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Riassunto PRIMA PARTE Libro 'Diritto dell'informazione e dei media'

Riassunto di Diritto
dell'Informazione e dei Media
(Parte 1), M. Cuniberti
Diritto Dell'informazione
Università degli Studi di Milano
60 pag.
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DIRITTO DELL'INFORMAZIONE – Professor Marco
Cuniberti
“DIRITTO DELL’INFORMAZIONE E DEI MEDIA” di G.
Vigevani, O. Pollicino, C. Melzi d’Eril, M. Cuniberti, M.
Bassini – Riassunto
PARTE I: “La libertà di espressione e i suoi limiti”
LA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la
parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
[…]»
- COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, Articolo 21
Le origini della libertà di parola
1
Il diritto dell’uomo di manifestare il proprio pensiero viene riconosciuto per la prima
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
volta in maniera ufficiale all’interno degli Stati liberali, a partire dal XVIII Secolo:
troviamo difatti nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”
emanata in Francia nel 1789 e nella Costituzione degli Stati Uniti d'America, del
1791, due pietre miliari nell’affermazione della libertà di parola:
 Dichiarazione, Art. 11 – la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è
uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare,
scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà
nei casi determinati dalla legge.
 Costituzione, I Emendamento – il Congresso non potrà fare alcuna legge per
[…] limitare la libertà di parola o di stampa; o il diritto che hanno i cittadini a
riunirsi in forma pacifica…
L’abolizione della censura e l’affermazione della libertà di stampa sono tra le più
importanti conquiste del periodo liberale e lasciti fondamentali per gli ordinamenti
democratici del XX Secolo. Segnano il traguardo di un lungo percorso, iniziato
quantomeno dal XVII Secolo, quando John Milton, pre-illuminista, fece circolare in
Inghilterra un noto pamphlet in cui rivendicava la libera circolazione di idee come
condizione indispensabile per l’affermazione della conoscenza.
Il costituzionalismo liberale al contempo riconosce che non possa esistere una verità
assoluta, rivelata da Dio o da una figura di potere, verso la quale non possano essere
mosse critiche o contrapposte opinioni; viene garantito il diritto al dissenso, e alle
minoranze religiose, etniche, culturali, di esprimere le proprie caratteristiche
intrinseche.
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L’Art. 28 dello Statuto Albertino
Va ricordato comunque come gli ordinamenti ottocenteschi consentissero comunque
restrizioni particolarmente importanti in relazione al contenuto dei messaggi, al fine di
tutelare valori quali morale, ordine pubblico, religione, prestigio delle autorità.
Emblematico in questo senso l’Art. 28 dello Statuto Albertino, in vigore in Italia
dall’Unità all’emanazione della Costituzione repubblicana:
Statuto albertino, Art. 28 – la stampa sarà libera ma una legge ne reprime
gli abusi. Tuttavia le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiere non
potranno essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo.
La norma dello Statuto albertino garantiva la sola libertà di stampa e non di
espressione, di parola.
È estranea al legislatore ottocentesco l’idea di intervenire positivamente, per
estendere la possibilità di accedere al diritto di stampa e per garantire una corretta
formazione dell’opinione pubblica.
L’evoluzione della libertà di parola nello Stato democratico
L’evoluzione dello Stato liberale nello Stato democratico nel XX Secolo porta ad una
corrispondente evoluzione della libertà di espressione, che viene rielaborata ed
espansa.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Rimangono valide le prerogative disposte dagli ordinamenti liberali, ma si affermano
delle tendenze comuni negli Stati democratici che vale la pena di notare in quanto
ampliamenti e rielaborazioni del concetto di libertà di espressione:
 La libertà di espressione viene ricompresa tra i diritti soggettivi inviolabili;
 Si delimitano in modo più preciso le possibilità di interferenza dei pubblici
poteri; viene affermato il principio che limiti alla libertà di espressione debbano
essere previsti solo qualora rigorosamente preordinati alla tutela di altri diritti
particolarmente rilevanti;
 Si alleggeriscono i controlli preventivi alla pubblicazione a stampa
(autorizzazioni e censure);
 Si riducono le restrizioni volte alla protezione della “morale comune”, che altro
non sono che espressioni della concezione etica dominante in un periodo.
 Si riducono anche i casi rientranti nel cosiddetto “reato di opinione”, come il
vilipendio a entità astratte come istituzioni, religioni, nazioni, bandiere,
ideologie.
o Una parziale eccezione è fornita dalla tendenza a vietare la propaganda
di idee fondate sull’odio, la discriminazione o la superiorità razziale. Nella
stessa categoria vi sono divieti alla negazione di crimini contro l’umanità
come l’Olocausto.
Altra tendenza è quella alla riconosciuta necessità della formazione dell’opinione
pubblica, che deve essere estesa non più alle élite politiche e culturali, ma all’intera
cittadinanza. Il grado di democraticità di un sistema politico infatti può essere
misurato dalla concreta possibilità delle diverse idee di essere espresse e di circolare.
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2
Estensioni della libertà d’espressione
La libertà di espressione viene riconosciuta come diritto fondamentale del singolo ma
anche diritto sociale, ovvero pretesa di un comportamento attivo dello Stato che –
attraverso la formazione di un’opinione pubblica consapevole – consenta a tutti i
cittadini l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica, sociale del
Paese.
La libertà di manifestazione del pensiero pertanto viene portata anche a includere il
diritto ad informare ed il diritto di cronaca.
Al singolo viene riconosciuto il diritto di ricevere in modo trasparente plurale e
possibilmente completo le informazioni, in modo che esso sia consapevolmente in
grado di esercitare i diritti legati alla partecipazione alla sfera pubblica.
Ci si rende conto, dapprima con la stampa, ma soprattutto anche con la radio, la TV e
la rete, che l’informazione sia un potere in grado di condizionare la gestione della cosa
pubblica. Diviene pertanto fondamentale agire in direzione del mercato dei media, che
deve essere reso accessibile a tutti affinché essi non siano prerogativa di soli pochi.
Si pone come principio cardine della libertà di espressione e del diritto all’informazione
il pluralismo informativo, ovvero il lasciare spazio a qualsiasi opinione di circolare
[aggiunta personale: principio valido purché l’opinione non sia faziosa – o deliberatamente
falsa -, parziale – in senso di “mezza verità” -, fuorviante; l’informazione deve attenersi a ciò
che accade o è verificatamente accaduto].
3
La libertà di espressione nelle carte internazionali
nelle
DIRITTO DELL'Ie
NFORMAZIONE
costituzioni più recenti
Dal tronco della libertà di manifestazione del pensiero gemmano ulteriori diritti come
la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee, la libertà e il pluralismo dei
media, il diritto di diffondere idee con ogni mezzo che lo consenta.
Troviamo esempi di questi diritti riconosciuti nelle carte internazionali del XX Secolo,
redatte dopo la Seconda Guerra Mondiale:
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) - Ogni individuo ha
diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere
moleStato per la propria opinione, e quello di cercare, ricevere e diffondere
informazioni e idee attraverso ogni mezzo e frontiera.
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Art. 11 - 1.
Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la
libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o
idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità
pubbliche e senza limiti di frontiera.
2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.
Talvolta è il mestiere stesso del giornalista a divenire materia costituzionale. Ad
esempio la Costituzione portoghese (1976) tutela il diritto di accesso alle fonti
informative, l’indipendenza professionale, il segreto dei giornalisti.
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L’Articolo 21 della Costituzione della Repubblica Italiana
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la
parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità
giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa
espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la
legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il
tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa
periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che
devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, sporgere
denunzia all'Autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle
ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di
ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi
noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre
manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce
provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.»
- COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, Articolo 21
L’articolo 21 della Costituzione italiana può idealmente essere diviso in due parti; la
DIRITTOha
DELL'INFORMAZIONE
prima
carattere generale e comprende il primo e l’ultimo comma: riconosce il
diritto di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo salvo il limite generale del
buon costume.
La parte centrale (commi 2 – 5) va invece a disciplinare il mezzo della stampa:



Il comma 2 vieta autorizzazioni o censure, per evitare il rischio di un ritorno a
forme già viste durante il regime fascista, durante il quale era necessaria
l’approvazione di un prefetto prima di pubblicare un qualsiasi scritto a mezzo
stampa.
I commi 3 e 4 delimitano le ipotesi di sequestro degli stampati.
Il comma 5 prevede che sia possibile stabilire la trasparenza dei mezzi di
finanziamento della stampa periodica (definizione con cui si intende la stampa
pubblicata in periodi prestabiliti, come i quotidiani od i settimanali).
Distinzione tra articolo 21 e articolo 15
L’articolo 21 “confligge”, o meglio viene delimitato, da un altro articolo costituzionale,
l’Articolo 15, che dispone in materia di circolazione di informazioni e segretezza della
corrispondenza. Tale disposizione afferma l’inviolabilità e la segretezza delle
comunicazioni, aggiungendo che la limitazione di queste due caratteristiche possa
avvenire solo “per atto motivato dall’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla
legge”. L’articolo mira dunque a garantire la sfera di inviolabilità della persona umana,
salvaguardando le modalità con cui una persona entra in contatto con altre persone
determinate, escludendo terzi.
L’articolo 21 invece tratta di consentire la diffusione del pensiero verso soggetti
indeterminati, e dunque in apparenza sembra non avere a che fare con l’articolo 15.
Tuttavia, la linea di demarcazione tra comunicazioni interpersonali e manifestazione
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4
del pensiero non è sempre agevole, specialmente con l’avvento del digitale: se prima
un telefono era necessariamente usato per divulgare un messaggio ad un singolo
soggetto per volta, tramite una singola chiamata o sms, oggi uno smartphone –
accendendo alla rete – permette la divulgazione di uno stesso messaggio ad un
numero indefinito di soggetti. La difficoltà è aumentata ulteriormente dopo l’avvento
dei social network, dove è possibile destinare un messaggio ad un numero ristretto di
soggetti o al pubblico intero del social network in questione.
I due articoli sono differenti anche per il fatto che alle comunicazioni trattate dall’Art.
15 non si applichi il limite del buon costume. Inoltre la libertà e la segretezza della
corrispondenza tutela sia la posizione giuridica del mittente che quella del
destinatario, che ha diritto a ricevere il messaggio senza indebite interferenze; invece
per quanto riguarda la libera manifestazione del pensiero la posizione di chi riceve le
informazioni è assai più sfumata. Pertanto, vengono ricondotti all’Art.15 le
comunicazioni con destinatari determinati, la volontà del mittente di comunicare in
modo privato, con mezzo idoneo a garantire la segretezza della comunicazione
(ovvero che sia plausibilmente legato alla corrispondenza privata: un manifesto affisso
ad una parete in luogo pubblico evidentemente non potrà essere ricondotto a
corrispondenza privata, qualsiasi sia la volontà del mittente del messaggio).
La libera manifestazione di pensiero: cosa significa?
Il testo dell’articolo garantisce che in Italia “tutti” abbiano il diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero: ciò implica che non solo i professionisti
dell’informazione possano farlo, non solo i cittadini italianai, e non solo persone fisiche
(ma anche associazioni, istituzioni, ecc.).
5
La carta non distingue tra libertà di espressione e diritto di informare,
dunque
non
DIRITTO DELL
'INFORMAZIONE
distingue tra cittadino e giornalista inteso come status differente e privilegiato.
Pertanto, l’informazione non è considerata un dovere, ma l’esercizio di un diritto di
libertà conferito dalla carta ai cittadini.
Un’eccezione al principio di eguale garanzia a tutti della manifestazione del pensiero è
rappresentata dalle disposizioni costituzionali che tutelano i parlamentari e i consiglieri
regionali (rispettivamente artt. 68 e 122): esse esonerano i titolari delle cariche dalle
responsabilità penale, civile e amministrativa per le opinioni espresse nell’esercizio
delle loro funzioni (solo le espressioni legate con le attività svolte nella qualità di
funzionario politico, non nella vita privata né in contesti informali); questo avviene per
tutelare i membri delle assemblee politiche da interferenze di altri poteri (il governo, il
potere giudiziario, ecc.).
Il riferimento della carta a “la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”
sottintende che la garanzia costituzionale si applichi anche a immagini, opere
artistiche, comportamenti materiali con valore simbolico, destinati a un numero
indeterminato di persone. La protezione costituzionale comprende sia la diffusione di
opinioni sia la narrazione di un singolo fatto.
La menzogna e la pubblicità, due casi particolari
Benché la Costituzione non imponga un obbligo di verità, la menzogna è esclusa dalla
sfera di tutela dell’art. 21, ma sono altri articoli della carta costituzionale a gestire
questa sfera; per quanto concerne l’articolo 21, possiamo dire che di base, tale
articolo si presta a non escludere a priori nessun contenuto etichettandolo come falso,
poiché altrimenti sarebbe troppo semplice aggirare la libertà di ciascuno di esprimere
la propria opinione.
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Altro caso particolare è legato all’informazione pubblicitaria. Essa è
necessariamente distinta dalla manifestazione di pensiero, perché non mira ad
esprimere un’idea o una manifestazione del pensiero dell’autore, bensì ad orientare i
comportamenti concreti altrui, attraverso suggestioni e richiami emozionali. Essa
viene pertanto regolamentata dall’Articolo 41 della Carta costituzionale.
Garanzie costituzionali per gli stampati
Il secondo comma dell’Art. 21 sancisce che la stampa non possa essere soggetta ad
autorizzazioni o censure; l’unica “limitazione” a questa disposizione risiede nel fatto
che nessun giornale possa venire pubblicato se non è segnalato e registrato alla
cancelleria del Tribunale. Questa registrazione consiste nel registrare il nome del
proprietario, del direttore e dell’editore, poi il titolo e tipo di pubblicazione. Non vi è
alcun margine di discrezionalità da parte del Tribunale, che deve accettare qualsiasi
registrazione sia conforme alle regole e presenti valida documentazione.
Il terzo comma disciplina il sequestro degli stampati . Tale sequestro può essere
disposto in due soli casi:
A. In caso di delitti (reati che prevedono per pena la multa, la reclusione o
l’ergastolo; più gravi delle contravvenzioni e degli illeciti civili o amministrativi).
B. In caso di violazione delle norme prescritte per l’indicazione dei responsabili
(ergo, se non si è formulata correttamente la registrazione al Tribunale e si
stampa ugualmente).
Il diritto all’informazione: il ruolo della giurisprudenza
Per molto tempo, il legislatore (= Parlamento) ha agito in maniera lenta per riformare
le leggi emanate a riguardo della stampa durante il regime fascista. Inoltre, fin dalla
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
prima legge in materia di informazione televisiva, esso si è comportato in direzione di
conservare gli equilibri esistenti piuttosto che in direzione di potenziare il pluralismo
informativo. Ancor più grave, la disciplina esistente non è stata aggiornata alla
comparsa di nuovi fenomeni quali Internet e i social network.
Pertanto, i giudici ordinari e la Corte Costituzionale hanno tentato di armonizzare l’Art.
21 con le nuove realtà venutesi a formare. Così facendo però vi sono Stati risultati
anche sorprendenti: la Corte ha infatti dimostrato timidezza davanti a reati che ai più
sembravano incompatibili con il concetto di libera manifestazione del pensiero come
vilipendio, oltraggio a pubblico ufficiale, ecc.; è Stato invece positivo il ruolo nella
tutela del pluralismo dell’informazione e nella disciplina dei mezzi di comunicazione di
massa.
È stata infatti la Corte costituzionale ad estendere und diritto non propriamente
presente nella Carta, ovvero la libertà di divulgare notizie e il diritto di cronaca. Nel
1993 la Corte afferma la necessità di un “ pluralismo delle fonti da cui attingere
conoscenze e notizie”, e ha riconosciuto l’interesse del cittadino, affinché possa
esercitare le sue funzioni politiche, alla piena e obiettiva informazione in materia di
comunicazione legata alla sfera politica.
La riforma costituzionale 3/2001 ha riconosciuto alle Regioni la competenza legislativa
nell’ordinamento della comunicazione, togliendo l’esclusività di tale prerogativa al
solo Parlamento. Si sono poi venute a creare anche unità amministrative indipendenti,
come il Garante per la protezione dei dati personali (o comunemente Garante
della privacy) e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), dotate di
poteri normativi, di vigilanza e sanzionatori. In ambito di comunicazioni elettroniche,
tutela dei dati personali e diritto d’autore, poi, è la legislazione dell’Unione Europea in
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materia ad avere un ruolo preponderante: ad esempio l’Art. 10 della Convenzione
europea sui diritti dell’uomo ha grande rilevanza nel trattare in quest’ambito la
libertà d’espressione. Questo garantisce ai cittadini europei di rivolgersi alla Corte
europea dei diritti dell’uomo (a Strasburgo) qualora i ricorsi interni non soddisfino
l’esigenza di un cittadino che ritenga sia Stato violato un suo diritto fondamentale.
Tale articolo include il diritto di informare nei suoi aspetti attivi e passivi.
7
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
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IL DIRITTO DI CRONACA
L’unica limitazione esplicita espressa dall’Art. 21 alla libertà di espressione è legato
alle manifestazioni contrarie al buon costume, che è l’insieme di principi etico-morali
riferiti a pudore (specialmente legato alla sfera sessuale) e pubblica decenza (riferita
ad uso di volgarità o turpitudini).
Tuttavia, questo limite è l’unico esplicito, ma ve ne sono altri impliciti: difatti la libertà
di espressione può portare a fatti come offese, lesione di riservatezza e segreto,
vilipendio di religioni o istituzioni, incitamento all’odio, ecc.; le limitazioni a tale libertà
di conseguenza servono a tutelare altri diritti individuali o interessi collettivi o dello
Stato stesso.
Vi sono delle regole alle limitazioni della libertà d’espressione:




Tali limitazioni devono essere previste dalla legge e non arbitrarie.
Tali restrizioni possono sussistere solo se motivate dalla tutela di altri diritti,
beni o valori oggetto di protezione costituzionale (ovvero segnalati come
rilevanti, da proteggere, dalla Costituzione stessa).
La limitazione alla libertà di espressione non può mai tradursi in totale assenza
di possibilità di esercizio, che deve essere comunque garantita (ergo, per
tutelare qualcosa non si può impedire totalmente a qualcuno di esprimersi).
La libertà d’espressione deve essere la regola, mentre le restrizioni solamente
eccezioni. È tendenzialmente da privilegiare pertanto la libertà d’espressione se
il diritto tutelato ha pari importanza alla stessa, e non importanza superiore.
DIRITTO
DELL'IiNFORMAZIONE
Quali
sono
diritti tutelati dalla Costituzione che la libertà di espressione non può
valicare? Partiamo da diritti riferiti alla singola persona, che sono l’onore e la
reputazione, la riservatezza e l’identità personale. Vi sono poi gli interessi
collettivi, pubblici, che sono: ordine pubblico, tranquillità pubblica, difesa della patria,
prestigio delle istituzioni, dignità dei simboli dello Stato, sicurezza, sentimento
religioso, il perseguimento dei reati, la tutela dei minori, la morale, ecc.; come è
possibile riscontrare l’imponente lista di interessi collettivi rischia di porre un serio
limite alla libertà di espressione.
Andiamo ad analizzare come la libertà di espressione si possa scontrare con questi
interessi e diritti, personali e collettivi.
Diritto di cronaca v. tutela della reputazione
Né il diritto di cronaca né i diritti della personalità sono trattati esplicitamente dalla
Costituzione, ma vengono ritenuti entrambi valori implicitamente contenuti in essa. Il
diritto di cronaca è Stato riconosciuto come tutelato dall’Art. 21 da parte della Corte
Costituzionale.
Anche i diritti della personalità sono Stati riconosciuti tali dalla stessa:


