CAPITOLO 7 L’Italia nel Settecento non era uno Stato nazionale, come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, la Russia, ma un insieme di unità politiche distinte, ciascuna delle quali assoggettata a un governo diverso, che era espressione o di una dinastia sovrana oppure, nel caso delle repubbliche, di un’aristocrazia che governava in forma oligarchica. L’ITALIA NEL 1700 E NEL 1748 Alla fine del Seicento gran parte della penisola risultava soggetta al dominio degli Asburgo di Madrid, i quali governavano sul Regno di Napoli, sulla Sicilia, sulla Sardegna e sul Ducato di Milano. Nel 1700, come sappiamo, la linea spagnola degli asburgo si estinse e la corona di Spagna passò ai Borbone. Dal 1748, anno della pace di Aquisgrana, fino al 1796, la situazione territoriale europea rimase immutata. Il Regno di Napoli e quello di Sicilia passano in mano ai Borbone di Madrid. Gli Asburgo di Vienna possiedono il Ducato di Milano, che hanno cominciato a chiamare la “Lombardia austriaca”, una volta che, estintasi la dinastia dei Gonzaga, si è aggiunto il Mantovano. Inoltre, in forma indiretta, dominano anche sulla Toscana: qui, infatti, morto senza eredi l’ultimo dei Medici, sono giunti i Lorena, imparentati con gli asburgo, visto che il granduca di toscana, Francesco Stefano di Lorena, ha sposato l’imperatrice d’austria Maria teresa d'asburgo diventando, nel 1745, sacro romano imperatore. I DOMINI DEL NORD E CENTRO A ovest abbiamo i domini che formano il Regno di Sardegna: il Ducato di Savoia, il Piemonte e la Sardegna, che la pace dell’aia (1720) ha portato sotto lo scettro della dinastia che regna a torino. Sotto il Piemonte, affacciata sul mar tirreno, vi è la Repubblica di Genova, i cui territori corrispondono a quelli dell’odierna Liguria e della Corsica, che verrà però ceduta alla Francia nel 1768. a est c’è un’altra antica repubblica, quella di Venezia, che ha per simbolo il leone di San Marco. I suoi confini occidentali si dilatano fino a comprendere Bergamo, Brescia, crema (oggi in Lombardia); verso oriente la Repubblica si estende nell’odierno Friuli-Venezia Giulia. Infine, incontriamo quella che è oggi la regione trentino-alto adige e che risulta suddivisa tra un piccolo staterello ecclesiastico (il principato vescovile di Trento) e la porzione meridionale della provincia austriaca del Tirolo. Infine il Ducato di Modena e Reggio, dove regna la dinastia degli Este imparentata con gli asburgo. Scendendo troviamo la piccola Repubblica di Lucca; poi, tra il Granducato di toscana e il Regno di napoli, si trova il grande Stato della Chiesa, retto dal papa, che comprende parte dei territori dell’odierna emilia Romagna, le Marche, l’Umbria, il Lazio, e che si completa con due piccole enclave incuneate all’interno dei confini del Regno di napoli, Benevento e Pontecorvo (di un’altra enclave lo Stato della chiesa dispone in Francia: è la città di Avignone). Bisogna inoltre ricordare la microscopica ma fiera Repubblica di San Marino, incastonata all’interno dei domini papali; il piccolo Stato dei Presidi (prima possesso della corona di Spagna, poi di napoli) tra la toscana e lo Stato della chiesa, il minuscolo Principato di Piombino, formato da un breve tratto della costa toscana e dalle isole di fronte. POLITICA CONTRO LA CHIESA E I GESUITI Molti degli illuministi locali furono designati dai governi come ministri o funzionari, questo avvenne come un tentativo di limitare il potere della chiesa. La battaglia anticlericale portò allo scioglimento dell’ordine dei gesuiti, che esercitava un’enorme influenza in campo educativo e all’interno del tribunale dell’Inquisizione. Dal 1759 gli appartenenti all’ordine cominciarono a venir espulsi dal paese, così nel 1773, papa Clemente XIV (quattordicesimo) decretò lo scioglimento dell’ordine. I gesuiti che operavano in continenti diversi dell'Europa non vennero colpiti dalla crisi e continuarono ad assolvere incarichi di natura evangelica. LA SCONFITTA DELLA CHIESA In