RELIGIONI DEL MONDO CLASSICO 12/02/2018 Lo studio delle religioni del mondo classico ha una sensibilità, una duttilità metodologica. Studiare le religioni politeiste non è semplicemente studiare un mito, perché la religione è qualcosa di pandemico. Bisogna ragionare sul politeismo non come su un ennesimo oggetto di studio lontano nel tempo, ma come un buon modo per pensare anche a categorie che non necessariamente sono legate all’antichità. Due ragioni: 1. Disposizione critica: ragionamento sui fenomeni. Nella prima parte impareremo a leggere i fenomeni. Il culto di Afrodite è uno dei campi di battaglia della storia degli studi sulle religioni antiche ancora aperto. 2. Riflessioni sul politeismo in generale. Analisi dei tre grandi blocchi delle religioni classiche. Bisogna partire dalla religione minoico-micenea. Degli Etruschi e della loro religiosità sappiamo pochissimo. Non abbiamo un asset così coerente. I punti di riferimento sono punti che parzialmente si possono assegnare alla mitologia e all’antropologia. Afrodite gode di una stagione di grande fortuna nella storia degli studi. Alcune studiose che lavorano in Belgio e a Parigi si occupano proprio di Afrodite. IL CULTO DI AFRODITE BISESSUALE Ciò che interessa non è solo lavorare sui culti di Afrodite fra maschio e femmina, ma anche lavorare sulla zona di confine che il culto di Afrodite delimita: una zona in cui sembrano essere compresenti in Afrodite sia il genere maschile sia il genere femminile. Luigi Palma di Cesnola: figura molto importante, uno dei pochi italiani nella guerra di secessione americana. È diventato il primo direttore del Metropolitan di New York fino al 1904, anno della sua morte. Era un archeologo e in particolare studiava Cipro, la terra di Afrodite, studiava il suo contesto archeologico ed era molto famoso per essere un mercante di antichità. Era interessato ai grandi musei del mondo, a quelli americani e londinesi. Nella vignetta satirica è presente la contaminazione tra Afrodite uomo e Afrodite donna. FILONE DI ALESSANDRIA (I secolo d.C.) Politeismo: indica la devianza dalla norma. Per gli antichi greci e romani, non è consapevole, non c’è (salvo per l’Egitto) un tentativo di creare un solo dio. È una condizione naturale e non esiste la possibilità del monoteismo. Non ci si pone il problema dell’alternativa. Come nasce la necessità dell’unicità? Jane Assman ha ragionato moltissimo sulla creazione dei monoteismi: Assman è un filosofo contemporaneo, uno studioso di religiosità egizia molto oggetto di critiche. Le sue sono teorie che individuano dei temi fondamentali. Egli parte spesso nei suoi libri dalla citazione di un passo dell’Esodo (Io sono il signore Dio tuo…, non avrai altro dio all’infuori dei me). La caratteristica dell’individuarsi del monoteismo ebraico e cristiano: il monoteismo ebraico si fonda sulla reazione ad un politeismo; gli ebrei sono monoteisti per contrasto. Il monoteismo è, secondo Assman, una reazione al politeismo nella religiosità egizia. Assman, per il momento in cui il monoteismo nasce, ha utilizzato due definizioni diverse: monoteismo immaturo (che non ha ancora una sua identità forte: monoteismo è ciò che non è politeismo) e monoteismo geloso (la divinità monoteista non sopporta di 1 essere messa sullo stesso piato della bilancia rispetto ad altre divinità). Ciò consente ad Assman di articolare una serie di ipotesi interpretative. Il politeismo è definitivamente sconfitto nella civiltà occidentale? No. Hegel dice: dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve essere al servizio delle idee. “Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’arte”. Il dio come voce, come volto dell’emozione, la pluralità divina come medium dell’arte e dell’immaginazione. La presenza degli antichi miti nella psiche; Jung dice che noi non conviviamo più con i fantasmi di Venere, di Giove, ma non ci siamo liberati dei fatti psichici che furono responsabili della nascita delle divinità. Freud parlava di archeologia della mente: “Riporto in vita gli antichi dei”. Per Freud il linguaggio mitico è la declinazione corale e universale del linguaggio dell’inconscio. Gli antichi miti abitano in ciascuno di noi, sono nella nostra testa. Sulla scorta di Jung, Hillman ha ragionato su questi testi: parla di Pan, Ermes, Orfeo per spiegare qualcosa che è legata alla nostra psiche. Nella latinità un autore che si pone su questa scia è sicuramente Lucrezio. Nel De Rerum Natura (terzo libro) Lucrezio dice “non esiste Tantalo, non esiste Dite, sono tutti già nella nostra testa”. I mostri dell’antichità non sono mai usciti dalla nostra esperienza della vita psichica. Visto in quest’ottica il politeismo sembra essere una condizione dell’anima, più che una vera e propria fede. Politeismo e monoteismo sono aspetti di un modo di concepire la religiosità. Uno dei temi cardini della religiosità antica è il rapporto fra verità e menzogna: la religione monoteista così come ammette un solo dio, un solo modo di adorare la divinità, allo stesso modo non ammette che una verità. Si articola in termini dicotomici: verità e menzogna, più di una verità non esiste. Ciò lo dice Antonio Tabucchi in uno dei suoi scritti “Il dubbio è politeista”. Il politeismo infatti non conosce l’esistenza della verità unica. Ciò che non è mai accaduto in Grecia e a Roma sono le guerre di religione, non esiste il problema della distinzione. I Romani infatti si sono messi in una posizione di estrema apertura (tessitura profonda della loro religiosità). I Greci e i Romani non sono tolleranti, almeno nella misura in cui non sanno di doverlo essere. Il concetto di tolleranza infatti nasce con Sant’Agostino (→ si devono tollerare i giudei). Tema della verità: il monoteismo ha la verità unica, il politeismo invece no. i greci pensavano che l’unico contenuto veridico fosse ciò che derivava direttamente dagli dei. Nell’episodio in cui i compagni di Odisseo stoltamente sacrificano e mangiano le vacche del Sole che non potevano assolutamente essere toccate, come si può capire che questa cosa è assolutamente vera dal punto di vista religioso? Lo sappiamo perché le muse sono i testimoni autoptici. Questo divieto religioso è tale perché le muse erano presenti quando questo divieto è stato stabilito. Nella Teogonia di Esiodo, egli dice di aver incontrato le muse le quali sanno cantare bene cose che sono identiche al vero, ma che non è detto che siano vere (eu katakosmon aeidein: cantare bene per ordine, citazione omerica) INTERPRETATIO DIVINA: tema tipicamente romano Cosa significa interpretatio? • Tradurre gli dei: Tacito dice che in un certo contesto straniante rispetto al territorio romano, ci sono divinità che sono interpretate come Castore e Polluce, in quanto fratelli e giovani. Non c’è alcuna soluzione di continuità tra le divinità romane e quelle dei Naharvali, ma è automatico, nell’interpretatio romana, riconoscere in due divinità ignote due divinità note. Ci sono dei casi, come quelli del dio Bertunno, che viene venerato anche con un altro nome senza che ciò costituisca un problema. 2 • • Assimilazione: decisamente peculiare della cultura romana. È il passo successivo all’interpretatio. Integrazione: i Castore e Polluce di cui parla Tacito sono perfettamente inseriti nel pantheon romano. Bettini: Teoria dei Frattali (paragonabile al cavolfiore e all’onda di Hokusai). La forma grande è un insieme delle sue parti piccole: la parte piccola è identica alla grande. È una teoria che Bettini utilizza in modo molto provocatorio, ma è molto utile perché cerca di spiegare qualcosa che altrimenti sarebbe complessa da spiegare: il problema dell’unicità e contemporaneamente della polimorfia della divinità greca e romana. La divinità è essa stessa una e molteplice. Afrodite è l’esempio classico di quanto questa consapevolezza non sia mai abbastanza matura. Afrodite non è una, non sono da ricercare le sue origini, perché nell’origine c’è questa petizione all’unicità. Rinunciare a questo richiamo vuol dire rinunciare a pensare in un modo in cui siamo abituati a pensare. Esempio: Dioniso: è uno degli dei più studiati di tutta la religiosità greca. Per molto tempo c’è stato un dibattito sull’origine di Dioniso, da dove viene? È un dio orientale, perché alcuni aspetti del suo culto (follia, trans, irrazionalità) ne fanno qualcosa di non ben catalogabile. Di questo aspetto di Dioniso si sono occupati gli studiosi più importanti fino al 1953 quando la decifrazione della lineare B ci ha permesso di leggere il nome del dio su una tavoletta. Dioniso dunque non arriva dalla Tracia o dall’India, Dioniso è greco, perché la lineare B è greco. Il molteplice è racchiuso nella stessa idea del divino. Ce lo racconta il viaggiatore Pausania: egli parla di uno Zeus Labrandeo (raffigurato con le mammelle): egli si pone non in una situazione di discontinuità rispetto a Zeus Olimpico, bensì è lo stesso. RUTH BENEDICT: modello che oppone la cultura della vergogna alla cultura della colpa. Essa è stata spedita in Giappone nel corso della seconda guerra mondiale per studiare gli usi e i costumi dei Giapponesi. Il Giappone è l’unica cultura contemporanea che si pone in continuità con la religiosità greca e romana. Nel “Crisantemo e la Spada” dice che nella cultura giapponese c’è una tensione dicotomica tra una cultura di colpa e una cultura di vergogna. Il tema della vergogna e della colpa è anche un tema che potremmo bilanciare tra i due poli opposti di monoteismo e politeismo: la cifra caratteristica del politeismo è la società di vergogna. La società di vergogna incanala anche il modo in cui viene adorata la divinità, nel senso che se siamo immersi in una società di vergogna, ciò significa che ciò che ci spinge ad agire non è un’intima consapevolezza di azione individuale, ma siamo spinti da una condizione di vergogna nel fare un gesto che la comunità non approverebbe. La preghiera individuale, l’intimo rapporto con la divinità, non ha un ruolo fondamentale, ha un ruolo fondamentale ciò che accade alla luce del sole. Aiace si suicida per la vergogna. Il tema degli altri che ti vedono, è un tema fortissimo. La cultura della vergogna è la cultura che permea questa nozione di religiosità che è greca e latina. Civiltà minoico-micenea Questa civiltà ci lascia numerosi reperti. Prima del 1900 della civiltà minoico-micenea si sapeva poco o nulla. Omero cita Minosse, Platone ci dice che era un grande legislatore e Tucidide nell’Archeologia fa riferimento alla sua talassocrazia. Nel marzo del 1900 il direttore del museo archeologico di Oxford Arthur Evans, scopre la civiltà minoica. 3 13/02/2018 Lezione 2 Religiosità minoica: precede la civiltà greca e romana. Malattia delle origini: cercare l’origine della divinità. Alla base c’è una teoria celebre che è quella che tutte le divinità femminili del pantheon greco, romano, miceneo, e minoico, derivino da un calderone generale che possiamo inquadrare sotto il cappello della grande dea madre. Steatopigia Quel che è stato detto è che tutto ciò che noi possiamo immaginare in connessione al culto delle dee femminili deriverebbe dalla dea madre, le cui fattezze morbide (steatopigia ritrovata in Turchia) richiamano il tema della fertilità. Ciò che sappiamo per certo è che questa dea madre è una dea che presiede in generale alla fertilità. Luca Bombardieri studia approfonditamente questa divinità. La potenzialità è sicuramente quella immaginifica: creare una relazione tra momenti del divino che sono molto diversi gli uni dagli altri in modo tale da metterli in una condizione armonica e coerente. Anche la civiltà minoica ha la sua POTHNIA che genericamente presiede alla vita, così potente da ricevere le stesse offerte di tutte le altre divinità messe insieme. Altro dettaglio importantissimo di questa iconografia: sui braccioli del trono sono rappresentati dei leoni: la dea infatti è anche una signora delle fiere. Non è semplicemente una divinità che presiede al mondo animale, ma che si lega agli animali. Questa dea è stata paragonata ad Artemide, ed è stata messa in connessione diretta con la civiltà minoica. Per Evans e Sir James Fraser la regola è questa: tutte le divinità sono divinità vegetali, sono legate alla natura. Figura 1 steatopigia ritrovata in Turchia Il mondo minoico lo collochiamo prima della Greca e di Roma. La civiltà minoico-micenea è come se fosse stata scoperta in 3 modi diversi: - la scoperta di Micene ad opera di Schliman (1871) scoperta della civiltà minoica ad opera di Evans (1900) la civiltà minoico micenea è riscoperta da capo ad opera di Michael Ventris nel 1953. Una scoperta rivoluzionaria. Evans era convintissimo che persino i poemi omerici fossero stati scritti in una lingua minoica e poi tradotti in greco dai micenei. 4 Questi tre step ci costringono ad una riflessione molto complicata, per 2 ragioni: - per il modo in cui i minoici e i micenei ci parlano, per la lingua in cui ci comunicano. In che modo i minoico-micenei adoravano la divinità? Abbiamo due possibilità: • una legata alla documentazione scritta. Ma abbiamo un problema. La civiltà minoico micenea ha avuto tre scritture: una scrittura gereoglifica che è completamente indecifrata, una lineare A, e poi una lineare B più tarda che però gli studiosi credono che si possa in qualche modo sovrapporre alla lineare A (2000 a.C.). La lineare B avrebbe accompagnato i minoico-micenei fino alla distruzione della civiltà minoica e poi si sarebbe estesa nella Greca continentale, in particolare a Pilo. Di queste l’unica decifrata è la B poiché utilizza una successione di lettere ignote ma chiaramente in lingua greca. La lineare A è la lingua dei minoici, la lineare B è la lingua dei Micenei. “I Minoici sono un dipinto senza didascalie”. Una civiltà in grado di rappresentarsi visivamente in maniera così potente ma che non ha una letteratura alle spalle. Attualmente infatti ciò che noi abbiamo è un elenco di divinità e di offerte. • I nomi delle divinità talvolta sono già presenti nelle tavolette della lineare B: Zeus, Artemide, Dioniso, Atena, Era. Ma noi della divinità abbiamo solamente i nomi. Non abbiamo niente che ci autorizzi a pensare che non ci sia soluzione di continuità tra un mondo e l’altro. Adorazione degli dei e luoghi di adorazione: 1. La religiosità minoica era una religiosità delle altezze, dei picchi, delle montagne. Molti santuari dedicati alle divinità a Creta sono in cima alle montagne. L’immagine più plastica è questa: si può vedere rappresentata la dea, avente in mano uno scettro, in cima ad una montagna 2. Altro luogo sono le caverne. Noi sappiamo che ad Amniso in una grotta c’era un culto importantissimo non solo per i Cretesi, ma anche per i Greci. Il culto della divinità Ilizia. Ilizia appare anche nel pantheon greco; è la divinità delle nascite, che presiede ai parti. Compare nel mito della nascita di Eracle, ma appare in maniera sporadica, è quasi una divinità tangenziale, secondaria. Ma per i minoico-micenei Ilizia era una divinità fondamentale. 3. Altro luogo sono le case: è stato provato che una parte non secondaria del palazzo di Cnosso era dedicata al culto della divinità. Anche la stanza che appartiene al quartiere nord-orientale (stanza del quartiere dalle doppie corna): è stata ritrovata una divinità femminile con le braccia alzate; è chiaramente un contesto sacrificale di devozione per la divinità. Proprio questo ha fatto propendere per l’idea che il primo labirinto fosse il palazzo di Cnosso (teoria accantonata). 4. Altro luogo sono le tombe: di recente è stato scoperto che attorno alle famose tombe di Micene c’erano delle aree sacre dedicate al culto della divinità. Come avveniva il culto intorno a queste tombe? Omero dice che la danza rappresentata sullo scudo di Achille è quella che Dedalo ha 5 inventato per Arianna. Questo dettaglio costruito da Omero ci aiuta a illuminare un dettaglio del modo in cui i minoici adoravano la divinità: letteralmente a passo di danza. La danza è uno degli elementi fondamentali che definisce la civiltà minoica. Peter Warren ha chiarito che la civiltà minoica ha un modo molto particolare di adorare la divinità che è fatto eminentemente di performance, di gestualità. Una civiltà così come è mai possibile che non abbia una storia, un epos, una letteratura? È possibile dal momento che il loro modo di adorare la divinità era diverso, era il gesto, la danza, la coreografia. È una religiosità che non ha parole, non ha riti; ha un tesoro molto importante di visi, di gesti, di divinità ritratte. La civiltà minoica adora la divinità con il gesto (danza, gesto coreografico, processione). Festività celebrate nel mondo antico: 11-14 febbraio Festa che è stata rimpiazzata dal carnevale: è una festa greca: le Antesterie. Insieme alle Panatenee è la più celebre. Durava dall’11 al 14 febbraio. L’altra invece è la festa dei Lupercali e siamo in ambito latino (messa in relazione alla festa di San Valentino). ANTESTERIE: festa che si sviluppa in tre giorni (ogni giorno dal tramonto al tramonto): - - - Primo giorno: giorno dei PYTHOI = brocche in cui tradizionalmente si racchiudeva il vino nuovo. Le brocche venivano aperte e ci si avviava festanti e lieti al tempio di Dioniso, il Dioniso Lymnaios (delle Paludi). Ad Atene questo Dioniso aveva un tempio che veniva aperto solo una volta all’anno e proprio durante il secondo giorno. È un Dioniso che si mette direttamente in connessione con le anime dei morti. Secondo giorno: giorno dei KOES (dei boccali): le anime del trapassato (CHERE) si aggiravano nella città. La morte entra in contatto con il mondo dei vivi. Ci si maschera e le case venivano chiuse con la pece perché i morti non potessero entrare. Era una giornata in cui si beveva, in cui anche i bambini bevevano (per i bambini era una sorta di rito di iniziazione), anche agli schiavi era consentito bere assieme ai loro padroni. Ciascuno aveva il proprio boccale che era esclusivamente suo e che non poteva condividere con nessuno. Inoltre ognuno portava un pezzo di pane che non si poteva condividere con nessuno. Ciò è legato al mito di Oreste: dopo aver ucciso la madre Clitennestra, Oreste è inseguito dalle Erinni (demoni che presiedono ai delitti di sangue). Viene istituito il processo nell’Areopago di Atene. Quando Oreste arriva ad Atene per essere giudicato è in una condizione particolare: è un contaminato, poiché si è macchiato di un atroce delitto. Il fatto di aver ucciso la madre lo rende un intoccabile. Gli ateniesi perciò gli consentono di prender posto alla tavola solo se porterà il suo boccale che non potrà condividere con nessuno. Terzo giorno: giorno delle PIGNATTE (pentole): giorno in cui si cucinava. In particolare si cucinava una specie di pastone, una sorta di focaccia imbevuta di miele con tutti i cereali, il cosiddetto Pan Spermia. Venivano allestiti 14 altari nella città tanti quanti erano stati i pezzi di Dioniso che era stato fatto a pezzi dai Titani. Il corpo del dio era sostituito dunque da un’offerta della natura che in qualche modo lo rappresenta (come l’ostia cristiana che sta per il corpo di Cristo). In questa terza giornata veniva venerato anche Ermes Psicompompo, che portava le anime dei morti nell’Ade. La sua funzione era quella di riportare le anime dei morti, che avevano invaso la città, nell’oltretomba (volo delle anime guidate da Ermes). 6 LUPERCALI (13-15 febbraio): a Roma. È una festa antichissima che originariamente rappresentava una festa che aveva la funzione di proteggere le greggi dai lupi. La genesi etimologica a proposito del nome è quella che vuole originato il termina da lupo e arceo (tengo lontano il lupo). In verità a Roma c’era un sodalizio, un clan diviso in due che accoglieva due distinti gruppi di lupercali. Lo scopo era quello di adorare il dio Luperco che potrebbe essere associato al dio Fauno. Avveniva sotto la quercia in cui si credeva che il pastore avesse trovato Romolo e Remo. La festa era articolata in tre momenti diversi: - prima fase: due ragazzi giovani venivano tratti fuori dal gruppo, si sacrificavano delle capre e un cane. Il sacrificio simboleggia il passaggio alla vita adulta. Seconda fase: Dopo il sacrificio la loro fronte veniva spalmata con il sangue delle vittime sacrificali, che poi veniva deterso con della lana imbevuta di latte. Terza fase: Successivamente i giovani venivano chiamati ad una corsa intorno al colle palatino, correvano nudi e con delle fruste fatte con le pelli degli animali prima sacrificati. Quando incontravano una donna in età fertile, quest’ultima non si scostava e riceveva un colpo di frusta, come segno di buon auspicio. È stato detto che questo fosse un rito di purificazione: il latte è legato infatti alla purezza. Ma le offerte di latte e miele erano anche tipiche delle divinità degli inferi. Il secondo momento è un momento molto interessante: il tema della corsa intorno a un perimetro. È un tema che si trova anche altrove: è il tema delle danze sacre e magiche per proteggere ciò che era dentro al perimetro. I luperci infatti stanno sicuramente proteggendo il Palatino. L’ultima parte è un rito della fertilità. Questo tipo di festa, molto lontana dai canoni di una possibile festa cristiana, viene accantonata. C’è un tentativo di riesumarla intorno al ‘400. Ma il papa Gelasio I sostituisce i Lupercali con la festa del martire Valentino, uomo convertito al cristianesimo e diventato vescovo a soli 21 anni. Egli viene arrestato e decapitato (proprio il 14 febbraio) per aver celebrato il matrimonio tra la cristiana Serapia e il romano Sabino (per questo è ricordato come il patrono degli innamorati). 19/02/2018 Lezione 3 Le parole per dirlo: l’interazione con il divino Il problema di identificare la natura fondamentale della divinità non è indifferente, è un po' il fulcro di questi studi. Come studiare la religiosità? Ci viene richiesto un’elasticità di prospettiva. La divinità greca e quella latina è una e molteplice (la teoria dei frattali proprio questo dice: la capacità del dio di essere unico e molteplice). Fra tutti gli esempi di divinità uno degli esempi più plastici è proprio quello del culto di Afrodite, una divinità di cui conosciamo moltissime possibili origini (molti inizi possibili) e contemporaneamente Afrodite è una delle divinità più contraddittorie del pantheon greco a partire dal modo in cui veniva rappresentata: una dea dell’amore, ma anche della morte, una dea invincibile ma anche molto fragile (ferita da Diomede), una dea che tiene in mano lo specchio ma che ha anche la barba, una dea che è il distillato della femminilità ma che è anche una divinità guerriera. Il dio è vis e numen contemporaneamente: la sua natura è composta contemporaneamente di forza esteriore e di potenza divina. Forza e potenza sono un tutt’uno che danno la natura della divinità. il dio è fatto delle sue innumerevoli interazioni, le modalità attraverso cui la divinità entra in relazioni con il mortale che la venera. È un’identità che non è catalogabili nel tempo e nello spazio. La divinità 7 dei greci e dei romani è una divinità antropomorfa, ma in verità non necessariamente la rappresentazione della divinità è stata antropomorfa, specie per i romani, per i quali si parla di rappresentazione aniconica. Ma tendenzialmente la divinità ha una forma antropomorfa: anche il nome è un nome umano, che gli umani riescono a comprendere e ad addomesticare. L’altro elemento fondamentale che appartiene alla religione greca è l’epiteto: proprio nell’interazione tra nome ed epiteto si gioca l’interazione tra l’uno e il molteplice (Apollo può essere Apollo medico, Apollo il vate). Tutti questi elementi sono stabiliti attraverso l’epiteto. La fusione fra la personalità della divinità, la sua biografia, la fusione tra Afrodite nata dai genitali del padre e il culto di Afrodite è per l’esattezza l’istante in cui viene enucleato il rito (interazione tra l’elemento narrativo e il culto). La terza modalità di interazione è l’immagine (nome, epiteto, immagine). La quarta modalità è il racconto mitico. Dal racconto mitico in aggiunta si passa alla vera manifestazione della divinità che è composta da visibilità, sonorità, manifestazioni olfattive ed emotive. La divinità può presentarsi in vari modi, ma tendenzialmente la manifestazione della divinità circonda gli uomini e di volta in volta diventa accessibile attraverso canali diversi. Caso di Aiace e invisibilità del dio: questo caso è molto utile nel modo in cui è stato rappresentato da Sofocle. Egli mette in scena una tragedia molto complessa in cui riflette anche sul modo in cui la divinità diventa accessibile all’essere umano. La tragedia si apre con una divinità già presenta: la divinità è Atena e il personaggio è Odisseo. Atena è la divinità tutelare di Odisseo, il quale ha un momento di tentennamento. Odisseo dialoga con Atena, egli sente la divinità ma non la vede. In questo caso la divinità è invisibile ma presente attraverso la manifestazione sonora. Ma gli spettatori vedono la divinità sulla scena: si crea quella complicità tra autore e pubblico che mette il pubblico in una condizione privilegiata rispetto al protagonista. Il pubblico infatti vede e sente la divinità: il ventaglio dell’interazione è più ampio. La situazione si complica ancor di più quando diventa perno del dramma il protagonista Aiace. Quest’ultimo, reso folle da Atena, fa mattanza di una mandria di buoi credendoli i suoi compagni. Atena agisce depauperando Aiace di un suo strumento percettivo: non la vista fisica ma la vista razionale. Aiace è folle perché è cieco (velo di tenebra che rende temporaneamente ciechi gli umani). La follia non è vista come una patologia della psiche, ma viene dal di fuori. Aiace non vede, ma vede Atena. La sua modalità percettiva del divino è attivata su un altro livello (indovini spesso ciechi, ma gli unici in grado di vedere realmente la divinità). Sofocle ragiona sugli interessi della divinità. Quando tutti i linguaggi convergono viene attivata la dimensione della religiosità. “il divino è giorno notte, guerra pace, sazietà fame, è tutto e contemporaneamente uno” (Eraclito). Approccio emotivo, ma anche fisico sensoriale alla divinità è molto importante. LE PAROLE PER DIRLO Bisogna dare priorità alle parole che ci vengono dalla lingua latina. il latino è molto più utile per ragionare di parole connesse alla religione. Qual è il nostro problema nel costruire un vocabolario della religiosità antica? Le radici della lingua greca e della lingua latina si ritrovano nel grande calderone del linguaggio indo-europeo. Ricerca dell’origine. Quando si lavora su questi temi in una prospettiva più ampia, si deve constatare che la matrice indo-europea appartiene ad un numus in cui la dimensione della religiosità non è divisa da tutto il resto, ma è immanente. Se tutto è religione è difficile trovare le parole della religione. Ciò nonostante, lavorando sulle parole chiave, si scoprono cose interessanti. 2 binari oppositivi: 1. Religio: • mondo greco →i greci hanno threskeuo e poi threskeia: seguire scrupolosamente le prescrizioni religiose. Questa parola in verità compare abbastanza tardi nel mondo greco. 8 Prima di Erodoto non ne abbiamo traccia. Non sembra esistere una parola che possa descrivere tutto ciò che appartiene al culto e alla pratica religiosa. Questo verbo infatti è usato da Erodoto per descrivere le pratiche religiose degli Egizi. È una nozione di pratica e non di credenza. Ci troviamo difronte al nucleo della religiosità greca: la religione greca non è affare di fede, non è sentimento religioso, ma è atto, pratica. È un rapporto fatto di competenze religioso (modo in cui praticamente si venera il divino). Le molte forme del divino (Esiodo, Le opere e i giorni): veniva dalla Beozia. È un epos didascalico indirizzato al fratello. Mito delle 5 età dell’uomo: alcuni studiosi hanno colto in questi 5 momenti diversi, un’evoluzione, altri invece hanno voluto leggere non una scansione cronologica ma hanno voluto leggere queste ere come coppie oppositive. La prima stirpe dorata ha alcune caratteristiche che appartengono all’età dell’oro (assenza di morte, di fatica, di dolore, serenità). Questa prima stirpe di essere umani intrattiene con la divinità dei rapporti privilegiati. “La terra avvolge questa progenie e poi finiscono per trasformarsi in demoni. Sono i custodi degli esseri umani. A questa stirpe dorata ne segue un’altra: la progenie argentea, del tutto dissimile dall’aurea stirpe per aspetto e pensiero: non vogliono sacrificare sugli dei. La parola themis è il fulcro di questo passo: è qualcosa che rende la religione un insieme di pratiche religiose e contemporaneamente ne riverbera la sacralità. È sacro e santo nello stesso tempo. La seconda progenie d’argento sembra rimanere fanciulla per tutta la sua vita, non sembra esserci l’evoluzione fisiologica del mondo umano. Zeus, adirato, li nascose e li trasformò in demoni che stanno sotto la terra. Zeus è adirato perché questi uomini non sanno e non vogliono fare ciò che è un sacro dovere degli uomini: adorare la divinità nei templi sacri. Il problema di questi uomini non è che non adorino la divinità ma che non sono capaci di farlo dal punto di vista pratico. Quello che emerge è che la divinità entra in contrasto con l’umano per il modo in cui gli esseri umani danno forma alla loro adorazione nei confronti del divino. Il simposio di Platone: vittoria del poeta tragico Agatone. All’interno del simposio c’è il dialogo tra Diotima e Socrate, ma anche il discorso del comico Aristofane sull’amore: l’arroganza degli uomini fa sì che non siano in grado di venerare correttamente la divinità. Zeus allora divide gli uomini per far in modo di avere più sacrifici. Altro esempio è Tantalo, punito negli Inferi: quando la divinità arriva a casa sua inaspettata, egli decide di far prevalere il sacro dovere dell’ospitalità sulla prassi religiosa. Perciò fa a pezzi il figlio Pelope per darlo impasto agli immortali. Non ha alcuna importanza il sentimento sottostante. Le due parole che ci servono per la Grecia per ora sono: themis (obbligo e insieme sostanza della religione) e poi threskeuo (insieme di dispositivi religiosi). • Mondo romano → religio. Anche per gli antichi l’etimologia del termine religio è dibattuta. Il suggerimento che ci da Cicerone: religio deriva da legere (scegliere). “Quelli che riprendevano diligentemente e sceglievano tutto ciò che si riferisce al culto degli dei, costoro sono stati chiamati religiosi da relegere”. Essere religiosi significa, per Cicerone, selezionare un corpo di racconti o di culti oggetto di una particolare venerazione, perciò è una forma di scelta. A questa opzione interpretativa noi colleghiamo anche l’idea che il termine religio significhi prima di tutto, remora, scrupolo, attenzione per la scelta. In un passo del Curculio di Plauto il poeta dice: “vocat me ad cenam; religio fuit, denegare volui”. Religio in questo caso vuol dire scrupolo (qui non siamo in una dimensione del divino ma in una dimensione di scelta). Altro frammento di Accio: Nunc, Calcas finem religionum fac (qui ha la sfumatura di scrupoli religiosi). 9 Lattanzio invece fa derivate religio da “ligare” (legare): “siamo costretti e relegati dal vincolo, dalle catene della pietas. Dio si lega all’uomo e se lo attacca attraverso la pietà”. La religio sarebbe la catena tra essere umano e divino. Questo valore dato alla pietas e a questo vincolo non è dell’Urbe, perché la pietas non è il sentimento che lega la religiosità dei romani, bensì l’osservanza delle regole. Hanno ragione entrambi, perché stanno descrivendo un humus diverso: quella di Cicerone, a differenza di quella di Lattanzio, è una religione fatta di atti comunitari 2. Superstitio: • La lingua greca ha solo un termine che vuol dire superstizione: deisidaimonia (deido: temere →timore dei demoni). È il modo in cui ci si rapporta ai demoni, a fare la differenza. All’inizio avere paura dei demoni probabilmente è stato un atto corretto, quando però i demoni si sviliscono, la deisidaimonia diventa qualcosa di diverso, diventa paura del magico. 20/02/2018 Lezione 4 La lingua greca, straordinariamente ricca di termini polisemici, è a tratti, per quanto riguarda la religione, povera. Per indicare superstizione i Greci utilizzano la parola deisidaimonia. I demoni che si temono sono quasi spiriti maligni che non meritano di essere venerati. La questione si amplia e si complica nel momento in cui ci volgiamo alla lingua latina, che ci offre una serie di spunti di riflessioni che il greco non ci consente a tratti. Superstizione deriva dal termine latino “superstitio” la quale però si lega a due parole latine: - Superstes: superstite Superstitiosus: indovino La superstitio dunque in che modo si lega all’idea del superstite e dell’indovino? L’origine è la stessa, ma si pongono alcuni problemi. La questione è stata molto dibattuta. Interpretazioni: - - - Interpretazione letterale per superstes porta all’idea di superstitio come di sopravvivenza di tradizioni religiose che sopravvengono al mutamento dei codici religiosi Otto nel suo studio sulla religio, dice che la parola superstitio non va spiegata a partire dal vocabolario latino, ma come calco della parola greca ekstasis. Walter Otto fa una sovrapposizione fra “ek” greco e “super” latino e fra “sto” e “istemi” (stare, rimanere, essere collocati). Tuttavia la sostanza che sta dietro la parola estasi è diversa: l’estasi è una condizione della psiche che può essere o meno messa in relazione con la divinità. La divinità dell’estasi è tradizionalmente il dio Dioniso. I rituali dionisiaci contemplano l’estasi, l’uscire fuori da sé per accedere alla dimensione del divino, oppure l’aprire il proprio corpo per l’immersione del divino. L’estasi è un tema forte dell’esplicarsi dell’atteggiamento religioso, ma non è solo questo: l’estasi infatti non ha mai una coloritura magica, misterica. Perciò difficilmente è utile questa interpretazione di Otto. Secondo Muller-Graupa superstes è un eufemismo per gli spiriti dei morti…i morti sono sempre vivi; possono sempre ricomparire come demoni. Sono gli spiriti che sono sopravvissuti alla morte. La superstitio quindi è la qualità astratta dei superstiti e superstitiosus come “posseduto dagli spiriti malvagi”. Margadant invece pensa al senso di superstes come di testimone e quindi il superstitiosus sarebbe colui che è un testimone della divinità. La lingua latina non ci consente però di mettere in relazione il tema della testimonianza con la religione. I mortali non vengono chiamati a testimoniare. Ciò è 10 - sicuramente vero per la cultura e la religione latina, ma forse un punto a favore di questa interpretazione è che così non è nella religione greca: il mortale che testimonia un avvenimento dovuto alla divinità è chiamato ad un ruolo solenne. Nella religione greca il testimone autoptico è assolutamente centrale e ha un legame della divinità diverso. Cecrope viene chiamato a testimoniare la contesa di Atena e Poseidone per il controllo dell’Attica. Cecrope viene chiamato ad essere il testimone muto di un avvenimento che non lo riguarda. In Grecia il tema della verità è un tema molto fluido e labile: non esiste una verità assoluta; la verità è legata al fatto di essere testimone dell’evento. I detrattori di Margadant non hanno dunque considerato che, allargando un po' lo sguardo, la nozione di testimonianza sia in qualche modo legata alla religione greca. Beneveniste: dà la sua ipotesi → “secondo me è il caso di ritornare all’idea che un superstes sia qualcuno che in qualche modo, sopravviva”. Super infatti non indica semplicemente ciò che sta sopra, ma anche ciò che va oltre, che si allunga in avanti (supercilium: sopracciglio). Superstes dunque come sopravvissuto, come testimone di un evento a cui altri non sono sopravvissuti, anche della morte. Quindi la superstitio è la qualità astratta che descrive la condizione di sopravvivenza dopo la morte. Inoltre egli dice che il superstitiosus è colui che sembra conoscere i fatti come un sopravvissuto, ma in realtà non è mai stato presente nel momento in cui questi fatti sono accaduti. Che cos’è quindi l’indovino in Grecia e a Roma? Per dare una risposta si potrebbe citare il famoso incontro fra Odisseo e le sirene. Si è discusso molto e a lungo sulle dinamiche dell’incontro e sulle ragioni per cui Odisseo trova le sirene irresistibili. Le sirene di Odisseo sono bruttissime e certamente non possono esercitare alcun tipo di seduzione legato all’aspetto fisico. Ad essere irresistibile è il loro canto. Anche gli Argonauti incontrano le sirene ma in queste caso gli umani sono fortunati poiché è li presente Orfeo che canta più forte delle sirene e perciò la nave Argo riesce a sopravvivere. Ma il canto delle sirene di Odisseo non è irresistibile, è il loro contenuto ad essere irresistibile: esse infatti cantano la guerra di Troia. Il profeta, nella cultura greca e latina, è colui che conosce così profondamente il passato da poter interpretare il futuro. Le sirene non erano presenti quando Odisseo ha combattuto a Troia, perciò, secondo la ricostruzione di Benveniste, sono superstiziose: hanno saputo raccontare un evento a cui non erano presenti. L’indovina conosce profondissimamente il passato, tutto il passato, persino quello a cui non è stato presente, e successivamente interpreta il futuro. SACER VERSUS SANCTUS Sacer ingloba tutto ciò che ha che fare con la sfera della consacrazione agli dei, ma anche con il tema della venerazione, dello stupore del timore che suscita il rapporto con la divinità. Sacer deriva da una radice indoeuropea: SAKRO. La parola sacer ci pone difronte ad una grande tematica delle religioni dle mondo antico: il tema del sacrificio. La parola sacer è uno dei termini di cui si compone la parola sacrificio: sacrum+facere (fare qualcosa di sacro). Il sacrificio in che senso si lega così potentemente al senso del sacro? Perchè un atto che sottintende l’uccisione ha a che fare con la matrice della sacralità? Ciò si lega al significato e al valore primo del termine sacrificio. Che cosa significa uccidere, sacrificare una vittima e offrirla agli dei? Significa collocare la vittima in una zona che la rende appartenente agli dei, significa toglierla dalla sfera umana e renderla inattaccabile dalla comunità degli uomini. Uno dei segmenti fondamentali è quello in cui agli animali da sacrificare vengono tagliati i peli sul capo che poi vengono gettati sul fuoco. Questo è l’istante in cui la vittima viene consacrata agli dei: non può più tornare indietro (nonostante essa sia ancora viva, non lo è già più, perché una parte di sé è stata data agli dei, il sacrificio si è già completato). L’animale è collocato in una sfera dell’intangibile. Il sacrificio è il modo in cui il sacro trova la sua incarnazione reale. 11 “L’uomo sacro è colui che il popolo ha giudicato per un’azione malvagia: quest’uomo non è consentito in nessun modo che venga immolato, ma se qualcuno lo uccide non è giudicato” (Festo). In questo caso si parla di un uomo colpevole di un’azione ingiusta; quest’uomo non può essere sacrificato, ma nel momento in cui viene ucciso, colui che lo uccide non verrà giudicato. La natura peculiare di un eroe come Edipo è proprio questa: egli si rende conto che c’è qualcuno che sta infettando la città di Tebe, perché è corrotto nell’animo e dice: “Nessuno lasci che il proprio spazio sia contaminato dalla presenza di un uomo che ormai è sacer da un’altra parte”. Anche in questo caso è la dimensione dell’intangibile (Edipo) ad essere la dimensione del sacro. SANCTUS “Santo è ciò che viene difeso dall’attacco malevole degli uomini e difeso” (Digesto). Santo è ciò che non è né sacro né profano. Sanctus deriva dal verbo sancio (sancire). Sacer è tutto ciò che non è profano, nel senso etimologico del termine, mentre santo è ciò che una disposizione interna alla comunità umana ha stabilito essere inviolabile. La sacralità è una condizione misteriosa e intangibile, la santità è una condizione che viene dal basso. Sacer è il sacro implicito, mentre sanctus è quello esplicito (sante sono le leggi ad esempio). Questa santità viene avvolta e circondata dalla dimensione del sacro. Troia ad esempio è sacra, una via è sacra, un monte è sacro, ma un muro è santo, una persona è santa, una legge è santa. La crasi di questi due universi è sacrosanto: ciò che è santo per mezzo di un’azione sacra. La parola sanctus ha una sua evoluzione: noi usiamo molto la parola santo. Il termine infatti appartiene anche alla religione cristiana. Che cosa è avvenuto ad un certo punto in cui sono diventati santi gli eroi, i luoghi e i morti? La parola santo ha tirato a sé tutte le pertinenze del sacro: santo è la regola e santo è tutto ciò che sottostà alla regola. Sanctus è diventato equivalente del termine “venerandus”. A questo punto si pone il problema non solo della santità ma anche dell’atteggiamento verso la santità. La santità dunque non è più solo una condizione, ma necessita di un atto religioso che la affianchi. IL SACRO IN GRECIA I Greci hanno molti modi per indicare ciò che è sacro: - Hieròs: parentela accertata con il vedico isirah = forte, potente, vitale. È un aggettivo che si collega molto bene a divinità, personaggi mitologici, ma si usa anche per definire il vento. In greco si trova spesso in forma di epiteto (Hieròs è anche un’armata greca, la bilancia di Zeus è sacra, la testa di Zeus è sacra, le aie su cui si batte il grano sono sacre, un vallo è sacro). Abbiamo un grande problema: innanzitutto non sembrano essere armoniche l’una con l’altra e in alcuni casi ci proiettano in una dimensione noi potremmo agganciare la tensione verso il sacro: ad esempio l’aia della fattoria perché è sacra, perché lo è un vallo o un carro? Perché è la divinità ad essere chiamata in gioco. Il vallo descritto è quello che circonda la casa di Calipso. Questi elementi sono sacri hanno a che fare con la divinità: la sacralità è una qualità che permea azioni, momenti della vita umana di una dimensione assoluti. Sono sacri perché la divinità li ha resi tali. L’unico esempio misterioso sul quale gli esperti si dibattono è il canto XVI dell’Iliade (vv.404-408): qui il paragone non è con la dimensione divina ma è con il pescatore. Patroclo è paragonato ad un pescatore che tira su il suo pesce hieròs. Unico caso in cui l’aggettivo è riferito ad una dimensione in cui il divino non è minimamente presente nemmeno come termine di paragone: molto probabilmente questa è la sopravvivenza di un uso della radice vedica che si riconnette a ieròs: il sacro, ma anche il potente, il vitale. In questo caso il pesce sarebbe “guizzante”. 