CAPITOLO 7
L’Italia nel Settecento non era uno Stato nazionale, come la Francia, l’Inghilterra, la
Spagna, la Russia, ma un insieme di unità politiche distinte, ciascuna delle quali
assoggettata a un governo diverso, che era espressione o di una dinastia sovrana
oppure, nel caso delle repubbliche, di un’aristocrazia che governava in forma
oligarchica.
L’ITALIA NEL 1700 E NEL 1748
Alla fine del Seicento gran parte della penisola risultava soggetta al dominio degli
Asburgo di Madrid, i quali governavano sul Regno di Napoli, sulla Sicilia, sulla
Sardegna e sul Ducato di Milano. Nel 1700, come sappiamo, la linea spagnola degli
asburgo si estinse e la corona di Spagna passò ai Borbone. Dal 1748, anno della pace
di Aquisgrana, fino al 1796, la situazione territoriale europea rimase immutata. Il
Regno di Napoli e quello di Sicilia passano in mano ai Borbone di Madrid. Gli Asburgo
di Vienna possiedono il Ducato di Milano, che hanno cominciato a chiamare la
“Lombardia austriaca”, una volta che, estintasi la dinastia dei Gonzaga, si è aggiunto il
Mantovano. Inoltre, in forma indiretta, dominano anche sulla Toscana: qui, infatti,
morto senza eredi l’ultimo dei Medici, sono giunti i Lorena, imparentati con gli
asburgo, visto che il granduca di toscana, Francesco Stefano di Lorena, ha sposato
l’imperatrice d’austria Maria teresa d'asburgo diventando, nel 1745, sacro romano
imperatore.
I DOMINI DEL NORD E CENTRO
A ovest abbiamo i domini che formano il Regno di Sardegna: il Ducato di Savoia, il
Piemonte e la Sardegna, che la pace dell’aia (1720) ha portato sotto lo scettro della
dinastia che regna a torino. Sotto il Piemonte, affacciata sul mar tirreno, vi è la
Repubblica di Genova, i cui territori corrispondono a quelli dell’odierna Liguria e della
Corsica, che verrà però ceduta alla Francia nel 1768. a est c’è un’altra antica
repubblica, quella di Venezia, che ha per simbolo il leone di San Marco. I suoi confini
occidentali si dilatano fino a comprendere Bergamo, Brescia, crema (oggi in
Lombardia); verso oriente la Repubblica si estende nell’odierno Friuli-Venezia Giulia.
Infine, incontriamo quella che è oggi la regione trentino-alto adige e che risulta
suddivisa tra un piccolo staterello ecclesiastico (il principato vescovile di Trento) e la
porzione meridionale della provincia austriaca del Tirolo. Infine il Ducato di Modena e
Reggio, dove regna la dinastia degli Este imparentata con gli asburgo. Scendendo
troviamo la piccola Repubblica di Lucca; poi, tra il Granducato di toscana e il Regno di
napoli, si trova il grande Stato della Chiesa, retto dal papa, che comprende parte dei
territori dell’odierna emilia Romagna, le Marche, l’Umbria, il Lazio, e che si completa
con due piccole enclave incuneate all’interno dei confini del Regno di napoli,
Benevento e Pontecorvo (di un’altra enclave lo Stato della chiesa dispone in Francia: è
la città di Avignone). Bisogna inoltre ricordare la microscopica ma fiera Repubblica di
San Marino, incastonata all’interno dei domini papali; il piccolo Stato dei Presidi
(prima possesso della corona di Spagna, poi di napoli) tra la toscana e lo Stato della
chiesa, il minuscolo Principato di Piombino, formato da un breve tratto della costa
toscana e dalle isole di fronte.
POLITICA CONTRO LA CHIESA E I GESUITI
Molti degli illuministi locali furono designati dai governi come ministri o funzionari,
questo avvenne come un tentativo di limitare il potere della chiesa. La battaglia
anticlericale portò allo scioglimento dell’ordine dei gesuiti, che esercitava un’enorme
influenza in campo educativo e all’interno del tribunale dell’Inquisizione. Dal 1759 gli
appartenenti all’ordine cominciarono a venir espulsi dal paese, così nel 1773, papa
Clemente XIV (quattordicesimo) decretò lo scioglimento dell’ordine. I gesuiti che
operavano in continenti diversi dell'Europa non vennero colpiti dalla crisi e
continuarono ad assolvere incarichi di natura evangelica.