Italia la battaglia per limitare il potere della chiesa fu particolarmente drammatica nel Ducato di Parma e Piacenza, dove il ministro du tillot da anni aveva intrapreso una dura politica contro la chiesa. Fu il primo Stato europeo che dichiarò abolito, nel 1769, il tribunale dell’Inquisizione. LE RIFORME IN LOMBARDIA La Lombardia austriaca fu la regione italiana con più riforme. Nel 1760 venne realizzato un catasto, il primo di cui Maria Teresa sperimentò l’attuazione nei suoi domini. Con questo si promuoveva la parificazione dei ceti sociali di fronte allo Stato e al suo fisco, ed era rivolto perciò contro i corpi privilegiati (aristocrazia e clero). Negli anni seguenti il governo attribuì all’amministrazione dello Stato gran parte delle funzioni pubbliche fino a quel momento assolte dai corpi privilegiati o da privati. Inoltre venne instaurato l’obbligo scolastico. LE RIFORME NELLA TOSCANA DI PIETRO-LEOPOLDO Nella toscana governata da Pietro Leopoldo, granduca di toscana dal 1765 al 1790 le riforme furono tante sul piano economico. Dalla metà degli anni Settanta in poi il governo adottò in modo convinto le indicazioni liberiste. Abbiamo la liberalizzazione del commercio dei grani prima limitato dal sistema dell’annona introdotta in due tappe tra il 1767 e il 1775, e l’abolizione delle corporazioni nel 1771. Abbiamo poi altre iniziative volte a limitare il potere della chiesa romana: Il vescovo di Pistoia, Scipione de’ Ricci condusse agli inizi degli anni novanta la chiesa toscana quasi sul punto di staccarsi da quella di Roma. Nel granducato, sotto il governo di Pietro Leopoldo, furono istituite alcune riforme riguardanti il diritto penale. Nel 1786 venne emanato un nuovo codice penale che accoglieva alcune idee di Beccaria i cui punti fondamentali erano: certezza delle leggi, statalizzazione dei tribunali, eliminazione della tortura come strumento di indagine giudiziaria, abolizione della pena di morte che doveva essere sostituita con il lavoro forzato. Dunque, Pietro Leopoldo era particolarmente sensibile al tema delle libertà individuali. CAPITOLO 8 Le grandi trasformazioni demografiche ed economiche caratteristiche del Settecento furono particolarmente intense in Inghilterra, tanto da rendere possibile il decollo della cosiddetta rivoluzione industriale, ovvero di un nuovo sistema produttivo che si impose irreversibilmente su quello tradizionale. FATTORI Un primo fattore di mutamento fu la privatizzazione di molte terre grazie a recinzioni che le sottrassero ai cosiddetti “usi collettivi”; quindi, sostanzialmente, vi è un passaggio dagli open fields alle enclousures. Questo si deve a causa dell’ordinanza del parlamento ed ebbe luogo tra il 1760 e la fine del secolo. Molti piccoli proprietari furono costretti a vendere i propri campi e a mettersi al servizio dei proprietari medi e grandi. Nelle campagne inglesi si affermò così il sistema della grande azienda capitalistica, contraddistinta dall’impiego di manodopera salariata e in cui la proprietà veniva gestita da un ceto ristretto di grandi proprietari, dotati dei capitali necessari. Tutto questo è stato definito “rivoluzione agraria”, un sistema basato sulla rotazione delle colture (in modo che la terra non rimanesse mai a riposo) e dell’abbinamento di queste con l’allevamento. Questo consentì di dare vita a un ciclo produttivo molto più redditizio. Il secondo fattore fu lo sviluppo del commercio internazionale basato su uno scambio triangolare. Le navi Inglese scaricavano in ogni continente ciò che mancava e allo stesso tempo si fornivano di merci da trasportare altrove. ES:.In Africa portavano del cotone fabbricato in India, in cambio di schiavi, di oro, di avorio. Gli schiavi venivano poi trasportati in America e venduti ai proprietari delle grandi piantagioni, che li pagavano con zucchero, tabacco, cotone. I metalli preziosi venivano trasportati invece verso l’oriente e i galeoni impegnati nel loro trasporto tornavano colmi di tè, seta, cotone