L’onore è riferito alla persona ed è il sentimento che ciascuno ha della propria
dignità;
La reputazione è personale ma riferito alla comunità, ed è la considerazione di
cui un individuo gode all’interno della collettività.
A tutela dei diritti sopra menzionati, sono Stati previsti i reati di ingiuria e
diffamazione, anche se nel 2016 il reato di ingiuria (riferito a persona presente) è
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8
Stato reso solamente un illecito civile con sanzione pecuniaria. La diffamazione è
invece il reato di chi lede la reputazione di una persona assente comunicando con due
o più soggetti: è penalmente perseguibile con una multa fino a 1032€ o con la
reclusione fino a un anno. Inoltre, se l’offesa consiste in un fatto determinato (ovvero
identificabile in maniera precisa) la pena può essere raddoppiata; se tale offesa è
commessa con il mezzo di stampa o pubblicità (anche Internet, ad esempio) la pena
aumenta ad un minimo di sei mesi ad un massimo di tre anni o di una multa di minimo
516€. Queste pene sono aumentate di un terzo se si offende un corpo politico o
giudiziario, o un’autorità.
Altra frequente aggravante è legata all’insieme di offesa commessa a mezzo stampa e
consistente in fatti determinato, con una pena che arriva fino a sei anni di reclusione.
Va detto comunque che la carcerazione di giornalisti per “reati di penna” è evento
assai raro.
La lesione alla reputazione
La lesione della reputazione deve essere oggettiva, ovvero non dipende dalla
suscettibilità personale, bensì deve essere legata ad un vero danno alla
considerazione di cui un soggetto gode nella sua comunità di riferimento. Ciò non
deve far ritenere che vi siano persone con una fama così compromessa da non poter
essere ulteriormente danneggiata, dal momento che la dignità è un valore
fondamentale della persona, anche qualora questa abbia commesso delitti e reati: è
possibile pertanto rivolgersi offensivamente ad una associazione mafiosa, criminale, o
a una categoria criminale (gli assassini, i ladri, ecc.), ma non offendere il singolo reo.
9
Un’offesa oggettiva alla reputazione è l’attribuzione di una qualsivoglia condotta
illecita ma anche di un qualsivoglia comportamento collegato
adDELLun
giudizio
DIRITTO
'INFORMAZIONE
palesemente negativo da parte dell’opinione comune in una determinata comunità e
in un determinato contesto storico. Nel contesto storico presente, ad esempio,
l’attribuzione del solo termine “gay” o “omosessuale” – che corrisponda o meno a
verità – non è da considerarsi lesione della reputazione perché l’opinione pubblica ha
generalmente accettato che non vi sia nulla di scandaloso in una tendenza sessuale
differente dall’eterosessualità; è tuttavia considerato offensivo utilizzare un termine
intrinsecamente negativo (come ad esempio “frocio”).
Il diritto di cronaca e di critica
La cronaca consiste nel racconto di fatti che devono essere verificatamente veri, e il
diritto di cronaca consente di non essere puniti in presenza di affermazioni offensive
qualora i fatti narrati siano:



Veri;
Di interesse pubblico;
Espressi con forma civile.
Queste caratteristiche prendono il nome di scriminanti, termine che appunto indica
le giustificazioni per cui un fatto perseguibile non venga considerato tale in un
determinato contesto.
Ad esempio, narrare che un politico sia Stato condannato per corruzione (additandolo
quindi come corrotto) è lesivo della reputazione di quest’ultimo, ma non si incorre in
reato di diffamazione qualora la sentenza sia stata effettivamente emessa; bisogna
assicurarsi comunque che la vicenda venga esposta limitandosi alla riproposizione dei
fatti, senza utilizzare toni denigratori o epiteti ingiuriosi.
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La critica è differente dalla cronaca, e consiste nell’espressione di un’opinione su fatti
che non sono dimostrabili come unanimemente veri o falsi. Il diritto di critica ha
come scriminanti il fatto che la questione su cui si esprima opinione sia di interesse
pubblico e che si evitino epiteti ingiuriosi e volgari. Se viene formulato un giudizio
negativo che prende le mosse da fatti, questi fatti devono però essere veri, o
l’opinione non ha alcuna validità.
Qualora si ritenga che le scriminanti non siano applicabili, l’offeso può sporgere
denuncia: la diffamazione è infatti perseguibile a querela di parte, dunque se l’offeso
non sporge denuncia entro tre mesi dal giorno in cui ha avuto notizia del fatto non vi è
condizione di procedibilità.
La “sentenza decalogo” della Cassazione del 1984
Il compito di bilanciare tra diritto di cronaca e tutela della reputazione è Stato lasciato
generalmente alla magistratura. La risposta della magistratura italiana alla questione
è riassunta nella cosiddetta “sentenza decalogo” della Cassazione civile del
1984. Questa ha ordinato i criteri emersi precedentemente e in giurisprudenza e ha
orientato le pronunce successive in materia.
Il caso concreto è il seguente: la sentenza trae origine dall’accusa di una società
finanziaria nei confronti di un periodico economico e di un redattore che aveva
pubblicato una serie di articoli particolarmente critici nei confronti di fondi di
investimento offerti dalla suddetta società. Il Tribunale e la Corte d’appello ritennero
altresì denigratoria e diffamatoria la campagna di stampa.
DIRITTO DELL'Icoinvolto
NFORMAZIONEricorse per Cassazione civile, sostenendo che il giornale avesse
Il redattore
esercitato diritto di cronaca e critica.
La Corte di Cassazione dettò nella sentenza i requisiti che consentono di invocare la
scriminante del diritto di cronaca in presenza della lesione all’onore di un individuo:
(omissis) il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa
notizie e commenti) sancito in linea di principio nell’art. 21 Cost. e regolato
fondamentalmente nella l. 8 febbraio 1948 n. 47, è legittimo quando concorrano
le seguenti tre condizioni:
1) utilità sociale dell’informazione;
2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso,
frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti;
3) forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non
eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a
serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento
denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità
cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere
mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.
Per quanto riguarda il criterio di verità dei fatti, la corte si è espressa così:
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10
I. - La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è
rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o
anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili
ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è
“mezza verità” (o comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più
pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di
responsabilità (e, correlativamente, per la più facile possibilità di difesa) che
comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso,
piuttosto che un fatto vero sì, ma incompleto. La verità incompleta (nel senso
qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa.
Per quanto riguarda il criterio di forma civile, la corte si è espressa così:
11
II. - La forma della critica non è civile, non soltanto quando è eccedente rispetto
allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o,
comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto,
ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. E ciò perché soltanto un
fatto o un apprezzamento chiaramente esposto favorisce, nella coscienza del
giornalista, l’insorgere del senso di responsabilità che deve sempre
accompagnare la sua attività e, nel danneggiato, la possibilità di difendersi
mediante adeguate smentite nonché la previsione di ricorrere con successo
all’autorità giudiziaria. Proprio per questo il difetto intenzionale di leale
chiarezza è più pericoloso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento
triviale e non può rimanere privo di sanzione.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
E lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, al fine di sottrarsi
alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche senza,
peraltro, rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre - con
particolare riferimento a quanto i giudici di merito hanno nella specie accertato
- ad uno dei seguenti subdoli espedienti (nei quali sono da ravvisarsi, in
sostanza, altrettante forme di offese indirette):
a) al sottinteso sapiente: cioè all’uso di determinate espressioni nella
consapevolezza che il pubblico dei lettori, per ragioni che possono essere le più
varie a seconda dei tempi e dei luoghi ma che comunque sono sempre ben
precise, le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro
significato letterale, ma, comunque, sempre in senso fortemente più
sfavorevole - se non apertamente offensivo - nei confronti della persona che si
vuol mettere in cattiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il
racchiudere determinate parole tra virgolette, all’evidente scopo di far
intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che, comunque,
sono da interpretarsi in ben altro (e ben noto) senso da quello che avrebbero
senza virgolette;
b) agli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice
sequenza in un testo di proposizioni autonome, non legate cioè da alcun
esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol
mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma comunque sempre
in qualche modo negativi per la reputazione) concernenti altre persone
estranee ovvero con giudizi (anch’essi ovviamente sempre negativi)
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apparentemente espressi in forma generale ed astratta e come tali ineccepibili
(come ad esempio, l’affermazione il furto è sempre da condannare) ma che,
invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a
persone ben determinate;
c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato specie nei titoli o
comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono
notizie neutre perché insignificanti o, comunque, di scarsissimo valore
sintomatico, al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi
suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non
tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo
della sua presentazione (classici a tal fine sono l’uso del punto esclamativo anche là ove di solito non viene messo - o la scelta di aggettivi comuni, sempre
in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque
sempre legato a valutazioni molto soggettive, come, ad esempio, “notevole”,
“impressionante”, “strano”, “non chiaro”
d) alle vere e proprie insinuazioni anche se più o meno velate (la più tipica delle
quali è certamente quella secondo cui “non si può escludere che ... “ riferita a
fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando pur senza
esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale
che il lettore li prenda ugualmente in considerazione a tutto detrimento della
reputazione di un determinato soggetto.
DIRITTO DELLsociale
'INFORMAZIONE
L’utilità
o interesse pubblico
Il requisito dell'utilità sociale, espresso anche dalla “sentenza decalogo”, è Stato
oggetto di critiche perché finirebbe con il far assumere una concezione prettamente
funzionale al diritto di informazione, rendendo impossibile la divulgazione di notizie
ritenute non utili dalla sensibilità comune, come pettegolezzi o notizie sportive.
È pur vero che vi sia distinzione tra notizie di interesse pubblico e notizie che ne sono
prive. L’ordinamento ha il compito di favorire massimamente l’accessibilità delle prime
poiché necessarie all’esercizio consapevole dei diritti politici o del controllo sul potere
politico, economico o culturale.
Tuttavia, l’utilità sociale non deve essere considerata condizione necessaria per
l’esercizio del diritto di informare, ma come requisito per espandere questo diritto e
rafforzarlo, restringendo la tutela dei beni contrapposti a tal diritto.
Rifiutare la posizione prettamente funzionalista del diritto di cronaca permette al
giornalista la libertà di decidere se, come e quando riferire una notizia, e svincolando
l’esercizio del diritto di cronaca dai soli operatori professionali (giornalisti).
La rilevanza pubblica
La rilevanza pubblica sussiste quando la notizia sia utile a formare l’opinione pubblica:
l’interesse pubblico non coincide con il mero interesse del pubblico.
Si possono ritenere rilevanti i fatti privati di personaggi noti quando questi servano a
valutare la moralità o la personalità di chi debba godere della fiducia dei cittadini: la
diffusione di notizie sulla vita privata di un individuo non è ammessa che non per la
formazione del sentire politico, culturale, economico del cittadino.
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12
È pertanto utile distinguere tra “homo publicus”, uomo a cui sono affidate
responsabilità relative alla sfera pubblica, e “personaggio noto al pubblico”, che
può essere un attore, un cantante, uno sportivo, le cui vicende private dovrebbero
avere poco rilievo sul proprio ruolo sociale.
La rilevanza pubblica può mutare, nel senso che una notizia legittimamente divulgata
anni prima potrebbe non rispondere più ad alcun interesse tale da farla prevalere con
il diritto all’onore e alla riservatezza: un uomo che ha commesso un furto 30 anni
prima di adesso, e ha correttamente scontato la sua pena a tempo debito, può
legittimamente ricorrere nel caso in cui un giornalista diffondesse nuovamente la
notizia che il tale uomo è Stato un ladro 30 anni fa senza che tale notizia abbia ancora
alcuna rilevanza pubblica al momento della nuova pubblicazione. È riconosciuto per
via giurisprudenziale il diritto a non restare indeterminatamente esposti a fatti
appartenenti al passato che non abbiano rinnovata importanza sociale; tale diritto
viene denominato informalmente “diritto all’oblio”.
La verità dei fatti esposti
13
Per quanto riguarda la verità dei fatti accertati, non viene richiesta una verità
oggettiva ed assoluta, ma una seria diligenza nella scelta delle fonti ed un lavoro di
verifica dell’oggetto della narrativa. Si parla di verità putativa, ovvero verità basata
sulla ricerca, la quale può eventualmente dimostrarsi erronea (in altre parole, il
giornalista può trovare tre fonti attendibili che testimoniano il coinvolgimento di una
persona in un reato; questo basta per la creazione di una verità putativa e per scrivere
a riguardo; se dopo diverso tempo si rinviene una prova che scagiona la tal persona, il
giornalista ha comunque avuto il diritto di scrivere al tempo).
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Un problema serio però è il fatto che non sia sufficiente richiamare fonti informative
considerate attendibili (ANSA, RAI, ecc.) senza esplicare alcun controllo personale
della verità della notizia, altrimenti tali fonti finirebbero – attribuendosi reciprocamente
credito – per rinvenire in sé stesse attendibilità.
La notizia è considerata vera se completa, senza omissione di part che ne
muterebbero il significato e la valutazione globale del lettore.
La forma civile dell’esposizione
Non è ritenuta ammissibile la cronaca che – attraverso il testo scritto, ma anche
immagini, titoli, presentazione:
 ecceda lo scopo informativo da conseguire.
 calpesti la dignità personale altrui (come visto trattando della lesione alla
reputazione).
 non sia improntata a leale chiarezza [vedi sopra]
tuttavia nella sentenza decalogo pare si richieda di separare la cronaca dalla critica,
poiché la critica eccederebbe lo scopo informativo e difetterebbe di obiettività. La
regola di tenere separati i fatti dalle opinioni è presente nel manuale del buon
giornalista, ma non è presente realmente nell’ordinamento giuridico, poiché andrebbe
a limitare il diritto di cronaca e di critica proprio del cronista e in generale la sua
libertà.
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L’intervista diffamatoria
Un’intervista presenta una rilevanti peculiarità: la fonte immediata è l’intervistata/o,
che si assume la responsabilità delle proprie affermazioni, mentre l’autore del servizio
giornalistico riproduce semplicemente dichiarazioni altrui.
Pertanto, nel caso in cui un’intervista risulti diffamatoria – ovvero riporti affermazioni
riconducibili al reato di diffamazione – si è dibattuto sul fatto che la responsabilità del
reato di diffamazione sia:
 solo del cronista, che ha acconsentito a pubblicare parole diffamanti;
 solo dell’interviStato, che ha espresso tali affermazioni diffamanti;
 condivisa dal cornista e dall’interviStato.
Tendenzialmente, l’interpretazione più risalente nel tempo (1983) riteneva il
giornalista complice del reato, poiché aveva utilizzato la stampa come cassa di
risonanza per la diffamazione.
Tuttavia successivamente si è fatto prevalere il diritto del pubblico di essere informato
in maniera completa rispetto alla tutela della reputazione del soggetto leso. Peraltro,
un divieto di pubblicare l’intervista, ancorché diffamatoria, risulterebbe in una forma di
censura.
Qualora un’intervista assuma in sé il carattere di un evento di pubblico interesse
(ovvero, quando è interesse dei cittadini conoscere esattamente pensiero,
comportamento, stile di un uomo pubblico), il giornalista imparziale può riportare il
testo dell’intervista nella sua integrità, senza controllare la verità delle espressioni né
censurando epiteti eventualmente ingiuriosi.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Una sentenza del 2014 esprime esplicitamente che il giornalista che riporta
informazioni espresse da terzi è esonerato da responsabilità per diffamazione, a
condizione del fatto che sia chiaramente espresso che tali informazioni appartengano
appunto a terzi e in alcun modo siano riconducili al giornalista stesso, nonché
informazioni personali di terzi e in alcun modo verità presentate come oggettive.
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14
IL DIRITTO DI CRITICA E SATIRA
Il diritto di critica
Come abbiamo visto, la sentenza decalogo pare porre limiti seri al cosiddetto diritto di
critica; pertanto, gran parte della giurisprudenza successiva ha scelto di ritenere che
essa debba solamente rispettare il limite dell’ interesse pubblico, e che non debba
essere obiettiva, dal momento che la critica, a differenza della cronaca, si basa
sull’interpretazione personale, soggettiva, degli avvenimenti.
Essa è espressione di giudizi di valore, che non possono necessariamente essere
“verità” poiché espressi soggettivamente. Come detto, in ogni caso, quando
un’opinione si basa su fatti, tali fatti devono essere accertati e verificati. La veridicità
è dunque un criterio ugualmente necessario alla critica, che altrimenti sarebbe solo un
potenziale pretesto per ledere l’altrui reputazione. La critica, per essere accettata e il
diritto ad essa riconosciuto, deve essere così esposta: prima viene esposto il fatto, che
deve essere verificato e verificabile, e poi si può procedere alla critica che viene
mossa a partire dal tale fatto.
15
Inoltre, la critica, quando rivolta ad un soggetto che rivesta una funzione pubblica, e
dunque assume la caratteristica di interesse pubblico, deve essere espressa in
maniera sì incisiva ma senza l’uso di epiteti ingiuriosi. L’attacco diretto a colpire la
figura morale del soggetto criticato non ha alcuna utilità di pubblico interesse. Il
requisito della “forma civile” è Stato affrontato anche dalla Corte Europea per i diritti
dell’uomo: per i giudici europei, l’uso di frasi volgari in sé può essere semplicemente
una scelta stilistica non volta all’offensività, dal momento che lo stile è una forma di
DIRITTO DELL
espressione ed è tutelato insieme al contenuto dell’espressione.
Per'INFORMAZIONE
i giudici
l’aggressione è gratuita solo se non connessa a fatti dimostrati e dimostrabili:
la continenza formale […] consente il ricorso a parole sferzanti, nella misura in
cui siano correlate al livello della polemica, ai fatti narrati e rievocati.
- Cassazione penale, 2014
Il diritto di satira
La satira ha radici antiche, legate alla tendenza di ogni comunità di dileggiare i
potenti, ma anche i costumi e i vizi della società o di una parte della stessa. Il diritto
alla satira, tuttavia, è figlio del costituzionalismo liberale ed ha quindi radici molto più
recenti della satira stessa. È anche figlio di una considerazione relativistica della
verità, che postula l’assenza di ogni verità imposta dall’alto ed assoluta.
La libertà di satira infatti può essere tradotta in una libertà di manifestare anche la più
eterodossa delle idee rispetto ad un pensiero dominante in ambito politico, culturale,
religioso, sociale.
Norma costituzionale di riferimento è sempre l’Art. 21, anche se talvolta viene anche
ricondotta all’Art. 33, che proclama la libertà dell’arte e della scienza; la satira viene
tradotta come diritto di critica dissacrante, corrosiva, irriverente, e svolge la
fondamentale funzione di controllo sociale e di protezione contro gli eccessi del
potere.
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Regole della satira
Affinché una critica venga riconosciuta come satira, essa deve attenersi a determinate
regole: la satira muove dal basso verso l’alto, colpendo chi incarna potere politico,
economico, religioso, culturale. I giornali fascisti che prendevano in giro gli ebrei per
farli passare come disprezzabili facevano propaganda e istigazione all’odio, più che
satira.
La satira può porsi in collisione con altri diritti di rilievo costituzionale ed è dunque
necessario giungere al corretto bilanciamento dei beni giuridici in conflitto: satira e
libertà d’espressione da un lato, reputazione, dignità della persona, sentimento
religioso, ecc. dall’altro.
La legittimità della satira viene valutata in relazione alla notorietà del personaggio
preso di mira, sempre alla luce di un fattore di interesse pubblico.
Manca ovviamente un nesso con la verità oggettiva, dal momento che la satira è
caricatura ed esasperazione, dal forte carattere iperbolico. Come per la critica,
tuttavia, la satira, se collegata a dei fatti o se veicolante contenuto informativo, deve
basarsi su fatti verificati e su un contenuto informativo veritiero. In altre parole, la
satira è slegata dal vincolo di presentare i fatti esattamente come sono avvenuti –
vincolo che ha la cronaca -, ma non può alludere a fatti inesistenti né attribuire
caratteristiche negative ad un soggetto che tali caratteristiche ha mai mostrato (ergo,
si può prendere in giro un politico per vari motivi, ma non lo si può deridere
attribuendogli le caratteristiche del ladro se questi non è mai Stato coinvolto in fatti a
tal reato affini).
Anche il requisito della forma civile è declinato peculiarmente nel caso della satira:
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
essa è infatti spesso incontinente (ovvero irriverente, financo volgare), per il suo
essere sferzante, corrosiva, dissacrante; tuttavia, rimane il limite dell’offesa gratuita
alla dignità della persona, e pertanto la satira non può essere unicamente indirizzata a
suscitare disprezzo per una persona senza legami con fatti pubblicamente rilevanti (ad
esempio, criticare un politico utilizzando espressioni e toni osceni anziché legati al suo
operato non è considerato satira).
La satira tipologica
Per satira tipologica si intende quel tipo di satira non rivolta verso un individuo
specifico ma verso un gruppo o una categoria sociali: i politici, il clero, i calciatori, i
magistrati, ecc.
In questo caso è più difficile individuare i beni giuridici da tutelare nei confronti della
satira, ma possono essere il sentimento religioso, il prestigio di un’istituzione, più che
la dignità del singolo individuo, che non viene lesa specificatamente in caso di satira
contro l’istituzione che questi si trova a rappresentare.
In casi estremi, se la satira si rivolge verso soggetti “deboli” come minoranze etniche
o religiose, si cade nel reato di propaganda e istigazione all’odio.
In caso di satira contro la religione, essa può venire limitata quando lede l’aspetto
intimo, personale, della fede, attraverso il vilipendio di una persona che professa una
religione; è invece lecita quando prende di mira la confessione religiosa in generale, i
suoi rappresentanti in Terra, i suoi dogmi, al fine di sottoporre a critica il ruolo
pubblico, sociale della determinata religione.
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INFORMAZIONE E GIUSTIZIA
Il tema dei rapporti tra giustizia e informazione presenta problematiche complesse,
che coinvolgono una pluralità di interessi di rango costituzionale tra loro diversi e
spesso contrapposti. Mentre nei casi più classici sulla libertà di cronaca i beni da
contemperare sono solitamente due o tre (diritto di informazione da una parte l’onore,
la reputazione o la riservatezza dell’altra), nella cronaca giudiziaria il giudizio di
bilanciamento deve essere effettuato tenendo in considerazione altri interessi che si
manifestano nel “teatro del processo”:





la presunzione di non colpevolezza dell’imputato sino alla condanna definitiva;
il principio di pubblicità dei processi, ma anche la necessità della segretezza
delle indagini per garantire il buon svolgimento;
il prestigio, l’autorità, la terzietà e l’indipendenza del giudice;
la necessità di garantire un equo processo;
il ruolo della stampa come controllore della corretta amministrazione della
giustizia.
La scarsa conoscenza del diritto da parte di chi vive il dovere di informare può portare
a casi di confusione e di cattiva informazione: giornalisti che scrivono allo stesso modo
indagato e imputato, che scrivono che uno è Stato rinviato a giudizio quando ancora vi
è richiesta di rinvio a giudizio, che anticipano condanne quando sono ancora in corso
le indagini, etc.
I beni giuridici in rilievo sono:
17




