro delle Metamorfosi c’è soprattutto spazio per gli dei. Il paesaggio dell’Olimpo è scarnificato, ci
sono sostanzialmente gli dei. Gli dei hanno i loro quartieri e collocano i loro penati in certe zone della
città. Le grandi divinità ma anche questo brulicare di divinità che si riuniscono come se fossero in
una città qualsiasi, queste sono gli INDIGITAMENTA.
Essi sono dei certi ma temuti. Il nome serve ad indicare con la parola qualcosa. Un altro tratto infatti
connesso a questo e molto tipico della religiosità romana è l’essere convinti sì che la divinità si veneri
nella pratica devozionale, e dunque nel gesto, ma senza la parola significante tutto questo non ha
valore: il gesto muto è un gesto sterile. Plinio il Vecchio dice che è inutile sacrificare agli dei senza
alcun tipo di preghiera. Questa affermazione è collocata all’interno di un capitolo: “Se le parole
possiedano una qualche efficacia proattiva”. La risposta è si.
INDIGITAMENTA ad indicare il gesto del fedele che indica quella specifica divinità e la richiama
ad assolvere il ruolo che le è assegnato. Agostino, nella “Città di Dio”, parla degli INDIGITAMENTA
dell’infanzia. Qualsiasi cosa è parcellizzata, frantumata in questo caleidoscopio di divinità e la cosa
più importante in assoluto è quella di venerarle correttamente. Il punto non è sacrificare alla divinità,
e nemmeno quale animale si sacrifica alla divinità, il punto è farlo correttamente, con la parola che
deve essere proattiva.
COLLEGI SACERDOTALI
Gli Indigitamenta, per quanto tratto peculiare della religiosità romana, sono caratteristica molto
diffusa su tutto il tessuto italico. Abbiamo una testimonianza straordinaria (documento religioso più
importante di tutta l’antichità) ritrovata a Gubbio: insieme di tavole di bronzo scritte tutte in lingua
umbra. Queste sono 5 tavole scritte in versi (verso molto simile al saturnio) → tavole GUBINE o
EUBUBINE (altre due sono invece logorate) in cui vengono descritti in modo minuziosissimo i riti
che competono al collegio dei FRATRES ATIEDII e che presiedono al culto di IU-PATER, Giove.
Sono tavole che appartengono al II-I secolo a.C. Perché sono importanti? Perché noi non abbiamo
quasi nulla che ci provenga dalla Roma delle origini, se non queste tavole. Esse descrivono le pratiche
di un collegio sacerdotale di Gubbio, in cui il tema degli INDIGITAMENTA emerge fortissimo. Esse
si aprono con un catalogo dei singoli uccelli che vanno evocati: ogni uccello ha la sua divinità.
Ogni singolo momento della prassi sacrificale è descritto minuziosamente. Le divinità sono piccole.
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In sintesi, bisogna dire che il tema degli Indigitamenta si colloca non solo come condizione peculiare
attraverso cui la città di Roma venera la divinità, ma ancora una volta sembra evocare una dimensione
in cui Roma viene a contatto con il tessuto italico. Bisogna dire che dal punto di vista dell’apertura
con cui i Romani accolgono figure da fuori, a questa aperura fa da contraltare una rigidità della prassi
religiosa. Il rapporto che i Greci intrattengono con il divino è sì scandito da alcune norme molto
precise, ma è anche in qualche modo lasco e performante (è possibile per l’individuo ricavare una
propria narrazione degli eventi). Al contrario la religiosità romana, dal momento che si compone della
triade capitolina, della dea madre, della vergine Astrea e di queste divinità minute, è rigidissima: c’è
pochissimo margine lasciato all’individuo o alla comunità. La regola è quella, e non è lasca, a
differenza di quella greca. La religiosità romana è scandita sia dal punto di vista della prassi, sia dal
punto di vista della parola rituale.
Le tavole sembrano evocare delle pratiche che risalgono a 1000 anni prima di Cristo.
La religiosità di Roma delle origini ha poco da offrirci in termini di documentazione. Sappiamo però
molto di più della comunità di Ariccia. Essa aveva una sua identità religiosa molto ben individuata.
James Frazer, partendo da Ariccia e dal bosco sacro di Nemi, ha orchestrato il grande affresco che
porta il nome di “RAMO D’ORO”. Noi sappiamo che c’era una lega della città, che questa lega
comprendeva una serie di popolazioni limitrofe e che in effetti in questo bosco di Ariccia, si venerava
Diana (DIANA NEMORENSIS). Questa Diana veniva venerata con alcune caratteristiche particolari
e sotto tre aspetti precisi:
1. Uno collegato all’aspetto della sua natura legato alla sua natura cacciatrice
2. Un volto che corrispondeva alla dea Ecate (divinità degli inferi)
3. Un volto che la ritrae come divinità della natura
Di questa divinità abbiamo una documentazione su moneta coniata da ORACOLEIUS
(probabilmente nel 43 a.C.), che ritrae su un lato il nome del dedicante e il busto di Diana, e sull’altro
tre divinità che si tengono abbracciate e sono tutte e tre Diana. Una tiene un arco (divinità cacciatrice),
quella centrale ha il volto consumato (Ecate → divinità infernale), quella a destra tiene in mano il
fiore del papavero (natura). Questo schema corrisponde ad un insieme di dati documentari che ci
permettono di ricostruire qualcosa in più sulla religiosità romana delle origini.
RAMO D’ORO di Frazer: opera di fusione tra discipline diverse. Frazer inventa una disciplina, quella
dell’antropologia culturale. Egli articola un sistema sterminato a partire dal rito ospitato nel bosco di
Diana NEMORENSIS. L’impianto dell’opera non ci è ignoto e c’è una forte prevalenza dell’impianto
immaginifico. Frazer parte da un quadro: “Il ramo d’oro” di Turner. È un’opera che parte da un mito
e da un rito antichi ma che ha un impianto narrativo sostanzialmente romanzesco. Il rito di Diana
Nemorensis chiarisce molto bene l’identità romana.
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Lezione 10
8/03/2018
Ubris-Atimia-Stuprum
1) UBRIS: tracotanza, violenza, superamento dei limiti consentiti.
2) ATIMIA: è la vergogna che si genera dalla consapevolezza del biasimo sociale che in greco ha il
nome di PSOGOS. In una complessità che si nutre davvero poco del complesso di colpa, ciò che
genera l’azione è il senso di vergogna. Quasi sempre la UBRIS è la vergogna delle donne stuprate
e non degli stupratori.
3) La parola stupro è una parola latina: ma in latino la parola STUPRUM non significa violenza
sessuale, bensì adulterio. Di questo abbiamo prova sin dal primo impero: nella Lex Iulia del 18
a.C. è la legge che Augusto ha promulgato per mettere un freno agli adulteri e alla corruzione
della Roma del suo tempo, pensando particolarmente alla figlia Iulia. Iulia infatti inaugura a Roma
la stagione dell’esilio sull’isola. È esiliata dal padre ad Aventotene con la madre, e gli aneddoti
vogliono che nessun uomo potesse mettere piede sull’isola. Il tema della donna sull’isola, sulla
riva del mare, è il motivo ispiratore dell’elegia (il tema della donna che si lamenta sulla riva del
mare → Ovidio, Properzio). Si può constatare dunque che nella legge la parola stuprum è collegata
all’adulterio.
In effetti il punto non è la violenza fisica, la quale è assolutamente consentita (è connaturata
all’HUMUS della religiosità greca). Ciò che non deve mai accadere è che a questa violenza si
accompagni la corruzione dell’animo femminile.
Letteratura greca: Lisia → l’orazione è pronunciata da un marito accusato di aver ucciso impunemente
l’amante di sua moglie. Il legislatore ha ritenuto che i violentatori meritassero una pena minore dei
seduttori, perché i seduttori corrompono anche gli animi delle vittime. Mentre lo stupratore compie
solo una violenza fisica, il seduttore invece necessita della pena capitale, perché esso corrompe tutto
l’ambiente in cui si ritrova a sedurre. Ci sono dei casi in cui è del tutto evidente come la presenza di
un seduttore all’interno della famiglia, sia un motivo sufficiente per scrivere un grande punto di
domanda non solo sui figli che nascono dopo la relazione, ma anche su quelli precedenti la relazione
stessa. Abbiamo più di una testimonianza infatti che ci dice che una delle ragioni principali dell’ira
di Atreo nei confronti del fratello Tieste, fosse il fatto che Tieste avesse sedotto la moglie Erope. E
dunque Atreo dubita anche di Menelao ed Agamennone, figli nati in precedenza: essi potrebbero
essere non suoi.
Cultura latina: Lucrezia, moglie del nobile Collatino, viene violentata da Sesto Tarquinio, figlio di
Tarquinio il Superbo. L’aneddoto, narrato da Livio, segnala la fine della monarchia a Roma e l’inizio
della Repubblica (è pertanto anche un racconto eziologico). Sesto Tarquinio si invaghisce di Lucrezia
e nel cuore della notte la violenta. Lucrezia si uccide con un pugnale. Pugnale che segnala un’assenza
di ATIMIA, o meglio il rifiuto dell’ATIMIA, perché il pugnale è un’arma maschile. Lo narra Livio
nel I libro dell’AB URBE CONDITA. Lucrezia si toglie la vita allo stesso modo in cui si uccide l’eroe
Aiace. Per altro l’uccisione per spada è presente nella cultura tradizionale giapponese e anche in
questo caso, il tema è l’ATIMIA, la vergogna. Aiace si suicida per lo PSOGOS sociale dei suoi
compagni che lo considerano pazzo, e i KAMIKAZE si suicidano perché si vergognano di non aver
fatto il loro dovere nei confronti della patria.
L’esempio di Lucrezia pervade l’immaginario del tema sino al medioevo fino a Christine de Pisan,
nata attorno alla metà del 1300, che dopo aver perso il marito, si manteneva con la scrittura: ballate
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per il marito defunto. Anche la scrittrice parla del caso di Lucrezia e prende posizione contro la
violenza perpetrata dall’uomo nei confronti della donna. Nell’antichità invece il tema forte è il
consenso, il dolore o l’assenza di dolore e questa dimensione di piacere che la cultura antica associa
al tema della violenza.
La paura di diventare grandi
La paura dello stupro, per ciò che riguarda la religione del mondo classico, dà origine ad un insieme
di pratiche cultuali che girano attorno alla figura di Artemide. In particolare, specie in Laconia a
Sparta, venivano organizzate delle danze che avevano lo scopo di esorcizzare la paura dello stupro.
Ne abbiamo in Messenia e in Laconia. Tutte si ricollegano al culto della dea Artemide. Le feste si
collegano a questa divinità in maniera non casuale: Artemide è infatti la divinità sempre vergine che
protegge in modo ossessivo il corpo femminile in un momento in cui i corpi delle donne diventano
grandi (passano dall’essere PARTHENOI all’essere sposati). Nel momento dell’iniziazione sessuale
appunto, le ragazze vengono colte dal timore di conoscere la sessualità, e dunque sono colte dal terrore
dello stupro → per questo motivo venivano organizzate tali danze. Pausania (I-II d.C.) ci dice che a
10 km fuori Sparta (a Carie), c’era un bosco di noci, e ogni anno le ragazze non ancora donne,
entravano in questo bosco e ballavano il cosiddetto “ballo delle noci” al fine di esorcizzare la paura
di diventare grandi, e al fine di allontanare anche la paura di un evento passato (alcune ragazze in
tempi passati infatti erano state stuprate da alcuni assalitori Messeni, e per sfuggire all’assalto, esse
si rifugiarono all’interno del bosco delle noci dove si impiccarono tutte sugli alberi: suicidio collettivo
tramite l’impiccagione). Le ragazze che ballavano si chiamavano infatti “piccole noci” per richiamare
l’idea delle fanciulle appese agli alberi.
La violenza non è affatto grata alla fanciulla, è uno spettro agghiacciante. Il timore dello stupro può
nascondere in alcuni casi il timore del passaggio d’età. Dunque ogni tipo di rapporto sessuale può
essere potenzialmente uno stupro. Il tema del dondolare delle ragazze impiccate agli alberi è molto
presente nella cultura.
In un vaso infatti è raccontata un’altra festa: la festa
delle AIORA (altalene), una festa ateniese in cui una
volta all’anno le ragazze salivano sulle altalene e si
dondolavano per esorcizzare la paura di diventare
grandi. Ecco, allora, il mito delle origini: un pastore
di nome Icario ricevette da Dioniso il segreto del
vino. Di questo nettare egli fece dono ai suoi colleghi
pastori che, credendosi avvelenati, lo uccisero. La
fedele cagna Maira corse a cercarne la figlia Erigone
che, di fronte al cadavere del padre, lanciò una
maledizione prima di impiccarsi per il dolore: da
quel giorno, nella ricorrenza del suo gesto, tutte le vergini si sarebbero impiccate sino a quando gli
assassini del padre non fossero stati trovati ed il suo sacrificio espiato.
E così andò; di fronte a quel susseguirsi di impiccagioni verginali gli abitanti di Atene si rivolsero
all’oracolo delfico, che sentenziò la necessità di inventare un gioco che potesse simboleggiare
l’impiccagione senza causare la morte. Così nacque il rito dell’altalena. Il fatto che il dondolare serva
ad esorcizzare la paura si vede anche nel vaso → nel vaso è rappresentata la fanciulla che si dondola
e un satiro che la spinge: il satiro è l’emblema della violenza sessuale.
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Questo tema lo si ritrova in un romanzo contemporaneo e nel film tratto da questo romanzo scritto da
EFGHENIDES: “Il giardino delle vergini suicide”. In questo caso un gruppo di sorelle sono tenute
dai genitori in una condizione di particolare reclusione e soggette ad un rigido protocollo
comportamentale. I ragazzi tentano di accostarsi ad esse, ma ad una ad una esse si tolgono la vita. La
spia che ci guida verso un modello antico, è il fatto che nello stesso periodo in cui le fanciulle si
tolgono la vita, gli alberi della città muoiono.
Rifiuto della sessualità, di diventare grandi → importante è, a tal proposito, la questione del corpo
femminile (ben rappresentata da Ovidio). Emerge soprattutto con le Metamorfosi. Un esempio è
quello di Cenile (storia narrata nel XII libro delle Metamorfosi). La giovane, bellissima, un giorno
cammina sulla riva del mare. Viene notata da Poseidone che la violenta. Il piacere che deriva al dio
lo rende indulgente: Poseidone chiede a Cenile di esprimere un desiderio ed essa desidera di diventare
un uomo impenetrabile a qualsiasi aggressione esterna. Esperienza dello stupro →il corpo femminile
desidera essere un personaggio maschile. Cenile, divenuta Ceneo, va in battaglia e guida il suo popolo
nella lotta contro i Centauri. I Centauri provano in ogni modo a colpirlo, ma non c’è niente da fare: è
diventata impenetrabile e dunque nulla la può toccare. Lotta fino alla fine e solo quando i Centauri la
sommergono di una catasta altissima di tronchi, si placa. Non sono però riusciti a ferirla perché il
corpo dell’uomo non può essere violato. Un testimone disse che da questa enorme catasta fosse nato
un uccello, ossia la fenice (l’uccello immortale che rinasce dalle sue ceneri). Il corpo femminile si
trasforma in un corpo maschile e dal corpo maschile nasce la fenice (uccello immortale dalle ali di
fuoco).
Questo tema dello stupro connesso al corpo, su cui Ovidio insiste tantissimo, nel caso di
Cenide/Ceneo è collegato ai Centauri. I Centauri che combattono contro Ceneo, non sono scelti a
caso. Essi infatti sono tutti figli di Issione. Quest’ultimo, secondo il mito, sposa una fanciulla che è
probabilmente una semidea (Dia). Issione promette al suocero di dargli una ricchissima dote nuziale,
ma quando lo accoglie in casa lo uccide barbaramente (violazione della prima legge sacra per i Greci:
l’ospitalità). Zeus però ha pietà di Issione e lo prende con sé sull’Olimpo ma l’uomo tenta di violentare
Era. Zeus, a questo punto non può lasciare impunito il mortale e così crea una forma di Era fatta con
le nuvole che Issione scambia per la vera divinità. Egli si lancia sulla nuvola e proprio da questa
violenza sulla nuvola, nascono i centauri. Dunque il tema della violenza sessuale corrisponde alla
genesi dei centauri, che sono esseri polimorfi ed esseri particolarmente connotati dal punto di vista
della violenza sessuale. Il centauro Nesso tenta di violentare Deianira, futura moglie di Eracle. In
generale peraltro, i centauri sono degli stupratori di gruppo. Esistono infatti storie di gruppi di centauri
che irrompono in una festa e provano ad usare violenza. Perciò rappresentano un po' la
personificazione dell’idea della violenza sessuale e non a caso si legano a Cenide/Ceneo.
Analisi del racconto ovidiano di Cenide: il corpo femminile ha paura che possa ripetersi nuovamente
la violenza, perciò vuole che il suo corpo prenda le sembianze di quello di un uomo: strategia
anatomica dell’indurirsi → secondo la tradizione infatti il corpo femminile è morbido, quello
maschile invece è duro. Diomede infatti riesce a ferire Afrodite (nulla ostacola l’immersione della
lancia nel corpo della divinità. Omero infatti narra: Diomede, sapendo bene che Afrodite è fragile e
vulnerabile come le altre donne, la trafigge (contrapposizione anatomica tra il corpo femminile che è
morbido, e quello maschile che è duro).
Le ragazze di Artemide, per affrontare la minaccia dello stupro, mettono in atto una strategia. Esempi:
-
Storia di una ragazza devota ad Artemide: Aspalide. Essa ha deciso di consacrare la sua vita alla
dea. Viene però adocchiata dal tiranno Tartaro, che la violenta. Il fratello di lei la vendicherà e
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-
ucciderà il tiranno che getterà in un torrente e che da quel giorno si chiamerà Tartaro. Il corpo di
Aspalide, che si era suicidata tramite impiccagione, scompare e si ritrova in un tempio di Artemide
trasformato in statua (indurimento del corpo).
Storia della creatura Britomartis: vergine cacciatrice → è una ninfa (dunque occupa una posizione
liminare tra mortalità e immortalità), e fa parte del seguito di Artemide. Si colloca a Creta, luogo
in cui incontra il suo assalitore Minosse. Quest’ultimo prova a farle violenza ma Britomartis si
getta in acqua per scampare alla sua minaccia fisica; mentre sta nuotando viene raccolta dalle reti
di un pescatore. Da quel giorno si chiamerà DITTINNA (ragazza impigliata nelle reti → da
ITTYS = pesce). Il pescatore però prova anch’esso a farle violenza. Ma la ragazza scappa e
scompare. Dopo pochissimo, verrà ritrovata nel tempio di Artemide sull’isola di Egina,
sottofroma di statua.
A queste ragazze del mito sembrano offrirsi due chance: o la metamorfosi vera concessa dalla divinità
(indurimento di genere → donna > uomo) oppure la mutazione in statua. Perché la statua? Statua e
corpo di donna sembrano essere ossimorici, ma perché questa cosa è possibile? Ciò si lega alla
concezione che della statuaria antropomorfa avevano i Greci e Romani. La statua non vive in
discontinuità rispetto al corpo umano: la statua non sta al posto di Aspalide ma è Aspalide stessa. Ciò
accade per una concezione particolare, ossia l’idea che la statua di pietra o di marmo non sia
nient’altro che il corpo privato dell’elemento liquido.
Il caso contrario invece è quello di Pigmalione. Egli si innamora di una statua. Afrodite trasforma la
statua in una donna vera e propria.
Aristotele invece afferma che quando le ragazze hanno il timore della sessualità, tutto il loro corpo si
pietrifica in qualche modo; il sangue smette di correre. Esse rinunciano a diventare grandi. Anche
questa è una sorta di pietrificazione.
Un altro elemento interessante è la posizione della divinità, nel racconto Ovidiano. Poseidone non
accenna in nessun caso all’ipotesi della seduzione. Non usa lo STUPRUM nel senso che gli attribuisce
la Lex Iulia, ma al contrario Poseidone violenta proprio Cenide. Altri esempi che ci riconducono a
questi temi:
-
-
-
Caso di Medusa: protagonisti sono una ragazza e Poseidone. Il luogo in cui si consuma la violenza
è il tempio di Artemide. Ovidio, nel libro IV delle Metamorfosi, narra la storia. “Medusa era di
una bellezza meravigliosa e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei suoi capelli”. In
questo caso Medusa è trasformata in un mostro e viene punita proprio perché l’unione è avvenuta
all’interno di uno spazio sacro.
Altro caso noto: Danae. Essa intrappolata dal padre a Crisio in una torre, perché un oracolo gli
aveva predetto che il figlio della figlia lo avrebbe ucciso o spodestato. Zeus, innamoratosi di lei,
la violenta. Il padre non crede alla sua versione dei fatti e non crede che essa sia realmente incinta.
Per questo motivo pone la figlia in una cassa e la getta in mare. Il fatto di buttare una cassa sulle
onde coincide di fatto con la sentenza capitale.
Altro caso: Leucote, figlia di Oriano, sedotta e violentata da Apollo. Il padre non crede che sia
stato il dio a sedurla e a violentarla e dunque la fa seppellire viva.
Caso di Apemosine, discendente alla lontana di Minosse. Va in esilio con il fratello sull’isola di
Rodi, perché un oracolo aveva profetizzato al padre che egli sarebbe stato ucciso dai figli. Ermes
però si innamora di lei e la violenta. Il fratello di lei non crede a questa versione e la prende a
calci finchè la uccide.
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Riflessioni:
Il peccato di UBRIS, di arroganza e di tracotanza, ricade sempre sulla donna. È di Medusa, di
Apemosine, di Cenide l’ATIMIA, ossia la vergogna collettiva. A questo si lega un tema che Ovidio
dispiega al massimo grado, un tema che è fondamentale: la divinità è una divinità stupratrice. Non
c’è un solo esempio, in tutte le Metamorfosi, in cui la vittima decida di unirsi spontaneamente alla
divinità. Quando la giovane Dafne viene adocchiata da Apollo, Apollo prova a convincere la ninfa,
ma lei fugge comunque. A questo rifiuto non rimane altro ad Apollo che la violenza. Come se unione
sessuale del dio con la creatura mortale, non potesse esistere se non attraverso una relazione di
imposizione fisica. Il fatto che la divinità stessa sia una divinità stupratrice, influisce di gran lunga
sulla mentalità antica e sul modo di concepire la violenza.
Se infatti la divinità è all’origine fatta di violenza sessuale, è chiaro che la violenza sessuale è
considerata un particolare di scarsa rilevanza. Esiodo dice sempre che non c’è nessuna corrente
d’affetto, di sentimento che passa attraverso queste unioni primordiali, quindi di conseguenza
arriviamo fino ad Ovidio. Il tema della violenza dunque si gioca bene pensando alla concezione
della divinità antica e alla concezione antica della corporeità.
Lezione 11
12/03/2018
Il bosco di Ariccia e il rituale ad esso connesso sono importanti per 2 ragioni:
-
Questo gruppo di riti costituisce il punto di partenza per quell’operazione che ha a che fare con il
ramo d’oro di Frazer. Una parte del suo ragionamento ruota attorno ad una figura importante,
ossia quella di Adone. Esso si lega ad Afrodite e il suo caso mostra benissimo qualcosa di
importante. Quando Frazer parla di Adone, il suo Adone è quello che i ritualisti di Cambridge,
chiamavano il demone dell’anno, il demone della vegetazione. Adone è il simbolo di quella
concezione della divinità che prevede che tutti gli dei siano espressione del ciclo della natura. Le
sue osservazioni su Adone hanno fatto il loro tempo. eppure Frazer appartiene a quel filone di
storia degli studi, davvero mitopoietico, in cui si doveva studiare il mito in maniera scientifica. il
ramo d’oro di Frazer è soprattutto un’opera di letteratura. Esso parte dal dipinto di Turner che si
intitola per l’appunto “Il ramo d’oro”. La sua impostazione ermeneutica è quella di un viaggio di
esplorazione e di scoperta in cui visitare molte e strane terre lontane. Il racconto del mito e del
rito del ramo d’oro con cui inizia l’opera, non cessa mai di essere letto e interpretato. Perché
questo mito intorno al lago nel bosco di Nemi, sui colli Albani, è così importante, per lo studio
della religione romana? Perché proprio lì si condensa la capacità dei Romani di adattare e
riplasmare al mondo romano le suggestioni che provengono da aree diverse. Il bosco di Nemi si
intreccia da subito con la storia politica di Roma. La religione romana è infatti una religione
dell’Urbe. Che cosa c’è a Nemi?
Tema dell’Artemide taurica che era una divinità adorata attraverso dei sacrifici umani. Frazer
individua due elementi fondamentali:
-
Culto di Diana Nemorensis (Diana dei boschi)
Esistenza del culto della dea ad Ariccia
Da Catone il Censore sappiamo che ad un certo punto gli abitanti delle cittadine limitrofe (tra cui
Tusculo e Pomezia) a Roma avevano costituito una lega che aveva sostenuto la creazione di un
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santuario di Diana Nemorensis. Il dedicatario sarebbe un certo Eberio, che proveniva da Tusculo.
Sicuramente viene costruito prima del 495 a.C. perché Pomezia è stata distrutta nel 495. Questa è una
prova tangibile. Mentre la dea Diana veniva venerata ad Ariccia, a Roma questa sua declinazione, era
sostanzialmente sconosciuta. E quale declinazione di Diana sembra essere viva ad Ariccia? Quella di
Diana identificata con Vesta (dea del focolare: Estìa dei Greci). Il bosco di Ariccia dunque è sede di
un culto particolare, di un culto che viene da fuori. La statua di Diana infatti sarebbe la statua che
Oreste e sua sorella portano dalla Crimea sino a Roma.
Anche il tema dell’immagine della dea che viene nascosta è una questione importante che in questo
racconto è fortemente debitrice del rito e della religione greca. Questa Diana dunque arriva ad Ariccia
e non è presente a Roma. C’è un’iscrizione proveniente da Ariccia (100 d.C.) e che è molto importante
perché è un’iscrizione dedicataria di un panettiere, Publio Cornelius Pistor, che con sua moglie dedica
l’iscrizione alla Diana del Bosco che è anche Vesta. Dunque ancora nel 100 d.C. ad Ariccia la
connessione tra Diana e Vesta è molto sentita. Ci sono però altre testimonianze, che sono dei veri e
propri racconti.
Servio ad Eneide 6, v.136: il ramo d’oro serve ad Enea come talismano per procedere nel mondo delle
ombre. Servio dice: “Oreste, dopo l’uccisone del re Toante, scappò con sua sorella Ifigenia e
l’immagine di Diana che aveva preso lì e collocò non lontano da Ariccia. Nel suo tempio, dopo che
ebbe cambiato il rituale sacrificale, c’era un certo albero di cui non era lecito spezzare il ramo” (ciò
che vuole dire è che, arrivato in Italia, a pochi passi da Roma, il rito era stato modificato: era sparita
quella coloritura di sangue che aveva avuto in Crimea). Ciò è vero, per esempio quando Afrodite
arriva a Roma, una delle stazioni di culto più importanti è quella del monte Erice. Il culto della venere
Ericina. Sembra di capire che Afrodite godesse di un culto specifico da parte delle eteree, ossia le
prostitute. Molto probabilmente le eteree avevano un loro culto di Afrodite (a Corinto soprattutto) e
lo capiamo dal numero delle dediche. Sembra che in Sicilia questa Afrodite avesse esattamente un
culto di questo genere. Quando questa Afrodite si trasforma in Venere e la statua di culto viene
trasferita a Roma, sparisce questa connotazione (la Venere dei Romani non viene venerata in modo
specifico dalle prostitute → sterilizzazione e rifunzionalizzazione secondo i canoni della religiosità
romana, che sono molto rigidi. Il tema del ramo spezzato è un tema che suggerisce e tratta solo Servio
e lo fa perché sta parlando di Enea. Altrove questo tema non è assolutamente contemplato. Questo
dettaglio è stato studiato a partire da Frazer. In particolare l’esistenza di un ramo d’oro prezioso si
ritrova nei rituali druidici, dove il ramo d’oro è il vischio bianco. Un altro tema importante è che non
tutti riescono a rompere questo ramo: ciò spingerebbe a valutare alcuni riti piuttosto simili che vanno
dal sasso, sotto cui ci sono le insegne araldiche poste da Egeo, che solo Teseo può sollevare (Teseo
cresce a Trezene e non sa di essere figlio di Egeo) fino ad arrivare alla spada nella Roccia. Questo
quindi è un elemento simbolico molto forte che nel tessuto dell’Eneide ha un suo ruolo fondamentale.