LA SCONFITTA DELLA CHIESA
In Italia la battaglia per limitare il potere della chiesa fu particolarmente drammatica
nel Ducato di Parma e Piacenza, dove il ministro du tillot da anni aveva intrapreso una
dura politica contro la chiesa. Fu il primo Stato europeo che dichiarò abolito, nel
1769, il tribunale dell’Inquisizione.
LE RIFORME IN LOMBARDIA
La Lombardia austriaca fu la regione italiana con più riforme. Nel 1760 venne
realizzato un catasto, il primo di cui Maria Teresa sperimentò l’attuazione nei suoi
domini. Con questo si promuoveva la parificazione dei ceti sociali di fronte allo Stato
e al suo fisco, ed era rivolto perciò contro i corpi privilegiati (aristocrazia e clero).
Negli anni seguenti il governo attribuì all’amministrazione dello Stato gran parte delle
funzioni pubbliche fino a quel momento assolte dai corpi privilegiati o da privati.
Inoltre venne instaurato l’obbligo scolastico.
LE RIFORME NELLA TOSCANA DI
PIETRO-LEOPOLDO
Nella toscana governata da Pietro Leopoldo, granduca di toscana dal 1765 al 1790 le
riforme furono tante sul piano economico. Dalla metà degli anni Settanta in poi il
governo adottò in modo convinto le indicazioni liberiste. Abbiamo la liberalizzazione
del commercio dei grani prima limitato dal sistema dell’annona introdotta in due
tappe tra il 1767 e il 1775, e l’abolizione delle corporazioni nel 1771. Abbiamo poi
altre iniziative volte a limitare il potere della chiesa romana: Il vescovo di Pistoia,
Scipione de’ Ricci condusse agli inizi degli anni novanta la chiesa toscana quasi sul
punto di staccarsi da quella di Roma. Nel granducato, sotto il governo di Pietro
Leopoldo, furono istituite alcune riforme riguardanti il diritto penale. Nel 1786 venne
emanato un nuovo codice penale che accoglieva alcune idee di Beccaria i cui punti
fondamentali erano: certezza delle leggi, statalizzazione dei tribunali, eliminazione
della tortura come strumento di indagine giudiziaria, abolizione della pena di morte
che doveva essere sostituita con il lavoro forzato. Dunque, Pietro Leopoldo era
particolarmente sensibile al tema delle libertà individuali.
CAPITOLO 8
Le grandi trasformazioni demografiche ed economiche caratteristiche del Settecento
furono particolarmente intense in Inghilterra, tanto da rendere possibile il decollo
della cosiddetta rivoluzione industriale, ovvero di un nuovo sistema produttivo che
si impose irreversibilmente su quello tradizionale.
FATTORI
Un primo fattore di mutamento fu la privatizzazione di molte terre grazie a recinzioni
che le sottrassero ai cosiddetti “usi collettivi”; quindi, sostanzialmente, vi è un
passaggio dagli open fields alle enclousures. Questo si deve a causa dell’ordinanza del
parlamento ed ebbe luogo tra il 1760 e la fine del secolo.
Molti piccoli proprietari furono costretti a vendere i propri campi e a mettersi al
servizio dei proprietari medi e grandi. Nelle campagne inglesi si affermò così il
sistema della grande azienda capitalistica, contraddistinta dall’impiego di
manodopera salariata e in cui la proprietà veniva gestita da un ceto ristretto di grandi
proprietari, dotati dei capitali necessari. Tutto questo è stato definito “rivoluzione
agraria”, un sistema basato sulla rotazione delle colture (in modo che la terra non
rimanesse mai a riposo) e dell’abbinamento di queste con l’allevamento. Questo
consentì di dare vita a un ciclo produttivo molto più redditizio.
Il secondo fattore fu lo sviluppo del commercio internazionale basato su uno scambio
triangolare. Le navi Inglese scaricavano in ogni continente ciò che mancava e allo
stesso tempo si fornivano di merci da trasportare altrove.