12 - Hazomai, hagios e hagnos: crine di viola, dolceridente, veneranda (agna) Saffo → frammento di Alceo. È la descrizione più nota della poetessa Saffo, ma è anche un frammento molto interpretato. Una delle ragioni del contendere sul piano interpretativo è proprio l’aggettivo agna. Perché Saffo è venerando, perché per Alceo è agna? È stato detto che Saffo potrebbe essere vergine, oppure pura, così pura da essere intangibile. Ma bisogna guardare meglio gli altri epiteti che compongono il frammento: crine di viola è un epiteto che spesso in Omero è associato ad Afrodite, e dolceridente sembra un aggettivo che è pensato per evocare un altro aggettivo: filomeides (che ama il sorriso), anch’esso associato ad Afrodite. Entrambi sono perciò aggettivi che abitualmente si riferiscono alla divinità. Dunque bisogna pensare che l’aggettivo veneranda non sia messo a caso. È come se Alceo avesse distillato l’essenza del sacro, che è per l’appunto la sua capacità di veicolare un’emozione sacra. È come se Alceo stesse descrivendo il sentimento che in lui genera la vista o la presenza di Saffo; un sentimento che non è solo forma d’amore, ma è qualcosa che è simile all’emozione che genera il contatto con la divinità: sospendere il respiro e quasi arretrare a quella che ha tutte le caratteristiche di una visione. A questi terrmini si aggiunge un’altra parola: hosios. È un sacro reso tale dalla comunità degli uomini. Omero non lo usa. Hagios e hazomai sono parole che riguardano proprio l’atteggiamento del fedele nei confronti del fenomeno divino. 22/02/2018 Lezione 5 Sali: praticano il culto con una danza rituale. Questa danza si compie in un modo molto specifico. È una danza in tondo che descrive un perimetro ed è una delle danze che definiamo guerriere perché danzano con lo scudo battendo il ritmo su di esso. La loro danza rende sacer ciò che loro avvolgono. Ma in verità i Sali fanno un altro mestiere: proteggono un unico scudo, lo scudo che si diceva che Giove avesse fatto cadere dall’alto e che fosse stato raccolto da Numa Pompilio e che rappresentasse perciò la fortuna di Roma (lo scudo dunque è santo, circondato da uno spazio sacro che è la danza dei Sali). Una delle manifestazioni più importanti della divinità, e nel caso della cultura greca dell’eroe, è il tema del nome (nome nomen: nel nome c’è un presagio). Ci sono però alcuni casi in cui il nome svela alcune peculiarità della figura divina o eroica che sembrano nascoste nella loro biografia. ODISSEO: le etimologie legate al nome raccontano delle cose che noi non conosciamo. È ricondotto al verbo odussomai (odiare): il nome sarebbe il ricordo di un fatto sgradevole e doloroso, accaduto prima della nascita del bambino. Il nonno di Odisseo, il padre di Penelope, Autolico ha un nome che significa “l’uomo che si trasforma da solo in lupo”. Questo ci ricorda un passaggio molto bello dell’Odissea, quando Odisseo si presenta alla reggia di Itaca travestito da mendicante e viene riconosciuto dalla sua nutrice grazie alla ferita (ferita araldica che contrassegna l’eroe. È qualcosa che rende un eroe perfettamente identificabile). Omero fa cenno per la prima volta ad una pratica di magia: la ferita del bambino Odisseo è stata guarita dai compagni di Autolico che hanno cantato un incantamento che ha permesso di risanarla. L’etimologia più famosa è quella raccontata da Sileno di Chio: racconta qualcosa di scabroso che ha a che fare col concepimento di Odisseo su cui le fonti del mito sono in ombra. L’idea è che la madre Euticlea lo avrebbe partorito “un giorno in cui Zeus pioveva con grande intensità” (in greco “kata ten odòn osen o Zeùs”). 13 PROTESILAO: un oracolo aveva stabilito che il primo che avesse toccato terra sulla spiaggia di fronte a Troia, sarebbe morto. Gli eroi dunque si guardano bene dal mettere per primi a terra il piede. Ma la sposa di Protesilao, Laodamia, intuisce e si attacca al marito tentando di trattenerlo. Lui la rassicura e parte in guerra, ma non appena mette piede a terra, muore. Infatti Protesilao sarebbe un composto di protos + laos (colui che è il primo fra il suo popolo). Tuttavia la figura di Protesilao non è una figura eroica importante tanto da essere considerato il primo del popolo. Il nomen di Protesilao conterrebbe già il nucleo seminale della sua fine. In questo caso davvero il nome sarebbe un presagio. Pur non essendo famoso, è lo sposo di Laodamia, creatura meravigliosa a cui a tratti, la tradizione mitica, attribuisce l’invenzione della statua. Ella infatti, dopo la morte di Protesilao, fa costruire una statua del marito e la tiene con sé nel letto. Viene poi scoperta e la statua di cera viene gettata nelle fiamme. Lei, consumata dal dolore, si getta nelle fiamme con la statua. ERACLE: significa solo una cosa, significa “gloria (kleos) di Era” (colui che ha la gloria attraverso Era). Zeus tradisce Era (Zeus sembra incarnare una potenza generatrice indifferenziata). Si innamora di Alcmena (la storia è raccontata nell’Anfitrione di Plauto) e si trasforma in Anfitrione e si reca a casa della donna, si unisce ad essa e rimane incinta. Successivamente Anfitrione, tornato dalla guerra, si unisce ad Alcmena, generando Ifìcle, gemello mortale di Eracle. Era dunque è nutrita da un odio profondo nei confronti di Eracle. Come è possibile che allora il suo nome significhi “gloria di Era”? Dobbiamo far riferimento al momento in cui Eracle è messo sulla pira, sta morendo, ma a quel punto Zeus chiede ad Era di adottare Eracle e di farne un suo figlio. Era fa passare attraverso le sue vesti Eracle, come se stesse partorendo Eracle. Questo diventa a pieno titolo una divinità, e attraverso la sua apoteosi, raggiunge l’Olimpo. DIONISO: abbiamo in questo caso il grande problema delle origini. Dioniso viene da lontano. Noi nelle tavolette di lineare B leggiamo DI-WO-NU-SO. Effettivamente questo dio era già presente nel linguaggio miceneo, quindi non ha nulla di straniero, è il più autoctono. Di Dioniso non sappiamo nulla, salvo che era già associato a Zeus (gen. DI-OS + seconda parte più difficile→ potrebbe trattarsi di un nome trace per “figlio”, riscontrabile nel toponimo NUSA e nei nomi di ninfe NUSAI. Garcìa Ramòn propone anche l’interpretazione della prima parte del nome come DIS, due volte, quindi “due volte bambino”, data la tradizione della sua doppia nascita, ma il digamma miceneo esclude questa ipotesi. Si ricollegherebbe a due ipotesi diverse. Dioniso nasce 2 volte in 2 modi diversi: - Viene concepito in un bosco da Semèle unitasi a Zeus. Venuta a conoscenza del tradimento, la dea Hera – sotto le sembianze di una vecchia nutrice di Semele – finse di non credere che il padre del bimbo nel grembo della principessa (incinta ormai di sei mesi) fosse proprio Zeus, a meno che la giovane non convincesse il suo amante a rivelarsi nel suo vero aspetto. Semele seguì quel consiglio e quando Zeus rifiutò di accondiscendere, gli negò il suo letto. Furibondo, il dio allora le apparve fra tuoni e folgori in tutta la sua gloria, tuttavia la visione di tanto splendore uccise la giovane. Fu allora che Hermes salvò il bambino: lo prese, infatti, e lo cucì in una coscia di Zeus, dove egli poté maturare per altri tre mesi venendo poi alla luce. Per questo motivo Dioniso è detto nato due volte o anche il fanciullo della doppia porta. 14 - Esiste un altro Dioniso: Dioniso Zagreo figlio di Persefone. Fu fatto a pezzi dai Titani, messo a bollire e arrostito. Viene ricostruito dei suoi 14 pezzi e rassembrato. L’unico pezzo di Dioniso andato perduto era il cuore (gli verrà dato poi dagli dei un cuore di gesso). Il due volte nato è contemporaneamente nato da Semele e da Zeus e poi due volte nel senso di smembrato e poi riaggregato. Tre divinità: le MOIRE (parche in latino). Apparentemente la storia mitica della dea non sembra c’entrare quasi nulla con il culto della divinità. Ci sono divinità che in una fase iniziale della loro mitologia sono una e poi diventano tante (caso delle Erinni). Ma il caso più interessante è quello delle Moire. All’inizio non sono tre, non hanno un nome, ma è una sola (la Moira). Soltanto in un caso, in particolare quando Apollo rimprovera tutti gli dei perché non stavano impedendo ad Achille di fare scempio del corpo di Ettore. In Omero non ci sono le moire, bensì la Moira, una divinità che è di fatto una personificazione. Essa rappresenta per l’esattezza la parte del destino, quel destino che ci è assegnato alla nascita. Non rappresenta in generale la tuche (la sorte che può essere sia positiva che negativa), ma è esattamente quella porzione di destino che tocca a tutti noi quando nasciamo. Tocca anche agli dei. ERMES: figlio di Maia e di Zeus. Viene alla luce sul monte Cilleno, in Arcadia. Viene alla luce in una grotta. Quando Ermes viene alla luce, esce dalla grotta, e vede una tartaruga. La uccide e crea la lira (la cetra). Modella della biografia eroica: appena nato è già in grado di compiere un’impresa. Ma Ermes è un dio: e si chiede quale sia la sua moira (la sua parte del destino: le Moirai sono state già tutte assegnate). Egli dunque ruba le mandrie del fratello Apollo e successivamente canta un’altra Teogonia, e si assegna una parte. La Moira è un oggetto straniero: è qualcosa di intangibile ma è anche qualcosa di estremamente concreto: è noi e contemporaneamente è quella parte di un ordine cosmico di cui a noi tocca un segmento. Ben presto le moire diventano tre: 1. Cloto: colei che fila il destino 2. Lachesi: distribuisce il lotto 3. Atropo: non si può voltare indietro Esiodo, nella Teogonia, cita le Moire e in due casi viene citata la loro genesi, nella stessa opera. • “La notte quindi generò la sorte odiosa, e la nera Kere, e la Morte, e il Sonno, generò la stirpe dei sogni, generò il biasimo e sventura dolorosa. Generò anche le Moire e le Kere: Cloto, Lachesi ed Atropo.” È una genesi che le conduce alla matrice più oscura dell’universo, ossia la notte. Esse sono anche figlie del nulla, sono anche inquietanti, sono ciò che fa paura, non sono divinità rassicuranti. Nascono, dice Esiodo, in compagnia del biasimo (moiros: antichissima parte del destino). Poi Esiodo ribalta la questione e quasi in chiusura del suo poema: • “Per seconda Zeus sposò la splendida Themis (divinità dell’ordine prestabilito) che generò le ore, eunomìa (equilibrio delle leggi), dike (la giustizia) e la pace fiorente e le Moire cui grande onore diede Zeus prodente”. La timè (l’onore) è la parte di destino che viene assegnata, la parte di onore che viene assegnata (Criseide è la timè di Achille ad esempio). I Greci combinavano sorte (moira) in una sorta di selezione esclusiva che permetteva ai migliori di scegliere prima. La stessa cosa pare sia accaduta nel momento 15 in cui i fratelli hanno dovuto scegliere le parti dell’universo: c’è stato un sorteggio ma Zeus ha scelto per primo. Qui però è lo stesso Zeus che attribuisce alle Moire le timai. Questa seconda genealogia sembra una copia rovesciata della precedente. La prima infatti è legata al caos, al nero profondo della notte, all’irrazionale, la seconda invece è legata all’ordine (le Moire sono figlie di Themis). Ma è proprio la dimensione della religiosità a spiegarci questa ambivalenza e a fonderla in un’unica figura. LE MOIRE: prima genesi esiodea Platone cancella l’Ade di Omero e si inventa una nuova storia che crea una nuova narrativa dell’aldilà. In sostanza qui Platone enuncia una teoria sull’immortalità dell’anima. Qui Platone ci spiega che cosa fisicamente accade alle anime dopo la morte: ci parla di una voragine celeste e ci spiega come le anime si apprestino ad incarnarsi. Le anime hanno delle moirai pronte per loro e per un meccanismo combinatorio e di scelta, mettono le mani sui destini che stanno loro difronte. Possono scegliere i loro destini e questi saranno il loro nuovo futuro. La moira la si sceglie e l’ordine in cui si sceglie viene stabilito dal sorteggio. Questa visione di Platone: c’è un fuso che gira e al vorticare del fuso presiedono le sirene e le Moire. Qui abbiamo un’ulteriore genesi delle Moire: sono figlie di ANAGKE (la necessità). Le anime passeranno sotto il trono della necessità prima di incarnarsi. Le Moire però hanno sempre gli stessi nomi e hanno sempre gli stessi compiti. In Platone le Moire sono nel regno dei morti, sono dunque nella morte. Compaiono le Moire in un insieme circoscritto di tavolette: ci sono circa 40 tavolette provenienti dai contesti più vari (in Magna Grecia per esempio vicino a Crotone). Sono state trovate nelle sepolture di morti non qualsiasi in un arco cronologico che va dal V-IV secolo a.C. sino al III d.C. Sono lamine d’oro ritrovati in sepolture di defunti quasi sempre cremati, ed erano appoggiate o sulla bocca, o sugli occhi dei morti. Sono state definite come dei passaporti per l’aldilà che però toccavano non ai mortali qualsiasi, ma agli iniziati ai misteri. Forse i misteri eleusini (ipotesi scartata perché non sono state ritrovate sino ad ora tavolette d’oro ad Eleusi). Si tratta invece di lamine di misteri orfici. A Turi sono state ritrovate tre sepolture: da qui proviene una lamina che corrisponde ad una tipologia. Queste lamine sono scritte in greco, in esametri, con una scrittura molto poco raffinata ma con un minimo di interesse estetico (le lamine vengono a volte battute per renderle più interessanti dal punto di vista estetico). Nella lamina ritrovata a Turi compare appunto la Moira. Ciò che interessa è il momento in cui l’iniziato ai sacri misteri vola via per il suo destino immortale e la sua sorte è stata stabilita dalla moira. Lui stesso è stato domato dalla moira. C’è chi ha voluto vedere in questi morti del Timpone piccolo di Turi, dei morti fulminati, dal momento che viene citato il saettatore celeste. Papiro di Derveni (lungo 3 m) in cui abbiamo l’altra grande teogonia oltre a quella esiodea, in cui sono nuovamente presenti le Moire. Zeus è definito come la Moira. (passaggio: Zeus dominato dalle Moire in Omero, Zeus padre delle Moire in Esiodo, Zeus è la moira in questo papiro). 16 Lezione 6 26/02/2018 Le moire sono interessanti per due ragioni; da un lato mostrano l’oscillazione numerica delle divinità antiche e dall’altro ci offrono delle possibilità interessanti per il rapporto fra il racconto mitico e il culto della divinità. dal punto di vista mitico le Moire vengono ricordate ben due volte nella Teogonia di Esiodo, con due genesi molto diverse. Questa oscillazione delle origini è uno deggli elementi più importanti che caratterizzano anche la figura di Afrodite. - - Vv. 211-219: le Moire sono messe in relazione con la Notte, in una zona non antropomorfa. In questo caso sono associate ad una serie di personificazioni che hanno un potente carattere inquietante. La stirpe dei sogni è collocata, nella geografia degli antichi, subito prima del regno dei morti. Sono figlie dunque della Notte: idea della creatura dal sesso indistinto che genera altre creature (monogenesi di una divinità femminile) è molto inquietante. La Notte, senza unirsi ad alcuno, la Notte genera il biasimo e la sventura dolorosa, e le Esperidi. Generò anche le Moire e le Kere, inesorabili vendicatrici. I tre nomi delle Moire rimangono fissi: Cloto dà l’idea del filo che viene generato, Lachesi dà l’idea del taglio del filo, e Atropo alla lettera colei che non si volta mai indietro (il destino che non può essere mutato). Nel mito di Er, nella repubblica di Platone, le Moire sono figlie di ANAGKE (necessità). Fine del poema: Zeus sposa la splendida Themis (l’ordinamento; ciò che viene prescritto, che precede la legge che invece è prescrizione umana). Generò legge, pace e le Moire. In entrambi i casi c’è l’idea di concedere agli uomini il bene e il male, ma il contesto è ribaltato. Nella prima generazione le Moire sono affiancate dalle Kere, inesorabili vendicatrici, mentre nella seconda sono affiancate da Pace e Giustizia. Le Moire e la nascita: visione positiva Antonino Liberale (Metamorfosi): declinazione in prosa delle Metamorfosi di Ovidio. Antonino è interessato alla Metamorfosi. “A Tebe, Preto ebbe come figlia Galintiade. Questa era una vergine amica e compagna di giochi di Alcmena, figlia di Elettrione. Quando Alcmena, incinta di Eracle, era in travaglio, le Moire e Ilizia, per compiacere Era, le impedivano di partorire. Esse stavano sedute, sia le Moire sia Ilizia, con le mani intrecciate. Allora Galintiade nel timore che le doglie facessero impazzire Alcmena, corse da esse e annunciò che, per volere di Zeus, ad Alcmena era nato un figlio maschio, e che esse erano cadute in disgrazia (le loro timai erano state abolite). Quando udirono ciò, le Moire rimasero sbalordite e sciolsero subito le mani, e in quello stesso istante le doglie abbandonarono Alcmena, ed Eracle potè venire alla luce” [magia dei nodi: ci sono versioni del mito in cui le Moire e Ilizia hanno le gambe intrecciate; quando il nodo è sciolto il parto può avvenire]. Le Moire trasformarono Galintiade in un’infida donnola: essa riceve il seme tramite le orecchie e partorisce emettendo il feto dalla gola”. I padri della Chiesa hanno usato l’esempio della donnola per spiegare qualcosa che in natura è impossibile spiegare. Perché i padri della chiesa sono interessati alla donnola? Per spiegare l’immacolata concezione: se esiste un animale che concepisce attraverso le orecchie, in questo stesso modo ha concepito Maria: è proprio il raggio divino a fecondare Maria. Qui le Moire sono in connessione alla nascita e non alla morte. Le Moire in connessione alla nascita sono citate anche nella VI olimpica di Pindaro in cui si parla della nascita dell’indovino Iamo. Nel momento in cui nasce ci sono Ilizia e le Moire. La cintura scarlatta gioca lo stesso ruolo delle mani 17 intrecciate. Nell’iconografia medievale e rinascimentale, la cintura slacciata indica la Madonna già matura, che ha partorito, la cintura stretta invece indica la Vergine. Moire connesse al tema della morte Esempio che viene dal mito di Er, nella Repubblica di Platone. Le anime si ritrovano in una pianura e ricevono in sorte la possibilità di scegliere la nuova moira, il nuovo destino. Le Sirene intonano una sola nota e su questa armonia le Moire cantano. In Platone si parla esplicitamente non della sorte che tocca a ciascun mortale, ma del problema del presente, del passato e del futuro (le Moire sono tre figure a cui spetta ricoprire tutto l’arco della temporalità). Le moire in relazione al passato ritornano in alcune tavolette (Magna Grecia, Creta e Tessaglia), su alcune lamine, privilegio di un gruppo ristretto di persone iniziate ai misteri orfici. In un gruppo di lamine (a Turi, vicino Crotone) in cui appare “moira edamase” → mi domò il destino. Le Moire investono interamente la sfera dell’esistenza umana: sono indissolubilmente legate alla morte e contemporaneamente alla nascita. Papiro di Derveni: altra teogonia. Zeus è definito la Moira possente. Siamo in uno scenario diverso da quello della Teogonia di Esiodo. La Moira e Zeus sono la stessa cosa. In Esiodo invece, Zeus genera le Moire, e Omero ci dice come Zeus stesso fosse assoggettato alla Moira (“Io sosterrei i Troiani, ma mi tocca fare un passo indietro, perché non decido io”; nella psicostasia Zeus capisce che il suo cuore batte per Ettore, ma Zeus non ha potere decisionale). Qui invece la Moira, siamo in ambito orfico, e Zeus sono la stessa cosa, perché Zeus è tutto, è l’inizio e la fine. Zeus è primo e ultimo, è il mezzo è la testa, da lui deriva qualsiasi cosa. Quindi c’è uno slittamento ulteriore: il destino, la parte e Zeus sono la stessa cosa. IL CULTO Pausania (II libro, Descrizione della Grecia): si descrive il santuario delle Moire. “Ogni anno si sacrificano pecore gravide e si fanno libagioni con miele e acque e si usano fiori invece che ghirlande. Riti simili si praticano anche sull’altare delle Moire”. Le Moire hanno lo stesso tipo di culto delle Eumenidi, ossia le Erinni addomesticate. Possono essere addomesticate solo attraverso il culto. Questi culti sono un po' fuori città. L’altare delle Moire è nella parte del bosco che è allo scoperto (dimensione limitrofa tra la civiltà umana e la natura indifferenziata). Il tema del miele e dell’acqua o del latte sono delle spie per capire che qui abbiamo a che fare con divinità che si collocano al confine tra la vita e la morte. Le Moire e le Eumenidi non possono essere venerate così come si venera Zeus, perché sono divinità pericolose che vanno accostate con attenzione. Se noi guardiamo i casi in cui le Moire vengono citate su un’epigrafe funebre, ci rendiamo conto che sono le divinità della vita, della famiglia, della nascita. Mai, come nelle Moire, noi troviamo fuse tutta la sfera positiva della famiglia e della nascita e tutta la sfera plumbea della morte. Sembra esistere un convincimento che rimarrà saldo sino all’età della tragedia, che prevede il fatto che la vita degli esseri umani non sia fatta da un’esistenza individuale, ma che la famiglia condivida un unico tessuto vitale. La comunità quindi ha un unico tessuto vitale che viene di volta in volta assegnato attraverso le Moire. È un tema molto facile da leggere e da utilizzare quando si legge anche l’Alcesti di Euripide. La ragione per cui Admeto può fare il patto con Thanatos, e per cui ottiene che un membro della famiglia possa morire al posto suo, la ragione ultima è il fatto che la famiglia di Admeto condivida un tot di esistenza, dove ciò che viene assegnato ad uno viene tolto all’altro (non ci si deve stupire se le Moire 18 vengono citate nelle epigrafi funebri così come nelle cerimonie che hanno a che fare con le nascite). Non ci stupisce allo stesso modo che le Moire si trasformino ad un certo punto, in fate. Le fate tipiche delle favole, ad esempio le fate madrine della bella addormentata nel Bosco. Le fate sono tre, arrivano al momento della nascita, ma in quell’istante esatto c’è già il germe che potrebbe portare alla fine: c’è il fuso (l’anima esterna del personaggio che è già potenzialmente foriero di morte). Le fate sono tre esattamente come le Moire. Ci sono degli studi importanti che testimoniano come ci sia stata una migrazione di competenze dalle Moire alle Fate. Riassumendo è importante chiarire come questo impossibile matrimonio tra nascita e morte nel culto, è perfettamente tenuto insieme dalla narrazione mitica che allude al fatto che le Moire hanno di fatto due volti diversi (dove c’è la nascita di qualcuno c’è la morte di qualcun altro). ERA Associazione fra Era e il pavone. Siamo abituati ad intendere Era come una divinità di matrice panellenica. Non sembra essere una divinità con una dimensione locale ben individuata, ma sembra essere sin da sempre la sposa di Zeus. In una tavoletta in lineare B proveniente da Pilo (TAVOLETTA TN) troviamo Zeus ed Era già associati. Subito dopo vengono citati due nomi DI-WI-IA e PO-SI-DA-E-JIA (divinità femminili il cui nome è la declinazione femminile della divinità maschile). Con ogni probabilità dunque la religiosità minoico-micenea associava alla divinità maschile quella femminile. Zeus ed Era dunque sono uniti da sempre. Ma che caratteristiche ha Era? Nel IV libro dell’Iliade, Zeus è molto adirato con Era per la cattiveria nell’odiare e nel perseguitare i Troiani. Zeus la chiama “pazza”, la accusa di perseguitare i figli di Priamo. Zeus ama Troia perché gli altari in suo onore non mancano mai di offerte sacrificali. Zeus dunque minaccia esplicitamente Era e lei risponde: “Ebbene, vi sono tre città a me carissime: Argo e Sparta e la spaziosa Micene”. Le divinità greche, rarissimamente nell’Iliade, parlano delle città a cui sono legati. Argo, Sparta e Samo sono le città in cui Era veniva venerata più che altrove. Era è dunque già nell’Iliade una divinità locale, e in particolare è la divinità di Argo. È la prima volta in cui noi possiamo vedere all’opera come le città possano improntare la narrazione epica. Qui, con ogni evidenza, visto che i resti archeologici ci parlano di un culto ben vivo nell’VIII secolo, Era è la divinità di Argo e Omero lo ricorda spesso. Era è argiva. Ciò ci permette di apprezzare il rapporto tra dimensione di culto panellenica e dimensione di culto locale. Era è colei che protegge i matrimoni, è l’emblema del matrimonio, è la sposa per eccellenza. Ma dal punto di vista del culto, questo non è evidentissimo. Pausania descrive il santuario di Era ad Argo e di una statua di Era. La statua di Era è seduta su un trono, ed è di notevole grandezza; fatta d’oro e d’avorio, è opera di Policleto: in una mano porta una melagrana, nell’altra uno scettro. Lasciamo andare ciò che riguarda la melagrana (non è lecito parlarne → rimanda al culto di Persefone e Demetra)”. Entrambi i passi insistono però sulla verginità di Era: Era è vergine e quando non lo è recupera la sua verginità. 19 La connessione tra l’Era dell’epica e l’Era del culto di Argo, è una connessione antichissima. È molto raro trovare le divinità adorate con gli stessi epiteti con cui vengono ricordate nell’epica. Nel caso di Era invece avviene una cosa singolare: è stato ritrovato un anello che forse appartiene all’Heraion di Argo e che è appartenente alla fondazione Paul Getty di Malibù. L’anello ha inciso LEUKOLENOS: dalle bianche braccia. Questo epiteto è per l’appunto uno degli epiteti più importanti di Era all’interno dell’Iliade. Dunque sembra evidente mettere in relazione il contesto argivo con l’epos omerico. In effetti intorno all’VIII secolo, gli Argivi avranno lasciato un frammento del loro culto locale nella declinazione della divinità come appare nell’Iliade. Zeus inoltre non ha nessun culto ad Argo che non sia come sposo di Era. Caratteristiche del culto: prevedeva una processione, una danza in armi e delle gare di atletica. Ad Argo la statua veniva portata in pompa magna in processione. L’importanza della statua di Era in processione viene ricordata da una storia frutto di versioni declinate in tutti i modi: Cleobi e Bitòne. Sono due kouroi dorici (mancano infatti del sorriso arcaico): il basamento su cui sono collocati si può far risalire al VI secolo a.C. Sono famosi per essere uno degli esempi utilizzati dal saggio Solone. Sono i figli di una sacerdotessa argiva che si trova nella necessità di trasportare la statua della divinità ma i suoi buoi non sono tornati dal campo. Cleobi e Bitòne dunque trasportano la statua al posto dei buoi. La madre, contenta, pregava che il dio concedesse ai figli ciò che per un uomo di meglio fosse possibile concepire. I due morirono, e vennero innalzate le statue (muore giovane chi è caro agli dei; la vecchiaia infatti è fonte di vergogna. il massimo è morire all’apoteosi dello splendore fisico). Le statue di cui parla Erodoto molto probabilmente sono quelle ritrovate. Lezione 7 27/02/2018 Era è interessante perché in apparenza e in sostanza è possibile osservare il rapporto dinamico tra culto locale e sistema panellenico. Nel caso di Era, si tratta con tutta evidenza, per lo meno lo possiamo dire a partire dalla prima fase della redazione scritta dei poemi omerici (VIII secolo a.C.), che Era non abbia del tutto una ricaduta panellenica ma sia una divinità che appartiene ad Argo e all’Argolide in generale. Sull’anello, appartenente al VI secolo a.C., è inciso l’epiteto LEUKOLENOS, epiteto tipico di Era e della tradizione epica. È raro trovare nel culto un epiteto presente nell’epos, ma questo è uno di quei casi. Il culto argivo risale all’VIII secolo a.C. Il rapporto fra l’era dei poemi omerici e l’Era del culto argivo è in qualche modo dinamico. Il culto argivo ha influenzato i poemi omerici. La ragione per cui è accostata alle Moire, è che Era è una divinità del matrimonio, degli amori regolari, che hanno un recinto nella convenienza sociale. E tuttavia è una divinità che sembra però avere come leitmotiv la verginità (paradossalmente). Era stessa diceva “Care al mio cuore sono Argo, Micene e Sparta”. Ciò che noi sappiamo è che Era veniva venerata a Platea in Beozia. Ciò è molto ben testimoniato da Pausania, nel suo libro sulla Beozia. “I Plateesi hanno un tempio di Era notevole per grandezza e per le statue che l’adornano. Appena entrati vediamo una statua di Rea che reca a Crono il sasso avvolto in fasce, fingendo che sia il figlio che l’ha partorito; poi una statua che chiamiamo Telea”. 20 Era qui è messa in relazione con una dimensione teogonica, primordiale. Nasce in un momento in cui le divinità dell’Olimpo devono trovare il proprio potere saldo. È una dea delle origini. Non è un caso che venga venerata dunque accanto a Rea. Pausania parla inoltre della festa dei Dedali in onore di Era. XOANON: indica un tipo di statua che è fatta solo di legno e che di solito è un piccolo idoletto. Pausania fa un’osservazione importantissima: noi troviamo sulla lineare B il nome di Dedalo, ma non sappiamo se questa parola alluda direttamente al personaggio mitico, oppure ad una precisa tipologia di oggetti, ossia gli oggetti “fatti alla Dedalo” (DAIDALLEIN: modo di costruire alla maniera di Dedalo). I dedali si chiamano così grazie al loro creatore (Dedalo) oppure sono i dedali stessi a dare il nome al creatore? Per DAIDALLEIN si intende soprattutto l’arte del cesello, del dettaglio, delle piccole statue. Infatti gli archeologi dicono che i Minoici fossero il popolo dei particolari, mentre i Micenei delle grandi mura. La festa dei Dedali sarebbe stata appunto in onore di Era. Un altro tratto particolare è il momento in cui Pausania spiega com’era questa festa dei Dedali, e fra le cose più interessanti dice: “In un bosco i Plateesi dispongono ogni sorta di carne cotta. Di ogni altro uccello non si preoccupano, invece tengono d’occhio i corvi, quando questi si avvicinano. Osservano su quale albero andrà a posarsi quello fra i corvi che ha preso la carne, e l’albero viene tagliato. Da quell’albero vengono ricavati i dedali”. Grazie a Pausania abbiamo traccia di un particolare, ossia la dimensione talvolta aniconica delle statue di culto. Questi dedali non sembrano essere antropomorfi, ma potrebbero essere semplicemente dei blocchi di legno. Infatti si dice che a Samo le prime statue di Era fossero aniconiche. Stagione in cui la rappresentazione antropomorfa della divinità, per quel che riguarda il culto, non aveva quell’urgenza per quel che riguardava invece le fonti letterarie. Ci sono le statue di culto che non necessariamente hanno una dimensione antropomorfa. La dimensione di culto in questo caso non va a braccetto con la dimensione letteraria. SAMO: l’isola in cui si diceva che era fosse nata. Era anche il luogo dove la dea si era sposata con Zeus ed era il luogo in cui le due divinità ebbero una relazione segreta per circa 300 anni. Samo è un’isola in cui una delle cifre prevalenti della divinità era proprio il suo essere vergine (Samo = isola PRTHENIA). Samo era un crocevia di traffici mercantili e dunque le offerte votive provenivano da tutto il Mediterraneo (lebeti, crateri, gioielli, scarabei egiziani). Anche sul sito di Perachora, vicino Corinto, troviamo un tempio dedicato alla dea. Sono stati trovati ad Argo, a Perachora e a Samo sono stati trovati dei modellini di casa di tipologie diverse e altrettanti modellini di nave di cui non sappiamo ancora dare risposta. I modellini di nave sono molto diversi: non hanno lo stile stereotipo tipico degli ex voto, ma sono molto specifici. L’archeologo francese De Polignàc ha messo in rapporto queste due tipologie di offerte votive e ha ipotizzato che i modellini di casa fossero dedicati da donne, mentre i modellini di nave da uomini (differenza di genere nella dedica di offerte alla divinità). Con ogni probabilità Era, essendo i suoi santuari collocati in prossimità di siti importanti dal punto di vista della navigazione, risulta essere una divinità patrona della navigazione. Con ogni probabilità queste navi a questo alludono. ARGO: Nel tempio di Era argiva (il più antico) si diceva anche che riposassero le spoglie mortali di Arianna, figlia di Minosse e si diceva essa avesse una statua affianco a quella di Era. Com’ era finita Arianna ad Argo? C’era finita perché Arianna, nell’ultima fase della sua vita, la fase che segue all’abbandono di Teseo a Nasso, viene prelevata dal corteo di Dioniso. Arianna segue il dio anche 21 quando Dioniso si reca in terra argiva per combattere contro l’eroe nazionale di Argo: Perseo, colui che decollò Medusa. Quest’ultima era stata una bellissima ragazza di cui si era invaghito il dio Poseidone. Il dio la violenta e gli dei la puniscono ingiustamente per essersi unita ad una divinità in un recinto templare, trasformandola in un mostro. Perseo incastona la testa della Medusa nel suo scudo e ciò gli permette di pietrificare chiunque lo guardi. Arianna combatte con il suo Dioniso contro Perseo, il quale tuttavia riesce a pietrificare Arianna con il suo scudo (lo sappiamo Nonno di Panopoli nell’opera “Le Dionisiache”, in cui appunto racconta le imprese di Dioniso). Questo è uno dei casi in cui la creatura mortale trasmigra direttamente nella sua immagine di culto: è dunque Arianna stessa trasformata in statua. C’è un altro aspetto del culto di Era ed è connesso al nome di Eracle. Eracle significa proprio “gloria di Era”. Il legame fra i due si sostanzia non nella biografia estesa della vita dell’eroe, ma nel momento in cui l’eroe muore. Tornato dalla guerra, in compagnia di una concubina della quale si era invaghito, trova ad aspettarlo Deianira. Lei, volendo riconquistare il suo amore, ricorda di essere stata salvata da Eracle mentre il centauro Nesso cercava di farle violenza, facendo scoccare una delle sue famose frecce avvelenate (intinte nel sangue dell’Idra di Lerna). Il centauro, però volendo vendicarsi dell’eroe che lo stava uccidendo, dice a Deianira di intingere un batuffolo di lana nel suo sangue poiché questo sarebbe stato un potente filtro d’amore” (in realtà il suo è un sangue avvelenato poiché appunto è stato ucciso dalla freccia contaminata). Deianira ricorda questo filtro e, nel tentativo di riconquistare l’amore di Eracle, intinge la veste dell’eroe nel sangue del centauro e la veste corrode Eracle. Quest’ultimo, non sopportando il dolore, si suicida. Quando sta per morire, Zeus si ricorda di questo figlio e chiede alla sposa di far tacere l’ira e adottare Eracle facendone suo figlio. Era fa questo gesto che poi faranno gli imperatori romani: adotta Eracle facendolo passare attraverso le sue vesti (lo dice Diodoro Siculo). In un’altra versione della storia Era allatta Eracle al seno facendone così suo figlio. Questo tema di Era che allatta Eracle è un tema presentissimo: a volte Era è consenziente a volte invece no: per esempio quando Afrodite viene ferita da Diomede, la madre le racconta che quando Era era stata costretta da Zeus ad allattare Eracle, era stata ferita al seno proprio a causa della sua irruenza. Il mito dice che l’intera via Lattea sia nata proprio dal latte di Era che si ritrae all’irruenza di Eracle. Per riassumere i tratti di Era: - Divinità locale Il culto di Era argiva è coerente con la prima redazione scritta dell’Iliade: fra dimensione del culto e dimensione panellenica del mito c’è un rapporto. Dal punto di vista letterario la divinità è legata al matrimonio Dal punto di vista cultuale la caratteristica della divinità è la verginità. Accanto a questa Era c’è anche l’Era della navigazione (modellini di navi) Esiste anche un’altra declinazione di Era il cui mito viene utilizzato per spiegare il nome dell’eroe Eracle e la nascita della via Lattea. Importante è soffermarsi su un secondo aspetto: ossia il rapporto fra dimensione locale e dimensione panellenica, fra culto e declinazione letteraria di una vita di una divinità o di un eroe. La Grecia non è uno stato ma è un arcipelago di città e di isole. Ciò importa dal punto di vista della religiosità. Ci sono casi in cui le realtà locali rispecchiano le realtà panelleniche, talvolta invece siamo di fronte a qualcosa di diverso, e ci sono in cui casi in cui il culto della religiosità locale è cosi insistente da modificare anche la biografia mitica anche in chiave panellenica. Tipico esempio, la guerra di Troia. 22 Esempi per capire questo rapporto: - - 1. Il caso di Teseo: Teseo ha una lettura molto ambivalente nelle fonti che lo descrivono. Leggendo Plutarco scopriamo che Teseo era stato uno stupratore, che quando era anziano aveva violentato Elena, ancora bambina, ma era anche un eroe molto pietoso. Quando torna a casa da Creta e apprende la morte del padre, lui non arresta la pratica devozionale nei confronti della divinità per ringraziarle del suo ritorno, ma solo dopo aver terminato la prassi sacrificale si reca a verificare se veramente il padre si fosse suicidato gettandosi dall’acropoli. Ma il suo legame con la divinità è forte (paragonabile ad Enea). Ci interessa per due ragioni: Località vs panellenismo: in Odissea XI, viene descritta la posizione di Teseo nel momento in cui l’eroe è nell’Ade. Viene ricordato il momento in cui Teseo porta via Arianna da Creta verso la sacra rocca di Atena, ma non ne gode, perché Atena la uccide prima. Teseo non ha approfittato di Arianna e in questo caso dunque l’eroe non è una figura negativa. Ciò che è evidente è che questo spezzone è filo-ateniese e con ogni probabilità ha una redazione filo-ateniese (lo capiamo anche per una ragione linguistica: infatti troviamo scritto DIONISOU →desinenza attica e non DIONISOIO come di solito). Con ogni probabilità l’XI libro dell’Odissea quindi è un libro scritto per un pubblico ateniese. Abbiamo dunque un esempio plastico di come la dimensione locale e del culto, impronti la dimensione panellenica. Una visione del loro eroe molto diversa da quella che restituiscono le varianti del mito. Rispetto alla fortuna di questo eroe, possiamo dire qualcosa su un altro tema che ricade sul mito. Il tema della reliquia. L’eroe Teseo ha un destino un po' strano. Viene accusato da tutte le fonti di essere stato responsabile della morte del padre, di aver provocato il suicidio del padre. Teseo entra prestissimo in una zona d’ombra. Egli ha finito la sua vita nell’isola di Sciro, un po' dimenticato da tutti (Sciro: isola in cui di rifugia Achille in abiti femminili per scampare alla guerra di Troia). Sciro si presta ad ospitare Teseo ormai anziano. Teseo, ormai anziano, durante una passeggiata, scivola già da un sentiero di montagna e muore in un modo inglorioso. Ciò che noi sappiamo è che era sepolto nell’isola di Sciro. Ad un certo punto, in un’occasione speciale per gli Ateniesi (la battaglia di Maratona del 490 a.C.), gli Ateniesi vedono al loro fianco combattere un’ombra (il fantasma gigantesco di Teseo). La cosa si fa interessante quando si pone, dopo le guerre persiane, il problema di accentuare quella gloria panellenica che ha Atene. Si pensa perciò di riportare a casa le ossa di Teseo per farne un vero e proprio oggetto cultuale. Ciò che è interessante è la corrente fra il mito e il culto e il culto e il mito: Teseo ritorna in auge quando si decide che si ha bisogno di un eroe nazionale. Il culto di Teseo è stabilito e quando arriva la reliquia accade che anche l’immagine di Teseo è rivista. L’immagine biografica dell’eroe si riplasma per servire al culto. Il culto eroico come dimensione civile e religiosa ha bisogno della sua reliquia. 