Altro ruolo importante hanno le figure femminili: accanto a Diana taurica, in questo bosco, sulle rive
del lago, il 13 agosto, veniva venerata ogni anno la ninfa Egeria, ninfa che protegge le partorienti.
Veniva venerata insieme a Diana e in una festa molto suggestiva attestata storicamente, accendendo
piccole e grandi luci sulla riva del lago (Frazer chiama le luci “lumini sacri”). Si diceva che questa
ninfa fosse stata l’amante del re Numa a cui viene attribuito il tema della legge.
Servio prosegue: “ne era data la liceità solo ad uno schiavo fuggitivo a cui era concesso, se uno di
loro avesse potuto prendere un ramo dell’albero, di combattere con il sacerdote schiavo fuggitivo del
tempio”→ il rex nemorensis (il re del bosco). Imitazione del fatto che Oreste era fuggito ed era giunto
a Roma. L’idea del duello mortale era in qualche modo un’evocazione di ciò che Diana Tauride aveva
perduto, ossia il sacrificio umano.
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Elementi salienti:
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istituzione del sacerdozio di Diana taurica
L’istituzione non è autoctona, viene dalla Crimea
Presenza dell’albero che è citato da Servio e non da tutti
Il sacerdozio di questa dea era tenuto da uno schiavo fuggitivo che rimaneva sacerdote fino a
quando un altro schiavo fuggitivo avesse osato sfidarlo
Pausania dice che lo spettro che si aggira nel bosco di Nemi è Ippolito che si chiama a Roma
Virbio. Ippolito muore a Trezene.
Il bosco di Ariccia era vietato ai cavalli e nel giorno della festa i cani venivano incoronati.
Si diceva che questo Ippolito-Virbio sarebbe stato il primo sacerdote del culto di Diana Taurica. Sotto
l’imperatore Caligola verrà utilizzata l’espressione “rex nemorensis” (re del bosco). Caligola mette
in scena dei ludi gladiatori: Roma ha inglobato il carattere selvaggio del culto di Diana e lo ha
addomesticato nella versione sterilizzata, per cui i sacrifici umani sono i ludi gladiatori: per Caligola
dunque il rex nemorensis è un gladiatore. Servio insiste molto sul tema dello schiavo fuggitivo e lo
stesso fanno Strabone e Pausania. Lo schiavo fuggitivo ha un ruolo importante e ha un potere religioso
evidente. Che cosa c’è di stridente? Innanzitutto il fatto che sia uno schiavo e anche il fatto che questo
sia un re. Quali sono le caratteristiche peculiari del re del bosco? Per Frazer anche re Artù è un re del
bosco, oppure Cristo è un re del bosco. La caratteristica dei re del bosco è dunque il fatto di essere
contemporaneamente figura del potere religioso e figura del potere temporale. Questo tratto è tipico,
come Frazer ha detto, della regalità magica, del re che è tale perché il suo corpo è divino. Il suo corpo
intercetta due relazioni diverse con il divino, è come se fosse il collante tra il mondo mortale e il
mondo immortale. Idea che il re, con il suo corpo, sia in grado di portare prosperità alla terra, oppure
quando il re si ammala, la sua terra a sua volta si ammali e si spenga. Tema che sottostà al rapporto
fra il re del bosco, che è un sacerdote e l’albero. Il ciclo della natura segue il ciclo biologico del re:
quando la natura è in difficoltà il re si ammala, quando il re si ammala la natura si spegne. Quando si
apre l’Edipo Re di Sofocle, i maschi tebani chiedono ad Edipo di risollevarli dal male, che è una piaga
fisica. Sofocle mette in scena un Edipo che dice: “Io sono malato come la mia terra”. Nel caso del re
del bosco il punto è che questo re è sempre sul crinale che separa la vita dalla morte e la sua vita è
legata alla sua potenza fisica: se il re invecchia non sarà più in grado di combattere con uno schiavo
fuggitivo più giovane e dunque morirà.
Livio: rapporto fra re e mondo religioso → tema molto forte nella Roma dei Tarquini. Il tema della
compresenza nella stessa figura di due diversi modi di intendere il potere è del tutto evidente, anche
nel racconto del bosco di Nemi.
Il grande problema è costituito da questo schiavo fuggitivo. Innanzitutto il tema del re collocato in
una dimensione selvaggia fino al momento in cui verrà ucciso da un altro re, è macabro per Roma.
Oltretutto il re dei sacrifici è un nobile, è discendente da una famiglia nobile. Doveva discendere da
una coppia che fosse stata unita dal legame matrimoniale della CONFERRATIO: si entra in contatto
con la divinità. lo stesso rex sacrorum doveva avere la sua regina che era anch’essa sottoposta alla
conferratio. Come è possibile dunque che questo sia uno schiavo fuggitivo? Lo schiavo fuggitivo,
proprio perché lontano dal padrone, sarebbe libero e sarebbe anche libero di essere re.
Conferratio
Villa dei Misteri a Pompei: su questa villa gli studiosi si sono a lungo interrogati. Essa deve il suo
nome all’idea che questa megalografia (le figure sono più che ad altezza uomo) riproduca una messa
in scena di un rito misterico di cui però non sappiamo nulla. Paul Vaine l’ha chiamata “Un mattino
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di nozze”. Al centro infatti c’è la coppia costituita da Dioniso e Arianna → modello di matrimonio
per eccellenza. Essi stanno al centro: Dioniso è del tutto evidente, ad Arianna invece manca il volto.
Tutti i dettagli sembrano evocare il rito formalmente codificato della conferratio romana. Il primo
gesto del rito era quello che la sposa lasciasse i suoi giocattoli e le sue bambole che venivano
consacrate alla divinità preposta che custodiva i balocchi dell’infanzia (INDIGITAMENTA).
Dopodiché la sposa abbandona la toga praetexta in porpora e indossa la tunica recta che è bianca, e
sotto il seno si annoda una fascia strettissima con un nodo che si chiama nodo erculeo. Dopodichè la
sposa viene rigidamente pettinata con sei trecce. Il pettinino che serviva a dividere le zone dei capelli
si chiamava asta celibaris. Si poneva in testa un velo (flammeum) porporino. Questa è proprio una
cerimonia sacra. Infatti i romani avevano tre possibilità diverse per sposarsi:
1. Conferratio: riservata ai nobili e ai sacerdoti
2. Coemptio: il matrimonio
3. Usus: unione civile
Anche nel matrimonio romano (tranne che nell’usus) c’è la bilancia: su di un piatto veniva posta la
stessa sposa, e sull’altro invece la dote.
Lo schiavo fuggitivo viene scelto proprio perché questo schiavo, proprio per il fatto di essere
fuggitivo, era libero. Nella festa greca delle Targhelie, i re per un giorno in verità erano destinati ad
essere espulsi. Frazer racconta che le legioni romane del tardo impero utilizzassero spesso una
strategia: elevavano al massimo grado un soldato e visibile agli dei, cosicché lui era il primo ad essere
colpito. Su di lui si concentrava il maligno e in questo modo la guarnigione era salva.
Lezione 12
13/03/2018
Il sacrificio
Ciò che interessa non è tanto ragionare sulle piccole cose ma dare alcuni input di riflessione su un
tema così importante che ha, nella devozione di Afrodite, un ruolo fondamentale. Di fatto il sacrificio,
dal punto di vista linguistico, è “occuparsi del sacro” (da sacrum+facere). Il sacrificio è quel
momento simbolico in cui il mito si fonde con la religione: in questo istante avviene il contatto
migliore con la divinità. Già questa affermazione è sin troppo specifica. Cercando di lavorare sul
sacrificio in maniera più contemporanea, bisogna parlare dei giochi. I Francesi si sono occupati della
cosiddetta ”legge della dispersione (o legge della depance)”. Marcel Mauss si è occupato della teoria
dei giochi ma anche del sacro.
Per la prima volta in concomitanza con l’esplosione degli studi della sociologia, si sviluppa l’idea che
le società antiche (specie greca e romana) sembrano vittime di questa legge della depance = legge
che regola i processi non prettamente economici. Esistono delle azioni delle società umana che noi,
con molta difficoltà, potremmo ascrivere ad un comportamento di tipo economico. Chilois parla di
tutta la sfera del gioco, parla del teatro e soprattutto dei riti religiosi, in particolare compie numerosi
studi sul sacrificio → modalità dell’agire che potremmo far ricadere su ambiti diversi. Del sacrificio
però si potrebbe tranquillamente fare a meno anche nel rapporto con la divinità. Ma così non è:
nessuna azione umana (le nascite, le morti, i matrimoni, l’entrata in guerra) si svolge senza il
sacrificio. Il tema perciò è molto difficile da delimitare. Anche il tema forte del sacrificio animale in
rapporto alla divinità (il sacrificio per il dio) è stato messo un po’ in forse.
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Esiste solo il sacrificio per la divinità? Per esempio la teoria di Girard comprende anche sacrifici che
non necessariamente sono rivolti in prima battuta alla divinità. I sacrifici che riguardano questo
schema sono alcuni tipi di sacrifici umani; lo si vede ad esempio durante i funerali di Patroclo. Tra le
tante cose che Omero dice, ad un certo punto parla esplicitamente di sacrifici umani compiuti e indetti
in onore dell’eroe. Nel sito di Ur inoltre sono state rinvenute delle sepolture di personaggi di rango
regale, o comunque appartenenti alla nobiltà, e in ognuna di esse sono state ritrovate da un minimo
di sette ad un massimo di 73 cadaveri. Il punto è che non necessariamente il sacrificio è orientato
esclusivamente alla divinità. Queste vittime sacrificali, sia quelle di Patroclo sia quelle rinvenute nelle
tombe ad Ur, sono coloro che sono destinati ad accompagnare il morto nel suo viaggio oltremondano:
muoiono dunque per il defunto stesso e non per la divinità.
1) Sacrificio: marchio identitario
Huxley e Lawrence: riflessioni sui comportamenti rituali. È un orizzonte di studi che ha valutato il
sacrificio come se questo fosse un’eco di un comportamento di altro tipo: di quello cannibalico, di
quello dei cacciatori. Il sacrificio è un’azione ritualizzata che rappresenta un’eco di qualcosa che
non è più. La società però si riconosce nel sacrificio e non ha alcun dubbio sul significato della prassi
del sacrificio. Naturalmente questo vale per le società umane. Lorence, a tal proposito, cita il
comportamento delle oche selvatiche: queste, in certe occasioni, starnazzano con violenza e sbattono
fortissimamente le ali, come a spaventare il loro interlocutore, ma non hanno nessuno da spaventare
(da un comportamento di difesa originario diventa un comportamento ritualizzato → non c’è più il
meccanismo originario che ha provocato il comportamento, ma il quest’ultimo è diventato un rito).
Altro esempio: il manto delle farfalle. Esse hanno dei manti meravigliosi e per molto tempo si è
pensato che il maschio avesse un manto colorato e appariscente perché in questo modo, apparendo
per primo, potesse distogliere l’attenzione dalle femmine. I predatori delle farfalle però non
distinguono il colore delle farfalle, non si accorgono. Le farfalle, così come le oche, sono vittima
della legge della depance: azioni che hanno un orizzonte simbolico di riferimento che identifica il
comportamento sociale. Lo stesso meccanismo vale per il comportamento della comunità. Fare un
sacrificio è dunque un marchio identitario. Ci sono società che hanno modificato il loro modo di
approcciarsi al sacrificio.
2) Rigidità del codice formale del sacrificio
Un altro tratto peculiare del sacrificio che si vede soprattutto in quello latino, ma anche in quello
greco, è il tratto formale del sacrificio. È stato detto che esso può essere rappresentato solamente
dall’azione. Il sacrificio ha dei codici rigidissimi, molto presenti anche nella cultura greca e latina.
Lo si vede bene nel caso di Edipo. C’è tutto un filone che insiste molto sulla crudeltà di Edipo, in
particolare nei frammenti della Tebaide. Qual è esattamente la ragione per cui Edipo maledice i suoi
figli (Eteocle e Polinice)? In fondo Sofocle non ci da una vera e propria risposta. La Tebaide dice
invece che Edipo odia i figli per una questione di prassi sacrificale. Durante un banchetto, uno dei
figli di Edipo taglia in modo sbagliato i pezzi di carne e dà ad Edipo il pezzo sbagliato di carne.
Questo basta ad Edipo per maledire i suoi figli.
La stessa cosa accade in uno degli aneddoti che riguardano i tirannicidi ateniesi, Armodio e
Aristogitone. Secondo una tradizione Armodio ha ucciso Ipparco poiché quest’ultimo si era rifiutato
di concedere alla sorella di Armodio di essere una delle canefore (portatrici di canestri nella
processione delle Panatenee).
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3) L’uccisione delle vittime
A tal proposito è fondamentale l’opera “HOMO NECANS” di Burkent del 1972. Esperienza
fondamentale del sacro è l’uccisione di vittime. Compiere un atto sacrificale è agire tout cour.
Secondo lo studioso, dietro questa azione, si intuisce il mistero del sacro. L’homo religiosus è di fatto
l’homo necans. Il momento del sacrificio è il momento in cui la comunità degli uomini entra in un
contatto palpabile con la comunità del divino. Questa osservazione di Burkent contiene però in sé una
piccolissima falla: il sacrificio della vittima è ciò che qualifica l’uomo religioso, tuttavia il sacrificio
non è solo l’uccisione delle vittime. Per Burkent il momento in cui la comunità fa un atto religioso
in senso lato, è per l’esattezza quella in cui viene uccisa una vittima. Ma ci sono dei sacrifici che non
contemplano l’uccisione cruenta di una vittima, sia essa animale o umana, e che sono molto connotati
dal punto di vista performativo.
4) Sacrificio come do ut des →Taylor vs sacrificio come strumento per canalizzare una pulsione
violenta→Girard
Taylor inventa l’etnografia e dice che il sacrificio è un do ut des: sacrificare alla divinità per ricevere
qualcosa in cambio. Non esiste sacrificio senza corrispettivo → visione utilitaristica del sacrificio.
Peraltro Taylor in questo era in consonanza con quei ritratti di Zeus dall’Iliade in poi, pesantemente
utilizzati nella commedia e nel simposio di Platone, dove Zeus sembra unicamente interessato a quanti
uomini saranno disponibili a compiere il sacrificio. Secondo Taylor perciò l’uomo non compirebbe
un sacrificio se la divinità non gli desse qualcosa in contraccambio.
Girard invece ipotizza la teoria del capro espiatorio. Questa teoria è all’estremo opposto: mentre la
teoria di Taylor intendeva parlare di una comunità che sacrifica al divino per ricevere qualcosa in
contraccambio (lo abbiamo visto con gli INDIGITAMENTA: un dio certo e minuto viene evocato e
con l’evocazione deve andare a braccetto il gesto della devozione →la teoria di Taylor presuppone
il fatto che la divinità sia li in ascolto), la teoria di Girard invece è all’opposto: dio scompare
all’orizzonte, non è più in ascolto. Secondo Girard il sacrificio è lo strumento per canalizzare una
pulsione violenta all’interno di una comunità. La divinità è chiaro che esiste, ma per Girard è
soprattutto quasi una presenza narrativa, e non è l’interlocutore principe che è rappresentato invece
dalla comunità stessa.
Un altro tratto caratteristico del sacrificio è che esso è tangibile grazie alla presenza delle vittime o
dei residui del sacrificio medesimo. L’archeologia ci viene in aiuto per capire come erano fatti i
processi sacrificali. In particolare la zooarcheologia e la bioarcheologia: la zooarcheologia ci dice
persino come era stata nutrita la vittima prima di essere immolata, ci dice anche l’età delle vittime.
5) L’oscenità del rito
Perché il sacrificio, in terra greca, viene ritenuto in qualche modo osceno? Con la parola osceno si
intende sia la radice linguistica del tema “ob scenum” → ciò che non può essere visto, sia la
dimensione disetica nel rapporto che la comunità intrattiene col divino al momento del sacrificio.
Caso pratico: esempio di Prometeo
Il mito di Prometeo, così come ci viene descritto da Esiodo, non è solo un mito eziologico, ma è il
mito fondativo della civiltà greca. Il racconto di Prometeo si colloca in un momento in cui il momento
del divino intrattiene un rapporto molto stretto con la comunità umana. Comunità composta da
divinità e uomini. Gli dei non sono sull’Olimpo per ricevere dagli uomini il fumo del sacrificio, ma
sono accanto a loro. Zeus, racconta Esiodo, rimprovera Prometeo per aver diviso male i pezzi di
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carne. Fondamentale nel racconto è il tema dell’istituzione della pratica sacrificale: il titano Prometeo,
figlio del titano Giapeto, mette alla prova la divinità e a sua volta la divinità mette alla prova
Prometeo. Prometeo non è interessato a tenersi le parti migliori della divinità, ma vuole mettere alla
prova la divinità. È un testo seminale: fin dall’origine il tema della parte, del modo in cui viene
suddiviso il mondo e la bestia del sacrificio, ha a che fare moltissimo con il destino. Zeus sa
benissimo, cosciente di consigli immortali, di prendere la parte sbagliata. Prometeo sta istituendo una
pratica sacrificale all’interno della quale agli dei non andrà nulla → si parla del cosiddetto digiuno
della divinità. Tutto sommato il dio deve accontentarsi di ben poco perché il destinatario ultimo del
sacrificio non è il dio, ma è ancora una volta la comunità che è allo stesso tempo autrice dell’azione
e destinatario ultimo. La carne dei banchetti verrà consumata dalla comunità, mentre agli dei
rimangono le ossa che vengono bruciate.
Tripartizione proposta da Macerl Mauss: ogni sacrificio si può dividere in tre momenti fondamentali:
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•
Momento della sacralizzazione → momento in cui la comunità si avvia al sacrificio. La comunità
dà un valore elevatissimo alla vittima che deve essere sacrificata, all’acqua lustrale, alle offerte.
Momento reale → uccisione della vittima. Questo momento si rompe con un grido
(OLOLUGHE): grido ritmato che spezza l’incantamento della performance
Momento della desacralizzazione → la bestia ritorna ad essere una bestia, non è più sacra e ne
vengono mangiate le carni dalla comunità.
6) La teofagia
Comunità degli Arunda → pratica degli INTICHIUMA: la teofagia all’interno della prassi sacrificale
è presente nella cultura romana, nella cultura cristiana, in quella greca. Al posto della divinità, quasi
sempre ci sono degli animali totemici, che rimandano alla divinità stessa. Nella cerimonia degli
INTICHIUMA gli Arunda si cibano della divinità che è rappresentata dai canguri e dagli emù, che
loro uccidono non per fare qualcosa in onore della divinità, ma per mangiare la divinità. Che cosa
vuole fare esattamente questa comunità cibandosi del dio? Da un lato nelle culture tradizionali questo
sembra legato alla potenza magica che deriva dal cibarsi del dio, ma dall’altro significa entrare in
contatto diretto con la divinità. Cibarsi del dio è una pratica che viene consumata a livello sociale e
non a livello individuale: il momento della teofagia è condiviso con l’intera comunità. Il richiamo
alla comunità e al pasto che si divide è fondamentale anche nell’eucarestia. Anche i Greci hanno la
loro teofagia.
Il mito fondativo del cibarsi del dio è quello di Dioniso Zagreo. Esso, dal punto di vista cultuale e
religioso, è ancora più importante. Il piccolo Dioniso viene rapito dai Titani il cui scopo è ucciderlo
e cibarsene. Il piccolo viene fatto a pezzi e gettato nel calderone per essere bollito. I Titani, danzando,
decidono di arrostire le sue carni: il corpo di Dioniso subisce due tipi di cottura. Questo dio è fatto a
pezzi per essere sacrificato: infatti le sue carni devono essere arrostite. Ma le sue carni deve essere
anche bollite: la bollitura evoca infatti la rinascita. Il calderone come contenitore di acqua è preludio
infatti per una rinascita. Infatti in questo racconto sono in atto due pulsioni diverse: da un lato il tema
di sacrificio della divinità, d’altro lato la rinascita della divinità (il momento in cui i pezzi del dio
verranno rassembrati). Alcune varianti del mito dicono che Dioniso avesse perso il cuore e gli fosse
stato dato un cuore di gesso (la scelta del gesso non è casuale: è infatti la sostanza di cui si erano
spalmati i Titani ballando attorno al calderone, e contemporaneamente era la sostanza migliore per
conservare i defunti). Di conseguenza i Greci hanno il loro momento di teofagia. In fondo anche il
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ciceone (che si assumeva durante i rituali per Core e Demetra) si assumeva nei rituali misterici e da
alcuni veniva inteso non come un semplice pastone per la divinità, ma come la divinità stessa, come
una forma sublimata di teofagia.
In connessione con il racconto di Prometeo abbiamo altri due esempi:
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Pelope, figlio di Tantalo, viene fatto a pezzi e offerto come pasto sacrificale alla divinità (confine
labile tra banchetto e pasto sacrificale). Il racconto di Tantalo e di Pelope, come nel caso di
Prometeo, stacca la divinità dal mondo degli uomini.
Licaone (uomo lupo): versione che ci da Apollodoro. Durante il suo regno sull’Arcadia, generò
50 figli, tutti empi. Essi offrirono a Zeus le carni di un bambino miscelato al sangue di una vittima
sacrificale. Zeus si accorse di ciò e adirato, rovesciò la mensa e uccise con i fulmini i figli di
Licaone. Elemento fondamentale: Zeus si traveste da povero → è la divinità che mette alla prova
gli umani. Nella versione di Igino invece sono i figli di Licaone a mettere alla prova la divinità.
La divinità mette alla prova, il mortale la sfida e questa prova avviene proprio nel momento del
sacrificio. Qui però entrano in collisione altri elementi: il sacrificio umano si mescola al sacrificio
animale. La divinità viene sfidata sul riconoscimento/rifiuto della carne umana. L’effetto finale è
qualcosa che richiama il momento del distacco tra il dio e gli uomini: il rovesciare della mensa è
un gesto simbolico che compare ovunque e che costituisce il momento in cui la divinità rompe il
patto tra uomini e dei e lo rompe proprio attorno al momento pratico della prassi sacrificale. La
divinità allontanata dal banchetto sacrificale.
Lezione 13
15/03/2018
Licaone: citato insieme al sacrificio di Prometeo. Il mito di Licaone e dei suoi figli è l’altro mito che
descrive il momento in cui il sacrificio è stato fondato. Alcuni elementi del racconto distinguono
alcuni tratti del sacrificio greco. La versione del mitografo latino Igino ci racconta che Giove fu
ospitato da Licaone, e i suoi figli vollero mettere alla prova Giove per vedere se fosse realmente un
dio. Zeus si accorse dell’inganno e fulminò i figli. Quanto al padre Giove lo trasformò in lupo.
Tema del rovesciamento della tavola della mensa che marca il momento di distacco definitivo tra il
mondo degli umani e il mondo degli immortali → il loro rapporto si trasforma da banchetto in
sacrificio.
Un carattere molto forte del sacrificio in terra greca è il digiuno della divinità: agli dei non viene dato
nulla. nel mito di Licaone il tema del sacrificio umano si mescola a quello sacrificale (il cannibalismo
si mescola al sacrificio).
Ciò porta a riflettere sul tema della licantropia (dell’uomo lupo). Licaone viene trasformato da Giove
in un lupo. Per i Romani il licantropo è un VERSIPELLIS, colui che letteralmente cambia pelle e si
trasforma in un animale. Gli uomini lupo per i Greci stavano in Arcadia, una zona di confine, di
barbarie, in cui può accadere di tutto. Questo mito riflette un’usanza reale sino al II secolo d.C. e
riferisce Pausania che gli uomini si cibavano di carne umana e della carne del sacrificio. Secondo le
cronache, l’usanza cannibalica era ancora diffusa nell’Arcadia del II secolo d.C. Si trasformavano in
lupi per 9 anni e poi sarebbero tornati alla normalità, ma non sarebbero tornati normali se nel periodo
di trasformazione, si fossero cibati di carne umana. Da animale si ritorna essere umano non prima di
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aver scontato una sorta di esilio nel mondo selvaggio. Pausania racconta che nel 400 a.C., un pugile
che aveva vinto alle Olimpiadi, Demarato, era stato un lupo.
Il racconto di Prometeo è un racconto ancestrale, mentre quello di Licaone è più inquietante perché
legato storicamente alla vita dei Greci.
LA PRATICA DEL SACRIFICIO IN TERRA GRECA
Il sacrificio in terra greca fa parte costitutiva di ogni momento individuale e comunitario in cui si
vuole richiedere la presenza del divino. All’interno di questa selezione di feste possiamo trovare
traccia della pratica sacrificale dei greci alla sua massima espressione collettiva. A questo proposito
Atene ci trasmette molti dettagli su feste e sui sacrifici ad esse connessi. Ci muoviamo tra due mesi:
il mese di Sciroforione (giugno/luglio) e Ecatombeone (luglio/agosto). Questo arco di tempo segna
ciò per noi è il capodanno: il mese Ecatombeone segna l’inizio dell’anno nuovo (questo perché l’anno
è scandito dall’attività agricola: la semina e il raccolto). Sostanzialmente ci sono tre occasioni di festa:
-
Feste Scire (inizio mese di Sciroforione): vengono celebrate due giorni prima delle Bufonie;
Feste Bufonie (o Dipolie: per Zeus della città): sono per l’esattezza l’uccisione del bue, messe in
scena il 14 di Sciroforione in onore della festa per Zeus protettore della città. In questa occasione
va in scena l’intera civiltà ateniese. Il senso di colpa dinnanzi al sacrificio e l’ipocrisia del rito
sacrificale. In greco anche la parola YPOCRITES vuol dire attore. Gli Ateniesi sono
contemporaneamente gli attori del dramma e sono ipocriti (agiscono falsificando la loro
gestualità). Abbiamo di esse, una descrizione dettagliata da parte di Porfirio in cui quest’ultimo
cita il filosofo Teofrasto. Sappiamo che l’ipotesi interpretativa secondo cui il sacrificio si possa
dividere in tre parti, è una filigrana interpretativa che si può adottare per le Bufonie. La comunità
si metteva in fila per portare al sacrificio questo bue. C’era il sacerdote (a capo scoperto), poi
accanto il MACHEIROS, quello che teneva la scure, e quello che teneva il coltello sacrificale.
Importanti erano le idrofore, i portatori di orzo (fase di sacralizzazione). Giunti all’altare vengono
fatti alcuni riti preparatori: il coltello e la scure vengono arrotati nell’acqua sacra portata dalle
idrofore, l’orzo viene scagliato contro l’animale sacrificale, il bue viene addobbato e
contemporaneamente lo si spinge verso l’altare. Proprio li accadono tre cose: prima di tutto il
capo dell’animale viene spruzzato dell’acqua delle idrofore (per provocare un movimento
involontario del capo dell’animale che deve essere inteso come segno di assenso da parte
dell’animale); successivamente l’animale è spinto verso l’orzo e non appena l’animale sembra
mangiare un chicco d’orzo, la comunità lo accusa di un gesto empio (perciò deve essere
sacrificato); a questo punto tre peli dell’animale vengono tagliati dal suo capo, gettati nel fuoco
sacrificale, e a quel punto l’animale è già morto, è già consacrato agli inferi (la sua anima è già
stata consacrata alla divinità). a questo punto il dio viene colpito con la scure e poi il suo cadavere
viene suddiviso con il coltello. Alla divinità vanno le cosce del femore oppure le interiora: il fumo
delle ossa bruciate si alza verso l’alto. A questo punto il sacrificio è compiuto. Alla divinità non
è stato offerto sostanzialmente nulla. Dal sacrificio si passa alla desacralizzazione: la comunità
divide il banchetto.
Sappiamo che le ossa venivano ricomposte a riformare l’animale, si spegneva sul fuoco sacrificale
con l’acqua e la comunità si avviava a sciogliersi. Ma che cosa manca? Manca il colpevole per
l’uccisione del bue, perché comunque di uccisione si è trattato. Se la comunità andasse via
semplicemente, avrebbe condiviso l’uccisione. Il colpevole doveva essere trovato e punito. Il
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-
primo colpevole additato (il processo si tiene sul Pritaneo) è rappresentato dal gruppo delle
idrofore (hanno portato l’acqua che serviva per arrotare coltello e scure), ma loro additano il
sacerdote il quale a sua volta punta il dito sul macellaio. A quel punto si scopre che il sacerdote è
fuggito, e perciò non si può giudicare in absentia. L’unico colpevole rimane il coltello che viene
punito e gettato in mare. Il coltello è stato giudicato colpevole di omicidio volontario (FONOS
DIKAIOS). Il coltello viene eliminato perché se rimanesse, la sua presenza fisica contaminerebbe
la città. La pratica sacrifica mostra ad un livello altissimo quello che era considerato un rapporto
pertinente tra magia sacro e disposizioni religiose, ossia la religione del contatto (della
SYMPATHEIA). In questo momento così importante, alla fine dell’anno, va in scena il sacrificio
per eccellenza e si vede benissimo quanto il sacrificio greco debba molto alla performance,
all’azione codificata. Quella greca è una società di vergogna: ciò che conta è che la comunità si
guardi agire correttamente. Non c’è un dettaglio che non sia finalizzato a questo scopo.