ES:.In Africa portavano del cotone fabbricato in India, in cambio di schiavi, di oro, di
avorio. Gli schiavi venivano poi trasportati in America e venduti ai proprietari delle
grandi piantagioni, che li pagavano con zucchero, tabacco, cotone. I metalli preziosi
venivano trasportati invece verso l’oriente e i galeoni impegnati nel loro trasporto
tornavano colmi di tè, seta, cotone lavorato, spezie. Le merci esotiche trovavano
infine il loro sbocco sui mercati di tutta Europa.
Questo sistema permise ai grandi commercianti di realizzare grande profitto, ma allo
stesso tempo di considerare il mondo come un grande mercato.
Il terzo fattore fu invece il radicale rinnovamento del sistema dei trasporti.
Gli ex contadini, ormai senza terra, si trasformarono in consumatori e il rinnovamento
del sistema dei trasporti si ebbe per far fronte a questa continua domanda dei
consumatori.
Lo stato affidò la gestione delle strade a degli appaltatori privati (in cambio di un
compenso, sottoscrivono un contratto detto appalto con il quale si impegnavano nei
confronti del committente), questi vedevano la loro attività come un investimento
finalizzato al profitto: ricavavano un pedaggio da chiunque transitasse sulle strade
carrozzabili. Con questo metodo si ebbe un calo del costo dei trasporti: il sistema
della strada a pedaggio faceva risparmiare tempo e denaro.
Inoltre, uno degli sistemi di trasporto interno più importanti furono i canali, corsi
d’acqua artificiali, alimentati dalle acque dei fiumi e navigabile in ogni stagione
dell’anno.
Infine, fu decisivo il nuovo ambiente politico e sociale che dominava in Inghilterra
dopo la Gloriosa Rivoluzione: nell’isola la libertà dei cittadini era garantita dalla legge
e il potere legislativo spettava al parlamento. Quest’ultimi resero agevole lo sviluppo
di quasi tutti i fattori che accompagnarono la rivoluzione industriale. Contribuì anche
la mentalità puritana e la filosofia empirista. La prima esaltava il lavoro e vedeva nel
profitto un segno di benevolenza divina.
LE ORIGINI DEL SISTEMA INDUSTRIALE
A permettere la trasformazione in larga scala delle materie prime all’interno delle
fabbriche furono le innumerevoli invenzioni volte a cambiare in meglio la produzione.
Questo fu possibile solo con l'ausilio di macchine specifiche e di masse di lavoratori
salariati. Nel 1769 vennero brevettate due macchine, il filatoio idraulico di Richard
Arkwright e la Macchina a vapore di James Watt. Il primo permise di raddoppiare la
produzione e di invertire la direzione del commercio internazionale: decrebbe infatti
l’esportazione dei tessuti di cotone indiani, mentre si intensificarono i rapporti
commerciali tra l’inghilterra e le piantagioni americane. Il secondo invece permise la
crescità dei settori minerario e metallurgico.
GLI EFFETTI DELLA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE
Il primo effetto fu il cambiamento degli spazi di lavoro. Infatti nacquero grandi
conglomerati urbani sede di grandi fabbriche e dove si accalcavano i lavoratori. Prima
la trasformazione e l'elaborazione delle materie prime avveniva, oltre che nelle
botteghe artigianali, anche in piccole officine, dove i lavoratori specializzati
provvedevano a una fase della lavorazione.
Queste fabbriche si trovavano molto spesso alla periferia di città collocate in posizioni
strategiche, perché vicine alle miniere di carbone (Manchester, Liverpool,
Birmingham, Leeds).
MOVIMENTO LUDDISTA
Un secondo mutamento riguardò i modi e i ritmi della produzione. ora essa era
affidata a macchine automatiche. L’operaio di fabbrica non eseguiva più l’intera
lavorazione di un prodotto, ma solamente una delle tante fasi in cui il processo
produttivo era suddiviso. La divisione del lavoro comportò da un lato un incremento
stupefacente della produzione, dall’altro uno svilimento della qualità della fatica
profusa dagli operai perché rendeva inutile ogni abilità specifica. Questi dovevano
stare dalle tredici alle quattordici ore al giorno inchiodati alle macchine. Nacque così
il movimento Luddista (che prende il nome da una leggenda la quale narra che Ned
Ludd, avrebbe dato vita alla rivolta rompendo un telaio) tra il 1810 e il 1820. Gli
aderenti distrussero un enorme quantità di macchine e negli stessi anni, molti operai
le sabotarono.