2. Il caso di Pelope: fatto a pezzi da Tantalo e dato in pasto alle divinità (banchetto e sacrificio sono uniti). Le divinità arretrano inorridite, tranne Demetra che, ancora in preda al dolore per la perdita della figlia Persefone, addenta la spalla di Pelope. La spalla d’avorio, che aveva sostituito la spalla dell’eroe quando era stato ricostruito, viene recuperata e viene riportata nel luogo in cui l’eroe aveva sconfitto il tiranno Enomao. Esso infatti sottoponeva i pretendenti della figlia Ippodamia ad una cruenta gara coi carri. Ma Pelope sconfigge Enomao. A Pisa, una regione greca dell’Elide, sorgerà Olimpia. Si racconta che ad un certo punto un pescatore dell’Eubea (Demarato) avesse tirato su con le reti una spalla gigantesca e che poi fosse andato dall’oracolo di Delfi dove si erano recati anche gli abitanti dell’Elide che chiedevano un responso. L’oracolo dice a Demarato di restituire la spalla agli abitanti dell’Elide poiché serviva loro per fondare il culto di Pelope. 23 3. Il caso di Aristomene: eroe dei Messeni. Il re porta i Messeni alla vittoria. Si diceva che esso fosse stato salvato dal cadere da un dirupo da un’aquila. Poi era stato sepolto vivo e aveva seguito una volpe che scavava un tunnel sotterraneo, uscendo vivo. Si diceva anche che, in fuga dalla Messenia, avesse trovato rifugio a Rodi e che gli abitanti di Rodi gli avessero dato sepoltura. Quando però scoprono la sepoltura, il corpo di Aristomene è ancora integro e il cuore è ricoperto di peli. Sembra che i cuori eroici siano sempre ricoperti di peli. Ad un certo punto viene riesumato, il suo corpo viene riportato in Messenia, e nel 476, nella battaglia di Leuttra (che vede Sparta sconfitta da Tebe sostenuta da una falange di Messeni) la falange dei Messeni è guidata dal fantasma Aristomene. Pausania dice che i Messeni, nel culto di Aristomene, legavano un toro ad una colonna: se il toro riusciva a scuotere la colonna ci sarebbe stata fortuna per i Messeni, in caso contrario ci sarebbe stata sfortuna. Lezione 8 1/03/2018 LA RELIGIOSITÀ DELL’URBE La religiosità romana, ancor meno di quello che era quella greca, è una religiosità dogmatica: non ha dogmi e non conosce nessun tipo di peccato. Questo perché quella romana è una religiosità fiduciosa: il romano crede fermamente che la divinità sia dalla sua parte. È un modo di venerare gli dei che entra a far parte di tutti gli aspetti della vita umana. Un altro tema forte è l’inclusività e l’accoglienza dei culti che vengono da fuori. Ritroviamo traccia di un modello che già abbiamo visto in atto nella religiosità greca: il problema dell’unicità e della frammentazione della divinità. a Roma c’è un’intera categoria che gioca sul concetto dell’uno e del molteplice (diverse declinazioni del divino). Ma la religiosità romana gioca anche sul numero: abbiamo diversi Giovi ma li abbiamo anche al plurale (abbiamo la dea Venere, ma abbiamo anche le Veneri, abbiamo Giunone ma abbiamo anche le Giunoni). La religiosità romana infatti sembra essere una religiosità che ha pochi punti saldi e trasforma queste divinità in qualcosa che è molteplice dichiaratamente da subito. Castiglioni – Mariotti: i primi usi della parola religio hanno a che fare con il tema dello scrupolo, con il fatto di essere perfettamente capaci di adorare la divinità. il tema del sentimento religioso associato alla religio è un tema solo tangenziale. Il nucleo forte è proprio la pratica corretta nell’adorazione della divinità. ROMA è la divinità per eccellenza. Rispetto a Roma, il senato è il GENIUS tutelare: tocca al senato proteggere il carattere divino dell’Urbe e alimentare la devozione religiosa dei cittadini. C’è la magia di una città che è contemporaneamente città, comunità, e divinità. di conseguenza naturalmente esistono, ancor più di ciò che accade per la religione greca, i professionisti del culto (la classe sacerdotale). Ogni cittadino a venerare adeguatamente la divinità, non semplicemente la triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva), ma ciascuna divinità. A questo si associa il carattere indigeno o esotico del culto. Che cosa abbiamo di unicamente romano nella religione romano, e che cosa proviene da fuori? Sorgono alcuni problemi: né la monarchia, né la Repubblica né l’impero si è concepito come antitetico/diverso dagli altri. La civiltà greca definisce sé stessa come antitesi dei barbari (si possono dunque delineare delle caratteristiche che appartengono alla religiosità greca, ad esempio la devozione religiosa, la corretta gestione di un simposio, il non 24 uscire dagli schemi diversamente fissi; mentre i barbari sono l’antitesi dei civili, l’antitesi del greco). Per ciò che riguarda Roma ciò non è possibile: rarissimamente troviamo considerazioni dogmatiche che hanno a che fare con una pretesa autenticità, oppure una chiusura rispetto all’esterno. Gli unici casi li troviamo nei territori di confine, dove le condizioni molto dure fanno sì che si generi un’identità romana (meccanismo di difesa). Una teoria ormai decisamente sorpassata e capitanata da Vissola (grande studioso di religiosità romana) si fondava sul presunto isolamento religioso dei Romani nella fase delle origini (Roma avrebbe avuto una stagione di isolamento che le avrebbe permesso di delineare un sistema devozionale suo proprio; questo momento di isolamento sarebbe finito nella prima occasione che noi abbiamo di vedere un contatto tra i Romani e ciò che c’è fuori, ossia con i re Etruschi → la dimensione religiosa dunque, tramite il contatto con il mondo etrusco, va contaminandosi). Tuttavia questo aspetto di originario isolamento è stato accantonato. Se unicità c’è stata, l’unicità è sparita tuttavia molto presto. Come avviene invece la formazione dell’identità religiosa dei Romani? Bisogna fare due esempi e in entrambi i casi la stagione è quella della seconda guerra punica: 1. 217 a.C. → i Romani scelgono di trasferire la statua di Venere (che è Afrodite), che svettava sul cucuzzolo di Erice, e di portarla a Roma. Il culto di Venere di Erice è un culto molto antico ed è il più importante di tutta l’area mediterranea. È un culto delle vette, particolarmente ricco: si diceva che sul suo altare bruciassero tutta la notte le carni delle vittime sacrificali. Rappresenta il luogo dove Enea, arrivando in Italia, ha deciso di dare sepoltura al padre Anchise. Quando Venere arriva in Italia e viene fondato il culto, portata idealmente da suo figlio Enea, non si chiama Venere ma Afrodite. Infatti il culto della KRAIA (divinità delle alture) è un culto greco. Ad un certo punto, quando il rapporto con Annibale si fa incerto, i Romani decidono di prendere la statua di Afrodite e di trasferirla sul Capitolino. I Romani hanno però una Venere che somiglia molto da lontano ad Afrodite, perché si potrebbe paragonare alla dea Flora (la dea della vegetazione). È la Venere dei giardini, degli orti, è l’Afrodite del popolo, che presiede agli aspetti più comuni, più semplici, quotidiani. Dunque quando la statua di Afrodite giunge a Roma, c’è già un’altra divinità Venere. C’è dunque un momento in cui le due divinità devono compenetrarsi: Venere scivola nell’ombra per lasciare il posto a quella che effettivamente è la Venere dei Romani, la madre di Enea. La Venere dei giardini, degli orti, degli amori semplici scivola sì nell’ombra, viene scalzata dal Capitolino, ma rimane in molti culti della città. Veniva venerata infatti insieme ad una creatura mitica, ossia la FORTUNA VIRILIS, stranissimo connubio tra seduzione amorosa, rappresentato da Venere, e una declinazione al maschile della sorte positiva. 2. I Romani entrano in contatto con la grecità e nel 205 o nel 204 portano a Roma la famosa pietra nera che rappresentava la dea Madre. Prima viene collocata nella casa di Scipione, poi nel tempio della Vittoria e poi sul colle Palatino. La pietra è aniconica e ci pone una serie di problemi che hanno a che fare con la natura aniconica delle rappresentazioni divine di Roma delle origini. i Romani, secondo alcuni studiosi, hanno avuto una stagione di devozione cultuale, in cui l’immagine non era antropomorfa bensì aniconica. La dea Madre non è semplicemente aniconica ma è identificata con una figura divina importantissima, il cui culto ha radici frigie antichissime. Il culto è a Pessinunte (Frigia): è chiamata Madre degli dei, ed è chiamata anche Cibele. Essa è rappresentata con un leone ai suoi piedi, nella sezione concava del braccio tiene uno specchio e porta sulla testa una o due torri. La rappresentazione della testa femminile con le torri è ancora una delle rappresentazioni dell’Italia (è un modello rappresentativo che parte dall’VIII secolo a.C. e arriva sino al V secolo d.C. e poi rimane come modello rappresentativo dell’Italia). 25 Caratteristiche di Cibele: - - È una divinità civile, matronale, che ha ai suoi piedi un leone, che reca in mano un bastone del culto, tiene nell’altra uno specchio, e in testa porta una corona. Patrona della montagna: veniva venerata negli antri di montagna Contemporaneamente c’è un elemento di femminilità rappresentato dallo specchio (spesso presente nelle rappresentazioni di Afrodite). Si ricollega perciò ad una dimensione molto ampia che ha a che fare con la seduzione. Veniva venerata nelle fessure della montagna, perché le fessure evocherebbero la vulva femminile (dea della fertilità) Protegge la città (lo si deduce dalla corona sul capo) La madre degli dei è già delineata come divinità antropomorfa molto prima del 205 a.C.; è molto significativo che, dovendo accogliere un culto come quello della grande Madre, i Romani scelgano una pietra nera. Questo ci introduce ad un altro tema molto affascinante: contemporaneamente chi studia le divinità antiche nella loro dimensione di prassi cultuale, si trova ad oscillare tra due sirene opposte: da un lato gli studiosi vengono richiamati all’idea che si deve smettere di cercare le origini: se si vuole leggere un fenomeno cultuale lo si deve guardare nel suo contesto. Questo è molto vero in particolare per la religiosità greca, una religiosità non dello stato, ma delle città. Quando Euripide mette in scena l’Elena, anche sul piano panellenico, il destino della donna si biforca. Ciò è accaduto quando Stesicoro, a cui gli Spartani avevano commissionato un’ode per Elena, scrive una nuova ode in cui la nuova Elena è quella di Euripide. La necessità e la volontà degli Spartani di avere una storia di Elena che si conformasse ad un’eroina, riesce a trasformare il racconto a livello panellenico. Perciò se noi non guardiamo il contesto, e guardiamo oltre, in generale, ci sfuggono molti dettagli. Ma la verità è che la malattia delle origini è una malattia di cui non riusciamo a liberarci. La dea Madre potrebbe essere assimilata a Era (Giunone), Afrodite (Venere), Atena (Minerva), Artemide (Diana). Sembra perciò racchiudere le caratteristiche di molte divinità. Jane Arrison immaginava che questa grande madre fosse il tessuto connettivo di tutte le divinità, sia dal punto di vista del culto sia dal punto di vista della narrazione mitica. IL MITO DI CIBELE Cibele, madre degli dei, potente e fertile, venerata nei crepacci di montagna. Di lei si innamora Zeus (parliamo di un culto che arriva dalla Frigia) che cerca di possederla, ma non riuscendovi genera con lei, in un modo non ben delineato, una figura misteriosissima che si chiama Agditis, divinità di una bellezza abbagliante ermafrodita. Le divinità, gelose della sua bellezza, lo privano delle sue parti maschili e dall’evirazione di questa creatura cadono gocce di sangue che fertilizzano il terreno. dal terreno nasce un albero il cui frutto verrà mangiato da una divinità (Nana). Mangiando il frutto, rimane incinta e questa unione stranissima genera Attis. Attis, giovane di bellezza abbagliante e di cui le divinità sono gelose. Vi sono moltissime rappresentazioni iconografiche di Attis: ha in testa un berretto con la punta (un berretto frigio, ma è anche contemporaneamente il berretto degli schiavi liberati e talvolta il berretto delle divinità messaggere). Questo giovane uomo sposa la figlia del re frigio e al matrimonio dei due si presenta Cibele e, così come accade quando Zeus si presenta di fronte a Semele, la vista di Cibele porta tutti alla follia. Attis in particolare si auto-evira e dalle gocce del suo sangue nascono le viole. La madre lo trasformerà in un albero: il pino. L’essere ermafrodito che nasce tramite una fecondazione non ben definita è presente in tutte le mitologie orfico-pitagoriche (negli Uccelli di Aristofane, gli uccelli stessi cantano la loro Teogonia 26 per ribadire la loro superiorità sul mondo degli uomini: gli uccelli sono eterni e derivano tutti da quest’uovo primordiale che la notte sforna e cova senza essere fecondato. Da questo nascerà Eros, divinità con le ali colorate ed Ermafrodita). Queste sono le condizioni molto arcaiche di un tessuto narrativo ancestrale che descrivono il mito di Cibele in rapporto ad Attis. IL CULTO A ROMA DI CIBELE Ci racconta Livio che, di fronte alla minaccia punica, i libri Sibillini avessero suggerito di portare a Roma la statua della grande Madre, prelevandola a Pessinunte, da cui la grande Madre proveniva. I libri Sibillini avevano chiesto la mediazione di Attalo, il quale ha guidato la spedizione dei Romani. Ma quando la barca che trasportava la pietra nera, è arrivata sul Tevere, si è incagliata. Una donna, Claudia, considerata una donna dai facili costumi, chiede alla dea di consentirle di guidare la statua fino a Roma se avesse pensato che lei fosse una figura integerrima. Claudia attacca la corda alla nave e miracolosamente tira la nave in città. La statua viene prima collocata a casa di Scipione Nasica, uomo integerrimo, poi nel tempio della dea Fortuna, e poi sul Palatino. Veniva venerata dal 15 marzo al 21 marzo (Primavera). Erano feste orchestrate dai sacerdoti della grande Madre (i Galloi). Questi sacerdoti non erano romani e i Romani non partecipavano alle processioni in onore della dea. Le feste ruotavano attorno ai temi che fanno riferimento alla follia della divinità. le feste per la grande madre avevano danze orgiastiche, anche sciamaniche (danze molto simili a quelle dei dervisci rotanti che ruotano su sé stessi ed entrano in uno stato di trans. Quando si entra in questo stato di possessione, l’uomo esce da sé ed entra in contatto con il divino→ condizione di chi entra in uno stato di trans, esce da sé stesso ed entra in contatto con la divinità). i Galloi sono EKTHEOI: escono fuori di sé, fanno danze utilizzando strumenti a fiato e percussioni. I sacerdoti sono vestiti di una veste color zafferano (tra il giallo e il porpora) che è una veste femminile, e si truccano. Il tema della veste gialla è un tema che verrà utilizzato tanto in Aristofane parlando di Dioniso: è la veste del sacerdote di Dioniso e della divinità, ma è anche una veste femminile. Il culmine della festa era il momento in cui il sacerdote capo, in preda alla trans, si mutilava e arrivava fino al punto di evirarsi (l’evirazione reale o evocata era il culmine della festa). Il culto di Attis e di Cibele è in effetti uno dei culti che più hanno offerto al cristianesimo, iniziando dalla cosa più semplice: il pino addobbato (nascita e morte della divinità). La castità dei sacerdoti: essi sono un clan sacerdotale di eunuchi, e poi l’idea del sangue del dio che viene versato per nutrire la comunità (evocando l’eucarestia). Perchè è così importante questo esempio della grande madre? Per due aspetti: I libri Sibillini dicono ai Romani di inglobare un culto frigio. L’uso è politico: sconfiggere Annibale. L’altro aspetto è che nessun Romano prendeva parte attiva: contemporaneamente i Romani accolgono questo culto ma non lo interpretano in prima persona, poiché sentito come disturbante. Il modo è inglobare ed essere in grado di tenere lontano. Esempio del culto straniante che viene dalla Frigia e che viene inglobato a Roma. C’è qualcosa di soltanto romano nella religione romana? Quel che di più romano non c’è sono queste divinità: CONSIVUS, FLUVIONIA, FLUONIA, VITUMNUS, SENTINUS, ALEMONA, divinità della macinazione dei cereali, dell’aratura, dei semi, del nutrimento dei semi (etc.). Questo gruppo di divinità è ciò che di veramente romano che abbiamo nella religiosità romana. Si chiamano in blocco INGITAMENTA e sono la migliore espressione di quella specificità e di quella moltitudine di cui si è parlato primo. La religione romana si individua 27 nel gesto, nel gesto non solo collettivo, ma anche nel gesto minuscolo. Queste infatti più che divinità sono pertinenze divine che vanno evocate. L’atto religioso, il gesto è inutile se non viene accompagnato dalla parola che evoca la divinità e le sue pertinenze. Metamorfosi di Ovidio: vv. 164-180. Nell’empireo dove vengono tutti chiamati gli dei, non c’è semplicemente un banchetto, c’è una città con il suo Palatino e le divinità abitano i palazzi e le divinità stesse hanno persino i loro penati, ossia le divinità tutelari della patria. Lezione 9 6/03/2018 Ci sono alcuni caratteri peculiari che ci permettono di capire la religiosità romana dandole una giusta collocazione nel panorama dei politeismi antichi. Alcuni ex voto provengono dalla Sardegna (precisamente dal museo di Cagliari) e che vengono dalla baia di Chia, sito composito con delle aree anche puniche. Qui è stato ritrovato un insieme di ex voto che hanno la caratteristica di essere dedicati alla divinità in ringraziamento o come auspicio. È stato ritrovato un ex voto rappresentante una divinità che si chiama Bes, la quale veniva venerata in Egitto e anche nell’area punica, e che veniva rappresentata come un nano. Di essa si diceva che aiutasse a scongiurare il malocchio e che proteggesse il benessere e la serenità del devoto. In particolare Bes era anche un dio guaritore, e queste statuette a questa sua caratteristica si riferiscono (particolare è il modello iconografico a becco d’uccello). Che cosa rende la religione romana veramente tale e che cosa la distingue dalla religione greca? Questione della presenza o meno a Roma di culti che provengono da fuori. Peculiarità, specifica della religione romana, di mescolare le carte: i Romani sembrano non accorgersi della difficoltà rappresentata dal fatto di accogliere divinità che non appartengono al loro tessuto indigeno. A dire il vero, in un passo dell’Eneide, quando Giunone e Giove si confrontano, Giunone chiede e pretende da Giove che il tessuto della futura Roma (quando la guerra di Troia sarà finita) sia italico: cancellazione dell’origine troiana per privilegiare ciò che di autoctono c’è. Tuttavia non si arriva mai ad intaccare la natura aperta della prassi devozionale. Uno dei casi più interessanti è quello che riguarda due divinità: i Lari. Molto spesso sono rappresentati in coppia e hanno sempre questa iconografia: sono ragazzi molto giovani, vestiti di un abito che arriva fino al ginocchio, allacciato con una cintura molto stretta. In mano hanno due oggetti: • • un RHYTHON → sorta di coppa conica variamente decorata, molto spesso con teste d’ariete e di leone, quasi sempre in bronzo, che venivano utilizzate nel simposio per mescere il vino. I Greci e i Romani non bevevano vino puro, bensì vino tagliato secondo una procedura molto rigida. Vi erano dunque questi grandi crateri in cui il coppiere mesceva il vino con l’acqua. L’altro oggetto che tengono in mano è una patera, una tazza alla romana (KYLIX: in greco →una coppa che si alza verso il volto). Questa tazza recava un medaglione all’interno spesso decorato con una testa di Gorgone oppure con la testa di Dioniso (il convitato, alzando la coppa, si trovava dinnanzi ad una sorta di MEMENTO MORI: la morte è in agguato, anche nei momenti di allegria →c’è sempre un richiamo alla sobrietà. Spesso i Lari vengono rappresentati con al centro una figura molto più seria: la divinità suddetta è il GENIUS: il genio tutelare della casa. 28 I Lari sono interessanti e pienamente romani. Maurizio Bettini ha scritto un saggio in cui accosta i Lari alle statuette del presepe; dice che i LARES COMPITALES venivano festeggiati l’ultimo giorno dell’anno. Si trattava dei Lari non di una singola famiglia, ma di un intero quartiere di Roma. Queste statuette dei Lari venivano adornate con delle piccole palle di lana e con delle bambole. A questa venerazione dei LARI COMPITALES, Bettini mette in relazione un’altra pratica: a Natale i Romani celebravano i Saturnalia, in onore del dio Saturno sotto la cui egida il mondo aveva visto il dispiegarsi dell’età dell’oro. Fra i riti che avvenivano nei Saturnalia, uno in particolare prevedeva che venissero costruite delle piccole statuette di gesso, i SIGILLARIA, che venivano vendute nei banchetti e che costituivano i doni dei Saturnali. Dopo qualche giorno, si celebrava appunto la festa dei Lari Compitali. Ciò che Bettini dice, mettendo in relazione il presepe con i Lari, è che effettivamente le due cose sembrano molto simili. In entrambi i casi abbiamo infatti statuette di gesso. Tuttavia c’è una differenza: mentre la tradizione del presepe (che noi collochiamo nello stesso periodo in cui i romani collocavano i Saturnalia) prevede che le statuette abbiano tutte una particolare iconografia, per quello che riguarda Roma è tutto diverso (i Lari sono divinità che nascono come divinità molto intime della vita familiare: in camera, in cucina → sono ciò che corrisponde al culto familiare, sono le divinità esclusivamente romane che ciascuna famiglia venera). Quando però si festeggiavano i Lari nel quartiere e non nella famiglia, le statuette appartenevano a tutti: non abbiamo mai traccia di un momento oppositivo, perchè tutte le statuette, di qualsiasi tipo, potevano convivere. Due esempi che appartengono a fasi molto diversi: - I LARES di Trimalcione descritti da Petronio: i suoi lari sono statuette sì, ma sono anche una parte di sé. I LARES di Alessandro Severo: quest’ultimo addirittura aveva due LARARI. Il suo biografo ci dice che “se non si era giaciuto con la moglie, al mattino Alessandro sacrificava nel suo larario” (doveva essere puro). Non è la Roma delle origini, ma è la Roma che ha assorbito tradizioni religiose straniere. L’impero Romano è quello che più si plasma costruendo un’identità propria e contemporaneamente accogliendo l’identità dell’altro: per cui nel larario di Alessandro Severo c’era Orfeo, Virgilio, Abramo, Cristo e altri simili. Per la cultura latina tutto si costruisce con una biblioteca già a disposizione e per quel che riguarda i Lari, ciò è evidentissimo. VERGINE ASTREA (costellazione della Vergine) È una creatura mitica singolare: i Romani sostengono di averla accolta dal mondo greco. Secondo la tradizione Astrea sarebbe figlia di Astreo, oppure di Zeus e di Temi. Si diceva che essa fosse stata una delle ultime divinità a lasciare la terra degli uomini alla fine dell’età dell’oro: essa segnala che l’età dell’oro è veramente finita. Nonostante tutto ciò che dicevano i Romani, Astrea in Grecia non esiste. Dunque i Romani hanno accolto qualcosa dal mondo greco e lo hanno trasformato in qualcosa di tipicamente romano, la creazione della vergine Astrea che finisce per essere identificata con la costellazione della Vergine, per coincidere poi sia con quel momento in cui finisce l’età dell’oro (la terra non produce più i suoi frutti) sia con quel momento in cui ritorna l’età dell’oro (REDIIT VIRGO: “ormai ritorna la Vergine, ormai una nuova progenie scende dall’alto dei cieli” dice Virgilio nell’Eneide). È interessante perché il momento in cui il ciclo della storia romana si rinnova coincide con la propaganda augustea. L’elemento della mitologia greca è riplasmato e rifunzionalizzato per lo scopo dell’ideologia di Augusto. Questa scelta di utilizzare Astrea per segnalare questa catarsi del ciclo dei secoli, non è limitata al solo impero romano, ma la ritroviamo in una stagione, ossia il regno di Elisabetta I d’Inghilterra (prima metà del 1500). Essa, alle prese con la necessità di creare un tessuto di propaganda che le consentisse di dominare un impero, quello inglese, in costante 29 crescita, sceglie di richiamare il tema della costellazione della VIRGO, della vergine Astrea. Elisabetta vuole e dichiara esplicitamente di incarnarsi nella vergine Astrea. Una delle due caratteristiche peculiari della religiosità romana è la straordinaria capacità di assorbire divinità e caratteristiche del culto che provengono da altre regioni e di restituirle come un fattore fortemente caratterizzato. L’altro elemento è il desiderio di permeare l’intero tessuto della vita quotidiana con una miriade di divinità e di competenze divine. Questo viene dal fatto che effettivamente Roma, oltre alla classica e famosa triade capitolina e ad alcuni eroi che provengono però dalla religiosità greca, è la vera divinità. La monarchia, il senato e l’imperatore sono ministri del culto di questa divinità, ossia Roma. Il dio è dunque nelle piccole cose. Ecco dunque la nascita di questa categoria molto particolare che appartiene solo alla religiosità romana: gli INDIGITAMENTA. Sono divinità che si sa benissimo che cosa devono fare ma che hanno una zona di pertinenza piccolissima. Molto interessante è un affresco che Ovidio ci dà nel primo libro delle Metamorfosi , ossia la Teogonia di Latina e la successiva antropogonia (le pietre che Deucalione→figlio di Prometeo e Pirra→ figlia di Epimeteo si sono gettati dietro le spalle si plasmano fino a diventare le ossa, e la terra che sta loro intorno forma i tessuti molli). Ma nel primo libro delle Metamorfosi c’è soprattutto spazio per gli dei. Il paesaggio dell’Olimpo è scarnificato, ci sono sostanzialmente gli dei. Gli dei hanno i loro quartieri e collocano i loro penati in certe zone della città. Le grandi divinità ma anche questo brulicare di divinità che si riuniscono come se fossero in una città qualsiasi, queste sono gli INDIGITAMENTA. Essi sono dei certi ma temuti. Il nome serve ad indicare con la parola qualcosa. Un altro tratto infatti connesso a questo e molto tipico della religiosità romana è l’essere convinti sì che la divinità si veneri nella pratica devozionale, e dunque nel gesto, ma senza la parola significante tutto questo non ha valore: il gesto muto è un gesto sterile. Plinio il Vecchio dice che è inutile sacrificare agli dei senza alcun tipo di preghiera. Questa affermazione è collocata all’interno di un capitolo: “Se le parole possiedano una qualche efficacia proattiva”. La risposta è si. INDIGITAMENTA ad indicare il gesto del fedele che indica quella specifica divinità e la richiama ad assolvere il ruolo che le è assegnato. Agostino, nella “Città di Dio”, parla degli INDIGITAMENTA dell’infanzia. Qualsiasi cosa è parcellizzata, frantumata in questo caleidoscopio di divinità e la cosa più importante in assoluto è quella di venerarle correttamente. Il punto non è sacrificare alla divinità, e nemmeno quale animale si sacrifica alla divinità, il punto è farlo correttamente, con la parola che deve essere proattiva. COLLEGI SACERDOTALI Gli Indigitamenta, per quanto tratto peculiare della religiosità romana, sono caratteristica molto diffusa su tutto il tessuto italico. Abbiamo una testimonianza straordinaria (documento religioso più importante di tutta l’antichità) ritrovata a Gubbio: insieme di tavole di bronzo scritte tutte in lingua umbra. Queste sono 5 tavole scritte in versi (verso molto simile al saturnio) → tavole GUBINE o EUBUBINE (altre due sono invece logorate) in cui vengono descritti in modo minuziosissimo i riti che competono al collegio dei FRATRES ATIEDII e che presiedono al culto di IU-PATER, Giove. Sono tavole che appartengono al II-I secolo a.C. Perché sono importanti? Perché noi non abbiamo quasi nulla che ci provenga dalla Roma delle origini, se non queste tavole. Esse descrivono le pratiche di un collegio sacerdotale di Gubbio, in cui il tema degli INDIGITAMENTA emerge fortissimo. Esse si aprono con un catalogo dei singoli uccelli che vanno evocati: ogni uccello ha la sua divinità. Ogni singolo momento della prassi sacrificale è descritto minuziosamente. Le divinità sono piccole. 30 In sintesi, bisogna dire che il tema degli Indigitamenta si colloca non solo come condizione peculiare attraverso cui la città di Roma venera la divinità, ma ancora una volta sembra evocare una dimensione in cui Roma viene a contatto con il tessuto italico. Bisogna dire che dal punto di vista dell’apertura con cui i Romani accolgono figure da fuori, a questa aperura fa da contraltare una rigidità della prassi religiosa. Il rapporto che i Greci intrattengono con il divino è sì scandito da alcune norme molto precise, ma è anche in qualche modo lasco e performante (è possibile per l’individuo ricavare una propria narrazione degli eventi). Al contrario la religiosità romana, dal momento che si compone della triade capitolina, della dea madre, della vergine Astrea e di queste divinità minute, è rigidissima: c’è pochissimo margine lasciato all’individuo o alla comunità. La regola è quella, e non è lasca, a differenza di quella greca. La religiosità romana è scandita sia dal punto di vista della prassi, sia dal punto di vista della parola rituale. Le tavole sembrano evocare delle pratiche che risalgono a 1000 anni prima di Cristo. La religiosità di Roma delle origini ha poco da offrirci in termini di documentazione. Sappiamo però molto di più della comunità di Ariccia. Essa aveva una sua identità religiosa molto ben individuata. James Frazer, partendo da Ariccia e dal bosco sacro di Nemi, ha orchestrato il grande affresco che porta il nome di “RAMO D’ORO”. Noi sappiamo che c’era una lega della città, che questa lega comprendeva una serie di popolazioni limitrofe e che in effetti in questo bosco di Ariccia, si venerava Diana (DIANA NEMORENSIS). Questa Diana veniva venerata con alcune caratteristiche particolari e sotto tre aspetti precisi: 1. Uno collegato all’aspetto della sua natura legato alla sua natura cacciatrice 2. Un volto che corrispondeva alla dea Ecate (divinità degli inferi) 3. Un volto che la ritrae come divinità della natura Di questa divinità abbiamo una documentazione su moneta coniata da ORACOLEIUS (probabilmente nel 43 a.C.), che ritrae su un lato il nome del dedicante e il busto di Diana, e sull’altro tre divinità che si tengono abbracciate e sono tutte e tre Diana. Una tiene un arco (divinità cacciatrice), quella centrale ha il volto consumato (Ecate → divinità infernale), quella a destra tiene in mano il fiore del papavero (natura). Questo schema corrisponde ad un insieme di dati documentari che ci permettono di ricostruire qualcosa in più sulla religiosità romana delle origini. RAMO D’ORO di Frazer: opera di fusione tra discipline diverse. Frazer inventa una disciplina, quella dell’antropologia culturale. Egli articola un sistema sterminato a partire dal rito ospitato nel bosco di Diana NEMORENSIS. L’impianto dell’opera non ci è ignoto e c’è una forte prevalenza dell’impianto immaginifico. Frazer parte da un quadro: “Il ramo d’oro” di Turner. È un’opera che parte da un mito e da un rito antichi ma che ha un impianto narrativo sostanzialmente romanzesco. Il rito di Diana Nemorensis chiarisce molto bene l’identità romana. 31 Lezione 10 8/03/2018 Ubris-Atimia-Stuprum 1) UBRIS: tracotanza, violenza, superamento dei limiti consentiti. 2) ATIMIA: è la vergogna che si genera dalla consapevolezza del biasimo sociale che in greco ha il nome di PSOGOS. In una complessità che si nutre davvero poco del complesso di colpa, ciò che genera l’azione è il senso di vergogna. Quasi sempre la UBRIS è la vergogna delle donne stuprate e non degli stupratori. 3) La parola stupro è una parola latina: ma in latino la parola STUPRUM non significa violenza sessuale, bensì adulterio. Di questo abbiamo prova sin dal primo impero: nella Lex Iulia del 18 a.C. è la legge che Augusto ha promulgato per mettere un freno agli adulteri e alla corruzione della Roma del suo tempo, pensando particolarmente alla figlia Iulia. Iulia infatti inaugura a Roma la stagione dell’esilio sull’isola. È esiliata dal padre ad Aventotene con la madre, e gli aneddoti vogliono che nessun uomo potesse mettere piede sull’isola. Il tema della donna sull’isola, sulla riva del mare, è il motivo ispiratore dell’elegia (il tema della donna che si lamenta sulla riva del mare → Ovidio, Properzio). Si può constatare dunque che nella legge la parola stuprum è collegata all’adulterio. In effetti il punto non è la violenza fisica, la quale è assolutamente consentita (è connaturata all’HUMUS della religiosità greca). Ciò che non deve mai accadere è che a questa violenza si accompagni la corruzione dell’animo femminile. Letteratura greca: Lisia → l’orazione è pronunciata da un marito accusato di aver ucciso impunemente l’amante di sua moglie. Il legislatore ha ritenuto che i violentatori meritassero una pena minore dei seduttori, perché i seduttori corrompono anche gli animi delle vittime. Mentre lo stupratore compie solo una violenza fisica, il seduttore invece necessita della pena capitale, perché esso corrompe tutto l’ambiente in cui si ritrova a sedurre. Ci sono dei casi in cui è del tutto evidente come la presenza di un seduttore all’interno della famiglia, sia un motivo sufficiente per scrivere un grande punto di domanda non solo sui figli che nascono dopo la relazione, ma anche su quelli precedenti la relazione stessa. Abbiamo più di una testimonianza infatti che ci dice che una delle ragioni principali dell’ira di Atreo nei confronti del fratello Tieste, fosse il fatto che Tieste avesse sedotto la moglie Erope. E dunque Atreo dubita anche di Menelao ed Agamennone, figli nati in precedenza: essi potrebbero essere non suoi. Cultura latina: Lucrezia, moglie del nobile Collatino, viene violentata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo. L’aneddoto, narrato da Livio, segnala la fine della monarchia a Roma e l’inizio della Repubblica (è pertanto anche un racconto eziologico). Sesto Tarquinio si invaghisce di Lucrezia e nel cuore della notte la violenta. Lucrezia si uccide con un pugnale. Pugnale che segnala un’assenza di ATIMIA, o meglio il rifiuto dell’ATIMIA, perché il pugnale è un’arma maschile. Lo narra Livio nel I libro dell’AB URBE CONDITA. Lucrezia si toglie la vita allo stesso modo in cui si uccide l’eroe Aiace. Per altro l’uccisione per spada è presente nella cultura tradizionale giapponese e anche in questo caso, il tema è l’ATIMIA, la vergogna. Aiace si suicida per lo PSOGOS sociale dei suoi compagni che lo considerano pazzo, e i KAMIKAZE si suicidano perché si vergognano di non aver fatto il loro dovere nei confronti della patria. L’esempio di Lucrezia pervade l’immaginario del tema sino al medioevo fino a Christine de Pisan, nata attorno alla metà del 1300, che dopo aver perso il marito, si manteneva con la scrittura: ballate 32 per il marito defunto. Anche la scrittrice parla del caso di Lucrezia e prende posizione contro la violenza perpetrata dall’uomo nei confronti della donna. Nell’antichità invece il tema forte è il consenso, il dolore o l’assenza di dolore e questa dimensione di piacere che la cultura antica associa al tema della violenza. La paura di diventare grandi La paura dello stupro, per ciò che riguarda la religione del mondo classico, dà origine ad un insieme di pratiche cultuali che girano attorno alla figura di Artemide. In particolare, specie in Laconia a Sparta, venivano organizzate delle danze che avevano lo scopo di esorcizzare la paura dello stupro. Ne abbiamo in Messenia e in Laconia. Tutte si ricollegano al culto della dea Artemide. Le feste si collegano a questa divinità in maniera non casuale: Artemide è infatti la divinità sempre vergine che protegge in modo ossessivo il corpo femminile in un momento in cui i corpi delle donne diventano grandi (passano dall’essere PARTHENOI all’essere sposati). Nel momento dell’iniziazione sessuale appunto, le ragazze vengono colte dal timore di conoscere la sessualità, e dunque sono colte dal terrore dello stupro → per questo motivo venivano organizzate tali danze. Pausania (I-II d.C.) ci dice che a 10 km fuori Sparta (a Carie), c’era un bosco di noci, e ogni anno le ragazze non ancora donne, entravano in questo bosco e ballavano il cosiddetto “ballo delle noci” al fine di esorcizzare la paura di diventare grandi, e al fine di allontanare anche la paura di un evento passato (alcune ragazze in tempi passati infatti erano state stuprate da alcuni assalitori Messeni, e per sfuggire all’assalto, esse si rifugiarono all’interno del bosco delle noci dove si impiccarono tutte sugli alberi: suicidio collettivo tramite l’impiccagione). Le ragazze che ballavano si chiamavano infatti “piccole noci” per richiamare l’idea delle fanciulle appese agli alberi. La violenza non è affatto grata alla fanciulla, è uno spettro agghiacciante. Il timore dello stupro può nascondere in alcuni casi il timore del passaggio d’età. Dunque ogni tipo di rapporto sessuale può essere potenzialmente uno stupro. Il tema del dondolare delle ragazze impiccate agli alberi è molto presente nella cultura. In un vaso infatti è raccontata un’altra festa: la festa delle AIORA (altalene), una festa ateniese in cui una volta all’anno le ragazze salivano sulle altalene e si dondolavano per esorcizzare la paura di diventare grandi. Ecco, allora, il mito delle origini: un pastore di nome Icario ricevette da Dioniso il segreto del vino. Di questo nettare egli fece dono ai suoi colleghi pastori che, credendosi avvelenati, lo uccisero. La fedele cagna Maira corse a cercarne la figlia Erigone che, di fronte al cadavere del padre, lanciò una maledizione prima di impiccarsi per il dolore: da quel giorno, nella ricorrenza del suo gesto, tutte le vergini si sarebbero impiccate sino a quando gli assassini del padre non fossero stati trovati ed il suo sacrificio espiato. E così andò; di fronte a quel susseguirsi di impiccagioni verginali gli abitanti di Atene si rivolsero all’oracolo delfico, che sentenziò la necessità di inventare un gioco che potesse simboleggiare l’impiccagione senza causare la morte. Così nacque il rito dell’altalena. Il fatto che il dondolare serva ad esorcizzare la paura si vede anche nel vaso → nel vaso è rappresentata la fanciulla che si dondola e un satiro che la spinge: il satiro è l’emblema della violenza sessuale. 