Naturalmente questa performance, il fatto che il sacrificio sia una sorta di dramma, ci ricorda
ancora una volta che in effetti questa dimensione della performance è molto probabilmente
debitrice di un passato minoico-miceneo. I minoico-micenei adoravano la divinità attraverso la
dimensione della performance, del gesto. A Roma invece il tema della parola, dell’evocazione del
divino e delle sue pertinenze, va sempre di pari passo con la pratica. La parola tecnica per Roma,
nel sacrificio, è fondamentale.
Feste Panatenaiche (il 28 di Ecatombeone): siamo al centro dell’estate. Alla fine di luglio vanno
in scena le feste più importanti per tutta la Grecia la cui data ufficiale di inizio si colloca nel 570
a.C. Andavano in scena ogni 4 anni. Sono il momento simbolicamente più alto di aggregazione
della civiltà ateniese tutta. Sono dedicate ad Atena. È Atena, con il suo ruolo di nume tutelare
della città, a venire evocata. Il fregio della cella del tempio di Atena del Partenone (conservato al
British) metteva in scena le Panatenaiche. Momento in cui la comunità ateniese si reca in
processione dalla dea e le regala il grandissimo peplo che raffigurava un momento importante per
la dea: la gigantomachia → il momento in cui la dea era scesa in campo e aveva imbracciato lo
scudo. Questo peplo da chi era fatto? Era fatto dalle arrefore, due ragazze che danno il nome alla
festa delle Arreforie (questa festa è all’inizio del mese di Sciroforione). Le arrefore iniziavano a
tessere questo peplo e poi lasciavano il posto a delle altre. Aristofane che è di fatto anche uno
storico delle religioni, racconta, nella Lisistrata, il percorso formativo di una donna qualunque ad
Atene. È descritto il passaggio di classi di età. Afrodite è ben presente anche nel mito e nel rito
che ha a che fare con le arrefore. Sembra che le arrefore venissero scelte dai nove anni in poi. Noi
sappiamo però che le arrefore erano solo due e che venivano scelte fra le giovani più nobili di
Atene. Esse venivano recluse all’interno di una stanza e intanto tessevano il peplo. Ad un certo
punto della loro crescita accadeva uno dei riti più misteriosi della civiltà ateniese: esse prendevano
nel cuore della notte, un paniere che conteneva qualcosa di nascosto e che non potevano vedere,
dopodiché portavano il paniere nel recinto sacro dell’Afrodite dei giardini. Li deponevano il
canestro e andavano via. Quando risalivano, era finito il loro mandato e passavano poi allo stato
di età successivo (brauronie); l’ultimo stadio era quello delle canefore che partecipavano alla
processione delle panatenee.
Le arrefore evocavano un mito legato al canestro misterioso entro cui c’erano gli oggetti di Atena.
Questo canestro ricorda il mito delle Cecropidi, le figlie di uno dei mitici re di Atene, ossia
Cecrope. Sono tre: Erzia, Clauro e Pandroso. Ricevono da Atena il compito di custodire,
all’interno di una cesta che non avrebbero mai dovuto scoprire, il piccolo Erittonio (giovane dio
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che era nato da un esperimento genetico→ il dio Efesto aveva inseguito Atena per possederla:
nella foga della corsa uno schizzo di sperma era caduto sulla coscia della dea Atena; la dea schifata
getta il lembo di stoffa sulla terra: dalla terra fecondata nasce Erittonio). Le giovani donne aprono
però la cesta, vedono il piccolo Erittonio ed impazziscono (vista di qualcosa di insostenibile),
fuggono e si tolgono la vita. In un’altra versione della storia le Cecropidi fanno parte di quelle
vergini che, per il bene della città, decidono di togliersi la vita per salvare la loro città (ciò che i
Romani chiameranno devotio).
Si arriva dunque alle Panatenee: all’interno di questo complicato meccanismo, c’è spazio anche
per il tessuto sacrificale che, nel fregio, viene ricordato attraverso le idrofore, attraverso i portatori
d’orzo e le bestie da sacrificare (pecore e buoi dalle corna ricurve).
IL SACRIFICIO IN TERRA LATINA
Una cosa fondamentale che è la cifra caratteristica del rapporto del mondo romano con il divino. La
comunità romana ha fiducia nella divinità e crede fermamente che essa sia sempre ad essa favorevole.
Hanno sicuramente intercettato una dote impegnativa di suggestioni che provenivano dal sacrificio
greco. Molto spesso venivano celebrati dei sacrifici “alla greca”.
Anche il sacrificio romano ha le sue fasi di sacralizzazione (la PREFATIO), di sacrificio
(l’IMMOLATIO) e di desacralizzazione (quella in cui la comunità può accostarsi al pasto sacrificale).
Venivano sacrificati solo animali domestici con una preferenza per ovini e suini (ma ad Esculapio
veniva sacrificato un gallo); in più c’era una rigida distinzione di genere (alle divinità maschili capi
maschi, alle divinità femminili capi femmina); quelle che venivano sacrificate agli dei superi avevano
un manto chiaro, quelle che venivano sacrificate alle divinità degli inferi avevano un manto scuro.
C’erano alcune divinità, per esempio la dea madre, a cui si sacrificavano le vacche gravide, così come
alla dea Cerere.
I Romani non disdegnavano completamente il sacrificio umano. Specie per propiziarsi la vittoria sul
campo di battaglia, abbiamo traccia di uccisioni di prigionieri. L’elemento cerealitico tipico dei greci
era l’orzo, quello dei romani invece era il farro. Si portavano poi formaggi, pezzi di carne di ogni
genere e anche dolciumi. Il sacerdote si avviava con la bestia da sacrificare e faceva salire i fumi
dell’incenso. Versava poi vini sull’altare (che era trasportabile: era una sorte di tripode). La bestia
viene ornata con bende candide o color porpora, le corna vengono ricoperte d’oro e quelle del bue
vengono inanellate. L’animale viene spinto a dire si al sacrificio: è legato ad una corda che a sua volta
è legata ad un cerchio, si fa muovere il cerchio e a questo punto l’animale scuoteva il capo. Roma,
rispetto alla Grecia, ha una dimensione sacrificale pervasiva: è prima di tutti il PATER FAMILIAS
che sacrifica. L’agente sacrificale deve essere col capo coperto, a meno che non sia un rito “alla
greca”. L’animale viene ucciso, viene rovesciato; i ministri del sacrificio e l’ARUSPEX tirano fuori
le cinque parti interne dell’animale (cuore, polmone, fegato, vescica, reni a volte intestino: organi in
cui si pensa risieda il potere vitale dell’animale). L’ARUSPEX guarda la disposizione degli organi
interni per indagare sul favore degli dei.
Perché IMMOLATIO? Dal nome di un pastone di farina, che si chiama MOLA SALSA → veniva
messo sul dorso dell’animale prima che esso fosse sacrificato. Era il momento in cui la bestia veniva
affidata alla divinità. il pastone veniva preparato dal collegio sacerdotale delle Vestali. Non sappiamo
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bene come venisse preparata altrove, ma a Roma dava addirittura il nome al sacrificio.
Successivamente il bue si faceva a pezzi e veniva messo a bollire. Il momento centrale del sacrificio
gli organi interni venivano buttati sul fuoco e dati idealmente in pasto alla divinità. Quelli dedicati
alle divinità dell’acqua venivano gettati nel mare, quelli dedicati alla divinità del sottosuolo venivano
gettati a terra.
Grande differenza: a Roma si dà da mangiare al dio→ è un vero e proprio banchetto. Il 13 settembre
si celebrava una festa, l’EPULUM IOVIS in cui la comunità tutta banchettava con gli dei. I Romani
da sempre offrivano banchetti alle divinità. In occasione delle feste della MAGNA MATER le
famiglie si riunivano per offrire un banchetto alla divinità. alla nascita di un giovane nobile romano,
si allestiva nell’atrio un banchetto per Giunone, Lucina ed Ercole. Bisogna dire che una delle feste
principali di Roma sono i cosiddetti LECTISTERNIA (letti) o SELLISTERNIA (sedili) →le divinità
femminili stavano sui sedili, le divinità maschili stavano sui letti: festi in cui venivano collocati dei
PULVINARIA e le statue della divinità venivano schierati come se si trattasse di un banchetto: i
Romani infatti non hanno mai sancito un distacco con la divinità. le divinità sono tutte chiamate a
condividere la tavola con i mortali. I Romani mangiavano segnalando il momento esatto in cui
avveniva la desacralizzazione: quando il sacerdote toccava la carne, quest’ultima non apparteneva
più agli dei. Si tratta dell’idea che la divinità conceda alla comunità il resto della tavola, ciò che non
ha mangiato. I pasti erano molto codificati, avevano due portate:
-
La carne
Vino e dolci
Ciò serviva ad evocare questa immanenza del divino in tutto il tessuto connettivo della civiltà romana.
IV inno ad Ermes → THEOXENIA: feste che hanno un punto di inizio proprio nell’inno ad Ermes.
Il dio Ermes vuol far parte del mondo degli dei, ruba le mandrie di Apollo e fa perdere le sue tracce.
Ad un cero punto decide di prendere una parte delle mandrie di Apollo e di fare un THEOXENIA.
Ermes divide le 12 parti delle carni e le divide per sorte. È un dio il cui scopo è acquisire un’identità
divina che per ora gli è sottratta: Ermes perciò ha fame, mangerebbe le bestie, sente il desiderio di
mangiarle benchè immortale. Se Ermes mangiasse sarebbe infatti un comune mortale che si ciba delle
parti del sacrificio, perciò digiuna.
19/03/2018
A Roma sono esistite, anche se sporadiche, delle occasioni della pratica sacrificale connessa al
sacrificio umano. Il tutto si lega al tema più ampio della DEVOTIO che consiste nel dedicare alle
divinità infere, in particolare agli dei Mani, una persona o un gruppo di persone. Essa serve a garantire
il successo di Roma in guerra. sembra che infatti sia stata messa in atto una procedura di DEVOTIO
molto dettagliata per garantire la presa di Cartagine. Essa è però prima di tutto una pratica individuale.
Tipico è infatti il tema dei consoli che si offrono alle divinità dei Mani per avere il proprio successo
in battaglia.
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Un esempio è quello della famiglia dei Decimi. In tutto sono tre: il primo, Publio Decio Mure, nel
340 a.C., garantisce la vittoria in uno scontro con la lega latina, proprio affidandosi agli dei del
sottosuolo. L’indovino suggerisce a Publio di indossare una toga pretesta e di offrirsi agli dei Mani
(sorta di suicidio: si lancia con il cavallo di battaglia e si immola tra le lance dei nemici). La
declinazione non benevola del tema della DEVOTIO è la DEFIXIO, ossia la maledizione. Si poteva
non solo di immolare sé stessi, ma decidere di uccidere qualcun altro attraverso una pratica molto
strutturata di maledizioni. Le DEFIXIONES dunque sono delle vere e proprie maledizioni.
Christopher Faraone si è occupato di queste TABUALE DEFIXIONUM: spesso venivano scritte su
un tassello di piombo e bucate con un chiodo. Abbiamo delle testimonianze in cui lo stesso supporto
ha la forma di un corpo umano. La credenza magica è la stessa che sta alle spalle delle bambole
wodoo. Più di quel che accade in Grecia, a Roma è evidente come la magia sia sotto traccia, in
generale nella ritualità. Ciò è garantito dall’importanza della parola agente; dal verbo che si
accompagna alla pratica rituale. Nessuna pratica rituale è efficiente se non è accompagnata
dall’invocazione della divinità. l’invocazione del nome della divinità serve al contempo ad invocarne
le funzioni. Probabilmente dunque il tema della magia emerge molto perché la parola magica è un
ingrediente indispensabile della ritualità latina.
DIVENTARE GRANDI: il genere è molto importante; è una cifra caratteristica di questi riti che
hanno anche fare con il passaggio dall’adolescenza alla zona adulta. Le occasioni collettive sono
occasioni in cui questo passaggio risulta visibile. Quando noi vedremo la nascita di Afrodite, ci
renderemo conto di una cosa fondamentale per gli antichi e di cui parla Esiodo. Esso parla di Afrodite
come di una CHORE, di una fanciulla.
Ritualità connessa al mondo femminile: il momento in cui le ragazze diventano grandi è sotto l’egida
in particolare di Atena e di Artemide. Afrodite sembra avere poco a che fare con questo momento,
nonostante sia la prima dea che viene al mondo come una fanciulla e di cui sempre il mito ricorda
queste prerogative.
-
Canefore: fanciulle che portano il canestro che serve al sacrificio (durante le Panatenaiche). Il
tirannicida Armodio aveva deciso di uccidere Ipparco perché quest’ultimo non aveva accolto
come canefora sua sorella, durante la processione delle Panatenaiche. Il tema è importante per
una questione di biasimo sociale. Armodio infatti sa che questa è un’offesa grave, anche perché
l’aneddoto racconta che Ipparco avesse tentato di fare violenza alla ragazza. Dal momento che lei
si era sottratta alla violenza, le aveva vietato di partecipare come canefore. Il rifiuto di Ipparco
implicava che lei non fosse più vergine. È dunque un rifiuto specifico. Si narra che il dio del vento
decise di aggredire la ninfa Orizia. La aggredisce mentre lei, vergine, stava portando il canestro.
Il tema della verginità e del passaggio di fascia d’età per le ragazze è importantissimo. Per le
canefore ateniesi però abbiamo alcuni problemi. Conosciamo infatti i nomi di molte canefore
delle città greche. Ma sul frontone, dove dovrebbero essere raffigurate le canefore, c’è un gruppo
di ragazzi. Quando viene messo in scena il momento in cui viene offerto alla dea il mantello, ci
sono delle figure che si possono identificare con le arrefore. Sulle canefore però abbiamo molte
testimonianze iconografiche, ma quella più bella è sicuramente il manufatto rinvenuto nella grotta
di Pitsà. Qui è stata ritrovata una grotta contenente un tesoro di testimonianze archeologiche. Tra
di esse è stata rinvenuta una raccolta di tavole che rappresentano alcune scene rituali. È un unicum,
perché qui c’è un affresco. È proprio la grotta che ha garantito la conservazione di tali reperti.
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-
Sono tre tavole. Su quella meglio conservata si vede bene come la figura della canefora sia
importante dal punto di vista del rituale religioso. È figura importante nella ritualità greca tout
court. Le canefore portano sul capo un cesto che poteva avere fogge diverse, e in alcuni casi
poteva essere in metallo prezioso. Non necessariamente doveva essere coperto, e conteneva tre
elementi fondamentali senza cui la pratica sacrificale non poteva avere luogo: l’orzo, il coltello
sacrificale e le bende che ornavano l’animale. Ciò che è interessante è il modo in cui la
processione è costruita: c’è la canefora, dietro un bambino che porta l’animale sacrificale, due
musici, due ragazze e una figura più grande girata di spalle che è sicuramente una figura
femminile incinta. Sarebbe stata più alta delle altre e sicuramente incinta. Il tema della verginità,
alluso dalle creature, e della successiva maternità, ha un ruolo fondamentale. Di questa
processione la canefora è guida. I padri delle canefore potevano partecipare alle processioni
proprio in virtù del fatto che fossero loro padri.
Arrefore: fanciulle che tessono il peplo della dea (legate alle Panatenaiche). Sono richiamate da
Aristofane nella Lisistrata. L’età delle Arrefore va dai 7 agli 11 anni, ma anche dai 9 agli 11 anni.
Pongono una serie di problemi di non facile soluzione. Anch’esse erano nobili, erano dalle 2 alle
4, e due di loro venivano recluse nel santuario di Atena dove avevano una casa ed erano destinate
a tessere il peplo della dea che avrebbe ornato la statua della dea in occasione delle grandi
panatenaiche. In molti si sono chiesti come facessero delle ragazze a tessere un peplo con una
trama complicatissima e con la rappresentazione della gigantomachia. Con ogni probabilità esse
tessevano un mantello particolare, ma il vero mantello della dea veniva tessuto dalle tessitrici
professioniste. È l’unica ipotesi che è stata data.
Pausania ci dà una descrizione molto dettagliata di ciò che accadeva. Siamo nel primo libro della
descrizione della Grecia dedicato all’Attica. Dalla sua descrizione emergono degli elementi
pertinenti: il mistero della cesta, e il santuario di Afrodite dove sono state ritrovate molte nicchie
con delle iscrizioni, e molti bassorilievi di genitali. Pausania ci dice che queste ragazze sono
devote della dea Atena Poliade, ma dopo aver trascorso il periodo del sacerdozio, si vedono
coinvolte in un rito collocato presso il tempio della divinità Afrodite, l’Afrodite dei giardini.
Quest’ultima è una divinità particolare perché, come mostrano i bassorilievi dei genitali, è la dea
della fertilità e in particolare pare essere una dea del raccolto, delle messi e specificamente legata
alla fioritura rigogliosa dell’ulivo. Se così fosse ci spiegheremmo anche un po' meglio il mito che
sottostà al rito. La figura delle arrefore si ricollega a dei personaggi del mito, alle figlie del re
Cecrope, ossia le Cecropidi (Aglauro, Erse e Pandroso). Erse significa “la rugiada” e Pandroso
implica il gorgogliare dell’acqua dappertutto. Le ragazze sovraintendono ad un momento
particolare dell’anno, tra il raccolto e la semina, al momento in cui la natura deve essere
rigogliosa, fresca, deve dare generosamente, in modo tale che l’ulivo possa crescere. Le Cecropidi
custodiscono un canestro all’interno del quale c’è il piccolo Erittonio, il quale, diventato a sua
volta re di Atene, sarà colui a cui verrà affidato il compito di istituire le Panatenee. Le ragazze
però aprono la cesta, e l’apertura della cesta le trasforma in creature folli che si tolgono la vita.
Questa storia che Ovidio ci racconta nelle sue Metamorfosi, si connette al passaggio di classe
d’età. Erse è oggetto dell’amore del dio Mercurio. Essa perciò chiede ad Aglauro di fare da
mediatore. Questa però cercherà in ogni modo di impedire l’unione, e per questo motivo le
divinità la puniranno. Il modo in cui la puniscono è sembrato a molti un manifesto di come la
vista delle giovani fanciulle che stanno per diventare grandi porta a due binari diversi: il
matrimonio (caso di Erse) e l’altro è invece il binario dell’invidia (caso di Aglauro) che è un
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binario sterile, che blocca e rifiuta il matrimonio. L’invidia agisce come un veleno nel suo corpo.
L’invidia entra nel corpo di Aglauro, la paralizza ed essa perde tutti i fluidi corporei, si pietrifica
e diventa una pietra, che è l’esito naturale del rifiuto di diventare grandi. Aglauro ed Erse
rappresentano, per Ovidio ma anche in generale, il momento in cui si deve prendere un binario o
l’altro.
Le Arrefore infatti venivano considerate le discendenti delle Cecropidi. Il legame con il racconto
mitico ancestrale è dunque fondamentale. Ma cosa c’entra Afrodite? A sostegno dell’ipotesi che
Afrodite in realtà non abbia nulla a che fare con il rito, c’è il passo di Pausania. Ma se egli avesse
voluto evocare il complesso rito delle Arrefore, per chè avrebbe dovuto dire che non si sapeva
nulla dell’Afrodite dei giardini (pars destruens: rito di Afrodite non centrale). A favore di una
pertinenza di Afrodite nel rito, c’è un frammento di idria che ritrae una figura seduta che tutti gli
interpreti hanno identificato come Afrodite, in una posa che è tipica della divinità (il gomito
sollevato sullo schienale della sedia). La figura dietro di lei è una ragazza con la coda che gioca a
palla con un’altra ragazza che sta oltre l’uccellino e la cui siluette è andata perduta. Ciò ha fatto
pensare che possa essere considerata una prova che nella casa delle arrefore, c’era ed è
documentato archeologicamente, un campo per giocare a palla. Dietro di loro ci sarebbe una
figura più adulta, che porterebbe in mano un ramoscello, interpretato come un ramoscello d’ulivo.
Potremmo dire perciò che le arrefore erano legate ad Afrodite, che giocavano a palla e che
avevano a che fare con il tema della fertilità
Nel passo di Pausania inoltre Afrodite dei giardini è definita quale primogenita delle Moire.
Questa Afrodite dei Giardini ateniese sembra essere qualcosa di simile alla Venere degli Orti che
veneravano i Romani.
Il nucleo delle arrefore può essere letto da tante prospettive diverse.
Brauronie: feste in cui entravano in gioco delle fanciulle che si mascheravano, come si suppone,
da orse
Tema del sacrificio delle vergini
Le Cecropidi sono un chiaro esempio di questo. Le figlie di Giacinto anche. Queste ragazze fanno
una sorta di DEVORIO, si dedicano alle divinità dell’aldilà per salvare la propria città. Una
prospettiva interessante riguarda la terra della Locride. Usanza che veniva adottato dai Locresi a
partire dal VI secolo a.C. sino al III secolo a.C. In questo caso il racconto mitico risale ai fatti
successivi alla guerra di Troia che sono narrati nei frammenti dei poemi epici del ciclo che
descrivevano tanti aspetti dei miti connessi a Troia, e in particolare dei NOSTOI. All’indomani della
guerra di Troia, gli eroi tornano a scaglioni. Torna a casa anche Aiace Oileo della Locride colpevole
di aver violentato Cassandra, sacerdotessa di Apollo, dinnanzi al Palladio, la statua di Atena (colpa
infamante), nel recinto sacro della divinità. Quando Aiace violenta Cassandra, l’esercito acheo si
trattiene e non lo punisce. Viene incenerito dalla divinità e sepolto in una terra sconsacrata per la sua
empietà. I Locresi tornano a casa ma le divinità non li lasciano in pace: l’oracolo dice che per 1000
anni si dovevano mandare due fanciulle locresi a Troia come tributo alla divinità. Sono fanciulle
vergini che diventano le vittime sacrificali per sottrarre la loro regione al rischio dell’epidemia e della
pestilenza. Alcuni dicono che le ragazze stessero li tutta la vita in condizioni disagiata, a fare le serve
nel tempio di Atena. Se uscivano dal santuario, potevano essere lapidate a morte dai Troiani. questo
sarebbe cessato intorno al III secolo a.C., quando i Locresi si ribellano. Ma una nuova forma di
prodigio nefando colpisce i Locresi: le ragazze diventate madri danno vita a dei mostri. L’usanza
50
deve essere ripristinata per evitare che la regione intera non possa più riprodursi. Per alcuni il
sacerdozio era temporaneo: servitù che poteva preludere ad un miglioramento sociale. Perciò non era
necessariamente un sacrificio, ma poteva essere anche un privilegio offerto alle ragazze più in vista.
Il sacrificio della vergine connesso a Troia è un tema molto pervasivo. Nell’Eroico di Filostrato (I-II
secolo d.C.), opera dedicata a rileggere i miti omerici, viene raccontata una strana storia: racconta che
l’isola dei Beati fosse collocata dagli antichi sul Ponto; chi si trovasse difronte all’isola poteva
attraccare a condizione che non trascorresse la notte su si essa. In particolare i protagonisti sono
Achille ed Elena. Su quest’isola sbarca un mercante. Achille lo accoglie bene e gli chiede di portargli
una giovane degli ultimi discendenti della stirpe troiana. Il mercante accetta, si reca a Troia e porta la
ragazza ad Achille. Il mercante viene ricompensato e quando sta per andarsene sente le grida della
ragazza che appunto viene sacrificata da Achille. Un’altra ragazza sacrificata sul punto di diventare
grande.
Le orsette protagoniste di una festa istituita a Brauron. Per l’esattezza queste ragazze si chiamavano
“le orsette di Brauron”. Raramente un racconto mitico serve per spiegare tutto il complesso rituale,
ma solo una porzione. Il racconto generale è quello che dice che dei marinai forse Tirreni avessero
fatto un’incursione sulla riva del mare e proprio a Brauron avessero trovato delle donne che facevano
una festa religiosa. Le avrebbero allora rapite e da questo evento sarebbe scaturita la festa delle
Brauronie. Non è una festa che possiamo collocare nell’ombra di Atena. La dea venerata a Brauron è
infatti Artemide. La festa sarebbe nata nel momento in cui queste donne erano state rapite da questi
tirreni. È dunque una festa femminile. Di per sé questo è un racconto mitico troppo generico. Quale
Artemide veneravano queste donne di Brauron? Veneravano un idolo antichissimo della dea, per
l’esattezza l’Artemide Tauropola, immagine antica della divinità che era quella statua che Oreste e
Ifigenia si sarebbero portati via dalla Tauride per approdare in Attica e fondare un santuario in suo
onore. L’Artemide venerata a Brauron è la statua che Oreste ed Ifigenia si erano portati via dalla
Tauride ed è la stessa divinità che è coinvolta nel rito di Ariccia nel bosco di Nemi. Questo ci permette
di introdurre un tema fondamentale: ci sono degli oggetti di culto che fanno la loro comparsa molto
spesso. Molto spesso infatti le comunità affermano di venerare la stessa immagine di Artemide.
51
10/04/2018
Alleggerimento riguarda il libro monografico dell’unità didattica B
17 aprile lezione sospesa.
AFRODITE → 2 fonti:
1) ESIODO
Se dovessimo cercare una divinità che specificamente ci insegna molto bene questa poli semanticità
del personaggio della dea, Afrodite sarebbe perfetta. Essa ci mostra quel carattere sfuggente e quella
capacità di essere unica e molteplice che è propria della divinità romana e greca. Per cui Afrodite e
Venere non sono una divinità ma sono molte divinità nel contempo, ma Afrodite è comunque una
sola. Il tratto interessante è la peculiarità della divinità di tenere insieme due elementi che
apparentemente sono antitetici: il principio femminile (amore, morbidezza e seduzione) e il principio
maschile (la guerra).
Il dato significativo è che Afrodite tiene insieme i due opposti. Una lettura del divino che nasce con
la nascita di Afrodite. Il dipinto di Botticelli sceglie una linea: vediamo una dea perfetta anche nelle
sue imperfezioni. Anche lo strabismo di Afrodite è comunque perfetto. Sullo sfondo c’è il mare e la
dea emerge dalla conchiglia. È la nascita di Afrodite. Essa non è una divinità che nasce con l’ultima
generazione del divino, ma nasce in un momento in cui il tempo è il semplice alternarsi di notte e
giorno, e in cui il cielo e la terra hanno appena iniziato a dividersi le pertinenze dell’universo. Secondo
un mito questa unione è, all’inizio dei tempi, una forza meccanica di aggregazione. Urano e Gea non
si amano, non si desiderano, prima della nascita della dea. È solo un’unione meccanica, senza
FILOTETIS (amore) così come dice Esiodo. Prima della nascita di Afrodite, i corpi non hanno
un’identità anatomica precisa. Esiodo sa che gli dei hanno un corpo, ma questo ancora non si vede.
Il poeta insiste sul momento in cui il rapporto tra il cielo e la terra si fa più carnale. Urano incombe
così tanto che i figli di Gea, i Titani, non riescono a venire alla luce. Gea trama la vendetta e arma il
suo ultimo nato, Crono dai ritorti pensieri (epiteto con cui verrà descritto anche Odisseo
nell’omonimo poema). Il suo non è propriamente coraggio, la sua è astuzia. La madre lo arma di
questo falcetto che il poeta dice di essere di adamanto (forse acciaio, comunque un metallo
infrangibile). Nel momento in cui Urano cala sulla terra e il figlio alza il falcetto, con una mossa netta,
taglia i genitali del padre e li getta dietro di sé. Questo gesto, dice Esiodo, non rimane senza
conseguenze, non è semplicemente l’azione di un figlio che si libera da un padre incombente. Accade
qualcosa.
Il gesto di gettare all’indietro qualcosa è un gesto che noi ritroviamo quando molte fonti ci
raccontano della rinascita o della nascita dei primi uomini dopo il diluvio universale. In questo caso,
racconta Ovidio, i protagonisti sono Deucalione e Pirra (I libro delle Metamorfosi). Questi ultimi,
quando la terra si prosciuga, gettano alle loro spalle le pietre e queste ultime, cadute a terra, si mutano
nello scheletro degli esseri umani, e la terra su cui queste pietre sono cadute e l’elemento umido che
imbeve la terra, costituiranno i tessuti. La stessa cosa farà Cadmo quando seminerà i denti di drago
da cui nasceranno gli abitanti di Tebe.
