THE STOQ PROJECT RESEARCH SERIES ___________________________________________________ 4 The STOQ Project Research Series is a part of the Pontifical Roman Universities’ contributions to the dialogue between science and religion, in order to establish and promote a new understanding between scientific and humanistic cultures. Co-ordinated by the Pontifical Council for Culture, it operates with the collaboration of the Pontifical Lateran University (PUL), the Pontifical Gregorian University (PUG), the Pontifical Athenaeum Regina Apostolorum (UPRA), and, to a different degree, other Pontifical Universities, all with the economic support of the John Templeton Foundation and other sponsors. © COPYRIGHT 2009 – Libreria Editrice Vaticana 00120 VATICAN CITY Tel. 06-6988.5003 – Fax 06-6988.4716 www.libreriaeditricevaticana.com – [email protected] ISBN – 13: 978-88-209-7879-2 ISBN – 10: 88-209-7879-2 Bioetica al futuro Tecnicizzare l’uomo o Umanizzare la tecnica? A cura di Joseph Tham, L.C. e Massimo Losito PONTIFICAL COUNCIL FOR CULTURE Le opinioni espresse liberamente in questi testi rappresentano esclusivamente il punto di vista degli autori e non necessariamente quello dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Questo libro è dedicato alla dottoressa Giovanna Morelli Gradi, che ha contribuito alla presente pubblicazione con un brillante saggio, recentemente passata alla casa del Padre. Donna acuta, dotata di una grande mente ed un grande cuore, suscitava ammirazione tra colleghi e studenti per il suo entusiasmo, la sua competenza e la sua saggezza. Ha affrontato la dura malattia così come ha affrontato tutta la sua vita, con fede e coraggio non comuni: una vita esemplare, vissuta fino in fondo nella ricerca attenta della verità e nella difesa del bene comune e della dignità della persona. © COPYRIGHT 2009 – Libreria Editrice Vaticana 00120 VATICAN CITY Tel. 06-6988.5003 – Fax 06-6988.4716 www.libreriaeditricevaticana.com – [email protected] Finito di stampare: dicembre 2006 dalla SO.GRA.RO. S.p.a. - Roma ISBN – 13: 978-88-209-7879-2 ISBN – 10: 88-209-7879-2 Indice Ringraziamenti .......................................................................................... 7 Francesco D’Agostino, Prefazione. L’ambivalenza e i paradossi della tecnica .................................................................................................. 9 Massimo Losito - P. Joseph Tham, Introduzione. Si può parlare di bioetica al futuro? ......................................................................................... 21 Prima Parte: Le frontiere della tecnoetica ..................................... 27 Gianluca Casagrande, Breve storia della tecnologia .................................... 31 Henk ten Have, Biotecnologie: tra follia e saggezza .................................... 47 Michael Ryan, Tecnologia a servizio dell’uomo: riflessioni filosofiche ed etiche 65 Gonzalo Miranda, Homo Sapiens o Homo Technicus? ............................. 77 Leopoldo Prieto, Antropologia e tecnologia: natura umana e cultura ......... 81 Guido Traversa, L’intelligenza artificiale e la cibernetica viste da un filosofo 101 Mario Palmaro, I soggetti non-umani sono titolari di diritti? ..................... 107 Adriana Gini, Neuroetica e Neuromarketing .............................................. 117 Pedro Barrajón, L’uomo e la tecnica secondo una prospettiva teologica ........ 135 Giampaolo Crepaldi, L’uomo e la tecnica nel Magistero Sociale della Chiesa 153 Seconda Parte: Le biotecnologie, tra terapia e utopia ............... 163 Leonardo Santi, Biotecnologie e medicina: attese e prospettive ...................... 167 Lucio Romano, Le nuove biotecnologie riproduttive e la diagnostica genetica pre-impiantatoria .......................................................................................... 175 Fernando Fabó, Le biotecnologie genetiche e riproduttive: principi etici ed antropologici ............................................................................................. 189 6 Indice Ineke Malsch, Le nanotecnologie e il potenziamento umano......................... 209 Edmund Pellegrino, Oltre la terapia: è lecito il potenziamento umano? ..... 221 Maria Paglia, Il post-umano: traguardo della genetica odierna? .................... 251 Alberto García, Clonazione e diritti dell’uomo............................................ 267 Terza Parte: Tecnica, ambiente e società ...................................... 