DIRITTO
DELL'INFORMAZIONE
la lesione della reputazione è quanto di più immediato possa
venire
in mente;
pertanto, la presunzione di non colpevolezza è stata stabilita, al fine di tutelare
fino alla condanna definitiva chiunque venga coinvolto in un processo, che non
può essere definito colpevole a mezzo stampa prima che un giudice si pronunci
sul suo status.
La corretta informazione fornita ai cittadini riguardo l’andamento delle indagini
su un caso e dei processi giudiziari in atto.
il buon andamento delle indagini è un bene giuridico importante perché
l’assicurare la giustizia è uno dei fini dello Stato. Quindi una rilevazione di atti
che non devono essere resi pubblici (potrebbero inquinare l’indagine) può
comportare una lesione di questo bene giuridico.
Il principio dell’autorità e della terzietà e dell’indipendenza: il giudice deve
giudicare il processo prima di tutto sulla base degli atti che sono nel suo
fascicolo e quindi non deve essere influenzato da atti conosciuti attraverso la
stampa.
Vi sono dei rischi legati alla pubblicità di un processo, per il fatto che il giudice possa
venire influenzato dal suo apparire al pubblico (e quindi essere orientato al “piacere”,
al compiacimento del pubblico), ma anche per il fatto che è possibile che il pubblico si
faccia l’idea che un processato sia già colpevole prima dell’emissione della sentenza
definitiva.
Al legislatore spetta in primo luogo il compito di individuare la soluzione più idonea a
contemperare le esigenze di segretezza delle indagini e di controllo sociale
dell’operato degli investigatori, di tutela dell’indipendenza del giudice e di
corretta informazione al pubblico sull’andamento dei processi, di rispetto della
presunzione d’innocenza e di cronaca giudiziaria.
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La stessa giurisprudenza fatica non poco a tracciare i confini entro i quali il legislatore
può esercitare la propria discrezionalità e ad individuare una equilibrata “carta dei
rapporti giustizia-media”. Si assiste così in paesi differenti a contraddizioni giuridiche e
culturali legate a indirizzi tra loro molto distanti:
A. l’ordinamento americano non conosce praticamente alcuna restrizione alla
libertà di stampa di informare sui processi in corso ed affida principalmente alla
deontologia dei giornalisti il bilanciamento tra interesse della giustizia e libertà
dell’informazione;
B. in Inghilterra al contrario è in vigore il contempt of court, l’oltraggio al giudice,
istituto tradizionale della common law che consente tra l’altro di impedire in via
preventiva la pubblicazione di notizie o commenti che possano turbare la
serenità del giudizio o gettare discredito su una corte di giustizia.
Nell’ordinamento italiano i processi sono pubblici evidentemente perché attraverso
l’amministrazione della giustizia, lo Stato esercita uno dei suoi poteri più rilevanti
perché può condurre alla limitazione dei cittadini. Quindi regola generale è che i
processi devono essere fatti alla luce del sole: i processi si svolgono a porta aperta.
Sono i mezzi di informazione che consentono ai cittadini di sapere cosa avviene in un
processo, quindi diventa importantissimo il ruolo dell’informazione come controllo
dell’operato della giustizia. Giostra, giurista: “per un ordinamento democratico
moderno prima ancora di essere utile una giustizia pubblica, è inconcepibile segreta.
Sottratta ad una efficacia forma di controllo da parte delle società infatti la
repressione penale, che è il più incisivo mezzo di controllo sulla società, sviluppa
fatalmente l’aspetto deteriore di quella politicità naturale divenendo torbido
strumento di affermazione di parte. Il valore della pubblicità della giustizia penale non
DELL'INFORMAZIONE
vaDIRITTO
misurato
solo sugli effetti positivi, ma i problemi che la sua assenza
comporterebbe. Sarebbe quindi costituzionalmente, politicamente, culturalmente
inammissibile oscurare la cronaca giudiziaria”.
I rapporti tra giustizia e informazione in un ordinamento
democratico
Per effettuare l’analisi dei principi in campo e delle modalità di bilanciamento dei
medesimi, si riportano alcuni estratti di due storiche pronunce, rispettivamente
della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU),
che affrontano sotto differenti profili il tema dei limiti alla cronaca giudiziaria.
A. CORTE COST. 6 APRILE 1965, N. 25 - La sentenza concerne la legittimità
costituzionale del divieto di pubblicare a mezzo di stampa il contenuto di
documenti e di ogni atto orale o scritto relativi alla istruzione o al giudizio, se
il dibattimento è tenuto a porte chiuse. La serenità del dibattimento, volta
a garantire la imparzialità della pronuncia ed alla indipendenza del giudice,
viene legittimamente tutelata non soltanto escludendo la presenza del pubblico
dal dibattimento, ma anche vietando la divulgazione a mezzo della stampa di
notizie ad esso inerenti.
B. CORTE EUR. DIRITTI UOMO 25 APRILE 1979, SUNDAY TIMES C. REGNO UNITO Oggetto di causa è la legittimità dell’istituto anglosassone del contempt of
court ed in particolare di un preventivo divieto a pubblicare un articolo su
vicende processuali connesse alle malformazioni da Talidomide, emesso dal
giudice inglese nei confronti del celebre periodico londinese. In specie,
occorreva valutarne la compatibilità con l’art. 10.2 Conv., che consente alle
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18
leggi nazionali di sottoporre l’esercizio della libertà di espressione a
formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni, qualora tali misure siano
necessarie in una società democratica per garantire tra l’altro, l’autorità e
l’imparzialità del potere giudiziario.
Il caso era molto delicato, relativo ad una serie di malformazioni congenite in bimbi le
cui madri avevano assunto un farmaco che era molto utilizzato nelle gravidanze.
Nacquero una serie di bimbi con malformazioni. Il processo doveva accertare se vi
fosse una relazione tra le malformazioni e il farmaco. Per evitare l’intervento dei
media i giudici imposero al Sunday Times di Londra di non parlare più di quel processo
divieto generale a dare informazioni di quel processo perché le informazioni sarebbero
state capaci a incidere sul libero convincimento del giudice. Il Sunday Times si rivolge
alla CEDU affermando che sarebbe stata violata la libertà di informare. La CEDU
prevede tra i possibili motivi che possono limitare la libertà di espressione l’autorità e
l’imparzialità del potere giudiziario, dunque questa ha riconosciuto la possibilità alla
magistratura di bloccare la copertura mediatica nei confronti del processo.
Entrambe le pronunce sono ancora oggi osservate per comprendere la difficoltà di
bilanciare la pluralità di interessi di rango costituzionale coinvolti e per illustrare come
in generale i rapporti giustizia-media siano un test importante per valutare il grado di
civiltà e la democraticità di un ordinamento. Non solo: contengono profili degni di nota
anche oggi, perché mai smentiti nel tempo e anzi confermati.
19
Esse sottolineano che la cronaca giudiziaria è protetta dal diritto alla libera
espressione del pensiero e dunque può essere limitata solamente da altri beni
giuridici di pari grado. Pongono quindi quali regole generali il principio della
pubblicità dei processi ed il diritto della stampa ad avere accesso
alle
aule di
DIRITTO DELL
'INFORMAZIONE
giustizia, come mezzo per allontanare qualsiasi sospetto di parzialità o per la
funzione della stampa di comunicare informazioni e idee sulle questioni portate alla
conoscenza dei tribunali e per il diritto, per il pubblico, di riceverle.
La pubblicazione di atti del processo penale
Affermare che la pubblicità (ovvero, il rendere pubblico) è la regola e la
segretezza l’eccezione non è senza conseguenze nella valutazione delle scelte del
legislatore e nell’individuazione dei criteri per attuare il giudizio di bilanciamento.
Il codice di procedura penale (c.p.p.) del 1988 ha drasticamente ridotto i limiti
all’informazione giudiziaria e l’aerea coperta dal segreto informativo. La pubblicazione
degli atti del procedimento penale ha una disciplina complessa ordinata agli articoli
114 e 329 del codice di procedura penale.
L’Art. 329 c.p.p.
L’art. 329 c.p.p. fornisce la definizione di “atto segreto”. Gli atti di indagine
compiuti dal p.m. o dalla polizia giudiziaria sono segreti, almeno fino quando
l’indagato non può conoscerli. Il p.m. ha la possibilità di imporre il segreto su
determinati atti anche oltre tale termine, in caso di necessità per la prosecuzione delle
indagini.
È dunque oscuro il motivo per cui l’art. 114 co.2 vieta la pubblicazione degli atti non
più coperti da segreto fino alla chiusura delle indagini preliminari o all’udienza
preliminare, ma esclude però da tale divieto l’ordinanza che dispone una misura
cautelare come se quest’ultima fosse coperta da segreto.
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La pubblicazione di atti segreti è un delitto assai grave. Tale delitto di regola
può essere contestato al giornalista in concorso con il funzionario che gli ha dato
accesso al fascicolo e che ben può restare ignoto.
La limitazione alla diffusione, nella prima fase del procedimento, è volta a
tutelare il buon andamento delle indagini dal rischio che gli elementi di prova
ancora da assumere vengano inquinati.
La pubblicazione di atti segreti o anche solo del loro contenuto, poi, piò integrare il
delitto di favoreggiamento, qualora ciò aiuti a eludere le investigazioni dell’autorità
giudiziaria o a sottrarsi alle ricerche della medesima.
L’Art. 114 c.p.p.
Una volta venuto a meno il segreto, non per questo gli atti diventano pubblicabili
senza limitazioni. La disciplina è contenuta nell’art. 114 c.p.p. ove si prevede che
pur essendo sempre divulgabile il contenuto degli atti non segreti, se si procede al
dibattimento, gli atti del fascicolo del PM sono pubblicabili integralmente, o comunque
nel loro virgolettato, solo dopo la sentenza d’appello si basa sul carattere accusatorio
del nostro sistema processuale penale: il giudice può basare la sua decisione solo sugli
atti dibattimentali (a tutela della terzietà del giudice).
La regola è stata molto criticata in quanto pone il giornalista nella difficile situazione di
evitare le parole precise dell’atto ma di doverlo parafrasare (circostanza che aumenta
il rischio di falsare il senso del testo).
È poi vietata la pubblicazione degli atti dei processi a porte chiuse o quando
vi è un ordine del giudice in tal senso per preservare buon costume, riservatezza delle
DIRITTO
DELL'INFORMAZIONE
parti,
segreti
di Stato.
Il reato previsto per la violazione del divieto di pubblicazione di atti non più
segreti è la pena dell’arresto fino a 30 gg o l’ammenda da euro 51 a euro 258. Il
reato in questione, eccessivo, trattandosi di una contravvenzione punita con pena
alternativa, l’ordinamento prevede di chiedere l’oblazione, un meccanismo grazie al
quale con il pagamento di una somma che corrisponde alla metà del massimo della
sanzione pecuniaria, il reato si estingue.
Nel rapporto fra libertà di informazione, in materia di cronaca giudiziaria, e
segreto investigativo, assume particolare rilievo la giurisprudenza di Strasburgo.
Per la corte europea in casi di conflitto tra diffusione dii notizie di rilievo pubblico e
segreto istruttorio, l’interesse della collettività a ricevere informazioni può a
determinate condizioni prevalere sulla protezione delle inchieste. Gli Stati non possono
porre divieti assoluti alla diffusione di notizie circa indagini penale in corso. A certe
condizioni però la corte riconosce la legittimità di un divieto di pubblicazione di
atti nei confronti di un giornalista che aveva violato tale divieto.
La libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati:
L’esigenza di tutela dell’indipendenza e della terzietà degli appartenenti all’ordine
giudiziario non implica il ritorno ad un giudice alieno da ogni contatto con il mondo
esterno.
Già nella sentenza 100/1981, la Corte costituzionale aveva tracciato i limiti opponibili
alla libertà di espressione degli appratenti all’ordine giudiziario, affermando che ogni
restrizione debba trovare fondamento in particolari disposizioni costituzionali. Nella
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20
stessa direzione si pone la sentenza Sezioni unite del 2005 nel caso Sansa (un
magistrato di Genova, Adriano Sansa, si era espresso contro il Governo nel 2002), ove
si sostiene che i doveri fondamentali del magistrato riguardano il rispetto del segreto
d’ufficio e il divieto di dare pubblicità all’attività giudiziaria propria o altrui; tuttavia
non può ciò implicare un generalizzato divieto per i magistrati di esprimersi nell’arena
pubblica, salvo fondamentalmente qualora le affermazioni non siano tali da far
dubitare della sua indipendenza ed imparzialità.
Anche la Corte Europea ha ribadito la peculiare posizione dei magistrati il cui esercizio
della libertà di manifestazione del pensiero, se da un lato non può certo essere
soppresso o anche solo fortemente condizionato, dall’altro può però essere
leggermente limitato. Sui magistrati incombe un obbligo di discrezione e riservatezza
sia per la delicatezza della funzione ricoperta sia per la necessità di non intaccare la
fiducia dei consociati nel potere giudiziario che essi rappresentano.
La libertà di manifestazione del pensiero quindi deve essere esercitata con una certa
discrezione soprattutto quando autorità e imparzialità dell’ordine a cui appartengono
possono essere intaccati agli occhi dei cittadini.
L’accesso agli atti del procedimento da parte della stampa
La trasparenza per l’opinione pubblica favorisce l’indipendenza della magistratura dal
potere politico o da gruppi di interesse; pertanto, le notizie legate alla stessa non
riservate dovrebbero essere fornite alla stampa che dovrebbe fornirle al pubblico.
21
Tuttavia, una recente sentenza del Consiglio di Stato ha escluso la possibilità per i
IRITTO
DELL'INFORMAZIONE
giornalisti di accedere agli atti della pubblica amministrazione, Din
quanto
soggetti
portatori di una sorta di interesse collettivo alla diffusione dell’informazione. Lo
svolgimento di una professione indispensabile non è un motivo sufficiente a consentire
una sorta di accesso privilegiato agli atti per il giornalista. E ciò è ancora più vero
quando la diffusione dei dati a cui il professionista chiede di accedere potrebbe recare
danno a ulteriori interessi.
Oggi i giornalisti in assenza di una disciplina che consenta loro un accesso agli atti,
devono trovare altre strade.
La critica all’attività giudiziaria
Il diritto di critica giudiziaria è solo una specificazione del diritto di critica e dunque
non risponde a parametri molto diversi da quelli generali.
Anzitutto è necessario comprendere se vi è stata una offesa. Quest’ultima poi potrà
essere scriminata se, qualora di basi su un fatto, quest’ultimo sia vero, la censura
riguardi un fatto di interesse pubblico e sia stata espressa senza insulti gratuiti.
Dunque, pure la critica giudiziaria, quando si appoggia su un fatto, deve trovare
riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà e non deve risolversi in
una ricostruzione preordinata ad attirare l’attenzione negativa del pubblico.
In questa ottica sussiste una distinzione tra le critiche all’attività dei magistrati, al
contenuto dei provvedimenti e le invettive contro la sfera morale della persona. I primi
di regola sono leciti in quanto, se non prendono le mosse da dati falsi, si limitano a
esporre un’opinione in ordine a questioni certamente di interesse pubblico, come
l’amministrazione della giustizia, a patto che non siano accompagnati da ingiurie.
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Viceversa, le secondo concernono un aspetto estraneo al ruolo pubblico e così, in
assenza di interesse per la collettività, l’offesa è solitamente illecita.
A questo proposito, in giurisprudenza è Stato osservato che “il limite all’esercizio del
diritto deve così intendersi superato quando l’agente trascenda ad attacchi personali,
diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di pubblico interesse, la
figura morale del soggetto criticato.
Cronaca giudiziaria e diritti dell’imputato
Gli interessi individuali che possono entrare in conflitto con il diritto ad informare sono
plurimi, anche se tutti idealmente collegati al principio della dignità della persona. La
Costituzione prevede esplicitamente la presunzione di non colpevolezza sino alla
condanna definitiva ed il diritto di una persona accusata di un reato ad essere
informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa.
Dai principi costituzionali si ricavano inoltra in via implicita i diritti all’onore, alla
reputazione, al decoro, alla riservatezza e all’identità personale delle
persone coinvolte in un procedimento.
È evidente che la tutela di questi valori non possa implicare un divieto di diffondere
notizie sui reati e rei sino alla pronuncia della sentenza definitiva; ciò comporterebbe
un eccessivo sacrificio dell’interesse pubblico ad essere informati su fatti di grande
rilievo sociale. Dunque, la giurisprudenza riconosce di regola la rilevanza pubblica
dell’informazione giudiziaria, specie in materia penale.
LaDdelicatezza
dei diritti della persona impone un penetramento esame da parte dei
IRITTO DELL'INFORMAZIONE
tribunali circa il rispetto dei requisiti della verità e della continenza.
Così il cronista dovrà esercitare il diritto di informare con particolare rigore, specie
qualora riferisca di un processo pendente, lasciando nel lettore almeno l’ombra del
dubbio circa la colpevolezza dell’imputato e attribuendo ai provvedimenti giudiziari la
loro effettiva valenza.
La giurisprudenza italiana ha affermato che il giornalista deve adottare una particolare
cautela, prudenza ed equilibrio, verificare con particolare attenzione l’attendibilità
delle fonti, usare una terminologia precisa, giuridicamente appropriata, specificando
l’eventuale non definitiva condanna, astenersi da illazioni ed esagerazioni.
Occorre infine ribadire che la cronaca giudiziaria non necessariamente si pone in
conflitto con gli interessi degli imputati. La diffusione di informazione sui processi
permette all’opinione pubblica non solo di conoscere il fatto di reato e il suo autore,
ma anche di controllare l’operato degli organi giurisdizionali per evitare che essi
abusino del proprio potere.
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22
LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E TUTELA DELLA PRIVACY NEL
MONDO DIGITALE
Pur in assenza di un esplicito riconoscimento costituzionale a livello domestico, il
diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati di carattere personale conosce al
giorno d’oggi una protezione rafforzata che riposa sia sulla previsione, affidata all’art.
8 della CEDU di un diritto alla vita privata e familiare sia sul disposto più
recedente degli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Questo diritto ha infatti origini connesse all’elaborazione dottrinale statunitense: il
diritto alla riservatezza, ossia la pretesa di escludere intromissioni nella propria vita
privata da parte di altri.
Quella pretesa che Warren e Brandeis, due insigni giuristi statunitensi, descrissero
nel 1890 in un celebre articolo (The Right to Privacy) apparso sulla Harvard Law
Review come right to be let alone, o “diritto a esse lasciati in pace”. Warren e
Brandeis sottolinearono l’esigenza che l’ordinamento predisponesse adeguate tutele
a difesa della persona rispetto alle interferenze derivanti dalle nuove
tecnologie dell’epoca, come ad esempio la fotografia e la stampa.
23
La Costituzione degli Stati Uniti non offre alcun riconoscimento esplicito, a parte il 4°
emendamento, che si limita a proteggere i cittadini da perquisizioni e sequestri
ingiustificati. L’assenza di un chiaro referente a livello normativo e costituzionale ha
permesso alla giurisprudenza della Corte suprema statunitense di esercitarsi
variamente nell’individuare il principio più adeguato, di volta in volta, a tutelare la
privacy degli interessati: si è così sviluppata un’ampia casistica nella
la Corte
DIRITTOquale
DELL'INFORMAZIONE
suprema ha assimilato il right to privacy rispetto a una varietà di fattispecie.
Raggiunta una certa maturazione nel contesto nordamericano, il diritto alla privacy ha
conosciuto un processo di “esportazione” in Europa che si è avvalso anche della sua
consacrazione in documenti internazionali, come la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948 . La
dichiarazione all’art. 12 sancisce che “nessun individuo potrà essere sottoposto ad
interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella
sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo
ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni”.
Il primo documento europeo a riguardare il detto diritto è la Convenzione europea
dei diritti dell’uomo degli anni ’50: nell’art. 8, riprendendo in qualche modo ciò che
era Stato dichiarato nella dichiarazione dei diritti dell’uomo, essa pone espressamente
una norma che garantisce il rispetto della vita privata e famigliare:
Art. 8 - «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e
familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale
diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una
misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale,
alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa
dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della
morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»
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Nella Convenzione ci sono già chiaramente gli strumenti per comprendere il conflitto
tra informazione e privacy e qualche principio che consente di dare un equilibrio tra
questi due diritti (una sorta di bilanciamento).
La convenzione è vincolante per i singoli Stati (a differenza della dichiarazione); ciò
significa che gli Stati sono obbligati a tutelare adeguatamente il diritto alla
riservatezza secondo il paradigma indicato all’art. 8; eventuali violazioni di tale diritto
vengono accertate e dichiarate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.
Il diritto alla privacy e il concetto di “dati personali”
Il diritto alla privacy troverebbe nel nostro ordinamento non una tutela esplicita, ma
una tutela implicita mettendo insieme altre norme costituzionali che tutelano diritti
che vanno a garantire la sfera personale del soggetto rispetto al mondo esterno,
contro l’interferenza da parte di terzi pubblici e privati.
Vi è dunque una lunga fase storica nella quale il diritto alla privacy viene interpretato
come diritto a essere lasciati soli, o diritto alla riservatezza (dimensione negativa
rispetto all’interferenza dei pubblici o privati poteri).
Quello che ancora cambia la prospettiva è lo sviluppo tecnologico: l’informatica
cambia completamente le modalità di apprensione e di conservazione e di
elaborazione dei dati. L’informatica consente di conservare e di elaborare molto
velocemente una quantità enorme di dati relativi alle persone, e diventa dunque
oggetto di attenzione da parte del diritto il concetto dei dati personali.
Nasce
DIRITTOuna
DELL'Itendenza
NFORMAZIONEnei vari ordinamenti a individuare una protezione della privacy
non solo in una prospettiva negativa, ma in una prospettiva positiva e dinamica a
tutela non solo della riservatezza del soggetto, ma anche a tutela del dato personale
che il soggetto non può escludere dalla vita pubblica (poiché non si può dire “no, non
cedo i miei dati personali se vado in ospedale”), ma una serie di principi, regole e
garanzie per far si che questi dati siano trattati in modo corretto.
Quindi emergono due profili della tutela della privacy che tendono a distinguersi:
1.
2.
Prospettiva della riservatezza
Prospettiva dei dati personali
I dati personali
Siccome i dati personali sono anche dati economici, - possono essere considerati dei
veri e propri asset dotati di valore - la costruzione della normativa sui dati personali
avviene a livello europeo: il legislatore italiano va a rimorchio del legislatore europeo;
le prime leggi sulla privacy in Italia derivano da una regolamentazione a livello
europeo.
Il primo passaggio è dato da una convenzione (trattato esterno dall’UE) che è la
Convezione di Strasburgo del 1981 che viene predisposta nell’ambito del Consiglio
d’Europa. Questa convenzione introduce alcune soprattutto nozioni che poi sono di
grande rilievo per la successiva rivoluzione della privacy, come il trattamento
automatizzato dei dati e la distinzione tra dati comuni e dati personali. Questa
convenzione possiede valore prevalentemente programmatico, che però ha avuto il
merito di introdurre un primo strumentario anche terminologico (si pensi alle nozioni di
“trattamento automatizzato” o di “dati a carattere personale”) e di sollecitare le parti
contraenti a tenere in conto l’esigenza di tutela della vita privata in relazione
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24
all’elaborazione di dati personali. È questo il momento fondativo della “protezione dei
dati”.
Da questa convenzione nasce la grande direttiva europea sulla tutela dei dati
personali 95/46/CE, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al
trattamento dei dati personali nonché alla libera circolazione di tali dati. L’obiettivo
della direttiva è dunque armonizzare la disciplina vigente in ciascun Stato membro per
facilitare la circolazione transfrontaliera di dati personali ed eliminare gli eventuali
ostacoli rappresentati da differenze o incongruenze normative.
L’intervento europeo, come già sottolineato, è motivato dal fatto che la dimensione
della tutela dei dati personali non coinvolga solo la dimensione civile, che riguarda più
strettamente gli Stati membri dell’UE, bensì anche la dimensione economica, su cui
l’UE ha maggiore competenza e possibilità di intervento.
25
Un momento di ulteriore svolta che conferma la fisionomia complessa del diritto alla
privacy è coinciso con l’entrata in vigore della Carta dei Diritti Fondamentali
dell’UE. Tale carta riveste nel 2009 lo stesso rango giuridico dei trattati dunque quello
di diritto primario dell’Unione. Sebbene la carta fosse già stata proclamata con valore
non vincolante nel 2000 e il suo contenuto si limiti a riaffermare i diritti derivanti dalle
tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comune agli Stati membri, la sua
collocazione nel rango primario non è priva di conseguenza. Questa operazione
permetterà alla corte di giustizia di utilizzare le norme affidate agli artt. 7 e 8 della
carta come parametri per giudicare la validità del diritto derivato dell’unione nonché
di valutare la conformità di eventuali disposizioni di recepimento adottate dagli Stati
membri.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Essa prevede due norme diverse per la tutela della privacy:
Art. 7-RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E DELLA VITA FAMILIARE “ogni
persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio
domicilio e delle proprie comunicazioni”. riprende la tradizionale tutela della
vita privata e famigliare prevista nella convenzione europea dei diritti dell’uomo
Art. 8 - PROTEZIONE DEI DATI DI CARATTERE PERSONALE “ogni persona
ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Tali
dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate
e n base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento
legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati
raccolti che la riguardano e di ottenere la rettifica. Il rispetto di tali regole è
soggetto al controllo di un’autorità indipendente”. Norma che attribuisce diritti
che solitamente sono attribuiti dalla legge, rafforza a livello di trattato e quindi
a livello costituzionale alcuni diritti legati al trattamento dei dati personale.
L’evoluzione delle normative dopo l’avvento del digitale: il GDPR
La direttiva 95/46/CE si è rilevata ben presto però inadeguata a fronte della rivoluzione
digitale. Si è reso necessario rimediare all’obsolescenza della disciplina vigente. In tal
senso sia la giurisprudenza della corte di giustizia, sia le autorità nazionali di
protezione dei dati personali, istituite in ciascun Stato membro, hanno offerto un
apporto cruciale attraverso sentenze e provvedimenti in grado di dettagliare il
contenuto della normativa vigente in rapporto alle tecnologie emergenti.
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A livello legislativo è Stato avviato un processo di revisione della normativa vigente
finalizzato a elevare il livello di armonizzazione tra le legislazioni degli Stati membri.
Questo iter avviato sulla base di una proposta della commissione europea del gennaio
del 2012 è terminato con l’approvazione del regolamento (UE) 2016/679 ossia il
nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati personali (noto anche in
Inglese come General Data Protection Regulation e abbreviato in GDPR) che ha
sostituito la direttiva 95/46/CE, disegnando un quadro normativo applicabile in ciascun
Stato membro.
Il GDPR è divenuto efficace a partire del 25 maggio 2018. Esso è direttamente
applicabile, senza la richiesta di intervento allo Stato membro che deve darne in
seguito applicazione. La scelta del regolamento risponde ad un ulteriore e più forte
esigibilità del trattamento dei dati personali. Il regolamento allo stesso tempo lascia
spazio al diritto nazionale. Pone principi che poi il legislatore nazionale attua.
Il GDPR: definizioni, principi, diritti degli interessati
Con l’avvento del GDPR cambia almeno in parte la filosofia: la precedente normativa si
basava su due aspetti (autorizzazione e consenso; il soggetto ossia il titolare doveva
ottenere l’autorizzazione del garante al trattamento dei dati e necessitava del
consenso dell’interessato ossia al soggetto a cui appartengono quei dati). Il passaggio
alla nuova normativa è basato sul rischio: il soggetto che tratta i dati non deve più
chiedere l’autorizzazione del trattamento dei dati, ma deve aver preventivamente
adottato quelle misure che mirano ad evitare rischi per quanto riguarda il corretto
trattamento dei dati. Il legislatore europeo ha ragionato nel senso che il trattamento
deiDIRITTO
datiDELLè'INFORMAZIONE
ormai attuato su scala infinta e quindi il meccanismo stretto
dell’autorizzazione e del consenso è un meccanismo che non funziona più o almeno
funziona solo parzialmente.
Definizioni
La normativa si apre con una serie di nozioni (necessarie per capire l’oggetto della
disciplina). Il GDPR ha ereditato le categorie terminologiche che erano state introdotte
dalla direttiva 95/46/CE:


Nozione di dati personali, art. 4 del regolamento  “dato personale è
qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o
identificabile (interessato)”. Il titolare dei dati personali viene definito
l’interessato. L’interessato è il soggetto a cui quei dati appartengono.
Ovviamente alcuni dati personali sono molto identificativi (Giulio Enea Vigevani
è molto identificativo) altri sono poco identificativi (nome Francesca) ma
aiutano comunque ad identificare. Al riguardo “si considera identificabile una
persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente”.
Il GDPR individua poi alcune categorie particolari di dati personali, che
comprendono i “dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni
politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale”
nonché “i dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una
persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento
sessuale della persona” (è così invalso l’uso della denominazione di “dati
comuni” per identificare i dati personali che rientrano nelle categorie particolari,
in passato note anche come “dati sensibili”). Il trattamento di queste particolari
categorie di dati è sottoposto a cautele aggiuntive e a requisiti maggiormente
stringenti, come si dirà oltre: per esempio il consenso dell’interessato al loro
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26

trattamento deve essere esplicito (in passato la normativa italiana richiedeva
che fosse dato per iscritto, requisito formale che non è più in vigore in base al
GDPR).
Concetto di trattamento  “trattamento è qualsiasi operazione o insieme di
operazioni, compiute con o anche senza l’ausilio di processi automatizzati e
applicate a dati personali o insieme di dati personali, come la raccolta dei dati,
la registrazione, l’organizzazione, la consultazione, la strutturazione, l’uso, la
distruzione la diffusione, la cancellazione etc.”. Si tratta di una nozione
onnicomprensiva che descrive pressoché la totalità delle operazioni suscettibili
di inerire a dati personali. Quindi ogni attività che riguarda i dati personali viene
considerato trattamento.
Le nozioni di dati e di trattamento sono entrambe molto ampie.


27
Titolare del trattamento: “è la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il
servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le
finalità e i mezzi di trattamento di dati personali; quando le finalità e i mezzi di
tale trattamento sono determinati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, il
titolare del trattamento o i criteri specifici applicabili alla sua designazione
possono essere stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri” (es.
l’istituzione scolastica rispetto ai dati personali degli studenti; è titolare del
trattamento è il datore di lavoro rispetto ai dati personali del lavoratore).
Responsabile del trattamento: è colui che tratta i dati per conto del titolare.
“è la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo
che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento” (es. il rettore
dell’università; un hosting provider agisce come responsabile del trattamento
DELL'INFORMAZIONE
per i dati pubblicati dai gestori di siti che utilizzanoDIRITTO
i suoi
servizi di
memorizzazione permanente).
Principi
Il GDPR stabilisce poi all’Art. 5 i principi ai quali deve essere informato il trattamento
di dati personali.
I dati possono essere trattati solo con:





consenso del soggetto titolare dei dati  consenso libero, informato, granulare
e specifico, dovrà essere fornito sulla base di un’informativa adeguata ed
esaustiva che l’interessato deve ricevere dal titolare in cui sono esempio
espliciti le finalità e i mezzi del trattamento.
Principio di liceità, correttezza e trasparenza
Principio di limitazione delle finalità: se io ti autorizzo al trattamento dei
miei dati per un certo fine tu li può utilizzare solo per raggiungere quello scopo
e non altri. I dati devono essere raccolti per finalità determinate, esplicite e
legittime, e successivamente trattati in modo che non sia incompatibile con tali
finalità.
Principio di minimizzazione dei dati: siccome i dati sono preziosi, i dati che
un terzo può utilizzare devono essere pertinenti a quello scopo. I dati devono
essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità.
Principio di esattezza: i dati devono essere esatti e il soggetto può sempre
accedere alla banca dati che contiene i suoi dati personali e quindi di verificare
l’esattezza e di imporre la correzione dei dati erronei. Quindi i dati devono
essere esatti e se necessario aggiornati.
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

Limitazione della conservazione: i dati devono essere conservati in una
forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non
superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati. Limiti alla
conservazione dei dati: una volta terminata la finalità i dati devono essere di
regola cancellati.
Principio di integrità e riservatezza dei dati: i dati devono essere trattati in
maniera da garantire un’adeguata sicurezza.
L’idea di fondo è l’attenzione che i dati personali siano protetti contro un uso
eccessivo, ulteriore a quello che l’interessato (titolare) ha imposto o la legge ha
imposto.
Oltre al consenso esistono altre basi giuridiche di frequente impiego che possono
legittimare il trattamento di dati personali. L’Art. 6 menziona tra le varie condizioni
queste:
A. Il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto.
B. È necessario per adempiere un obbligo legale.
C. È necessario per la salvaguardia degli interessi vitali (es. monitorare
l’evoluzione delle epidemie).
D. È necessario o connesso all’esercizio di pubblici poteri
E. È necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del
trattamento o di terzi, a condizione che tali interessi non prevarichino le libertà
fondamentali dell’interessato. Un esempio di legittimo interesse è il fatto che
l’interessato sia cliente o dipendente del titolare, e dunque questi abbia necessità di
conoscere i suoi dati personali non sensibili.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Diritti salvaguardati dal GDPR
Il GDPR mantiene intatto lo statuto dei diritti dell’interessato già definito dalla direttiva
95/46/CE, che anzi si arricchisce di talune novità:
1. Fondamentale tra tutti è il Diritto di accesso: l’interessato deve poter
conoscere se un determinato soggetto - pubblico o privato che sia - sta
trattando i suoi dati
2. Diritto di rettifica: cioè di ottenere dal titolare la rettifica dei dati inesatti
senza ingiustificato ritardo, ovvero l’integrazione dei dati incompleti
3. Diritto alla cancellazione dei dati, noto anche come diritto all’oblio: Il
soggetto ha diritto a vedersi cancellare i dati quando questi dati non sono più
necessari per le finalità del trattamento (trattamenti dei dati non per finalità
informative però)
4. Diritto alla portabilità dei dati: consiste nel diritto dell’interessato a ricevere
in formato strutturato, di uso comune e leggibile da un dispositivo automatico i
dati personali da parte del titolare e a trasmetterli a un altro titolare del
trattamento senza impedimenti.
5. Diritto dell’interessato a non essere sottoposto a una decisione basata
unicamente su un trattamento automatizzato che produca effetti giuridici
nei suoi confronti o incida sulla sua persona: questione dell’intelligenza
artificiale. Quando una decisione possa incidere sulla sfera di un soggetto,
questa decisione non può essere lasciata solo su processi automatizzati, ma
serve un intervento umano. Più aumenta la possibilità attraverso i calcoli
Statistici di individuare precisamente ad esempio i contenuti vietanti aumenta
anche la possibilità di escludere contenuti sulla base dei procedimenti
escludenti dell’intervento umano. Siccome si vuole sempre che quando c’è un
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28
effetto giuridico su un soggetto (es: chi vive in un determinato quartiere dove
uomini tra 18 e 40 anni che non lavorano, hanno un tasso di insolvenza
altissimo. Quindi i big data posso escludere questa categoria di persone di
accedere a sistemi economici. Si può andar a prevedere quale sia la probabilità
che tizio sia un buon o cattivo pagatore. Questo però crea discriminazione.
Siccome tu appartieni a quel gruppo, allora sono sicuro che tu sei un certo tipo).
Questi comportamenti totalmente automatizzati (che diventeranno sempre più
presenti siccome sono estremamente precisi), questi dati che vengono
continuamente raccolti non sono più dati individuali ma sono sempre più dati
collettivi, quindi a seconda dell’appartenenza del gruppo vi è una disciplina
giuridica differente. L’introduzione di questo nuovo diritto: ossia a non essere
sottoposto solamente ad un processo automatizzato
6. Diritto di limitazione di trattamento: ossia il diritto a ottenere il
congelamento del trattamento di dati senza però provocarne la cancellazione in
tutti quei casi l’interessato abbia interesse a mantenerne la disponibilità (per
esempio qualora contesti il legittimo interesse utilizzato dal titolare, nelle more
dell’iter di verifica)
7. Diritto di opposizione: per motivi connessi alla situazione particolare
dell’interessato, al trattamento dei dati personali, il cui esercizio comporta
l’astensione da parte del titolare dall’ulteriore trattamento, salva l’esistenza di
motivi legittimi cogenti.
29
È interessante altresì notare come il GDPR, attraverso l’Art. 3, abbia allargato
l’ambito di applicazione territoriale della disciplina europea. In tale ambito rientra
ora anche il trattamento di dati di interessati che si trovino nell’Unione effettuato da
un titolare o da un responsabile non stabilito nell’Unione quando
le 'Iattività
di
DIRITTO DELL
NFORMAZIONE
trattamento riguardino: a) l’offerta di beni o la prestazione di servizi ovvero b) il
monitoraggio del comportamento degli interessanti avente luogo all’interno
dell’Unione.
Proprio in relazione all’apertura a nuove fattispecie nell’applicazione del GDPR viene
istituita la figura del rappresentante nell’Unione.
Gli obblighi previsti dal GDPR
Il GDPR stabilisce un set di obblighi applicabili indistintamente a titolari e responsabili
del trattamento.
L’Art. 32 stabilisce l’obbligo per il titolare e il responsabile di mettere in atto misure
tecniche e organizzative adeguate a garantire un livello di sicurezza
adeguato al rischio. Nel valutare l’adeguato livello di sicurezza si tiene conto in
special modo dei rischi derivanti dalla distruzione, dalla perdita, dalla modifica, dalla
divulgazione non autorizzata o dall’accesso in modo accidentale o illegale, a dati
personali trasmessi, conservati o comunque trattati: queste tipologie di accadimenti
corrispondo ai c.d. data breaches, ossia le violazioni di dati personali.
In caso di data breach il titolare è tenuto a notificare la violazione all’autorità di
controllo competente senza ingiustificato ritardo e, possibilmente, entro 72 ore dal
momento in cui ne ha acquisita conoscenza.
Il titolare è tenuto a documentare qualsiasi violazione, annotando circostanze,
conseguenze e provvedimenti adottati per porvi rimedio.
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Si esige che il titolare metta in atto misure tecniche e organizzative adeguate ad
assicurare che le attività di trattamento siano conformi al GDPR.
Il GDPR esprime un vero e proprio obbligo, sintetizzato in due formule:


privacy by design: si richiede al titolare di mettere in atto misure tecniche e
organizzative adeguate ad attuare i principi sulla protezione dei dati sia al
momento di determinare i mezzi del trattamento, sia all’atto del trattamento del
medesimo.
privacy by default: al titolare del trattamento si richiede che per impostazione
predefinita siano adottate misure tecniche e organizzative finalizzate a
garantire che siano trattati solo i dati necessari a ogni specifica finalità del
trattamento e che i dati non siano resi accessibili a un numero indefinito di
soggetti senza l’intervento di una persona fisica.
Altro obbligo: la tenuta dei registri delle attività di trattamento costituisce un obbligo,
vincolante sia per il titolare che per il responsabile, che mira a costruire una
mappatura dei trattamenti.
La giurisprudenza della corte di giustizia sul rapporto tra diritto
alla privacy e libertà di espressione
Alcune delle sentenze della corte di giustizia in questo solco presentano ricadute assai
importanti sul rapporto tra diritto alla privacy e libertà di espressione.
Prima dell’entrata in vigore della Carta, il leading case è stato a lungo rappresentato
dalla
sentenza
Lindqvist, la prima in cui la corte ebbe il modo di confrontarsi con il
DIRITTO
DELL'INFORMAZIONE
mutato scenario tecnologico.
CASO LINDQVIST  La vicenda aveva preso origine dalla pubblicazione da parte di
una cittadina svedese di un sito Internet, nel quale essa aveva indicato le generalità di
alcuni parrocchiani, tra cui alcuni dettagli sulla loro vita privata e familiare senza il loro
consenso. La corte di giustizia ha statuito che la divulgazione su un sito Internet delle
generalità e di alcuni dettagli inerenti alla vita privati di individui effettuata senza il
loro consenso integra certamente un trattamento di dati personali.
Diritto all’oblio: il caso Google Spain
La sentenza Google Spain (13 maggio 2014) ha segnato indelebilmente un punto di
non ritorno nel rapporto tra libertà di espressione e diritti della personalità sul web,
manifestando in tutto il suo vigore l’attitudine protettiva della corte di giustizia
rispetto alla privacy in ambito di digitale.
La pronuncia viene comunemente ricordata per aver “introdotto” un diritto all’oblio
in Internet, anche se appare senz’altro più corretto ridimensionare il suo valore
innovativo con due puntualizzazioni che meritano sin d’ora di trovare spazio:
 in primo luogo, la sentenza non ha sancito l’esistenza di un diritto a cancellare
la memoria dal web, ossia a rimuovere le notizie dai siti Internet, bensì quello di
ottenere la rimozione di alcune notizie dai risultati generati dai motori di
ricerca;
 in secondo luogo, la sentenza non ha creato alcun diritto, ma ha fornito
un’interpretazione delle disposizioni allora vigenti, racchiuse nella direttiva
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30
95/46/CE, che tutelavano già in via generale l’interessato consentendogli di
ottenere la cancellazione di alcune informazioni.
Per comprendere il caso e le sue implicazioni concrete occorre ripercorrere la vicenda
che ha riguardato l’informazione giornalistica all’avvento delle tecnologie digitali. La
diffusione su larga scala di Internet, infatti, ha comportato una migrazione anche dei
tradizionali mezzi di informazione in rete: ciascun giornale oggi dispone di un proprio
sito Internet nel quale veicolare parte dei propri contenuti. Molti dei quotidiani
nazionali hanno poi scelto di costituire dei veri e propri archivi nei quali fosse
possibile per gli utenti risalire alle notizie del passato, assolvendo così non soltanto ad
una finalità informativa propria del mestiere giornalistico, ma anche a una più
ampia funzione storico-archivistica. La scelta di collocare all’interno di siti dei
giornali notizie anche risalenti ha generato una problematica di non poco momento a
causa dell’indicizzazione cui tali contenuti sono soggetti da parte dei motori di
ricerca.
Talvolta si tratta di notizie non aggiornate in quanto parziali (si pensi alla notizia di
arresto di una persona, non integrata dai riferimenti al successivo evolversi della
vicenda processuale che ha condotto alla sua assoluzione), talaltra di riferimenti che
offrono una rappresentazione più attuale della personalità (si pensi a precedenti,
infelici esperienze professionali in grado di pregiudicare la reputazione di una persona
e le sue opportunità nei rapporti socioeconomici). La riproposizione da parte dei motori
di ricerca di notizie in grado di restituire un’immagine non fedele di una persona ha
posto le basi per la nascita del dibattito sul c.d. “diritto all’oblio”.
31
L’elaborazione sul diritto all’oblio non è in realtà nuova e non costituisce un portato
dell’avvento di Internet: in epoche non sospette, la giurisprudenza
italiana
e di altri
DIRITTO
DELL'INFORMAZIONE
paesi europei non mancò di tracciare i primi confini, collegando l’esigenza di tutela
sottostante (la ricerca appunto dell’oblio) con la tutela dell’identità personale.
Così per esempio la cassazione civile specificò che “ciascun soggetto ha interesse,
ritenuto generalmente meritevole di tutela giuridica, di essere rappresentato, nella
vita di relazione, con la sua vera identità così come questa nella realtà sociale,
generale o particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con la applicazione
dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva; ha cioè interesse a
non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio
patrimonio
intellettuale,
politico,
sociale,
religioso,
ideologico,
professionale, ecc. quale si era estrinsecato od appariva in base a circostanze
concrete ed univoche, destinato ad estrinsecarsi nell’ambiente sociale”.
Il caso giudiziario “Google Spain”
La vicenda dalla quale è scaturito il rinvio pregiudiziale avanti alla corte di giustizia
vedeva opposti, davanti all’autorità per la protezione dei dati spagnola, l’AEPD, il sig.
Costeja Gonzàlez e Google.
Il primo domandava che fosse ordinato al motore di ricerca di cancellare alcuni link
diretti alle pagine web di una pubblicazione, La Vanguardia, che riportava i dettagli di
un procedimento di esecuzione da lui subito anni prima. Il secondo eccepiva che tale
intervento fosse inesigibile da un motore di ricerca e che la richiesta andasse piuttosto
indirizzata al gestore del sito sorgente.
L’ordine di rimozione dell’AEPD veniva contestato da Google in sede giurisdizionale,
dove il giudice riteneva di investire la corte di giustizia di un set di quesiti al fine di
comprendere, tra l’altro, se il diritto dell’Unione offrisse un fondamento alla pretesa
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dell’interessato a ottenere la rimozione dei propri dati dai risultati generati dai motori
di ricerca.
Alla corte di giustizia veniva richiesto di rispondere in particolare a un quesito
caratterizzato da una struttura scalare. La domanda cui occorreva rispondere era in sé
molto semplice: un interessato può chiedere e ottenere da un motore di ricerca la
rimozione di alcuni risultati (link) in assenza di una previa notifica al titolare del sito
sorgente? Ma la risposta a questo interrogativo richiedeva l’esame di una serie di
passaggi pregiudiziali: anzitutto l’attività svolta da un motore di ricerca come Google
costituisce un “trattamento di dati personali” ai sensi dell’allora vigente direttiva
95/46/CE (questa definizione è rimasta immutata nel GDPR)? Se la risposta è
affermativa può un motore di ricerca come Google considerarsi un titolare del
trattamento in relazione ai dati personali degli interessati contenuti nelle notizie
indicizzate? Se sì, allora esiste un diritto degli interessati a ottenere, in base alla
direttiva, la rimozione dei risultati di ricerca?
Ancora protagonisti sono l’artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, che “guidano” la Corte di giustizia verso un’interpretazione della normativa
coerente con lo Stato dell’arte delle tecnologie:
1. Nel percorso logico della corte di giustizia il primo punto cardine è la
qualificazione dell’attività di indicizzazione svolta dai motori di ricerca come
trattamento di dati personali. La sentenza dà una risposta affermativa: la
circostanza oggettiva per cui i motori di ricerca riproducono dati personali
contenuti in pagine web di terzi conferma l’esistenza di un trattamento.
2. il secondo passaggio è invece quello maggiormente critico, da cui dipende di
fatto
risposta della corte di giustizia al quesito di fondo rivoltole dal giudice
DIRITTO
DELL'Ila
NFORMAZIONE
spagnolo. La corte ha indicato nel motore di ricerca un titolare del trattamento.
Questa figura implica un potere di signoria da parte di un soggetto sul
trattamento di dati, di cui finisce le modalità e le finalità (“come” e “perché”).
3. Il terzo passaggio della sentenza è quello decisivo: appurato che vi è
trattamento di dati e che il motore di ricerca ne è titolare, la corte riconduce la
relazione tra Google e il ricorrente nel paradigma titolare-interessato, così da
attivare in favore di quest’ultimo quel fascio di diritti che la direttiva 95/46/CE
già consacrava nel suo catalogo, e che il GDPR ha riprodotto e ampliato. Tra
questi diritti, due situazioni venivano in particolare in rilievo: da un lato, si
invocava l’art. 12 lett. B) relativo al diritto dell’interessato, tuttora esistente, a
ottenere la cancellazione, la rettifica o il congelamento dei dati quando
il trattamento non fosse conforme ai principi della direttiva, specialmente a
causa del carattere inesatto e incompleto dei dati; dall’altro lato si proponeva di
utilizzare l’art. 14, par. 1, lettera b) che invece codificava il diritto
dell’interessato di opporsi in qualsiasi momento, per motivi preminenti e
legittimi, derivanti dalla sua situazione particolare, al trattamento di dati che
lo riguardano. La corte, soprattutto in base alla prima norma, arriva ad
affermare in capo all’interessato di un diritto alla deindicizzazione: infatti, la
situazione di incompatibilità con i principi sul trattamento che funge da
presupposto per l’esercizio di questo diritto può derivare non soltanto dal
carattere inesatto dei dati, ma anche dal fatto che essi siano inadeguati, non
pertinenti o eccessivi in rapporto alle finalità del trattamento. La corte di
giustizia specifica insieme che il trattamento effettuato da un motore di ricerca
non può fondarti sull’art. 9 della direttiva 95/46/CE che concerne il trattamento
per finalità giornalistiche: il trattamento sembrerebbe derivare la sua
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32
giustificazione, piuttosto, dal perseguimento di un legittimo interesse da parte
del motore di ricerca.
In ogni caso, poiché la richiesta di deindicizzazione si configura come l’esercizio di un
diritto, in caso di diniego l’interessato potrà rivolgersi all’autorità di protezione dei dati
personali o all’autorità giudiziaria, che potranno rovesciare la decisione del motore di
ricerca.
Così mentre la tutela del diritto all’oblio era prima affidata a una richiesta
individualizzata al sito Internet affinché sottraesse dai motori di ricerca alcune pagine
web, ora viene aperta la strada di un rapporto diretto con il motore di ricerca senza un
necessario intervento delle autorità: e tuttavia il compito di bilanciare gli interessi in
gioco non pare affatto agevole se affidato a operatori privati.
33
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
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PRIVACY E ATTIVITÀ GIORNALISTICA
La tutela della privacy assicura il riserbo della vita privata di ciascuno. Il diritto di
cronaca garantisce la possibilità di commentare i fatti, fossero anche fatti privati altrui.
Ne deriva che i due diritti si pongano in rapporto antitetico. Il diritto alla
riservatezza nasce proprio per porre un limite alla stampa, che senza di esso non
avrebbe alcun limite a trattare i fatti inerenti alla sfera personale degli individui.
In realtà non c'è sovrapposizione tra i due diritti poiché uno specifico dato personale
non può essere oggetto di entrambe le garanzie contemporaneamente. I due diritti si
spartiscono il campo di dati personali: ve ne sono alcuni che cadono sotto la tutela,
altri invece possono venire divulgati. Il conflitto quindi sorge solo sulla linea di
demarcazione tra queste due aree di dati personali. Tale linea non dipende dalla
volontà del soggetto, quanto all’essenzialità del dato ai fini di comunicazione di una
notizia e del relativo interesse pubblico di quest’ultima.
Fondamento costituzionale del diritto alla privacy
Viene stabilita per la prima volta una legge a tutela della privacy in Italia solo nel
1996. Prima, solo dottrina e giurisprudenza si erano fatte carico di tutelare il cittadino
in relazione dell’attività dei media, grazie a normative come la Convezione europea
dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e famigliare
(1995).
Inoltre, veniva fatto rientrare nell’Art. 2 della Costituzione Italiana:
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Art. 2 - La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia
come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e
richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica
e sociale.
tra i diritti inviolabili menzionati, anche quello di “essere lasciato solo”, dunque non
importunato nella sfera personale.
Inoltre, vi sono diversi articoli che contribuivano a “creare” questo diritto alla
riservatezza, benché esso non fosse esplicitato in Costituzione:




Art.
Art.
Art.
Art.
13
14
15
29




inviolabilità della libertà personale
inviolabilità del domicilio
libertà e segretezza delle comunicazioni
inviolabilità dell’autonomia della famiglia
La disciplina oggi vigente nell’attività giornalistica
La disciplina oggi vigente prevede, per le norme generali, la consultazione del già
descritto GDPR [VEDI SOPRA].
Tuttavia, per quanto riguarda il trattamento dei dati nell’attività giornalistica, vi sono
delle esenzioni e delle deroghe al suddetto regolamento, che vengono previste dal
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34
Codice in materia di protezione dei dati personali, titolo XII, parte II, alla voce
“Giornalismo, libertà di informazione e di espressione”.
L’Art.136
Vediamo le norme coinvolte: prima di tutte, l’Art. 136 delimita il campo di
applicazione dell’eccezione, cioè circoscrive l’ambito della normativa derogatoria,
stabilendo che le disposizioni del titolo XII si applicano al trattamento di dati personali:
a)
Dice che si applica ai trattamenti effettuati nell’esercizio della
professione giornalistica e per l’esclusivo perseguimento delle relative
finalità;
b)
Effettuato dai soggetti iscritti nell’elenco dei pubblicistici o nel
registro dei praticanti;
c)
Finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione anche
occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche
nell’espressione accademica, artistica e letteraria.
L’Art.137
Poi, l’Art. 137 è diviso in due parti. I primi due commi escludono l’applicazione della
disciplina generale sul trattamento di dati, così apparentemente riconoscendo uno
spazio di libertà pressoché senza confini; il terzo e ultimo comma invece fissa i limiti
che circoscrivono tale normativa speciale. In base al primo e al secondo comma i
principali presupposti del trattamento da parte dei privati non trovano
applicazione quando si tratta di libertà di informazione:
35
1. Il primo comma consente il trattamento dei dati di cui D
agli
9 (dati
IRITTOarticoli
DELL'INFORMAZIONE
sensibili) e 10 (dati relativi a condanne penali e reati) del GDPR anche senza il
consenso dell’interessato (devono però essere rispettate le regole
deontologiche). Non serve il consenso, io posso trattare legittimamente dati
personali (anche sensibili) senza consenso dell’interesso né implicito né
esplicito.
2. Il comma 2 precisa che non si applicano le disposizioni circa le misure di
garanzia che possono essere disposte dal Garante in relazione a certi tipi di dati
sensibili, né quelle relative ai provvedimenti generali che lo stesso può adottare
in relazione ai trattamenti svolti per l’esecuzione di un compito di interesse
pubblico che possono presentare rischi elevati, né infine disposizioni che
disciplinano il trasferimento dei dati all’estero.
3. Il terzo comma dell’art. 137 pone la norma cardine dell’intera disciplina in
esame, stabilendo che “restano fermi i limiti del diritto di cronaca” a tutela
del diritto alla protezione dei dati personali “e, in particolare, quello
dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico.
Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti
direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico”.
La norma pare sostanzialmente affermare che i giornalisti (e le persone che esercitano
la libertà di manifestazione del pensiero) non devono chiedere il consenso
dell’interessato per trattare i suoi dati personali; la loro diffusione, tuttavia, deve
comunque rispettare i limiti del diritto di cronaca e in special modo il limite
dell’essenzialità dell’informazione, e soltanto in relazione a fatti che sono di interesse
pubblico.
L’interesse pubblico non riguarda soltanto argomenti per così dire “alti” quali possono
essere politica, cultura, arte, scienza o anche critica giudiziaria; la nozione di interesse
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pubblico riguarda ciò che effettivamente interessa il pubblico di lettori, ascoltatori o
telespettatori e va dunque calata nel contesto concreto della società,
identificandosi così negli argomenti e nei temi che effettivamente possono incidere
sulla formazione delle opinioni collettive in un determinato ambiente sociale. In primo
luogo, i fatti devono essere di interesse pubblico e quindi rilevanti per il contesto
sociale di riferimento; ma ciò non basta. In relazione a tali fatti, possono essere
diffusi solo i dati indispensabili per rendere conoscibile la notizia e non altri;
in altri termini, il giornalista può sì diffondere liberalmente i dati senza il consenso
degli interessati, ma ciò a condizione che senza di essi la notizia sarebbe
incomprensibile.
Quindi in sintesi la regola che si desume dalla prima parte dell’art. 137 co.3 è la
seguente: il giornalista deve individuare la notizia, verificarne il pubblico interesse e
quindi individuare i dati personali – raccolti secondo correttezza e veritieri – la cui
diffusione è indispensabile per renderla comprensibile.
Sul punto l’art. 6 delle Regole deontologiche relativo al trattamento dei dati
personali nell’esercizio dell’attività giornalistica ribadisce il requisito dell’essenzialità
dell’informazione, ma non fornisce elementi di particolare utilità: la disposizione
stabilisce infatti che una “informazione, anche dettagliata” è possibile qualora “sia
indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi
particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”.
In altre parole, quando il giornalista riferisce di una vicenda originale gli è riconosciuto
un più ampio margine di libertà di divulgare dati personali; si tratta di una
specificazione condivisibile ma tutto sommato scontata, perché è ovvio che se la
notizia
in un fatto singolare la sua comprensione richiederà giocoforza un
DIRITTOconsiste
DELL'INFORMAZIONE
maggior numero di informazioni. Per meglio comprendere il criterio dell’essenzialità
dell’informazione è utile richiamare le decisioni prese dal Garante e dalla
magistratura, che sul punto sono numerose. La rassegna della casistica è utile anche
per chiarire i requisiti dell’interesse pubblico e dell’essenzialità della notizia,
in concreto, tendono a sovrapporsi: un dato privo di interesse pubblico non è mai
essenziale, così come un dato non essenziale non è mai veramente di interesse
pubblico.
Vediamo dunque alcuni punti della casistica relativa all’essenzialità dell’informazione:
a.
Non sono pubblicabili dettagli e particolari che nulla hanno a che
vedere con la descrizione dell’evento oggetto dell’articolo di cronaca
b.
Non sono pubblicabili dati, a maggior ragione sensibili, come l’indicazione
di una precisa patologia, relativi a congiunti di persone pur coinvolte in fatti
d’interesse pubblico, in quanto non essenziali al diritto d’informazione
c.
Nel dare la notizia di un presunto legame sentimentale tra un importante
manager ed un’attrice, è illecito pubblicare dati personali dei famigliari
del tutto estranei alla vicenda. Infatti, la notorietà del protagonista della
vicenda, non affievolisce i diritti dei suoi famigliari ed in particolare dei figli
d.
Rispetta il limite dell’essenzialità dell’informazione in ordine a fatti di
interesse pubblico la pubblicazione dei nominativi delle persone che hanno
dichiarato il più elevato reddito in relazione ad un determinato anno
d’imposta
e.
Ecc.
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36
Oltre ai limiti previsti dalle regole che abbiamo appena visto, è comunque consentito il
trattamento (e quindi la diffusione) dei dati personali resi noti dall’interessato
direttamente o indirettamente, ad esempio mediante suoi comportamenti in
pubblico.
È legittimo ad esempio diffondere la notizia della presenza di una persona a una
manifestazione o a una grande festa in un locale. È possibile anche pubblicare foto di
personaggi noti in situazioni private, se queste si verificano in un luogo pubblico o
aperto al pubblico o aperto al pubblico (è il caso di immagini di un calciatore che si
trova con degli amici in una spiaggia pubblica). Invece non può essere diffusa la foto di
una persona che effettua un esame con l’etilometro soltanto perché tale fatto è
avvenuto sul ciglio di una strada: la presenza in un luogo pubblico in questo caso non
è certo riconducibile alla volontà dell’interessato, ma soltanto al dovere di rispettare
un ordine delle forze di pubblica sicurezza. In altre parole, si ritiene necessario che la
persona a cui si riferiscono i dati abbia scelto liberalmente di renderli noti
mediante un comportamento in pubblico.
Ma oggi moltissime persone conducono parte della loro vita di relazione on line. Ci si
può dunque chiedere se le attività poste in essere sui social network – ad
esempio pubblicazione di status, commenti o foto – devono essere considerate come
comportamenti in pubblico; la risposta è affermativa, a condizione ovviamente che si
tratti di attività visibili a qualunque navigatore.
Le regole deontologiche e le principali situazioni applicative
37
L’onere di dettare una disciplina del settore giornalistico è legato sì al Codice
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
menzionato, ma anche e soprattutto alle regole deontologiche della professione del
giornalista. L’art. 139 del Codice stabilisce che tali regole “prevedono misure ed
accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in
particolare per quanto riguarda quelli relativi alla salute e alla vita o all’orientamento
sessuale”.
Queste regole sono proposte dal Garante e poi adottate dal consiglio nazionale
dell’Ordine dei Giornalisti. Il secondo comma dell’art. 139 precisa cosa succede in caso
di disaccordo fra i due se il consiglio non le adotta, il Garante potrà adottarle in via
sostitutiva e queste saranno vincolanti: il Garante può quindi agire d’imperio nel caso
di mancata adozione da parte del Consiglio.
Gli articoli delle “regole”
Il Testo unico dei doveri del giornalista ribadisce il principio di essenzialità
dell’informazione, specificando altresì che è necessaria una previa valutazione
dell’impatto della diffusione dei dati per categorie di soggetti in particolari situazioni.
In particolare:
L’art. 2 si stabilisce che nella raccolta dei dati personali il giornalista deve chiarire la
propria identità personale e professionale, nonché le finalità della raccolta stessa.
L’art. 3 prevede le principali regole deontologiche su identità personale e diritto
all’oblio; nello specifico la disposizione che il giornalista:
•
Rispetta il diritto all’identità personale ed evita di far riferimento a
particolari relativi al passato, salvo quando essi risultino essenziali per la
completezza dell’informazione;
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•
Nel diffondere a distanza di tempo dati identificativi del
condannato valuta anche l’incidenza della pubblicazione sul percorso di
reinserimento sociale dell’interessato e sulla famiglia
•
Tutela il condannato che sceglie di esporsi ai media, evitando di
identificarlo solo con il reato commesso e valorizzando il percorso di
reinserimento che sta compiendo
•
Non pubblica i nomi di chi ha subito violenze sessuali né fornisce
particolari che possano condurre alla loro identificazione a meno che ciò sia
richiesto delle stesse vittime;
•
Non pubblica i nomi dei congiunti di persone coinvolte in casi di
cronaca, a meno che ciò sia indispensabile alla comprensione dei fatti e
comunque non li rende noti nel caso in cui si metta a rischio la loro incolumità;
non diffonde altri elementi che ne rendano possibile l’identificazione o
l’individuazione della residenza;
•
Presta cautela nel diffondere ogni elemento che possa condurre
all’identificazione dei collaboratori dell’autorità giudiziaria o di pubblica
sicurezza, soprattutto quando ciò possa mettere a rischio l’incolumità loro e
delle loro famiglie.
L’art. 6 ribadisce il fondamentale requisito dell’essenzialità dell’informazione. Il
secondo comma specifica che “la sfera privata delle persone note o che esercitano
funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun
rilievo sul loro ruolo o sulla vita pubblica degli interessati”.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
L’art. 8 non consente la pubblicazione di informazioni e immagini lesive della
dignità delle persone; dunque non conta solo il contenuto dei dati divulgati, ma
anche le modalità con cui essi sono presentati nell’articolo o nel servizio. Il secondo
comma vieta di diffondere fotografie o riprese di persone in stato di detenzione
senza il loro consenso, salvo rilevanti motivi di interesse pubblico.
L’art. 9 impone al giornalista di rispettare “il diritto della persona alla non
discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni
personali, fisiche o mentali”.
Le altre disposizioni stabiliscono tutele specifiche:
L’art. 3 prevede che quella riconosciuta al domicilio si estende ai luoghi di cura e di
riabilitazione: si tratta di luoghi in cui la persona ha un’aspettativa elevata di intimità e
riservatezza, che non può essere compromessa ricorrendo a tecniche invasive (es:
teleobiettivi o microfoni direzionali).
L’art. 10 vieta la divulgazione di dati analitici di interesse strettamente clinico
salvo che la persona rivesta una posizione di particolare rilevanza politica o sociale e,
comunque, che la diffusione rispetti la dignità della persona e l’essenzialità
dell’informazione. È divulgabile sia lo stato di malattia di una persona, sia la sua
presenza in ospedale; non si può pubblicare però particolari analitici riguardo le
patologie contratte.
L’art. 11 estende i medesimi limiti previsti per i dati sanitari a quelli relativi alle
abitudini sessuali la cui pubblicazione è dunque ammessa soltanto “nell’ambito del
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38
perseguimento dell’essenzialità dell’informazione e nel rispetto della dignità della
persona se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica”
(es. non è consentito pubblicare il contenuto di un sms di una nota attrice che
contengono dati idonei a rilevare la sua vita sessuale).
L’art. 12 stabilisce che al trattamento giornalistico dei dati relativi ai procedimenti
penali non si applicano i limiti previsti per i dati giudiziari del regolamento. Gli atti del
processo penale sono dunque pubblicabili nel rispetto delle regole del c.p.p.; non
sono invece pubblicabili dati di vittime di reati particolarmente lesivi della
dignità o della riservatezza.
L’art. 7 riguarda il trattamento di dati che riguardano i minori: principio è vietata
la diffusione di qualunque dato riguardante minori, a meno che la
pubblicazione non sia nell’oggettivo interesse degli stessi. La carta di Treviso
detta regole più puntuali: prevalenza dell’interesse del minore sul diritto di
cronaca ma anche la necessità per il giornalista di interrogarsi se quanto sta
compiendo sia nell’effettivo interesse del minore stesso. per pubblicare dati che
riguardano minori non è sufficiente il consenso dei genitori o dei tutori: al
giornalista è richiesta un’attenta opera di controllo, affinché nell’adempimento della
propria professione non finisca per nuocere al minore. Caso particolare: minore
deceduto in questa ipotesi non c’è alcun interesse da proteggere, se non quello dei
genitori che potrebbero essere titolati di un diritto all’immagine del figlio; quindi in
questi casi è sempre consigliabile pubblicare foto o dati in accordo con i genitori
stessi.
39
Per quanto riguarda i dati provenienti da enti pubblici questi sono pubblicabili
quando la loro comunicazione e la diffusione sono previste da norme
di legge
o da
DIRITTO DELL
'INFORMAZIONE
regolamenti e secondo le modalità ivi disciplinate (es: sono pubblicabili i risultati degli
scrutini scolastici).
Il diritto all’oblio nelle “regole”
Il Testo unico dei doveri del giornalista menziona all’art. 3 il diritto all’oblio; manca
una chiara definizione legislativa, in quanto si tratta di un diritto concepito dalla
dottrina e poi recepito dalla giurisprudenza. In sintesi, esso indica il “diritto a essere
dimenticato” e fa dunque riferimento alla circostanza che il confine fra libertà di
espressione e tutela della riservatezza risente del passaggio del tempo.
La diffusione di certi dati personali infatti può rientrare nell’esercizio del diritto di
cronaca nel momento in cui la notizia è di maggior interesse pubblico in quanto
attuale; a distanza di tempo, man mano che tale attualità si affievolisce, tende invece
a prevalere il diritto alla privacy dell’interessato rispetto alla libertà di informare.
È evidente che alcuni fatti per l’importanza che hanno avuto e magari proseguono ad
avere nel dibattito pubblico o nell’immaginario collettivo, continuano ad essere
divulgabili; ma ciò proprio perché lo scorrere del tempo non incide sulla permanenza
dell’interesse pubblico. Altri fatti invece hanno dignità di notizia soltanto in prossimità
del loro verificarsi ma successivamente la loro riproposizione non risponde più ad
alcun interesse informativo e ciò implica una lesione della sfera personale dei
protagonisti.
Oggi il diritto all’oblio assume un ruolo molto più esteso in ragione del fatto che
praticamente ogni testata mette a disposizione il proprio archivio su Internet e che un
articolo o servizio restano accessibili per un tempo indeterminato e potenzialmente
infinito. Dunque, è molto più facile che la permanenza nella rete di un “pezzo” di
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cronaca, anche se a suo tempo perfettamente lecito, a distanza di anni possa rilevarsi
non più tale proprio in ragione del venir meno della sua attualità.
È anche possibile che una notizia corretta al momento della prima pubblicazione si
rilevi nel tempo inesatta, incompleta o errata; si pensi ad esempio a un articolo che
riguarda l’imputazione o l’arresto per un certo reato, in relazione al quale l’interessato
è stato poi assolto.
In concreto il diritto all’oblio può essere esercitato in forme diverse a seconda del
caso. L’interessato può chiedere l’anonimizzazione, cioè la rimozione di quei dati che
identificano o rendono identificabile l’interessato. Soprattutto con riferimento alle
vicende giudiziarie è inoltre possibile chiedere l’aggiornamento o la
contestualizzazione, così da rendere edotto il fruitore di quali sono stati gli sviluppi
successivi della vicenda o di quali sono altri fatti che comunque rendono più completa
e corretta la rappresentazione dei fatti.
L’autorità garante per la protezione dei dati personali
Oggi è l’Art. 8 della Carta dei diritti dell’Unione a prevedere che in ogni Stato
membro vi sia un’autorità indipendente che controlli il rispetto del diritto alla
protezione dei dati di carattere personale; ed è proprio in forza degli obblighi europei
che l’ordinamento italiano ha introdotto tale autorità, che prende comunemente il
nome di “Garante per la privacy”.
Oggi i principi generali sono previsti nel GDPR, il cui art. 52 stabilisce che “ogni
autorità di controllo agisce in piena indipendenza nell’adempimento dei propri compiti
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
e nell’esercizio
dei propri poteri conformemente al presente regolamento”. In sintesi,
il Garante svolge un’attività normativa regolamentare e generale, un’attività
amministrativa in senso stretto (cioè la cura concreta del settore) e un’attività di tipo
“giustiziale” in cui è chiamato a risolvere alcuni tipi di controversie.
Caratteristiche del Garante e sue funzioni
Il vertice del Garante è un Collegio composto da quattro membri (due eletti dalla
Camera dei deputati e due dal senato della Repubblica).
L’Autorità non è dotata di autonomia finanziaria, nel senso che non ha proprie entrate
e provvede alla gestione delle spese per il proprio funzionamento nei limiti di un fondo
istituito ed erogato dallo Stato e iscritto in un apposito capitolo dello stato di
previsione del Ministero dell’economica e delle finanze.
Il Garante ha poi piena autonomia contabile e amministrativa, nel senso che gestisce
le risorse che ha a disposizione in modo discrezionale, fatto salvo il rispetto delle leggi
e dei regolamenti in materia.
Le principali funzioni del Garante sono:



Un generico e penetrante controllo sulle modalità di trattamento dei dati, sia
d’ufficio sia su sollecitazione degli interessati, nell’ambito del quale il Garante
può rispondere a quesiti, irrogando anche sanzioni amministrative pecuniarie o
interdittive;
Una costante attività di segnalazione al Governo e al Parlamento circa
l’opportunità di nuovi provvedimenti normativi in materia di protezione dei dati
personali; • La tenuta del registro dei trattamenti;
L’estensione di una relazione annuale al Parlamento;
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40

La promozione delle regole deontologiche.
Poteri del Garante
Sono tre i tipi di procedimento che possono svolgersi difronte al Garante:
1. Controllo del Garante sui soggetti a lui sottoposti
2. Applicazione di sanzioni nei confronti di tali soggetti
3. Le controversie tra persone che lamentano la violazione di un loro diritto
Esiste anzitutto un generale potere di vigilanza sul rispetto degli obblighi derivanti
dalle fonti normative europee e italiane. Tale potere si esprime in un procedimento
che si apre normalmente d’ufficio e nell’ambito del quale possono essere richieste al
titolare del trattamento informazioni o l’esibizione di documenti. L’Autorità può altresì
disporre accessi alle banche dati o altre ispezioni, anche in luoghi di privata dimora
con il consenso del titolare o del responsabile o previa autorizzazione del Presidente
del tribunale competente per territorio. Il procedimento si conclude con un atto con cui
il Garante indica al titolare quali misure o modifiche sono necessarie per rendere il
trattamento conforme alla legge.
L’Autorità può poi irrogare sanzioni in via amministrativa. Il Garante in questi casi
decide l’esito di un procedimento. Questo tipo di procedura tutela fra le altre cose
oltre che la correttezza dell’informativa nella raccolta dei dati, anche le prerogative
dell’Autorità: viene così garantito il funzionamento degli altri due tipi di processo.
Rapporto tra interessato e Garante
41
Ogni interessato ha la facoltà di ottenere tutela mediante reclamo al Garante. Il
reclamo è proposto dall’interessato per indicare una violazione della disciplina in tema
DIRITTOdettagliata
DELL'INFORMAZIONE
di trattamento dei dati che lo riguardi; deve contenere un’indicazione
dei
fatti e delle circostanze su cui si fonda, delle disposizioni che si presumono violate e
delle misure richieste. Il reclamo è presentato al Garante senza particolari formalità; al
termine di un’istruttoria sommaria il Garante può adottare uno dei provvedimenti e in
particolare imporre il divieto di trattamento.
L’interessato ha anche la facoltà di rivolgere al Garante una segnalazione, per
portarlo a conoscenza di una trasgressione della normativa. all’esito di una procedura
sostanzialmente analoga a quella appena descritta, possono essere adottati gli stessi
provvedimenti.
L’unica differenza fra reclamo e segnalazione è la precisione dell’atto iniziale di avvio
del procedimento.
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I LIMITI “OGGETTIVI” ALLA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE
I limiti alla libertà di espressione non si rinvengono solo nell’esigenza di tutelare i c.d.
diritti della personalità (reputazione, identità personale, riservatezza), ma anche
nell’esigenza di proteggere beni e valori collettivi; è questo il caso del buon
costume, unico limite espressamente contemplato nell’art. 21 Cost., ma anche di altri
beni e valori, quali, ad esempio la difesa dello stato, la corretta amministrazione della
giustizia, la prevenzione dei reati e il mantenimento delle condizioni di una pacifica e
civile convivenza.
Nozione di buon costume tra “morale dominante”, “pudore
sessuale” e “dignità della persona”
L’ultimo comma dell’art. 21 stabilisce che “sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli
spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume” aggiungendo che
“la legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e reprimere le violazioni”.
Si nota subito che in tale disposizione dopo i commi precedenti specificamente
dedicati alla stampa, l’art. 21 torna ad occuparsi della libertà di espressione in
generale, indipendentemente dal mezzo di diffusione: la disposizione si riferisce a
pubblicazioni a stampa, ma anche agli spettacoli e in generali a tutte le altre
manifestazioni; altra notazione importante è che la seconda parte della disposizione,
nel porre una riserva di legge per la disciplina della materia, demanda alla legge di
individuare forme e limiti (non solo per la repressione ma anche) per la prevenzione
DIRITTO
DELL'INFORMAZIONE
delle
violazioni
del buon costume attraverso autorizzazioni e censure. Ne consegue
che per tutto ciò che può definirsi come stampa la tutela del buon costume non può
legittimare l’adozione di controlli e misure preventive, ma può esplicarsi solo
attraverso interventi di tipo repressivo, mentre un limitato ricorso anche a interventi di
tipo preventivo potrà ammettersi per quelle forme di manifestazione che non rientrino
nella nozione di stampa, come per gli spettacoli televisivi, teatrali, cinematografici, e
la diffusione attraverso Internet.
Il problema principale posto dalla disposizione consiste nella esatta delimitazione della
nozione di “buon costume”, che è nozione elastica e in continua ridefinizione.
Semplificando molto si può dire che esistono nel nostro ordinamento almeno due
diverse nozioni di buon costume: da un lato quella utilizzata nell’art. 1343 c.c. (che
stabilisce l’illeceità del contratto contrario appunto a norme imperativi all’ordine
pubblico o al buon costume), e che la dottrina tende a individuare come tutto ciò che
pur non essendo specificamente vietato da disposizioni penali, risulta in contrasto con
i principi etici dominanti in un certo momento storico (così per esempio sarà nullo il
contratto avente ad oggetto l’acquisto di prestazioni sessuali); dall’altro lato quella
molto più ristretta che si risolve nella nozione di “osceno” di cui all’art. 529 c.p. (per
cui è osceno ciò che secondo il comune sentimento offende il pudore) e che protegge
lo spettatore, soprattutto se minore, dal turbamento che potrebbe derivare dalla
esposizione a spettacoli, immagini, descrizioni di atti sessuali, dalla violazione,
insomma, di quella sorta di naturale riserbo che normalmente circonda le
manifestazioni della sessualità.
Se si accedesse alla nozione più ampia che di fatto identifica il buon costume con la
“morale dominante”, cioè potrebbe mettere in pericolo ogni forma di critica volta
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42
appunto a mettere in discussione gli assunti etici condivisi dalla maggior parte della
popolazione: es, posto che oggi la maggioranza della popolazione italiana sia contraria
all’adozione di minori da parte di single o di coppie formare da persone dello stesso
sesso, o alla pratica della maternità surrogata (utero in affitto), un’accezione così
ampia e indistinta di buon costume potrebbe essere utilizzata per reprimere qualsiasi
informazione di pensiero volta a suscitare un ripensamento sul punto.
Non è un caso che la Corte Costituzione sin dalle prime decisioni abbia nettamente
respinto ogni forma di identificazione del buon costume con la morale dominante,
pur senza abbracciare la nozione più ristretta invece lo identifica con il solo pudore
sessuale.
La Sent. 9/1965 è un classico esempio di sentenza interpretativa di rigetto, in cui la
corte, pur salvando la disposizione sottoposta a suo giudizio (la questione di
costituzionalità è ritenuta infondata) ne promuove una interpretazione che ritiene
maggiormente rispettosa del dettato costituzionale: in pratica, la corte punta a
circoscrivere l’ambito di applicazione della norma a quelle sole forme di divulgazione
che, per le modalità con cui avvengono, presentino una specifica idoneità ad offendere
la sensibilità dello spettatore, del lettore, insomma del pubblico. La soluzione
interpretativa prospettata dalla corte non fu però seguita dai giudici tanto che appena
6 anni dopo la corte fu costretta a ritornare sulla questione e questa volta concluse
per l’incostituzionalità della disposizione che vietava la propaganda e la diffusione
delle pratiche contraccettive, per violazione dell’art. 21 cost.
43
Se è netto il rifiuto della concezione del buon costume come morale dominante la
corte non perviene però neppure a identificare il buon costumeDcon
solo
pudore
IRITTO il
DELL
'INFORMAZIONE
sessuale; e in effetti nelle decisioni rimangono profili di ambiguità nella definizione dei
comportamenti contrari al buon costume ad esempio nel frequente riferimento al
sentimento morale dei giovani o alla morale giovanile, concetti per la verità di non
facile definizione.
Inizia ad affacciarsi all’interno della definizione di buon costume il riferimento al
concetto di dignità personale, che acquisterà a poco a poco una importanza centrale
nel circoscrivere la nozione di buon costume: in particolare nella Sent. Corte cost.
293/2000 relativa alla disposizione della legge sulla stampa che punisce le c.d.
pubblicazioni raccapriccianti.
Lesive del buon costume possono essere diverse condotte materiali (non
espressioni di pensieri: ci si riferisce all’uso di determinati termini o particolari
immagini, mai al contenuto del pensiero espresso) che possono turbare la sensibilità
dello spettatore, non solo in quanto riferite a manifestazioni della sessualità, ma più
in generale in quanto offensive del valore fondamentale della dignità umana
desumibile dall’art. 2 Cost, che assume quindi il valore di un vero e proprio “super
principio” costituzionale da cui trae fondamento la stessa previsione dell’art. 21, co. 6
Cost.
Il riferimento alla nozione di dignità umana non è di per sé risolutivo nel contesto di
una società “multiculturale” in cui ogni cultura è di per sé portatrice di una propria
visione dell’uomo e della donna e della sua dignità: ma vi è un minimo comune
denominatore condiviso e comune.
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Il reato di “pubblicazioni e spettacoli osceni” e la circolazione
delle opere pornografiche; la particolare tutela dei minori:
L’art. 528 del Codice Penale punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria
“chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli
pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello stato, acquista, detiene,
esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni
di qualsiasi specie”; la sanzione penale (della reclusione) è invece mantenuta per chi
“adopera qualsiasi mezzo di pubblicità atto a favorire la circolazione o il commercio”
dei prodotti osceni, ovvero “dà pubblici spettacoli teatrali o cinematografici, ovvero
audizioni o recitazioni pubbliche, che abbiano carattere di oscenità”.
L’art. 529 completa poi la previsione fornendo la nozione di “osceno” secondo cui
“agli effetti della legge penale, si considerano osceni gli atti e gli oggetti che, secondo
il comune sentimento, offendono il pudore” e precisando poi che “non si considera
oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello
di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore
degli anni 18”.
La produzione e la messa in circolazione di materiale osceno continua quindi ad essere
considerata nel nostro ordinamento un’attività illecita: se è così, però, viene da
chiedersi come sia possibile che la circolazione e la commercializzazione di prodotti
pornografici sia ampiamente tollerata e relativamente libera.
Dagli anni ’70 si afferma un primo filone giurisprudenziale, per il quale la distribuzione
e la visione di materiale pornografico (all’epoca erano i film a luci rosse e riviste)
DIRITTOnon
DELL'Idare
NFORMAZIONE
poteva
luogo a responsabilità se avveniva con cautele tali da circoscrivere
l’acquisto o la visione del materiale ai soli adulti che, consapevoli del carattere
pornografico dell’opera, liberalmente decidevano di procedere all’acquisto o alla
visione.
Per molti anni, la giurisprudenza rimase divisa tra quei giudici che in base ad una
interpretazione più libera ed evolutiva della norma, tendevano a assolvere i detentori,
distributori e diffusori di materiale pornografico (es. rivenditori di materiale
audiovisivo) alla sola condizione che fossero adottate cautela volte ad impedirne la
visione a minori o a adulti non consenzienti, e quelli che, invece, attendendosi
maggiormente al tenore letterale della norma, ritenevano del tutto irrilevanti le
modalità con cui l’opera veniva fruita o fatta circolare.
Il contrasto giurisprudenziale continuò per tutto il corso degli anni ottanta, arrivando
persino al cuore della Corte di cassazione l’argomentazione della corte è la seguente:
posto che ciò che caratterizza un prodotto come osceno è la sua idoneità ad offendere
il pudore, tale idoneità non può essere valutata senza tenere conto, oltre che delle
caratteristiche del prodotto in sé, anche delle modalità con cui questo prodotto viene
fatto circolare e offerto alla fruizione del pubblico: infatti, se tali modalità sono tali da
escludere che il prodotto venga visionato da adulti che non abbiano, consapevolmente
e liberamente, deciso di fruirne, ovvero da minori (il cui eventuale consenso è ritenuto
dalla legge non validamente espresso) allora il prodotto stesso, indipendentemente
dalle sue caratteristiche oggettive, non acquisisce una concreta idoneità ad offendere
il pudore di alcuno e di conseguenza non può considerarsi osceno ai sensi della
legge penale. In altri termini non esiste nulla che sia osceno in sé, ma un
determinato prodotto acquista o meno la idoneità a offendere il pudore (e quindi il
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requisito dell’oscenità) in relazione al modo in cui è fatto circolare e fruito dal
pubblico.
L’interpretazione accolta dalle Sezioni unite riceve da lì a poco anche l’avallo della
Corte costituzionale e sarà destinata ad essere ampiamente condivisa e recepita dai
giudici negli anni successivi, venendo a rappresentare il vero e proprio diritto vivente
in materia di repressione penale della pornografia.
Il principio affermato dalla corte costituzionale e dalla corte di cassazione secondo cui
non esiste l’osceno in sé, ma un prodotto può risultare o meno osceno a seconda di
come viene fruito e fatto circolare, è sopravvissuto all’usura del tempo e può tuttora
adattarsi anche a quello che è oggi il maggior veicolo di diffusione della pornografia,
ovvero Internet: anche in questo caso ciò che conta è che il materiale potenzialmente
lesivo del pudore non sia offerto alla visione in modo indiscriminato, in modo che
l’utente della rete possa imbattersi in esso casualmente, ma che sia chiaramente
identificato e reso accessibile solo sulla base di una ricerca mirata e
consapevole, in modo da evitare che in esso possano imbattersi adulti non
consapevolmente determinati a prenderne visione e soprattutto minori.
Minori, Internet e pornografia
45
Per quanto riguarda i minori, l’utilizzo di alcune cautele potrebbe apparite quasi
ridicolo, per l’evidente facilità con cui esse possono essere aggirate: ma non
bisognerebbe mai dimenticare che la fruizione di una connessione ad Internet da parte
di un minore, avviene sempre sulla base del consenso di una persona maggiorenne
(genitori); dietro ogni minore che accede ad Internet vi è sempre un adulto che gli
fornisce gli strumenti per farlo e al quale spetta assicurarsi che DilIRITTO
minore
utilizzi la
DELL'INFORMAZIONE
connessione in modo appropriato: cosa che può risultare facilitata dalla possibilità di
attivare “filtri” e simili dispositivi elettronici. La responsabilità di proteggere la
particolare sensibilità del minore quindi si riparte su due categorie di soggetti: da un
lato i genitori o altri adulti che mettono a disposizione la connessione; dall’altro chi
effettua il c.d. upload del contenuto pornografico, cui spetta non dissimulare la natura
del prodotto e renderlo chiaramente riconoscibile come pornografico, sia per l’utente,
sia per i filtri automatici che devono poter essere attivi per impedirne la visione ai
minori.
I minori sono una categoria ritenuta meritevole di particolare protezione in tutto ciò
che attiene alla protezione del pudore sessuale e più in generale del buon costume,
anche in considerazione degli effetti dannosi che l’esposizione a determinate immagini
può determinare sulla formazione della loro personalità. È infine opportuno ricordare
che quando sin qui si è detto sulla libera circolazione delle opere pornografiche deve
ritenersi rigorosamente circoscritto ai prodotti realizzati da e con adulti consenzienti:
del tutto diverso è il caso di pornografia minorile (utilizzando cioè minori) che è
invece oggetto di severe sanzioni penali, che puniscono oltre ovviamente a chi
produce tale materiale, chiunque lo diffonda, anche senza fini di lucro e anche a titolo
gratuito e chiunque semplicemente ne venga in possesso.
Reati d’opinione
Non è semplice dare una definizione precisa ma che potrebbero essere descritti come
quei reati il cui elemento materiale è costituito dall’espressione di un’opinione, un
giudizio o un sentimento (e che quindi da questo punto di vista differiscono dai
reati concernenti il buon costume, in cui, come si è visto, più che il contenuto di
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pensiero ad essere sanzionato è l’utilizzo di determinate modalità espressive, quali
parole, immagini ecc.) e che non sono finalizzati alla tutela del singolo individuo
(e sotto questo punto di vista si differenziano dalla diffamazione o dall’ingiuria) ma a
proteggere beni e valori della collettività, riconducibili essenzialmente al
mantenimento delle condizioni di una pacifica e civile convivenza.
Non si può negare che l’individuazione precisa degli interessi di rilievo costituzionale
che giustificano la criminalizzazione di determinate forme di espressione è spesso
tutt’altro che agevole: spesso non è del tutto chiaro quale sia il bene o valore
costituzionalmente protetto che giustifica la repressione penale, e ciò ha indotto molti
a dubitare della legittimità costituzionale di queste figure di reato; molte delle quali
risalgono al periodo precedente l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e
sono nate con la chiara finalità di reprimere il dissenso, ma sono per lo più
sopravvissute alla caduta del regime fascista e all’avvento della Costituzione
democratica, sia pure passando attraverso una rilettura da parte di giudici, corte
costituzionale e in misura minore legislatore.
Del resto, anche dopo l’avvento della Costituzione repubblicana la tendenza del
legislatore a sanzionare penalmente determinate forme di espressione ritenute
pericolose per il mantenimento dell’ordine democratico e della pacifica convivenza
non è venuta a meno: sicché nel trattare di questo tema occorre fare una preliminare
distinzione tra i reati di opinione introdotti prima e quelli introdotti successivamente
all’avvento delle Costituzione repubblicana.
Il fascismo in Italia e il codice penale Rocco
Per quanto riguarda i reati introdotti prima dell’avvento della Costituzione, se pure la
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
loro presenza si riscontra già nei codici penali ottocenteschi, è con l’avvento del
fascismo e in particolare con il codice penale Rocco del 1930, che la categoria dei
reati di opinione conosce la sua massima espansione.
Nel codice penale del 1930 i reati di opinione si rinvengono nei titoli intitolati ai delitti
“contro la personalità dello Stato” e i delitti “contro l’ordine pubblico”.
 Tra i delitti contro la personalità dello Stato troviamo una molteplicità di reati
che colpiscono espressioni volte ad offendere il prestigio interno o estero dello
Stato e delle sue istituzioni e simboli, come il “disfattismo politico”, la
“istigazione di militari a disobbedire alle leggi”, il “vilipendio alla nazione
italiana”.
 Tra i delitti contro l’ordine pubblico, più specificamente mirati a preservare le
condizioni materiali della pacifica convivenza, troviamo invece la “istigazione a
delinquere”, la “istigazione a disobbedire alle leggi”, la “istigazione all’odio tra
le classi sociali”.
L’adattamento delle norme fasciste nella Costituzione italiana in materia
di reati d’opinione
Quindi vi era un’ampiezza e varietà di condotte punibili e soprattutto dietro il pretesto
di tutelare il prestigio delle istituzioni o il rispetto delle leggi, possano celarsi forme
assai pericolose di repressione del dissenso politico: proprio questa fu la reale finalità
che mosse gli estensori di tali norme, ma ciò non portò alla radicale riscrittura né da
parte del legislatore (che anzi ha introdotto nuove ipotesi di reato) né da parte della
corte costituzionale che, trovandosi di fronte a questioni di legittimità costituzionale
delle relative disposizioni, raramente è pervenuta a dichiararne l’incostituzionalità.
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La corte costituzionale - preoccupata del vuoto normativo derivante dall’adozione di
sentenze di accoglimento secche - cerca dove possibile di mantenere in vita le
disposizioni promuovendone letture “costituzionalmente compatibili”, a tal fine
attingendo a tutto lo strumento processuale da essa elaborato nel corso degli anni, a
cominciare dalle sentenze interpretative, di accoglimento parziale e additive.
Emblematica in questo senso è la Sent. 65/1970 in cui la Corte con una sentenza
appunto “interpretativa” rigetta la questione di costituzionalità della norma che