Crono getta alle sue spalle i genitali del padre, ma non invano. Il seme infatti viene accolto da Gaia e
da esso verranno generate le Erinni. Il tema della presenza delle Erinni nel pantheon delle divinità
dei greci, ha fatto molto riflettere la critica. Fra le ipotesi più suggestive c’è il fatto che le Erinni sono
i demoni che rivendicano i delitti tra consanguinei. Esse sono descritte alla lettera come segugi che
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fiutano il sangue di cui sono lordi gli assassini dei parenti. Un’altra ragione per cui le Erinni sono
presenti è quella per cui per la prima volta è stato commesso un delitto tra consanguinei, un figlio ha
ucciso il padre. Perfino in una stagione così indistinta, fanno la loro comparsa i demoni che
sorvegliano la giustizia, per quel che riguarda i delitti tra consanguinei.
Per generare le Erinni, i Giganti e le ninfe Melie, servono anni. La terra assorbe il sangue e restituisce
questi esseri alla superficie. I genitali di Urano vengono portati al largo per molto tempo, e da essi
una fanciulla prende forma. La dea nata dalla spuma, gli uomini e gli dei chiamano Afrodite.
Questo è il primo momento in cui il sangue fa la sua prima comparsa nell’universo mitico degli
antichi. Afrodite, il sangue e lo sperma sono legati sin da subito. I genitali di Urano cadono in
acqua e dalla spuma nasce una fanciulla. Il greco gioca su una sostanziale omofonia tra la parola che
indica la spuma del mare e la parola che indica lo sperma, ossia AFROS. I cristiani diranno che questo
momento, ossia il momento in cui Afrodite viene alla luce, è mistico. Questa nascita è di una
complessità, dal punto di vista materico, che non ha eguali. Afrodite è fatta letteralmente dalla
concrezione dello sperma di suo padre. In molti hanno detto che Afrodite non è la sola nata dal solo
padre: anche Atena e Dioniso. Ma qual è la vera diversità? Atena e Dioniso sono la gestazione alla
fine di un solo genitore, ma in verità il concepimento è normalissimo. Atena è figlia di una delle prime
spose di Zeus, ossia Meti, che Zeus decide di ingoiare letteralmente quando è incinta. Anche il
concepimento di Dioniso è nel ventre femminile, e dalle ceneri del corpo di Semele, Zeus raccoglie
questo feto e successivamente, dopo 10 mesi, nasce dalla coscia del dio il piccolo Dioniso. Qui invece
non c’è nessuna riflessione sul concepimento, c’è solo la concrezione di una materia che è
esclusivamente il seme del padre Urano.
Un altro elemento interessante è il fatto che Afrodite si forma non appena il membro del padre cade
giù nelle acque. Esiodo descrive questa dea come una KORE. Per la prima volta nel mondo dei greci
il corpo umano emerge, non siamo più difronte ad un mondo in cui ci sono delle forze che si
contrappongono. Qui abbiamo un corpo umano. Afrodite è fatta come una fanciulla e ciò dice anche
molto sulla sua natura. Essa non sarà mai una donna adulta, non sarà mai vecchia, e il suo corpo sarà
sempre quello di una ragazza. Il primo corpo di fanciulla a fare la sua comparsa in questo universo,
non è il frutto di un amore fra un uomo e una donna, ma è fatto unicamente di sperma. In qualche
modo potremmo dire che la complessità di Afrodite, cioè questa sua capacità di essere
contemporaneamente donna e uomo, di essere dea dell’amore ma anche dea armata, la ritroviamo
anche qui. La sua femminilità è fatta esclusivamente di seme maschile. Già qui si riflette su un tema
che occuperà molto spazio nella mitologia e nella ritualità degli antichi, ossia il tema del
concepimento. Gli antichi greci hanno cercato a lungo un modo per liberarsi del corpo femminile
durante il concepimento. Questo è l’unico vero caso in cui veramente si è fatto a meno del principio
femminile.
Il poeta è attento e raffinato nella descrizione: il membro di Urano vola alto nel cielo, cade nel mare:
dal suo sangue nascono le Erinni (qui c’è un concepimento anche femminile attraverso Gaia). Con
Afrodite invece non c’è un principio femminile. Paradossalmente Afrodite, la divinità dell’amore e
della seduzione, non ama molto le donne. Essa è una divinità che si vendica in modo un po’ strabico:
il suo sguardo è come deviato. Fedra, sorella di Arianna, viene portata da Teseo come sposa. Quando
Teseo è lontano, Afrodite si adira fortemente con Ippolito che disdegna l’amore, e decide di
vendicarsi. Ma la vendetta ricade su Fedra. Si vendica di Fedra con una malattia d’amore che ha
proprio una sua sintomatologia precisa. Trasversalmente questa vendetta arriverà anche ad Ippolito.
Altro esempio è l’innamoramento della regina Pasifae per il toro più bello della mandria di Minosse.
Afrodite si vendica di Minosse facendo sì che Pasifae venga presa da questo amore insano. Afrodite
53
colpisce sempre le donne e preserva sempre gli uomini. Dunque questa cifra maschile della divinità
emerge sin dall’inizio, nella tessitura materica di cui è composta.
Poi Esiodo dice una cosa che la critica però non ha enfatizzato. Il mondo descritto è un mondo
primordiale, ma ad un certo punto Esiodo introduce la geografia umana, introduce le isole: l’isola di
Citera e l’isola di Cipro, quella in cui Afrodite è approdata. È come se Esiodo abbia voluto inserire
già la Grecia, che è sostanzialmente un paese arcipelago. Qui per la prima volta arriva quindi la
geografia degli umani, e arriva lo spazio protagonista delle vicende di Afrodite, Cipro. Afrodite, come
dice il poeta, si chiama KYPROGHENEIA perché è nata a Cipro. Con Afrodite arrivano le stagioni: i
piedi di Afrodite fanno nascere l’erba. Questa capacità miracolosa si ritrova come un vero miracolo
magico collegato con il culto di Afrodite Ericina in Sicilia. Dalle braci del sacrificio, nasce ogni notte
un’erbetta tenera. Essa inoltre è FILOMEDE (alla lettera amante dei testicoli) che richiama l’epiteto
omerico FILOMEIDES (amante del sorriso). L’intera dimensione della seduzione e dell’amore viene
rivoluzionata: non è più attrazione magnetica, ma è desiderio. EROS e IMEROS le sono sempre
compagni. Imeros talvolta prende le sembianze di un uccellino nella pittura vascolare. Eros invece ha
sempre sembianze umane. Arriva il mondo dei sentimenti.
Nonostante dunque questa nascita così dura e fosca, ciò che si accompagna ad Afrodite è sin da subito
qualcosa di morbido, seducente e di affettivamente connotato.
Questo è ciò che ci dice Esiodo (VIII-VII a.C.)
2) OMERO
Il libro V è descritto come il libro delle gesta di Diomede, guerriero che combatte in maniera molto
primitiva. Diomede è protetto da Atena che ne guida la mano, perché già dall’inizio dell’Iliade gli dei
intervengono pesantemente sul campo di battaglia, sulle azioni umane. Gli dei partecipano allo
scontro al pari dei mortali. Diomede ferisce Enea e prova a finirlo con una lancia sul fianco. Ma la
madre Afrodite apre le bianche braccia, avvolge Enea e a quel punto Diomede, armato da Atena,
trafigge il polso di Afrodite e da esso fuoriesce il cosiddetto ICOR, ossia il sangue degli dei. Omero
dice che Diomede ferisce Afrodite perché sa che Afrodite è tenera, il suo corpo è morbido e può
essere penetrato. La dea piange e si dispera, invoca Ares. Ritorna perciò sull’Olimpo sul carro di
Ares, accompagnata da Iride, messaggera degli dei. C’è un momento alla fine dell’Iliade in cui Iride
si fa da parte e in tutta l’Odissea non si farà menzione di Iride come divinità messaggera. Mentre Iride
riferisce parola per parola i messaggi degli dei, Ermes non è legato a questa necessità, egli riferisce
ma mai parola per parola.
Afrodite e Iride arrivano sull’Olimpo e la dea si avvicina al padre Zeus. Qui fa la sua comparsa una
madre di Afrodite, ossia Dione, che però in Esiodo non esiste. C’è però un trucco: Dione infatti ha la
stessa radice di Zeus, per cui gli interpreti di questo mito sono spinti a considerare l’ipotesi che Dione
venga inventata come doppio di Zeus, che essa sia la versione femminile di Zeus. Dione è una replica
al femminile di Zeus. Ciò è interessante perché ci riconduce a questa ambiguità di genere che riguarda
Afrodite. La ferita della dea verrà magicamente curata. Proprio in questo canto inizia a farsi strada un
gemellaggio tra Afrodite ed Ares. Nell’Iliade sono sempre insieme e combattono sempre insieme.
Quando Ares viene curato, Zeus non ha certo l’atteggiamento morbido che mostra nei confronti di
Afrodite.
Ci ritroviamo due genesi diverse: una la vede figlia dei genitali del padre, l’altra ha un concepimento
normale. Entrambe vengono ricordate da Proclo che commenta un passo del Cratilo di Platone. Proclo
mette entrambe le genesi sotto il cappello della letteratura orfica. A che mondo si fa riferimento
54
quando si parla di generazioni che procedono in cerchio, di stagioni che procedono in cerchio? Si fa
riferimento certamente al mondo agricolo, ma le generazioni divine seguono l’una all’altra, quindi è
in gioco una visione lineare del tempo. In Esiodo c’è persino spazio per un’allusione al fatto che ad
un certo punto cronologicamente, arriva anche l’uomo. Mentre la visione orfico-pitagorica suggerisce
un mondo in cui non esiste la scansione lineare del tempo, il tempo è circolare. Quindi per la visione
orfica Afrodite rinascerà per l’eternità.
Proclo, citando il passaggio orfico, mette in luce che qui c’è soltanto una concrezione materica,
l’unione sessuale non trova riscontro nella prima versione. Nella seconda versione il desiderio fa la
sua prima comparsa, così come fa la sua comparsa anche Dione che, in verità, non viene evocata nel
frammento orfico che Proclo cita.
Il simposio dii Platone è dedicato interamente alla natura dell’amore. Si ritrovano degli amici a
banchetto che parlano d’amore. Abbiamo il discorso del poeta comico Aristofane. Ci sono alcuni
elementi molto importanti, per esempio la posizione di Alcibiade e poi c’è un momento tutto teorico
e mentale, ossia il momento in cui la sacerdotessa Diotima racconta la natura di Afrodite, la natura
dell’amore. Essa dice che esistono due Afrodite: quella più antica, l’Afrodite celeste, Urania, e quella
più giovane, detta Pandemia. L’Afrodite Urania conosce solo il principio maschile e quindi amerà
solo i ragazzi (amore omoerotico), mentre l’Afrodite Pandemia favorisce anche l’amore
eterosessuale. C’è una predilezione per l’amore omoerotico rispetto a quello eterosessuale.
12/04/2018
Afrodite è duplice e l’analisi del suo culto va affrontata da due prospettive diverse. Effettivamente
Afrodite è una dea buona per pensare, così come dicono i francesi. Essa non solo è una e molteplice,
così come lo sono la stragrande maggioranza delle divinità antiche, ma questa molteplicità è fatta di
opposti. È miracolosamente in grado di tenere insieme l’universo femminile e contemporaneamente
tutta una serie di prerogative decisamente maschili. Ciò accade già dalla sua nascita, frutto di una
bizzarra concrezione dell’agglutinarsi del seme maschile e non c’è nulla di femminile nella sua
genesi; non è tuttavia l’unica genesi di Afrodite, ad esempio nei miti orfici, citati da Proclo, si parla
della presenza di due Afroditi; per cui c’è una Afrodite Urania che viene alla luce come quella di
Esiodo dal seme del membro evirato del padre Urano, e una seconda Afrodite, che sostanzialmente
nasce allo stesso modo della prima ma non è Urano il padre bensì Zeus, siamo quindi in un’altra
generazione, quella successiva;
In realtà per Esiodo Afrodite e Zeus sono quasi coetanei nella misura in cui dopo l’evirazione di
Urano il potere viene preso da Crono, padre di Zeus, a cui però Rea dà in pasto una pietra al posto
del figlio.
La peculiarità di questa seconda Afrodite è il fatto di avere una madre, e ciò si ritrova già nel V libro
dell’ Iliade in cui fa la prima comparsa Dione, che si occupa come una vera madre della figlia ferita
sul campo di battaglia; in Omero questa presenza non è introdotta, non si spiega = per un lettore
navigato di Omero ciò significa soltanto che il poeta in questo momento non sente la necessità di
spiegare nulla, ma immagina che il suo lettore sia perfettamente al corrente del fatto che Afrodite
abbia una madre > ciò presuppone che già nella fase di gestazione e poi di sistemazione dei poemi
del ciclo omerico Dione doveva essere madre di Afrodite. Quindi non stiamo parlando di una creatura
che non compare solamente qui, ma evidentemente Dione ha già una sua tradizione. Ovviamente
quando noi parliamo dell’Iliade o dell’Odissea dobbiamo farlo con molto pudore, perché ci sono dei
canti che sono chiaramente frutto di una tradizione. Per esempio ci sono piccoli indizi che ci spingono
a credere che il famoso XI canto dell’Odisseo fosse in verità un’inserzione che viene da fuori.
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Inserzioni a parte, Dione ha una sua dignità dal punto di vista mitico, ma con ogni evidenza è il doppio
di Zeus e ne è la declinazione al maschile. Su alcune tavolette in Lineare B abbiamo la divinità
maschile e la divinità femminile che è semplicemente la divinità maschile con una desinenza
femminile. Per cui questa duplicazione delle divinità femminili è qualcosa di molto radicato.
La sensazione di incertezza sulla madre di Afrodite è accentuata dalla comparsa improvvisa di Dione
e dalla totale ignoranza sulle sue origini. chi è Dione?
Si va a nominare, seppur parzialmente, un’altra specificità del mito antico quando si ha a che fare con
mito ed eroi, in quanto ci sono figure che si attivano soltanto all’interno del racconto dove sono
funzionali ad un’altra storia e fanno la spalla. Quindi Dione non è una figura centrale e neppure
secondaria del pantheon, è madre di Afrodite, e pure Proclo, che parla della nascita di Afrodite non
la cita come personaggio fondamentale (dice solo “collabora con lui Dione”); la si può immaginare
all’orizzonte come oggetto del desiderio pubertoso e insopprimibile di Zeus, ma di Dione non c’è
traccia.
Ugualmente questa duplicità di Afrodite si riverbera nella creazione antica di due diverse figure di
Afrodite, una che gli antichi consideravano Urania e l’altra che gli antichi consideravano Pandemia
(= volgare); la prima, che è quella che si presentava armata (quindi è anche un’Afrodite che dal punto
di vista della connotazione visiva è fortemente indirizzata in senso maschile), akràia (che abita i
picchi e le vette, ed è dislocata in alto), è figlia di solo padre e quindi solo dell’elemento maschile
della coppia generatrice > proprio per questo tendenzialmente istintivamente sarà portata all’amore
omoerotico e non a quello eterosessuale. L’amore omoerotico nell’antica era la forma più alta
d’amore, l’amore che scaturisce quando ci si innamora di qualcuno che ci è affine. Naturalmente nella
visione maschilista greca e in particolare quella ateniese, la donna è concepita come strumento di
procreazione. Dunque l’amore eterosessuale è un aspetto di misunderstanding: non ci si innamora di
qualcosa che ci è chiaramente inferiore, ci si innamora di qualcosa che ci è pari.
La seconda Afrodite invece è la signora dell’amore eterosessuale e di un innamoramento più
convenzionale, più volgare perché fisico oltre che spirituale; del resto l’unico comportamento
sanzionabile nel codice rigidissimo che regola la vita sessuale greca è quello di sostare in un ruolo
per troppo tempo, per un tempo che le convenzioni sociali non ci permettono di utilizzare (esistevano
due ruoli ben precisi, la sessualità non era libera, ma era rigidamente scandita: c’era l’amato, il
giovane ragazzo – eroumenos, e l’amante, l’adulto, l’erastés).
Territorio
L’isola di Cipro è, secondo Delforge, terra greca ma anche uno specchio un po’ deformato, per cui
tutto ciò che sembra profondamente greco a Cipro in verità ha un aspetto un po’ esotico e orientale:
non a caso qui Afrodite approda appena nata; questo è il luogo che ne vede la nascita tanto da formarne
l’epiteto di Kyprogeneia. Su quest’isola Afrodite aveva dunque un’importanza fondamentale: i due
tempi principali sono quelli di Pafo e di Amatunte. In particolare su quello di Pafo si fa riferimento
alla prostituzione sacra. Stando a Tacito i cipri avevano anche un altro tempio, ossia quello dedicato
a Giove Salaminio: Tacito riporta come ai tempi di Tiberio, con l’allargarsi dei confini dell’impero,
le autorità temessero che i vari luoghi di culto nascondessero luoghi di sedizione contro l’imperatore,
pertanto chiamò a Roma da tutto l’impero i sacerdoti delle singole città e isole per chiedere loro di
rendere conto dell’antichità dei propri templi. Per cui gli abitanti di Cipro si recano a Roma per
registrare i loro tre templi (due ad Afrodite e uno a Giove).
L’Afrodite cipriota, secondo Pausania, a livello di diffusione del culto viene venerata prima di quella
dell’area fenicia: in realtà pone un problema ineludibile nel caso di Afrodite, ossia il tratto polisemico
del suo personaggio, che si lega non solo alla nascita ma si lega al fatto che Afrodite fa parte di una
famiglia numerosa di divinità che ha come capostipite Inanna (vedi slide), rappresentata a più riprese
a Uruk, protagonista del ciclo di Gilgamesh (metà III-II millennio a.C.) che ha dato poi vita a Ishtar,
colei che l’area semitica venerava come dea dell’amore, coeva di Inanna, dea sempre giovane, sempre
ragazza, mai rappresentata come figura materna e connotata iconograficamente in modo più
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polimorfico rispetto ad Afrodite ( piedi artigliati, ali d’uccello, è chiaramente una sorta ibrido tra
Afrodite e Artemide, signora delle fiere). Secondo molti questa sarebbe l’antenata illustre
dell’Afrodite greca da cui appunto, secondo Pausania, Afrodite deriverebbe direttamente. Ad un certo
punto questa Afrodite approda a Cipro e diventa l’Afrodite di Cipro.
Ma cosa accade a Cipro per essere considerata una terra così straniante?
Per raccontare la storia di Afrodite si parte dall’episodio eroico della Vita di Teseo di Plutarco (slide):
a un certo punto, così come accade in tutte le varianti del mito, Arianna viene abbandonata a Nasso,
ma in una variante viene abbandonata a Cipro; già di per sé è un’idea audace, originale, dal momento
che non c’è nessuna altra variante in cui Arianna viene abbandonata a Cipro. Infatti sull’isola di Cipro
non c’è il copione per cui Arianna viene abbandonata dall’eroe mentre dorme e successivamente,
accortasi dell’assenza di Teseo, piange e si dispera. La ragazza infatti in questo caso specifico, è
incinta, ha le doglie, è davanti alle coste di Cipro sulla nave con Teseo il quale decide di occuparsi
della sua nave al posto di Arianna e la fa sbarcare sperando che lei sopravviva. Giunta sulla riva del
mare, Arianna viene accudita dalle donne del luogo (Cipro ha una lunga tradizione di cura generale,
è terra molto accogliente: viene accolta come Afrodite), che la consolarono per la solitudine; tuttavia
muore per il parto. Ciò causa il dispiacere di Teseo, che giunge a sua volta sull’isola in un secondo
momento: lascia denaro agli abitanti del luogo perché possano fare sacrifici per Arianna e fa innalzare
due statuette (una d’argento e l’altra di bronzo). Durante il sacrificio, celebrato il secondo giorno del
mese di Gorpiaios (mese cipriota nel pieno dell’estate), un giovane sdraiato sul letto grida e imita le
doglie femminili; gli abitanti di Amatunte, secondo centro più importante di Afrodite, chiamano il
bosco sacro in cui mostrano la sua tomba, di Arianna Afrodite.
Ogni segmento di questo mito andrebbe approfondito, ma ciò che interessa, e che in effetti interessava
anche a Plutarco, è l’incredibile e unico rito che Plutarco vuole istituire: per commemorare la donna
morta di parto, Teseo istituisce una cerimonia per cui una volta all’anno un uomo simula i dolori di
una donna che sta partorendo. Quindi un comportamento a tutti gli effetti ascrivibile alla sfera della
bisessualità e del cambiamento di genere. Non si tratta di travestimento, ma sicuramente c’è
l’adozione, da parte di un genere, di comportamenti che appartengono all’altro genere.
C’è in gioco qualcosa di più forte: un giovane ragazzo di età ancora poco individuata dal punto di
vista del suo ruolo sociale (non è ancora un uomo adulto) finge un comportamento che non è
genericamente un comportamento femminile ma è ciò che, senza rimedio, distingue l’uomo dalla
donna, quindi tutta la sfera del parto. È come se Arianna, che muore senza aver potuto partorito, fosse
sostituita da un uomo che ne simula i dolori.
Ciò si collega ad Afrodite perché tutto questo avviene ad Amatunte, e perché, non a caso, questa
Arianna dolente e defunta viene ricordata all’interno del rituale come Arianna/Afrodite: la dea prende
il sopravvento e il comportamento dei giovani oltretutto si iscrive all’interno dei rituali che
competono alla dea. Quindi è come se ci fosse uno scivolamento dell’elemento maschile della
comunità verso l’elemento femminile.
Una delle ragioni principali per cui è importante ricordare questo stranissimo rito è proprio per la
rilevanza che ha questa imitazione del comportamento femminile. Imitare una donna che sta
partorendo non ha nessun paragone in tutto il mito e culto di Grecia e Roma, è un unicum: è però un
uso che non è sconosciuto o non attestato. Ad esempio tra i barbari esiste un comportamento
abbastanza simile e anche nel mondo degli animali (il gallo, animale che i Greci consideravano
simbolo di virilità e di coraggio guerresco, alla morte della gallina ne covavano le uova > erano in
grado di manifestare comportamenti femminili per proteggere la prole che doveva ancora nascere;
non a caso il gallo è un animale sacro alle partorienti, è una sorta di talismano per le partorienti).
Il nome che gli antropologi danno a questo tipo di comportamento è couvad (covata) = i giovani
ciprioti covano un figlio che non esiste; è genericamente il cappello sotto cui porre anche questo
comportamento.
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Tornando ad Afrodite, l’ambiguità del genere si collega molto all’ambito cipriota: l’Afrodite di
Amatunte, secondo Pausania, si fa derivare dalla Palestina, e in particolare un santuario di Ascalona
in Siria, che ospitava un importante culto della dea Siria Ishtar (Afrodite); questo culto vedeva
l’adorazione di una dea che aveva il corpo polimorfo di donna e di pesce ed era signora di un lago
popolato di pesci, sacri alla divinità. Ad un certo punto davanti al suo santuario sfila un gruppo di
Sciri, popolazione molto barbarica, sono l’antitesi del civile: questi sono mercenari, uomini soldati,
alcuni se ne vanno perché il re dell’Egitto li ha pagati per questo, mentre altri si fermano e lo
saccheggiano. Erodoto spiega che il santuario in questione è molto antico ed è il più antico di quelli
dedicati alla dea, perché il santuario di Cipro è derivato da questo; quello di Citera è stato eretto dai
Fenici che provengono dalla stessa parte della Siria.
Al gruppo di Sciti che saccheggiarono il tempio di Ascalona e ai loro discendenti, la dea inflisse una
piaga femminea → generale debolezza in tutta la sfera sessuale. Afrodite trasforma questi mercenari
in creature simili a eunuchi, diventano impotenti (Enarei sciiti). C’è una discreta dose di perfidia nel
trasformare dei mercenari in personaggi che non hanno più alcuna carica virile dal punto di vista
sessuale.
Questo tipo di figure, che sembrano particolarmente esotiche, hanno una discreta fortuna a livello di
permanenza nel tempo. Fra gli altri anche lo scrittore Puskin incontra un prigioniero di guerra, un
contadino grande e grosso con il volto di una vecchina. Quando Puskin domanda lui chi gli avesse
provocato ciò, quello risponde “Deus respondit castravit me”.
Lo stesso Ippocrate, nel suo trattato “Sulle arie, le acque e i luoghi” si occupa a che degli Enarei,
dicendo che la maggior parte degli Sciti diventano impotenti e agiscono come una donna, vivono
come loro e vengono chiamati Enarei; ciò avviene per una causa divina → indossano abiti femminili
perché pensano di aver perso la loro femminilità. Ma per Ippocrate questa malattia non è da imputare
semplicemente alla divinità. egli ritiene infatti anche che una delle cause di questa impotenza fosse
dovuta al continuo andare a cavallo (ci fosse dunque anche una causa organica → l’abitudine reiterata
di andare a cavallo, e non solo divina).
Relativamente ad Afrodite accade che questi Sciti si comportano come una donna perché colpiti dalla
Afrodite di Ascalona, che è l’Afrodite di Amatunte a Cipro, e vengano dunque ricompensati dalla
divinità che decide di farne un corpo sacerdotale: gli Enarei diventano allora sacerdoti della dea,
passano l’intera giornata a srotolare e rotolare le cortecce del tiglio da cui traggono presagi collegati
ad Afrodite > questo probabilmente era l’oracolo di Afrodite in Scizia.
Questa Afrodite di Amatunte può essere definita anche alla luce di un passo di Macrobio (slide), che
la pone come deus e non dea: ciò a causa del suo aspetto di donna barbuta. Abbiamo a che fare con
una Afrodite duplex, che è uomo e donna contemporaneamente. C’è una sua statua a Cipro barbata
nel volto, ma con la veste femminile, con lo scettro ma con la statura virile. A Cipro ritengono che
sia contemporaneamente maschio e femmina. Macrobio inoltre fa intendere che Afrodite è collegata
anche alla luna poiché di notte viene venerata e lo storico Filocoro (autore III secolo a.C. che fa parte
degli attidografi: coloro che scrivono dell’Attica), dice sempre Macrobio, nella sua Attide spiega che
è proprio la luna, e che a lei fanno sacrifici gli uomini con una veste da donna e le donne con una
veste da uomo, infatti è maschio e femmina contemporaneamente. Questa è la venere di Amatunte
che ha in sé questa duplicità di genere. Ciò che Macrobio dice però non trova un vero riscontro nella
pratica: noi non abbiamo statue di questa Afrodite barbuta, ma abbiamo una vignetta di Luigi Palma
di Cesnola, straordinario falsario. L’assemblaggio dell’Afrodite barbuta è uno dei suoi pezzi più
importanti.
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19/04/2018
Lezione professor Luca Bombardieri
SOPHISTICATED LADY: Aspetti della Preistoria di Afrodite a Cipro
Bisogna venir meno ad alcuni luoghi comuni che riguardano l’immaginario di Afrodite. L’anagrafe
del mito ha restituito delle coordinate biografiche e geografiche riguardanti la divinità. l’anagrafe del
racconto del mito ci consegna dei luoghi fatati, molto celesti, come il tratto della costa cipriota. Questo
è il paesaggio in cui noi siamo portati ad immaginare la nascita di Afrodite, con elementi biografici
precisi. Il primo toponimo è Milo e il primo autore che si lega a Venere è Botticelli.
Purtroppo dovremmo liberarci dalle spume azzurre del Mediterraneo. Afrodite è nata nella bassa
Austria, in cui un paleontologo tedesco ha portato alla luce un giacimento del paleolitico da cui
proviene un oggetto che prende il nome dalla città in cui è stato rinvenuto: la Venere di Wilendorf. È
una statuetta dalle curve molto enfatizzate. Per cui in realtà il nostro immaginario viene chiamato in
causa. Da questo contrasto si deve partire: la venere preistorica e la venere immaginata. La distanza
fra le due è immensa sia dal punto di vista cronologico che da quello culturale.
Venere di Wilendorf:
IL CORPO → è una figura nella quale l’enfasi della rappresentazione visiva è posta sul corpo nelle
sue forme enfatizzate. Le sue forme legate alla nascita e alla riproduzione sono enfatizzate. Già in
questa fase primordiale l’accento è sulla fecondità, sulla capacità riproduttiva del genere femminile.