Si ricorse inoltre, durante gli anni della rivoluzione industriale, alla manodopera
minorile e femminile. Entrambe le categorie erano disposte a percepire salari
modesti. I bambini, inoltre, avevano le dita piccole, cosa che risultava idonea per
alcuni processi produttivi.
LE CONSEGUENZE SOCIALI
Nelle fabbriche, gli operai si configuravano come individui isolati e privi di rapporti
umani.
Per impedire la nascita di nuove forme di associazione tra i lavoratori, tra il 1799 e il
1800 vennero approvati in Inghilterra i Combination Acts che resero illegale il
sindacato. Dovettero passare alcuni decenni prima che, nella loro nuova veste di
operai industriali a tempo pieno, i lavoratori riuscissero a dar vita a forme stabili di
aggregazione collettiva per proteggersi come categoria e per esercitare una
significativa capacità contrattuale nei confronti dei datori di lavoro.
CAPITOLO 9
Le colonie americane erano abitate in maggioranza da una popolazione inglese.
Tuttavia, la popolazione americana era un terzo di quella della madrepatria. Con
l’Inghilterra i coloni condividevano la lingua, la religione e le leggi, ma dal 1620 in poi
avevano sviluppato una società dotata di caratteristiche proprie. Nella seconda metà
del 18° secolo, sentendosi non rappresentati dalla madrepatria, se ne presero le
distanze dichiarandosi indipendenti.
LA FORMAZIONE DELLE COLONIE AMERICANE
La prima colonia inglese in America fu la Virginia, fondata all’inizio del secolo in onore
di Elisabetta I. Nel 1620, un gruppo di puritani perseguitati in patria, i cosiddetti Padri
pellegrini, a bordo della nave Mayflower approdò sulle coste dell’attuale
massachusetts. Essi crearono la colonia di Plymouth, impegnandosi a emanare leggi
giuste e imparziali. Gli approdi avvenivano senza l’appoggio dell’esercito e della
marina britannici, ma con l’approvazione del sovrano a insediare una determinata
zona. Intorno alla metà del Settecento abbiamo così lungo la costa atlantica tredici
colonie, ottenute scacciando verso l’interno gli abitanti originari del paese, i
pellerossa. La maggior parte degli inglesi approdati in America apparteneva a gruppi
religiosi minoritari e dissidenti (come i puritani e i quaccheri) e agli strati subalterni
della società, gente umile con ben poco da perdere. Si formarono così comunità
relativamente poco differenziate socialmente.
DIFFERENZE TRA LE COLONIE DEL NORD E
QUELLE DEL SUD
Le colonie del Nord (New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island e Connecticut),
ùquelle del Centro (New York, Pennsylvania, New Jersey) e quelle del Sud (Delaware,
Maryland, Virginia, Carolina del Nord, Carolina del Sud e Georgia) differivano sia dal
punto di vista economico-sociale sia da quello religioso. Nelle colonie
centro-settentrionali gli insediamenti erano composti soprattutto da piccoli
agricoltori, artigiani, mercanti e pescatori. Questi erano puritani ed estremamente
alfabetizzati. Nelle colonie del Sud la situazione era diversa. Qui c’erano piantagioni di
tabacco, di riso, ma soprattutto di cotone. Esse venivano gestite da un ceto di
proprietari medi e grandi che faceva ricorso dell’impiego di schiavi africani. Si dice
che questi ultimi da soli costituissero almeno il 60% della popolazione. Negli Stati del
Sud dominavano la chiesa anglicana e cattolica.
GOVERNO INGLESE E AUTOGOVERNO LOCALE
Il governo era spartito tra organi nominati dall’alto e organi rappresentativi delle
comunità locali.
La madrepatria esercitava il controllo da lontano, attraverso i governatori nominati
dalla corona e affiancati di consiglieri. Avevamo anche le assemblee elettive locali,
queste venivano designate da un corpo elettorale (composta da circa il 50-70% della
popolazione maschile adulta). Fino alla guerra dei sette anni, il rapporto tra i due
paese era mediato dal re: il parlamento londinese aveva deciso di non intervenire.