33 Questo tema lo si ritrova in un romanzo contemporaneo e nel film tratto da questo romanzo scritto da EFGHENIDES: “Il giardino delle vergini suicide”. In questo caso un gruppo di sorelle sono tenute dai genitori in una condizione di particolare reclusione e soggette ad un rigido protocollo comportamentale. I ragazzi tentano di accostarsi ad esse, ma ad una ad una esse si tolgono la vita. La spia che ci guida verso un modello antico, è il fatto che nello stesso periodo in cui le fanciulle si tolgono la vita, gli alberi della città muoiono. Rifiuto della sessualità, di diventare grandi → importante è, a tal proposito, la questione del corpo femminile (ben rappresentata da Ovidio). Emerge soprattutto con le Metamorfosi. Un esempio è quello di Cenile (storia narrata nel XII libro delle Metamorfosi). La giovane, bellissima, un giorno cammina sulla riva del mare. Viene notata da Poseidone che la violenta. Il piacere che deriva al dio lo rende indulgente: Poseidone chiede a Cenile di esprimere un desiderio ed essa desidera di diventare un uomo impenetrabile a qualsiasi aggressione esterna. Esperienza dello stupro →il corpo femminile desidera essere un personaggio maschile. Cenile, divenuta Ceneo, va in battaglia e guida il suo popolo nella lotta contro i Centauri. I Centauri provano in ogni modo a colpirlo, ma non c’è niente da fare: è diventata impenetrabile e dunque nulla la può toccare. Lotta fino alla fine e solo quando i Centauri la sommergono di una catasta altissima di tronchi, si placa. Non sono però riusciti a ferirla perché il corpo dell’uomo non può essere violato. Un testimone disse che da questa enorme catasta fosse nato un uccello, ossia la fenice (l’uccello immortale che rinasce dalle sue ceneri). Il corpo femminile si trasforma in un corpo maschile e dal corpo maschile nasce la fenice (uccello immortale dalle ali di fuoco). Questo tema dello stupro connesso al corpo, su cui Ovidio insiste tantissimo, nel caso di Cenide/Ceneo è collegato ai Centauri. I Centauri che combattono contro Ceneo, non sono scelti a caso. Essi infatti sono tutti figli di Issione. Quest’ultimo, secondo il mito, sposa una fanciulla che è probabilmente una semidea (Dia). Issione promette al suocero di dargli una ricchissima dote nuziale, ma quando lo accoglie in casa lo uccide barbaramente (violazione della prima legge sacra per i Greci: l’ospitalità). Zeus però ha pietà di Issione e lo prende con sé sull’Olimpo ma l’uomo tenta di violentare Era. Zeus, a questo punto non può lasciare impunito il mortale e così crea una forma di Era fatta con le nuvole che Issione scambia per la vera divinità. Egli si lancia sulla nuvola e proprio da questa violenza sulla nuvola, nascono i centauri. Dunque il tema della violenza sessuale corrisponde alla genesi dei centauri, che sono esseri polimorfi ed esseri particolarmente connotati dal punto di vista della violenza sessuale. Il centauro Nesso tenta di violentare Deianira, futura moglie di Eracle. In generale peraltro, i centauri sono degli stupratori di gruppo. Esistono infatti storie di gruppi di centauri che irrompono in una festa e provano ad usare violenza. Perciò rappresentano un po' la personificazione dell’idea della violenza sessuale e non a caso si legano a Cenide/Ceneo. Analisi del racconto ovidiano di Cenide: il corpo femminile ha paura che possa ripetersi nuovamente la violenza, perciò vuole che il suo corpo prenda le sembianze di quello di un uomo: strategia anatomica dell’indurirsi → secondo la tradizione infatti il corpo femminile è morbido, quello maschile invece è duro. Diomede infatti riesce a ferire Afrodite (nulla ostacola l’immersione della lancia nel corpo della divinità. Omero infatti narra: Diomede, sapendo bene che Afrodite è fragile e vulnerabile come le altre donne, la trafigge (contrapposizione anatomica tra il corpo femminile che è morbido, e quello maschile che è duro). Le ragazze di Artemide, per affrontare la minaccia dello stupro, mettono in atto una strategia. Esempi: - Storia di una ragazza devota ad Artemide: Aspalide. Essa ha deciso di consacrare la sua vita alla dea. Viene però adocchiata dal tiranno Tartaro, che la violenta. Il fratello di lei la vendicherà e 34 - ucciderà il tiranno che getterà in un torrente e che da quel giorno si chiamerà Tartaro. Il corpo di Aspalide, che si era suicidata tramite impiccagione, scompare e si ritrova in un tempio di Artemide trasformato in statua (indurimento del corpo). Storia della creatura Britomartis: vergine cacciatrice → è una ninfa (dunque occupa una posizione liminare tra mortalità e immortalità), e fa parte del seguito di Artemide. Si colloca a Creta, luogo in cui incontra il suo assalitore Minosse. Quest’ultimo prova a farle violenza ma Britomartis si getta in acqua per scampare alla sua minaccia fisica; mentre sta nuotando viene raccolta dalle reti di un pescatore. Da quel giorno si chiamerà DITTINNA (ragazza impigliata nelle reti → da ITTYS = pesce). Il pescatore però prova anch’esso a farle violenza. Ma la ragazza scappa e scompare. Dopo pochissimo, verrà ritrovata nel tempio di Artemide sull’isola di Egina, sottofroma di statua. A queste ragazze del mito sembrano offrirsi due chance: o la metamorfosi vera concessa dalla divinità (indurimento di genere → donna > uomo) oppure la mutazione in statua. Perché la statua? Statua e corpo di donna sembrano essere ossimorici, ma perché questa cosa è possibile? Ciò si lega alla concezione che della statuaria antropomorfa avevano i Greci e Romani. La statua non vive in discontinuità rispetto al corpo umano: la statua non sta al posto di Aspalide ma è Aspalide stessa. Ciò accade per una concezione particolare, ossia l’idea che la statua di pietra o di marmo non sia nient’altro che il corpo privato dell’elemento liquido. Il caso contrario invece è quello di Pigmalione. Egli si innamora di una statua. Afrodite trasforma la statua in una donna vera e propria. Aristotele invece afferma che quando le ragazze hanno il timore della sessualità, tutto il loro corpo si pietrifica in qualche modo; il sangue smette di correre. Esse rinunciano a diventare grandi. Anche questa è una sorta di pietrificazione. Un altro elemento interessante è la posizione della divinità, nel racconto Ovidiano. Poseidone non accenna in nessun caso all’ipotesi della seduzione. Non usa lo STUPRUM nel senso che gli attribuisce la Lex Iulia, ma al contrario Poseidone violenta proprio Cenide. Altri esempi che ci riconducono a questi temi: - - - Caso di Medusa: protagonisti sono una ragazza e Poseidone. Il luogo in cui si consuma la violenza è il tempio di Artemide. Ovidio, nel libro IV delle Metamorfosi, narra la storia. “Medusa era di una bellezza meravigliosa e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei suoi capelli”. In questo caso Medusa è trasformata in un mostro e viene punita proprio perché l’unione è avvenuta all’interno di uno spazio sacro. Altro caso noto: Danae. Essa intrappolata dal padre a Crisio in una torre, perché un oracolo gli aveva predetto che il figlio della figlia lo avrebbe ucciso o spodestato. Zeus, innamoratosi di lei, la violenta. Il padre non crede alla sua versione dei fatti e non crede che essa sia realmente incinta. Per questo motivo pone la figlia in una cassa e la getta in mare. Il fatto di buttare una cassa sulle onde coincide di fatto con la sentenza capitale. Altro caso: Leucote, figlia di Oriano, sedotta e violentata da Apollo. Il padre non crede che sia stato il dio a sedurla e a violentarla e dunque la fa seppellire viva. Caso di Apemosine, discendente alla lontana di Minosse. Va in esilio con il fratello sull’isola di Rodi, perché un oracolo aveva profetizzato al padre che egli sarebbe stato ucciso dai figli. Ermes però si innamora di lei e la violenta. Il fratello di lei non crede a questa versione e la prende a calci finchè la uccide. 35 Riflessioni: Il peccato di UBRIS, di arroganza e di tracotanza, ricade sempre sulla donna. È di Medusa, di Apemosine, di Cenide l’ATIMIA, ossia la vergogna collettiva. A questo si lega un tema che Ovidio dispiega al massimo grado, un tema che è fondamentale: la divinità è una divinità stupratrice. Non c’è un solo esempio, in tutte le Metamorfosi, in cui la vittima decida di unirsi spontaneamente alla divinità. Quando la giovane Dafne viene adocchiata da Apollo, Apollo prova a convincere la ninfa, ma lei fugge comunque. A questo rifiuto non rimane altro ad Apollo che la violenza. Come se unione sessuale del dio con la creatura mortale, non potesse esistere se non attraverso una relazione di imposizione fisica. Il fatto che la divinità stessa sia una divinità stupratrice, influisce di gran lunga sulla mentalità antica e sul modo di concepire la violenza. Se infatti la divinità è all’origine fatta di violenza sessuale, è chiaro che la violenza sessuale è considerata un particolare di scarsa rilevanza. Esiodo dice sempre che non c’è nessuna corrente d’affetto, di sentimento che passa attraverso queste unioni primordiali, quindi di conseguenza arriviamo fino ad Ovidio. Il tema della violenza dunque si gioca bene pensando alla concezione della divinità antica e alla concezione antica della corporeità. Lezione 11 12/03/2018 Il bosco di Ariccia e il rituale ad esso connesso sono importanti per 2 ragioni: - Questo gruppo di riti costituisce il punto di partenza per quell’operazione che ha a che fare con il ramo d’oro di Frazer. Una parte del suo ragionamento ruota attorno ad una figura importante, ossia quella di Adone. Esso si lega ad Afrodite e il suo caso mostra benissimo qualcosa di importante. Quando Frazer parla di Adone, il suo Adone è quello che i ritualisti di Cambridge, chiamavano il demone dell’anno, il demone della vegetazione. Adone è il simbolo di quella concezione della divinità che prevede che tutti gli dei siano espressione del ciclo della natura. Le sue osservazioni su Adone hanno fatto il loro tempo. eppure Frazer appartiene a quel filone di storia degli studi, davvero mitopoietico, in cui si doveva studiare il mito in maniera scientifica. il ramo d’oro di Frazer è soprattutto un’opera di letteratura. Esso parte dal dipinto di Turner che si intitola per l’appunto “Il ramo d’oro”. La sua impostazione ermeneutica è quella di un viaggio di esplorazione e di scoperta in cui visitare molte e strane terre lontane. Il racconto del mito e del rito del ramo d’oro con cui inizia l’opera, non cessa mai di essere letto e interpretato. Perché questo mito intorno al lago nel bosco di Nemi, sui colli Albani, è così importante, per lo studio della religione romana? Perché proprio lì si condensa la capacità dei Romani di adattare e riplasmare al mondo romano le suggestioni che provengono da aree diverse. Il bosco di Nemi si intreccia da subito con la storia politica di Roma. La religione romana è infatti una religione dell’Urbe. Che cosa c’è a Nemi? Tema dell’Artemide taurica che era una divinità adorata attraverso dei sacrifici umani. Frazer individua due elementi fondamentali: - Culto di Diana Nemorensis (Diana dei boschi) Esistenza del culto della dea ad Ariccia Da Catone il Censore sappiamo che ad un certo punto gli abitanti delle cittadine limitrofe (tra cui Tusculo e Pomezia) a Roma avevano costituito una lega che aveva sostenuto la creazione di un 36 santuario di Diana Nemorensis. Il dedicatario sarebbe un certo Eberio, che proveniva da Tusculo. Sicuramente viene costruito prima del 495 a.C. perché Pomezia è stata distrutta nel 495. Questa è una prova tangibile. Mentre la dea Diana veniva venerata ad Ariccia, a Roma questa sua declinazione, era sostanzialmente sconosciuta. E quale declinazione di Diana sembra essere viva ad Ariccia? Quella di Diana identificata con Vesta (dea del focolare: Estìa dei Greci). Il bosco di Ariccia dunque è sede di un culto particolare, di un culto che viene da fuori. La statua di Diana infatti sarebbe la statua che Oreste e sua sorella portano dalla Crimea sino a Roma. Anche il tema dell’immagine della dea che viene nascosta è una questione importante che in questo racconto è fortemente debitrice del rito e della religione greca. Questa Diana dunque arriva ad Ariccia e non è presente a Roma. C’è un’iscrizione proveniente da Ariccia (100 d.C.) e che è molto importante perché è un’iscrizione dedicataria di un panettiere, Publio Cornelius Pistor, che con sua moglie dedica l’iscrizione alla Diana del Bosco che è anche Vesta. Dunque ancora nel 100 d.C. ad Ariccia la connessione tra Diana e Vesta è molto sentita. Ci sono però altre testimonianze, che sono dei veri e propri racconti. Servio ad Eneide 6, v.136: il ramo d’oro serve ad Enea come talismano per procedere nel mondo delle ombre. Servio dice: “Oreste, dopo l’uccisone del re Toante, scappò con sua sorella Ifigenia e l’immagine di Diana che aveva preso lì e collocò non lontano da Ariccia. Nel suo tempio, dopo che ebbe cambiato il rituale sacrificale, c’era un certo albero di cui non era lecito spezzare il ramo” (ciò che vuole dire è che, arrivato in Italia, a pochi passi da Roma, il rito era stato modificato: era sparita quella coloritura di sangue che aveva avuto in Crimea). Ciò è vero, per esempio quando Afrodite arriva a Roma, una delle stazioni di culto più importanti è quella del monte Erice. Il culto della venere Ericina. Sembra di capire che Afrodite godesse di un culto specifico da parte delle eteree, ossia le prostitute. Molto probabilmente le eteree avevano un loro culto di Afrodite (a Corinto soprattutto) e lo capiamo dal numero delle dediche. Sembra che in Sicilia questa Afrodite avesse esattamente un culto di questo genere. Quando questa Afrodite si trasforma in Venere e la statua di culto viene trasferita a Roma, sparisce questa connotazione (la Venere dei Romani non viene venerata in modo specifico dalle prostitute → sterilizzazione e rifunzionalizzazione secondo i canoni della religiosità romana, che sono molto rigidi. Il tema del ramo spezzato è un tema che suggerisce e tratta solo Servio e lo fa perché sta parlando di Enea. Altrove questo tema non è assolutamente contemplato. Questo dettaglio è stato studiato a partire da Frazer. In particolare l’esistenza di un ramo d’oro prezioso si ritrova nei rituali druidici, dove il ramo d’oro è il vischio bianco. Un altro tema importante è che non tutti riescono a rompere questo ramo: ciò spingerebbe a valutare alcuni riti piuttosto simili che vanno dal sasso, sotto cui ci sono le insegne araldiche poste da Egeo, che solo Teseo può sollevare (Teseo cresce a Trezene e non sa di essere figlio di Egeo) fino ad arrivare alla spada nella Roccia. Questo quindi è un elemento simbolico molto forte che nel tessuto dell’Eneide ha un suo ruolo fondamentale. Altro ruolo importante hanno le figure femminili: accanto a Diana taurica, in questo bosco, sulle rive del lago, il 13 agosto, veniva venerata ogni anno la ninfa Egeria, ninfa che protegge le partorienti. Veniva venerata insieme a Diana e in una festa molto suggestiva attestata storicamente, accendendo piccole e grandi luci sulla riva del lago (Frazer chiama le luci “lumini sacri”). Si diceva che questa ninfa fosse stata l’amante del re Numa a cui viene attribuito il tema della legge. Servio prosegue: “ne era data la liceità solo ad uno schiavo fuggitivo a cui era concesso, se uno di loro avesse potuto prendere un ramo dell’albero, di combattere con il sacerdote schiavo fuggitivo del tempio”→ il rex nemorensis (il re del bosco). Imitazione del fatto che Oreste era fuggito ed era giunto a Roma. L’idea del duello mortale era in qualche modo un’evocazione di ciò che Diana Tauride aveva perduto, ossia il sacrificio umano. 37 Elementi salienti: - istituzione del sacerdozio di Diana taurica L’istituzione non è autoctona, viene dalla Crimea Presenza dell’albero che è citato da Servio e non da tutti Il sacerdozio di questa dea era tenuto da uno schiavo fuggitivo che rimaneva sacerdote fino a quando un altro schiavo fuggitivo avesse osato sfidarlo Pausania dice che lo spettro che si aggira nel bosco di Nemi è Ippolito che si chiama a Roma Virbio. Ippolito muore a Trezene. Il bosco di Ariccia era vietato ai cavalli e nel giorno della festa i cani venivano incoronati. Si diceva che questo Ippolito-Virbio sarebbe stato il primo sacerdote del culto di Diana Taurica. Sotto l’imperatore Caligola verrà utilizzata l’espressione “rex nemorensis” (re del bosco). Caligola mette in scena dei ludi gladiatori: Roma ha inglobato il carattere selvaggio del culto di Diana e lo ha addomesticato nella versione sterilizzata, per cui i sacrifici umani sono i ludi gladiatori: per Caligola dunque il rex nemorensis è un gladiatore. Servio insiste molto sul tema dello schiavo fuggitivo e lo stesso fanno Strabone e Pausania. Lo schiavo fuggitivo ha un ruolo importante e ha un potere religioso evidente. Che cosa c’è di stridente? Innanzitutto il fatto che sia uno schiavo e anche il fatto che questo sia un re. Quali sono le caratteristiche peculiari del re del bosco? Per Frazer anche re Artù è un re del bosco, oppure Cristo è un re del bosco. La caratteristica dei re del bosco è dunque il fatto di essere contemporaneamente figura del potere religioso e figura del potere temporale. Questo tratto è tipico, come Frazer ha detto, della regalità magica, del re che è tale perché il suo corpo è divino. Il suo corpo intercetta due relazioni diverse con il divino, è come se fosse il collante tra il mondo mortale e il mondo immortale. Idea che il re, con il suo corpo, sia in grado di portare prosperità alla terra, oppure quando il re si ammala, la sua terra a sua volta si ammali e si spenga. Tema che sottostà al rapporto fra il re del bosco, che è un sacerdote e l’albero. Il ciclo della natura segue il ciclo biologico del re: quando la natura è in difficoltà il re si ammala, quando il re si ammala la natura si spegne. Quando si apre l’Edipo Re di Sofocle, i maschi tebani chiedono ad Edipo di risollevarli dal male, che è una piaga fisica. Sofocle mette in scena un Edipo che dice: “Io sono malato come la mia terra”. Nel caso del re del bosco il punto è che questo re è sempre sul crinale che separa la vita dalla morte e la sua vita è legata alla sua potenza fisica: se il re invecchia non sarà più in grado di combattere con uno schiavo fuggitivo più giovane e dunque morirà. Livio: rapporto fra re e mondo religioso → tema molto forte nella Roma dei Tarquini. Il tema della compresenza nella stessa figura di due diversi modi di intendere il potere è del tutto evidente, anche nel racconto del bosco di Nemi. Il grande problema è costituito da questo schiavo fuggitivo. Innanzitutto il tema del re collocato in una dimensione selvaggia fino al momento in cui verrà ucciso da un altro re, è macabro per Roma. Oltretutto il re dei sacrifici è un nobile, è discendente da una famiglia nobile. Doveva discendere da una coppia che fosse stata unita dal legame matrimoniale della CONFERRATIO: si entra in contatto con la divinità. lo stesso rex sacrorum doveva avere la sua regina che era anch’essa sottoposta alla conferratio. Come è possibile dunque che questo sia uno schiavo fuggitivo? Lo schiavo fuggitivo, proprio perché lontano dal padrone, sarebbe libero e sarebbe anche libero di essere re. Conferratio Villa dei Misteri a Pompei: su questa villa gli studiosi si sono a lungo interrogati. Essa deve il suo nome all’idea che questa megalografia (le figure sono più che ad altezza uomo) riproduca una messa in scena di un rito misterico di cui però non sappiamo nulla. Paul Vaine l’ha chiamata “Un mattino 38 di nozze”. Al centro infatti c’è la coppia costituita da Dioniso e Arianna → modello di matrimonio per eccellenza. Essi stanno al centro: Dioniso è del tutto evidente, ad Arianna invece manca il volto. Tutti i dettagli sembrano evocare il rito formalmente codificato della conferratio romana. Il primo gesto del rito era quello che la sposa lasciasse i suoi giocattoli e le sue bambole che venivano consacrate alla divinità preposta che custodiva i balocchi dell’infanzia (INDIGITAMENTA). Dopodiché la sposa abbandona la toga praetexta in porpora e indossa la tunica recta che è bianca, e sotto il seno si annoda una fascia strettissima con un nodo che si chiama nodo erculeo. Dopodichè la sposa viene rigidamente pettinata con sei trecce. Il pettinino che serviva a dividere le zone dei capelli si chiamava asta celibaris. Si poneva in testa un velo (flammeum) porporino. Questa è proprio una cerimonia sacra. Infatti i romani avevano tre possibilità diverse per sposarsi: 1. Conferratio: riservata ai nobili e ai sacerdoti 2. Coemptio: il matrimonio 3. Usus: unione civile Anche nel matrimonio romano (tranne che nell’usus) c’è la bilancia: su di un piatto veniva posta la stessa sposa, e sull’altro invece la dote. Lo schiavo fuggitivo viene scelto proprio perché questo schiavo, proprio per il fatto di essere fuggitivo, era libero. Nella festa greca delle Targhelie, i re per un giorno in verità erano destinati ad essere espulsi. Frazer racconta che le legioni romane del tardo impero utilizzassero spesso una strategia: elevavano al massimo grado un soldato e visibile agli dei, cosicché lui era il primo ad essere colpito. Su di lui si concentrava il maligno e in questo modo la guarnigione era salva. Lezione 12 13/03/2018 Il sacrificio Ciò che interessa non è tanto ragionare sulle piccole cose ma dare alcuni input di riflessione su un tema così importante che ha, nella devozione di Afrodite, un ruolo fondamentale. Di fatto il sacrificio, dal punto di vista linguistico, è “occuparsi del sacro” (da sacrum+facere). Il sacrificio è quel momento simbolico in cui il mito si fonde con la religione: in questo istante avviene il contatto migliore con la divinità. Già questa affermazione è sin troppo specifica. Cercando di lavorare sul sacrificio in maniera più contemporanea, bisogna parlare dei giochi. I Francesi si sono occupati della cosiddetta ”legge della dispersione (o legge della depance)”. Marcel Mauss si è occupato della teoria dei giochi ma anche del sacro. Per la prima volta in concomitanza con l’esplosione degli studi della sociologia, si sviluppa l’idea che le società antiche (specie greca e romana) sembrano vittime di questa legge della depance = legge che regola i processi non prettamente economici. Esistono delle azioni delle società umana che noi, con molta difficoltà, potremmo ascrivere ad un comportamento di tipo economico. Chilois parla di tutta la sfera del gioco, parla del teatro e soprattutto dei riti religiosi, in particolare compie numerosi studi sul sacrificio → modalità dell’agire che potremmo far ricadere su ambiti diversi. Del sacrificio però si potrebbe tranquillamente fare a meno anche nel rapporto con la divinità. Ma così non è: nessuna azione umana (le nascite, le morti, i matrimoni, l’entrata in guerra) si svolge senza il sacrificio. Il tema perciò è molto difficile da delimitare. Anche il tema forte del sacrificio animale in rapporto alla divinità (il sacrificio per il dio) è stato messo un po’ in forse. 39 Esiste solo il sacrificio per la divinità? Per esempio la teoria di Girard comprende anche sacrifici che non necessariamente sono rivolti in prima battuta alla divinità. I sacrifici che riguardano questo schema sono alcuni tipi di sacrifici umani; lo si vede ad esempio durante i funerali di Patroclo. Tra le tante cose che Omero dice, ad un certo punto parla esplicitamente di sacrifici umani compiuti e indetti in onore dell’eroe. Nel sito di Ur inoltre sono state rinvenute delle sepolture di personaggi di rango regale, o comunque appartenenti alla nobiltà, e in ognuna di esse sono state ritrovate da un minimo di sette ad un massimo di 73 cadaveri. Il punto è che non necessariamente il sacrificio è orientato esclusivamente alla divinità. Queste vittime sacrificali, sia quelle di Patroclo sia quelle rinvenute nelle tombe ad Ur, sono coloro che sono destinati ad accompagnare il morto nel suo viaggio oltremondano: muoiono dunque per il defunto stesso e non per la divinità. 1) Sacrificio: marchio identitario Huxley e Lawrence: riflessioni sui comportamenti rituali. È un orizzonte di studi che ha valutato il sacrificio come se questo fosse un’eco di un comportamento di altro tipo: di quello cannibalico, di quello dei cacciatori. Il sacrificio è un’azione ritualizzata che rappresenta un’eco di qualcosa che non è più. La società però si riconosce nel sacrificio e non ha alcun dubbio sul significato della prassi del sacrificio. Naturalmente questo vale per le società umane. Lorence, a tal proposito, cita il comportamento delle oche selvatiche: queste, in certe occasioni, starnazzano con violenza e sbattono fortissimamente le ali, come a spaventare il loro interlocutore, ma non hanno nessuno da spaventare (da un comportamento di difesa originario diventa un comportamento ritualizzato → non c’è più il meccanismo originario che ha provocato il comportamento, ma il quest’ultimo è diventato un rito). Altro esempio: il manto delle farfalle. Esse hanno dei manti meravigliosi e per molto tempo si è pensato che il maschio avesse un manto colorato e appariscente perché in questo modo, apparendo per primo, potesse distogliere l’attenzione dalle femmine. I predatori delle farfalle però non distinguono il colore delle farfalle, non si accorgono. Le farfalle, così come le oche, sono vittima della legge della depance: azioni che hanno un orizzonte simbolico di riferimento che identifica il comportamento sociale. Lo stesso meccanismo vale per il comportamento della comunità. Fare un sacrificio è dunque un marchio identitario. Ci sono società che hanno modificato il loro modo di approcciarsi al sacrificio. 2) Rigidità del codice formale del sacrificio Un altro tratto peculiare del sacrificio che si vede soprattutto in quello latino, ma anche in quello greco, è il tratto formale del sacrificio. È stato detto che esso può essere rappresentato solamente dall’azione. Il sacrificio ha dei codici rigidissimi, molto presenti anche nella cultura greca e latina. Lo si vede bene nel caso di Edipo. C’è tutto un filone che insiste molto sulla crudeltà di Edipo, in particolare nei frammenti della Tebaide. Qual è esattamente la ragione per cui Edipo maledice i suoi figli (Eteocle e Polinice)? In fondo Sofocle non ci da una vera e propria risposta. La Tebaide dice invece che Edipo odia i figli per una questione di prassi sacrificale. Durante un banchetto, uno dei figli di Edipo taglia in modo sbagliato i pezzi di carne e dà ad Edipo il pezzo sbagliato di carne. Questo basta ad Edipo per maledire i suoi figli. La stessa cosa accade in uno degli aneddoti che riguardano i tirannicidi ateniesi, Armodio e Aristogitone. Secondo una tradizione Armodio ha ucciso Ipparco poiché quest’ultimo si era rifiutato di concedere alla sorella di Armodio di essere una delle canefore (portatrici di canestri nella processione delle Panatenee). 40 3) L’uccisione delle vittime A tal proposito è fondamentale l’opera “HOMO NECANS” di Burkent del 1972. Esperienza fondamentale del sacro è l’uccisione di vittime. Compiere un atto sacrificale è agire tout cour. Secondo lo studioso, dietro questa azione, si intuisce il mistero del sacro. L’homo religiosus è di fatto l’homo necans. Il momento del sacrificio è il momento in cui la comunità degli uomini entra in un contatto palpabile con la comunità del divino. Questa osservazione di Burkent contiene però in sé una piccolissima falla: il sacrificio della vittima è ciò che qualifica l’uomo religioso, tuttavia il sacrificio non è solo l’uccisione delle vittime. Per Burkent il momento in cui la comunità fa un atto religioso in senso lato, è per l’esattezza quella in cui viene uccisa una vittima. Ma ci sono dei sacrifici che non contemplano l’uccisione cruenta di una vittima, sia essa animale o umana, e che sono molto connotati dal punto di vista performativo. 4) Sacrificio come do ut des →Taylor vs sacrificio come strumento per canalizzare una pulsione violenta→Girard Taylor inventa l’etnografia e dice che il sacrificio è un do ut des: sacrificare alla divinità per ricevere qualcosa in cambio. Non esiste sacrificio senza corrispettivo → visione utilitaristica del sacrificio. Peraltro Taylor in questo era in consonanza con quei ritratti di Zeus dall’Iliade in poi, pesantemente utilizzati nella commedia e nel simposio di Platone, dove Zeus sembra unicamente interessato a quanti uomini saranno disponibili a compiere il sacrificio. Secondo Taylor perciò l’uomo non compirebbe un sacrificio se la divinità non gli desse qualcosa in contraccambio. Girard invece ipotizza la teoria del capro espiatorio. Questa teoria è all’estremo opposto: mentre la teoria di Taylor intendeva parlare di una comunità che sacrifica al divino per ricevere qualcosa in contraccambio (lo abbiamo visto con gli INDIGITAMENTA: un dio certo e minuto viene evocato e con l’evocazione deve andare a braccetto il gesto della devozione →la teoria di Taylor presuppone il fatto che la divinità sia li in ascolto), la teoria di Girard invece è all’opposto: dio scompare all’orizzonte, non è più in ascolto. Secondo Girard il sacrificio è lo strumento per canalizzare una pulsione violenta all’interno di una comunità. La divinità è chiaro che esiste, ma per Girard è soprattutto quasi una presenza narrativa, e non è l’interlocutore principe che è rappresentato invece dalla comunità stessa. Un altro tratto caratteristico del sacrificio è che esso è tangibile grazie alla presenza delle vittime o dei residui del sacrificio medesimo. L’archeologia ci viene in aiuto per capire come erano fatti i processi sacrificali. In particolare la zooarcheologia e la bioarcheologia: la zooarcheologia ci dice persino come era stata nutrita la vittima prima di essere immolata, ci dice anche l’età delle vittime. 5) L’oscenità del rito Perché il sacrificio, in terra greca, viene ritenuto in qualche modo osceno? Con la parola osceno si intende sia la radice linguistica del tema “ob scenum” → ciò che non può essere visto, sia la dimensione disetica nel rapporto che la comunità intrattiene col divino al momento del sacrificio. Caso pratico: esempio di Prometeo Il mito di Prometeo, così come ci viene descritto da Esiodo, non è solo un mito eziologico, ma è il mito fondativo della civiltà greca. Il racconto di Prometeo si colloca in un momento in cui il momento del divino intrattiene un rapporto molto stretto con la comunità umana. Comunità composta da divinità e uomini. Gli dei non sono sull’Olimpo per ricevere dagli uomini il fumo del sacrificio, ma sono accanto a loro. Zeus, racconta Esiodo, rimprovera Prometeo per aver diviso male i pezzi di 41 carne. Fondamentale nel racconto è il tema dell’istituzione della pratica sacrificale: il titano Prometeo, figlio del titano Giapeto, mette alla prova la divinità e a sua volta la divinità mette alla prova Prometeo. Prometeo non è interessato a tenersi le parti migliori della divinità, ma vuole mettere alla prova la divinità. È un testo seminale: fin dall’origine il tema della parte, del modo in cui viene suddiviso il mondo e la bestia del sacrificio, ha a che fare moltissimo con il destino. Zeus sa benissimo, cosciente di consigli immortali, di prendere la parte sbagliata. Prometeo sta istituendo una pratica sacrificale all’interno della quale agli dei non andrà nulla → si parla del cosiddetto digiuno della divinità. Tutto sommato il dio deve accontentarsi di ben poco perché il destinatario ultimo del sacrificio non è il dio, ma è ancora una volta la comunità che è allo stesso tempo autrice dell’azione e destinatario ultimo. La carne dei banchetti verrà consumata dalla comunità, mentre agli dei rimangono le ossa che vengono bruciate. Tripartizione proposta da Macerl Mauss: ogni sacrificio si può dividere in tre momenti fondamentali: • • • Momento della sacralizzazione → momento in cui la comunità si avvia al sacrificio. La comunità dà un valore elevatissimo alla vittima che deve essere sacrificata, all’acqua lustrale, alle offerte. Momento reale → uccisione della vittima. Questo momento si rompe con un grido (OLOLUGHE): grido ritmato che spezza l’incantamento della performance Momento della desacralizzazione → la bestia ritorna ad essere una bestia, non è più sacra e ne vengono mangiate le carni dalla comunità. 6) La teofagia Comunità degli Arunda → pratica degli INTICHIUMA: la teofagia all’interno della prassi sacrificale è presente nella cultura romana, nella cultura cristiana, in quella greca. Al posto della divinità, quasi sempre ci sono degli animali totemici, che rimandano alla divinità stessa. Nella cerimonia degli INTICHIUMA gli Arunda si cibano della divinità che è rappresentata dai canguri e dagli emù, che loro uccidono non per fare qualcosa in onore della divinità, ma per mangiare la divinità. Che cosa vuole fare esattamente questa comunità cibandosi del dio? Da un lato nelle culture tradizionali questo sembra legato alla potenza magica che deriva dal cibarsi del dio, ma dall’altro significa entrare in contatto diretto con la divinità. Cibarsi del dio è una pratica che viene consumata a livello sociale e non a livello individuale: il momento della teofagia è condiviso con l’intera comunità. Il richiamo alla comunità e al pasto che si divide è fondamentale anche nell’eucarestia. Anche i Greci hanno la loro teofagia. Il mito fondativo del cibarsi del dio è quello di Dioniso Zagreo. Esso, dal punto di vista cultuale e religioso, è ancora più importante. Il piccolo Dioniso viene rapito dai Titani il cui scopo è ucciderlo e cibarsene. Il piccolo viene fatto a pezzi e gettato nel calderone per essere bollito. I Titani, danzando, decidono di arrostire le sue carni: il corpo di Dioniso subisce due tipi di cottura. Questo dio è fatto a pezzi per essere sacrificato: infatti le sue carni devono essere arrostite. Ma le sue carni deve essere anche bollite: la bollitura evoca infatti la rinascita. Il calderone come contenitore di acqua è preludio infatti per una rinascita. Infatti in questo racconto sono in atto due pulsioni diverse: da un lato il tema di sacrificio della divinità, d’altro lato la rinascita della divinità (il momento in cui i pezzi del dio verranno rassembrati). Alcune varianti del mito dicono che Dioniso avesse perso il cuore e gli fosse stato dato un cuore di gesso (la scelta del gesso non è casuale: è infatti la sostanza di cui si erano spalmati i Titani ballando attorno al calderone, e contemporaneamente era la sostanza migliore per conservare i defunti). Di conseguenza i Greci hanno il loro momento di teofagia. In fondo anche il 42 ciceone (che si assumeva durante i rituali per Core e Demetra) si assumeva nei rituali misterici e da alcuni veniva inteso non come un semplice pastone per la divinità, ma come la divinità stessa, come una forma sublimata di teofagia. In connessione con il racconto di Prometeo abbiamo altri due esempi: - - Pelope, figlio di Tantalo, viene fatto a pezzi e offerto come pasto sacrificale alla divinità (confine labile tra banchetto e pasto sacrificale). Il racconto di Tantalo e di Pelope, come nel caso di Prometeo, stacca la divinità dal mondo degli uomini. Licaone (uomo lupo): versione che ci da Apollodoro. Durante il suo regno sull’Arcadia, generò 50 figli, tutti empi. Essi offrirono a Zeus le carni di un bambino miscelato al sangue di una vittima sacrificale. Zeus si accorse di ciò e adirato, rovesciò la mensa e uccise con i fulmini i figli di Licaone. Elemento fondamentale: Zeus si traveste da povero → è la divinità che mette alla prova gli umani. Nella versione di Igino invece sono i figli di Licaone a mettere alla prova la divinità. La divinità mette alla prova, il mortale la sfida e questa prova avviene proprio nel momento del sacrificio. Qui però entrano in collisione altri elementi: il sacrificio umano si mescola al sacrificio animale. La divinità viene sfidata sul riconoscimento/rifiuto della carne umana. L’effetto finale è qualcosa che richiama il momento del distacco tra il dio e gli uomini: il rovesciare della mensa è un gesto simbolico che compare ovunque e che costituisce il momento in cui la divinità rompe il patto tra uomini e dei e lo rompe proprio attorno al momento pratico della prassi sacrificale. La divinità allontanata dal banchetto sacrificale. Lezione 13 15/03/2018 Licaone: citato insieme al sacrificio di Prometeo. Il mito di Licaone e dei suoi figli è l’altro mito che descrive il momento in cui il sacrificio è stato fondato. Alcuni elementi del racconto distinguono alcuni tratti del sacrificio greco. La versione del mitografo latino Igino ci racconta che Giove fu ospitato da Licaone, e i suoi figli vollero mettere alla prova Giove per vedere se fosse realmente un dio. Zeus si accorse dell’inganno e fulminò i figli. Quanto al padre Giove lo trasformò in lupo. Tema del rovesciamento della tavola della mensa che marca il momento di distacco definitivo tra il mondo degli umani e il mondo degli immortali → il loro rapporto si trasforma da banchetto in sacrificio. Un carattere molto forte del sacrificio in terra greca è il digiuno della divinità: agli dei non viene dato nulla. nel mito di Licaone il tema del sacrificio umano si mescola a quello sacrificale (il cannibalismo si mescola al sacrificio). Ciò porta a riflettere sul tema della licantropia (dell’uomo lupo). Licaone viene trasformato da Giove in un lupo. Per i Romani il licantropo è un VERSIPELLIS, colui che letteralmente cambia pelle e si trasforma in un animale. Gli uomini lupo per i Greci stavano in Arcadia, una zona di confine, di barbarie, in cui può accadere di tutto. Questo mito riflette un’usanza reale sino al II secolo d.C. e riferisce Pausania che gli uomini si cibavano di carne umana e della carne del sacrificio. Secondo le cronache, l’usanza cannibalica era ancora diffusa nell’Arcadia del II secolo d.C. Si trasformavano in lupi per 9 anni e poi sarebbero tornati alla normalità, ma non sarebbero tornati normali se nel periodo di trasformazione, si fossero cibati di carne umana. Da animale si ritorna essere umano non prima di 43 aver scontato una sorta di esilio nel mondo selvaggio. Pausania racconta che nel 400 a.C., un pugile che aveva vinto alle Olimpiadi, Demarato, era stato un lupo. Il racconto di Prometeo è un racconto ancestrale, mentre quello di Licaone è più inquietante perché legato storicamente alla vita dei Greci. LA PRATICA DEL SACRIFICIO IN TERRA GRECA Il sacrificio in terra greca fa parte costitutiva di ogni momento individuale e comunitario in cui si vuole richiedere la presenza del divino. All’interno di questa selezione di feste possiamo trovare traccia della pratica sacrificale dei greci alla sua massima espressione collettiva. A questo proposito Atene ci trasmette molti dettagli su feste e sui sacrifici ad esse connessi. Ci muoviamo tra due mesi: il mese di Sciroforione (giugno/luglio) e Ecatombeone (luglio/agosto). Questo arco di tempo segna ciò per noi è il capodanno: il mese Ecatombeone segna l’inizio dell’anno nuovo (questo perché l’anno è scandito dall’attività agricola: la semina e il raccolto). Sostanzialmente ci sono tre occasioni di festa: - Feste Scire (inizio mese di Sciroforione): vengono celebrate due giorni prima delle Bufonie; Feste Bufonie (o Dipolie: per Zeus della città): sono per l’esattezza l’uccisione del bue, messe in scena il 14 di Sciroforione in onore della festa per Zeus protettore della città. In questa occasione va in scena l’intera civiltà ateniese. Il senso di colpa dinnanzi al sacrificio e l’ipocrisia del rito sacrificale. In greco anche la parola YPOCRITES vuol dire attore. Gli Ateniesi sono contemporaneamente gli attori del dramma e sono ipocriti (agiscono falsificando la loro gestualità). Abbiamo di esse, una descrizione dettagliata da parte di Porfirio in cui quest’ultimo cita il filosofo Teofrasto. Sappiamo che l’ipotesi interpretativa secondo cui il sacrificio si possa dividere in tre parti, è una filigrana interpretativa che si può adottare per le Bufonie. La comunità si metteva in fila per portare al sacrificio questo bue. C’era il sacerdote (a capo scoperto), poi accanto il MACHEIROS, quello che teneva la scure, e quello che teneva il coltello sacrificale. Importanti erano le idrofore, i portatori di orzo (fase di sacralizzazione). Giunti all’altare vengono fatti alcuni riti preparatori: il coltello e la scure vengono arrotati nell’acqua sacra portata dalle idrofore, l’orzo viene scagliato contro l’animale sacrificale, il bue viene addobbato e contemporaneamente lo si spinge verso l’altare. Proprio li accadono tre cose: prima di tutto il capo dell’animale viene spruzzato dell’acqua delle idrofore (per provocare un movimento involontario del capo dell’animale che deve essere inteso come segno di assenso da parte dell’animale); successivamente l’animale è spinto verso l’orzo e non appena l’animale sembra mangiare un chicco d’orzo, la comunità lo accusa di un gesto empio (perciò deve essere sacrificato); a questo punto tre peli dell’animale vengono tagliati dal suo capo, gettati nel fuoco sacrificale, e a quel punto l’animale è già morto, è già consacrato agli inferi (la sua anima è già stata consacrata alla divinità). a questo punto il dio viene colpito con la scure e poi il suo cadavere viene suddiviso con il coltello. Alla divinità vanno le cosce del femore oppure le interiora: il fumo delle ossa bruciate si alza verso l’alto. A questo punto il sacrificio è compiuto. Alla divinità non è stato offerto sostanzialmente nulla. Dal sacrificio si passa alla desacralizzazione: la comunità divide il banchetto. Sappiamo che le ossa venivano ricomposte a riformare l’animale, si spegneva sul fuoco sacrificale con l’acqua e la comunità si avviava a sciogliersi. Ma che cosa manca? Manca il colpevole per l’uccisione del bue, perché comunque di uccisione si è trattato. Se la comunità andasse via semplicemente, avrebbe condiviso l’uccisione. Il colpevole doveva essere trovato e punito. Il 44 - primo colpevole additato (il processo si tiene sul Pritaneo) è rappresentato dal gruppo delle idrofore (hanno portato l’acqua che serviva per arrotare coltello e scure), ma loro additano il sacerdote il quale a sua volta punta il dito sul macellaio. A quel punto si scopre che il sacerdote è fuggito, e perciò non si può giudicare in absentia. L’unico colpevole rimane il coltello che viene punito e gettato in mare. Il coltello è stato giudicato colpevole di omicidio volontario (FONOS DIKAIOS). Il coltello viene eliminato perché se rimanesse, la sua presenza fisica contaminerebbe la città. La pratica sacrifica mostra ad un livello altissimo quello che era considerato un rapporto pertinente tra magia sacro e disposizioni religiose, ossia la religione del contatto (della SYMPATHEIA). In questo momento così importante, alla fine dell’anno, va in scena il sacrificio per eccellenza e si vede benissimo quanto il sacrificio greco debba molto alla performance, all’azione codificata. Quella greca è una società di vergogna: ciò che conta è che la comunità si guardi agire correttamente. Non c’è un dettaglio che non sia finalizzato a questo scopo. Naturalmente questa performance, il fatto che il sacrificio sia una sorta di dramma, ci ricorda ancora una volta che in effetti questa dimensione della performance è molto probabilmente debitrice di un passato minoico-miceneo. I minoico-micenei adoravano la divinità attraverso la dimensione della performance, del gesto. A Roma invece il tema della parola, dell’evocazione del divino e delle sue pertinenze, va sempre di pari passo con la pratica. La parola tecnica per Roma, nel sacrificio, è fondamentale. Feste Panatenaiche (il 28 di Ecatombeone): siamo al centro dell’estate. Alla fine di luglio vanno in scena le feste più importanti per tutta la Grecia la cui data ufficiale di inizio si colloca nel 570 a.C. Andavano in scena ogni 4 anni. Sono il momento simbolicamente più alto di aggregazione della civiltà ateniese tutta. Sono dedicate ad Atena. È Atena, con il suo ruolo di nume tutelare della città, a venire evocata. Il fregio della cella del tempio di Atena del Partenone (conservato al British) metteva in scena le Panatenaiche. Momento in cui la comunità ateniese si reca in processione dalla dea e le regala il grandissimo peplo che raffigurava un momento importante per la dea: la gigantomachia → il momento in cui la dea era scesa in