Non c’è alcuna rilevanza data agli elementi anatomici del volto, perché non c’è alcun interesse nella
sua resa. Ciò che è sottolineato è unicamente l’elemento del corpo e l’enfasi degli elementi del corpo
legati alla riproduzione.
La figura sacra femminile, con il passare del tempo, guadagna un ruolo.
SLEEPING LADY (I metà del III millennio a.C.)
VENERE DI CATAL HOYUK
In entrambi i casi la figura femminile acquista un ruolo: nel caso della prima la Venere si trova
sdraiata (vano per l’incubazione sacra della sacerdotessa che dormiva e dormendo parlava nel sonno.
Le sue parole salivano in superficie e questo eco era in realtà la parola della divinità). nel secondo
caso la dea è assisa in trono.
Solo molto dopo la figura sacra femminile dal corpo libero, acquista un altro elemento: il gesto. Si
vede bene come dalle figure neolitiche prive di gesto, arriviamo alle veneri dell’età del bronzo che
vengono ritratte in gesti specifici. La figura guadagna un gesto codificato: ossia quello delle braccia
raccolte sul petto.
Dal gesto semplice la figura sacra femminile acquista un gesto complesso: ad esempio la Venere di
Myrtos nella quale gli elementi sessuali femminili sono enfatizzati, al pari delle prime veneri, ma il
gesto è complessificato dalla presenza di un elemento in più: la brocca per compiere libagioni. È un
gesto che chiama dunque in causa accessori esterni.
Un ulteriore elemento è il passaggio dal gesto complesso al gesto performativo: chiama in causa un
numero maggiore di figure. Il gesto non è singolo ma collettivo. Ne vediamo un esempio nella cultura
minoica palaziale. In questo contesto la figura femminile sacra entra in un coro di voci e
nell’ANELLO D’ORO di Isopata vediamo una vera e propria danza.
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Un ulteriore passo è quello di acquisire un gesto di tipo evocativo, in cui il gesto viene solamente
suggerito. È il caso delle figurine (a “PHI”: braccia raccolte e a “PSI”: braccia levate) micenee in cui
le due tipologie sono stilizzate in modo estremo.
CIPRO → la terra della dea per antonomasia, come si rapporta a questa evoluzione?
Cipro è un laboratorio interessante per osservare la nascita e lo sviluppo di Afrodite, questo perché è
il luogo della sua nascita. È il luogo infatti in cui è più consono immaginare la sua nascita. Essa è
diventata di per sé l’oggetto della comunicazione contemporanea. Afrodite è incestata come elemento
della cultura cipriota contemporanea ma nelle rappresentazioni contemporanee dalle onde esce una
Venere di Milo, che non è affatto la venere cipriota (contraddizione). Questa pervasività della figura
di Afrodite ha influito anche negli studi relativi ad essa: ci sono stati numerosi autori che si sono
messi alla ricerca della proto Afrodite. C’è stata una sorta di congiunzione astrale per cui i lavori di
Maria Gimbutas si sono saldati con i lavori degli archeologi con l’obiettivo di cercare le origini di
Afrodite. Questa sorta di matrimonio ha fatto sì che per devenni questa ricerca della proto Afrodite
fosse un po' un’ossessione nel dibattito antropologico. In anni più recenti il dibattito è stato portato
avanti ed è stato chiamato in causa, in maniera giusta, il ruolo della donna nella civiltà preistorica
cipriota.
1. La donna (Neol. –MBA) → abbiamo numerose fonti sia di natura archeologica (materiali a
contesti domestici, artigianali, e a contesti funerali) sia nell’arte figurativa. In queste società in
cui la scrittura non esiste o ha un ruolo marginale, la comunicazione visiva ha un forte impatto.
L’artista è un tramite fra la comunità e la volontà di rappresentare un’idea attraverso un simbolo
(comunicare un messaggio non verbale). La società preistorica cipriota è una società in cui la
scrittura non è stata codificata, per cui l’arte figurativa rappresenta un modo di comunicare
all’interno della comunità, attraverso elementi visivi e simboli.
- Le donne sono rappresentate come madri, come lavoratrici e come figure sessualmente ambigue.
Siamo nella fase in cui la figura femminile guadagna il gesto: figura cruciforme (la dea è
rappresentata con le braccia aperte). C’è un caso specifico: ossia di un deposito sacro. Al di sotto
di un ambiente circolare è stato rinvenuto un deposito contenente un cratere in ceramica dipinto
che ha la forma di un grande bacino. All’interno di esso si trovano alcuni oggetti significativi: una
conchiglia marina, e delle figurine in pietra. Non è un bacino perché è reso non funzionale da un
foro presente sulla parete in basso. Questa apertura è la porta di un modellino che rappresenta un
ambiente specifico. Si tratta perciò di una riproduzione in scala ridotta di un ambiente e le figure
contenute in esso sono delle figure umane che hanno a che fare con l’ambiente stesso. Le più
rilevanti sono tre figure che rappresentano due figure femminili e una figura mostruosa. La prima
delle tre è una figura femminile dai fianchi ampi, è una figura di donna gravida; la figura numero
2 è una figura che non ha i fianchi allargati, ma ha un profilo a campana aperta verso il basso con
una nicchia posta sul fondo. All’interno della nicchia è raffigurata una figura umana: la resa
evocativa è lo svuotamento della donna dopo il parto. A questo si affianca la figura mostruosa.
Elizabeth Goering ha rilevato che sulla superficie di queste figure ci sono delle tracce di
manipolazione che sono compatibili con il fatto che le figurine fossero tenute in mano. Queste
tracce sono molto evidenti soprattutto sulla figurina della donna partoriente. È quindi possibile
che questi oggetti fossero degli amuleti legati alla performance del parto, che si svolgeva
chiaramente in un ambiente sacro dedicato al culto della maternità. È molto importante per noi
trovare questo punto come punto d’avvio per il riferimento alla maternità.
La figura mostruosa cosa rappresenta? Bisogna analizzare la figura e cercare di collocarlo
nell’ambito della performance. Un elemento interessante è la presenza nel deposito, di uno
sgabello. Questi sgabelli sono noti all’interno della descrizione di questi ambienti sacri per il
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parto, dove si partoriva in bassi sgabelli (una delle modalità con le quali si partorisce tutt’ora in
certe culture). Evidentemente lo sgabello è a sua volta un elemento legato al parto e dunque è
interessante la presenza di uno sgabello simbolo che ha le stesse dimensioni della figura
mostruosa che molto probabilmente era collocata sullo sgabello. Ci viene in aiuto una figura
itifallica: la figura maschile ha le gambe raccolte sullo sgabello, i gomiti sulle ginocchia e le
braccia raccolte sul volto. I tratti di questa figura sono decisamente analoghi a quelli della figura
mostruosa presente nel deposito (arcata sopraciliare espansa, bocca). Questa rappresentazione
facciale è compatibile con la rappresentazione di una maschera. È possibile dunque che le figure
fossero delle figure mascherate. Ci troviamo di fronte ad una figura maschile mascherata che
riproduce il gesto identico della figura femminile del parto. La couvad è un complesso fenomeno
studiato dall’antropologia, un insieme di tabù legati alla fase della gravidanza e del parto.
All’interno di questi tabù è documentata anche la versione del compagno che finge i dolori del
parto, si maschera da donna, si isola al di fuori del villaggio, e fingendo i dolori del travaglio attira
su di sé i rischi della figura femminile. Questi riti di travestimento potrebbero avere in questa fase
preistorica, un precedente significativo.
Nello stesso periodo altre figure ci suggeriscono altre performance legate alla maternità: ossia le
figurine LACTATIONS → la figura è colta in un atto specifico: ossia la raccolta del latte materno
in una ciotola.
L’altro elemento è quello di donna ambigua, molto presente proprio dal punto di vista della figura
umana. La costruzione della figura umana contiene in luce un’ambiguità che diventa volutamente
ambiguità sessuale: le figure femminile sono figure con forti tratti maschili: il collo e la testa
richiamano elementi fallici. Un caso particolare è la figura del fallo seduto in cui la figura
femminile e quella maschile sono associate.
2. La dea (LBA-LA): si aggiunge la figura femminile come elemento all’interno della produzione,
del lavoro. Sono le cosiddette figure PLANK-SHAPED con il bambino in braccio. Ci sono poi
raffigurazioni di culle con bambini che alludono alla figura della madre. Poi ci sono figure di
donne gravide. In alcuni casi la culla, da oggetto reale, da contenitore del bambino, si trasfigura
e diventa una donna lei stessa. Nel primo caso la culla è rappresentata coi capelli sulle spalle, nel
secondo caso la culla è rappresentata con le braccia. Le due trasfigurazioni sono coerenti con il
concetto di donna-madre. Allo stesso modo attua il concetto la versione funerea della donnamadre. Si aggiunge però la figura femminile all’interno di contesti lavorativi: nella JUG a Pyrgos
le figure stanno compiendo azioni lavorative e in mezzo a loro si trova la figura della donna col
bambino in braccio: non è solo sonna-madre, ma le viene riconosciuto un ruolo fattivo. È
probabile infatti che queste figure fossero realmente delle figure che contribuivano alla
produzione dell’economia: in una terracotta del Louvre le figure che stanno impastando il pane
sono accompagnate da una figura di donna che tiene in braccio un bambino. Si è cercato di capire
il ruolo di queste figure femminili col bambino nell’economia delle società di villaggio: molto
probabilmente esse avevano un ruolo reale. A suggerirlo è una terracotta di Tebe in cui le figure
femminili sono accompagnate dalla figura di un flautista. Sono moltissimi infatti i canti di lavoro
legati all’espletamento fisico delle attività legate alla macinazione. La ripetizione del ritmo dà la
cadenza per ripetere lo stesso gesto del lavoro. È quindi possibile che queste figure femminili
cantassero, producessero dei suoni con i quali accompagnare il lavoro della comunità. Se ciò fosse
vero, allora dovremmo immaginare che questa figura femminile dal calcolitico all’antico bronzo
acquista un ruolo importante nella società: non è più solo la donna-madre, ma contribuisce
all’economia della società.
3. La Dea internazionale (LBA-LA): vengono costruiti i primi edifici sacri propriamente detti e
inaugurati i primi commerci internazionali legati al commercio del bronzo in forma di lingotti che
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veniva estratto a Cipro. La fase del tardo bronzo si apre con i commerci. La figura femminile
sacra in realtà viene declinata con gli stessi parametri, ma chiaramente associata alla divinità
perché è chiaramente influenzata dall’esterno. Figure dunque di madre con il bambino, ma
decisamente sacre e in alcuni casi diventano delle vere e proprie statue di culto. Mantengono la
loro dualità sessuale, mantengono la stessa importanza conferita al parto. Ma questi elementi
culturali autoctoni si collocano con elementi religiosi che provengono dai luoghi con cui si è a
contatto. In una delle lettere dell’archivio di Ugarik, in una delle lettere lo scrittore fa menzione
di tutte le divinità di Alashia. È vero infatti che a Cipro si connettono elementi di provenienza
orientale a elementi iconografici locali. Si prende la divinità orientale e la si pone sul simbolo
vero dell’economia reale dell’attività cipriota: ossia il lingotto. Lo stesso vale dal lato opposto per
le influenze del mondo Egeo su Cipro (sincretismo e riproduzione). Per cui questa dea diventa
una dea internazionale, sincretica e anche sofisticata.
23/04/2018
TESEO
Tema del bizzarro rituale che Teseo istituisce per Arianna e che ha due elementi focali:
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La dedica delle due statuette: Bombardieri ha evocato un deposito cipriota di CHISSONERGA
MOSPHILIA. Le statuette non venivano semplicemente utilizzate come ex voto, ma facevano
parte di un rito.
Il tema dei ragazzi che, una volta all’anno, imitano il parto femminile
Tutto ciò sotto l’egida dell’Afrodite di Amatunte, il luogo in cui più sembra essere presente la
dimensione della bisessualità riguardo al culto della dea. Afrodite è legata in qualche modo legata ad
una sorta di malattia femminile che nella fattispecie sembra colpire alcuni mercenari scizi che sono
responsabili della profanazione del tempio della dea Afrodite ad Ascalona. Questa Afrodite viene da
lontano, dalla Palestina e che si insedia a Cipro e che colpisce i mercenari Scizi i quali vengono privati
della loro potenza virile (del tutto paragonabili a degli eunuchi, dice Erodoto). Questo comportamento
ci dice qualcosa che ha grande rilevanza: esiste a Cipro un comportamento che consiste nel fatto che
un giovane assuma su di sé un comportamento esclusivamente femminile. Non si tratta di uno
scambio di genere bensì dell’adozione di un comportamento che ha anche una sua definizione precisa
e che Taylor chiama COUVAD: comportamento che va inscritto nel momento del parto e della
gravidanza.
Originariamnete ciò che viene descritto per i giovani di Amatunte ha un suo grado zero che non ci
proviene dall’antichità bensì dalle indie occidentali e riguarda i Caribi. I Caribi, descritti da Taylor e
poi da Frezer, hanno due tipi di comportamenti diversi:
1. Quando una donna sta per partorire il clan maschile della tribù imita i dolori del parto della
donna, fino a quando il parto è giunto a compimento. Questa couvad è definita PERI
NATALE.
2. Il padre del bambino si sottopone dopo la nascita ad una pratica di scarnificazione della pelle
con un dente di pescecane e successivamente la pelle viene cosparsa di granuli di pepe
ustionanti.
Questo tipo di comportamenti viene definito da Frezer, una messa in scena bizzarra. Per lui sarebbe
una questione magica, di magia simpatica. Nel primo caso la SYMPATHEIA, sarebbe tra il padre e
la madre (il padre quindi fingerebbe di essere la madre e per lo studioso questo è un caso classico di
magia apotropaica. Le forze del maligno sono spinte a concentrarsi sull’elemento forte della coppia,
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ossia l’uomo, in modo tale che la donna possa partorire). Nel secondo caso sarebbe in gioco un altro
tipo di magia: qui il legame è tra padre e figlio e l’idea è che non ci sia la soluzione di continuità fra
due figure. Il comportamento del padre può assicurare la salute del figlio. In questo caso il padre sta
per il figlio e sopravvivere a questa scarnificazione significa garantire la sopravvivenza al figlio.
Altri 2 esempi citati da Frezer:
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In un caso si riferisce al Borneo e parla dei Daiachi. In occasione del padre la donna sta a casa.
All’interno di essa entra uno sciamano che avvolge sotto il seno della donna una fascia stretta.
Fuori un altro sciamano lega una pietra sulla pancia ed è circondato da altri sciamani.
Altro esempio è quello che Frezer osservava per gli abitanti della nuova Irlanda. Quando una
donna sta per partorire, gli uomini vanno tutti al pub e uno di loro piange davanti ad un boccale
di birra. L’interesse è stornato dalla protagonista dell’atto biologico su una persona o più persone
che appartengono al sesso opposto e che ne imitano i comportamenti.
Ma qual è la vera differenza con i giovani di Amatunte? Ci sono tante somiglianze ma c’è una
differenza sostanziale: il rito di Teseo infatti avviene ogni anno, non in occasione di un reale parto →
la couvad ha come unico scopo quello di permettere al bambino di sopravvivere e di stare in saluto.
Il contrario di ciò che avviene per il rito di Teseo che viene istituito per la morte di Arianna. Quindi
quello di Teseo è un atto mancato.
Tuttavia bisogna dire che la questione della simulazione della gravidanza e della malattia femminile
si trova sviluppata in un arco molto ampio di tempo. bisogna immaginare il rituale in forte
connessione con una punizione divine e con il tema della dea.
Racconto irlandese medievale: IL TAIN (LA GRANDE RAZZIA): serie di racconti leggendari (XIXII secolo) che riguardano dei racconti che hanno l’eroe CIUCIULEIN al loro centro. Esso è
protagonista di molte imprese ma il tema interessante è quello che si lega all’AITION di una festa
religiosa, OSSIA I GEMELLI DI MACHA → ogni anno tutti gli uomini dell’Aister, così come erano
stati puniti gli Scizi per aver profanato il tempio della dea, dovranno giacere a letto in condizioni di
invincibile prostrazione, nelle stesse condizioni di una partoriente. Una malattia femminile anche in
questo caso colpisce gli uomini. Questo tipo di comportamento che noi osserviamo per Cipro, non ha
alcun riscontro in territorio greco. Abbiamo esempi di couvad che provangono da tutto il mondo ma
la cultura greca non ricorda esempi di questo genere, salvo il caso di Cipro.
Cosa significa questo in termini sia religiosi che antropologici? Sicuramente il tema è il tema di Cipro.
Cipro è una terra greca ma con dei tratti, delle coloriture che ci impediscono di metterla a fuoco
chiaramente. È Afrodite che esercita su questa terra un influsso straniante che devia dai binari della
condotta ortodossa non solo dal punto di vista della creazione ma anche della prostituzione.
L’Afrodite cipriota investe con grande potenza tutti i comportamenti che hanno a che fare con la
femminilità. I comportamenti dei giovani ciprioti comunque sono profondamente legati al culto di
Afrodite di Amatunte. I Greci non accettavano questo comportamento, ma ragionavano
semplicemente sull’asse della inversione: è un modo di organizzare la tessitura della civiltà dei
popoli altri, molto comodo perché ragionare sull’asse dell’inversione ci permette di fare qualcosa di
molto semplice → l’incivile sarà il contrario di quello che è il civile. I Tibareni insieme ai Mossineci
si mettono a letto per via del figlio e le donne vanno nei campi a lavorare. Questo genere di
comportamenti arriva sino a lì: tutti i paradigmi sono rovesciati.
Statuetta famosa da Aghia Irini: località investita da un culto molto longevo di una divinità maschile.
In questa località sono state ritrovate anche figure femminili. È stata rinvenuta la statuetta di un’orante
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dotata di due seni, e di una barba nera: è una figura di orante androgino. C’è poi un’altra statuetta
definita minotauro: il corpo è quello di un toro mentre il busto è quello di un essere umano.
Lateralmente questo minotauro ha il seno: è un esempio di ibridismo selvaggio → c’è un ibrido tra
specie e un ibrido di genere (è androgino). È importante perché siamo comunque sempre a Cipro ed
è appunto questo il luogo privilegiato di Afrodite.
PROSTITUZIONE SACRA
Non meno importante nella storia del culto di Afrodite cipriota è il tema della prostituzione sacra, che
investe non solo Cipro, ma anche Corinto, Locri Epiuzefiri e si pensa anche la Sicilia, con Erice,
Ovidio nel libro X delle Metamorfosi parla di Amatunte. Il poeta mette in scena l’immagine
bellissima che fa parte del suo stile narrativo che prevede una grande cura nel dettaglio: il corpo
umano si muta tecnicamente in una statua. La statua è l’esisto finale di un inaridimento del sangue e
delle lacrime. Qui c’è però qualcosa di più, ossia il tema del pudore. Diventare pietra è anche una
questione emotiva: le ragazze si trasformano in statue di prostitute che hanno le guance rosse, sono
volgari. Il segno è solo uno: è Venere che le punisce. Punisce le Propetidi costringendole a prostituirsi
poiché esse non la riconoscono come divinità: siamo dunque nel segno della vendetta di Afrodite.
Subito dopo racconta la storia di Pigmalione. Quest’ultimo è abitante di Pafo e qui venera Afrodite,
ma, disgustato dal decadimento morale che secondo Pigmalione investe tutto il genere femminile,
decide che non prenderà mai moglie→ il rifiuto dell’amore è molto diverso da quello che aveva
adottato Ippolito. Quest’ultimo non venera la dea, non venera l’amore. Pigmalione invece venera la
dea e quindi il suo rifiuto di non prender moglie non ha nulla di offensivo. La dea infatti decide di
ringraziare Pigmalione. In occasione di una festività in onore di Afrodite in cui la dea viene portata
in giro per la città di Pafo, l’uomo si accoda alla processione e quando rientra nel suo atelier, accarezza
il corpo della sua statua di marmo e quest’ultima si anima. Ciò che è del tutto evidente è il tema del
rapporto fra il corpo femminile e la sessualità e della prostituzione.
Anche per ciò che riguarda la prostituzione sacra, la fonte più importante è Erodoto, I libro delle
storie: lo spazio è sacro (recinto templare), le donne giungono al tempio e accettano denaro in cambio
di un rapporto sessuale. Mylitta è uno dei nomi che nella cultura babilonese si assegnavano ad
Afrodite. Questa usanza c’è anche in alcune parti di Cipro.
Erodoto dedica inoltre molti capitoli agli usi degli Egizi: gli uomini egiziani portano i pesi sulla testa,
le donne invece sulle spalle; le donne orinano in piedi, gli uomini accoccolati. Di mantenere i genitori
non c’è alcun obbligo per i figli che non lo vogliono, mentre per le figlie c’è l’obbligo assoluto anche
se non lo vogliono. Questo mondo alla rovescia si ritrova in Erodoto, siamo nel II libro.
La prostituzione sacra, dice Erodoto, era simile e presente anche a Cipro. se noi mettiamo questi
esempi insieme, cosa si potrebbe dire? Egli descrive le usanze dei popoli altri (Erodoto getta uno
sguardo da antropologo culturale sui mondi altri). Erodoto si sente profondamente greco e sente la
necessità di descrivere i popoli altri, guidato da un interesse meramente etnografico. Un elemento
importantissimo è il fatto che la dimensione di questa alterità si gioca ancora una volta sull’asse
dell’inversione (lo si vede soprattutto quando parla degli egizi) e sull’antitesi rispetto al mondo greco
(LORO vs NOI). In questo rovesciamento dei costumi è del tutto evidente che una spia chiave per
decidere se un popolo è “altro” da sé, è il comportamento delle donne. La barbarie è valutata sulla
barbarie dei comportamenti delle donne: le donne babilonesi sono turpi così come turpi erano le
Propetidi.
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Giustino, Epitome a Pompeo Trogo: viene ricordata un’usanza di Cipro di mandare le giovani donne
giù fino al mare in giorni stabiliti prima del loro matrimonio per guadagnare denaro che serviva alla
dote, attraverso la prostituzione. Quindi per Giustino questa usanza è di fatto un rito di passaggio, che
si colloca in un momento fondamentale dalla dimensione di PARTHEONOS a quello di donna adulta.
In questo si colloca il tema della verginità perduta. Nonostante la perdita della verginità però la virtù
è preservata, virtù che permette a queste donne di diventare madri di famiglia. La prostituzione va a
collocarsi sulla stessa linea dello IUS PRIMAE NOCTI. Anche in questo caso la prostituzione non
comporta la perdita della virtù, poiché avviene una sola volta e mai più. Il fatto di concedersi al
sovrano la notte prima delle nozze è una forma di sacralizzazione del matrimonio. Il contatto della
ragazza con l’universo della sacralità.
Il tema della prostituzione sacra come voto per risolvere favorevolmente un conflitto dall’esito
incerto, è presente quando si fa riferimento al culto dell’Afrodite armata. Il caso di Locri ci pone
dinnanzi ad un problema archeologico: ossia la presenza a Locri di due santuari, quello di Persefone
e quello di Afrodite. Probabilmente, dove c’era l’altare del tempio di Afrodite, è stato rinvenuto il
TRONO LUDOVISI che risale agli inizi del V secolo a.C. Questo ha un’iconografia misteriosa che
sembra far riferimento ad una forma di prostituzione in onore della dea. Sicuramente quel che è certo
è che il trono vada inscritto al culto di Afrodite. Per cui in qualche modo è legato al tema raccontato
da Giustino.
24/04/2018
Riti che accolgono dei travestimenti, degli occultamenti dell’identità sessuale nell’ambito del culto
di Afrodite. La couvade è una sorta di palestra interpretativa degli studiosi di religioni del mondo
classico e degli antropologi culturali in senso lato. Negli anni ’70, un antropologo, Menget, ragiona
in modo molto puntuale sulla couvade, reagendo alla sollecitazione dello studioso Rinvier. Menget
dice che il dualismo corpo-anima non c’entra nulla. egli si occupa di una popolazione di lingua
caribica: i Caribi si chiamano Tixikao. Essi sono una popolazione in cui il numero dei tabù e la stretta
osservanza con cui questi tabù vengono osservati, ne fanno un caso interessantissimo per gli
antropologi. In particolare, ciò che Menget osserva è che i Tixikao si sottopongono in gruppo ad una
dieta rigidissima dopo la nascita del bambino → couvade POST NATALE (divieto delle carni rosse
e dei cibi troppo speziati). Ciò che lo studioso fa è un’operazione importante: l’azione si è riverberata
a partire dalle usanze o dai convincimenti che la comunità ha dopo la nascita del bambino. Ciò che
osserva è che i convincimenti della comunità per ciò che riguarda il concepimento sono gli stessi che
avevano gli spartiati: il figlio non ha nessun rapporto specifico di sangue nella madre; il figlio è
semplicemente il seme del padre. Ci sono dei disegni anatomici in cui si vede che dal padre fuoriesce
non lo spermatozoo, bensì un bambino piccolo. Il ventre materno funziona solo come una sorta di
forno. Il figlio non è figlio del singolo ma è figlio della comunità. Figlio e comunità maschile non
sono ancora differenziati, ma sono fatti della stessa sostanza. Il rito della couvade perciò serve a
preservare questa sostanza che è ancora indivisibile. Nel momento in cui viene dato il nome e il figlio
viene presentato come individuo singolo, questa sostanza si scinde. La couvade perciò serve a
risolvere un nodo fondamentale: il membro della comunità deve essere separato da essa stessa.
Esiste anche un altro tabù, contrario a quello precedente: ossia l’incesto. Questo riporta all’uno ciò
che è stato separato grazie alla couvade che sancisce ciò che sta da una parte e ciò che sta da un’altra.
Il reale tabù dell’incesto è che rimescola le sostanze e gli individui che la nascita ha separato. Nelle
comunità tradizionali, dove c’è il totem, l’incesto vale anche con le persone con cui non abbiamo
alcun legame di sangue ma che appartengono allo stesso clan.
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Tornando a Cipro e ad Afrodite, una figura interessante che sempre viene chiamata in causa quando
si tenta di ricostruire il culto di Afrodite, è Cinira. Esso ha rinvenuto le miniere di rame grazie a cui
Cipro era così ricca. Era signore del santuario di Pafo che aveva contribuito a fondare. Sembra però
che Cinira avesse iniziato ai misteri di Afrodite, una prostituta. Il tema della prostituzione sacra
nell’antichità, è pesantemente messo sotto ipotesi, perché non è sicuro che sia mai esistita. Forse le
fonti fanno dunque riferimento a qualcosa che non è reale ma semplicemente mitico. Cinira aveva
iniziato ai misteri della dea una prostituta, ma era anche il famosissimo padre di Mirra. Il racconto è
descritto dalle metamorfosi ovidiane. Essa è oggetto della vendetta di Afrodite. In una delle varianti
la dea è adirata con Cinira e punisce la figlia Mirra che viene colpita da una passione amorosa nei
confronti del padre. La nutrice ha un ruolo fondamentale: serve per dar voce a delle verità talmente
inaccettabili da dover essere nascoste. In questo caso la nutrice di Mirra decide di mediare con Cinira:
i due si uniscono più volte fino a quando il padre realizza che la donna in realtà è la figlia. Mirra
sembra realizzare ciò che effettivamente aveva commesso e chiede agli dei di toglierla dalla vista sia
del mondo divino sia del mondo umano. Gli dei la trasformano in albero: l’albero di mirra è un albero
aromatico. Dopo dieci mesi dà alla luce il giovane Adone. Si tratta dunque non di separazione, ma di
aggregazione.
TESEO: eroe che si inscrive sotto il segno di Afrodite. Lo mostrano molte testimonianze. Egli prima
di partire alla volta di Creta, sacrifica sulla riva del mare ad Afrodite chiedendole protezione per tutto
il viaggio. Appellarsi ad Afrodite non è così strano perché in molti luoghi la dea era considerata
patrona dei naviganti. Ciò che è interessante è che Afrodite rimane fino al ritorno di Teseo e fino
all’episodio brutale in cui Fedra si innamora del figliastro Ippolito. Ciò che importa però è che Teseo
è un eroe di Afrodite. Infatti anche Teseo strizza l’occhio, si affaccia sul tema dei cosiddetti rituali
intersessuali in cui lo scambio di pertinenze, di sesso e di genere occupa un ruolo particolare.
OSCOPHORIA: festa che si celebrava ad Atene, durante il mese di Pianepsione, in onore di Apollo.