I PRIMI CONTRASTI
Dopo la Guerra dei Sette anni, durante la quale i coloni avevano sostenuto
attivamente la Gran Bretagna contro la Francia, si era rafforzata in questi ultimi
l’aspirazione ad avere una propria rappresentanza nel Parlamento di Londra. Il
governo britannico, invece, per risanare le finanze statali dopo il lungo conflitto
appena terminato, inasprì la politica fiscale nei confronti delle colonie aumentando
alcune tasse e promulgando delle nuove leggi che accentravano il potere nelle mani
delle autorità politiche e militari britanniche. Inoltre, ai coloni veniva vietato di
commerciare con altri paesi e proibito di produrre o esportare manufatti poiché
avrebbero potuto entrare in concorrenza con quelli britannici. Tra il 1763 e il 1773 la
tensione si inasprì: i britannici avevano aggiunto nuovi dazi, altre misure contro il
contrabbando e anche quello che viene chiamato lo “stamp act” (imponeva una
marca da bollo su moltissimi atti pubblici, anche sui giornali) del 1765. I coloni
americani risposero sabotando e sfidando politicamente la madrepatria. Il loro motto
era “NO TAXATION WITHOUT REPRESENTATION”.
A questo punto i delegati di nove colonie si riunirono a new york dichiarando
illegittima la tassa e invitando gli altri coloni a non pagare. Nacque così l’opinione
pubblica americana. I n molte località allora, venne dato l’assalto agli uffici fiscali e gli
inglesi si videro costretti a revocare il provvedimento, ribadendo comunque il fatto di
essere legittimati a riscuotere le tasse dai coloni (DECLARATORY ACT DEL 1766). I
coloni cominciarono a sabotare lo smercio dei prodotti inglesi. Il tutto portò a un
violento scontro nella piazza di Boston, questo culminò con l’uccisione di cinque
coloni da parte delle truppe inglese (MASSACRO DI BOSTON). Londra a questo punto,
abolì tutti i dazi sulle importazioni delle merci in America, eccetto quello sul tè.
Il BOSTON TEA PARTY
Dopo tre anni di tranquillità, nel 1773, per salvare dalla bancarotta la Compagnia
delle Indie orientali, uno dei colossi del commercio inglese, il Parlamento di Londra
attribuì a essa il monopolio dell’esportazione del tè oltre oceano. I coloni ne erano
molto scontenti...un gruppo, travestiti da pellerossa, salì a sorpresa su una nave
inglese nel porto di Boston e ne gettarono in acqua il carico di tè. L’episodio è passato
alla storia con il nome di Boston tea party. In risposta, gli inglesi risposero adottando
nuove misure restrittive nei confronti dei coloni. Quest’ultimi replicarono
esautorando i funzionari britannici e trasformando le assemblee rappresentative di
ogni colonia in veri e propri corpi legislativi.
IL PRIMO CONGRESSO CONTINENTALE
Nel 1774 fu convocato a Filadelfia il primo Congresso continentale americano. A
questo presero parte i rappresentanti di tutte e tredici le colonie. In quella sede,
Thomas Jefferson, James Wilson e John Adams spiccarono, imponendosi come leader.
Poco dopo, sarebbero diventati i padri fondatori della nuova nazione.
Inizialmente il congresso volle solo che il parlamento di Londra fosse meno
pretenzioso. Da quel momento le colonie ottennero l’emancipazione amministrativa
e fiscale dal parlamento inglese.
LA GUERRA
Temendo di perdere ogni autorità sui domini coloniali, il re Giorgio III e il Parlamento
inglese rifiutarono ogni concessione. Nel 1774 alcune colonie vennero ufficialmente
dichiarate in stato di ribellione; allo stesso tempo fu dato il via all’allestimento
dell’esercito che avrebbe dovuto riportarle all’obbedienza. Anche il Congresso
americano, di conseguenza, nel 1775 iniziò a mettere insieme un esercito. Il comando
fu affidato a un ricco proprietario di piantagioni, George Washington. La guerra si
concluse sette anni dopo, vinsero le colonie con l’appoggio della Francia e la Spagna.
La prima vittoria americana avvenne nel 1777 a Saratoga; gli altri successi
culminarono nel 1781 nella battaglia di Yorktown. Gli Inglesi furono costretti alla resa.
Le clausole della pace, siglata a Versailles nel 1783, prevedevano il riconoscimento da
parte inglese sia dell’indipendenza delle ex colonie che del diritto degli americani di
espandersi liberamente nei posti non popolati dai pellerossa.