punisce chiunque pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti, precisando che
l’apologia punita non è la semplice manifestazione di critica nei confronti di una norma
penale, o di una propaganda per il suo aggiornamento o la sua abrogazione, e
neppure una semplice manifestazione di simpatia, solidarietà o apprezzamento
per i moventi che hanno determinato la commissione di un reato, ma solo quella
pubblica esaltazione che per le modalità con cui si compie appare concretamente
idonea a provocare la commissione di ulteriori simili delitti, che costituisce cioè,
una sorta di istigazione indiretta a delinquere.
In altri casi la corte ha adottato pronunce più incisive, come le sentenze c.d. additive:
è il caso del reato che punisce insieme alla istigazione a disobbedire alle leggi, anche
la istigazione all’odio tra le classi sociali, e che la Corte dichiara incostituzionale nella
parte in cui non prevede che tale istigazione per essere punita debba attuarsi in
modo pericoloso per la pubblica tranquillità.
47
Gli stessi criteri informano la giurisprudenza in materia di delitti contro la personalità
dello Stato: ad esempio, la questione di costituzionalità dell’articolo che puniva la
propaganda volta alla instaurazione violenta della dittatura di unaDclasse
sociale
sulle
IRITTO DELL
'INFORMAZIONE
altre, alla soppressione violenta di una classe sociale, al sovvertimento violento degli
ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato o alla distruzione di ogni
ordinamento politico e giuridico della società, è ritenuta infondata dalla corte
sottolineando come ciò che viene colpito non sia la semplice manifestazione del
pensiero, ma l’attività di propaganda attiva volta a determinare trasformazioni
politiche e sociali attraverso l’uso della violenza; per le stesse ragioni, e nella
stessa sentenza, è invece accolta la questione dei legittimità sollevata nei confronti
della stessa norma, nella parte in cui punisce la propaganda volta del tutto
genericamente a distruggere o deprimere il sentimento nazionale.
Nelle sue decisioni sui reati di opinione, la Corte sembra profondamente influenzata
dalla c.d. dottrina dei “limiti logici” alla libertà di manifestazione del pensiero, secondo
cui la manifestazione che “tende all’azione”, che è idonea a sfociare in azione e a
influenzare il comportamento di coloro cui si dirige, trascende i confini della semplice
manifestazione del pensiero per divenire, appunto, propaganda o istigazione
indiretta: tali manifestazioni potrebbero quindi essere limitate in modo più severo di
quanto accada per le manifestazioni del pensiero pure e semplici, in quanto per le
modalità che le contraddistinguono in concreto, appaiono suscettibili di creare una
situazione di pericolo per la pacifica convivenza e per la stessa stabilità delle
istituzioni democratiche.
I reati di opinione vengono quindi letti, interpretati ed applicati, almeno in prevalenza,
come reati di pericolo comune: ciò comporta che l’ambito di applicazione di tali
disposizioni subisca una contrazione, dal momento che le relative condotte non
saranno punibili quando la loro concreta idoneità a dar luogo a comportamenti illeciti
sia chiaramente da escludere. A tal fine, occorrerà quindi una valutazione da
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effettuarsi caso per caso da parte del giudice e che potrà prendere in considerazione
in particolare:
a) le modalità (più o meno aggressive e violente) con cui il pensiero è espresso;
b) l’uditorio (più o meno esteso, più o meno sensibile a eventuali provocazioni);
c) il contesto complessivo in cui ha luogo l’espressione (solenne, serio oppure
giocoso o ironico o scherzoso);
d) le caratteristiche della persona che esprime il pensiero incriminato (uomo
politico o più in generale uomo pubblico, oppure privato cittadino).
La giurisprudenza ha contribuito a ridurre fortemente l’applicazione delle norme
fasciste in materia di reati di opinione: tuttavia non le ha cancellate del tutto.
È proprio la situazione di incertezza quella che colpisce maggiormente quando ci si
accosta a questo ambito: a fronte di un gran numero di condotte che di fatto vengono
ricondotte alla copertura dell’art. 21 cost., quindi non danno luogo a sanzioni, e spesso
neppure a un procedimento penale, non si potrà mai escludere la possibilità di
imbattersi in un PM o in un giudice particolarmente zelante, che ravvisino gli estremi
del reato, obbligando l’autore all’esternazione a subire un processo o addirittura una
condanna penale. Anche per questa ragione sono ricorrenti le proposte di riforma, se
non di radicale abrogazione, che però hanno trovato sinora risposte alquanto timide e
parziali da parte del legislatore: in particolare, l’ultimo intervento, effettuato con la l.
85/2006 ha comportato l’eliminazione di alcune figure, mentre per altre ha ridotto le
pene o circoscritto meglio la portata della condotta incriminata, pur senza eliminare
del tutto le perplessità e i dubbi che continuano a sussistere in proposito.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
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I reati di opinione introdotti dopo l’avvento della Costituzione
repubblicana: in particolare, l’apologia del fascismo e il
contrasto a razzismo e xenofobia
Successivamente all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, se da un lato
molte delle figure di reato ereditate dal fascismo sono rimaste in vigore, dall’altro
canto sono stati introdotti alcuni nuovi reati di opinione, sia pure caratterizzati da una
ratio nettamente diversa (carattere antifascista e netto rifiuto di ogni forma di
discriminazione razziale che ha portato alle leggi razziali).
Tali reati comprendono in particolare l’apologia al fascismo, la propaganda di
idee razziste e la istigazione alla discriminazione razziale, l’uso di simboli o
emblemi fascisti, nazisti o razzisti ed infine l’apologia del genocidio, mentre il
fenomeno del negazionismo, pur essendo Stato oggetto di un recente intervento
legislativo, continua, come si vedrà, a non costituire, in Italia, un autonomo reato di
opinione.
La matrice e il fondamento costituzionale di questi reati è nettamente diversa rispetto
a quelli sin ora esaminati ora vi un carattere antifascista della Costituzione, un ripudio
di ogni discriminazione basata sulla razza e nella tutela della dignità di tutte le
minoranze etniche, linguistiche, religiose e di altro genere; inoltre, alcuni di tali reati
sono stati introdotti per adempiere a precisi obblighi internazionali (es, razzismo e la
xenofobia).
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Ciò influisce anche sull’atteggiamento dei giudici e della Corte costituzionale di fronte
all’applicazione di tali disposizioni: se spesso si utilizza, anche a tale proposito, la
categoria del pericolo concreto, circoscrivendo la repressione personale alle
espressioni connotate da una certa pericolosità, a tale argomento se ne aggiungono
altri, quali in particolare, quello per cui determinate espressioni manifestano una
immediata lesività nei confronti di principi costituzionali fondamentali (quali
l’eguaglianza o la pari dignità sociale) o adempiano all’obbligo di rispettare gli impegni
internazionali.
Il riferimento alla categoria del pericolo concreto appare ancora centrale nel caso del
delitto di apologia del fascismo, introdotto dalla legge Scelba (pagina 193), in
relazione al quale la Corte costituzionale ha limitato la punibilità a quelle
manifestazioni suscettibili di condurre, concretamente, alla riorganizzazione
del partito.
Lo stesso argomento si rinviene nella giurisprudenza relativa all’uso di simboli,
emblemi o espressioni proprie del regime fascista o nazista o di movimenti razzisti
punti coloro che in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti
emblemi o simboli propri o usuali di organizzazioni e puniti coloro che partecipando a
pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di
organizzazioni naziste.
49
Anche in questo caso la giurisprudenza tende a distinguere tra le semplici
manifestazioni nostalgiche, per quanto di cattivo gusto o discutibili, e le
manifestazioni pubbliche si prefiggono di stimolare adesioni o consenso,
configurando una forma di vera e propria propaganda perDIRITTO
le associazioni
o
DELL'INFORMAZIONE
organizzazioni vietate e per il perseguimento delle relative finalità.
I giudici e il saluto fascista
Il legislatore ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del
pensiero, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che possono
determinare il pericolo che si è voluto evitare; le denominazioni “manifestazioni
fasciste” e “pubblicamente” fanno chiaramente intendere, seppure il fatto può essere
commesso sa una sola persona, esso deve trovare nel momento e nell’ambiente in cui
è compiuto circostanze tali, da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a
concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla riCostituzione di organizzazioni
fasciste.
In una sentenza della cassazione condannò un tifoso che nel corso di un corteo di
protesta organizzato fuori dallo stadio aveva seguitato a fare il saluto romano per tutta
la durata del corteo ma la corte sottolinea che esso non è Stato condannato in quando
con la sua condotta ha manifestato l’opinione di condividere o comunque provare una
simpatia per gesti e simboli propri del disciolto partito nazionale fascista, ma perché
ha compiuto una manifestazione esteriore – il saluto fascista – propria o usuale di
organizzazioni, associazioni o gruppi la quale, nel contesto e nell’ambiente in cui era
stata compiuta, era non solo idonea a provocare adesioni e consensi tra le numerose
persone presenti, ma era inequivocabilmente diretta a favorire la diffusione di idee
fondate sulla superiorità o sull’odio razziale od etnico.
La propaganda di idee razziste
Diverso è il caso del reato di propaganda di idee razziste e istigazione alla
discriminazione introdotto con la l. 654/1975, con la quale è stata data esecuzione
alla convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione
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razziale. Il testo della legge è Stato modificato una prima volta nel 1993 (legge
Mancino) e una seconda volta con la l. 85/2006. In particolare, il testo introdotto nel
1993 e rimasto in vigore fino al 2006, si segnalava per la sua notevole severità, in
quanto l’art. 3 puniva con la reclusione fino a 3 anni, chi “diffonde in qualsiasi modo
idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, o incita a commettere o
commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
Se la sanzione nei confronti di chi incita a commettere atti di discriminazione o,
addirittura atti di violenza, non creava particolari problemi, rientrando agevolmente
nello schema proprio dell’istigazione e potendosi giustificare quindi col ricorso alla
solita dottrina del “pericolo concreto” molto più problematica appariva la
giustificazione della prima previsione, che puniva chiunque si limitasse a diffondere
idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale e etnico, dal momento che la norma
sembrava voler punire proprio solo la manifestazione di un pensiero.
La l. 85/2006 ha modificato l’art. 3 della l. 654/1975 dimezzando la pena detentiva e
sostituendo la parola “diffonde” con “propaganda” e la parola “incita” con “istiga”.
Secondo cui non è punita la manifestazione del pensiero in sì, ma la propaganda volta
ad ottenere un risultato pratico, sia pure non direttamente inquadrabile nella
istigazione diretta alla violenza.
Sia prima che dopo la modifica del 2006, la giurisprudenza ha cercato di mantenere
ferma la distinzione tra la esposizione dei risultati di ricerche storiche o di speculazioni
teoriche, per quanto discutibili o persino aberranti, e la propaganda volta a stillare, in
una platea più o meno ampia di soggetti, opinioni suscettibili di condurre all’odio, alla
discriminazione
o addirittura alla violenza.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Il problema del negazionismo
La necessità di distinguere tra mera speculazione o ricerca storica, da un lato, e
propaganda volta a alimentare fenomeni di odio, discriminazione o violenza dall’altro,
si presenta anche quando si affrontano i controversi temi dell’apologia o della
negazione dell’Olocausto. Sono da tenere distinti e non sovrapponibili la prima è
l’esaltazione o giustificazione di un fatto storico di cui non si nega la realtà e la entità,
la seconda invece nella negazione della realtà storica del fatto stesso.
Con l’espressione “negazionismo” si designano in realtà condotte alquanto diverse
tra di loro:
a) ci si può riferire ad esempio alla negazione dell’Olocausto come singolo
fatto storico cioè con riferimento ai crimini commessi dal regime
nazionalsocialista tedesco e dai suoi alleati nei confronti delle popolazioni
ebraiche nel corso delle 2° GM;
b) oppure ci si può riferire ad ogni evento qualificabile come genocidio
avvenuto prima della 2° GM sia dopo e persino in epoca alquanto recente.
c) Ancora il termine negazionismo può riferirsi alla negazione assoluta del fatto
storico ovvero ad una sua più o meno grossolana minimizzazione.
Queste diverse accezioni del termine si traducono poi in diverse scelte normative
all’interno dei diversi paesi: paesi come Germania e Austria che puniscono il
negazionismo specificamente riferito ai crimini commessi dalla Germania nazista e dai
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50
suoi alleati nel corso delle 2° GM; paesi come la Svizzera che invece puniscono la
negazione di qualsiasi genocidio, crimine di guerra o crimine contro l’umanità da
chiunque e contro chiunque commesso; paesi che puniscono l’apologia, ma non la
pura e semplice negazione del genocidio (Spagna e Italia); infine paesi che non hanno
ritenuto di darsi leggi specifiche in proposito.
La presa di posizione dell’UE
In presenza di scelte così diverse da parte dei diversi paesi aderenti alla Convenzione,
la Corte europea dei diritti dell’uomo tende ad escludere che la repressione
penale del negazionismo integri una violazione dell’art. 10 CEDU, argomentando in
base al fatto che la negazione dell’Olocausto, fenomeno storicamente conclamato, non
rientra nella libertà di espressione e configura piuttosto un abuso di tale libertà;
tuttavia la corte si è dimostrata più attenta alle ragioni della libertà di espressione
laddove in discussione non fosse tanto la realtà storica di un fatto, quanto piuttosto la
disciplina sulla qualificazione come genocidio di particolari vicende storiche, come il
caso dello sterminio degli Armeni.
51
A favore della repressione penale del negazionismo si registra anche una importante
presa di posizione dell’UE, concretizzatasi nella decisione quadro 2008/913/GAI sulla
lotta con talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto
penale, che impone a ciascun Stato membro di adottare le misure necessarie affinché
siano resi punibili l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimi di
genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, diretta pubblicamente
contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla
razza, al colore, alla religione, alla ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando
i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio
DIRITTO DELLnon
'INFORMAZIONE
nei confronti di tale gruppo o di un suo membro. Va detto che la decisione
impone
di punire l’apologia, la negazione e la minimizzazione di tali crimi in ogni caso, ma solo
“quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o
all’odio nei confronti di tale gruppo o di un solo membro”.
Perplessità su ciò: si teme che introdurre il principio per cui la semplice messa in
discussione di un fatto storico costituisce reato possa rappresentare un pericoloso
precedente, e si sottolinea come la verità storica non possa essere affermata per
legge, ma debba scaturire dalla costante ricerca e dal libero confronto tra gli studiosi .
Tali preoccupazioni sono aggravate dalla incertezza su cosa debba intendersi per
“genocidio”: sino a che si tratta di un fatto storico che pare accertato al di là di ogni
ragionevole dubbio, come la Shoah, può infatti invocarsi il tradizionale argomento
secondo cui l’art. 21 non contempla la possibilità di mentire, dal momento che appare
inverosimile che un fatto storico di tale portata possa essere negato in buona fede; ma
nei confronti di altre vicende, magari svoltesi in epoca più recente o dai contorni meno
definiti, il rischio che il negazionismo finisca per l’essere utilizzato come strumento per
imporre una verità di Stato e imbavagliare la ricerca storica sembra farsi più concreto.
Per superare tutte queste difficoltà, si è ritenuto di precisare che la negazione
dell’Olocausto o di altri analoghi eventi non è punita in sé, come espressione di
convinzioni personali che per quanto aberranti rientrano comunque nella libertà di
manifestare il pensiero, ma è punita solo in quanto inserita nel contesto di un
discorso razzista.
Tuttavia, resta da chiedersi perché, nel momento in cui l’ordinamento già prevede
come autonomo e distinto reato la propaganda di idee razziste e l’incitamento all’odio
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e alla discriminazione nei confronti di un gruppo etnico o religioso, si invochi la
previsione di un autonomo e distinto reato di opinione, volto a sanzionare la negazione
dell’Olocausto in sé: se tale negazione non può essere punita se non inserita
all’interno di un discorso volto a gettare discredito e ad incitare all’odio e alla
discriminazione, non dovrebbe bastare allora la norma già esistente che punisce
appunto tale genere di discorso?
Il legislatore italiano, partito con l’idea di introdurre un nuovo reato di opinione, ha, nel
corso dell’iter parlamentare, mutato avviso, e ha scelto infine di configurare il
negazionismo non già come un delitto autonomo, ma come aggravante del reato di
propaganda di idee razziste e di istigazione alla discriminazione o alla violenza per
motivi razziali.
Viene così aggiunto all’art. 3 un comma che punisce con una pena aggravata
(reclusione da 2 a 6 anni) la propaganda o l’istigazione e l’incitamento, commessi in
modo che derivi concreto pericolo di diffusione, e che si fondano in tutto o in parte
sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e
dei crimini di guerra. Appare apprezzabile la scelta di non introdurre un nuovo reato di
opinione.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
52
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INFORMAZIONE E MERCATO
Sebbene l’art. 21 ricomprenda tutte le forme espressive, indipendentemente dal
mezzo utilizzato, è tuttavia ben evidente che vi sono particolati tipologie di
informazione che non soddisfano la finalità di promuovere un dibattito su tematiche
di interesse generale ma mirano a obiettivi diversi, di matrice anche
economica.
Disciplina della pubblicità commerciale
Cos’è la pubblicità commerciale? È una mera parte dell’attività di impresa per caso? O
è una forma espressione ossia è una delle tante modalità attraverso le quali le
persone esprimono il loro pensiero? O è in parte l’una e in parte l’altra? È una forma di
manifestazione artistica?
Probabilmente è tutto ciò insieme: la pubblicità è sempre parte fondamentale
dell’attività imprenditoriale ma anche ha una forza propagativi, molte pubblicità poi
sono forme di arte.
Questa pluralità di aspetti della pubblicità si riverbera anche sulla tutela costituzionale
della pubblicità e di apporre limite all’attività pubblicitaria stessa la risposta ad
esempio del giudice italiano e quello europeo è molto spesso diversa.
53
È stata assai dibattuta la riconducibilità della comunicazione commerciali al parametro
dell’art. 21, relativo alla libertà di manifestazione del pensiero sostenuta da parte della
dottrina ma esclusa dalla giurisprudenza costituzionale, che ha invece indicato
nell’art. 41 Cost. l’ancoraggio cui occorre fare riferimento per
laDELL
tutela
della
DIRITTO
'INFORMAZIONE
comunicazione commerciale:
Art. 41 Cost. - “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociali o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli
opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Nel quadro legislativo vigente si possono individuare due definizioni rilevanti. Da un
lato, l’art. 2 co.1 lettera a), d.lgs. 145/2007 definisce come “pubblicità” “qualsiasi
forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività
commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il
trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la
Costituzione o il trasferimento di diritti e obblighi su di essi”.
Dall’altro, l’art. 18 co.1, lett. D), d.lgs. 206/2005 (Codice dei Consumatori) dispone che
le “pratiche commerciali tra professionisti e consumatori comprendono qualsiasi
azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa
la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un
professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai
consumatori”.
La prima nozione ha rilevanza generale, la seconda è propria dello specifico contesto
della legislazione consumeristica e deve essere pertanto letta alla luce del rapporto tra
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consumatori e professionisti. Da quest’ultima definizione però si evince che la
pubblicità deve a pieno titolo ricomprendersi nell’alveo delle pratiche commerciali.
Da questi riferimenti la dottrina
dell’informazione pubblicitaria:



ha
qualificato
in
tre
elementi
i
requisiti
Elemento oggettivo, ossia il messaggio, in qualunque modo formulato,
espresso e veicolato presso il pubblico;
Elemento
soggettivo,
consistente
nella
qualità
professionale
dell’inserzionista;
Elemento teleologico, indicato in uno scopo promozionale
È evidente che l’informazione pubblicitaria presenta senz’altro importanti affinità con
l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero. Da qui il dilemma relativo alla
identificazione della corretta copertura costituzionale, sciolto dalla giurisprudenza di
merito e costituzionale a favore dell’art. 41 Cost., e cioè collocando le comunicazioni
commerciali nell’ambito della libertà di iniziativa economica. Questo inquadramento fa
leva soprattutto sul suo carattere di strumentalità, di mezzo utile ad un ritorno di tipo
economico, sufficiente a emanciparla dal campo della manifestazione del pensiero.
L’informazione pubblicitaria, in quanto libertà inerente ai rapporti economici, non
potrà infatti svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Le restrizioni permesse alla libertà di
iniziativa economica, se applicate all’info pubblicitaria percorreranno idealmente due
direttrici: la tutela dei consumatori e quella dei concorrenti.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
La corte costituzionale ha accreditato questa interpretazione in particolare in due
storiche pronunce:
A.
Il primo caso risale alla Sent. 68/1965, in cui il giudice delle leggi era
chiamato a esprimersi sulla legittimità costituzionale dell’approvazione
preventiva dell’Ente Provinciale per il Turismo per la pubblicità relativa alle
tariffe alberghiere. La corte dichiaro che questa particolare tipologia di controllo
preventivo non avrebbe in alcun modo inciso le garanzie costituzionali
applicabili ai sensi dell’art.21. la sentenza sembra riferire tali ultime garanzie
esclusivamente alle pubblicazioni integranti finalità di cultura, opinione e
informazione, per escludervi invece la comunicazione commerciale;
B.
La corte tornerà sul punto con la pronuncia n. 231/1985, relativa alla
costituzionalità del divieto di divulgazione dei messaggi a carattere pubblicitario
trasmessi da emittenti televisive estere la cui ripetizione era consentita nel
territorio nazionale.
I due precedenti appaiono aver marcato un punto di non ritorno indelebile nell’indicare
nell’art. 41 il parametro costituzionale di riferimento. Non sono però mancate
ricostruzioni dottrinali che propongono facendo leva su elementi diversi dell’info
pubblicitaria per un verso una copertura costituzionale fondata sull’art. 21 e una
duplice copertura costituzionale che affondi nell’art. 21 e nell’art. 41.
La pubblicità commerciale nella giurisprudenza europea:
La categorizzazione dell’informazione pubblicitaria entro i confini della libertà di
iniziativa economica, prevalsa nella giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di
merito, pare nondimeno in contrasto con la giurisprudenza della CEDU. Essa è stata da
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54
subito tendente ad includere la pubblicità commerciale sotto l’ombrello dell’art. 10
ossia quello che protegge la libertà di espressione.
Esemplare è la sentenza Sekmadienis c. Lituania, 2018: una ditta di jeans della
Lituania pubblicizza i propri prodotti facendo indossare i jeans a due figure stilizzate,
disegnate, con atteggiamenti un po' sensuali; ma con riferimenti chiarissimi alla figura
di Gesù e Maria: attraverso capelli e slogan che si riferiscono chiaramente a queste
due figure religiose.
Dopo una serie di passaggi, in Lituania la pubblicità viene ritenuta illecita perché
contraria ai principi di decenza e rispetto del sentimento religioso. Sostanzialmente è
contraria alla pubblica morale secondo la legge Lituania. Tra l’altro era una pubblicità
copiata da una pubblicità italiana degli anni ’70: i jeans si chiamava Jesus e lo slogan
era “chi mi ama mi segua” che richiama un atto evangelico.
Il produttore di jeans va alla CEDU dicendo che vi è violazione dell’art. 10.
La CEDU risponde così nel caso del 2018 dichiara che vi è violazione dell’art. 10 cioè
dice che la restrizione alla libertà di espressione è coperta in sé da una base
legislativa (legge lituana) e persegue uno scopo legittimo (della tutela della morale),
tuttavia dice la corte che non vi è il requisito della necessità: non supera il cd. Test di
necessità o di proporzionalità della misura in quanto da un lato non vi era una
derisione nella raffigurazione delle figure religiose, e dall’altra lo stato non aveva
dimostrato quale danno fosse stato causato dalla pubblicazione a quel gruppo
religioso.
55
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Quello che ha inciso sulla decisione è che i valori del sentimento religioso e della
morale sono nella nostra società ormai più deboli rispetto al passato.
La pubblicità commerciale: la disciplina vigente
L’attuale legislazione domestica ha descritto un doppio binario, dedicando un primo
gruppo di regole, racchiude nel d.lgs. 145/2007 alla tutela contro la pubblicità
ingannevole nell’ambito della concorrenza tra imprese e un secondo insieme di norme
affidate al codice di consumo a protezione dei consumatori dalle c.d. pratiche
commerciali scorrette. A questi due insiemi di nome si deve poi aggiungere il Codice
di Autodisciplina Pubblicitaria promosso dallo IAP.
La pubblicità deve essere:
•
Palese, trasparente  Ogni forma di pubblicità occulta (il consumatore
non coglie che è pubblicità) è illecita: ossia legato anche al principio della
trasparenza della pubblicità che impone che la pubblicità debba essere
riconoscibile come tale e quindi ogni pubblicità deve essere segnalata con
appositi strumenti per cogliere che quel messaggio è volto alla produzione di
beni e servizi.
•
Veritiera e Corretta  il messaggio pubblicitario deve veicolare un
messaggio corrispondente alla realtà.
Quindi è vietato reclamizzare caratteristiche di un prodotto che non esiste o che non
sono tali; così come è vietato denigrare (aspetto della correttezza) il contribuente
(attribuire al consumatore difetti che in realtà non ci sono). In questo caso si parla di
pratiche commerciali ingannevoli.
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Il principio della correttezza vale anche per la pubblicità comparativa (pubblicità
nella quale si compara un prodotto con la generalità dei prodotti concorrenti. La
pubblicità comparativa era vietata, ma dagli anni ’90 una direttiva europea aveva
iniziato a legittimare la pubblicità comparativa diretta e ora è ammessa, con delle
precise direttive:



Non deve essere ingannevole;
Non deve essere denigratoria verso altri prodotti concorrenti;
Non deve essere una cd. Pubblicità per agganciamento, ossia legge prevede che
chi faccia pubblicità comparativa non debba trarre vantaggi dalla notorietà
altrui (paragonando il proprio prodotto, poco conosciuto, ad un prodotto molto
noto, dichiarandosi migliore dello stesso).
Quindi esiste uno spazio per la pubblicità comparativa, ma ristretto. Questo perché
rischia di essere sanzionata qualora non tenga ad esempio in considerazione le
caratteristiche.
[DIRITTO
D’AUTORE A PAGINE SEGUENTI]
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
56
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Diritti d’autore
Il diritto d’autore: per un verso i presupposti di creatività e originalità per la tutela
dell’opera in base al diritto d’autore collegano indubbiamente questo diritto all’ambito
della manifestazione del pensiero; per altro verso i meccanismi di protezione del
medesimo diritto, fondati sul riconoscimento di una esclusiva che è funzionale ad
assicurare la remunerazione dello sforzo creativo, finiscono per ascriverlo all’ambito
dei rapporti economici.
Dell’ambiguità del rapporto tra diritto d’autore e libertà di parola è ancora più
indicativa la celebre pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Harper
and Row ove il copyright venne descritto come il “motore” della libertà di espressione
costituendo, essendo fonte di remunerazione, il principale incentivo allo sviluppo
dell’industria culturale.
Sebbene la tutela del diritto d’autore si sostanzi nella creazione di esclusive nella
forma di limiti al diritto di utilizzazione di un’opera e quindi nella Costituzione di
barriere che si frappongono all’accesso e alla conoscenza, queste tutele rivestono un
ruolo fondamentale in quanto permettono di remunerare economicamente gli sforzi
degli autori, così rendendo conveniente la loro creatività.
57
L’intensa elaborazione giurisprudenziale sul punto conferma che il diritto d’autore,
anche a causa del suo statuto costituzionale tutt’altro che cristallino quanto alla sua
collocazione, è stato spesso vittima di un approccio sospettoso, venendo talvolta
interpretato come un beneficio riconosciuto agli autori tramite forme di privatizzazione
dei contenuti destinate a tradursi nella limitazione della loro accessibilità al pubblico.
Sta diventando uno dei grandi temi oggi affrontanti.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
Le origini del diritto d’autore e l’attuale statuto a livello sovranazionale e
domestico
La logica del diritto d’autore è una logica che da un lato è una logica proprietaria ossia
la logica è quella di proteggere l’autore di una determinata opera da l’uso abusivo da
parte di terzi (prima logica: del diritto di proprietà su beni immateriale come ad
esempio la canzone, musica) e logica che è il titolare dell’opera a decidere chi può
utilizzarla e come.
Nella storia della tutela del diritto d’autore ci sono due grandi modelli:
1. Il primo è il modello anglosassone, che si sostanzia nel Copyright Act
approvato dalla Gran Bretagna nel 1709. La prima parte dello Statuto indicava
esplicitamente come obiettivo l’incoraggiamento degli uomini istruiti a
comporre e scrivere libri.
2. La circolazione dei modelli non si arrestò al contesto anglo-americano e
raggiunse l’Europa continentale, dove a inaugurare un paradigma di tutela
leggermente diverso da quello del copyright fu la Francia, primo paese a
regolare il droit d’auteur.
In più la Germania o meno l’Italia rapida successione anche gli altri stati europei
iniziarono a dotarsi di una legislazione in materia.
La tutela degli autori venne così affermandosi secondo due paradigmi.
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1. Da un lato il modello del copyright che presuppone l’esperimento di una serie
di formalità (in primis il deposito) affinché l’opera possa ritenersi tutelata;
concepisce con maggior flessibilità le eccezioni fondate sulle libere utilizzazioni
e tutela soltanto il diritto patrimoniale e non anche il diritto morale dell’autore.
2. Dall’altro, il modello del diritto d’autore, d’ispirazione francese e tedesca,
all’opposto tutela l’opera a prescindere dall’adempimento di una serie di
formalità per il solo fatto della sua creazione da parte dell’autore; concepisce le
limitazioni diritto dell’autore in modo tassativo e non aperto e tutela sia il diritto
patrimoniale sia quello morale dell’autore. Questo è un modello che si fonda su
un sistema di licenze obbligatorie: l’autore di un’opera deposita questa opera
presso un soggetto pubblico ad esempio e nel momento in cui avviene questo
deposito sorge il diritto ad una retribuzione per l’uso che terzi fanno di
quell’opera. È un sistema di licenza obbligatoria. I terzi devono corrispondere al
titolare del copyright una determinata somma. Sistema che permette la
circolazione delle opere e consente all’autore di sfruttare economicamente la
sua opera.
Le differenze rispetto al sistema del copyright: A) l’atto di nascita sull’opera:
mentre il sistema del copyright il diritto nasce con il deposito, con questo
sistema il diritto nasce dal momento in cui nasce l’opera. Non serve nessuna
modalità di pubblicità dell’opera, nasce dalla creazione. B) è un diritto di cui
l’autore può disporre e che quindi non necessariamente deve consentire
l’utilizzo a terzi tramite il consenso. Quindi, l’autore può disporre liberamente di
questa opera.
DIRITTO due
DELL'INFORMAZIONE
Questi
modelli sono diversi tra loro e per questo vi è necessità di una
omogeneizzazione su alcuni aspetti. Già nel XIX Secolo vi furono infatti dei trattati
internazionali che andassero a regolamentare il diritto d’autore, perché lo
sfruttamento dei diritti d’autore va spesso oltre gli stati nazionali, come ad esempio
nel caso della musica. Tra i più noti ricordiamo:
 Convenzione di Berna, 1886 (tutela le opere letterarie e artistiche e fissa il
principio di parità di trattamento tra opere nazionali e opere straniere);
 Convenzione universale sul diritto d’autore, stipulata a Ginevra nel 1952:
ripropone la convenzione di Berna ma facendo aderire anche paesi come USA e
URSS, che non avevano siglato la precedente.
 Convenzione di Stoccolma, del 1967, che istituisce l’OMPI (o in inglese
WIPO), ovvero l’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale. Questa
organizzazione è responsabile della firma di due trattati, il WCT (WIPO
Copyright Treaty) e il WPPT (WIPO Performances and Program Treaty), atti che
hanno avuto il ruolo di spingere sia gli USA sia l’UE a normare il diritto d’autore
anche a livello digitale e nel mondo del Web.
Nel sistema europeo e quindi anche nel sistema Italiano nascono:
 Diritti morali sono sostanzialmente in primo luogo il diritto al riconoscimento
della paternità (io comunque ho diritto ad essere riconosciuto autore dell’opera)
e il diritto all’integrità dell’opera (io autore posso senza che vi sia il mio
consenso impedire che dall’opera sia ricavato opera in parte diversa che non
rispecchi quello che l’autore voleva che quell’opera fosse). Essendo diritti morali
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non sono cedibili e non sono prescrittibili (io posso far valere il mio diritto
morale sempre).
 Diritti patrimoniali cioè dal riconoscimento della paternità dell’opera discende il
diritto allo sfruttamento dell’opera in ogni sua forma. Quindi l’autore potrà
tenersi ogni uso dell’opera per sé, potrà darla in licenza, può cedere una sola
parte dei diritti dell’opera, può vendere ad esempio i diritti di traduzione
cinematografica dell’opera (libro che diventa film) e quindi l’autore può
sfruttare in modo diverso tutti i diritti che discendono dall’opera.
L’ordinamento italiano
Il nostro ordinamento a differenza di altri ordinamenti (quello USA prevede un cenno
alla tutela d’autore) non ha un esplicito riferimento ai diritti d’autore.
Tuttavia, ci sono norme costituzionali da cui si può ricavare implicitamente una tutela
al diritto d’autore (es: art.4, art. 9 che prevede la tutela alla cultura e la garanzia della
retribuzione ai creatori di opere dell’ingegno è una delle forme che incentiva questo
lavoro, art. 21 che vuol dire anche libertà di creatività e chiaramente anche dalla
libertà della espressione anche espressione artistica e culturale, è garantita anche dal
fatto che chi vive di questo sia costretto di morire di fame, art. 33 la libertà dell’arte e
della scienza, art. 35 richiama il diritto del lavoro, art. 41 e 42 che riguarda l’iniziativa
privata etc.). Qualche forma di diritto d’autore quindi è imposta dalla nostra
Costituzione.
59
La normativa sul diritto d’autore poi si ritrova in concreto in una legge molto datata
che è la L. 633\1941, che garantisce un bilanciamento tra diversi diritti. Un’opera è
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
protetta dal diritto d’autore quando ha questi requisiti:
A. Carattere creativo dell’opera l’opera deve essere innovativa, differenziarsi dal
patrimonio dello stato dell’arte. Deve essere un’opera nuova. Carattere creativo
non significa che la nuova opera deve consentire un balzo culturale rispetto allo
stato dell’arte, ma è sufficiente che ci sia qualcosa di nuovo, una innovazione;
B. Concretezza - il diritto d’autore non protegge l’idea in sé, non protegge la
creazione pura, ma protegge la creazione quando questa viene in qualche modo
sviluppata attraverso un linguaggio. Questo problema vale per alcuni tipi di
opere su cui si discute quando sono o non sono protette dal diritto d’autore:
C. L’opera deve essere appartenente ad un determinato settore previsto
espressamente dalla legge non tutte le invenzioni sono tutelate, ma solo
quelle che appartengono a questi settori. Settori vasti, che includono opere
letterarie, opere musicali, opere coreografiche (la cui traccia sia fissata per
iscritto), opere artistiche (pittura, scultura, ecc.), opere architettoniche, opere
cinematografiche, opere fotografiche, software e programmi per computer, le
opere di disegno industriale.
Se un’opera ha questi requisiti, sorgono diritti morali ed economici. I diritti patrimoniali
sono qualsiasi diritto relativo all’opera di cui è titolare l’autore dell’opera. I diritti
patrimoniali oltre ad essere cedibili, hanno un termine lungo (70 anni dopo la morte
dell’autore o dopo la morte dell’ultimo autore), quindi diritto che va al di là della vita
dell’autore.
Si pone il problema che ci sono dei casi in cui è semplice identificare l’autore
dell’opera, ci sono dei casi in cui l’opera è creata da più soggetti o comunque con
diversi ruoli (es. film: più soggetti usano la creatività per dare vita ad un prodotto. È
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un’opera collettiva.). In taluni casi la legge stessa prevede chi sia l’autore. Esempio:
per i film l’autore dell’opera è il regista.
L’ordinamento prevede infatti non solo la tutela all’autore, ma anche chi è titolare di
diritti interconnessi (coloro che avendo contribuito alla realizzazione dell’opera non
hanno un pieno diritto d’autore, ma diritto ad avere un compenso per la loro
partecipazione). Esempio: nel cinema anche gli attori.
Più l’opera è frutto di processi industriali o comunque complessi evidentemente si
hanno questi diritti interconnessi.
DIRITTO DELL'INFORMAZIONE
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