La stagione è l’autunno, durante il periodo della vendemmia. Questa festa, dice Plutarco nella vita di
Teseo, è istituita proprio dall’eroe Teseo e aveva nel banchetto comune il momento di massima
esplosione. Ciò che conta è che qui è in gioco una vera e propria educazione alla femminilità: Teseo
non si limita ad ordinare un travestimento, ma educa i giovani ad essere in fondo ragazze. Ci sono
altre testimonianze che dicono come i giovani venissero scelti fra i più belli della città, evocando la
tematica che inscrive la bellezza in una condizione di confusione di genere. Questi giovani erano
scelti da figli di cittadini ateniesi che avessero vivi entrambi i genitori, e provenivano tutti dal
GHENOS dei Salamini, che aveva origine nell’isola di Egina. Questo GHENOS sembra che avesse
messo le mani sulla festa prima dell’arrivo di Teseo. Ciò che dobbiamo immaginare è che esista un
sostrato della festa precedente all’arrivo di Teseo e che poi quest’ultimo l’abbia fatto suo. Il tema
dell’educazione alla femminilità ci permette di dire qualcosa anche sul modo in cui questa festa si
articola.
La processione andava dal tempio di Apollo fino al santuario di Atena SCHIRAS: processione che
non partiva da Atena. Tutto veniva gestita fuori dalle mura. La festa è dedicata a Dioniso e Arianna
e il fatto che sia collocata nel settimo giorno del mese di Pianepsione ha fatto pensare gli studiosi che
qui sia in gioco un tipo di festa che riguarda il ciclo della natura, la vendemmia, il vino. Importante è
la presenza delle DEIPNOFORIE (coloro che portavano il cibo: erano degli avanzi, quelli con cui
Teseo si era cibato). È interpretata dunque come una festa della vendemmia.
Esiste però un altro aspetto fondamentale che si lega a questa strategia di Teseo, prima di partire per
Creta e affrontare il Minotauro. Egli inserisce nel novero delle ragazze due giovani maschi che però
sembrino particolarmente femminili all’aspetto.
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Altra interpretazione: rituale di COMING OF AGE → passaggio d’età. In questo momento, come i
vede da Plutarco, ciò che regna è una sostanziale confusione di generi: il maschile e il femminile non
sono ancora stati attribuiti in maniera univoca. La paura c’entra molto, c’entra in un caso come quello
delle altalene e anche qui la paura è chiaramente esemplificata dalla presenza delle madri: i giovani
infatti non partono da soli. Questi giovani, sulla riva del mare, sono protetti ancora dalle madri che
portano loro vivano e raccontano loro delle storie. Questi racconti mitici così emblematici richiamano
anche una stagione specifica della vita di una comunità: in questo caso i giovani che partono per
andare a morire nelle fauci del Minotauro sono coloro che stanno per diventare grandi, e molto
probabilmente non diventeranno mai grandi. Questo momento dunque è marcato da Teseo con la
creazione di una festa e anche con una strategia prima della partenza in cui il travestimento, il
cambiamento di genere, la fa da padrona.
Legato a questa festa c’è anche un altro mito, ossia il mito delle figlie di Cecrope. Sembra che esse,
Aglauro, Erse e Pandromo, fossero legate alle Oscophorie. Ciò che sembra di comprendere è che le
Cecropidi non si leghino direttamente al racconto delle Oscophorie, ma si leghino invece ad Atena.
Le Cecropidi sono delle ragazze che in procinto di diventare grandi non riescono a farlo. Aglauro non
sopporta che sua sorella si sposi ed è letteralmente consumata dall’invidia tanto da trasformarsi in
pietra. Si collocano esattamente nello stesso segmento del passaggio di fascia d’età degli Ateniesi che
sono in procinto di partire per Creta. Esse, come i giovani, non diventeranno mai grandi.
Fregio: mette per immagini le tematiche del mese di Pianepsione.
Questi temi si rincorrono e ritrovano ovunque in Grecia. La poetessa Telesilla è definita una poetessa
guerriera. Ciò che è evidente è che ad un certo punto, lo raccontano Erodoto e Plutarco, si mette al
comando di una piccola rivoluzione guerresca di alcune donne argive che decidono di contrapporsi a
Sparta e al re Cleomene. La datazione della battaglia di Sepeia è il 494 a.C. Erodoto, amante dei sogni
e degli oracoli, dice che un sogno aveva predetto a Cleomene che avrebbe vinto Argo e dunque,
fiducioso, va incontro al nemico. Quando si rende conto che l’esito è incerto, decide di spingere, con
l’inganno, gli argivi in un bosco e dà fuoco al bosco. Il bosco si chiama Argo: dunque l’oracolo si
riferiva al bosco e non alla città. In seguito all’imboscata di Cleomene i cittadini argivi sono tutti
morti.
Plutarco racconta la storia in maniera più interessante, nei Moralia (“La virtù delle donne”). È uno
dei racconti più celebri di un’usanza attestatissima: il travestimento durante il matrimonio.
-
C’è un richiamo iniziale al fatto che Telesilla, come tutte le donne, era fragile di salute, a cui
l’oracolo dice di dedicarsi alle Muse e alla poesia.
Quando c’è penuria di uomini, le giovani prese da un furore guerriero, salgono sulle mura e gli
spartani spaventati fuggono via.
Quelle morte ricevono in premio di essere seppellite lungo la strada per Argo (come gli eroi).
Viene eretta una statua ad Enialio, un equivalente di Ares, è un dio della guerra. Pausania ci dice
che venne eretta anche una stele per Telesilla e che questa fosse nel tempio di Afrodite ad Argo.
La battaglia è l’aition, la ragione per cui è stata istituita una festa di inversione dei ruoli.
Non ci sono uomini: Erodoto dice che le donne si unirono agli schiavi, mentre Plutarco dice che
esse si unirono ai perieci, dopo averli resi cittadini. Ma le donne li disprezzano socialmente e si
rifiutano di giacere con loro. Venne fatta una legge che stabiliva che le donne sposate portassero
la barba per dormire con i loro uomini.
A Sparta l’usanza prevedeva che le giovani in età da marito venissero rasate e vestite d’abiti maschili.
Le fonti dicono tutte che lo sposo non sapeva di questo travestimento. A Cos invece i ragazzi
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indossavano abiti femminili la prima notte di nozze e ciò avveniva per ricordare un episodio strano:
quello in cui l’eroe Eracle, giunto a Cos, avesse questionato con un pastore a cui aveva chiesto un
ariete. Il pastore si adira ed Eracle, per evitare lo scontro, si rifugia nella casa di una donna che per
nasconderlo, lo traveste di abiti femminili. Questa storia è l’aition per cui i giovani di Cos si
travestivano da donne.
CRETA: festa degli EKDYSIA → festa della svestizione. La versione più famosa ce la ricorda un
letterato greco, ossia Antonino Liberale, la cui opera famosa sono le Metamorfosi. È un autore molto
concreto. La metamorfosi 18 è quella riservata al caso di Leucippe. Questa fonte ci introduce ad un
tema nuovo che convive con quello del travestimento: ossia il tema della metamorfosi. Il
travestimento è nelle facoltà umane, mentre la metamorfosi è nella facoltà divina. In effetti, nella
grandiosa creazione del politeismo antico in cui gli dei sono antropizzati, gli dei ovviamente hanno
delle capacità che spesso gli uomini non hanno ma hanno invece gli animali. Fino alla pubertà era
possibile nascondere il sesso di Leucippe, ma giunta la pubertà Galatea deve rivolgersi alla divinità
che trasforma Leucippe in uomo. Antonino Liberale elenca una serie di occasioni mitiche in cui un
personaggio è passato da un sesso all’altro: Tiresia infatti, dopo aver visto due serpenti che facevano
l’amore e averli separati e uccisi, fu trasformato in donna, e successivamente trasformato in uomo per
la stessa ragione.
Il corpo di Cenide, violentata da Poseidone, su richiesta della giovane, si muta in uomo e diventa
impenetrabile. Anche in questo caso si tratta di una metamorfosi di genere.
Nel caso di Cenide e nel caso di Leucippe, il premio della divinità è la trasformazione in uomo. Nel
caso di Tiresia e di Siprete, che vede Artemide al bagno, la metamorfosi in donna è una punizione.
Il caso meno conosciuto citato da Liberale, è il caso di Ipermestra che veniva venduta a caro prezzo
dal padre. La donna, figlia di un povero che sperpera il proprio patrimonio, viene data in sposa a
Glauco, figlio del brigante Sisifo. Ipermestra non ama Glauco e perciò scappa sulla spiaggia dove
viene trasformata in uomo da Nettuno. In altre varianti la donna ritorna a casa cambiando il suo
aspetto e il padre, accorgendosi della sua capacità di cambiare aspetto, pensa di venderla ogni
settimana in forma diversa.
Questa Leucippe di cui parla Antonino Liberale, non è l’unica che porta questo nome. Esiste,
collocato ad Elea, un Leucippo innamorato di Dafne, la quale faceva parte del corteggio di Artemide,
e quindi era una fanciulla che aveva consacrato la sua verginità alla dea. Leucippo per starle vicino
si traveste da donna, ma una volta scoperto, viene ucciso.
A Creta c’è un altro Leucippo innamorato della sorella gemella e per questo motivo viene punito.
È del tutto evidente come il tema del travestimento sia un tema molto forte. Che tipo di collocazione
allora possiamo dare a questo tipo di metamorfosi di genere? Questo momento è ancora una volta una
situazione in cui il fatto che i ragazzi di Teseo non siano ancora diventati grandi, Leucippe sia in fase
di pubertà, gli sposi si travestono, serve per cambiare a ciò che sarà nella vita adulta. In questo caso
si cerca di ingannare le forze maligne, trasformando l’elemento più debole, ossia la donna,
nell’elemento più forte, ossia l’uomo. Sono comportamenti che hanno a che fare con l’identità di
genere: l’identità sessuale va definita attraverso la rottura dei vincoli e dei limiti. Lo sperimentare
l’opposto per ritornare a sé in maniera più definita. Il travestimento dei giovani compagni di
Teseo non è qualcosa che lede la loro identità virile, ma è qualcosa che la rafforza. Attraverso
l’incursione nell’altro genere i giovani tornano più forti di prima. Dunque sperimentare l’altro genere
come metodo per definire l’identità.
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26/04/2018
Perché Venere presso gli Spartani è armata?
Si è molto insistito sull’ambiguità di genere che contraddistingue i culti e i riti che hanno a che fare
con i momenti di passaggio di fascia d’età presidiati da Afrodite o Venere. Quando abbiamo iniziato
a lavorare sulla dea, con il grandioso affresco di Esiodo nella Teogonia, abbiamo visto come questo
aspetto della bisessualità di Afrodite sia soltanto alluso. Il corpo descritto da Esiodo infatti è il corpo
di una KORE, di una fanciulla che non ha ancora conosciuto l’iniziazione sessuale; e
contemporaneamente è anche la statua che descrive la fanciulla. Afrodite è la quinta essenza della
femminilità, è una potenza della natura in grado di far nascere la vita, ma già in questo racconto
primordiale, che descrive la nascita della prima Afrodite, c’è qualcosa che limita questa femminilità
così strabordante, ossia la modalità della sua nascita. Una nascita violenta che proviene direttamente
dal membro del padre Urano. In effetti la genesi di Afrodite nata da solo padre, è piuttosto un unicum
nella cultura antica: la madre è davvero assente (nel caso di Atena Zeus ingoia una delle sue spose
che è incinta e Dioniso ha una sua prima gestazione nella pancia della madre Semele). Afrodite invece
prende vita dalla spuma del mare. L’Afrodite celeste dunque nasce solo dal principio maschile.
La dea rappresenta fin da subito la quinta essenza della femminilità ma è composta solo da materia
maschile. Queste due cose stanno insieme in un’Afrodite celeste, urania (AKRAIA: un’Afrodite che
abita i picchi perché è in contatto con un elemento supero, è implicitamente, talvolta anche
esplicitamente, più degna di venerazione). L’Afrodite volgare (PANDEMOS) è meno oggetto di culto.
Ciò che importa è che questa Afrodite sembra che venisse venerata in armi. Il suo corpo di fanciulla
era in qualche modo limitato dalla presenza delle armi che la dea teneva nella mano destra (lancia,
scudo e rarissimamente un elmo). Ciò è una norma di rappresentazione che vuole che, quando una
statua ha più pertinenze su di sé, quelle maschili siano tenute a destra e quelle femminili a sinistra,
secondo una distinzione molto netta: a destra sta ciò che è nobile e puro, a sinistra invece ciò che è
meno nobile, oscuro.
Questa Afrodite veniva quasi sicuramente venerata in armi. Una studiosa contemporanea dice che in
realtà noi non abbiamo prove concrete di questa divinità armata. Giampiere Vernant parla di Afrodite
nel suo rapporto con la guerra che ha anche una declinazione nel culto e nel rito, ed è naturalmente il
rapporto con il dio della guerra, Ares. Egli dice che Afrodite contiene dentro di sé sia l’elemento
maschile, sia quello femminile. Nella Teogonia compare per la prima volta come coppia il binomio
Afrodite-Ares. Qui Afrodite ed Ares sono sostanzialmente una coppia prolifica, che genera due
demoni, che sono sostanzialmente le personificazioni della paura e dello sconvolgimento. Il binomio
guerra e amore è sintetizzato dall’incontro tra Ares e Afrodite. In altre occasioni questo incontro darà
vita ad Eros. Ma questa visione di Esiodo che non è così strana e inconsueta, nell’Iliade sembra essere
lasciata da parte. Nell’Iliade avviene un ulteriore slittamento, e Afrodite sembra perdere, per quasi
tutto il poema, le sue pertinenze guerriere. Nel V canto, che parla moltissimo di Afrodite, dedicato
alle gesta di Diomede, l’eroe si scontra sia con Ares sia con Afrodite. Prima ferisce Afrodite
(morbidezza del corpo di Afrodite che può essere penetrato dalla lancia di un mortale; è chiaramente
il corpo di un essere vulnerabile) che successivamente corre sull’Olimpo da Zeus. Quando sta per
salire in cielo accompagnata da Iride, ha bisogno di un carro e chiede al fratello Ares di darle in
prestito i suoi cavalli. Dunque se in Esiodo Afrodite è sposa di Ares, nell’Iliade invece i due sono
presentati come fratelli. Era fratello anche perché, dopo pochi versi, Diomede si accanisce contro
Ares e lo ferisce allo stesso modo. Quindi i due sono anche accostati dal punto di vista anatomico,
corporeo, sono i due dei ad essere penetrati da una lancia da parte di un umano.
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Nello stesso canto, quando Afrodite arriva sull’Olimpo e Dione la consola, intervengono Atena ed
Era prendendola esplicitamente in giro. Questo segmento del V canto sembra darci un’indicazione
molto precisa, che dal punto di vista delle religioni, è proprio un’assegnazione delle competenze:
Zeus infatti dice che ad Afrodite non competono le cose di guerra, che riguardano invece Ares e
Atena.
Il XX e il XXI canto sono attraversati da una grande Teomachia, in cui gli dei combattono sul campo.
Nel XXI abbiamo questo segmento in cui Afrodite ed Ares sono accostati.
“Lui prese per mano e via lo condusse la figlia di Zeus, Afrodite.” Atena ha afferrato letteralmente
Ares, che giace sul campo di battaglia e Afrodite interviene per portarlo fuori dalla mischia. Accadono
qui due cose di segno uguali-opposte:
-
Innanzitutto il fatto che Ares, il dio della guerra, sia sconfitto da Atena. È dunque un dio della
guerra che però è chiaramente fragile.
Interviene Afrodite, chiamata da Era “mosca canina”. Essa, come nel V canto in cui aveva tentato
di proteggere Enea, anche qui entra nel conflitto per proteggere Ares.
Odissea VIII libro: la scena si svolge alla corte dei Feaci. Odisseo si lamenta e Alcinoo decide di
organizzare per lui una sorta di spettacolo (i Feaci sono famosi per le loro capacità nell’arte della
danza). In mezzo ai danzatori si fa largo il cantore Demodoco che intona il canto, narrando gli amori
di Ares e Afrodite. Afrodite è sposa di Efesto, e appena il dio Fabbro va altrove, Ares e la dea si
uniscono. Ma il Sole riferisce la cosa ad Efesto, il quale organizza il tranello mediante cui i due
vengono intrappolati e da questo meccanismo le due divinità non riescono a divincolarsi. A questo
spettacolo assistono tutti gli dei. Gli interpreti dicono che qui c’è un’altra versione della storia:
nell’Iliade i due sono fratelli, nell’Odissea sono amanti. Questa unione che non si riesce a separare è
anche l’unione dei due aspetti di Afrodite tutti insieme. Quando gli dei vengono chiamati ad assistere
allo spettacolo, vedono anche un’Afrodite armata, vedono anche l’elemento della guerra che è, per
l’appunto, rappresentato da Ares.
L’Afrodite AKRAIA è indubbiamente anche l’Afrodite celeste: altezza fisica e morale convivono nel
culto di Afrodite. E quasi sempre, quando Afrodite è Akraia, essa è anche armata. Non è diverso il
passo descritto da Eliano nella sua opera “Sulla natura degli animali”: questa Afrodite è armata ed è
l’Afrodite di Erice (la Venus Ericina). Il tempio di Afrodite ad Erice sorgeva in cima alla collina e si
diceva che fosse stato inaugurato e fondato da Enea appena approdato in Italia, che aveva deciso di
dare sepoltura al padre Anchise sotto la vetta di Erice. La madre e il padre così sarebbero stati uniti
per l’eternità. Qui si fonda il culto. Questo tempio di Afrodite era il più potente del mediterraneo e
nessuno osava profanarlo, fino a quando Amilcare Barca, fiducioso nella possibilità di Cartagine di
vincere Roma, devasta il tempio di Afrodite. Ma la dea, così come avvenne per la profanazione del
tempio di Amatunte, punisce Amilcare e i cartaginesi e una delle ragioni del loro fallimento nelle
guerre puniche si deve proprio, secondo gli antichi, a questa profanazione del tempio.
Nel passo di Eliano c’è l’incontro di due mondi a confronto: il mondo del sacrificio che però viene
riletto nelle pertinenze del culto di Afrodite che è potenza generatrice (infatti dalle ceneri del sacrificio
nel tempio di Erice, nasce un’erbetta fresca).
AFRODITE ARMATA
Una statua di Afrodite armata c’era nei luoghi di culto più importanti di Afrodite. Nella parte più alta
di Corinto c’era un santuario di Afrodite armata che venne più volte venerato dai fedeli durante le
guerre persiane. Ci sono delle testimonianze che ci dicono che le eteree (prostitute d’alto borgo) si
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recavano al tempio per chiedere alla dea di proteggere la Grecia dai Persiani. Anche questa Afrodite
era in armi e proteggeva i soldati. Era dunque una pertinenza specifica della dea quella di dar voce
alle istanze di chi si affidava a lei.
Tra i tanti luoghi in cui Afrodite si presenta in armi, l’unico caso in cui noi siamo certi che tutte le
statue di Afrodite fossero in armi, è quello di Sparta. Sicuramente gli Spartani hanno accolto
l’immagine di Afrodite in armi in un’età molto alta (VI-VII secolo a.C.). La fonte più importante ci
viene da Pausania. L’autore, parlando di un santuario costruito su due piani, descrive la statua di
Afrodite situata nel piano inferiore al santuario di Morpho: la statua della dea è lignea, perciò non
particolarmente alta (gli XOANON infatti sono statuette, e non assumono mai dimensioni
impressionanti). La dea Morpho, la cui statua invece è situata sul piano superiore, è un’ipostasi di
Afrodite, ossia un’incarnazione di Afrodite ad un altro livello. Questa Morpho è una dea complicata
da analizzare perché è seduta, ha un velo e ceppi intorno ai piedi, simboleggiando nei ceppi la fedeltà
delle donne per i loro mariti. È una dea austera, che presiede al matrimonio, non c’è alcun accenno
alla seduzione e all’elemento erotico.
In questo caso noi abbiamo assommate, l’una sopra l’altra, in uno stesso complesso templare, due
incarnazioni opposte di Afrodite: l’Afrodite del V dell’Iliade, e l’Afrodite armata.
Per alcuni studiosi che hanno cercato di interpretare questo passo c’è contemporaneamente in gioco
il binomio morte-vita: energia vitale (rappresentata da Afrodite armata) accompagnata dall’idea
mortifera (rappresentata da Afrodite assisa e velata).
Ciò che è vero è però che Pausania si sbaglia. Non è affatto vero che esiste solo questo caso di
complesso templare articolato su due piani. Abbiamo un altro esempio: siamo nel V libro della
Biblioteca Storica di Diodoro Siculo. Questo libro è stato definito un insulario poiché in esso si parla
di isole e di riti e culti ad esse connessi. In particolare Diodoro Siculo si occupa di riti minoici e
racconta che Dedalo venne punito per aver fornito ad Arianna lo stratagemma del filo per salvare
Teseo. Allora Minosse, quando Teseo portò a termine la sua missione e uccise il minotauro, punì
Dedalo ponendolo al centro del labirinto insieme al figlio Icaro. Con lo stratagemma delle ali, Dedalo
giunse in Sicilia alla corte di Cocalo (che significa conchiglia, ma la conchiglia è anche descritta dagli
antichi come il labirinto marino). Qui ad un certo punto venne raggiunto da Minosse e quest’ultimo
utilizzò uno stratagemma molto simile a quello usato da Odisseo per smascherare Achille, travestito
da donna, sull’isola di Sciro: si recava di corte in corte nel mediterraneo proponendo un indovinello:
chiunque fosse riuscito a far passare un sottile filo rosso all’interno di una conchiglia e lo avesse fatto
passare dall’altra parte avrebbe ricevuto un premio. Dedalo fu l’unico in grado di far passare il filo e
dunque Minosse contrattò con Cocalo la sua restituzione. Ma Cocalo non voleva restituirlo: Dedalo
infatti aveva costruito per lui templi e terme. Così mentre Minosse faceva il bagno, Cocalo rovesciò
sul suo capo della pece bollente e il re cretese morì annegato in una vasca. C’è dunque il problema di
seppellire Minosse. Nel territorio di Cocalo, dice Diodoro, c’era la tomba di Minosse, che era a due
piani: nel piano inferiore era collocata la tomba, nel piano superiore invece la statua di Afrodite.
Questo si è un unicum, e ha fatto pensare alcuni studiosi che siamo di fronte ad un’idea di
compresenza all’interno di uno stesso tessuto tombale, di una dimensione mortale (rappresentata da
Minosse) e una dimensione dell’eternità (rappresentata da Afrodite).
C’è un legame forte tra Minosse ed Afrodite. Pugliese Carratelli crede che questa presenza di Afrodite
sia legata in maniera indissolubile a Minosse, e ciò fa pensare che Afrodite e Creta e i miti minoici
siano legati fin da sempre.
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SPARTA: unico posto in cui Afrodite veniva venerata sempre in armi. Plutarco dice che Afrodite,
secondo gli Spartiati, quando attraversa l’Eurota, depone i braccialetti e gli specchi, per imbracciare
la lancia e lo scudo. Tutte le divinità a Sparta sono armate. Ciò che Plutarco dice è che Afrodite
depone le sue pertinenze iliadiche, gli specchi, i braccialetti e la cintura istoriata: la cintura
rappresenta tutta la potenza seduttiva della divinità. Afrodite senza cintura non è seduttiva.
Il tema della presenza dell’Afrodite armata è sicuro per Sparta ed è piuttosto attestato dall’età
ellenistica (gemma raffigurativa del III secolo a.C. da Eretria, in cui Afrodite è armata). Ci sono poi
una serie di monete di età augustea: il tema della venere in armi è un tema che viene sostanzialmente
dall’età sillana. Silla si è messo per primo sotto l’egida dell’Afrodite armata. Afrodite inizia a fare la
sua comparsa ben prima che Virgilio facesse di lei il nume tutelare del poema ciclico romano. Almeno
un secolo prima infatti vengono coniate monete in cui Venere fa la sua comparsa. Ciò che è evidente
è che per Augusto il binomio Afrodite armata-imperatore è strettissimo e lo è a partire da Silla che si
poneva sotto la protezione dell’Afrodite armata. Da Silla in poi il binomio è molto ben attestato.
Fra le testimonianze più interessanti c’è un frammento di DYNOS dall’Africa in cui si può leggere il
nome della dea Afrodite e il nome di un gigante MIMOS che l’affronta in combattimento.
Torniamo al corpo della dea: nell’Iliade il corpo della dea è morbido e penetrabile. La morbidezza,
la fragilità e la vulnerabilità sono caratteristica dell’Afrodite iliadica. Afrodite in armi può in qualche
modo risultare speculare ad un’altra divinità, ossia Atena.
Antonino Liberale aveva citato Tiresia: egli ha due episodi forti legati al suo mito:
1. Uno ha a che fare con la bisessualità: egli viene tramutato in donna per aver ucciso due serpenti
nell’atto di unirsi.
2. L’altro ha a che fare con il suo accecamento. Callimaco, poeta ellenistico, dedica a ciò un intero
inno. Tiresia, in apparenza, si rende responsabile di un’empietà: vede Atena che sta facendo il
bagno, vede la dea nuda e per questo immediatamente punito con la cecità. La cecità è strettamente
connessa alla sessualità. La madre di Tiresia supplica Atena di restituire la vista al figlio, ma la
dea risponde che c’è una legge dai tempi di Crono che impedisce ai mortali di vedere il corpo
della divinità. Ma cosa può aver visto Tiresia? Che cosa era il corpo di Atena nel momento in cui
Tiresia lo ha di fronte? Atena tra l’altro è una dea che non disdegna la compagnia dei mortali,
eppure Odisseo non vede la divinità (la tragedia di Sofocle si apre con Atena ex machina che
dialoga con Odisseo, il quale sente la sua voce ma non la vede, mentre gli spettatori sì). Tiresia
dunque vede prima di tutto il corpo di una PARTHENOS, di una vergine, ma che cosa distingue
la PARTHENOS dalla KORE? Sul corpo della PARHENOS c’è una sorta di tabù, essa non può
essere vista. La PARHENOS è una verginità emblematica e quindi non può in alcun modo essere
contaminata dalla vista. Parlando di Atena, Omero accentua qualcosa che fa anche per gli eroi: il
corpo della dea infatti non è mai descritto nella sua interezza, ma è fatto di schegge anatomiche,
è l’occhio della dea, è la mano della dea possente, che tesse oppure imbraccia lo scudo, e poi è le
armi di Atena; ciò che manca è il corpo. Manca sempre l’istante della nudità e tutto il V canto, e
l’Inno di Callimaco, ci dicono sempre la stessa cosa: il corpo di Atena è le armi che lei indossa.
Una studiosa arriva ad ipotizzare anche che Tiresia non abbia visto nulla. Talvolta Apollodoro
dice “Tiresia non ha visto Atena, ma ha visto il palladio (la statua maschile di Atena) e avendo
visto il palladio è stato punito con la cecità”. Questo accecamento di Tiresia potrebbe essere
l’aition della pratica consolidata del bagno della statua della divinità. In questo senso Afrodite e
Atena sembrano essere uguali e opposte: sono entrambe giovani, e guerriere, ma anche diverse:
il corpo di Afrodite è visibile, quello di Atena invece no: essa viene rappresentata dal suo sguardo.
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Lo sguardo della Glaucopide Atena è uno sguardo che è anche in grado di pietrificare. Il suo
sguardo trasforma in statua grazie al potere della gorgone Medusa.
Il tema dello sguardo compare anche fortissimo nel mito di Afrodite: lo strabismo, lo sguardo morbido
e seduttivo. Al suo opposto si colloca lo sguardo di Atena, che è uno sguardo cupo, piatto, duro e
opaco, è lo stesso colore del mare in tempesta. In Afrodite tutto è brillante e scintillante. Afrodite poi
nasce nuda, nasce fanciulla, il suo corpo è sotto lo sguardo di tutti, Atena invece nasce già vestita
delle armi.
Dunque forse Tiresia non ha visto nessuno.
3/05/2018
AFRODITE URANIA SUL BOSFORO
Bosforo: contesto marginale e periferico rispetto alla Grecia.
In effetti è ad Afrodite Urania che dobbiamo assegnare quelle pertinenze che hanno a che fare con le
ambiguità di genere sessuale. Urania è quell’Afrodite che proviene direttamente dal seme del padre,
e quindi è alta, pura, celeste. È la declinazione della dea più interessante da valutare, perché in effetti
è una presenza piuttosto pervasiva anche nei territori oltre confine. Spesse volte, andando a cercare
in territorio iranico, ci rendiamo conto che questi territori sono stati in grado di cristallizzare degli
elementi mitologici in maniera più nitida rispetto ai Greci, almeno dal punto di vista iconografico. Il
culto di Dioniso in Iran. Ad esempio, è accompagnato da un’iconografia meravigliosa che non
troviamo in territorio greco.