285 Antonio Gaspari, L’impatto ambientale della tecnologia ........................... 289 Gianni Fochi, Brevi considerazioni su inquinamento, chimica e sviluppo ..... 309 Davide Ederle, OGM vegetali e principio di precauzione ........................... 313 Marialuisa Lavitrano, OGM animali e xenotrapianti ............................... 325 Giovanna Morelli Gradi, Brevettare la vita .............................................. 339 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia, Nuovi comportamenti a rischio: videogiochi e casinò virtuali ................................................................ 363 Vittorfranco Pisano, Bio-terrorismo .......................................................... 383 Pasquale Bellotti, Sport e bioetica: il potenziamento farmacologico e tecnologico dell’atleta ..................................................................................... 393 Franco Baccarini, Bioetica e tecnologia nel cinema ...................................... 407 Curricula Vitae ............................................................................................ 423 Part III: THEOLOGICAL ASPECTS ...................................................................................................................... ...................................................................................................................... 139 Ringraziamenti Molti dei saggi raccolti nel presente testo sono stati presentati al Corso Estivo di Bioetica organizzato dalla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum dal 26 giugno al 7 luglio, 2006. Desideriamo ringraziare gli organizzatori e i relatori dell’evento per il loro contributo e l’entusiasmo, che hanno reso possibile questa pubblicazione. Un ringraziamento particolare va alla dott.sa Adriana Gini per aver collaborato alla traduzione in italiano dei testi in lingua inglese e per il suo instancabile lavoro di correzione e revisione di molti dei saggi. Tra gli altri, hanno collaborato al progetto editoriale: John Di Camillo, Chiara Cigana, Salvatore La Rosa e Laura Guidotti. Infine, desideriamo ringraziare l’attuale Decano, Padre Fernando Fabó, L.C. e il Rettore dell’Ateneo, Padre Pedro Barrajón, L.C. per il loro costante incoraggiamento, grazie al quale questa pubblicazione è divenuta una realtà. Per i seguenti saggi è stato ottenuto il permesso di una loro nuova pubblicazione, in toto o in parte, nella traduzione in lingua italiana e in alcuni casi con modifiche da parte degli stessi autori: G. MIRANDA, «Homo technicus tra potenza, impotenza e prepotenza», in R. DE FRANCO (a cura di), L’esistenza fragile, Scienza e morale tra passione e ragione, Mattioli, Fidenza (PR) 2007, 77-81. I. MALSCH, «Human enhancement from different perspectives», in www.nanoforum.org, (13 novembre 2006, aggiornata 8 gennaio, 2007). La prima edizione è in lingua inglese. © Nanoforum. E.D. PELLEGRINO, «Biotechnology, Human Enhancement and the Ends of Medicine», in C.B. MITCHELL - E.D. PELLEGRINO - J.B. ELSHTAIN - J.F. KILNER - S.B. RAE, Biotechnology and the human good, Georgetown University Press, Washington, DC 2007, 110-136. G. FOCHI, «Natta e Giustiniani: Fiducia Nella Scienza», in R. IRSUTI (a cura di), Global Report 2004, 21mo Secolo, Milano 2004, 283-289. Francesco D’Agostino PREFAZIONE L’ambivalenza e i paradossi della tecnica Il problema della tecnica è quello che, forse più d’ogni altro, tormenta l’uomo contemporaneo, perché sappiamo tutti benissimo di avere, nei confronti della tecnica, un rapporto ambivalente. Da una parte la tecnica ci affascina, tanto da non saperne fare a meno, dall’altra parte la tecnica ci aliena e, soprattutto, ci fa paura perché percepiamo l’immenso potere, anche distruttivo, che la tecnica porta con sé. Io credo che, nel momento culturale attuale, non siamo ancora in grado di risolvere questa ambivalenza. Abbiamo il dovere di avere una sorta di pazienza storica, perché le soluzioni affrettate, le soluzioni troppo accelerate, il più delle volte si rivelano sbagliate o illusorie. La tecnica, torno a ripetere, ci affascina e nello stesso tempo ci angoscia. Dobbiamo accettare questo paradosso, non però con pigra remissività, ma con intelligenza perché, anche se non abbiamo in tasca la soluzione per tutti i problemi, e meno che mai del problema della tecnica, abbiamo, però il dovere di meditare fino in fondo anche sui problemi tuttora