campo e aveva imbracciato lo scudo. Questo peplo da chi era fatto? Era fatto dalle arrefore, due ragazze che danno il nome alla festa delle Arreforie (questa festa è all’inizio del mese di Sciroforione). Le arrefore iniziavano a tessere questo peplo e poi lasciavano il posto a delle altre. Aristofane che è di fatto anche uno storico delle religioni, racconta, nella Lisistrata, il percorso formativo di una donna qualunque ad Atene. È descritto il passaggio di classi di età. Afrodite è ben presente anche nel mito e nel rito che ha a che fare con le arrefore. Sembra che le arrefore venissero scelte dai nove anni in poi. Noi sappiamo però che le arrefore erano solo due e che venivano scelte fra le giovani più nobili di Atene. Esse venivano recluse all’interno di una stanza e intanto tessevano il peplo. Ad un certo punto della loro crescita accadeva uno dei riti più misteriosi della civiltà ateniese: esse prendevano nel cuore della notte, un paniere che conteneva qualcosa di nascosto e che non potevano vedere, dopodiché portavano il paniere nel recinto sacro dell’Afrodite dei giardini. Li deponevano il canestro e andavano via. Quando risalivano, era finito il loro mandato e passavano poi allo stato di età successivo (brauronie); l’ultimo stadio era quello delle canefore che partecipavano alla processione delle panatenee. Le arrefore evocavano un mito legato al canestro misterioso entro cui c’erano gli oggetti di Atena. Questo canestro ricorda il mito delle Cecropidi, le figlie di uno dei mitici re di Atene, ossia Cecrope. Sono tre: Erzia, Clauro e Pandroso. Ricevono da Atena il compito di custodire, all’interno di una cesta che non avrebbero mai dovuto scoprire, il piccolo Erittonio (giovane dio 45 che era nato da un esperimento genetico→ il dio Efesto aveva inseguito Atena per possederla: nella foga della corsa uno schizzo di sperma era caduto sulla coscia della dea Atena; la dea schifata getta il lembo di stoffa sulla terra: dalla terra fecondata nasce Erittonio). Le giovani donne aprono però la cesta, vedono il piccolo Erittonio ed impazziscono (vista di qualcosa di insostenibile), fuggono e si tolgono la vita. In un’altra versione della storia le Cecropidi fanno parte di quelle vergini che, per il bene della città, decidono di togliersi la vita per salvare la loro città (ciò che i Romani chiameranno devotio). Si arriva dunque alle Panatenee: all’interno di questo complicato meccanismo, c’è spazio anche per il tessuto sacrificale che, nel fregio, viene ricordato attraverso le idrofore, attraverso i portatori d’orzo e le bestie da sacrificare (pecore e buoi dalle corna ricurve). IL SACRIFICIO IN TERRA LATINA Una cosa fondamentale che è la cifra caratteristica del rapporto del mondo romano con il divino. La comunità romana ha fiducia nella divinità e crede fermamente che essa sia sempre ad essa favorevole. Hanno sicuramente intercettato una dote impegnativa di suggestioni che provenivano dal sacrificio greco. Molto spesso venivano celebrati dei sacrifici “alla greca”. Anche il sacrificio romano ha le sue fasi di sacralizzazione (la PREFATIO), di sacrificio (l’IMMOLATIO) e di desacralizzazione (quella in cui la comunità può accostarsi al pasto sacrificale). Venivano sacrificati solo animali domestici con una preferenza per ovini e suini (ma ad Esculapio veniva sacrificato un gallo); in più c’era una rigida distinzione di genere (alle divinità maschili capi maschi, alle divinità femminili capi femmina); quelle che venivano sacrificate agli dei superi avevano un manto chiaro, quelle che venivano sacrificate alle divinità degli inferi avevano un manto scuro. C’erano alcune divinità, per esempio la dea madre, a cui si sacrificavano le vacche gravide, così come alla dea Cerere. I Romani non disdegnavano completamente il sacrificio umano. Specie per propiziarsi la vittoria sul campo di battaglia, abbiamo traccia di uccisioni di prigionieri. L’elemento cerealitico tipico dei greci era l’orzo, quello dei romani invece era il farro. Si portavano poi formaggi, pezzi di carne di ogni genere e anche dolciumi. Il sacerdote si avviava con la bestia da sacrificare e faceva salire i fumi dell’incenso. Versava poi vini sull’altare (che era trasportabile: era una sorte di tripode). La bestia viene ornata con bende candide o color porpora, le corna vengono ricoperte d’oro e quelle del bue vengono inanellate. L’animale viene spinto a dire si al sacrificio: è legato ad una corda che a sua volta è legata ad un cerchio, si fa muovere il cerchio e a questo punto l’animale scuoteva il capo. Roma, rispetto alla Grecia, ha una dimensione sacrificale pervasiva: è prima di tutti il PATER FAMILIAS che sacrifica. L’agente sacrificale deve essere col capo coperto, a meno che non sia un rito “alla greca”. L’animale viene ucciso, viene rovesciato; i ministri del sacrificio e l’ARUSPEX tirano fuori le cinque parti interne dell’animale (cuore, polmone, fegato, vescica, reni a volte intestino: organi in cui si pensa risieda il potere vitale dell’animale). L’ARUSPEX guarda la disposizione degli organi interni per indagare sul favore degli dei. Perché IMMOLATIO? Dal nome di un pastone di farina, che si chiama MOLA SALSA → veniva messo sul dorso dell’animale prima che esso fosse sacrificato. Era il momento in cui la bestia veniva affidata alla divinità. il pastone veniva preparato dal collegio sacerdotale delle Vestali. Non sappiamo 46 bene come venisse preparata altrove, ma a Roma dava addirittura il nome al sacrificio. Successivamente il bue si faceva a pezzi e veniva messo a bollire. Il momento centrale del sacrificio gli organi interni venivano buttati sul fuoco e dati idealmente in pasto alla divinità. Quelli dedicati alle divinità dell’acqua venivano gettati nel mare, quelli dedicati alla divinità del sottosuolo venivano gettati a terra. Grande differenza: a Roma si dà da mangiare al dio→ è un vero e proprio banchetto. Il 13 settembre si celebrava una festa, l’EPULUM IOVIS in cui la comunità tutta banchettava con gli dei. I Romani da sempre offrivano banchetti alle divinità. In occasione delle feste della MAGNA MATER le famiglie si riunivano per offrire un banchetto alla divinità. alla nascita di un giovane nobile romano, si allestiva nell’atrio un banchetto per Giunone, Lucina ed Ercole. Bisogna dire che una delle feste principali di Roma sono i cosiddetti LECTISTERNIA (letti) o SELLISTERNIA (sedili) →le divinità femminili stavano sui sedili, le divinità maschili stavano sui letti: festi in cui venivano collocati dei PULVINARIA e le statue della divinità venivano schierati come se si trattasse di un banchetto: i Romani infatti non hanno mai sancito un distacco con la divinità. le divinità sono tutte chiamate a condividere la tavola con i mortali. I Romani mangiavano segnalando il momento esatto in cui avveniva la desacralizzazione: quando il sacerdote toccava la carne, quest’ultima non apparteneva più agli dei. Si tratta dell’idea che la divinità conceda alla comunità il resto della tavola, ciò che non ha mangiato. I pasti erano molto codificati, avevano due portate: - La carne Vino e dolci Ciò serviva ad evocare questa immanenza del divino in tutto il tessuto connettivo della civiltà romana. IV inno ad Ermes → THEOXENIA: feste che hanno un punto di inizio proprio nell’inno ad Ermes. Il dio Ermes vuol far parte del mondo degli dei, ruba le mandrie di Apollo e fa perdere le sue tracce. Ad un cero punto decide di prendere una parte delle mandrie di Apollo e di fare un THEOXENIA. Ermes divide le 12 parti delle carni e le divide per sorte. È un dio il cui scopo è acquisire un’identità divina che per ora gli è sottratta: Ermes perciò ha fame, mangerebbe le bestie, sente il desiderio di mangiarle benchè immortale. Se Ermes mangiasse sarebbe infatti un comune mortale che si ciba delle parti del sacrificio, perciò digiuna. 19/03/2018 A Roma sono esistite, anche se sporadiche, delle occasioni della pratica sacrificale connessa al sacrificio umano. Il tutto si lega al tema più ampio della DEVOTIO che consiste nel dedicare alle divinità infere, in particolare agli dei Mani, una persona o un gruppo di persone. Essa serve a garantire il successo di Roma in guerra. sembra che infatti sia stata messa in atto una procedura di DEVOTIO molto dettagliata per garantire la presa di Cartagine. Essa è però prima di tutto una pratica individuale. Tipico è infatti il tema dei consoli che si offrono alle divinità dei Mani per avere il proprio successo in battaglia. 47 Un esempio è quello della famiglia dei Decimi. In tutto sono tre: il primo, Publio Decio Mure, nel 340 a.C., garantisce la vittoria in uno scontro con la lega latina, proprio affidandosi agli dei del sottosuolo. L’indovino suggerisce a Publio di indossare una toga pretesta e di offrirsi agli dei Mani (sorta di suicidio: si lancia con il cavallo di battaglia e si immola tra le lance dei nemici). La declinazione non benevola del tema della DEVOTIO è la DEFIXIO, ossia la maledizione. Si poteva non solo di immolare sé stessi, ma decidere di uccidere qualcun altro attraverso una pratica molto strutturata di maledizioni. Le DEFIXIONES dunque sono delle vere e proprie maledizioni. Christopher Faraone si è occupato di queste TABUALE DEFIXIONUM: spesso venivano scritte su un tassello di piombo e bucate con un chiodo. Abbiamo delle testimonianze in cui lo stesso supporto ha la forma di un corpo umano. La credenza magica è la stessa che sta alle spalle delle bambole wodoo. Più di quel che accade in Grecia, a Roma è evidente come la magia sia sotto traccia, in generale nella ritualità. Ciò è garantito dall’importanza della parola agente; dal verbo che si accompagna alla pratica rituale. Nessuna pratica rituale è efficiente se non è accompagnata dall’invocazione della divinità. l’invocazione del nome della divinità serve al contempo ad invocarne le funzioni. Probabilmente dunque il tema della magia emerge molto perché la parola magica è un ingrediente indispensabile della ritualità latina. DIVENTARE GRANDI: il genere è molto importante; è una cifra caratteristica di questi riti che hanno anche fare con il passaggio dall’adolescenza alla zona adulta. Le occasioni collettive sono occasioni in cui questo passaggio risulta visibile. Quando noi vedremo la nascita di Afrodite, ci renderemo conto di una cosa fondamentale per gli antichi e di cui parla Esiodo. Esso parla di Afrodite come di una CHORE, di una fanciulla. Ritualità connessa al mondo femminile: il momento in cui le ragazze diventano grandi è sotto l’egida in particolare di Atena e di Artemide. Afrodite sembra avere poco a che fare con questo momento, nonostante sia la prima dea che viene al mondo come una fanciulla e di cui sempre il mito ricorda queste prerogative. - Canefore: fanciulle che portano il canestro che serve al sacrificio (durante le Panatenaiche). Il tirannicida Armodio aveva deciso di uccidere Ipparco perché quest’ultimo non aveva accolto come canefora sua sorella, durante la processione delle Panatenaiche. Il tema è importante per una questione di biasimo sociale. Armodio infatti sa che questa è un’offesa grave, anche perché l’aneddoto racconta che Ipparco avesse tentato di fare violenza alla ragazza. Dal momento che lei si era sottratta alla violenza, le aveva vietato di partecipare come canefore. Il rifiuto di Ipparco implicava che lei non fosse più vergine. È dunque un rifiuto specifico. Si narra che il dio del vento decise di aggredire la ninfa Orizia. La aggredisce mentre lei, vergine, stava portando il canestro. Il tema della verginità e del passaggio di fascia d’età per le ragazze è importantissimo. Per le canefore ateniesi però abbiamo alcuni problemi. Conosciamo infatti i nomi di molte canefore delle città greche. Ma sul frontone, dove dovrebbero essere raffigurate le canefore, c’è un gruppo di ragazzi. Quando viene messo in scena il momento in cui viene offerto alla dea il mantello, ci sono delle figure che si possono identificare con le arrefore. Sulle canefore però abbiamo molte testimonianze iconografiche, ma quella più bella è sicuramente il manufatto rinvenuto nella grotta di Pitsà. Qui è stata ritrovata una grotta contenente un tesoro di testimonianze archeologiche. Tra di esse è stata rinvenuta una raccolta di tavole che rappresentano alcune scene rituali. È un unicum, perché qui c’è un affresco. È proprio la grotta che ha garantito la conservazione di tali reperti. 48 - Sono tre tavole. Su quella meglio conservata si vede bene come la figura della canefora sia importante dal punto di vista del rituale religioso. È figura importante nella ritualità greca tout court. Le canefore portano sul capo un cesto che poteva avere fogge diverse, e in alcuni casi poteva essere in metallo prezioso. Non necessariamente doveva essere coperto, e conteneva tre elementi fondamentali senza cui la pratica sacrificale non poteva avere luogo: l’orzo, il coltello sacrificale e le bende che ornavano l’animale. Ciò che è interessante è il modo in cui la processione è costruita: c’è la canefora, dietro un bambino che porta l’animale sacrificale, due musici, due ragazze e una figura più grande girata di spalle che è sicuramente una figura femminile incinta. Sarebbe stata più alta delle altre e sicuramente incinta. Il tema della verginità, alluso dalle creature, e della successiva maternità, ha un ruolo fondamentale. Di questa processione la canefora è guida. I padri delle canefore potevano partecipare alle processioni proprio in virtù del fatto che fossero loro padri. Arrefore: fanciulle che tessono il peplo della dea (legate alle Panatenaiche). Sono richiamate da Aristofane nella Lisistrata. L’età delle Arrefore va dai 7 agli 11 anni, ma anche dai 9 agli 11 anni. Pongono una serie di problemi di non facile soluzione. Anch’esse erano nobili, erano dalle 2 alle 4, e due di loro venivano recluse nel santuario di Atena dove avevano una casa ed erano destinate a tessere il peplo della dea che avrebbe ornato la statua della dea in occasione delle grandi panatenaiche. In molti si sono chiesti come facessero delle ragazze a tessere un peplo con una trama complicatissima e con la rappresentazione della gigantomachia. Con ogni probabilità esse tessevano un mantello particolare, ma il vero mantello della dea veniva tessuto dalle tessitrici professioniste. È l’unica ipotesi che è stata data. Pausania ci dà una descrizione molto dettagliata di ciò che accadeva. Siamo nel primo libro della descrizione della Grecia dedicato all’Attica. Dalla sua descrizione emergono degli elementi pertinenti: il mistero della cesta, e il santuario di Afrodite dove sono state ritrovate molte nicchie con delle iscrizioni, e molti bassorilievi di genitali. Pausania ci dice che queste ragazze sono devote della dea Atena Poliade, ma dopo aver trascorso il periodo del sacerdozio, si vedono coinvolte in un rito collocato presso il tempio della divinità Afrodite, l’Afrodite dei giardini. Quest’ultima è una divinità particolare perché, come mostrano i bassorilievi dei genitali, è la dea della fertilità e in particolare pare essere una dea del raccolto, delle messi e specificamente legata alla fioritura rigogliosa dell’ulivo. Se così fosse ci spiegheremmo anche un po' meglio il mito che sottostà al rito. La figura delle arrefore si ricollega a dei personaggi del mito, alle figlie del re Cecrope, ossia le Cecropidi (Aglauro, Erse e Pandroso). Erse significa “la rugiada” e Pandroso implica il gorgogliare dell’acqua dappertutto. Le ragazze sovraintendono ad un momento particolare dell’anno, tra il raccolto e la semina, al momento in cui la natura deve essere rigogliosa, fresca, deve dare generosamente, in modo tale che l’ulivo possa crescere. Le Cecropidi custodiscono un canestro all’interno del quale c’è il piccolo Erittonio, il quale, diventato a sua volta re di Atene, sarà colui a cui verrà affidato il compito di istituire le Panatenee. Le ragazze però aprono la cesta, e l’apertura della cesta le trasforma in creature folli che si tolgono la vita. Questa storia che Ovidio ci racconta nelle sue Metamorfosi, si connette al passaggio di classe d’età. Erse è oggetto dell’amore del dio Mercurio. Essa perciò chiede ad Aglauro di fare da mediatore. Questa però cercherà in ogni modo di impedire l’unione, e per questo motivo le divinità la puniranno. Il modo in cui la puniscono è sembrato a molti un manifesto di come la vista delle giovani fanciulle che stanno per diventare grandi porta a due binari diversi: il matrimonio (caso di Erse) e l’altro è invece il binario dell’invidia (caso di Aglauro) che è un 49 - binario sterile, che blocca e rifiuta il matrimonio. L’invidia agisce come un veleno nel suo corpo. L’invidia entra nel corpo di Aglauro, la paralizza ed essa perde tutti i fluidi corporei, si pietrifica e diventa una pietra, che è l’esito naturale del rifiuto di diventare grandi. Aglauro ed Erse rappresentano, per Ovidio ma anche in generale, il momento in cui si deve prendere un binario o l’altro. Le Arrefore infatti venivano considerate le discendenti delle Cecropidi. Il legame con il racconto mitico ancestrale è dunque fondamentale. Ma cosa c’entra Afrodite? A sostegno dell’ipotesi che Afrodite in realtà non abbia nulla a che fare con il rito, c’è il passo di Pausania. Ma se egli avesse voluto evocare il complesso rito delle Arrefore, per chè avrebbe dovuto dire che non si sapeva nulla dell’Afrodite dei giardini (pars destruens: rito di Afrodite non centrale). A favore di una pertinenza di Afrodite nel rito, c’è un frammento di idria che ritrae una figura seduta che tutti gli interpreti hanno identificato come Afrodite, in una posa che è tipica della divinità (il gomito sollevato sullo schienale della sedia). La figura dietro di lei è una ragazza con la coda che gioca a palla con un’altra ragazza che sta oltre l’uccellino e la cui siluette è andata perduta. Ciò ha fatto pensare che possa essere considerata una prova che nella casa delle arrefore, c’era ed è documentato archeologicamente, un campo per giocare a palla. Dietro di loro ci sarebbe una figura più adulta, che porterebbe in mano un ramoscello, interpretato come un ramoscello d’ulivo. Potremmo dire perciò che le arrefore erano legate ad Afrodite, che giocavano a palla e che avevano a che fare con il tema della fertilità Nel passo di Pausania inoltre Afrodite dei giardini è definita quale primogenita delle Moire. Questa Afrodite dei Giardini ateniese sembra essere qualcosa di simile alla Venere degli Orti che veneravano i Romani. Il nucleo delle arrefore può essere letto da tante prospettive diverse. Brauronie: feste in cui entravano in gioco delle fanciulle che si mascheravano, come si suppone, da orse Tema del sacrificio delle vergini Le Cecropidi sono un chiaro esempio di questo. Le figlie di Giacinto anche. Queste ragazze fanno una sorta di DEVORIO, si dedicano alle divinità dell’aldilà per salvare la propria città. Una prospettiva interessante riguarda la terra della Locride. Usanza che veniva adottato dai Locresi a partire dal VI secolo a.C. sino al III secolo a.C. In questo caso il racconto mitico risale ai fatti successivi alla guerra di Troia che sono narrati nei frammenti dei poemi epici del ciclo che descrivevano tanti aspetti dei miti connessi a Troia, e in particolare dei NOSTOI. All’indomani della guerra di Troia, gli eroi tornano a scaglioni. Torna a casa anche Aiace Oileo della Locride colpevole di aver violentato Cassandra, sacerdotessa di Apollo, dinnanzi al Palladio, la statua di Atena (colpa infamante), nel recinto sacro della divinità. Quando Aiace violenta Cassandra, l’esercito acheo si trattiene e non lo punisce. Viene incenerito dalla divinità e sepolto in una terra sconsacrata per la sua empietà. I Locresi tornano a casa ma le divinità non li lasciano in pace: l’oracolo dice che per 1000 anni si dovevano mandare due fanciulle locresi a Troia come tributo alla divinità. Sono fanciulle vergini che diventano le vittime sacrificali per sottrarre la loro regione al rischio dell’epidemia e della pestilenza. Alcuni dicono che le ragazze stessero li tutta la vita in condizioni disagiata, a fare le serve nel tempio di Atena. Se uscivano dal santuario, potevano essere lapidate a morte dai Troiani. questo sarebbe cessato intorno al III secolo a.C., quando i Locresi si ribellano. Ma una nuova forma di prodigio nefando colpisce i Locresi: le ragazze diventate madri danno vita a dei mostri. L’usanza 50 deve essere ripristinata per evitare che la regione intera non possa più riprodursi. Per alcuni il sacerdozio era temporaneo: servitù che poteva preludere ad un miglioramento sociale. Perciò non era necessariamente un sacrificio, ma poteva essere anche un privilegio offerto alle ragazze più in vista. Il sacrificio della vergine connesso a Troia è un tema molto pervasivo. Nell’Eroico di Filostrato (I-II secolo d.C.), opera dedicata a rileggere i miti omerici, viene raccontata una strana storia: racconta che l’isola dei Beati fosse collocata dagli antichi sul Ponto; chi si trovasse difronte all’isola poteva attraccare a condizione che non trascorresse la notte su si essa. In particolare i protagonisti sono Achille ed Elena. Su quest’isola sbarca un mercante. Achille lo accoglie bene e gli chiede di portargli una giovane degli ultimi discendenti della stirpe troiana. Il mercante accetta, si reca a Troia e porta la ragazza ad Achille. Il mercante viene ricompensato e quando sta per andarsene sente le grida della ragazza che appunto viene sacrificata da Achille. Un’altra ragazza sacrificata sul punto di diventare grande. Le orsette protagoniste di una festa istituita a Brauron. Per l’esattezza queste ragazze si chiamavano “le orsette di Brauron”. Raramente un racconto mitico serve per spiegare tutto il complesso rituale, ma solo una porzione. Il racconto generale è quello che dice che dei marinai forse Tirreni avessero fatto un’incursione sulla riva del mare e proprio a Brauron avessero trovato delle donne che facevano una festa religiosa. Le avrebbero allora rapite e da questo evento sarebbe scaturita la festa delle Brauronie. Non è una festa che possiamo collocare nell’ombra di Atena. La dea venerata a Brauron è infatti Artemide. La festa sarebbe nata nel momento in cui queste donne erano state rapite da questi tirreni. È dunque una festa femminile. Di per sé questo è un racconto mitico troppo generico. Quale Artemide veneravano queste donne di Brauron? Veneravano un idolo antichissimo della dea, per l’esattezza l’Artemide Tauropola, immagine antica della divinità che era quella statua che Oreste e Ifigenia si sarebbero portati via dalla Tauride per approdare in Attica e fondare un santuario in suo onore. L’Artemide venerata a Brauron è la statua che Oreste ed Ifigenia si erano portati via dalla Tauride ed è la stessa divinità che è coinvolta nel rito di Ariccia nel bosco di Nemi. Questo ci permette di introdurre un tema fondamentale: ci sono degli oggetti di culto che fanno la loro comparsa molto spesso. Molto spesso infatti le comunità affermano di venerare la stessa immagine di Artemide. 51 10/04/2018 Alleggerimento riguarda il libro monografico dell’unità didattica B 17 aprile lezione sospesa. AFRODITE → 2 fonti: 1) ESIODO Se dovessimo cercare una divinità che specificamente ci insegna molto bene questa poli semanticità del personaggio della dea, Afrodite sarebbe perfetta. Essa ci mostra quel carattere sfuggente e quella capacità di essere unica e molteplice che è propria della divinità romana e greca. Per cui Afrodite e Venere non sono una divinità ma sono molte divinità nel contempo, ma Afrodite è comunque una sola. Il tratto interessante è la peculiarità della divinità di tenere insieme due elementi che apparentemente sono antitetici: il principio femminile (amore, morbidezza e seduzione) e il principio maschile (la guerra). Il dato significativo è che Afrodite tiene insieme i due opposti. Una lettura del divino che nasce con la nascita di Afrodite. Il dipinto di Botticelli sceglie una linea: vediamo una dea perfetta anche nelle sue imperfezioni. Anche lo strabismo di Afrodite è comunque perfetto. Sullo sfondo c’è il mare e la dea emerge dalla conchiglia. È la nascita di Afrodite. Essa non è una divinità che nasce con l’ultima generazione del divino, ma nasce in un momento in cui il tempo è il semplice alternarsi di notte e giorno, e in cui il cielo e la terra hanno appena iniziato a dividersi le pertinenze dell’universo. Secondo un mito questa unione è, all’inizio dei tempi, una forza meccanica di aggregazione. Urano e Gea non si amano, non si desiderano, prima della nascita della dea. È solo un’unione meccanica, senza FILOTETIS (amore) così come dice Esiodo. Prima della nascita di Afrodite, i corpi non hanno un’identità anatomica precisa. Esiodo sa che gli dei hanno un corpo, ma questo ancora non si vede. Il poeta insiste sul momento in cui il rapporto tra il cielo e la terra si fa più carnale. Urano incombe così tanto che i figli di Gea, i Titani, non riescono a venire alla luce. Gea trama la vendetta e arma il suo ultimo nato, Crono dai ritorti pensieri (epiteto con cui verrà descritto anche Odisseo nell’omonimo poema). Il suo non è propriamente coraggio, la sua è astuzia. La madre lo arma di questo falcetto che il poeta dice di essere di adamanto (forse acciaio, comunque un metallo infrangibile). Nel momento in cui Urano cala sulla terra e il figlio alza il falcetto, con una mossa netta, taglia i genitali del padre e li getta dietro di sé. Questo gesto, dice Esiodo, non rimane senza conseguenze, non è semplicemente l’azione di un figlio che si libera da un padre incombente. Accade qualcosa. Il gesto di gettare all’indietro qualcosa è un gesto che noi ritroviamo quando molte fonti ci raccontano della rinascita o della nascita dei primi uomini dopo il diluvio universale. In questo caso, racconta Ovidio, i protagonisti sono Deucalione e Pirra (I libro delle Metamorfosi). Questi ultimi, quando la terra si prosciuga, gettano alle loro spalle le pietre e queste ultime, cadute a terra, si mutano nello scheletro degli esseri umani, e la terra su cui queste pietre sono cadute e l’elemento umido che imbeve la terra, costituiranno i tessuti. La stessa cosa farà Cadmo quando seminerà i denti di drago da cui nasceranno gli abitanti di Tebe. Crono getta alle sue spalle i genitali del padre, ma non invano. Il seme infatti viene accolto da Gaia e da esso verranno generate le Erinni. Il tema della presenza delle Erinni nel pantheon delle divinità dei greci, ha fatto molto riflettere la critica. Fra le ipotesi più suggestive c’è il fatto che le Erinni sono i demoni che rivendicano i delitti tra consanguinei. Esse sono descritte alla lettera come segugi che 52 fiutano il sangue di cui sono lordi gli assassini dei parenti. Un’altra ragione per cui le Erinni sono presenti è quella per cui per la prima volta è stato commesso un delitto tra consanguinei, un figlio ha ucciso il padre. Perfino in una stagione così indistinta, fanno la loro comparsa i demoni che sorvegliano la giustizia, per quel che riguarda i delitti tra consanguinei. Per generare le Erinni, i Giganti e le ninfe Melie, servono anni. La terra assorbe il sangue e restituisce questi esseri alla superficie. I genitali di Urano vengono portati al largo per molto tempo, e da essi una fanciulla prende forma. La dea nata dalla spuma, gli uomini e gli dei chiamano Afrodite. Questo è il primo momento in cui il sangue fa la sua prima comparsa nell’universo mitico degli antichi. Afrodite, il sangue e lo sperma sono legati sin da subito. I genitali di Urano cadono in acqua e dalla spuma nasce una fanciulla. Il greco gioca su una sostanziale omofonia tra la parola che indica la spuma del mare e la parola che indica lo sperma, ossia AFROS. I cristiani diranno che questo momento, ossia il momento in cui Afrodite viene alla luce, è mistico. Questa nascita è di una complessità, dal punto di vista materico, che non ha eguali. Afrodite è fatta letteralmente dalla concrezione dello sperma di suo padre. In molti hanno detto che Afrodite non è la sola nata dal solo padre: anche Atena e Dioniso. Ma qual è la vera diversità? Atena e Dioniso sono la gestazione alla fine di un solo genitore, ma in verità il concepimento è normalissimo. Atena è figlia di una delle prime spose di Zeus, ossia Meti, che Zeus decide di ingoiare letteralmente quando è incinta. Anche il concepimento di Dioniso è nel ventre femminile, e dalle ceneri del corpo di Semele, Zeus raccoglie questo feto e successivamente, dopo 10 mesi, nasce dalla coscia del dio il piccolo Dioniso. Qui invece non c’è nessuna riflessione sul concepimento, c’è solo la concrezione di una materia che è esclusivamente il seme del padre Urano. Un altro elemento interessante è il fatto che Afrodite si forma non appena il membro del padre cade giù nelle acque. Esiodo descrive questa dea come una KORE. Per la prima volta nel mondo dei greci il corpo umano emerge, non siamo più difronte ad un mondo in cui ci sono delle forze che si contrappongono. Qui abbiamo un corpo umano. Afrodite è fatta come una fanciulla e ciò dice anche molto sulla sua natura. Essa non sarà mai una donna adulta, non sarà mai vecchia, e il suo corpo sarà sempre quello di una ragazza. Il primo corpo di fanciulla a fare la sua comparsa in questo universo, non è il frutto di un amore fra un uomo e una donna, ma è fatto unicamente di sperma. In qualche modo potremmo dire che la complessità di Afrodite, cioè questa sua capacità di essere contemporaneamente donna e uomo, di essere dea dell’amore ma anche dea armata, la ritroviamo anche qui. La sua femminilità è fatta esclusivamente di seme maschile. Già qui si riflette su un tema che occuperà molto spazio nella mitologia e nella ritualità degli antichi, ossia il tema del concepimento. Gli antichi greci hanno cercato a lungo un modo per liberarsi del corpo femminile durante il concepimento. Questo è l’unico vero caso in cui veramente si è fatto a meno del principio femminile. Il poeta è attento e raffinato nella descrizione: il membro di Urano vola alto nel cielo, cade nel mare: dal suo sangue nascono le Erinni (qui c’è un concepimento anche femminile attraverso Gaia). Con Afrodite invece non c’è un principio femminile. Paradossalmente Afrodite, la divinità dell’amore e della seduzione, non ama molto le donne. Essa è una divinità che si vendica in modo un po’ strabico: il suo sguardo è come deviato. Fedra, sorella di Arianna, viene portata da Teseo come sposa. Quando Teseo è lontano, Afrodite si adira fortemente con Ippolito che disdegna l’amore, e decide di vendicarsi. Ma la vendetta ricade su Fedra. Si vendica di Fedra con una malattia d’amore che ha proprio una sua sintomatologia precisa. Trasversalmente questa vendetta arriverà anche ad Ippolito. Altro esempio è l’innamoramento della regina Pasifae per il toro più bello della mandria di Minosse. Afrodite si vendica di Minosse facendo sì che Pasifae venga presa da questo amore insano. Afrodite 53 colpisce sempre le donne e preserva sempre gli uomini. Dunque questa cifra maschile della divinità emerge sin dall’inizio, nella tessitura materica di cui è composta. Poi Esiodo dice una cosa che la critica però non ha enfatizzato. Il mondo descritto è un mondo primordiale, ma ad un certo punto Esiodo introduce la geografia umana, introduce le isole: l’isola di Citera e l’isola di Cipro, quella in cui Afrodite è approdata. È come se Esiodo abbia voluto inserire già la Grecia, che è sostanzialmente un paese arcipelago. Qui per la prima volta arriva quindi la geografia degli umani, e arriva lo spazio protagonista delle vicende di Afrodite, Cipro. Afrodite, come dice il poeta, si chiama KYPROGHENEIA perché è nata a Cipro. Con Afrodite arrivano le stagioni: i piedi di Afrodite fanno nascere l’erba. Questa capacità miracolosa si ritrova come un vero miracolo magico collegato con il culto di Afrodite Ericina in Sicilia. Dalle braci del sacrificio, nasce ogni notte un’erbetta tenera. Essa inoltre è FILOMEDE (alla lettera amante dei testicoli) che richiama l’epiteto omerico FILOMEIDES (amante del sorriso). L’intera dimensione della seduzione e dell’amore viene rivoluzionata: non è più attrazione magnetica, ma è desiderio. EROS e IMEROS le sono sempre compagni. Imeros talvolta prende le sembianze di un uccellino nella pittura vascolare. Eros invece ha sempre sembianze umane. Arriva il mondo dei sentimenti. Nonostante dunque questa nascita così dura e fosca, ciò che si accompagna ad Afrodite è sin da subito qualcosa di morbido, seducente e di affettivamente connotato. Questo è ciò che ci dice Esiodo (VIII-VII a.C.) 2) OMERO Il libro V è descritto come il libro delle gesta di Diomede, guerriero che combatte in maniera molto primitiva. Diomede è protetto da Atena che ne guida la mano, perché già dall’inizio dell’Iliade gli dei intervengono pesantemente sul campo di battaglia, sulle azioni umane. Gli dei partecipano allo scontro al pari dei mortali. Diomede ferisce Enea e prova a finirlo con una lancia sul fianco. Ma la madre Afrodite apre le bianche braccia, avvolge Enea e a quel punto Diomede, armato da Atena, trafigge il polso di Afrodite e da esso fuoriesce il cosiddetto ICOR, ossia il sangue degli dei. Omero dice che Diomede ferisce Afrodite perché sa che Afrodite è tenera, il suo corpo è morbido e può essere penetrato. La dea piange e si dispera, invoca Ares. Ritorna perciò sull’Olimpo sul carro di Ares, accompagnata da Iride, messaggera degli dei. C’è un momento alla fine dell’Iliade in cui Iride si fa da parte e in tutta l’Odissea non si farà menzione di Iride come divinità messaggera. Mentre Iride riferisce parola per parola i messaggi degli dei, Ermes non è legato a questa necessità, egli riferisce ma mai parola per parola. Afrodite e Iride arrivano sull’Olimpo e la dea si avvicina al padre Zeus. Qui fa la sua comparsa una madre di Afrodite, ossia Dione, che però in Esiodo non esiste. C’è però un trucco: Dione infatti ha la stessa radice di Zeus, per cui gli interpreti di questo mito sono spinti a considerare l’ipotesi che Dione venga inventata come doppio di Zeus, che essa sia la versione femminile di Zeus. Dione è una replica al femminile di Zeus. Ciò è interessante perché ci riconduce a questa ambiguità di genere che riguarda Afrodite. La ferita della dea verrà magicamente curata. Proprio in questo canto inizia a farsi strada un gemellaggio tra Afrodite ed Ares. Nell’Iliade sono sempre insieme e combattono sempre insieme. Quando Ares viene curato, Zeus non ha certo l’atteggiamento morbido che mostra nei confronti di Afrodite. Ci ritroviamo due genesi diverse: una la vede figlia dei genitali del padre, l’altra ha un concepimento normale. Entrambe vengono ricordate da Proclo che commenta un passo del Cratilo di Platone. Proclo mette entrambe le genesi sotto il cappello della letteratura orfica. A che mondo si fa riferimento 54 quando si parla di generazioni che procedono in cerchio, di stagioni che procedono in cerchio? Si fa riferimento certamente al mondo agricolo, ma le generazioni divine seguono l’una all’altra, quindi è in gioco una visione lineare del tempo. In Esiodo c’è persino spazio per un’allusione al fatto che ad un certo punto cronologicamente, arriva anche l’uomo. Mentre la visione orfico-pitagorica suggerisce un mondo in cui non esiste la scansione lineare del tempo, il tempo è circolare. Quindi per la visione orfica Afrodite rinascerà per l’eternità. Proclo, citando il passaggio orfico, mette in luce che qui c’è soltanto una concrezione materica, l’unione sessuale non trova riscontro nella prima versione. Nella seconda versione il desiderio fa la sua prima comparsa, così come fa la sua comparsa anche Dione che, in verità, non viene evocata nel frammento orfico che Proclo cita. Il simposio dii Platone è dedicato interamente alla natura dell’amore. Si ritrovano degli amici a banchetto che parlano d’amore. Abbiamo il discorso del poeta comico Aristofane. Ci sono alcuni elementi molto importanti, per esempio la posizione di Alcibiade e poi c’è un momento tutto teorico e mentale, ossia il momento in cui la sacerdotessa Diotima racconta la natura di Afrodite, la natura dell’amore. Essa dice che esistono due Afrodite: quella più antica, l’Afrodite celeste, Urania, e quella più giovane, detta Pandemia. L’Afrodite Urania conosce solo il principio maschile e quindi amerà solo i ragazzi (amore omoerotico), mentre l’Afrodite Pandemia favorisce anche l’amore eterosessuale. C’è una predilezione per l’amore omoerotico rispetto a quello eterosessuale. 12/04/2018 Afrodite è duplice e l’analisi del suo culto va affrontata da due prospettive diverse. Effettivamente Afrodite è una dea buona per pensare, così come dicono i francesi. Essa non solo è una e molteplice, così come lo sono la stragrande maggioranza delle divinità antiche, ma questa molteplicità è fatta di opposti. È miracolosamente in grado di tenere insieme l’universo femminile e contemporaneamente tutta una serie di prerogative decisamente maschili. Ciò accade già dalla sua nascita, frutto di una bizzarra concrezione dell’agglutinarsi del seme maschile e non c’è nulla di femminile nella sua genesi; non è tuttavia l’unica genesi di Afrodite, ad esempio nei miti orfici, citati da Proclo, si parla della presenza di due Afroditi; per cui c’è una Afrodite Urania che viene alla luce come quella di Esiodo dal seme del membro evirato del padre Urano, e una seconda Afrodite, che sostanzialmente nasce allo stesso modo della prima ma non è Urano il padre bensì Zeus, siamo quindi in un’altra generazione, quella successiva; In realtà per Esiodo Afrodite e Zeus sono quasi coetanei nella misura in cui dopo l’evirazione di Urano il potere viene preso da Crono, padre di Zeus, a cui però Rea dà in pasto una pietra al posto del figlio. La peculiarità di questa seconda Afrodite è il fatto di avere una madre, e ciò si ritrova già nel V libro dell’ Iliade in cui fa la prima comparsa Dione, che si occupa come una vera madre della figlia ferita sul campo di battaglia; in Omero questa presenza non è introdotta, non si spiega = per un lettore navigato di Omero ciò significa soltanto che il poeta in questo momento non sente la necessità di spiegare nulla, ma immagina che il suo lettore sia perfettamente al corrente del fatto che Afrodite abbia una madre > ciò presuppone che già nella fase di gestazione e poi di sistemazione dei poemi del ciclo omerico Dione doveva essere madre di Afrodite. Quindi non stiamo parlando di una creatura che non compare solamente qui, ma evidentemente Dione ha già una sua tradizione. Ovviamente quando noi parliamo dell’Iliade o dell’Odissea dobbiamo farlo con molto pudore, perché ci sono dei canti che sono chiaramente frutto di una tradizione. Per esempio ci sono piccoli indizi che ci spingono a credere che il famoso XI canto dell’Odisseo fosse in verità un’inserzione che viene da fuori. 