Afrodite Urania sembra che avesse sul Bosforo, sulla sua sponda asiatica, un tessuto templare
collocato nella città di Apaturum (APATURIE: feste dell’inganno). Apaturum, che i Greci avevano
inteso come il loro inganno, in realtà sembra non c’entrare nulla. C’è un mito, con protagonista Eracle,
che costituisce l’AITION dell’epiteto della dea Apaturum, poiché l’eroe, chiamato dalla dea che era
stata attaccata dai giganti, riuscì ad ucciderli con l’inganno. Questo piccolo mito è interessante perché
ci permette di rilevare che in questi territori il ruolo di Eracle, dal punto di vista dell’introduzione del
culto della dea, è davvero fondamentale. L’Anatolia in generale è un territorio brulicante di
commistioni religiose, e quindi questa non è la dea di Erice, ma è una dea che fonde tutte le pertinenze.
C’è poi un racconto di Erodoto che contiene elementi interessanti e che riferisce circa le origini del
popolo scita, secondo la tradizione greca:
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Furto degli animali: nei racconti del mito e folklorici greci, la comparsa del tema del furto del
bestiame (ossia del cosiddetto abigeato), che non è un atto neutro, ma si configura come un atto
fondativo che si concretizza con l’incontro della divinità. La divinità di questo racconto non è
completamente umana (natura anguiforme di Afrodite: come l’Afrodite degli Sciiti che è
anch’essa anguiforme ed è chiamata Argimpasa)
La confusione che qui si gioca fra le specie: Eracle si unisce con una donna che non è
completamente umana
Il figlio dell’eroe o del dio deve essere riconosciuto come tale. Come si riconosce il vero figlio
di Eracle? Si riconosce con una prova che mette in campo alcuni simboli araldici della natura
eroica del padre, come ad esempio l’arco. Essi dovevano essere in grado di tendere l'arco e
cingersi in vita la cintura così come faceva lui. Quelli che ne fossero stati in grado, avrebbero
potuto dimorare nella Scizia, gli altri no. Solo il terzogenito, Scita, fu in grado di tendere l'arco
cingere la cintura come Eracle, e così fu il primo re della Scizia.
73
-
Per Erodoto questo è l’aition che spiega l’origine della stirpe regale degli Sciiti.
Quello che noi notiamo è che nelle tombe di questo avamposto della Grecità, troviamo molte
terracotte con raffigurazioni della dea anguiforme e anche rappresentazioni di Afrodite Urania. Il
bosforo fonde gli elementi che vengono dall’Iran, e nella terra degli Sciiti diventano qualcosa di
originale, declinabile sia sul territorio greco sia sul territorio turco. In questa zona l’Afrodite Urania
è la divinità a cui vengono date più offerte, ancor più di Apollo, che è il tessuto connettivo di tutta
l’Asia minore.
Mosè di Calacanta parla di un’Afrodite venerata da alcuni eletti, dea degli indovini e degli stregoni.
Da questa dea deriva tutto il grande tema della Scizia che è lo sciamanesimo, tema che copre un’area
geografica e un arco temporale molto ampio.
Torniamo ad Atene. Pausania ci dice che ad Atene il culto di Afrodite Urania venne istituito da Egeo,
ritenendo che non avesse figli e che alle sorelle fosse toccata la loro sventura sempre per l’ira di
Afrodite Urania (Teseo invece fonda il culto di Afrodite Pandemia). Apparentemente Egeo è sterile,
quindi l’istituzione del culto della dea si lega pesantemente al tema della fertilità. Infatti Egeo poi
interpellerà l’oracolo sul tema della sua sterilità. L’oracolo dà un responso molto ambiguo, lui
tornando si ferma alla corte di Trezene dove si unisce alla figlia del re che rimane incinta di Teseo.
L’istituzione del culto è dunque del re Egeo. Il culto di Afrodite Urania ad Atene ha un ruolo
fondamentale. Erano stati citati i santuari di Afrodite dei Giardini che occupavano le balze delle
colline del Partenone). L’Afrodite Urania è un’Afrodite che sola riceve offerte di sacrifici di animali.
mentre l’Afrodite Pandemia, quella dei Giardini, ricevono di solito offerte senza sangue (piccole torte
di miele, orzo, grano). Nel tempio di Afrodite Urania sull’Acropoli sono stati rinvenuti molti oggetti:
uno proveniente dalla bottega di Apollonio → brocca a figure rosse. Rappresenta una scala: allude
alle famose Adonie, feste in onore di Adone che venivano celebrate in estate. Esse comportavano la
creazione di piccoli vasi rotti in cui venivano messi semi di orzo, di finocchio, di lattuga, riposti poi
sui tetti. Sono dei giardinetti destinati a morire subito perché celebrano la morte di Adone, l’essere
mortale più amato da parte di Afrodite, che viene ucciso da un cinghiale nel pieno della sua
giovinezza. È rappresentata dunque la dea Afrodite che sale sulle scale, di cui si serve per deporre i
cesti sul tetto. La dea Afrodite lamenta la morte di Adone.
Il tema del lamento di Afrodite ha una ricaduta, nel culto della dea, molto significativa. Tolomeo
Efestione nella sua opera che lui ha chiamato “La nuova storia”, narra una serie di aneddoti: Afrodite
si sarebbe gettata dalla rupe di Leuca per la morte di Adone. Il balzo nel vuoto esemplifica bene il
dolore per la morte del giovane amante. Adone nato dalla mirra, e Adone celebrato da questi
giardinetti pensili e caduti: su questa ambivalenza lo studioso Marcel Detienne ha scritto un libro
dedicato alla mitologia degli aromi: modo di leggere i racconti del mito che dia la giusta importanza
a degli elementi che noi non mettiamo in luce. La mirra, ricorda Detienne, appartiene ad un universo
secco, profumato, mentre la lattuga appartiene ad un universo umido, macilento e non ha nessun
odoro. Dunque Adone orbiterebbe tra due universi: uno è l’elemento vitale (rappresentato dalla mirra)
e poi l’elemento mortale (rappresentato dalla lattuga). Questo in effetti è accaduto ad Adone: egli era
talmente bello che la dea decide di averlo per sé. Ma Persefone le contende l’amore di Adone che
nasconde il giovane. Giove decide di assegnarlo per un terzo dell’anno ad Afrodite, e un terzo
dell’anno a Persefone (Adone dunque per 2 terzi dell’anno oscilla tra la vita e la morte). Adone decide
di scegliere di passare la parte restante dell’anno con Afrodite. Persefone si adira e gli scatena contro
un cinghiale che lo uccide.
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Questo Adone ha anche delle caratteristiche particolari a Cipro. Pausania ci dice che a Cipro esisteva
un tempio dedicato ad Afrodite e ad Adone. Fozio, nella sua biblioteca, dice che Apollo, divenuto
androgino, con Afrodite faceva la parte del maschio, con Apollo indossava panni femminili.
Addirittura a Cipro si pensava che Adone rappresentasse quello che per gli Egizi era stata Osiride.
Parlando in generale di Adone, Filostefano, in un’opera dedicata ai Parti, dice che Adone era nato da
Giove senza alcuna unione sessuale con una donna. Questo ovviamente ci riporta ad Afrodite e alla
sua nascita. Cipro sembra catalizzare una serie di elementi conturbanti in cui le pertinenze di genere
sfuggono e si riaggregano e questo tema si ripercuote su Adone. Adone è il giovane senza esser mai
diventato grande, ma è di una bellezza assoluta, è esageratamente bello. Questo tema della bellezza
esagerata è un tema che in Afrodite ha un ruolo importantissimo: sempre collegato ad Afrodite infatti
è l’amore per Faone. Faone è il barcaiolo per cui Saffo si sarebbe suicidata. Faone entra anche
pesantemente in gioco nel mito di Afrodite. Traghettava chiunque gli chiedesse di essere trasportata:
una vecchia gli si fa innanzi e gli chiede di essere trasportata. La donna, che in realtà è Afrodite,
ringrazia Faone e regala lui un unguento che lo diventare bellissimo. Egli diventa così sfacciatamente
ricercato, così bello, che viene ucciso. Afrodite poco prima che lui morisse, così come aveva fatto
con Adone, nasconde Faone in una lattuga.
Elemento che accomuna Faone e Adone: bellezza che deve essere punita. Inoltre mentre Adone nasce
dall’albero della mirra, è già aroma egli stesso, Faone è un semplice barcaiolo che quindi ha bisogno
di un aiuto esterno, ossia dell’unguento che è fatto di odoro, e di cui però Faone fa un uso eccessivo.
La dea si prende una disperata ed eccessiva cura per le creature maschili che ama, mentre non ha
nessuna cura per le donne. La vendetta della dea, come abbiamo detto, è sempre strabica. Ma l’amore
per Adone, l’amore per Faone, è assoluto. Ma il legame è destinato a sciogliersi nel momento in cui
la vita chiama a sé un mortale che non potrà mai essere al pari della divinità. Sul tema della bellezza
assoluta, dell’amore per la bellezza si concentra il culto di Afrodite. La morte prematura vuole
dimostrare che è proprio quello il momento giusto per morire: quando si è al massimo della propria
bellezza e, in generale, quando si è al massimo della virtù eroica.
Dunque l’Adone androgino è quello di Cipro. Non possiamo capire se Fozio alludesse ad una
metamorfosi di Adone, oppure ad un semplice cambiamento di genere. Questo Adone somiglia ad
Afrodite anche dal punto di vista della nascita e sembrerebbe proprio rispondere alla necessità di
riportare Adone nel solco di Afrodite.
Che caratteristiche aveva questo culto di Afrodite Urania ad Atene?
Le Adonie sono non un festival di sole donne, ma un festival a prevalenza femminile. Il segmento
della festa che riguarda la creazione e il posizionamento sui tetti dei piccoli giardini, è esclusivamente
femminile. Sembra che le Adonie fossero una festa delle giovani spose, esemplificata proprio da
questa presenza della scala. La scala rimanda anche al cambiamento di vita: in basso si è giovani
donne, in alto si và verso l’amore e verso e il matrimonio. Contemporaneamente il basso rappresenta
la vita e l’alto rappresenta la morte. Il matrimonio è visto come momento di felicità, ma anche come
momento pauroso, orrifico. Ma queste Adonie sono una festa della licenziosità: vi erano i banchetti
a cui le donne invitavano non i propri mariti, ma i propri amanti. Era una festa in cui andavano in
scena vere e proprie orge accompagnate da momenti musicali. Erano dunque delle feste sfrenate,
dell’amore libero. È dunque una festa organizzata dalle eteree, dalle concubine. L’altra connotazione
molto forte è il fatto che l’elemento nuziale convive con tutto il tessuto connettivo che ha a che fare
con le eteree. Questo lo possiamo vedere per uno spazio cultuale che è collocato più in basso rispetto
al tempio di Afrodite Urania, che è stato inaugurato nel 430. Questa area prevedeva una serie di
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elementi sacrali, ma anche di case e botteghe ed è molto probabile che questo complesso ospitasse
dei bordelli. Sono state rinvenute infatti molte statuette di divinità femminili non greche: ciò fa capire
che le prostitute erano straniere. Le prostitute e le eteree spesse volte erano schiave. Soprattutto sono
stati rinvenuti tantissimi pesi per il telaio e ciò ha dato molto a cui pensare: sembra strano che in un
contesto in cui venivano ospitati dei bordelli, ci fosse un interesse per la tessitura. Pare infatti che la
tessitura sia una sorta di elemento simbolico che serve a decifrare anche il mondo delle prostitute e
delle eteree. In particolare è piuttosto citata la coppa del pittore di Euaion (475 a.C.) in cui è
rappresentata una donna che tesse, e ha un abito semitrasparente. Questa donna è incorniciata da due
giovani uomini e al loro fianco ci sono due eteree. Dunque la donna che tesse è la tributaria di un
bordello.
Appartenente a questo contesto c’è un bellissimo medaglione d’argento (380 a.C.) in cui è
rappresentata Afrodite colta in un contesto piuttosto consueto: è Afrodite assisa su un caprone. Le
pertinenze della dea sono rispettate, perché vi è rappresentata la scala (chiara allusione alle Adonie).
Il caprone è accompagnato da una figura che sembra vagamente Ermes. C’è poi un cielo trapunto di
stelle, ci sono delle colombe e c’è anche Eros alato. Questa è che tecnicamente viene chiamata EPI
TRAGIA (l’Afrodite sul caprone). Anch’essa ha un suo mito che ha a che fare con il mito di Teseo.
Plutarco, nella vita di Teseo, ci dice che anche all’inizio del suo viaggio Teseo invoca Afrodite e
sacrifica ad essa: sceglie la capra più bella delle sue greggi e la immola ad Afrodite. Allora sulla riva
del mare, accade un miracolo: la capra sacrificata si trasforma miracolosamente in un caprone e quindi
da ultimo alla dea si sacrifica un caprone e non una capra. Il genere sessuale della vittima sacrificata
ha un ruolo fondamentale: è particolarmente importante che qui questo animali cambi di genere
perché Afrodite, che poi proteggerà Teseo verso Creta, già confonde le acque.
Luciano, nei suoi dialoghi delle cortigiane, ricorda che esse sacrificavano ad Afrodite Urania il
caprone. Per cui la pertinenza è molto più solida di quella che si potrebbe pensare.
La presenza di Eros alla nascita di Afrodite, in età arcaica, è bel rappresentata da un vaso del V secolo.
Molto curioso e poco interpretato è un piccolo vaso a figure rosse che mette in scena la nascita di
Afrodite: la dea nasce dal basso. Ai lati ci sono Ermes e un sileno.
Il tema dell’Afrodite EPI TRAGIA è evocato nella raffigurazione più celebre di Afrodite: quella di
Afrodite sul cigno.
Da ultimo c’è il Trono Ludovisi (470 a.C.): è interessante. Sono tre altorilievi che incorniciano un
altare. Nel pannello frontale viene descritta la nascita di Afrodite che emerge dal basso. I due pannelli
laterali raffigurano un etera e una donna sposata in un contesto che pare essere simbolicamente
significativo ma che noi non intuiamo che cosa possa rappresentare. Afrodite è il nodo centrale,
lateralmente le due creature femminili sono disposte esattamente nella stessa posizione: ma una è
nuda e suono un AULOS (è un’etera), l’altra invece è vestita e ha il capo coperto (simbolo della
pudicizia). I due pannelli ci fanno pensare che ciò che possiamo dire con sicurezza è che l’Afrodite
Urania è la dea delle spose (celebrate nelle Adonie), ma è anche la dea delle eteree (che celebrano
Afrodite nelle stesse feste).
Nel caso di Adone il tema della bisessualità gioca un ruolo molto importante.
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7/05/2018
INNO AD AFRODITE
Lavoreremo sull’inno di Afrodite pseudo-omerico, leggendo sia il maggiore sia il minore. In tutti e
due i casi siamo però negli inni pseudo-omerici. Si chiamano inni pseudo-omerici un corpo di inni
per la divinità raccolti già dall’antichità sotto l’etichetta di Omero. In realtà risalgono attorno al III
secolo a.C. È un corpus che contiene inni maggiori e minori. Per cui quando noi parliamo dell’Inno
ad Afrodite parliamo di un componimento piuttosto lungo che nell’antichità veniva attribuito ad
Omero, ma che noi invece adesso sappiamo non esserlo più. Gli inni ad Afrodite non sono gli unici
inni dedicati a questa divinità: in particolare l’Inno ad Afrodite di Saffo, il componimento in onore di
Afrodite del poeta Mimnermo, e poi la tradizione dell’Orfismo: innografia orfica.
La nostra base di partenza è l’inno ad Afrodite pseudo-omerico. Questo inno è funzionale: idea di
Afrodite che è la divinità che è spesso affiancata dai suoi paredri: eroi giovani, nel fiore degli anni.
Quello a cui si dedica più versi in questi inni è Anchise. Quando è stato composto quest’inno? Datare
gli inni omerici è quasi impossibile. Da un lato l’inno ad Afrodite appare un testo poetico molto vicino
al testo omerico, in più l’inno parla di un segmento particolare della biografia mitica di Afrodite che
corrisponde con il momento in cui le divinità. e in particolare Zeus, decidono di ripagare Afrodite
della sua stessa moneta, provocandole un amore invincibile per un mortale. Ecco dunque l’amore per
il principe troiano Anchise, un amore a cui la dea non può assolutamente opporsi.
L’inno è ambientato a Troia, sul monte Ida, il monte in cui era stato portato Zeus bambino, dalla
madre Rea per nasconderlo al padre Crono che avrebbe voluto divorarlo. Viene accudito dalle ninfe
e circondato dai cureti che danzano intorno alla grotta provocando un rumore molto forte per far sì
che il pianto di Zeus bambino non venga udito dal padre.
Che cosa accade in particolare sul monte Ida? Avviene l’incontro con Anchise: dall’unione di
Afrodite e Anchise nascerà Enea. È assicurato il destino di regalità che spetta ad Enea. Se noi ci
volgiamo al XX canto dell’Iliade, ad un certo punto il dio Poseidone, dirà che la stirpe di Enea è
destinata a regnare. Così l’interprete dell’inno ha pensato che l’autore dell’Iliade sia lo stesso
dell’autore dell’inno. L’antichità dell’inno sarebbe confermata in effetti dal fatto che la lingua
dell’Inno somiglia particolarmente a quella omerica. Tutti gli interpreti però sottolineano il fatto che
questa è, come tutta la poesia greca antica, una poesia di committenza che fa sì che il poeta sia un
professionista. I poeti si muovono per le corti. Per ciò che riguarda la poesia si può intuire che sia il
XX canto dell’iliade sia l’inno ad Afrodite sono scritti in un momento in cui il ghenos dei Priamidi
non è il solo protagonista. Il poeta infatti introduce questa nuova famiglia, quella degli Eneadi. Questo
momento così particolare si può collocare attorno al 700 a.C., in un momento in cui il territorio era
dominato da famiglie troiane ma già sotto un’influenza greca. Quando la regione della Troade
comincia ad essere soggetta alla città di Mitilene.
I detrattori di questa ipotesi dicono invece che il testo è troppo perfetto, è troppo omerico. C’è un
problema di fondo: se esiste una sola versione del testo che si è tramandata, non può avere avuto una
fase di gestazione orale. I detrattori dell’antichità attribuiscono dunque l’opera ad un poeta ellenistico,
che intorno al 300 avrebbe composto un Inno rifacendosi ad Omero.
Un’altra ragione per cui questo inno è complicato, è il contenuto stesso dell’inno. Innanzitutto il
componimento è pieno di digressioni; d’abitudine gli inni per la divinità veicolano un’immagine del
divino in cui il tema della sacralità ha un ruolo preponderante → questa patina sacra manca invece
nell’inno ad Afrodite. Questo inno è la situazione in cui ci viene restituita un’immagine più
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normalizzata della divinità. Essa viene raffigurata come una mortale qualsiasi che si innamora di un
mortale qualsiasi. Anchise è una persona normalissima, non è Adone. Dunque un inno alla divinità
in cui la lode del divino è sostanzialmente assente.
Pr riassumere:
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Linguaggio omerico
Due datazioni: una molto alta coeva alla prima redazione dei poemi omerici; l’altra molto bassa
che lo attribuisce ad un poeta ellenistico
Riduzione molto umana e mortale della figura di Afrodite.
Il raffronto principale è il De rerum natura di Lucrezio. Afrodite viene infatti invocata quale potenza
generatrice. Al v. 65 Afrodite viene colta come quell’energia dell’unione amorosa che avvolge la
natura tutta. Dove lei incede provoca questa tensione generatrice che pervade gli elementi della
natura, e tutti gli esseri viventi che si uniscono. Lucrezio si nutre di questa matrice. Il dato curioso è
che In Lucrezio Afrodite-Venere è protettrice degli Eneadi.
Altro tema interessante è il fatto che è essa viene definita dea di Cipro. non necessariamente se una
divinità è chiamata Cipride o Citerea, il poeta sta facendo riferimento ad un contesto geografico.
Esistono degli epiteti che si ritrovano anche quando l’invocazione è panellenica e non locale. Ma per
questo inno più di un interprete ha voluto leggere nell’incipit un’allusione esplicita al contesto
cipriota.
Questa Afrodite dunque è prima di tutto un’Afrodite alla maniera di Lucrezio, perché è una potenza.
Il fatto che sia da inscrivere nel cappello dell’Afrodite-Venere che ha a che fare con gli Eneadi, è
dovuto al fatto che molto presto Venere-Afrodite era molto presente nel tessuto italico, specie in
Sicilia (Venere Ericina). C’è un’epigrafe ritrovata nel Lazio che corrisponde al III secolo a.C. che
riporta scritto: “Per il Laride Enea”. Il primo aspetto dunque è quello di Afrodite come dea della
natura.
L’altro aspetto fondamentale è la sua bellezza. Piuttosto singolare nella storia del mito della dea, è il
fatto che questa immagine come dea della potenza generatrice, lascia il posto ad Afrodite come dea
della bellezza, dell’incantamento. Nell’inno invece abbiamo una via di mezzo. Questa infatti è anche
la dea della bellezza. All’interno della tessitura innodica la sua bellezza è contemporaneamente una
bellezza naturale, ma è anche contemporaneamente bella perché la sua bellezza è qualcosa di ricercato
di voluto. Si trova spesso negli Inni un’allusione al viaggio della divinità e i luoghi che la divinità
percorre sono luoghi significativi del suo culto: Pafo e Cipro. cosa ci sta dicendo l’autore dell’Inno?
Afrodite non può arrivare a Troia e poi sedurre Anchise se prima non si è preparata, perciò si affida,
nel suo tempio di Pafo, alle Grazie che ornano la divinità. Trattandosi di un inno per la divinità ci
muoviamo in una zona polisemica: il poeta fa riferimento alla narrazione mitica di Afrodite ma anche
al rito che riguarda la statua. Le parole del compositore dell’inno sono le parole che servono per il
rito, ossia il momento in cui la statua della dea viene adornata e unta d’unguento, all’interno del
contesto templare.
Il profumo che emana dalla divinità e contemporaneamente dai luoghi della divinità, è connesso alla
divinità che è essa stessa la dea del profumo. Altro tema che si ricollega a ciò è il fatto che sembra
evidente che nella maggior parte dei casi la seduzione di Afrodite sia un’opera di attenta costruzione
dell’immagine. Nel caso di Afrodite, e Afrodite è un unicum fra le divinità greche, essa possiede un
oggetto magico che la rende seduttiva, ossia la cintura. È come se nella cintura magica fossero riposte
tutte queste cose messe insieme. Nel XIV canto dell’Iliade Zeus dà proprio una descrizione
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dell’impatto di questa cintura di Afrodite sul corpo di Era, e parla di come sia impossibile resisterle.
Effettivamente Afrodite è in grado di provocare quello struggimento che non ha eguali.
Questa bellezza che non ha eguali ma contemporaneamente ha bisogno di un aiuto (delle grazie che
la adornano e della cintura) ci riporta ad un terzo elemento che mette in relazione l’universo della
bellezza e quello della potenza generatrice: la presenza a fianco di Afrodite della figura delle Ore,
figure, come le Grazie, deputate a servire la divinità, a fornire la divinità delle sue peculiarità. Le Ore
fanno Afrodite ancor più bella, e le Ore sono le divinità personificate e sono l’incarnazione dei cicli
della natura. Dunque riconnettono la divinità a questa sfera primordiale: Afrodite come divinità dei
cicli della natura. In Attica inoltre Afrodite era venerata con le Genetilladi (divinità minuscole che
presiedevano alla nascita). Talvolta il suo tempio era vicino alle fonti che curavano dalla sterilità. Ad
Amatunte poi c’era la festa della “KARPOSIS”, ossia la festa dei frutti che era collegata ad Afrodite.
Questa prossimità rispetto alla qualità generatrice della natura, quando viene trasportata nel culto, è
davvero pervasiva. Afrodite aveva un culto ad Atene come Afrodite dei giardini, Saffo, nel suo inno
per Afrodite, dice alla dea di aspettarla in un bosco di meli; per cui la prossimità con l’elemento
naturale è fondamentale ed è molto forte in tutta la tessitura dell’inno.
-
Natura
Bellezza
Contaminazione tra questi due mondi
Afrodite, nell’Inno, è la compagna di Anchise. Ciò riporta al legame di Afrodite con il matrimonio,
che è un legame piuttosto dubbio. Eschilo spinge a ritenere possibile che per certi versi la dea, nella
dimensione del culto, possa sovrapporsi ad Era. Era rappresenterebbe il canone formale del
matrimonio, il vincolo legale, mentre Afrodite rappresenterebbe l’unione carnale. Pausania ci dice
addirittura che veniva venerata un’Afrodite-Era. Anche perché l’epiteto GAMOSTOLOS andava
bene nell’antichità sia per Afrodite sia per Era, quindi c’era una qualche connessione tra le due dee.
La cosa più curiosa è che c’era l’usanza da parte delle vedove che volevano trovare un nuovo marito,
sacrificavano ad Afrodite (Pausania).
Contenuto dell’Inno
L’editore Filippo Cassola, nella sua introduzione dichiara che siamo di fronte ad un inno che fa
riferimento ad una delle incarnazioni della grande madre e dei suoi paredri. Effettivamente Afrodite
compare molto spesso in relazione ad una figura maschile che rappresenta un suo satellite, ma che è
certamente inferiore a lei, sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista dell’età, e che è destinato
a morire nel fiore degli anni. Il connubio tra dea e paredro è un connubio che conosceva già la
religiosità minoica. È forte sicuramente anche per Afrodite. Qui la dea è in qualche modo, anche se
non completamente, una dea madre, poiché fertile, che si unisce per una occasione soltanto con il suo
paredro che in questo caso è Anchise. D’abitudine i paredri sembrano avere la sola funzione di
fecondare la divinità. una volta esaurita la loro funzione devono scomparire. Ad Anchise però è
riservato un destino diverso. Anchise ha una fortuna longeva. Anchise, per il fatto di aver rivelato
l’amore con Afrodite (gli amori con la divinità sono sacri e non devono essere rivelati) viene punito
e diventa AMEMENOS: il MENOS è una sorta di energia guerriera senza cui l’eroe non esiste. Perciò
AMEMENOS indica l’assenza di questa energia e talvolta è epiteto per indicare i trapassati. Perciò
questo epiteto potrebbe addirittura voler dire che Anchise è morto. Ad Anchise dunque viene tolta la
virilità: l’uomo sopravvive ma deprivato della sua dimensione di virilità. In ogni caso il paredro
dunque non fa una bella fine.
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Mito a cui si allaccia un culto molto preciso (Ovidio Metamorfosi XIV). Siamo a Cipro. Un giovane
fenicio, Ifi, ama una ragazza di altissimo lignaggio, Anassarete. Le è inferiore di rango e per cui non
può in nessun modo sposare Anassarete, la quale tra l’altro è fiera e superba e ha il cuore più duro del
ferro e della pietra. Il giovane perciò capisce che non ci sono speranze e si impicca alla porta di
Anassarete. Lo sbattere del corpo di Anassarete sulla porta spinge i servi ad uscire dalla porta.
Anassarete, dall’alto del suo palazzo, si affaccia alla sua finestra, per vedere il misero funerale di Ifi,
ma rimane pietrificata. Questo è importante perché sia in Ovidio sia in Antonino Liberale, è la genesi
di un culto molto particolare: quello della Venere alla finestra (la VENUS PROSPICIENS). Questa
Venere che guarda fuori è già descritta come se fosse una statua e richiama una qualità specifica: il
fatto di essere assassina.
Ad Astarte la dea è rappresentata affacciata alla finestra: l’artista insiste sugli occhi che pietrificano
e uccidono il paredro che le è inferiore.
8/05/2018
Gregory Nedge è un filologo molto celebre che ha molto lavorato sull’oralità. Egli ha riflettuto su
alcuni tratti di questo inno e ha valutato che il modo più giusto per rendere grazie a questa Afrodite
era pubblicare un inno ad Afrodite in versione fumetto. Ha deciso di affrontare questo inno dal punto
di vista del “comic”.
Torniamo all’Inno ad Afrodite. L’interpretazione che fino agli inizi del ‘900 è stata prevalente, cioè
che questo inno sia stato composto in un contesto cipriota, di recente è stata sostituita da altre
suggestioni e ipotesi. Una in particolare dice che questo inno sia stato composto in una terra di
confine, collocata non a Cipro, ma nella Troade. Questa ipotesi serve ad interpretare alcune
caratteristiche dell’inno. Anche per Faulkner il contesto è molto importante perché questo inno
sarebbe la prova di quella contaminazione di ambiti tra oriente e occidente. L’autore dell’inno dunque
risentirebbe di un clima di questo genere.