lavorato, spezie. Le merci esotiche trovavano infine il loro sbocco sui mercati di tutta Europa. Questo sistema permise ai grandi commercianti di realizzare grande profitto, ma allo stesso tempo di considerare il mondo come un grande mercato. Il terzo fattore fu invece il radicale rinnovamento del sistema dei trasporti. Gli ex contadini, ormai senza terra, si trasformarono in consumatori e il rinnovamento del sistema dei trasporti si ebbe per far fronte a questa continua domanda dei consumatori. Lo stato affidò la gestione delle strade a degli appaltatori privati (in cambio di un compenso, sottoscrivono un contratto detto appalto con il quale si impegnavano nei confronti del committente), questi vedevano la loro attività come un investimento finalizzato al profitto: ricavavano un pedaggio da chiunque transitasse sulle strade carrozzabili. Con questo metodo si ebbe un calo del costo dei trasporti: il sistema della strada a pedaggio faceva risparmiare tempo e denaro. Inoltre, uno degli sistemi di trasporto interno più importanti furono i canali, corsi d’acqua artificiali, alimentati dalle acque dei fiumi e navigabile in ogni stagione dell’anno. Infine, fu decisivo il nuovo ambiente politico e sociale che dominava in Inghilterra dopo la Gloriosa Rivoluzione: nell’isola la libertà dei cittadini era garantita dalla legge e il potere legislativo spettava al parlamento. Quest’ultimi resero agevole lo sviluppo di quasi tutti i fattori che accompagnarono la rivoluzione industriale. Contribuì anche la mentalità puritana e la filosofia empirista. La prima esaltava il lavoro e vedeva nel profitto un segno di benevolenza divina. LE ORIGINI DEL SISTEMA INDUSTRIALE A permettere la trasformazione in larga scala delle materie prime all’interno delle fabbriche furono le innumerevoli invenzioni volte a cambiare in meglio la produzione. Questo fu possibile solo con l'ausilio di macchine specifiche e di masse di lavoratori salariati. Nel 1769 vennero brevettate due macchine, il filatoio idraulico di Richard Arkwright e la Macchina a vapore di James Watt. Il primo permise di raddoppiare la produzione e di invertire la direzione del commercio internazionale: decrebbe infatti l’esportazione dei tessuti di cotone indiani, mentre si intensificarono i rapporti commerciali tra l’inghilterra e le piantagioni americane. Il secondo invece permise la crescità dei settori minerario e metallurgico. GLI EFFETTI DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Il primo effetto fu il cambiamento degli spazi di lavoro. Infatti nacquero grandi conglomerati urbani sede di grandi fabbriche e dove si accalcavano i lavoratori. Prima la trasformazione e l'elaborazione delle materie prime avveniva, oltre che nelle botteghe artigianali, anche in piccole officine, dove i lavoratori specializzati provvedevano a una fase della lavorazione. Queste fabbriche si trovavano molto spesso alla periferia di città collocate in posizioni strategiche, perché vicine alle miniere di carbone (Manchester, Liverpool, Birmingham, Leeds). MOVIMENTO LUDDISTA Un secondo mutamento riguardò i modi e i ritmi della produzione. ora essa era affidata a macchine automatiche. L’operaio di fabbrica non eseguiva più l’intera lavorazione di un prodotto, ma solamente una delle tante fasi in cui il processo produttivo era suddiviso. La divisione del lavoro comportò da un lato un incremento stupefacente della produzione, dall’altro uno svilimento della qualità della fatica profusa dagli operai perché rendeva inutile ogni abilità specifica. Questi dovevano stare dalle tredici alle quattordici ore al giorno inchiodati alle macchine. Nacque così il movimento Luddista (che prende il nome da una leggenda la quale narra che Ned Ludd, avrebbe dato vita alla rivolta rompendo un telaio) tra il 1810 e il 1820. Gli aderenti distrussero un enorme quantità di macchine e negli stessi anni, molti operai le sabotarono. Si ricorse inoltre, durante gli anni della rivoluzione industriale, alla