55 Inserzioni a parte, Dione ha una sua dignità dal punto di vista mitico, ma con ogni evidenza è il doppio di Zeus e ne è la declinazione al maschile. Su alcune tavolette in Lineare B abbiamo la divinità maschile e la divinità femminile che è semplicemente la divinità maschile con una desinenza femminile. Per cui questa duplicazione delle divinità femminili è qualcosa di molto radicato. La sensazione di incertezza sulla madre di Afrodite è accentuata dalla comparsa improvvisa di Dione e dalla totale ignoranza sulle sue origini. chi è Dione? Si va a nominare, seppur parzialmente, un’altra specificità del mito antico quando si ha a che fare con mito ed eroi, in quanto ci sono figure che si attivano soltanto all’interno del racconto dove sono funzionali ad un’altra storia e fanno la spalla. Quindi Dione non è una figura centrale e neppure secondaria del pantheon, è madre di Afrodite, e pure Proclo, che parla della nascita di Afrodite non la cita come personaggio fondamentale (dice solo “collabora con lui Dione”); la si può immaginare all’orizzonte come oggetto del desiderio pubertoso e insopprimibile di Zeus, ma di Dione non c’è traccia. Ugualmente questa duplicità di Afrodite si riverbera nella creazione antica di due diverse figure di Afrodite, una che gli antichi consideravano Urania e l’altra che gli antichi consideravano Pandemia (= volgare); la prima, che è quella che si presentava armata (quindi è anche un’Afrodite che dal punto di vista della connotazione visiva è fortemente indirizzata in senso maschile), akràia (che abita i picchi e le vette, ed è dislocata in alto), è figlia di solo padre e quindi solo dell’elemento maschile della coppia generatrice > proprio per questo tendenzialmente istintivamente sarà portata all’amore omoerotico e non a quello eterosessuale. L’amore omoerotico nell’antica era la forma più alta d’amore, l’amore che scaturisce quando ci si innamora di qualcuno che ci è affine. Naturalmente nella visione maschilista greca e in particolare quella ateniese, la donna è concepita come strumento di procreazione. Dunque l’amore eterosessuale è un aspetto di misunderstanding: non ci si innamora di qualcosa che ci è chiaramente inferiore, ci si innamora di qualcosa che ci è pari. La seconda Afrodite invece è la signora dell’amore eterosessuale e di un innamoramento più convenzionale, più volgare perché fisico oltre che spirituale; del resto l’unico comportamento sanzionabile nel codice rigidissimo che regola la vita sessuale greca è quello di sostare in un ruolo per troppo tempo, per un tempo che le convenzioni sociali non ci permettono di utilizzare (esistevano due ruoli ben precisi, la sessualità non era libera, ma era rigidamente scandita: c’era l’amato, il giovane ragazzo – eroumenos, e l’amante, l’adulto, l’erastés). Territorio L’isola di Cipro è, secondo Delforge, terra greca ma anche uno specchio un po’ deformato, per cui tutto ciò che sembra profondamente greco a Cipro in verità ha un aspetto un po’ esotico e orientale: non a caso qui Afrodite approda appena nata; questo è il luogo che ne vede la nascita tanto da formarne l’epiteto di Kyprogeneia. Su quest’isola Afrodite aveva dunque un’importanza fondamentale: i due tempi principali sono quelli di Pafo e di Amatunte. In particolare su quello di Pafo si fa riferimento alla prostituzione sacra. Stando a Tacito i cipri avevano anche un altro tempio, ossia quello dedicato a Giove Salaminio: Tacito riporta come ai tempi di Tiberio, con l’allargarsi dei confini dell’impero, le autorità temessero che i vari luoghi di culto nascondessero luoghi di sedizione contro l’imperatore, pertanto chiamò a Roma da tutto l’impero i sacerdoti delle singole città e isole per chiedere loro di rendere conto dell’antichità dei propri templi. Per cui gli abitanti di Cipro si recano a Roma per registrare i loro tre templi (due ad Afrodite e uno a Giove). L’Afrodite cipriota, secondo Pausania, a livello di diffusione del culto viene venerata prima di quella dell’area fenicia: in realtà pone un problema ineludibile nel caso di Afrodite, ossia il tratto polisemico del suo personaggio, che si lega non solo alla nascita ma si lega al fatto che Afrodite fa parte di una famiglia numerosa di divinità che ha come capostipite Inanna (vedi slide), rappresentata a più riprese a Uruk, protagonista del ciclo di Gilgamesh (metà III-II millennio a.C.) che ha dato poi vita a Ishtar, colei che l’area semitica venerava come dea dell’amore, coeva di Inanna, dea sempre giovane, sempre ragazza, mai rappresentata come figura materna e connotata iconograficamente in modo più 56 polimorfico rispetto ad Afrodite ( piedi artigliati, ali d’uccello, è chiaramente una sorta ibrido tra Afrodite e Artemide, signora delle fiere). Secondo molti questa sarebbe l’antenata illustre dell’Afrodite greca da cui appunto, secondo Pausania, Afrodite deriverebbe direttamente. Ad un certo punto questa Afrodite approda a Cipro e diventa l’Afrodite di Cipro. Ma cosa accade a Cipro per essere considerata una terra così straniante? Per raccontare la storia di Afrodite si parte dall’episodio eroico della Vita di Teseo di Plutarco (slide): a un certo punto, così come accade in tutte le varianti del mito, Arianna viene abbandonata a Nasso, ma in una variante viene abbandonata a Cipro; già di per sé è un’idea audace, originale, dal momento che non c’è nessuna altra variante in cui Arianna viene abbandonata a Cipro. Infatti sull’isola di Cipro non c’è il copione per cui Arianna viene abbandonata dall’eroe mentre dorme e successivamente, accortasi dell’assenza di Teseo, piange e si dispera. La ragazza infatti in questo caso specifico, è incinta, ha le doglie, è davanti alle coste di Cipro sulla nave con Teseo il quale decide di occuparsi della sua nave al posto di Arianna e la fa sbarcare sperando che lei sopravviva. Giunta sulla riva del mare, Arianna viene accudita dalle donne del luogo (Cipro ha una lunga tradizione di cura generale, è terra molto accogliente: viene accolta come Afrodite), che la consolarono per la solitudine; tuttavia muore per il parto. Ciò causa il dispiacere di Teseo, che giunge a sua volta sull’isola in un secondo momento: lascia denaro agli abitanti del luogo perché possano fare sacrifici per Arianna e fa innalzare due statuette (una d’argento e l’altra di bronzo). Durante il sacrificio, celebrato il secondo giorno del mese di Gorpiaios (mese cipriota nel pieno dell’estate), un giovane sdraiato sul letto grida e imita le doglie femminili; gli abitanti di Amatunte, secondo centro più importante di Afrodite, chiamano il bosco sacro in cui mostrano la sua tomba, di Arianna Afrodite. Ogni segmento di questo mito andrebbe approfondito, ma ciò che interessa, e che in effetti interessava anche a Plutarco, è l’incredibile e unico rito che Plutarco vuole istituire: per commemorare la donna morta di parto, Teseo istituisce una cerimonia per cui una volta all’anno un uomo simula i dolori di una donna che sta partorendo. Quindi un comportamento a tutti gli effetti ascrivibile alla sfera della bisessualità e del cambiamento di genere. Non si tratta di travestimento, ma sicuramente c’è l’adozione, da parte di un genere, di comportamenti che appartengono all’altro genere. C’è in gioco qualcosa di più forte: un giovane ragazzo di età ancora poco individuata dal punto di vista del suo ruolo sociale (non è ancora un uomo adulto) finge un comportamento che non è genericamente un comportamento femminile ma è ciò che, senza rimedio, distingue l’uomo dalla donna, quindi tutta la sfera del parto. È come se Arianna, che muore senza aver potuto partorito, fosse sostituita da un uomo che ne simula i dolori. Ciò si collega ad Afrodite perché tutto questo avviene ad Amatunte, e perché, non a caso, questa Arianna dolente e defunta viene ricordata all’interno del rituale come Arianna/Afrodite: la dea prende il sopravvento e il comportamento dei giovani oltretutto si iscrive all’interno dei rituali che competono alla dea. Quindi è come se ci fosse uno scivolamento dell’elemento maschile della comunità verso l’elemento femminile. Una delle ragioni principali per cui è importante ricordare questo stranissimo rito è proprio per la rilevanza che ha questa imitazione del comportamento femminile. Imitare una donna che sta partorendo non ha nessun paragone in tutto il mito e culto di Grecia e Roma, è un unicum: è però un uso che non è sconosciuto o non attestato. Ad esempio tra i barbari esiste un comportamento abbastanza simile e anche nel mondo degli animali (il gallo, animale che i Greci consideravano simbolo di virilità e di coraggio guerresco, alla morte della gallina ne covavano le uova > erano in grado di manifestare comportamenti femminili per proteggere la prole che doveva ancora nascere; non a caso il gallo è un animale sacro alle partorienti, è una sorta di talismano per le partorienti). Il nome che gli antropologi danno a questo tipo di comportamento è couvad (covata) = i giovani ciprioti covano un figlio che non esiste; è genericamente il cappello sotto cui porre anche questo comportamento. 57 Tornando ad Afrodite, l’ambiguità del genere si collega molto all’ambito cipriota: l’Afrodite di Amatunte, secondo Pausania, si fa derivare dalla Palestina, e in particolare un santuario di Ascalona in Siria, che ospitava un importante culto della dea Siria Ishtar (Afrodite); questo culto vedeva l’adorazione di una dea che aveva il corpo polimorfo di donna e di pesce ed era signora di un lago popolato di pesci, sacri alla divinità. Ad un certo punto davanti al suo santuario sfila un gruppo di Sciri, popolazione molto barbarica, sono l’antitesi del civile: questi sono mercenari, uomini soldati, alcuni se ne vanno perché il re dell’Egitto li ha pagati per questo, mentre altri si fermano e lo saccheggiano. Erodoto spiega che il santuario in questione è molto antico ed è il più antico di quelli dedicati alla dea, perché il santuario di Cipro è derivato da questo; quello di Citera è stato eretto dai Fenici che provengono dalla stessa parte della Siria. Al gruppo di Sciti che saccheggiarono il tempio di Ascalona e ai loro discendenti, la dea inflisse una piaga femminea → generale debolezza in tutta la sfera sessuale. Afrodite trasforma questi mercenari in creature simili a eunuchi, diventano impotenti (Enarei sciiti). C’è una discreta dose di perfidia nel trasformare dei mercenari in personaggi che non hanno più alcuna carica virile dal punto di vista sessuale. Questo tipo di figure, che sembrano particolarmente esotiche, hanno una discreta fortuna a livello di permanenza nel tempo. Fra gli altri anche lo scrittore Puskin incontra un prigioniero di guerra, un contadino grande e grosso con il volto di una vecchina. Quando Puskin domanda lui chi gli avesse provocato ciò, quello risponde “Deus respondit castravit me”. Lo stesso Ippocrate, nel suo trattato “Sulle arie, le acque e i luoghi” si occupa a che degli Enarei, dicendo che la maggior parte degli Sciti diventano impotenti e agiscono come una donna, vivono come loro e vengono chiamati Enarei; ciò avviene per una causa divina → indossano abiti femminili perché pensano di aver perso la loro femminilità. Ma per Ippocrate questa malattia non è da imputare semplicemente alla divinità. egli ritiene infatti anche che una delle cause di questa impotenza fosse dovuta al continuo andare a cavallo (ci fosse dunque anche una causa organica → l’abitudine reiterata di andare a cavallo, e non solo divina). Relativamente ad Afrodite accade che questi Sciti si comportano come una donna perché colpiti dalla Afrodite di Ascalona, che è l’Afrodite di Amatunte a Cipro, e vengano dunque ricompensati dalla divinità che decide di farne un corpo sacerdotale: gli Enarei diventano allora sacerdoti della dea, passano l’intera giornata a srotolare e rotolare le cortecce del tiglio da cui traggono presagi collegati ad Afrodite > questo probabilmente era l’oracolo di Afrodite in Scizia. Questa Afrodite di Amatunte può essere definita anche alla luce di un passo di Macrobio (slide), che la pone come deus e non dea: ciò a causa del suo aspetto di donna barbuta. Abbiamo a che fare con una Afrodite duplex, che è uomo e donna contemporaneamente. C’è una sua statua a Cipro barbata nel volto, ma con la veste femminile, con lo scettro ma con la statura virile. A Cipro ritengono che sia contemporaneamente maschio e femmina. Macrobio inoltre fa intendere che Afrodite è collegata anche alla luna poiché di notte viene venerata e lo storico Filocoro (autore III secolo a.C. che fa parte degli attidografi: coloro che scrivono dell’Attica), dice sempre Macrobio, nella sua Attide spiega che è proprio la luna, e che a lei fanno sacrifici gli uomini con una veste da donna e le donne con una veste da uomo, infatti è maschio e femmina contemporaneamente. Questa è la venere di Amatunte che ha in sé questa duplicità di genere. Ciò che Macrobio dice però non trova un vero riscontro nella pratica: noi non abbiamo statue di questa Afrodite barbuta, ma abbiamo una vignetta di Luigi Palma di Cesnola, straordinario falsario. L’assemblaggio dell’Afrodite barbuta è uno dei suoi pezzi più importanti. 58 19/04/2018 Lezione professor Luca Bombardieri SOPHISTICATED LADY: Aspetti della Preistoria di Afrodite a Cipro Bisogna venir meno ad alcuni luoghi comuni che riguardano l’immaginario di Afrodite. L’anagrafe del mito ha restituito delle coordinate biografiche e geografiche riguardanti la divinità. l’anagrafe del racconto del mito ci consegna dei luoghi fatati, molto celesti, come il tratto della costa cipriota. Questo è il paesaggio in cui noi siamo portati ad immaginare la nascita di Afrodite, con elementi biografici precisi. Il primo toponimo è Milo e il primo autore che si lega a Venere è Botticelli. Purtroppo dovremmo liberarci dalle spume azzurre del Mediterraneo. Afrodite è nata nella bassa Austria, in cui un paleontologo tedesco ha portato alla luce un giacimento del paleolitico da cui proviene un oggetto che prende il nome dalla città in cui è stato rinvenuto: la Venere di Wilendorf. È una statuetta dalle curve molto enfatizzate. Per cui in realtà il nostro immaginario viene chiamato in causa. Da questo contrasto si deve partire: la venere preistorica e la venere immaginata. La distanza fra le due è immensa sia dal punto di vista cronologico che da quello culturale. Venere di Wilendorf: IL CORPO → è una figura nella quale l’enfasi della rappresentazione visiva è posta sul corpo nelle sue forme enfatizzate. Le sue forme legate alla nascita e alla riproduzione sono enfatizzate. Già in questa fase primordiale l’accento è sulla fecondità, sulla capacità riproduttiva del genere femminile. Non c’è alcuna rilevanza data agli elementi anatomici del volto, perché non c’è alcun interesse nella sua resa. Ciò che è sottolineato è unicamente l’elemento del corpo e l’enfasi degli elementi del corpo legati alla riproduzione. La figura sacra femminile, con il passare del tempo, guadagna un ruolo. SLEEPING LADY (I metà del III millennio a.C.) VENERE DI CATAL HOYUK In entrambi i casi la figura femminile acquista un ruolo: nel caso della prima la Venere si trova sdraiata (vano per l’incubazione sacra della sacerdotessa che dormiva e dormendo parlava nel sonno. Le sue parole salivano in superficie e questo eco era in realtà la parola della divinità). nel secondo caso la dea è assisa in trono. Solo molto dopo la figura sacra femminile dal corpo libero, acquista un altro elemento: il gesto. Si vede bene come dalle figure neolitiche prive di gesto, arriviamo alle veneri dell’età del bronzo che vengono ritratte in gesti specifici. La figura guadagna un gesto codificato: ossia quello delle braccia raccolte sul petto. Dal gesto semplice la figura sacra femminile acquista un gesto complesso: ad esempio la Venere di Myrtos nella quale gli elementi sessuali femminili sono enfatizzati, al pari delle prime veneri, ma il gesto è complessificato dalla presenza di un elemento in più: la brocca per compiere libagioni. È un gesto che chiama dunque in causa accessori esterni. Un ulteriore elemento è il passaggio dal gesto complesso al gesto performativo: chiama in causa un numero maggiore di figure. Il gesto non è singolo ma collettivo. Ne vediamo un esempio nella cultura minoica palaziale. In questo contesto la figura femminile sacra entra in un coro di voci e nell’ANELLO D’ORO di Isopata vediamo una vera e propria danza. 59 Un ulteriore passo è quello di acquisire un gesto di tipo evocativo, in cui il gesto viene solamente suggerito. È il caso delle figurine (a “PHI”: braccia raccolte e a “PSI”: braccia levate) micenee in cui le due tipologie sono stilizzate in modo estremo. CIPRO → la terra della dea per antonomasia, come si rapporta a questa evoluzione? Cipro è un laboratorio interessante per osservare la nascita e lo sviluppo di Afrodite, questo perché è il luogo della sua nascita. È il luogo infatti in cui è più consono immaginare la sua nascita. Essa è diventata di per sé l’oggetto della comunicazione contemporanea. Afrodite è incestata come elemento della cultura cipriota contemporanea ma nelle rappresentazioni contemporanee dalle onde esce una Venere di Milo, che non è affatto la venere cipriota (contraddizione). Questa pervasività della figura di Afrodite ha influito anche negli studi relativi ad essa: ci sono stati numerosi autori che si sono messi alla ricerca della proto Afrodite. C’è stata una sorta di congiunzione astrale per cui i lavori di Maria Gimbutas si sono saldati con i lavori degli archeologi con l’obiettivo di cercare le origini di Afrodite. Questa sorta di matrimonio ha fatto sì che per devenni questa ricerca della proto Afrodite fosse un po' un’ossessione nel dibattito antropologico. In anni più recenti il dibattito è stato portato avanti ed è stato chiamato in causa, in maniera giusta, il ruolo della donna nella civiltà preistorica cipriota. 1. La donna (Neol. –MBA) → abbiamo numerose fonti sia di natura archeologica (materiali a contesti domestici, artigianali, e a contesti funerali) sia nell’arte figurativa. In queste società in cui la scrittura non esiste o ha un ruolo marginale, la comunicazione visiva ha un forte impatto. L’artista è un tramite fra la comunità e la volontà di rappresentare un’idea attraverso un simbolo (comunicare un messaggio non verbale). La società preistorica cipriota è una società in cui la scrittura non è stata codificata, per cui l’arte figurativa rappresenta un modo di comunicare all’interno della comunità, attraverso elementi visivi e simboli. - Le donne sono rappresentate come madri, come lavoratrici e come figure sessualmente ambigue. Siamo nella fase in cui la figura femminile guadagna il gesto: figura cruciforme (la dea è rappresentata con le braccia aperte). C’è un caso specifico: ossia di un deposito sacro. Al di sotto di un ambiente circolare è stato rinvenuto un deposito contenente un cratere in ceramica dipinto che ha la forma di un grande bacino. All’interno di esso si trovano alcuni oggetti significativi: una conchiglia marina, e delle figurine in pietra. Non è un bacino perché è reso non funzionale da un foro presente sulla parete in basso. Questa apertura è la porta di un modellino che rappresenta un ambiente specifico. Si tratta perciò di una riproduzione in scala ridotta di un ambiente e le figure contenute in esso sono delle figure umane che hanno a che fare con l’ambiente stesso. Le più rilevanti sono tre figure che rappresentano due figure femminili e una figura mostruosa. La prima delle tre è una figura femminile dai fianchi ampi, è una figura di donna gravida; la figura numero 2 è una figura che non ha i fianchi allargati, ma ha un profilo a campana aperta verso il basso con una nicchia posta sul fondo. All’interno della nicchia è raffigurata una figura umana: la resa evocativa è lo svuotamento della donna dopo il parto. A questo si affianca la figura mostruosa. Elizabeth Goering ha rilevato che sulla superficie di queste figure ci sono delle tracce di manipolazione che sono compatibili con il fatto che le figurine fossero tenute in mano. Queste tracce sono molto evidenti soprattutto sulla figurina della donna partoriente. È quindi possibile che questi oggetti fossero degli amuleti legati alla performance del parto, che si svolgeva chiaramente in un ambiente sacro dedicato al culto della maternità. È molto importante per noi trovare questo punto come punto d’avvio per il riferimento alla maternità. La figura mostruosa cosa rappresenta? Bisogna analizzare la figura e cercare di collocarlo nell’ambito della performance. Un elemento interessante è la presenza nel deposito, di uno sgabello. Questi sgabelli sono noti all’interno della descrizione di questi ambienti sacri per il 60 parto, dove si partoriva in bassi sgabelli (una delle modalità con le quali si partorisce tutt’ora in certe culture). Evidentemente lo sgabello è a sua volta un elemento legato al parto e dunque è interessante la presenza di uno sgabello simbolo che ha le stesse dimensioni della figura mostruosa che molto probabilmente era collocata sullo sgabello. Ci viene in aiuto una figura itifallica: la figura maschile ha le gambe raccolte sullo sgabello, i gomiti sulle ginocchia e le braccia raccolte sul volto. I tratti di questa figura sono decisamente analoghi a quelli della figura mostruosa presente nel deposito (arcata sopraciliare espansa, bocca). Questa rappresentazione facciale è compatibile con la rappresentazione di una maschera. È possibile dunque che le figure fossero delle figure mascherate. Ci troviamo di fronte ad una figura maschile mascherata che riproduce il gesto identico della figura femminile del parto. La couvad è un complesso fenomeno studiato dall’antropologia, un insieme di tabù legati alla fase della gravidanza e del parto. All’interno di questi tabù è documentata anche la versione del compagno che finge i dolori del parto, si maschera da donna, si isola al di fuori del villaggio, e fingendo i dolori del travaglio attira su di sé i rischi della figura femminile. Questi riti di travestimento potrebbero avere in questa fase preistorica, un precedente significativo. Nello stesso periodo altre figure ci suggeriscono altre performance legate alla maternità: ossia le figurine LACTATIONS → la figura è colta in un atto specifico: ossia la raccolta del latte materno in una ciotola. L’altro elemento è quello di donna ambigua, molto presente proprio dal punto di vista della figura umana. La costruzione della figura umana contiene in luce un’ambiguità che diventa volutamente ambiguità sessuale: le figure femminile sono figure con forti tratti maschili: il collo e la testa richiamano elementi fallici. Un caso particolare è la figura del fallo seduto in cui la figura femminile e quella maschile sono associate. 2. La dea (LBA-LA): si aggiunge la figura femminile come elemento all’interno della produzione, del lavoro. Sono le cosiddette figure PLANK-SHAPED con il bambino in braccio. Ci sono poi raffigurazioni di culle con bambini che alludono alla figura della madre. Poi ci sono figure di donne gravide. In alcuni casi la culla, da oggetto reale, da contenitore del bambino, si trasfigura e diventa una donna lei stessa. Nel primo caso la culla è rappresentata coi capelli sulle spalle, nel secondo caso la culla è rappresentata con le braccia. Le due trasfigurazioni sono coerenti con il concetto di donna-madre. Allo stesso modo attua il concetto la versione funerea della donnamadre. Si aggiunge però la figura femminile all’interno di contesti lavorativi: nella JUG a Pyrgos le figure stanno compiendo azioni lavorative e in mezzo a loro si trova la figura della donna col bambino in braccio: non è solo sonna-madre, ma le viene riconosciuto un ruolo fattivo. È probabile infatti che queste figure fossero realmente delle figure che contribuivano alla produzione dell’economia: in una terracotta del Louvre le figure che stanno impastando il pane sono accompagnate da una figura di donna che tiene in braccio un bambino. Si è cercato di capire il ruolo di queste figure femminili col bambino nell’economia delle società di villaggio: molto probabilmente esse avevano un ruolo reale. A suggerirlo è una terracotta di Tebe in cui le figure femminili sono accompagnate dalla figura di un flautista. Sono moltissimi infatti i canti di lavoro legati all’espletamento fisico delle attività legate alla macinazione. La ripetizione del ritmo dà la cadenza per ripetere lo stesso gesto del lavoro. È quindi possibile che queste figure femminili cantassero, producessero dei suoni con i quali accompagnare il lavoro della comunità. Se ciò fosse vero, allora dovremmo immaginare che questa figura femminile dal calcolitico all’antico bronzo acquista un ruolo importante nella società: non è più solo la donna-madre, ma contribuisce all’economia della società. 3. La Dea internazionale (LBA-LA): vengono costruiti i primi edifici sacri propriamente detti e inaugurati i primi commerci internazionali legati al commercio del bronzo in forma di lingotti che 61 veniva estratto a Cipro. La fase del tardo bronzo si apre con i commerci. La figura femminile sacra in realtà viene declinata con gli stessi parametri, ma chiaramente associata alla divinità perché è chiaramente influenzata dall’esterno. Figure dunque di madre con il bambino, ma decisamente sacre e in alcuni casi diventano delle vere e proprie statue di culto. Mantengono la loro dualità sessuale, mantengono la stessa importanza conferita al parto. Ma questi elementi culturali autoctoni si collocano con elementi religiosi che provengono dai luoghi con cui si è a contatto. In una delle lettere dell’archivio di Ugarik, in una delle lettere lo scrittore fa menzione di tutte le divinità di Alashia. È vero infatti che a Cipro si connettono elementi di provenienza orientale a elementi iconografici locali. Si prende la divinità orientale e la si pone sul simbolo vero dell’economia reale dell’attività cipriota: ossia il lingotto. Lo stesso vale dal lato opposto per le influenze del mondo Egeo su Cipro (sincretismo e riproduzione). Per cui questa dea diventa una dea internazionale, sincretica e anche sofisticata. 23/04/2018 TESEO Tema del bizzarro rituale che Teseo istituisce per Arianna e che ha due elementi focali: - - La dedica delle due statuette: Bombardieri ha evocato un deposito cipriota di CHISSONERGA MOSPHILIA. Le statuette non venivano semplicemente utilizzate come ex voto, ma facevano parte di un rito. Il tema dei ragazzi che, una volta all’anno, imitano il parto femminile Tutto ciò sotto l’egida dell’Afrodite di Amatunte, il luogo in cui più sembra essere presente la dimensione della bisessualità riguardo al culto della dea. Afrodite è legata in qualche modo legata ad una sorta di malattia femminile che nella fattispecie sembra colpire alcuni mercenari scizi che sono responsabili della profanazione del tempio della dea Afrodite ad Ascalona. Questa Afrodite viene da lontano, dalla Palestina e che si insedia a Cipro e che colpisce i mercenari Scizi i quali vengono privati della loro potenza virile (del tutto paragonabili a degli eunuchi, dice Erodoto). Questo comportamento ci dice qualcosa che ha grande rilevanza: esiste a Cipro un comportamento che consiste nel fatto che un giovane assuma su di sé un comportamento esclusivamente femminile. Non si tratta di uno scambio di genere bensì dell’adozione di un comportamento che ha anche una sua definizione precisa e che Taylor chiama COUVAD: comportamento che va inscritto nel momento del parto e della gravidanza. Originariamnete ciò che viene descritto per i giovani di Amatunte ha un suo grado zero che non ci proviene dall’antichità bensì dalle indie occidentali e riguarda i Caribi. I Caribi, descritti da Taylor e poi da Frezer, hanno due tipi di comportamenti diversi: 1. Quando una donna sta per partorire il clan maschile della tribù imita i dolori del parto della donna, fino a quando il parto è giunto a compimento. Questa couvad è definita PERI NATALE. 2. Il padre del bambino si sottopone dopo la nascita ad una pratica di scarnificazione della pelle con un dente di pescecane e successivamente la pelle viene cosparsa di granuli di pepe ustionanti. Questo tipo di comportamenti viene definito da Frezer, una messa in scena bizzarra. Per lui sarebbe una questione magica, di magia simpatica. Nel primo caso la SYMPATHEIA, sarebbe tra il padre e la madre (il padre quindi fingerebbe di essere la madre e per lo studioso questo è un caso classico di magia apotropaica. Le forze del maligno sono spinte a concentrarsi sull’elemento forte della coppia, 62 ossia l’uomo, in modo tale che la donna possa partorire). Nel secondo caso sarebbe in gioco un altro tipo di magia: qui il legame è tra padre e figlio e l’idea è che non ci sia la soluzione di continuità fra due figure. Il comportamento del padre può assicurare la salute del figlio. In questo caso il padre sta per il figlio e sopravvivere a questa scarnificazione significa garantire la sopravvivenza al figlio. Altri 2 esempi citati da Frezer: - - In un caso si riferisce al Borneo e parla dei Daiachi. In occasione del padre la donna sta a casa. All’interno di essa entra uno sciamano che avvolge sotto il seno della donna una fascia stretta. Fuori un altro sciamano lega una pietra sulla pancia ed è circondato da altri sciamani. Altro esempio è quello che Frezer osservava per gli abitanti della nuova Irlanda. Quando una donna sta per partorire, gli uomini vanno tutti al pub e uno di loro piange davanti ad un boccale di birra. L’interesse è stornato dalla protagonista dell’atto biologico su una persona o più persone che appartengono al sesso opposto e che ne imitano i comportamenti. Ma qual è la vera differenza con i giovani di Amatunte? Ci sono tante somiglianze ma c’è una differenza sostanziale: il rito di Teseo infatti avviene ogni anno, non in occasione di un reale parto → la couvad ha come unico scopo quello di permettere al bambino di sopravvivere e di stare in saluto. Il contrario di ciò che avviene per il rito di Teseo che viene istituito per la morte di Arianna. Quindi quello di Teseo è un atto mancato. Tuttavia bisogna dire che la questione della simulazione della gravidanza e della malattia femminile si trova sviluppata in un arco molto ampio di tempo. bisogna immaginare il rituale in forte connessione con una punizione divine e con il tema della dea. Racconto irlandese medievale: IL TAIN (LA GRANDE RAZZIA): serie di racconti leggendari (XIXII secolo) che riguardano dei racconti che hanno l’eroe CIUCIULEIN al loro centro. Esso è protagonista di molte imprese ma il tema interessante è quello che si lega all’AITION di una festa religiosa, OSSIA I GEMELLI DI MACHA → ogni anno tutti gli uomini dell’Aister, così come erano stati puniti gli Scizi per aver profanato il tempio della dea, dovranno giacere a letto in condizioni di invincibile prostrazione, nelle stesse condizioni di una partoriente. Una malattia femminile anche in questo caso colpisce gli uomini. Questo tipo di comportamento che noi osserviamo per Cipro, non ha alcun riscontro in territorio greco. Abbiamo esempi di couvad che provangono da tutto il mondo ma la cultura greca non ricorda esempi di questo genere, salvo il caso di Cipro. Cosa significa questo in termini sia religiosi che antropologici? Sicuramente il tema è il tema di Cipro. Cipro è una terra greca ma con dei tratti, delle coloriture che ci impediscono di metterla a fuoco chiaramente. È Afrodite che esercita su questa terra un influsso straniante che devia dai binari della condotta ortodossa non solo dal punto di vista della creazione ma anche della prostituzione. L’Afrodite cipriota investe con grande potenza tutti i comportamenti che hanno a che fare con la femminilità. I comportamenti dei giovani ciprioti comunque sono profondamente legati al culto di Afrodite di Amatunte. I Greci non accettavano questo comportamento, ma ragionavano semplicemente sull’asse della inversione: è un modo di organizzare la tessitura della civiltà dei popoli altri, molto comodo perché ragionare sull’asse dell’inversione ci permette di fare qualcosa di molto semplice → l’incivile sarà il contrario di quello che è il civile. I Tibareni insieme ai Mossineci si mettono a letto per via del figlio e le donne vanno nei campi a lavorare. Questo genere di comportamenti arriva sino a lì: tutti i paradigmi sono rovesciati. Statuetta famosa da Aghia Irini: località investita da un culto molto longevo di una divinità maschile. In questa località sono state ritrovate anche figure femminili. È stata rinvenuta la statuetta di un’orante 63 dotata di due seni, e di una barba nera: è una figura di orante androgino. C’è poi un’altra statuetta definita minotauro: il corpo è quello di un toro mentre il busto è quello di un essere umano. Lateralmente questo minotauro ha il seno: è un esempio di ibridismo selvaggio → c’è un ibrido tra specie e un ibrido di genere (è androgino). È importante perché siamo comunque sempre a Cipro ed è appunto questo il luogo privilegiato di Afrodite. PROSTITUZIONE SACRA Non meno importante nella storia del culto di Afrodite cipriota è il tema della prostituzione sacra, che investe non solo Cipro, ma anche Corinto, Locri Epiuzefiri e si pensa anche la Sicilia, con Erice, Ovidio nel libro X delle Metamorfosi parla di Amatunte. Il poeta mette in scena l’immagine bellissima che fa parte del suo stile narrativo che prevede una grande cura nel dettaglio: il corpo umano si muta tecnicamente in una statua. La statua è l’esisto finale di un inaridimento del sangue e delle lacrime. Qui c’è però qualcosa di più, ossia il tema del pudore. Diventare pietra è anche una questione emotiva: le ragazze si trasformano in statue di prostitute che hanno le guance rosse, sono volgari. Il segno è solo uno: è Venere che le punisce. Punisce le Propetidi costringendole a prostituirsi poiché esse non la riconoscono come divinità: siamo dunque nel segno della vendetta di Afrodite. Subito dopo racconta la storia di Pigmalione. Quest’ultimo è abitante di Pafo e qui venera Afrodite, ma, disgustato dal decadimento morale che secondo Pigmalione investe tutto il genere femminile, decide che non prenderà mai moglie→ il rifiuto dell’amore è molto diverso da quello che aveva adottato Ippolito. Quest’ultimo non venera la dea, non venera l’amore. Pigmalione invece venera la dea e quindi il suo rifiuto di non prender moglie non ha nulla di offensivo. La dea infatti decide di ringraziare Pigmalione. In occasione di una festività in onore di Afrodite in cui la dea viene portata in giro per la città di Pafo, l’uomo si accoda alla processione e quando rientra nel suo atelier, accarezza il corpo della sua statua di marmo e quest’ultima si anima. Ciò che è del tutto evidente è il tema del rapporto fra il corpo femminile e la sessualità e della prostituzione. Anche per ciò che riguarda la prostituzione sacra, la fonte più importante è Erodoto, I libro delle storie: lo spazio è sacro (recinto templare), le donne giungono al tempio e accettano denaro in cambio di un rapporto sessuale. Mylitta è uno dei nomi che nella cultura babilonese si assegnavano ad Afrodite. Questa usanza c’è anche in alcune parti di Cipro. Erodoto dedica inoltre molti capitoli agli usi degli Egizi: gli uomini egiziani portano i pesi sulla testa, le donne invece sulle spalle; le donne orinano in piedi, gli uomini accoccolati. Di mantenere i genitori non c’è alcun obbligo per i figli che non lo vogliono, mentre per le figlie c’è l’obbligo assoluto anche se non lo vogliono. Questo mondo alla rovescia si ritrova in Erodoto, siamo nel II libro. La prostituzione sacra, dice Erodoto, era simile e presente anche a Cipro. se noi mettiamo questi esempi insieme, cosa si potrebbe dire? Egli descrive le usanze dei popoli altri (Erodoto getta uno sguardo da antropologo culturale sui mondi altri). Erodoto si sente profondamente greco e sente la necessità di descrivere i popoli altri, guidato da un interesse meramente etnografico. Un elemento importantissimo è il fatto che la dimensione di questa alterità si gioca ancora una volta sull’asse dell’inversione (lo si vede soprattutto quando parla degli egizi) e sull’antitesi rispetto al mondo greco (LORO vs NOI). In questo rovesciamento dei costumi è del tutto evidente che una spia chiave per decidere se un popolo è “altro” da sé, è il comportamento delle donne. La barbarie è valutata sulla barbarie dei comportamenti delle donne: le donne babilonesi sono turpi così come turpi erano le Propetidi. 64 Giustino, Epitome a Pompeo Trogo: viene ricordata un’usanza di Cipro di mandare le giovani donne giù fino al mare in giorni stabiliti prima del loro matrimonio per guadagnare denaro che serviva alla dote, attraverso la prostituzione. Quindi per Giustino questa usanza è di fatto un rito di passaggio, che si colloca in un momento fondamentale dalla dimensione di PARTHEONOS a quello di donna adulta. In questo si colloca il tema della verginità perduta. Nonostante la perdita della verginità però la virtù è preservata, virtù che permette a queste donne di diventare madri di famiglia. La prostituzione va a collocarsi sulla stessa linea dello IUS PRIMAE NOCTI. Anche in questo caso la prostituzione non comporta la perdita della virtù, poiché avviene una sola volta e mai più. Il fatto di concedersi al sovrano la notte prima delle nozze è una forma di sacralizzazione del matrimonio. Il contatto della ragazza con l’universo della sacralità. Il tema della prostituzione sacra come voto per risolvere favorevolmente un conflitto dall’esito incerto, è presente quando si fa riferimento al culto dell’Afrodite armata. Il caso di Locri ci pone dinnanzi ad un problema archeologico: ossia la presenza a Locri di due santuari, quello di Persefone e quello di Afrodite. Probabilmente, dove c’era l’altare del tempio di Afrodite, è stato rinvenuto il TRONO LUDOVISI che risale agli inizi del V secolo a.C. Questo ha un’iconografia misteriosa che sembra far riferimento ad una forma di prostituzione in onore della dea. Sicuramente quel che è certo è che il trono vada inscritto al culto di Afrodite. Per cui in qualche modo è legato al tema raccontato da Giustino. 24/04/2018 Riti che accolgono dei travestimenti, degli occultamenti dell’identità sessuale nell’ambito del culto di Afrodite. La couvade è una sorta di palestra interpretativa degli studiosi di religioni del mondo classico e degli antropologi culturali in senso lato. Negli anni ’70, un antropologo, Menget, ragiona in modo molto puntuale sulla couvade, reagendo alla sollecitazione dello studioso Rinvier. Menget dice che il dualismo corpo-anima non c’entra nulla. egli si occupa di una popolazione di lingua caribica: i Caribi si chiamano Tixikao. Essi sono una popolazione in cui il numero dei tabù e la stretta osservanza con cui questi tabù vengono osservati, ne fanno un caso interessantissimo per gli antropologi. In particolare, ciò che Menget osserva è che i Tixikao si sottopongono in gruppo ad una dieta rigidissima dopo la nascita del bambino → couvade POST NATALE (divieto delle carni rosse e dei cibi troppo speziati). Ciò che lo studioso fa è un’operazione importante: l’azione si è riverberata a partire dalle usanze o dai convincimenti che la comunità ha dopo la nascita del bambino. Ciò che osserva è che i convincimenti della comunità per ciò che riguarda il concepimento sono gli stessi che avevano gli spartiati: il figlio non ha nessun rapporto specifico di sangue nella madre; il figlio è semplicemente il seme del padre. Ci sono dei disegni anatomici in cui si vede che dal padre fuoriesce non lo spermatozoo, bensì un bambino piccolo. Il ventre materno funziona solo come una sorta di forno. Il figlio non è figlio del singolo ma è figlio della comunità. Figlio e comunità maschile non sono ancora differenziati, ma sono fatti della stessa sostanza. Il rito della couvade perciò serve a preservare questa sostanza che è ancora indivisibile. Nel momento in cui viene dato il nome e il figlio viene presentato come individuo singolo, questa sostanza si scinde. La couvade perciò serve a risolvere un nodo fondamentale: il membro della comunità deve essere separato da essa stessa. Esiste anche un altro tabù, contrario a quello precedente: ossia l’incesto. Questo riporta all’uno ciò che è stato separato grazie alla couvade che sancisce ciò che sta da una parte e ciò che sta da un’altra. Il reale tabù dell’incesto è che rimescola le sostanze e gli individui che la nascita ha separato. Nelle comunità tradizionali, dove c’è il totem, l’incesto vale anche con le persone con cui non abbiamo alcun legame di sangue ma che appartengono allo stesso clan. 65 Tornando a Cipro e ad Afrodite, una figura interessante che sempre viene chiamata in causa quando si tenta di ricostruire il culto di Afrodite, è Cinira. Esso ha rinvenuto le miniere di rame grazie a cui Cipro era così ricca. Era signore del santuario di Pafo che aveva contribuito a fondare. Sembra però che Cinira avesse iniziato ai misteri di Afrodite, una prostituta. Il tema della prostituzione sacra nell’antichità, è pesantemente messo sotto ipotesi, perché non è sicuro che sia mai esistita. Forse le fonti fanno dunque riferimento a qualcosa che non è reale ma semplicemente mitico. Cinira aveva iniziato ai misteri della dea una prostituta, ma era anche il famosissimo padre di Mirra. Il racconto è descritto dalle metamorfosi ovidiane. Essa è oggetto della vendetta di Afrodite. In una delle varianti la dea è adirata con Cinira e punisce la figlia Mirra che viene colpita da una passione amorosa nei confronti del padre. La nutrice ha un ruolo fondamentale: serve per dar voce a delle verità talmente inaccettabili da dover essere nascoste. In questo caso la nutrice di Mirra decide di mediare con Cinira: i due si uniscono più volte fino a quando il padre realizza che la donna in realtà è la figlia. Mirra sembra realizzare ciò che effettivamente aveva commesso e chiede agli dei di toglierla dalla vista sia del mondo divino sia del mondo umano. Gli dei la trasformano in albero: l’albero di mirra è un albero aromatico. Dopo dieci mesi dà alla luce il giovane Adone. Si tratta dunque non di separazione, ma di aggregazione. TESEO: eroe che si inscrive sotto il segno di Afrodite. Lo mostrano molte testimonianze. Egli prima di partire alla volta di Creta, sacrifica sulla riva del mare ad Afrodite chiedendole protezione per tutto il viaggio. Appellarsi ad Afrodite non è così strano perché in molti luoghi la dea era considerata patrona dei naviganti. Ciò che è interessante è che Afrodite rimane fino al ritorno di Teseo e fino all’episodio brutale in cui Fedra si innamora del figliastro Ippolito. Ciò che importa però è che Teseo è un eroe di Afrodite. Infatti anche Teseo strizza l’occhio, si affaccia sul tema dei cosiddetti rituali intersessuali in cui lo scambio di pertinenze, di sesso e di genere occupa un ruolo particolare. OSCOPHORIA: festa che si celebrava ad Atene, durante il mese di Pianepsione, in onore di Apollo. La stagione è l’autunno, durante il periodo della vendemmia. Questa festa, dice Plutarco nella vita di Teseo, è istituita proprio dall’eroe Teseo e aveva nel banchetto comune il momento di massima esplosione. Ciò che conta è che qui è in gioco una vera e propria educazione alla femminilità: Teseo non si limita ad ordinare un travestimento, ma educa i giovani ad essere in fondo ragazze. Ci sono altre testimonianze che dicono come i giovani venissero scelti fra i più belli della città, evocando la tematica che inscrive la bellezza in una condizione di confusione di genere. Questi giovani erano scelti da figli di cittadini ateniesi che avessero vivi entrambi i genitori, e provenivano tutti dal GHENOS dei Salamini, che aveva origine nell’isola di Egina. Questo GHENOS sembra che avesse messo le mani sulla festa prima dell’arrivo di Teseo. Ciò che dobbiamo immaginare è che esista un sostrato della festa precedente all’arrivo di Teseo e che poi quest’ultimo l’abbia fatto suo. Il tema dell’educazione alla femminilità ci permette di dire qualcosa anche sul modo in cui questa festa si articola. La processione andava dal tempio di Apollo fino al santuario di Atena SCHIRAS: processione che non partiva da Atena. Tutto veniva gestita fuori dalle mura. La festa è dedicata a Dioniso e Arianna e il fatto che sia collocata nel settimo giorno del mese di Pianepsione ha fatto pensare gli studiosi che qui sia in gioco un tipo di festa che riguarda il ciclo della natura, la vendemmia, il vino. Importante è la presenza delle DEIPNOFORIE (coloro che portavano il cibo: erano degli avanzi, quelli con cui Teseo si era cibato). È interpretata dunque come una festa della vendemmia. Esiste però un altro aspetto fondamentale che si lega a questa strategia di Teseo, prima di partire per Creta e affrontare il Minotauro. Egli inserisce nel novero delle ragazze due giovani maschi che però sembrino particolarmente femminili all’aspetto. 