Alcuni elementi ci spingono a riflettere sul rapporto che questa Afrodite intrattiene con le sue gemelle
orientali, ad esempio Ishtar e Inanna. L’inno ad Afrodite ha un attacco di pragmatica: ha un attacco
epico, non particolarmente originale, che l’innografia accoglie accanto all’ invocazione diretta della
divinità. Qui è invocato un mediatore, ossia la Musa. L’oggetto del canto ovviamente non sono le
muse, bensì Afrodite. Sempre Faulkner ricorda che qui, subito dopo l’invocazione, ci troviamo
difronte a tre micro inni uno successivo all’altro che non riguardano Afrodite. Poi abbiamo il
segmento in cui Zeus decide di infondere in Afrodite l’amore per Anchise, e poi la partenza della dea.
Afrodite arriva a Pafo dove viene ospitata la scena della vestizione della dea. Il viaggio procede e
approda all’Ida dove il pastore Anchise, principe troiano, sta pascolando le sue greggi. Avviene
dunque l’incontro tra i due che presenta alcune caratteristiche molto particolari: la dea si presenta ad
Anchise come una giovane nobile proveniente dalla Frigia. Dopodiché c’è il segmento della
svestizione e poi quella dell’amplesso che viene pudicamente tralasciata. Segue il sonno profondo di
Anchise, il risveglio di Anchise e il riconoscimento della natura divina della donna con cui si è unito.
Vi sono poi una serie di digressioni: la storia di Eos e Titono, e il ratto di Ganimede ad opera di Zeus.
C’è poi una parte tecnica in cui la dea spiega ad Anchise che il figlio che nascerà sarà destinato a
governare, che sarà allevato dalle ninfe degli alberi, e che al quinto anno d’età verrà nuovamente
affidato al padre.
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È dunque un inno molto complicato. Spesse volte gli inni maggiori contengono un episodio saliente.
In questo caso invece noi abbiamo un inno che contiene molti elementi significanti di per sé.
Siamo in uno stile e in un impianto tradizionale che ci viene direttamente da Esiodo (Afrodite è
accompagnata infatti dagli epiteti Cipride e Citerea). C’è un dettaglio che ci fa riflettere: il poeta,
subito dopo l’invocazione alle Muse, dice che vi sono tre dee che Afrodite non può ingannare, una è
Atena a cui sono care le guerre, poi Artemide che ama i clamori della caccia e infine Estia, vergine
in eterno. Questa digressione è decostruzionista rispetto alla natura sacra dell’inno, anche perché qui
non si tratta di evocare altre tre divinità; queste divinità infatti vengono descritte nelle loro peculiarità.
C’è una sorta di depotenziamento della dea Afrodite che, in qualche modo, passa in secondo piano.
Su Atena e Artemide non c’è molto da dire: è da sottolineare che qualcuno ha voluto leggere nel
primo micro inno in onore di Atena, un parallelo con il libro V dell’Iliade. Mettendo Atena qui per
prima è come se il poeta volesse assegnare alle altre divinità delle peculiarità che Afrodite non ha. È
un’interpretazione affascinante, ma manca Era la dea del matrimonio per eccellenza. E tuttavia
potrebbe sorgere un’altra obiezione: Era infatti non è immune ad Afrodite, al contrario si serve delle
sue vesti, come si vede nel XIV libro dell’iliade dove chiede in prestito alla dea la sua cintura per
sedurre Zeus.
Estia non viene così frequentemente evocata in un contesto sacralizzante come quello dell’Inno. Un
dettaglio è proprio all’inizio: qui infatti Estia viene evocata come prima e ultima figlia di Crono.
Questa è l’unica volta in cui troviamo il tema del cibarsi dei figli. La rinascita dalla pancia del padre
viene chiamata una nuova nascita. Allude quindi al fatto che Crono divorava i suoi figli: quando Zeus
lo costrinse a vomitarli essi vennero fuori in ordine inverso a quello di nascita (quindi Estia che era
la prima rinasce per ultima). È interessante che la liberazione dallo stomaco di Crono sia considerata
una nuova nascita.
Il giuramento divino è quello sullo Stige. Qui invece dice che Estia giura toccando la testa del padre.
Estia ha una complessità di culto originata da ciò che ci dice l’autore dell’inno: ella siede nel centro
della casa ma è venerata in tutti i templi degli dei.
Ora il poeta, dopo questi tre micro inni, deve riportare l’attenzione su Afrodite. Tuttavia c’è un’altra
digressione. Successivamente con l’immagine di Afrodite punita da Zeus, l’interesse si colloca
nuovamente sulla dea. Zeus le infuse nel cuore il dolce desiderio di Anchise, che soleva pascere gli
armenti e simile nell’aspetto agli immortali. A questo punto inizia il cosiddetto:
JOURNEY OF POWER: viaggio per l’acquisizione del potere. È un motivo non solo mitico, ma
anche folklorico e si distingue per il fatto di avere un unico protagonista e di costituire la modalità
attraverso cui questo protagonista acquisisce il suo potere. Potremmo fare l’esempio di Eracle,
Giasone, Teseo, Dioniso, Ermes. Ci sono poi dei micro-viaggi in sui si descrivono le tappe di Era.
Quello che è una piccola rivoluzione è che la personalità che viaggia in questo caso sia femminile,
ossia Afrodite. I viaggi della sposa sono i viaggi che le donne mortali e immortali compiono per
sposarsi. Quindi questo è per Afrodite una trasformazione che dovrebbe essere prodromica ad un
cambiamento della figura mitica.
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MODELLI:
I modelli che qui sono in gioco sono Ishtar, divinità babilonese che in molti sovrappongono ad
Afrodite, e Inanna che invece è l’incarnazione sumera della stessa tipologia divina. Queste figure
stanno alle spalle della nostra divinità. Anchise, il poeta dice, è un pastore e pascola le greggi sull’Ida.
È collocato dunque in un contesto che è ossimorico rispetto alla vita cittadina. Non è dunque un
approdo urbano, Afrodite non si inserisce in un ghenos di potere troiano, Afrodite si reca su un monte
e si unisce con un pastore. Già questa quindi è una connotazione fondamentale. Il luogo in cui i
racconti mitici sono ambientati sono infatti pertinenti. Il dio-paesaggio che sta alle spalle della
narrazione dell’inno, è la montagna. Qui abbiamo la prima similitudine: infatti i primi grandi amori
di Ishtar e Inanna sono pastori: Tamutz è un perfetto equivalente di Adone, e poi Dumuzi che è in
effetti l’innamorato di Inanna e a volte di Ishtar. Per cui l’oggetto dell’amore è molto simile. Un altro
elemento molto simile è quello in cui si parla del bagno della dea e dei suoi ornamenti: anche in Ishtar
e Inanna troviamo riferimento al bagno della dea. Probabilmente qui siamo difronte all’idea che sia
esistita una statua della divinità che veniva lavata, ornata e profumata. Ovviamente anche per Afrodite
e per il mondo greco esistono questi esempi di raffronto di questo tema del bagno: anche nell’VIII
dell’Odissea Afrodite si prepara ad unirsi ad Ares dopo essersi bagnata. Addirittura c’è chi ha pensato
che l’autore dell’Inno sia lo stesso dell’autore dell’VIII libro dell’Odissea.
Afrodite dunque giunge sul monte Ida seguita da fiere. Anche l’unione fra Ares e Afrodite è più volte
ricordata nelle fonti antiche. L’esempio più famoso è quello del poeta Lucrezio. È molto interessante
l’immagine del dio della guerra che si arrende ad Afrodite. Ed è proprio questo, ossia il dio che ha
perso la vis guerresca, che dobbiamo tenere a mente.
C’è una sorta di ampliamento prospettico rispetto alla vestizione di Afrodite a Pafo. Il poeta insiste
sulla statura di Afrodite, simile nella statura e nell’aspetto ad una vergine fanciulla. Perché è così
importante? Quando Afrodite, dopo essersi unita ad Anchise, lo lascia arreso al sonno e poi lo
risveglia, il poeta la descrive così: “La divina fra le dee si erse nella capanna e il suo capo toccava il
tetto ben costruito”. Il tema della statura della divinità è un tema molto importante, è uno dei fattori
identitari del divino. Il tratto principale che distingue la divinità è la statura. L’altro tratto è il peso
specifico delle divinità: le divinità sono pesanti. Il tema dell’impronta è un altro fattore identitario
importantissimo. L’impronta del dio sarà sempre più grande. La statura di Afrodite non è ininfluente:
potremmo ricordare che nell’immaginario di un compositore di un inno sacro, la statua di culto con
tutta la sua importanza dal punto di vista della statura e della pesantezza, è per forza l’orizzonte. Il
poeta infatti sta componendo per un contesto sacrale.
L’incontro con Afrodite ricalca l’incontro di Odisseo con Nausica. Noi troviamo ovunque nell’epica,
il paragone immediato della bellezza della donna mortale con Afrodite. Ma Anchise sceglie di non
identificarla con Afrodite in prima battura. Anzi, inizialmente la identifica con Artemide e con Leto.
Qui il poeta decide di offuscare e detonalizzare la potenza della divinità in un elenco che va di pari
passo con ciò che aveva fatto all’inizio componendo gli inni nei confronti delle altre divinità.
Anchise, pensando che quella che si trova davanti sia una divinità, chiede ad Afrodite di raggiungere
la vecchiaia felicemente, non chiede l’immortalità. Questa è una cosa ancor più strana. L’allusione
alla vecchiaia in un dialogo che è prodromico all’unione sessuale con Afrodite, è ironica. Ma Afrodite
nega di essere una divinità e si presenta come una ragazza venuta dalla Frigia e fa un discorso molto
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tecnico che ha a che fare con l’apprendimento della lingua: viene dalla Frigia ma ha appreso la lingua
dei Troiani da piccola grazie alla nutrice. Ma c’è una spia che insospettisce gli interpreti: il fatto che
qui venga posto il problema linguistico stride fortemente con il contesto mitico e sacrale. Nell’epica
arcaica infatti non esiste distanza linguistica né distanza religiosa: i Greci e i Troiani venerano
esattamente gli stessi dei. Quindi gli interpreti si soffermano sul fatto che questa area del
Mediterraneo sia davvero un incontro di culture. L’autore dell’inno sta parlando ad un pubblico che
è diverso da quello dei poemi omerici, è un poeta che ha che fare con un mondo di confine. È in gioco
tutta una serie di pertinenze linguistiche e religiose che fanno di questo territorio, la Troade (sede
probabile della composizione dell’Inno) un territorio simile a Cipro.
Qualcuno ha sottolineato il fatto che la presentazione in famiglia cui allude Afrodite, potrebbe essere
una polemica nei confronti di quella che è la famiglia regnante a Troia, ossia i Priamidi, una famiglia
in cui i figli illegittimi vivono nella stessa casa dei figli legittimi. Quella di Anchise invece è una
stirpe in cui tutti vengono dalla sua stessa stirpe.
La parte dell’amplesso viene elegantemente allusa, ma ciò che non viene alluso è il momento della
svestizione. Questo momento è sostanzialmente un unicum: la divinità è denudata ornamento dopo
ornamento. Gli studiosi sottolineano come questo sia un modello orientale che noi applichiamo alla
figura di Ishtar. Uno dei suoi miti più celebri è quello in cui la dea Ishtar decide di compiere un
viaggio nel mondo dei morti. Ogni portinaio del mondo degli inferi chiede ad Ishtar di togliersi una
parte dei vestiti. La dea dunque giunge nuda nel mondo degli inferi. La svestizione della dea viene
considerata un momento molto preciso anche nei miti babilonesi, sumeri, accadi.
In seguito all’amplesso la dea infonde un dolce sonno in Anchise e si erge nella capanna. In seguito
Afrodite sveglia l’uomo e quest’ultimo si copre gli occhi e supplicandola pronuncia parole alate
(formula tipicamente omerica), poiché ha timore di diventare AMEMENOS, ossia impotente. Ha
paura di venire privato dalla dea, della sua potenza virile. Nella saga di Gilgamesh è presente più
volte il fatto che la dea chiede all’eroe di unirsi a lei, ma lui rifiuta sempre poiché sa a cosa va incontro.
Anche nell’Odissea compare questo tema, ossia il tema dell’unione con la divinità femminile:
Odisseo, prima di congiungersi a Circe, vuole delle garanzie e pretende da lei un giuramento, sotto
consiglio di Ermes.
Esiste però un grande tratto di discontinuità: una diversità che risiede nel fatto che mentre Inanna e
Ishtar vengono spesso descritte nell’atto di fare l’amore, e derivano dall’atto erotico la loro potenza,
in Afrodite invece notiamo qualcosa che ha a che fare con il piano dell’etica e del sacro. Afrodite
colta nell’atto dell’unione, è umiliata. Afrodite che si abbassa nell’atto di fare l’amore con un principe
pastore, non è felice, è umiliata. Non è l’esplosione della sensualità. In questo la dea Afrodite non
somiglia alle sue partner orientali. Ishtar, Inanna e Afrodite sono uguali perché unico è il mitema,
cioè il tratto che le mitizza come figure simili. In questo caso il poeta non sarebbe consapevole della
sua allusione alle dee orientali. L’alternativa è che il poeta sia invece consapevolissimo:
conversazione consapevole con il mondo che sta ad Oriente, e che cioè stia guardando ai miti e non
al mitema.
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14/05/2018
ANDROGINO
Il discorso è prodromico alla trattazione dell’androgino. Uno dei temi più significativi è tutta la
coloritura orfica che impregna il mito di Afrodite e di chi ad Afrodite si accompagna. Tutta
l’innografia orfica (gli inni orfici perché esiste quasi una sorta etichetta tematica che li riguarda,
perché orfica è la materia di cui si plasmano: una parte è giocata spesso sugli inni che si ricollegano
a Dioniso. Si sono orfici ma il dionisismo ha una grossa parte in questi inni). Ci sono una serie di inni
interessanti. Un dato importante che ci permette di ragionare su Afrodite è il fatto che gli inni orfici
sembrano partire da una dimensione sinestetica della religione: non sono solo parole, ma sono anche
profumi. Molti inni indicano anche il profumo che si ricollega al dio o alla figura genericamente
divina investita della preghiera dell’orante. La filosofia dei profumi ci riporta ad Afrodite e ad Adone,
dio che è profumo egli stesso in quanto figlio dell’albero della Mirra.
Inno 55 che si ricollega ad Afrodite: alla prima Afrodite, quella Urania, nata dalla spuma del mare.
Di lei il poeta dell’inno dice cose tradizionali, ma dice anche che questa Afrodite è la madre
dell’ANAGKE, della necessità. C’è dunque qualcosa di diverso che qui viene spiegato con precisione.
Per questa ragione è stato scelto di trasformare in maiuscolo la “m” di MOIRON (tradotto “dei tre
mondi” che non convince molto). Se infatti Afrodite è la madre della necessità, possono essere
chiamate in causa le moire, le madri del destino. La scansione dell’inno è orfica, e qui Afrodite appare
come la sacra compagna di Bacco. Infatti l’inno ad Afrodite è stato accostato alla sezione dionisiaca.
E poi abbiamo PEITO. Il tema del manifestarsi senza essere manifesta è un tema tipico della
letteratura e dell’ambiente dei misteri: capacità del dio di essere presente ma di essere al contempo
invisibile. Questo inno è anche interessante dal punto di vista della geografia della dea: qui Afrodite
copre davvero interamente il campo dell’eros, ma è anche una dea che ha un range geografico molto
più estesto di quello che viene evocato nell’inno omerico. Viene infatti evocata anche la Siria.
L’inno si chiude con l’evocazione di Adone. Afrodite è legata al paredro odoroso per eccellenza. La
sottolineatura è sull’anima pura, perché questa è la condizione dell’iniziato ai misteri. SEMNOS è
una sorta di sacralità che deriva dalla prassi.
Inno ad Eros: Eros è una figura, nella teogonia orfica, di grandissima importanza. Qui l’inno che si
apre con l’invocazione di Eros. Ci muoviamo in un campo che è prodromico a quello che in Platone
si racconta dell’eros e ci riconnettiamo ad una doppia via attraverso cui i Grecia affrontano il tema
della teogonia. Eros infatti nella teogonia appare con Afrodite. Ma questo Eros degli orfici non è
semplicemente la creatura di Afrodite, ma una creatura primordiale. Negli Uccelli di Aristofane viene
ospitata la Teogonia degli uccelli. Gli uccelli raccontano agli uomini la storia delle origini del mondo,
e dopo aver narrato la natura effimera degli uomini, narrano la storia di un mondo primordiale,
prettamente orfico (si ritrova in frammenti di pratica cultuale orfica) in cui regna il vuoto assoluto, la
notte e narrano che dalla notte si genera un uovo primordiale, un uovo ventoso, ossia sterile (la parola
ventoso riferita alla nascita fa riferimento alla sterilità). Da questo uovo, che esplode come un nucleo
di luce insostenibile, si genera una creatura primordiale: ossia Eros. Esso viene descritto come il
FANES, il primigenio. Viene descritto come se fosse un arcangelo, dalle ali immense ed è
contemporaneamente il principio generatore di tutto e il suo annientamento. È androgino ed è
ermafrodito: questo essere primordiale è in grado di riprodursi da solo. Nell’orfismo è proprio questo
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il principio fondatore: un uovo che si spacca e dà alla luce questo essere primigenio che è anche
polimorfo (ha infatti tutta una serie di declinazioni animali). Nonno Abate scrive: Fanes è colui che
reca le pudende dietro presso l’ano.
Questa creatura assomma su di sé il principio femminile e quello maschile, ha gli organi sessuali
femminili sul davanti e gli organi maschili dietro. È inoltre polimorfo. Non è semplicemente
androgino, ed è ermafrodito, femmina e genitore, quindi assomma su di sé tutte le pertinenze.
Inno ad Adone: “Profumo di Adone”. Si vede questa androginia di Adone che è molto attestata nelle
fonti. Inoltre c’è la duplicità dell’orfismo che investe le pertinenze di Adone, che ora è con Persefone
ora è con Afrodite. L’orfismo tiene in sé tutte le contraddizioni del racconto mitico e del rito. Qui il
dio viene chiamato a comparire nell’ambito dei misteri perché si tratta di una cosa esclusiva. Viene
chiesto alla divinità di essere presente dinnanzi agli iniziati. Saffo nel suo inno ad Afrodite, chiama
Afrodite e le chiede di essere a lei compagna: questo è uno scarto ulteriore. In Saffo la mediazione
della musa sparisce e la poetessa è direttamente in contatto con la divinità.
Questa era la premessa. Ci muoviamo da una costola di Afrodite ma ampliamo lo sguardo a investire
una figura del mito e del culto che discente da Afrodite ma ha una portata ben più ampia. L’androgino,
l’ermafrodito sono un fenomeno oggettivamente riscontrato dagli antichi. L’androgino negli antichi
non è definito scientificamente. Che cosa i Greci e i latini definiscono androgino? Una figura la cui
ambiguità sessuali si risolve nel fatto di avere organi sessuali più evidenti o meno evidenti. I greci e
i latini osservano i corpi che sono composti da una pluralità di generi che non riescono a definire.
Generalmente quando si parla di androgini nell’antichità si fa riferimento ai bambini. Un esempio di
questa definizione dell’androgino è il mito che si collega alla figura di Leucippe: ragazza cretese il
cui padre aveva detto alla madre di liberarsene alla nascita se non fosse stato maschio. La madre lo
traveste da maschio fino a che non arriva alla pubertà. La pubertà rendeva impossibile giocare su
questa ambiguità di genere, perciò la madre si reca da Latona che trasforma la ragazza in un maschio,
Leucippo. Perciò la dea dà alla ragazza un carattere ben determinato. Plinio nel libro VII delle Storie
Naturali, racconta la storia di una ragazza di Cassino. Quando arriva il momento di diventare sposa,
con l’orrore di tutti, cambia genere. Per un prodigio di questo genere vengono chiamati gli aruspici
che dicono di confinare la ragazza, trasformato in uomo, su un’isola deserta. Dobbiamo pensare che
i greci e i latini reagissero a qualcosa che non riuscivano a catalogare e perciò ascrivevano alla
categoria del mostruoso ciò che non riuscivano a spiegarsi, così come i gemelli.
L’androgino si presenta come una sommatoria di elementi provenienti da generi opposti che non si
separano, ma rimangono nello stesso essere umano. La pubertà ha due volti diversi: uno è quello
biologico (fino alla pubertà le pertinenze di genere possono rimanere offuscate). D’altro canto la
pubertà è uno snodo che è cementificato dalla dimensione del rito: nel momento della pubertà si
capisce se si è maschi o se si è femmine. In questo momento ci sono i riti delle ragazze che si
travestono da animali, dei maschi che indossano abiti femminili. L’androgino però, al momento della
pubertà, non separa i generi, ed è contemporaneamente le due cose.
Diodoro Siculo connette la figura di Priapo a quella di Osiride e ricorda il mito in base a cui il corpo
di Osiride era stato fatto a pezzi e il suo fallo nascosto. Iside ricompone il corpo e chiede ai sacerdoti
come se fosse il corpo di Osiride: il membro di Osiride si sarebbe mutato nella figura mitica del dio
Priapo. Diodoro Siculo narra inoltre che Ermafrodite sia stato generato da Erme e Afrodite. Lo
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definisce mostro. È una creatura al limite, la cui apparizione non è necessariamente preludio di
catastrofe. Qui è in gioco una categoria interessante: Diodoro spiega la genesi di Ermafrodito e dice
una cosa che Ovidio, nelle Metamorfosi, conferma: Ermafrodito è figlio di Ermes e Afrodite e perciò
ha il nome composto del padre e della madre. Ma a sua volta lui stesso è un giovane composto: ha la
componente maschile e femminile. Qui entra in campo una questione importante: individuare e
definire con sicurezza alcuni tratti della categoria del mostruoso. A volte il mostruoso è
semplicemente tale (arpie); in altri casi invece mostruosa è la genesi di queste creature che si ritrovano
ad assumere su di sé una sommatoria di nature diverse. La natura femminile di Afrodite e quella
maschile di Ermes si fondono, ma non trovano una composizione, qualcosa rimane separato. Perciò
gli antichi chiamano anche queste figure in maniera specifica: la sommatoria di due nature diverse
comporta una sommatoria di nomi. Un altro esempio è il minotauro: sommatoria di Minosse e di un
toro. Questa mescolanza che non trova una sintesi è in atto anche nel suo nome. addirittura quando si
spengono un po' questi racconti mitici delle origini e il mito entra in contatto con una dimensione più
razionalistica, il minotauro diventerà il frutto di un adulterio di Pasifae con un cortigiano alla corte di
Minosse, di nome Taurus. In questo caso si parla di mostruosità etica, ossia l’adulterio.
C’è dunque il terrore della mancanza dell’identità, dell’incapacità di definire un genere rispetto ad un
altro. La dimensione dell’ambiguità di genere e dell’androginia pertiene anche ad altre figure: Adone
e Afrodito, che probabilmente era, secondo Plutarco, una divinità venerata solo nell’isola di Cipro.
ma molti giovanissimi eroi erano stati o erano in qualche modo androgini: ad esempio Narciso che,
in una delle versioni del suo mito raccontata da Pausania, quando si specchia sulla famosa fonte, vede
non il volto di un giovane bensì il volto di una ragazza e specchiandosi in questo abisso si perde
proprio perché non è in grado di decifrare la sua natura. Imeneo: giovane dio che incarna la festa del
matrimonio. È il maestro di cerimonie dei matrimoni del mito degni di nota. È una creatura che dal
punto di vista iconografico viene rappresentata molto simile ad Eros. Imeneo innamorato di una
ragazza e non ricambiato cercava di mutare natura per starle vicino. Giacinto è uno di quei giovani
vegetali muore giovanissimo. Innamorato del dio Apollo, in un contesto agonale Apollo tira un disco
di pietra e colpisce il giovane. A Sparta è rappresentato con un’immagine di natura duplice e con un
corpo con quattro braccia, quattro gambe e quattro orecchie.
La rappresentazione dell’androgino dal punto di vista dell’iconografia
C’è tutto un filone di studio che sottolineano come l’androgino possa essere stato un modo per
chiamare le infinite statue di erme che precedono l’iconografia più individuata dal punto di vista
antropomorfo. Il tema dell’androginia è un tema carissimo a tutta l’arte antica e che troviamo legato
alla figura di Eros che viene rappresentato con il membro e con i seni. C’è poi l’ermafrodito del
Louvre (epoca romana). C’è poi tutto il filone dello Zeus di Labranda: è un tema interessantissimo.
Labranda è un sito archeologico situato in Caria ed è famoso per il culto di Zeus Labrandeus che ha
due caratteristiche:
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La prima si lega all’epiteto Labrandeus: sarebbe lo Zeus della Labris, ossia la scure. Per
moltissimo tempo sembrava che questa fosse la chiave per capire la parola labirinto, come casa
della Labris. Effettivamente l’arte minoica ospita molto volentieri figure che imbracciano le scuri.
Questa teoria si è sbriciolata perché in greco scure si dice PELAKUS. La parola Labrandeus
avrebbe a che fare invece con la pietra (è lo Zeus connesso alla pietra e ha in mano una scure).
Una serie di monete ritrovate a Labranda hanno tutte la figura di Zeus che ha in mano la scure.
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Questo Zeus ha una caratteristica che lo rende un androgino: ha la scure ma ha anche un panneggio
femminile e ha sul petto una serie di seni. È una sorta di corazza in cui il simbolo della sessualità
femminile viene replicato. Ciò che non è chiaro è come lo Zeus Labrandeus conviva con creature
molto più femminilizzate, ad esempio con Artemide. Uno Zeus dunque non definito dal punto di
vista sessuale, e che a differenza dello Zeus Olimpio, imbraccia una scure e non una folgore.
C’è poi un piccolo centauro che mostra sul suo corpo un’altra contaminazione: una contaminazione
di specie. È in verità un minotauro che ha il fallo e ha lateralmente il seno. È a natura animale e a
natura umana ed è contemporaneamente uomo e donna.
PLATONE
Simposio: dialogo incentrato sull’amore ma non ha un fil rouge dominato da due o tre figure che
dipanano l’argomentazione, ma è dominato da tanti quadri che hanno Socrate al loro centro. Ci sono
tanti riquadri quanti sono i convenuti al simposio. L’occasione è la vittoria del poeta tragico Agatone,
un poeta che Aristofane mette in scena nelle TESMOPHORIATSUSE, esattamente come se fosse un
androgino. Agatone infatti ha un genere fluttuante e può dunque giocare anche la parte della donna.
La festa dunque è per un poeta che era stato messo in scena da Aristofane in questo modo. Aristofane
infatti nel suo discorso nel simposio dice che tre erano i sessi dell’uomo, e non due, il maschio e la
femmina, ce n’era un altro che aveva in sé i caratteri degli altri due, ossia l’androgino. Esso era un
essere a sé stante che, nell’aspetto esteriore e nel nome, aveva dell’uno e dell’altro, cioè del maschio
e della femmina.
Ci sono degli elementi che hanno a che fare con loro definizione anatomica: l’essere androgino è
caratterizzato dall’esuberanza degli organi e delle appendici (4 braccia, 4 gambe, due blocchi di
organi sessuali) e unico è il cranio su cui si innestano i due volti. Questa esagerazione si riflette anche
nella modalità di movimento: questi essere delle origini sono esseri che si possono muovere
contemporaneamente in posizione eretta ma in verità procedono rotolando, come i saltimbanchi. In
Platone appare spesso questa contrapposizione tra il movimento circolare (dei pianeti e delle divinità)
e il movimento rettilineo (degli esseri umani). Perciò sono esseri UBRISTES, sono esseri fuori
controllo, che tentano la scalata all’Olimpo. Il Timeo si apre con l’immagine dell’uomo che è una
sorta di palla, una KEPHALE, che rotola scompostamente fin quando la divinità non decide di dare
ordine a questo moto e quindi di creare il movimento rettilineo. Ciò che ci dice è il modo in cui il dio
fa tutto questo: il dio mette un PROSOPON, un volto, apponendo il volto come se fosse una maschera
(infatti in greco PROSOPON è sia volto che maschera). Questo volto permette all’uomo di muoversi
in linea retta, non come fanno gli androgini.
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Identità plurime
Nome duplice
Dall’identità originaria si creerà l’uomo e la donna
La duplicità sessuale ha sempre un riverbero altrove: perciò gli uomini hanno tutto doppio. Questi
uomini sono anche tracotanti.
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