manodopera minorile e femminile. Entrambe le categorie erano disposte a percepire salari modesti. I bambini, inoltre, avevano le dita piccole, cosa che risultava idonea per alcuni processi produttivi. LE CONSEGUENZE SOCIALI Nelle fabbriche, gli operai si configuravano come individui isolati e privi di rapporti umani. Per impedire la nascita di nuove forme di associazione tra i lavoratori, tra il 1799 e il 1800 vennero approvati in Inghilterra i Combination Acts che resero illegale il sindacato. Dovettero passare alcuni decenni prima che, nella loro nuova veste di operai industriali a tempo pieno, i lavoratori riuscissero a dar vita a forme stabili di aggregazione collettiva per proteggersi come categoria e per esercitare una significativa capacità contrattuale nei confronti dei datori di lavoro. CAPITOLO 9 Le colonie americane erano abitate in maggioranza da una popolazione inglese. Tuttavia, la popolazione americana era un terzo di quella della madrepatria. Con l’Inghilterra i coloni condividevano la lingua, la religione e le leggi, ma dal 1620 in poi avevano sviluppato una società dotata di caratteristiche proprie. Nella seconda metà del 18° secolo, sentendosi non rappresentati dalla madrepatria, se ne presero le distanze dichiarandosi indipendenti. LA FORMAZIONE DELLE COLONIE AMERICANE La prima colonia inglese in America fu la Virginia, fondata all’inizio del secolo in onore di Elisabetta I. Nel 1620, un gruppo di puritani perseguitati in patria, i cosiddetti Padri pellegrini, a bordo della nave Mayflower approdò sulle coste dell’attuale massachusetts. Essi crearono la colonia di Plymouth, impegnandosi a emanare leggi giuste e imparziali. Gli approdi avvenivano senza l’appoggio dell’esercito e della marina britannici, ma con l’approvazione del sovrano a insediare una determinata zona. Intorno alla metà del Settecento abbiamo così lungo la costa atlantica tredici colonie, ottenute scacciando verso l’interno gli abitanti originari del paese, i pellerossa. La maggior parte degli inglesi approdati in America apparteneva a gruppi religiosi minoritari e dissidenti (come i puritani e i quaccheri) e agli strati subalterni della società, gente umile con ben poco da perdere. Si formarono così comunità relativamente poco differenziate socialmente. DIFFERENZE TRA LE COLONIE DEL NORD E QUELLE DEL SUD Le colonie del Nord (New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island e Connecticut), ùquelle del Centro (New York, Pennsylvania, New Jersey) e quelle del Sud (Delaware, Maryland, Virginia, Carolina del Nord, Carolina del Sud e Georgia) differivano sia dal punto di vista economico-sociale sia da quello religioso. Nelle colonie centro-settentrionali gli insediamenti erano composti soprattutto da piccoli agricoltori, artigiani, mercanti e pescatori. Questi erano puritani ed estremamente alfabetizzati. Nelle colonie del Sud la situazione era diversa. Qui c’erano piantagioni di tabacco, di riso, ma soprattutto di cotone. Esse venivano gestite da un ceto di proprietari medi e grandi che faceva ricorso dell’impiego di schiavi africani. Si dice che questi ultimi da soli costituissero almeno il 60% della popolazione. Negli Stati del Sud dominavano la chiesa anglicana e cattolica. GOVERNO INGLESE E AUTOGOVERNO LOCALE Il governo era spartito tra organi nominati dall’alto e organi rappresentativi delle comunità locali. La madrepatria esercitava il controllo da lontano, attraverso i governatori nominati dalla corona e affiancati di consiglieri. Avevamo anche le assemblee elettive locali, queste venivano designate da un corpo elettorale (composta da circa il 50-70% della popolazione maschile adulta). Fino alla guerra dei sette anni, il rapporto tra i due paese era mediato dal re: il parlamento londinese aveva deciso di non intervenire. I PRIMI CONTRASTI Dopo la Guerra dei Sette anni, durante la quale i coloni avevano sostenuto attivamente la Gran Bretagna contro la Francia, si era rafforzata in questi ultimi l’aspirazione