Francia e Spagna, in cambio dell'appoggio, ripresero parte dei territori che
l’Inghilterra aveva sottratto loro: alcune basi in Africa e nei Caraibi la prima, la Florida
e l’isola di Minorca la seconda.
LA DICHIARAZIONE D’INDIPENDENZA
Il 4 luglio 1776, il Congresso emanò la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti
d’America: un documento che si richiamava ad alcuni i principi illuministici (l’esistenza
di diritti umani, naturali e inalienabili e la teoria della sovranità popolare). In seguito,
nel 1781, aveva elaborato i cosiddetti Articoli di confederazione con la quale i coloni
si impegnavano a diventare Stati sovrani . Negli anni seguenti ogni colonia si dotò di
una propria Costituzione locale. Durante la prima metà degli anni ottanta, nacque il
movimento nazionalista o federalista. I suoi principali esponenti furono Alexander
Hamilton e James Madison. I federalisti si battevano per una revisione degli Articoli di
confederazione, volevano il rafforzamento della sovranità nazionale. Riuscirono a
ottenere nella convocazione a Filadelfia del 1787 il mandato per modificare le leggi
emanate sei anni prima.
LA COSTITUZIONE DEL 1789
Con la convocazione a Filadelfia, fu redatta una costituzione che prevedeva una rigida
divisione dei poteri: il congresso (composto dalla camera dei rappresentanti eletta dai
cittadini e dal senato composto da due rappresentanti per ciascuno stato) deteneva il
potere legislativo, il presidente, eletto dalla popolazione con un sistema a doppio
grado (i cittadini di ciascuno stato votavano i grandi elettori che poi eleggevano il
presidente), deteneva quello esecutivo e la corte suprema, nominata dal presidente,
quello giudiziario. Nasce così la prima democrazia moderna. (dichiarazione di
indipendenza e costituzione). L’america era uno stato democratico nella forma della
repubblica federale. Un’altra differenza riscontrata tra Europa e Stati Uniti è che la
prima era organizzata per corpi, mentre nella seconda esisteva un solo macro-ceto
dei bianchi.
LA DEMOCRAZIA AMERICANA
La democrazia Americana si contraddiceva per il semplice motivo che non venivano
considerati, anzi erano esclusi, donne, gli schiavi africani e i pellerossa: i nativi di
quelle terre.
(ANTI)FEDERALISMO
Nel 1789, con l’elezione di George Washington a presidente degli Stati Uniti, entrò in
vigore il modello americano. Nel 1791 Thomas Jefferson, ministro degli Esteri, in
opposizione, fondò il partito repubblicano che rivendicava la sovranità inviolabile di
ciascuno Stato. Il partito repubblicano reclutava gran parte dei propri aderenti negli
Stati del Sud. Nel 1800, dopo i due consecutivi mandati presidenziali di george
Washington, e dopo quello di John Adams, entrambi federalisti (favorevoli all’unione),
a salire alla presidenza degli Stati uniti fu proprio Jefferson, che avviò una politica di
rafforzamento dei poteri dei singoli Stati.
ESPANSIONE TERRITORIALE
Le colonie rappresentavano solo una piccola parte del territorio nord americano.
I tredici Stati della repubblica federale erano destinati ad aumentare. In base a
quanto stabilito dall’Ordinanza del Nord-Ovest, bastava che sessantamila persone si
insediassero in un territorio affinché questo venisse legittimato ad entrare
nell’unione federale.
Non tutti i coloni, intanto, avevano aderito alla scelta dell’indipendenza; anzi,
parecchie migliaia di loro avevano combattuto sotto la bandiera inglese. Negli anni
successivi si assistette all’esodo dagli Stati Uniti di decine di migliaia di ex coloni.
Questi facevano ritorno in Inghilterra o raggiungevano il Canada, colonia inglese.
Il paese, inoltre, aveva enormi debiti con la Francia e la Spagna. Quest’ultimi
cercavano di impadronirsi del mercato americano.
Infine, le differenze tra il nord e il sud si erano addirittura rafforzate: nel Sud la
schiavitù era legge; nel Centro-Nord la sua esistenza veniva considerata un affronto ai
principi sui quali era stata fondata la nazione americana.