66 Altra interpretazione: rituale di COMING OF AGE → passaggio d’età. In questo momento, come i vede da Plutarco, ciò che regna è una sostanziale confusione di generi: il maschile e il femminile non sono ancora stati attribuiti in maniera univoca. La paura c’entra molto, c’entra in un caso come quello delle altalene e anche qui la paura è chiaramente esemplificata dalla presenza delle madri: i giovani infatti non partono da soli. Questi giovani, sulla riva del mare, sono protetti ancora dalle madri che portano loro vivano e raccontano loro delle storie. Questi racconti mitici così emblematici richiamano anche una stagione specifica della vita di una comunità: in questo caso i giovani che partono per andare a morire nelle fauci del Minotauro sono coloro che stanno per diventare grandi, e molto probabilmente non diventeranno mai grandi. Questo momento dunque è marcato da Teseo con la creazione di una festa e anche con una strategia prima della partenza in cui il travestimento, il cambiamento di genere, la fa da padrona. Legato a questa festa c’è anche un altro mito, ossia il mito delle figlie di Cecrope. Sembra che esse, Aglauro, Erse e Pandromo, fossero legate alle Oscophorie. Ciò che sembra di comprendere è che le Cecropidi non si leghino direttamente al racconto delle Oscophorie, ma si leghino invece ad Atena. Le Cecropidi sono delle ragazze che in procinto di diventare grandi non riescono a farlo. Aglauro non sopporta che sua sorella si sposi ed è letteralmente consumata dall’invidia tanto da trasformarsi in pietra. Si collocano esattamente nello stesso segmento del passaggio di fascia d’età degli Ateniesi che sono in procinto di partire per Creta. Esse, come i giovani, non diventeranno mai grandi. Fregio: mette per immagini le tematiche del mese di Pianepsione. Questi temi si rincorrono e ritrovano ovunque in Grecia. La poetessa Telesilla è definita una poetessa guerriera. Ciò che è evidente è che ad un certo punto, lo raccontano Erodoto e Plutarco, si mette al comando di una piccola rivoluzione guerresca di alcune donne argive che decidono di contrapporsi a Sparta e al re Cleomene. La datazione della battaglia di Sepeia è il 494 a.C. Erodoto, amante dei sogni e degli oracoli, dice che un sogno aveva predetto a Cleomene che avrebbe vinto Argo e dunque, fiducioso, va incontro al nemico. Quando si rende conto che l’esito è incerto, decide di spingere, con l’inganno, gli argivi in un bosco e dà fuoco al bosco. Il bosco si chiama Argo: dunque l’oracolo si riferiva al bosco e non alla città. In seguito all’imboscata di Cleomene i cittadini argivi sono tutti morti. Plutarco racconta la storia in maniera più interessante, nei Moralia (“La virtù delle donne”). È uno dei racconti più celebri di un’usanza attestatissima: il travestimento durante il matrimonio. - C’è un richiamo iniziale al fatto che Telesilla, come tutte le donne, era fragile di salute, a cui l’oracolo dice di dedicarsi alle Muse e alla poesia. Quando c’è penuria di uomini, le giovani prese da un furore guerriero, salgono sulle mura e gli spartani spaventati fuggono via. Quelle morte ricevono in premio di essere seppellite lungo la strada per Argo (come gli eroi). Viene eretta una statua ad Enialio, un equivalente di Ares, è un dio della guerra. Pausania ci dice che venne eretta anche una stele per Telesilla e che questa fosse nel tempio di Afrodite ad Argo. La battaglia è l’aition, la ragione per cui è stata istituita una festa di inversione dei ruoli. Non ci sono uomini: Erodoto dice che le donne si unirono agli schiavi, mentre Plutarco dice che esse si unirono ai perieci, dopo averli resi cittadini. Ma le donne li disprezzano socialmente e si rifiutano di giacere con loro. Venne fatta una legge che stabiliva che le donne sposate portassero la barba per dormire con i loro uomini. A Sparta l’usanza prevedeva che le giovani in età da marito venissero rasate e vestite d’abiti maschili. Le fonti dicono tutte che lo sposo non sapeva di questo travestimento. A Cos invece i ragazzi 67 indossavano abiti femminili la prima notte di nozze e ciò avveniva per ricordare un episodio strano: quello in cui l’eroe Eracle, giunto a Cos, avesse questionato con un pastore a cui aveva chiesto un ariete. Il pastore si adira ed Eracle, per evitare lo scontro, si rifugia nella casa di una donna che per nasconderlo, lo traveste di abiti femminili. Questa storia è l’aition per cui i giovani di Cos si travestivano da donne. CRETA: festa degli EKDYSIA → festa della svestizione. La versione più famosa ce la ricorda un letterato greco, ossia Antonino Liberale, la cui opera famosa sono le Metamorfosi. È un autore molto concreto. La metamorfosi 18 è quella riservata al caso di Leucippe. Questa fonte ci introduce ad un tema nuovo che convive con quello del travestimento: ossia il tema della metamorfosi. Il travestimento è nelle facoltà umane, mentre la metamorfosi è nella facoltà divina. In effetti, nella grandiosa creazione del politeismo antico in cui gli dei sono antropizzati, gli dei ovviamente hanno delle capacità che spesso gli uomini non hanno ma hanno invece gli animali. Fino alla pubertà era possibile nascondere il sesso di Leucippe, ma giunta la pubertà Galatea deve rivolgersi alla divinità che trasforma Leucippe in uomo. Antonino Liberale elenca una serie di occasioni mitiche in cui un personaggio è passato da un sesso all’altro: Tiresia infatti, dopo aver visto due serpenti che facevano l’amore e averli separati e uccisi, fu trasformato in donna, e successivamente trasformato in uomo per la stessa ragione. Il corpo di Cenide, violentata da Poseidone, su richiesta della giovane, si muta in uomo e diventa impenetrabile. Anche in questo caso si tratta di una metamorfosi di genere. Nel caso di Cenide e nel caso di Leucippe, il premio della divinità è la trasformazione in uomo. Nel caso di Tiresia e di Siprete, che vede Artemide al bagno, la metamorfosi in donna è una punizione. Il caso meno conosciuto citato da Liberale, è il caso di Ipermestra che veniva venduta a caro prezzo dal padre. La donna, figlia di un povero che sperpera il proprio patrimonio, viene data in sposa a Glauco, figlio del brigante Sisifo. Ipermestra non ama Glauco e perciò scappa sulla spiaggia dove viene trasformata in uomo da Nettuno. In altre varianti la donna ritorna a casa cambiando il suo aspetto e il padre, accorgendosi della sua capacità di cambiare aspetto, pensa di venderla ogni settimana in forma diversa. Questa Leucippe di cui parla Antonino Liberale, non è l’unica che porta questo nome. Esiste, collocato ad Elea, un Leucippo innamorato di Dafne, la quale faceva parte del corteggio di Artemide, e quindi era una fanciulla che aveva consacrato la sua verginità alla dea. Leucippo per starle vicino si traveste da donna, ma una volta scoperto, viene ucciso. A Creta c’è un altro Leucippo innamorato della sorella gemella e per questo motivo viene punito. È del tutto evidente come il tema del travestimento sia un tema molto forte. Che tipo di collocazione allora possiamo dare a questo tipo di metamorfosi di genere? Questo momento è ancora una volta una situazione in cui il fatto che i ragazzi di Teseo non siano ancora diventati grandi, Leucippe sia in fase di pubertà, gli sposi si travestono, serve per cambiare a ciò che sarà nella vita adulta. In questo caso si cerca di ingannare le forze maligne, trasformando l’elemento più debole, ossia la donna, nell’elemento più forte, ossia l’uomo. Sono comportamenti che hanno a che fare con l’identità di genere: l’identità sessuale va definita attraverso la rottura dei vincoli e dei limiti. Lo sperimentare l’opposto per ritornare a sé in maniera più definita. Il travestimento dei giovani compagni di Teseo non è qualcosa che lede la loro identità virile, ma è qualcosa che la rafforza. Attraverso l’incursione nell’altro genere i giovani tornano più forti di prima. Dunque sperimentare l’altro genere come metodo per definire l’identità. 68 26/04/2018 Perché Venere presso gli Spartani è armata? Si è molto insistito sull’ambiguità di genere che contraddistingue i culti e i riti che hanno a che fare con i momenti di passaggio di fascia d’età presidiati da Afrodite o Venere. Quando abbiamo iniziato a lavorare sulla dea, con il grandioso affresco di Esiodo nella Teogonia, abbiamo visto come questo aspetto della bisessualità di Afrodite sia soltanto alluso. Il corpo descritto da Esiodo infatti è il corpo di una KORE, di una fanciulla che non ha ancora conosciuto l’iniziazione sessuale; e contemporaneamente è anche la statua che descrive la fanciulla. Afrodite è la quinta essenza della femminilità, è una potenza della natura in grado di far nascere la vita, ma già in questo racconto primordiale, che descrive la nascita della prima Afrodite, c’è qualcosa che limita questa femminilità così strabordante, ossia la modalità della sua nascita. Una nascita violenta che proviene direttamente dal membro del padre Urano. In effetti la genesi di Afrodite nata da solo padre, è piuttosto un unicum nella cultura antica: la madre è davvero assente (nel caso di Atena Zeus ingoia una delle sue spose che è incinta e Dioniso ha una sua prima gestazione nella pancia della madre Semele). Afrodite invece prende vita dalla spuma del mare. L’Afrodite celeste dunque nasce solo dal principio maschile. La dea rappresenta fin da subito la quinta essenza della femminilità ma è composta solo da materia maschile. Queste due cose stanno insieme in un’Afrodite celeste, urania (AKRAIA: un’Afrodite che abita i picchi perché è in contatto con un elemento supero, è implicitamente, talvolta anche esplicitamente, più degna di venerazione). L’Afrodite volgare (PANDEMOS) è meno oggetto di culto. Ciò che importa è che questa Afrodite sembra che venisse venerata in armi. Il suo corpo di fanciulla era in qualche modo limitato dalla presenza delle armi che la dea teneva nella mano destra (lancia, scudo e rarissimamente un elmo). Ciò è una norma di rappresentazione che vuole che, quando una statua ha più pertinenze su di sé, quelle maschili siano tenute a destra e quelle femminili a sinistra, secondo una distinzione molto netta: a destra sta ciò che è nobile e puro, a sinistra invece ciò che è meno nobile, oscuro. Questa Afrodite veniva quasi sicuramente venerata in armi. Una studiosa contemporanea dice che in realtà noi non abbiamo prove concrete di questa divinità armata. Giampiere Vernant parla di Afrodite nel suo rapporto con la guerra che ha anche una declinazione nel culto e nel rito, ed è naturalmente il rapporto con il dio della guerra, Ares. Egli dice che Afrodite contiene dentro di sé sia l’elemento maschile, sia quello femminile. Nella Teogonia compare per la prima volta come coppia il binomio Afrodite-Ares. Qui Afrodite ed Ares sono sostanzialmente una coppia prolifica, che genera due demoni, che sono sostanzialmente le personificazioni della paura e dello sconvolgimento. Il binomio guerra e amore è sintetizzato dall’incontro tra Ares e Afrodite. In altre occasioni questo incontro darà vita ad Eros. Ma questa visione di Esiodo che non è così strana e inconsueta, nell’Iliade sembra essere lasciata da parte. Nell’Iliade avviene un ulteriore slittamento, e Afrodite sembra perdere, per quasi tutto il poema, le sue pertinenze guerriere. Nel V canto, che parla moltissimo di Afrodite, dedicato alle gesta di Diomede, l’eroe si scontra sia con Ares sia con Afrodite. Prima ferisce Afrodite (morbidezza del corpo di Afrodite che può essere penetrato dalla lancia di un mortale; è chiaramente il corpo di un essere vulnerabile) che successivamente corre sull’Olimpo da Zeus. Quando sta per salire in cielo accompagnata da Iride, ha bisogno di un carro e chiede al fratello Ares di darle in prestito i suoi cavalli. Dunque se in Esiodo Afrodite è sposa di Ares, nell’Iliade invece i due sono presentati come fratelli. Era fratello anche perché, dopo pochi versi, Diomede si accanisce contro Ares e lo ferisce allo stesso modo. Quindi i due sono anche accostati dal punto di vista anatomico, corporeo, sono i due dei ad essere penetrati da una lancia da parte di un umano. 69 Nello stesso canto, quando Afrodite arriva sull’Olimpo e Dione la consola, intervengono Atena ed Era prendendola esplicitamente in giro. Questo segmento del V canto sembra darci un’indicazione molto precisa, che dal punto di vista delle religioni, è proprio un’assegnazione delle competenze: Zeus infatti dice che ad Afrodite non competono le cose di guerra, che riguardano invece Ares e Atena. Il XX e il XXI canto sono attraversati da una grande Teomachia, in cui gli dei combattono sul campo. Nel XXI abbiamo questo segmento in cui Afrodite ed Ares sono accostati. “Lui prese per mano e via lo condusse la figlia di Zeus, Afrodite.” Atena ha afferrato letteralmente Ares, che giace sul campo di battaglia e Afrodite interviene per portarlo fuori dalla mischia. Accadono qui due cose di segno uguali-opposte: - Innanzitutto il fatto che Ares, il dio della guerra, sia sconfitto da Atena. È dunque un dio della guerra che però è chiaramente fragile. Interviene Afrodite, chiamata da Era “mosca canina”. Essa, come nel V canto in cui aveva tentato di proteggere Enea, anche qui entra nel conflitto per proteggere Ares. Odissea VIII libro: la scena si svolge alla corte dei Feaci. Odisseo si lamenta e Alcinoo decide di organizzare per lui una sorta di spettacolo (i Feaci sono famosi per le loro capacità nell’arte della danza). In mezzo ai danzatori si fa largo il cantore Demodoco che intona il canto, narrando gli amori di Ares e Afrodite. Afrodite è sposa di Efesto, e appena il dio Fabbro va altrove, Ares e la dea si uniscono. Ma il Sole riferisce la cosa ad Efesto, il quale organizza il tranello mediante cui i due vengono intrappolati e da questo meccanismo le due divinità non riescono a divincolarsi. A questo spettacolo assistono tutti gli dei. Gli interpreti dicono che qui c’è un’altra versione della storia: nell’Iliade i due sono fratelli, nell’Odissea sono amanti. Questa unione che non si riesce a separare è anche l’unione dei due aspetti di Afrodite tutti insieme. Quando gli dei vengono chiamati ad assistere allo spettacolo, vedono anche un’Afrodite armata, vedono anche l’elemento della guerra che è, per l’appunto, rappresentato da Ares. L’Afrodite AKRAIA è indubbiamente anche l’Afrodite celeste: altezza fisica e morale convivono nel culto di Afrodite. E quasi sempre, quando Afrodite è Akraia, essa è anche armata. Non è diverso il passo descritto da Eliano nella sua opera “Sulla natura degli animali”: questa Afrodite è armata ed è l’Afrodite di Erice (la Venus Ericina). Il tempio di Afrodite ad Erice sorgeva in cima alla collina e si diceva che fosse stato inaugurato e fondato da Enea appena approdato in Italia, che aveva deciso di dare sepoltura al padre Anchise sotto la vetta di Erice. La madre e il padre così sarebbero stati uniti per l’eternità. Qui si fonda il culto. Questo tempio di Afrodite era il più potente del mediterraneo e nessuno osava profanarlo, fino a quando Amilcare Barca, fiducioso nella possibilità di Cartagine di vincere Roma, devasta il tempio di Afrodite. Ma la dea, così come avvenne per la profanazione del tempio di Amatunte, punisce Amilcare e i cartaginesi e una delle ragioni del loro fallimento nelle guerre puniche si deve proprio, secondo gli antichi, a questa profanazione del tempio. Nel passo di Eliano c’è l’incontro di due mondi a confronto: il mondo del sacrificio che però viene riletto nelle pertinenze del culto di Afrodite che è potenza generatrice (infatti dalle ceneri del sacrificio nel tempio di Erice, nasce un’erbetta fresca). AFRODITE ARMATA Una statua di Afrodite armata c’era nei luoghi di culto più importanti di Afrodite. Nella parte più alta di Corinto c’era un santuario di Afrodite armata che venne più volte venerato dai fedeli durante le guerre persiane. Ci sono delle testimonianze che ci dicono che le eteree (prostitute d’alto borgo) si 70 recavano al tempio per chiedere alla dea di proteggere la Grecia dai Persiani. Anche questa Afrodite era in armi e proteggeva i soldati. Era dunque una pertinenza specifica della dea quella di dar voce alle istanze di chi si affidava a lei. Tra i tanti luoghi in cui Afrodite si presenta in armi, l’unico caso in cui noi siamo certi che tutte le statue di Afrodite fossero in armi, è quello di Sparta. Sicuramente gli Spartani hanno accolto l’immagine di Afrodite in armi in un’età molto alta (VI-VII secolo a.C.). La fonte più importante ci viene da Pausania. L’autore, parlando di un santuario costruito su due piani, descrive la statua di Afrodite situata nel piano inferiore al santuario di Morpho: la statua della dea è lignea, perciò non particolarmente alta (gli XOANON infatti sono statuette, e non assumono mai dimensioni impressionanti). La dea Morpho, la cui statua invece è situata sul piano superiore, è un’ipostasi di Afrodite, ossia un’incarnazione di Afrodite ad un altro livello. Questa Morpho è una dea complicata da analizzare perché è seduta, ha un velo e ceppi intorno ai piedi, simboleggiando nei ceppi la fedeltà delle donne per i loro mariti. È una dea austera, che presiede al matrimonio, non c’è alcun accenno alla seduzione e all’elemento erotico. In questo caso noi abbiamo assommate, l’una sopra l’altra, in uno stesso complesso templare, due incarnazioni opposte di Afrodite: l’Afrodite del V dell’Iliade, e l’Afrodite armata. Per alcuni studiosi che hanno cercato di interpretare questo passo c’è contemporaneamente in gioco il binomio morte-vita: energia vitale (rappresentata da Afrodite armata) accompagnata dall’idea mortifera (rappresentata da Afrodite assisa e velata). Ciò che è vero è però che Pausania si sbaglia. Non è affatto vero che esiste solo questo caso di complesso templare articolato su due piani. Abbiamo un altro esempio: siamo nel V libro della Biblioteca Storica di Diodoro Siculo. Questo libro è stato definito un insulario poiché in esso si parla di isole e di riti e culti ad esse connessi. In particolare Diodoro Siculo si occupa di riti minoici e racconta che Dedalo venne punito per aver fornito ad Arianna lo stratagemma del filo per salvare Teseo. Allora Minosse, quando Teseo portò a termine la sua missione e uccise il minotauro, punì Dedalo ponendolo al centro del labirinto insieme al figlio Icaro. Con lo stratagemma delle ali, Dedalo giunse in Sicilia alla corte di Cocalo (che significa conchiglia, ma la conchiglia è anche descritta dagli antichi come il labirinto marino). Qui ad un certo punto venne raggiunto da Minosse e quest’ultimo utilizzò uno stratagemma molto simile a quello usato da Odisseo per smascherare Achille, travestito da donna, sull’isola di Sciro: si recava di corte in corte nel mediterraneo proponendo un indovinello: chiunque fosse riuscito a far passare un sottile filo rosso all’interno di una conchiglia e lo avesse fatto passare dall’altra parte avrebbe ricevuto un premio. Dedalo fu l’unico in grado di far passare il filo e dunque Minosse contrattò con Cocalo la sua restituzione. Ma Cocalo non voleva restituirlo: Dedalo infatti aveva costruito per lui templi e terme. Così mentre Minosse faceva il bagno, Cocalo rovesciò sul suo capo della pece bollente e il re cretese morì annegato in una vasca. C’è dunque il problema di seppellire Minosse. Nel territorio di Cocalo, dice Diodoro, c’era la tomba di Minosse, che era a due piani: nel piano inferiore era collocata la tomba, nel piano superiore invece la statua di Afrodite. Questo si è un unicum, e ha fatto pensare alcuni studiosi che siamo di fronte ad un’idea di compresenza all’interno di uno stesso tessuto tombale, di una dimensione mortale (rappresentata da Minosse) e una dimensione dell’eternità (rappresentata da Afrodite). C’è un legame forte tra Minosse ed Afrodite. Pugliese Carratelli crede che questa presenza di Afrodite sia legata in maniera indissolubile a Minosse, e ciò fa pensare che Afrodite e Creta e i miti minoici siano legati fin da sempre. 71 SPARTA: unico posto in cui Afrodite veniva venerata sempre in armi. Plutarco dice che Afrodite, secondo gli Spartiati, quando attraversa l’Eurota, depone i braccialetti e gli specchi, per imbracciare la lancia e lo scudo. Tutte le divinità a Sparta sono armate. Ciò che Plutarco dice è che Afrodite depone le sue pertinenze iliadiche, gli specchi, i braccialetti e la cintura istoriata: la cintura rappresenta tutta la potenza seduttiva della divinità. Afrodite senza cintura non è seduttiva. Il tema della presenza dell’Afrodite armata è sicuro per Sparta ed è piuttosto attestato dall’età ellenistica (gemma raffigurativa del III secolo a.C. da Eretria, in cui Afrodite è armata). Ci sono poi una serie di monete di età augustea: il tema della venere in armi è un tema che viene sostanzialmente dall’età sillana. Silla si è messo per primo sotto l’egida dell’Afrodite armata. Afrodite inizia a fare la sua comparsa ben prima che Virgilio facesse di lei il nume tutelare del poema ciclico romano. Almeno un secolo prima infatti vengono coniate monete in cui Venere fa la sua comparsa. Ciò che è evidente è che per Augusto il binomio Afrodite armata-imperatore è strettissimo e lo è a partire da Silla che si poneva sotto la protezione dell’Afrodite armata. Da Silla in poi il binomio è molto ben attestato. Fra le testimonianze più interessanti c’è un frammento di DYNOS dall’Africa in cui si può leggere il nome della dea Afrodite e il nome di un gigante MIMOS che l’affronta in combattimento. Torniamo al corpo della dea: nell’Iliade il corpo della dea è morbido e penetrabile. La morbidezza, la fragilità e la vulnerabilità sono caratteristica dell’Afrodite iliadica. Afrodite in armi può in qualche modo risultare speculare ad un’altra divinità, ossia Atena. Antonino Liberale aveva citato Tiresia: egli ha due episodi forti legati al suo mito: 1. Uno ha a che fare con la bisessualità: egli viene tramutato in donna per aver ucciso due serpenti nell’atto di unirsi. 2. L’altro ha a che fare con il suo accecamento. Callimaco, poeta ellenistico, dedica a ciò un intero inno. Tiresia, in apparenza, si rende responsabile di un’empietà: vede Atena che sta facendo il bagno, vede la dea nuda e per questo immediatamente punito con la cecità. La cecità è strettamente connessa alla sessualità. La madre di Tiresia supplica Atena di restituire la vista al figlio, ma la dea risponde che c’è una legge dai tempi di Crono che impedisce ai mortali di vedere il corpo della divinità. Ma cosa può aver visto Tiresia? Che cosa era il corpo di Atena nel momento in cui Tiresia lo ha di fronte? Atena tra l’altro è una dea che non disdegna la compagnia dei mortali, eppure Odisseo non vede la divinità (la tragedia di Sofocle si apre con Atena ex machina che dialoga con Odisseo, il quale sente la sua voce ma non la vede, mentre gli spettatori sì). Tiresia dunque vede prima di tutto il corpo di una PARTHENOS, di una vergine, ma che cosa distingue la PARTHENOS dalla KORE? Sul corpo della PARHENOS c’è una sorta di tabù, essa non può essere vista. La PARHENOS è una verginità emblematica e quindi non può in alcun modo essere contaminata dalla vista. Parlando di Atena, Omero accentua qualcosa che fa anche per gli eroi: il corpo della dea infatti non è mai descritto nella sua interezza, ma è fatto di schegge anatomiche, è l’occhio della dea, è la mano della dea possente, che tesse oppure imbraccia lo scudo, e poi è le armi di Atena; ciò che manca è il corpo. Manca sempre l’istante della nudità e tutto il V canto, e l’Inno di Callimaco, ci dicono sempre la stessa cosa: il corpo di Atena è le armi che lei indossa. Una studiosa arriva ad ipotizzare anche che Tiresia non abbia visto nulla. Talvolta Apollodoro dice “Tiresia non ha visto Atena, ma ha visto il palladio (la statua maschile di Atena) e avendo visto il palladio è stato punito con la cecità”. Questo accecamento di Tiresia potrebbe essere l’aition della pratica consolidata del bagno della statua della divinità. In questo senso Afrodite e Atena sembrano essere uguali e opposte: sono entrambe giovani, e guerriere, ma anche diverse: il corpo di Afrodite è visibile, quello di Atena invece no: essa viene rappresentata dal suo sguardo. 72 Lo sguardo della Glaucopide Atena è uno sguardo che è anche in grado di pietrificare. Il suo sguardo trasforma in statua grazie al potere della gorgone Medusa. Il tema dello sguardo compare anche fortissimo nel mito di Afrodite: lo strabismo, lo sguardo morbido e seduttivo. Al suo opposto si colloca lo sguardo di Atena, che è uno sguardo cupo, piatto, duro e opaco, è lo stesso colore del mare in tempesta. In Afrodite tutto è brillante e scintillante. Afrodite poi nasce nuda, nasce fanciulla, il suo corpo è sotto lo sguardo di tutti, Atena invece nasce già vestita delle armi. Dunque forse Tiresia non ha visto nessuno. 3/05/2018 AFRODITE URANIA SUL BOSFORO Bosforo: contesto marginale e periferico rispetto alla Grecia. In effetti è ad Afrodite Urania che dobbiamo assegnare quelle pertinenze che hanno a che fare con le ambiguità di genere sessuale. Urania è quell’Afrodite che proviene direttamente dal seme del padre, e quindi è alta, pura, celeste. È la declinazione della dea più interessante da valutare, perché in effetti è una presenza piuttosto pervasiva anche nei territori oltre confine. Spesse volte, andando a cercare in territorio iranico, ci rendiamo conto che questi territori sono stati in grado di cristallizzare degli elementi mitologici in maniera più nitida rispetto ai Greci, almeno dal punto di vista iconografico. Il culto di Dioniso in Iran. Ad esempio, è accompagnato da un’iconografia meravigliosa che non troviamo in territorio greco. Afrodite Urania sembra che avesse sul Bosforo, sulla sua sponda asiatica, un tessuto templare collocato nella città di Apaturum (APATURIE: feste dell’inganno). Apaturum, che i Greci avevano inteso come il loro inganno, in realtà sembra non c’entrare nulla. C’è un mito, con protagonista Eracle, che costituisce l’AITION dell’epiteto della dea Apaturum, poiché l’eroe, chiamato dalla dea che era stata attaccata dai giganti, riuscì ad ucciderli con l’inganno. Questo piccolo mito è interessante perché ci permette di rilevare che in questi territori il ruolo di Eracle, dal punto di vista dell’introduzione del culto della dea, è davvero fondamentale. L’Anatolia in generale è un territorio brulicante di commistioni religiose, e quindi questa non è la dea di Erice, ma è una dea che fonde tutte le pertinenze. C’è poi un racconto di Erodoto che contiene elementi interessanti e che riferisce circa le origini del popolo scita, secondo la tradizione greca: - - Furto degli animali: nei racconti del mito e folklorici greci, la comparsa del tema del furto del bestiame (ossia del cosiddetto abigeato), che non è un atto neutro, ma si configura come un atto fondativo che si concretizza con l’incontro della divinità. La divinità di questo racconto non è completamente umana (natura anguiforme di Afrodite: come l’Afrodite degli Sciiti che è anch’essa anguiforme ed è chiamata Argimpasa) La confusione che qui si gioca fra le specie: Eracle si unisce con una donna che non è completamente umana Il figlio dell’eroe o del dio deve essere riconosciuto come tale. Come si riconosce il vero figlio di Eracle? Si riconosce con una prova che mette in campo alcuni simboli araldici della natura eroica del padre, come ad esempio l’arco. Essi dovevano essere in grado di tendere l'arco e cingersi in vita la cintura così come faceva lui. Quelli che ne fossero stati in grado, avrebbero potuto dimorare nella Scizia, gli altri no. Solo il terzogenito, Scita, fu in grado di tendere l'arco cingere la cintura come Eracle, e così fu il primo re della Scizia. 73 - Per Erodoto questo è l’aition che spiega l’origine della stirpe regale degli Sciiti. Quello che noi notiamo è che nelle tombe di questo avamposto della Grecità, troviamo molte terracotte con raffigurazioni della dea anguiforme e anche rappresentazioni di Afrodite Urania. Il bosforo fonde gli elementi che vengono dall’Iran, e nella terra degli Sciiti diventano qualcosa di originale, declinabile sia sul territorio greco sia sul territorio turco. In questa zona l’Afrodite Urania è la divinità a cui vengono date più offerte, ancor più di Apollo, che è il tessuto connettivo di tutta l’Asia minore. Mosè di Calacanta parla di un’Afrodite venerata da alcuni eletti, dea degli indovini e degli stregoni. Da questa dea deriva tutto il grande tema della Scizia che è lo sciamanesimo, tema che copre un’area geografica e un arco temporale molto ampio. Torniamo ad Atene. Pausania ci dice che ad Atene il culto di Afrodite Urania venne istituito da Egeo, ritenendo che non avesse figli e che alle sorelle fosse toccata la loro sventura sempre per l’ira di Afrodite Urania (Teseo invece fonda il culto di Afrodite Pandemia). Apparentemente Egeo è sterile, quindi l’istituzione del culto della dea si lega pesantemente al tema della fertilità. Infatti Egeo poi interpellerà l’oracolo sul tema della sua sterilità. L’oracolo dà un responso molto ambiguo, lui tornando si ferma alla corte di Trezene dove si unisce alla figlia del re che rimane incinta di Teseo. L’istituzione del culto è dunque del re Egeo. Il culto di Afrodite Urania ad Atene ha un ruolo fondamentale. Erano stati citati i santuari di Afrodite dei Giardini che occupavano le balze delle colline del Partenone). L’Afrodite Urania è un’Afrodite che sola riceve offerte di sacrifici di animali. mentre l’Afrodite Pandemia, quella dei Giardini, ricevono di solito offerte senza sangue (piccole torte di miele, orzo, grano). Nel tempio di Afrodite Urania sull’Acropoli sono stati rinvenuti molti oggetti: uno proveniente dalla bottega di Apollonio → brocca a figure rosse. Rappresenta una scala: allude alle famose Adonie, feste in onore di Adone che venivano celebrate in estate. Esse comportavano la creazione di piccoli vasi rotti in cui venivano messi semi di orzo, di finocchio, di lattuga, riposti poi sui tetti. Sono dei giardinetti destinati a morire subito perché celebrano la morte di Adone, l’essere mortale più amato da parte di Afrodite, che viene ucciso da un cinghiale nel pieno della sua giovinezza. È rappresentata dunque la dea Afrodite che sale sulle scale, di cui si serve per deporre i cesti sul tetto. La dea Afrodite lamenta la morte di Adone. Il tema del lamento di Afrodite ha una ricaduta, nel culto della dea, molto significativa. Tolomeo Efestione nella sua opera che lui ha chiamato “La nuova storia”, narra una serie di aneddoti: Afrodite si sarebbe gettata dalla rupe di Leuca per la morte di Adone. Il balzo nel vuoto esemplifica bene il dolore per la morte del giovane amante. Adone nato dalla mirra, e Adone celebrato da questi giardinetti pensili e caduti: su questa ambivalenza lo studioso Marcel Detienne ha scritto un libro dedicato alla mitologia degli aromi: modo di leggere i racconti del mito che dia la giusta importanza a degli elementi che noi non mettiamo in luce. La mirra, ricorda Detienne, appartiene ad un universo secco, profumato, mentre la lattuga appartiene ad un universo umido, macilento e non ha nessun odoro. Dunque Adone orbiterebbe tra due universi: uno è l’elemento vitale (rappresentato dalla mirra) e poi l’elemento mortale (rappresentato dalla lattuga). Questo in effetti è accaduto ad Adone: egli era talmente bello che la dea decide di averlo per sé. Ma Persefone le contende l’amore di Adone che nasconde il giovane. Giove decide di assegnarlo per un terzo dell’anno ad Afrodite, e un terzo dell’anno a Persefone (Adone dunque per 2 terzi dell’anno oscilla tra la vita e la morte). Adone decide di scegliere di passare la parte restante dell’anno con Afrodite. Persefone si adira e gli scatena contro un cinghiale che lo uccide. 74 Questo Adone ha anche delle caratteristiche particolari a Cipro. Pausania ci dice che a Cipro esisteva un tempio dedicato ad Afrodite e ad Adone. Fozio, nella sua biblioteca, dice che Apollo, divenuto androgino, con Afrodite faceva la parte del maschio, con Apollo indossava panni femminili. Addirittura a Cipro si pensava che Adone rappresentasse quello che per gli Egizi era stata Osiride. Parlando in generale di Adone, Filostefano, in un’opera dedicata ai Parti, dice che Adone era nato da Giove senza alcuna unione sessuale con una donna. Questo ovviamente ci riporta ad Afrodite e alla sua nascita. Cipro sembra catalizzare una serie di elementi conturbanti in cui le pertinenze di genere sfuggono e si riaggregano e questo tema si ripercuote su Adone. Adone è il giovane senza esser mai diventato grande, ma è di una bellezza assoluta, è esageratamente bello. Questo tema della bellezza esagerata è un tema che in Afrodite ha un ruolo importantissimo: sempre collegato ad Afrodite infatti è l’amore per Faone. Faone è il barcaiolo per cui Saffo si sarebbe suicidata. Faone entra anche pesantemente in gioco nel mito di Afrodite. Traghettava chiunque gli chiedesse di essere trasportata: una vecchia gli si fa innanzi e gli chiede di essere trasportata. La donna, che in realtà è Afrodite, ringrazia Faone e regala lui un unguento che lo diventare bellissimo. Egli diventa così sfacciatamente ricercato, così bello, che viene ucciso. Afrodite poco prima che lui morisse, così come aveva fatto con Adone, nasconde Faone in una lattuga. Elemento che accomuna Faone e Adone: bellezza che deve essere punita. Inoltre mentre Adone nasce dall’albero della mirra, è già aroma egli stesso, Faone è un semplice barcaiolo che quindi ha bisogno di un aiuto esterno, ossia dell’unguento che è fatto di odoro, e di cui però Faone fa un uso eccessivo. La dea si prende una disperata ed eccessiva cura per le creature maschili che ama, mentre non ha nessuna cura per le donne. La vendetta della dea, come abbiamo detto, è sempre strabica. Ma l’amore per Adone, l’amore per Faone, è assoluto. Ma il legame è destinato a sciogliersi nel momento in cui la vita chiama a sé un mortale che non potrà mai essere al pari della divinità. Sul tema della bellezza assoluta, dell’amore per la bellezza si concentra il culto di Afrodite. La morte prematura vuole dimostrare che è proprio quello il momento giusto per morire: quando si è al massimo della propria bellezza e, in generale, quando si è al massimo della virtù eroica. Dunque l’Adone androgino è quello di Cipro. Non possiamo capire se Fozio alludesse ad una metamorfosi di Adone, oppure ad un semplice cambiamento di genere. Questo Adone somiglia ad Afrodite anche dal punto di vista della nascita e sembrerebbe proprio rispondere alla necessità di riportare Adone nel solco di Afrodite. Che caratteristiche aveva questo culto di Afrodite Urania ad Atene? Le Adonie sono non un festival di sole donne, ma un festival a prevalenza femminile. Il segmento della festa che riguarda la creazione e il posizionamento sui tetti dei piccoli giardini, è esclusivamente femminile. Sembra che le Adonie fossero una festa delle giovani spose, esemplificata proprio da questa presenza della scala. La scala rimanda anche al cambiamento di vita: in basso si è giovani donne, in alto si và verso l’amore e verso e il matrimonio. Contemporaneamente il basso rappresenta la vita e l’alto rappresenta la morte. Il matrimonio è visto come momento di felicità, ma anche come momento pauroso, orrifico. Ma queste Adonie sono una festa della licenziosità: vi erano i banchetti a cui le donne invitavano non i propri mariti, ma i propri amanti. Era una festa in cui andavano in scena vere e proprie orge accompagnate da momenti musicali. Erano dunque delle feste sfrenate, dell’amore libero. È dunque una festa organizzata dalle eteree, dalle concubine. L’altra connotazione molto forte è il fatto che l’elemento nuziale convive con tutto il tessuto connettivo che ha a che fare con le eteree. Questo lo possiamo vedere per uno spazio cultuale che è collocato più in basso rispetto al tempio di Afrodite Urania, che è stato inaugurato nel 430. Questa area prevedeva una serie di 75 elementi sacrali, ma anche di case e botteghe ed è molto probabile che questo complesso ospitasse dei bordelli. Sono state rinvenute infatti molte statuette di divinità femminili non greche: ciò fa capire che le prostitute erano straniere. Le prostitute e le eteree spesse volte erano schiave. Soprattutto sono stati rinvenuti tantissimi pesi per il telaio e ciò ha dato molto a cui pensare: sembra strano che in un contesto in cui venivano ospitati dei bordelli, ci fosse un interesse per la tessitura. Pare infatti che la tessitura sia una sorta di elemento simbolico che serve a decifrare anche il mondo delle prostitute e delle eteree. In particolare è piuttosto citata la coppa del pittore di Euaion (475 a.C.) in cui è rappresentata una donna che tesse, e ha un abito semitrasparente. Questa donna è incorniciata da due giovani uomini e al loro fianco ci sono due eteree. Dunque la donna che tesse è la tributaria di un bordello. Appartenente a questo contesto c’è un bellissimo medaglione d’argento (380 a.C.) in cui è rappresentata Afrodite colta in un contesto piuttosto consueto: è Afrodite assisa su un caprone. Le pertinenze della dea sono rispettate, perché vi è rappresentata la scala (chiara allusione alle Adonie). Il caprone è accompagnato da una figura che sembra vagamente Ermes. C’è poi un cielo trapunto di stelle, ci sono delle colombe e c’è anche Eros alato. Questa è che tecnicamente viene chiamata EPI TRAGIA (l’Afrodite sul caprone). Anch’essa ha un suo mito che ha a che fare con il mito di Teseo. Plutarco, nella vita di Teseo, ci dice che anche all’inizio del suo viaggio Teseo invoca Afrodite e sacrifica ad essa: sceglie la capra più bella delle sue greggi e la immola ad Afrodite. Allora sulla riva del mare, accade un miracolo: la capra sacrificata si trasforma miracolosamente in un caprone e quindi da ultimo alla dea si sacrifica un caprone e non una capra. Il genere sessuale della vittima sacrificata ha un ruolo fondamentale: è particolarmente importante che qui questo animali cambi di genere perché Afrodite, che poi proteggerà Teseo verso Creta, già confonde le acque. Luciano, nei suoi dialoghi delle cortigiane, ricorda che esse sacrificavano ad Afrodite Urania il caprone. Per cui la pertinenza è molto più solida di quella che si potrebbe pensare. La presenza di Eros alla nascita di Afrodite, in età arcaica, è bel rappresentata da un vaso del V secolo. Molto curioso e poco interpretato è un piccolo vaso a figure rosse che mette in scena la nascita di Afrodite: la dea nasce dal basso. Ai lati ci sono Ermes e un sileno. Il tema dell’Afrodite EPI TRAGIA è evocato nella raffigurazione più celebre di Afrodite: quella di Afrodite sul cigno. Da ultimo c’è il Trono Ludovisi (470 a.C.): è interessante. Sono tre altorilievi che incorniciano un altare. Nel pannello frontale viene descritta la nascita di Afrodite che emerge dal basso. I due pannelli laterali raffigurano un etera e una donna sposata in un contesto che pare essere simbolicamente significativo ma che noi non intuiamo che cosa possa rappresentare. Afrodite è il nodo centrale, lateralmente le due creature femminili sono disposte esattamente nella stessa posizione: ma una è nuda e suono un AULOS (è un’etera), l’altra invece è vestita e ha il capo coperto (simbolo della pudicizia). I due pannelli ci fanno pensare che ciò che possiamo dire con sicurezza è che l’Afrodite Urania è la dea delle spose (celebrate nelle Adonie), ma è anche la dea delle eteree (che celebrano Afrodite nelle stesse feste). Nel caso di Adone il tema della bisessualità gioca un ruolo molto importante. 