ad avere una propria rappresentanza nel Parlamento di Londra. Il governo britannico, invece, per risanare le finanze statali dopo il lungo conflitto appena terminato, inasprì la politica fiscale nei confronti delle colonie aumentando alcune tasse e promulgando delle nuove leggi che accentravano il potere nelle mani delle autorità politiche e militari britanniche. Inoltre, ai coloni veniva vietato di commerciare con altri paesi e proibito di produrre o esportare manufatti poiché avrebbero potuto entrare in concorrenza con quelli britannici. Tra il 1763 e il 1773 la tensione si inasprì: i britannici avevano aggiunto nuovi dazi, altre misure contro il contrabbando e anche quello che viene chiamato lo “stamp act” (imponeva una marca da bollo su moltissimi atti pubblici, anche sui giornali) del 1765. I coloni americani risposero sabotando e sfidando politicamente la madrepatria. Il loro motto era “NO TAXATION WITHOUT REPRESENTATION”. A questo punto i delegati di nove colonie si riunirono a new york dichiarando illegittima la tassa e invitando gli altri coloni a non pagare. Nacque così l’opinione pubblica americana. I n molte località allora, venne dato l’assalto agli uffici fiscali e gli inglesi si videro costretti a revocare il provvedimento, ribadendo comunque il fatto di essere legittimati a riscuotere le tasse dai coloni (DECLARATORY ACT DEL 1766). I coloni cominciarono a sabotare lo smercio dei prodotti inglesi. Il tutto portò a un violento scontro nella piazza di Boston, questo culminò con l’uccisione di cinque coloni da parte delle truppe inglese (MASSACRO DI BOSTON). Londra a questo punto, abolì tutti i dazi sulle importazioni delle merci in America, eccetto quello sul tè. Il BOSTON TEA PARTY Dopo tre anni di tranquillità, nel 1773, per salvare dalla bancarotta la Compagnia delle Indie orientali, uno dei colossi del commercio inglese, il Parlamento di Londra attribuì a essa il monopolio dell’esportazione del tè oltre oceano. I coloni ne erano molto scontenti...un gruppo, travestiti da pellerossa, salì a sorpresa su una nave inglese nel porto di Boston e ne gettarono in acqua il carico di tè. L’episodio è passato alla storia con il nome di Boston tea party. In risposta, gli inglesi risposero adottando nuove misure restrittive nei confronti dei coloni. Quest’ultimi replicarono esautorando i funzionari britannici e trasformando le assemblee rappresentative di ogni colonia in veri e propri corpi legislativi. IL PRIMO CONGRESSO CONTINENTALE Nel 1774 fu convocato a Filadelfia il primo Congresso continentale americano. A questo presero parte i rappresentanti di tutte e tredici le colonie. In quella sede, Thomas Jefferson, James Wilson e John Adams spiccarono, imponendosi come leader. Poco dopo, sarebbero diventati i padri fondatori della nuova nazione. Inizialmente il congresso volle solo che il parlamento di Londra fosse meno pretenzioso. Da quel momento le colonie ottennero l’emancipazione amministrativa e fiscale dal parlamento inglese. LA GUERRA Temendo di perdere ogni autorità sui domini coloniali, il re Giorgio III e il Parlamento inglese rifiutarono ogni concessione. Nel 1774 alcune colonie vennero ufficialmente dichiarate in stato di ribellione; allo stesso tempo fu dato il via all’allestimento dell’esercito che avrebbe dovuto riportarle all’obbedienza. Anche il Congresso americano, di conseguenza, nel 1775 iniziò a mettere insieme un esercito. Il comando fu affidato a un ricco proprietario di piantagioni, George Washington. La guerra si concluse sette anni dopo, vinsero le colonie con l’appoggio della Francia e la Spagna. La prima vittoria americana avvenne nel 1777 a Saratoga; gli altri successi culminarono nel 1781 nella battaglia di Yorktown. Gli Inglesi furono costretti alla resa. Le clausole della pace, siglata a Versailles nel 1783, prevedevano il riconoscimento da parte inglese sia dell’indipendenza delle ex colonie che del diritto degli americani di espandersi liberamente nei posti non