76 7/05/2018 INNO AD AFRODITE Lavoreremo sull’inno di Afrodite pseudo-omerico, leggendo sia il maggiore sia il minore. In tutti e due i casi siamo però negli inni pseudo-omerici. Si chiamano inni pseudo-omerici un corpo di inni per la divinità raccolti già dall’antichità sotto l’etichetta di Omero. In realtà risalgono attorno al III secolo a.C. È un corpus che contiene inni maggiori e minori. Per cui quando noi parliamo dell’Inno ad Afrodite parliamo di un componimento piuttosto lungo che nell’antichità veniva attribuito ad Omero, ma che noi invece adesso sappiamo non esserlo più. Gli inni ad Afrodite non sono gli unici inni dedicati a questa divinità: in particolare l’Inno ad Afrodite di Saffo, il componimento in onore di Afrodite del poeta Mimnermo, e poi la tradizione dell’Orfismo: innografia orfica. La nostra base di partenza è l’inno ad Afrodite pseudo-omerico. Questo inno è funzionale: idea di Afrodite che è la divinità che è spesso affiancata dai suoi paredri: eroi giovani, nel fiore degli anni. Quello a cui si dedica più versi in questi inni è Anchise. Quando è stato composto quest’inno? Datare gli inni omerici è quasi impossibile. Da un lato l’inno ad Afrodite appare un testo poetico molto vicino al testo omerico, in più l’inno parla di un segmento particolare della biografia mitica di Afrodite che corrisponde con il momento in cui le divinità. e in particolare Zeus, decidono di ripagare Afrodite della sua stessa moneta, provocandole un amore invincibile per un mortale. Ecco dunque l’amore per il principe troiano Anchise, un amore a cui la dea non può assolutamente opporsi. L’inno è ambientato a Troia, sul monte Ida, il monte in cui era stato portato Zeus bambino, dalla madre Rea per nasconderlo al padre Crono che avrebbe voluto divorarlo. Viene accudito dalle ninfe e circondato dai cureti che danzano intorno alla grotta provocando un rumore molto forte per far sì che il pianto di Zeus bambino non venga udito dal padre. Che cosa accade in particolare sul monte Ida? Avviene l’incontro con Anchise: dall’unione di Afrodite e Anchise nascerà Enea. È assicurato il destino di regalità che spetta ad Enea. Se noi ci volgiamo al XX canto dell’Iliade, ad un certo punto il dio Poseidone, dirà che la stirpe di Enea è destinata a regnare. Così l’interprete dell’inno ha pensato che l’autore dell’Iliade sia lo stesso dell’autore dell’inno. L’antichità dell’inno sarebbe confermata in effetti dal fatto che la lingua dell’Inno somiglia particolarmente a quella omerica. Tutti gli interpreti però sottolineano il fatto che questa è, come tutta la poesia greca antica, una poesia di committenza che fa sì che il poeta sia un professionista. I poeti si muovono per le corti. Per ciò che riguarda la poesia si può intuire che sia il XX canto dell’iliade sia l’inno ad Afrodite sono scritti in un momento in cui il ghenos dei Priamidi non è il solo protagonista. Il poeta infatti introduce questa nuova famiglia, quella degli Eneadi. Questo momento così particolare si può collocare attorno al 700 a.C., in un momento in cui il territorio era dominato da famiglie troiane ma già sotto un’influenza greca. Quando la regione della Troade comincia ad essere soggetta alla città di Mitilene. I detrattori di questa ipotesi dicono invece che il testo è troppo perfetto, è troppo omerico. C’è un problema di fondo: se esiste una sola versione del testo che si è tramandata, non può avere avuto una fase di gestazione orale. I detrattori dell’antichità attribuiscono dunque l’opera ad un poeta ellenistico, che intorno al 300 avrebbe composto un Inno rifacendosi ad Omero. Un’altra ragione per cui questo inno è complicato, è il contenuto stesso dell’inno. Innanzitutto il componimento è pieno di digressioni; d’abitudine gli inni per la divinità veicolano un’immagine del divino in cui il tema della sacralità ha un ruolo preponderante → questa patina sacra manca invece nell’inno ad Afrodite. Questo inno è la situazione in cui ci viene restituita un’immagine più 77 normalizzata della divinità. Essa viene raffigurata come una mortale qualsiasi che si innamora di un mortale qualsiasi. Anchise è una persona normalissima, non è Adone. Dunque un inno alla divinità in cui la lode del divino è sostanzialmente assente. Pr riassumere: - Linguaggio omerico Due datazioni: una molto alta coeva alla prima redazione dei poemi omerici; l’altra molto bassa che lo attribuisce ad un poeta ellenistico Riduzione molto umana e mortale della figura di Afrodite. Il raffronto principale è il De rerum natura di Lucrezio. Afrodite viene infatti invocata quale potenza generatrice. Al v. 65 Afrodite viene colta come quell’energia dell’unione amorosa che avvolge la natura tutta. Dove lei incede provoca questa tensione generatrice che pervade gli elementi della natura, e tutti gli esseri viventi che si uniscono. Lucrezio si nutre di questa matrice. Il dato curioso è che In Lucrezio Afrodite-Venere è protettrice degli Eneadi. Altro tema interessante è il fatto che è essa viene definita dea di Cipro. non necessariamente se una divinità è chiamata Cipride o Citerea, il poeta sta facendo riferimento ad un contesto geografico. Esistono degli epiteti che si ritrovano anche quando l’invocazione è panellenica e non locale. Ma per questo inno più di un interprete ha voluto leggere nell’incipit un’allusione esplicita al contesto cipriota. Questa Afrodite dunque è prima di tutto un’Afrodite alla maniera di Lucrezio, perché è una potenza. Il fatto che sia da inscrivere nel cappello dell’Afrodite-Venere che ha a che fare con gli Eneadi, è dovuto al fatto che molto presto Venere-Afrodite era molto presente nel tessuto italico, specie in Sicilia (Venere Ericina). C’è un’epigrafe ritrovata nel Lazio che corrisponde al III secolo a.C. che riporta scritto: “Per il Laride Enea”. Il primo aspetto dunque è quello di Afrodite come dea della natura. L’altro aspetto fondamentale è la sua bellezza. Piuttosto singolare nella storia del mito della dea, è il fatto che questa immagine come dea della potenza generatrice, lascia il posto ad Afrodite come dea della bellezza, dell’incantamento. Nell’inno invece abbiamo una via di mezzo. Questa infatti è anche la dea della bellezza. All’interno della tessitura innodica la sua bellezza è contemporaneamente una bellezza naturale, ma è anche contemporaneamente bella perché la sua bellezza è qualcosa di ricercato di voluto. Si trova spesso negli Inni un’allusione al viaggio della divinità e i luoghi che la divinità percorre sono luoghi significativi del suo culto: Pafo e Cipro. cosa ci sta dicendo l’autore dell’Inno? Afrodite non può arrivare a Troia e poi sedurre Anchise se prima non si è preparata, perciò si affida, nel suo tempio di Pafo, alle Grazie che ornano la divinità. Trattandosi di un inno per la divinità ci muoviamo in una zona polisemica: il poeta fa riferimento alla narrazione mitica di Afrodite ma anche al rito che riguarda la statua. Le parole del compositore dell’inno sono le parole che servono per il rito, ossia il momento in cui la statua della dea viene adornata e unta d’unguento, all’interno del contesto templare. Il profumo che emana dalla divinità e contemporaneamente dai luoghi della divinità, è connesso alla divinità che è essa stessa la dea del profumo. Altro tema che si ricollega a ciò è il fatto che sembra evidente che nella maggior parte dei casi la seduzione di Afrodite sia un’opera di attenta costruzione dell’immagine. Nel caso di Afrodite, e Afrodite è un unicum fra le divinità greche, essa possiede un oggetto magico che la rende seduttiva, ossia la cintura. È come se nella cintura magica fossero riposte tutte queste cose messe insieme. Nel XIV canto dell’Iliade Zeus dà proprio una descrizione 78 dell’impatto di questa cintura di Afrodite sul corpo di Era, e parla di come sia impossibile resisterle. Effettivamente Afrodite è in grado di provocare quello struggimento che non ha eguali. Questa bellezza che non ha eguali ma contemporaneamente ha bisogno di un aiuto (delle grazie che la adornano e della cintura) ci riporta ad un terzo elemento che mette in relazione l’universo della bellezza e quello della potenza generatrice: la presenza a fianco di Afrodite della figura delle Ore, figure, come le Grazie, deputate a servire la divinità, a fornire la divinità delle sue peculiarità. Le Ore fanno Afrodite ancor più bella, e le Ore sono le divinità personificate e sono l’incarnazione dei cicli della natura. Dunque riconnettono la divinità a questa sfera primordiale: Afrodite come divinità dei cicli della natura. In Attica inoltre Afrodite era venerata con le Genetilladi (divinità minuscole che presiedevano alla nascita). Talvolta il suo tempio era vicino alle fonti che curavano dalla sterilità. Ad Amatunte poi c’era la festa della “KARPOSIS”, ossia la festa dei frutti che era collegata ad Afrodite. Questa prossimità rispetto alla qualità generatrice della natura, quando viene trasportata nel culto, è davvero pervasiva. Afrodite aveva un culto ad Atene come Afrodite dei giardini, Saffo, nel suo inno per Afrodite, dice alla dea di aspettarla in un bosco di meli; per cui la prossimità con l’elemento naturale è fondamentale ed è molto forte in tutta la tessitura dell’inno. - Natura Bellezza Contaminazione tra questi due mondi Afrodite, nell’Inno, è la compagna di Anchise. Ciò riporta al legame di Afrodite con il matrimonio, che è un legame piuttosto dubbio. Eschilo spinge a ritenere possibile che per certi versi la dea, nella dimensione del culto, possa sovrapporsi ad Era. Era rappresenterebbe il canone formale del matrimonio, il vincolo legale, mentre Afrodite rappresenterebbe l’unione carnale. Pausania ci dice addirittura che veniva venerata un’Afrodite-Era. Anche perché l’epiteto GAMOSTOLOS andava bene nell’antichità sia per Afrodite sia per Era, quindi c’era una qualche connessione tra le due dee. La cosa più curiosa è che c’era l’usanza da parte delle vedove che volevano trovare un nuovo marito, sacrificavano ad Afrodite (Pausania). Contenuto dell’Inno L’editore Filippo Cassola, nella sua introduzione dichiara che siamo di fronte ad un inno che fa riferimento ad una delle incarnazioni della grande madre e dei suoi paredri. Effettivamente Afrodite compare molto spesso in relazione ad una figura maschile che rappresenta un suo satellite, ma che è certamente inferiore a lei, sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista dell’età, e che è destinato a morire nel fiore degli anni. Il connubio tra dea e paredro è un connubio che conosceva già la religiosità minoica. È forte sicuramente anche per Afrodite. Qui la dea è in qualche modo, anche se non completamente, una dea madre, poiché fertile, che si unisce per una occasione soltanto con il suo paredro che in questo caso è Anchise. D’abitudine i paredri sembrano avere la sola funzione di fecondare la divinità. una volta esaurita la loro funzione devono scomparire. Ad Anchise però è riservato un destino diverso. Anchise ha una fortuna longeva. Anchise, per il fatto di aver rivelato l’amore con Afrodite (gli amori con la divinità sono sacri e non devono essere rivelati) viene punito e diventa AMEMENOS: il MENOS è una sorta di energia guerriera senza cui l’eroe non esiste. Perciò AMEMENOS indica l’assenza di questa energia e talvolta è epiteto per indicare i trapassati. Perciò questo epiteto potrebbe addirittura voler dire che Anchise è morto. Ad Anchise dunque viene tolta la virilità: l’uomo sopravvive ma deprivato della sua dimensione di virilità. In ogni caso il paredro dunque non fa una bella fine. 79 Mito a cui si allaccia un culto molto preciso (Ovidio Metamorfosi XIV). Siamo a Cipro. Un giovane fenicio, Ifi, ama una ragazza di altissimo lignaggio, Anassarete. Le è inferiore di rango e per cui non può in nessun modo sposare Anassarete, la quale tra l’altro è fiera e superba e ha il cuore più duro del ferro e della pietra. Il giovane perciò capisce che non ci sono speranze e si impicca alla porta di Anassarete. Lo sbattere del corpo di Anassarete sulla porta spinge i servi ad uscire dalla porta. Anassarete, dall’alto del suo palazzo, si affaccia alla sua finestra, per vedere il misero funerale di Ifi, ma rimane pietrificata. Questo è importante perché sia in Ovidio sia in Antonino Liberale, è la genesi di un culto molto particolare: quello della Venere alla finestra (la VENUS PROSPICIENS). Questa Venere che guarda fuori è già descritta come se fosse una statua e richiama una qualità specifica: il fatto di essere assassina. Ad Astarte la dea è rappresentata affacciata alla finestra: l’artista insiste sugli occhi che pietrificano e uccidono il paredro che le è inferiore. 8/05/2018 Gregory Nedge è un filologo molto celebre che ha molto lavorato sull’oralità. Egli ha riflettuto su alcuni tratti di questo inno e ha valutato che il modo più giusto per rendere grazie a questa Afrodite era pubblicare un inno ad Afrodite in versione fumetto. Ha deciso di affrontare questo inno dal punto di vista del “comic”. Torniamo all’Inno ad Afrodite. L’interpretazione che fino agli inizi del ‘900 è stata prevalente, cioè che questo inno sia stato composto in un contesto cipriota, di recente è stata sostituita da altre suggestioni e ipotesi. Una in particolare dice che questo inno sia stato composto in una terra di confine, collocata non a Cipro, ma nella Troade. Questa ipotesi serve ad interpretare alcune caratteristiche dell’inno. Anche per Faulkner il contesto è molto importante perché questo inno sarebbe la prova di quella contaminazione di ambiti tra oriente e occidente. L’autore dell’inno dunque risentirebbe di un clima di questo genere. Alcuni elementi ci spingono a riflettere sul rapporto che questa Afrodite intrattiene con le sue gemelle orientali, ad esempio Ishtar e Inanna. L’inno ad Afrodite ha un attacco di pragmatica: ha un attacco epico, non particolarmente originale, che l’innografia accoglie accanto all’ invocazione diretta della divinità. Qui è invocato un mediatore, ossia la Musa. L’oggetto del canto ovviamente non sono le muse, bensì Afrodite. Sempre Faulkner ricorda che qui, subito dopo l’invocazione, ci troviamo difronte a tre micro inni uno successivo all’altro che non riguardano Afrodite. Poi abbiamo il segmento in cui Zeus decide di infondere in Afrodite l’amore per Anchise, e poi la partenza della dea. Afrodite arriva a Pafo dove viene ospitata la scena della vestizione della dea. Il viaggio procede e approda all’Ida dove il pastore Anchise, principe troiano, sta pascolando le sue greggi. Avviene dunque l’incontro tra i due che presenta alcune caratteristiche molto particolari: la dea si presenta ad Anchise come una giovane nobile proveniente dalla Frigia. Dopodiché c’è il segmento della svestizione e poi quella dell’amplesso che viene pudicamente tralasciata. Segue il sonno profondo di Anchise, il risveglio di Anchise e il riconoscimento della natura divina della donna con cui si è unito. Vi sono poi una serie di digressioni: la storia di Eos e Titono, e il ratto di Ganimede ad opera di Zeus. C’è poi una parte tecnica in cui la dea spiega ad Anchise che il figlio che nascerà sarà destinato a governare, che sarà allevato dalle ninfe degli alberi, e che al quinto anno d’età verrà nuovamente affidato al padre. 80 È dunque un inno molto complicato. Spesse volte gli inni maggiori contengono un episodio saliente. In questo caso invece noi abbiamo un inno che contiene molti elementi significanti di per sé. Siamo in uno stile e in un impianto tradizionale che ci viene direttamente da Esiodo (Afrodite è accompagnata infatti dagli epiteti Cipride e Citerea). C’è un dettaglio che ci fa riflettere: il poeta, subito dopo l’invocazione alle Muse, dice che vi sono tre dee che Afrodite non può ingannare, una è Atena a cui sono care le guerre, poi Artemide che ama i clamori della caccia e infine Estia, vergine in eterno. Questa digressione è decostruzionista rispetto alla natura sacra dell’inno, anche perché qui non si tratta di evocare altre tre divinità; queste divinità infatti vengono descritte nelle loro peculiarità. C’è una sorta di depotenziamento della dea Afrodite che, in qualche modo, passa in secondo piano. Su Atena e Artemide non c’è molto da dire: è da sottolineare che qualcuno ha voluto leggere nel primo micro inno in onore di Atena, un parallelo con il libro V dell’Iliade. Mettendo Atena qui per prima è come se il poeta volesse assegnare alle altre divinità delle peculiarità che Afrodite non ha. È un’interpretazione affascinante, ma manca Era la dea del matrimonio per eccellenza. E tuttavia potrebbe sorgere un’altra obiezione: Era infatti non è immune ad Afrodite, al contrario si serve delle sue vesti, come si vede nel XIV libro dell’iliade dove chiede in prestito alla dea la sua cintura per sedurre Zeus. Estia non viene così frequentemente evocata in un contesto sacralizzante come quello dell’Inno. Un dettaglio è proprio all’inizio: qui infatti Estia viene evocata come prima e ultima figlia di Crono. Questa è l’unica volta in cui troviamo il tema del cibarsi dei figli. La rinascita dalla pancia del padre viene chiamata una nuova nascita. Allude quindi al fatto che Crono divorava i suoi figli: quando Zeus lo costrinse a vomitarli essi vennero fuori in ordine inverso a quello di nascita (quindi Estia che era la prima rinasce per ultima). È interessante che la liberazione dallo stomaco di Crono sia considerata una nuova nascita. Il giuramento divino è quello sullo Stige. Qui invece dice che Estia giura toccando la testa del padre. Estia ha una complessità di culto originata da ciò che ci dice l’autore dell’inno: ella siede nel centro della casa ma è venerata in tutti i templi degli dei. Ora il poeta, dopo questi tre micro inni, deve riportare l’attenzione su Afrodite. Tuttavia c’è un’altra digressione. Successivamente con l’immagine di Afrodite punita da Zeus, l’interesse si colloca nuovamente sulla dea. Zeus le infuse nel cuore il dolce desiderio di Anchise, che soleva pascere gli armenti e simile nell’aspetto agli immortali. A questo punto inizia il cosiddetto: JOURNEY OF POWER: viaggio per l’acquisizione del potere. È un motivo non solo mitico, ma anche folklorico e si distingue per il fatto di avere un unico protagonista e di costituire la modalità attraverso cui questo protagonista acquisisce il suo potere. Potremmo fare l’esempio di Eracle, Giasone, Teseo, Dioniso, Ermes. Ci sono poi dei micro-viaggi in sui si descrivono le tappe di Era. Quello che è una piccola rivoluzione è che la personalità che viaggia in questo caso sia femminile, ossia Afrodite. I viaggi della sposa sono i viaggi che le donne mortali e immortali compiono per sposarsi. Quindi questo è per Afrodite una trasformazione che dovrebbe essere prodromica ad un cambiamento della figura mitica. 81 MODELLI: I modelli che qui sono in gioco sono Ishtar, divinità babilonese che in molti sovrappongono ad Afrodite, e Inanna che invece è l’incarnazione sumera della stessa tipologia divina. Queste figure stanno alle spalle della nostra divinità. Anchise, il poeta dice, è un pastore e pascola le greggi sull’Ida. È collocato dunque in un contesto che è ossimorico rispetto alla vita cittadina. Non è dunque un approdo urbano, Afrodite non si inserisce in un ghenos di potere troiano, Afrodite si reca su un monte e si unisce con un pastore. Già questa quindi è una connotazione fondamentale. Il luogo in cui i racconti mitici sono ambientati sono infatti pertinenti. Il dio-paesaggio che sta alle spalle della narrazione dell’inno, è la montagna. Qui abbiamo la prima similitudine: infatti i primi grandi amori di Ishtar e Inanna sono pastori: Tamutz è un perfetto equivalente di Adone, e poi Dumuzi che è in effetti l’innamorato di Inanna e a volte di Ishtar. Per cui l’oggetto dell’amore è molto simile. Un altro elemento molto simile è quello in cui si parla del bagno della dea e dei suoi ornamenti: anche in Ishtar e Inanna troviamo riferimento al bagno della dea. Probabilmente qui siamo difronte all’idea che sia esistita una statua della divinità che veniva lavata, ornata e profumata. Ovviamente anche per Afrodite e per il mondo greco esistono questi esempi di raffronto di questo tema del bagno: anche nell’VIII dell’Odissea Afrodite si prepara ad unirsi ad Ares dopo essersi bagnata. Addirittura c’è chi ha pensato che l’autore dell’Inno sia lo stesso dell’autore dell’VIII libro dell’Odissea. Afrodite dunque giunge sul monte Ida seguita da fiere. Anche l’unione fra Ares e Afrodite è più volte ricordata nelle fonti antiche. L’esempio più famoso è quello del poeta Lucrezio. È molto interessante l’immagine del dio della guerra che si arrende ad Afrodite. Ed è proprio questo, ossia il dio che ha perso la vis guerresca, che dobbiamo tenere a mente. C’è una sorta di ampliamento prospettico rispetto alla vestizione di Afrodite a Pafo. Il poeta insiste sulla statura di Afrodite, simile nella statura e nell’aspetto ad una vergine fanciulla. Perché è così importante? Quando Afrodite, dopo essersi unita ad Anchise, lo lascia arreso al sonno e poi lo risveglia, il poeta la descrive così: “La divina fra le dee si erse nella capanna e il suo capo toccava il tetto ben costruito”. Il tema della statura della divinità è un tema molto importante, è uno dei fattori identitari del divino. Il tratto principale che distingue la divinità è la statura. L’altro tratto è il peso specifico delle divinità: le divinità sono pesanti. Il tema dell’impronta è un altro fattore identitario importantissimo. L’impronta del dio sarà sempre più grande. La statura di Afrodite non è ininfluente: potremmo ricordare che nell’immaginario di un compositore di un inno sacro, la statua di culto con tutta la sua importanza dal punto di vista della statura e della pesantezza, è per forza l’orizzonte. Il poeta infatti sta componendo per un contesto sacrale. L’incontro con Afrodite ricalca l’incontro di Odisseo con Nausica. Noi troviamo ovunque nell’epica, il paragone immediato della bellezza della donna mortale con Afrodite. Ma Anchise sceglie di non identificarla con Afrodite in prima battura. Anzi, inizialmente la identifica con Artemide e con Leto. Qui il poeta decide di offuscare e detonalizzare la potenza della divinità in un elenco che va di pari passo con ciò che aveva fatto all’inizio componendo gli inni nei confronti delle altre divinità. Anchise, pensando che quella che si trova davanti sia una divinità, chiede ad Afrodite di raggiungere la vecchiaia felicemente, non chiede l’immortalità. Questa è una cosa ancor più strana. L’allusione alla vecchiaia in un dialogo che è prodromico all’unione sessuale con Afrodite, è ironica. Ma Afrodite nega di essere una divinità e si presenta come una ragazza venuta dalla Frigia e fa un discorso molto 82 tecnico che ha a che fare con l’apprendimento della lingua: viene dalla Frigia ma ha appreso la lingua dei Troiani da piccola grazie alla nutrice. Ma c’è una spia che insospettisce gli interpreti: il fatto che qui venga posto il problema linguistico stride fortemente con il contesto mitico e sacrale. Nell’epica arcaica infatti non esiste distanza linguistica né distanza religiosa: i Greci e i Troiani venerano esattamente gli stessi dei. Quindi gli interpreti si soffermano sul fatto che questa area del Mediterraneo sia davvero un incontro di culture. L’autore dell’inno sta parlando ad un pubblico che è diverso da quello dei poemi omerici, è un poeta che ha che fare con un mondo di confine. È in gioco tutta una serie di pertinenze linguistiche e religiose che fanno di questo territorio, la Troade (sede probabile della composizione dell’Inno) un territorio simile a Cipro. Qualcuno ha sottolineato il fatto che la presentazione in famiglia cui allude Afrodite, potrebbe essere una polemica nei confronti di quella che è la famiglia regnante a Troia, ossia i Priamidi, una famiglia in cui i figli illegittimi vivono nella stessa casa dei figli legittimi. Quella di Anchise invece è una stirpe in cui tutti vengono dalla sua stessa stirpe. La parte dell’amplesso viene elegantemente allusa, ma ciò che non viene alluso è il momento della svestizione. Questo momento è sostanzialmente un unicum: la divinità è denudata ornamento dopo ornamento. Gli studiosi sottolineano come questo sia un modello orientale che noi applichiamo alla figura di Ishtar. Uno dei suoi miti più celebri è quello in cui la dea Ishtar decide di compiere un viaggio nel mondo dei morti. Ogni portinaio del mondo degli inferi chiede ad Ishtar di togliersi una parte dei vestiti. La dea dunque giunge nuda nel mondo degli inferi. La svestizione della dea viene considerata un momento molto preciso anche nei miti babilonesi, sumeri, accadi. In seguito all’amplesso la dea infonde un dolce sonno in Anchise e si erge nella capanna. In seguito Afrodite sveglia l’uomo e quest’ultimo si copre gli occhi e supplicandola pronuncia parole alate (formula tipicamente omerica), poiché ha timore di diventare AMEMENOS, ossia impotente. Ha paura di venire privato dalla dea, della sua potenza virile. Nella saga di Gilgamesh è presente più volte il fatto che la dea chiede all’eroe di unirsi a lei, ma lui rifiuta sempre poiché sa a cosa va incontro. Anche nell’Odissea compare questo tema, ossia il tema dell’unione con la divinità femminile: Odisseo, prima di congiungersi a Circe, vuole delle garanzie e pretende da lei un giuramento, sotto consiglio di Ermes. Esiste però un grande tratto di discontinuità: una diversità che risiede nel fatto che mentre Inanna e Ishtar vengono spesso descritte nell’atto di fare l’amore, e derivano dall’atto erotico la loro potenza, in Afrodite invece notiamo qualcosa che ha a che fare con il piano dell’etica e del sacro. Afrodite colta nell’atto dell’unione, è umiliata. Afrodite che si abbassa nell’atto di fare l’amore con un principe pastore, non è felice, è umiliata. Non è l’esplosione della sensualità. In questo la dea Afrodite non somiglia alle sue partner orientali. Ishtar, Inanna e Afrodite sono uguali perché unico è il mitema, cioè il tratto che le mitizza come figure simili. In questo caso il poeta non sarebbe consapevole della sua allusione alle dee orientali. L’alternativa è che il poeta sia invece consapevolissimo: conversazione consapevole con il mondo che sta ad Oriente, e che cioè stia guardando ai miti e non al mitema. 83 14/05/2018 ANDROGINO Il discorso è prodromico alla trattazione dell’androgino. Uno dei temi più significativi è tutta la coloritura orfica che impregna il mito di Afrodite e di chi ad Afrodite si accompagna. Tutta l’innografia orfica (gli inni orfici perché esiste quasi una sorta etichetta tematica che li riguarda, perché orfica è la materia di cui si plasmano: una parte è giocata spesso sugli inni che si ricollegano a Dioniso. Si sono orfici ma il dionisismo ha una grossa parte in questi inni). Ci sono una serie di inni interessanti. Un dato importante che ci permette di ragionare su Afrodite è il fatto che gli inni orfici sembrano partire da una dimensione sinestetica della religione: non sono solo parole, ma sono anche profumi. Molti inni indicano anche il profumo che si ricollega al dio o alla figura genericamente divina investita della preghiera dell’orante. La filosofia dei profumi ci riporta ad Afrodite e ad Adone, dio che è profumo egli stesso in quanto figlio dell’albero della Mirra. Inno 55 che si ricollega ad Afrodite: alla prima Afrodite, quella Urania, nata dalla spuma del mare. Di lei il poeta dell’inno dice cose tradizionali, ma dice anche che questa Afrodite è la madre dell’ANAGKE, della necessità. C’è dunque qualcosa di diverso che qui viene spiegato con precisione. Per questa ragione è stato scelto di trasformare in maiuscolo la “m” di MOIRON (tradotto “dei tre mondi” che non convince molto). Se infatti Afrodite è la madre della necessità, possono essere chiamate in causa le moire, le madri del destino. La scansione dell’inno è orfica, e qui Afrodite appare come la sacra compagna di Bacco. Infatti l’inno ad Afrodite è stato accostato alla sezione dionisiaca. E poi abbiamo PEITO. Il tema del manifestarsi senza essere manifesta è un tema tipico della letteratura e dell’ambiente dei misteri: capacità del dio di essere presente ma di essere al contempo invisibile. Questo inno è anche interessante dal punto di vista della geografia della dea: qui Afrodite copre davvero interamente il campo dell’eros, ma è anche una dea che ha un range geografico molto più estesto di quello che viene evocato nell’inno omerico. Viene infatti evocata anche la Siria. L’inno si chiude con l’evocazione di Adone. Afrodite è legata al paredro odoroso per eccellenza. La sottolineatura è sull’anima pura, perché questa è la condizione dell’iniziato ai misteri. SEMNOS è una sorta di sacralità che deriva dalla prassi. Inno ad Eros: Eros è una figura, nella teogonia orfica, di grandissima importanza. Qui l’inno che si apre con l’invocazione di Eros. Ci muoviamo in un campo che è prodromico a quello che in Platone si racconta dell’eros e ci riconnettiamo ad una doppia via attraverso cui i Grecia affrontano il tema della teogonia. Eros infatti nella teogonia appare con Afrodite. Ma questo Eros degli orfici non è semplicemente la creatura di Afrodite, ma una creatura primordiale. Negli Uccelli di Aristofane viene ospitata la Teogonia degli uccelli. Gli uccelli raccontano agli uomini la storia delle origini del mondo, e dopo aver narrato la natura effimera degli uomini, narrano la storia di un mondo primordiale, prettamente orfico (si ritrova in frammenti di pratica cultuale orfica) in cui regna il vuoto assoluto, la notte e narrano che dalla notte si genera un uovo primordiale, un uovo ventoso, ossia sterile (la parola ventoso riferita alla nascita fa riferimento alla sterilità). Da questo uovo, che esplode come un nucleo di luce insostenibile, si genera una creatura primordiale: ossia Eros. Esso viene descritto come il FANES, il primigenio. Viene descritto come se fosse un arcangelo, dalle ali immense ed è contemporaneamente il principio generatore di tutto e il suo annientamento. È androgino ed è ermafrodito: questo essere primordiale è in grado di riprodursi da solo. Nell’orfismo è proprio questo 84 il principio fondatore: un uovo che si spacca e dà alla luce questo essere primigenio che è anche polimorfo (ha infatti tutta una serie di declinazioni animali). Nonno Abate scrive: Fanes è colui che reca le pudende dietro presso l’ano. Questa creatura assomma su di sé il principio femminile e quello maschile, ha gli organi sessuali femminili sul davanti e gli organi maschili dietro. È inoltre polimorfo. Non è semplicemente androgino, ed è ermafrodito, femmina e genitore, quindi assomma su di sé tutte le pertinenze. Inno ad Adone: “Profumo di Adone”. Si vede questa androginia di Adone che è molto attestata nelle fonti. Inoltre c’è la duplicità dell’orfismo che investe le pertinenze di Adone, che ora è con Persefone ora è con Afrodite. L’orfismo tiene in sé tutte le contraddizioni del racconto mitico e del rito. Qui il dio viene chiamato a comparire nell’ambito dei misteri perché si tratta di una cosa esclusiva. Viene chiesto alla divinità di essere presente dinnanzi agli iniziati. Saffo nel suo inno ad Afrodite, chiama Afrodite e le chiede di essere a lei compagna: questo è uno scarto ulteriore. In Saffo la mediazione della musa sparisce e la poetessa è direttamente in contatto con la divinità. Questa era la premessa. Ci muoviamo da una costola di Afrodite ma ampliamo lo sguardo a investire una figura del mito e del culto che discente da Afrodite ma ha una portata ben più ampia. L’androgino, l’ermafrodito sono un fenomeno oggettivamente riscontrato dagli antichi. L’androgino negli antichi non è definito scientificamente. Che cosa i Greci e i latini definiscono androgino? Una figura la cui ambiguità sessuali si risolve nel fatto di avere organi sessuali più evidenti o meno evidenti. I greci e i latini osservano i corpi che sono composti da una pluralità di generi che non riescono a definire. Generalmente quando si parla di androgini nell’antichità si fa riferimento ai bambini. Un esempio di questa definizione dell’androgino è il mito che si collega alla figura di Leucippe: ragazza cretese il cui padre aveva detto alla madre di liberarsene alla nascita se non fosse stato maschio. La madre lo traveste da maschio fino a che non arriva alla pubertà. La pubertà rendeva impossibile giocare su questa ambiguità di genere, perciò la madre si reca da Latona che trasforma la ragazza in un maschio, Leucippo. Perciò la dea dà alla ragazza un carattere ben determinato. Plinio nel libro VII delle Storie Naturali, racconta la storia di una ragazza di Cassino. Quando arriva il momento di diventare sposa, con l’orrore di tutti, cambia genere. Per un prodigio di questo genere vengono chiamati gli aruspici che dicono di confinare la ragazza, trasformato in uomo, su un’isola deserta. Dobbiamo pensare che i greci e i latini reagissero a qualcosa che non riuscivano a catalogare e perciò ascrivevano alla categoria del mostruoso ciò che non riuscivano a spiegarsi, così come i gemelli. L’androgino si presenta come una sommatoria di elementi provenienti da generi opposti che non si separano, ma rimangono nello stesso essere umano. La pubertà ha due volti diversi: uno è quello biologico (fino alla pubertà le pertinenze di genere possono rimanere offuscate). D’altro canto la pubertà è uno snodo che è cementificato dalla dimensione del rito: nel momento della pubertà si capisce se si è maschi o se si è femmine. In questo momento ci sono i riti delle ragazze che si travestono da animali, dei maschi che indossano abiti femminili. L’androgino però, al momento della pubertà, non separa i generi, ed è contemporaneamente le due cose. Diodoro Siculo connette la figura di Priapo a quella di Osiride e ricorda il mito in base a cui il corpo di Osiride era stato fatto a pezzi e il suo fallo nascosto. Iside ricompone il corpo e chiede ai sacerdoti come se fosse il corpo di Osiride: il membro di Osiride si sarebbe mutato nella figura mitica del dio Priapo. Diodoro Siculo narra inoltre che Ermafrodite sia stato generato da Erme e Afrodite. Lo 85 definisce mostro. È una creatura al limite, la cui apparizione non è necessariamente preludio di catastrofe. Qui è in gioco una categoria interessante: Diodoro spiega la genesi di Ermafrodito e dice una cosa che Ovidio, nelle Metamorfosi, conferma: Ermafrodito è figlio di Ermes e Afrodite e perciò ha il nome composto del padre e della madre. Ma a sua volta lui stesso è un giovane composto: ha la componente maschile e femminile. Qui entra in campo una questione importante: individuare e definire con sicurezza alcuni tratti della categoria del mostruoso. A volte il mostruoso è semplicemente tale (arpie); in altri casi invece mostruosa è la genesi di queste creature che si ritrovano ad assumere su di sé una sommatoria di nature diverse. La natura femminile di Afrodite e quella maschile di Ermes si fondono, ma non trovano una composizione, qualcosa rimane separato. Perciò gli antichi chiamano anche queste figure in maniera specifica: la sommatoria di due nature diverse comporta una sommatoria di nomi. Un altro esempio è il minotauro: sommatoria di Minosse e di un toro. Questa mescolanza che non trova una sintesi è in atto anche nel suo nome. addirittura quando si spengono un po' questi racconti mitici delle origini e il mito entra in contatto con una dimensione più razionalistica, il minotauro diventerà il frutto di un adulterio di Pasifae con un cortigiano alla corte di Minosse, di nome Taurus. In questo caso si parla di mostruosità etica, ossia l’adulterio. C’è dunque il terrore della mancanza dell’identità, dell’incapacità di definire un genere rispetto ad un altro. La dimensione dell’ambiguità di genere e dell’androginia pertiene anche ad altre figure: Adone e Afrodito, che probabilmente era, secondo Plutarco, una divinità venerata solo nell’isola di Cipro. ma molti giovanissimi eroi erano stati o erano in qualche modo androgini: ad esempio Narciso che, in una delle versioni del suo mito raccontata da Pausania, quando si specchia sulla famosa fonte, vede non il volto di un giovane bensì il volto di una ragazza e specchiandosi in questo abisso si perde proprio perché non è in grado di decifrare la sua natura. Imeneo: giovane dio che incarna la festa del matrimonio. È il maestro di cerimonie dei matrimoni del mito degni di nota. È una creatura che dal punto di vista iconografico viene rappresentata molto simile ad Eros. Imeneo innamorato di una ragazza e non ricambiato cercava di mutare natura per starle vicino. Giacinto è uno di quei giovani vegetali muore giovanissimo. Innamorato del dio Apollo, in un contesto agonale Apollo tira un disco di pietra e colpisce il giovane. A Sparta è rappresentato con un’immagine di natura duplice e con un corpo con quattro braccia, quattro gambe e quattro orecchie. La rappresentazione dell’androgino dal punto di vista dell’iconografia C’è tutto un filone di studio che sottolineano come l’androgino possa essere stato un modo per chiamare le infinite statue di erme che precedono l’iconografia più individuata dal punto di vista antropomorfo. Il tema dell’androginia è un tema carissimo a tutta l’arte antica e che troviamo legato alla figura di Eros che viene rappresentato con il membro e con i seni. C’è poi l’ermafrodito del Louvre (epoca romana). C’è poi tutto il filone dello Zeus di Labranda: è un tema interessantissimo. Labranda è un sito archeologico situato in Caria ed è famoso per il culto di Zeus Labrandeus che ha due caratteristiche: - La prima si lega all’epiteto Labrandeus: sarebbe lo Zeus della Labris, ossia la scure. Per moltissimo tempo sembrava che questa fosse la chiave per capire la parola labirinto, come casa della Labris. Effettivamente l’arte minoica ospita molto volentieri figure che imbracciano le scuri. Questa teoria si è sbriciolata perché in greco scure si dice PELAKUS. La parola Labrandeus avrebbe a che fare invece con la pietra (è lo Zeus connesso alla pietra e ha in mano una scure). Una serie di monete ritrovate a Labranda hanno tutte la figura di Zeus che ha in mano la scure. 86 - Questo Zeus ha una caratteristica che lo rende un androgino: ha la scure ma ha anche un panneggio femminile e ha sul petto una serie di seni. È una sorta di corazza in cui il simbolo della sessualità femminile viene replicato. Ciò che non è chiaro è come lo Zeus Labrandeus conviva con creature molto più femminilizzate, ad esempio con Artemide. Uno Zeus dunque non definito dal punto di vista sessuale, e che a differenza dello Zeus Olimpio, imbraccia una scure e non una folgore. C’è poi un piccolo centauro che mostra sul suo corpo un’altra contaminazione: una contaminazione di specie. È in verità un minotauro che ha il fallo e ha lateralmente il seno. È a natura animale e a natura umana ed è contemporaneamente uomo e donna. PLATONE Simposio: dialogo incentrato sull’amore ma non ha un fil rouge dominato da due o tre figure che dipanano l’argomentazione, ma è dominato da tanti quadri che hanno Socrate al loro centro. Ci sono tanti riquadri quanti sono i convenuti al simposio. L’occasione è la vittoria del poeta tragico Agatone, un poeta che Aristofane mette in scena nelle TESMOPHORIATSUSE, esattamente come se fosse un androgino. Agatone infatti ha un genere fluttuante e può dunque giocare anche la parte della donna. La festa dunque è per un poeta che era stato messo in scena da Aristofane in questo modo. Aristofane infatti nel suo discorso nel simposio dice che tre erano i sessi dell’uomo, e non due, il maschio e la femmina, ce n’era un altro che aveva in sé i caratteri degli altri due, ossia l’androgino. Esso era un essere a sé stante che, nell’aspetto esteriore e nel nome, aveva dell’uno e dell’altro, cioè del maschio e della femmina. Ci sono degli elementi che hanno a che fare con loro definizione anatomica: l’essere androgino è caratterizzato dall’esuberanza degli organi e delle appendici (4 braccia, 4 gambe, due blocchi di organi sessuali) e unico è il cranio su cui si innestano i due volti. Questa esagerazione si riflette anche nella modalità di movimento: questi essere delle origini sono esseri che si possono muovere contemporaneamente in posizione eretta ma in verità procedono rotolando, come i saltimbanchi. In Platone appare spesso questa contrapposizione tra il movimento circolare (dei pianeti e delle divinità) e il movimento rettilineo (degli esseri umani). Perciò sono esseri UBRISTES, sono esseri fuori controllo, che tentano la scalata all’Olimpo. Il Timeo si apre con l’immagine dell’uomo che è una sorta di palla, una KEPHALE, che rotola scompostamente fin quando la divinità non decide di dare ordine a questo moto e quindi di creare il movimento rettilineo. Ciò che ci dice è il modo in cui il dio fa tutto questo: il dio mette un PROSOPON, un volto, apponendo il volto come se fosse una maschera (infatti in greco PROSOPON è sia volto che maschera). Questo volto permette all’uomo di muoversi in linea retta, non come fanno gli androgini. - Identità plurime Nome duplice Dall’identità originaria si creerà l’uomo e la donna La duplicità sessuale ha sempre un riverbero altrove: perciò gli uomini hanno tutto doppio. Questi uomini sono anche tracotanti. 87 88