popolati dai pellerossa. Francia e Spagna, in cambio dell'appoggio, ripresero parte dei territori che l’Inghilterra aveva sottratto loro: alcune basi in Africa e nei Caraibi la prima, la Florida e l’isola di Minorca la seconda. LA DICHIARAZIONE D’INDIPENDENZA Il 4 luglio 1776, il Congresso emanò la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America: un documento che si richiamava ad alcuni i principi illuministici (l’esistenza di diritti umani, naturali e inalienabili e la teoria della sovranità popolare). In seguito, nel 1781, aveva elaborato i cosiddetti Articoli di confederazione con la quale i coloni si impegnavano a diventare Stati sovrani . Negli anni seguenti ogni colonia si dotò di una propria Costituzione locale. Durante la prima metà degli anni ottanta, nacque il movimento nazionalista o federalista. I suoi principali esponenti furono Alexander Hamilton e James Madison. I federalisti si battevano per una revisione degli Articoli di confederazione, volevano il rafforzamento della sovranità nazionale. Riuscirono a ottenere nella convocazione a Filadelfia del 1787 il mandato per modificare le leggi emanate sei anni prima. LA COSTITUZIONE DEL 1789 Con la convocazione a Filadelfia, fu redatta una costituzione che prevedeva una rigida divisione dei poteri: il congresso (composto dalla camera dei rappresentanti eletta dai cittadini e dal senato composto da due rappresentanti per ciascuno stato) deteneva il potere legislativo, il presidente, eletto dalla popolazione con un sistema a doppio grado (i cittadini di ciascuno stato votavano i grandi elettori che poi eleggevano il presidente), deteneva quello esecutivo e la corte suprema, nominata dal presidente, quello giudiziario. Nasce così la prima democrazia moderna. (dichiarazione di indipendenza e costituzione). L’america era uno stato democratico nella forma della repubblica federale. Un’altra differenza riscontrata tra Europa e Stati Uniti è che la prima era organizzata per corpi, mentre nella seconda esisteva un solo macro-ceto dei bianchi. LA DEMOCRAZIA AMERICANA La democrazia Americana si contraddiceva per il semplice motivo che non venivano considerati, anzi erano esclusi, donne, gli schiavi africani e i pellerossa: i nativi di quelle terre. (ANTI)FEDERALISMO Nel 1789, con l’elezione di George Washington a presidente degli Stati Uniti, entrò in vigore il modello americano. Nel 1791 Thomas Jefferson, ministro degli Esteri, in opposizione, fondò il partito repubblicano che rivendicava la sovranità inviolabile di ciascuno Stato. Il partito repubblicano reclutava gran parte dei propri aderenti negli Stati del Sud. Nel 1800, dopo i due consecutivi mandati presidenziali di george Washington, e dopo quello di John Adams, entrambi federalisti (favorevoli all’unione), a salire alla presidenza degli Stati uniti fu proprio Jefferson, che avviò una politica di rafforzamento dei poteri dei singoli Stati. ESPANSIONE TERRITORIALE Le colonie rappresentavano solo una piccola parte del territorio nord americano. I tredici Stati della repubblica federale erano destinati ad aumentare. In base a quanto stabilito dall’Ordinanza del Nord-Ovest, bastava che sessantamila persone si insediassero in un territorio affinché questo venisse legittimato ad entrare nell’unione federale. Non tutti i coloni, intanto, avevano aderito alla scelta dell’indipendenza; anzi, parecchie migliaia di loro avevano combattuto sotto la bandiera inglese. Negli anni successivi si assistette all’esodo dagli Stati Uniti di decine di migliaia di ex coloni. Questi facevano ritorno in Inghilterra o raggiungevano il Canada, colonia inglese. Il paese, inoltre, aveva enormi debiti con la Francia e la Spagna. Quest’ultimi cercavano di impadronirsi del mercato americano. Infine, le differenze tra il nord e il sud si erano addirittura rafforzate: nel Sud la schiavitù era legge; nel Centro-Nord la sua esistenza veniva considerata un affronto ai principi sui quali era stata fondata la nazione americana.