irrisolti. Saper porre con esattezza un problema, pur senza presumere di poterlo sciogliere, significa comunque saper valutare come rilevante una dimensione dell’esperienza umana. È questo, un dovere che abbiamo nei nostri stessi confronti. Credo, infatti, che affrontare una tematica come quella della tecnica abbia, in primo luogo, come finalità quella di far crescere in tutti noi una maggiore consapevolezza; e la consapevolezza dei problemi è il presupposto per l’assunzione di un’autentica responsabilità. È stato affermato che la tecnica – aiutandoci a ridurre la fatica del nostro lavoro – nascerebbe da una sorta di nostra propensione alla pigrizia. C’è del vero in questa provocazione. E si potrebbe aggiungere anche un’ulteriore pennellata. La tecnica nasce da una pigrizia maliziosa. In che senso, maliziosa? Nel senso che nel fascino che l’uomo prova nei confronti del- Professore Ordinario di Filosofia del Diritto, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Roma Tor Vergata. 10 Francesco D’Agostino la tecnica, non c’è soltanto la consapevolezza che il ricorso alla tecnica ci può far faticare di meno e che, quindi, la tecnica può in qualche modo assecondare la nostra pigrizia naturale; c’è anche il fatto che il ricorso alla tecnica ci consente di attivare una particolare dimensione del nostro io, del nostro spirito, che ci portiamo tutti dentro. Attraverso la tecnica, seppur in modo confuso, noi capiamo che siamo capaci di ingannare la natura e che questo inganno può facilitarci la vita, sia in senso materiale, sia in senso psicologico, solleticando il nostro orgoglio. Che la tecnica sia inganno della natura è evidente già nelle esperienze tecniche assolutamente più elementari: basti pensare, per fare un solo esempio, alla leva. È sufficiente avere un bastone e un punto d’appoggio e si può, facendo leva, se non proprio quello che riteneva di poter fare Archimede, cioè sollevare il mondo, almeno sollevare un macigno che nessuna forza fisica umana potrebbe mai sollevare. In altre parole, sappiamo che possiamo ingannare la natura, perché la nostra intelligenza è in grado di dare movimento a corpi che la nostra forza muscolare non sarebbe in grado di muovere. Per altro, questa è una consapevolezza antica; il termine “meccanica”, come sapete, deriva dal greco mechainomai, che significa, per l’appunto ingannare. La scienza meccanica è la scienza che ci consente di ingannare la natura, potenziando artificialmente, vale a dire, tecnicamente, le nostre forze. In greco techne significa artificio. Con la tecnica, quindi, si tratta di ingannare la natura. Questo i Greci lo sapevano benissimo. Troviamo, esplicitata fino in fondo, questa consapevolezza in uno dei miti più belli che ci sono pervenuti dall’antichità. Alludo al famoso mito di Prometeo, che molte volte è interpretato a livello psicologistico, vedendo in Prometeo la rappresentazione dell’ansia d’infinito, di superomismo che sarebbe presente in noi. In realtà, il mito di Prometeo è invece oggettivamente un mito che fa riferimento esclusivamente alla tecnica e alla sua specifica identità ontologica. Ricordiamolo rapidamente. Gli dei creano tutti gli animali e tra di essi gli uomini. Chiamano un titano, Epimeteo, affidandogli uno specifico compito. Epimeteo deve dare ad ogni specie di vita animale strumenti d’aggressione e di difesa. Strumenti d’aggressione per procurarsi il cibo e di difesa per evitare di diventare preda d’altri animali. Epimeteo si mette al lavoro; tuttavia, appare evidente che Zeus ha dato ad Epimeteo un compito superiore alla sua intelligenza. Del resto, lo stesso nome Epimeteo è allusivo a tutto questo. Metis in greco significa intelligenza, ma il prefisso epi fa riferimento a ciò che sta “dietro”: quindi l’intelligenza d’Epimeteo è un’intelligenza per dir così retrospettiva. Epimeteo non è in grado di guardare avanti e di progettare o costruire il futuro: diremmo oggi che egli è un banale conservatore, che sa solo pensare a ciò che è successo e ripetere con monotonia quello che è già avvenuto. In effetti, Epimeteo dà subito prova della sua mediocre intelligenza, perché dopo aver distribuito, tra le diverse specie Prefazione 11 animali, strumenti d’aggressione e strumenti di difesa (ai serpenti il veleno, ai leoni le zanne, al toro le corna, al rinoceronte una pelle particolarmente spessa ecc.), quando arriva all’uomo, con grande sgomento, si accorge di avere esaurito tutte le qualità naturali che gli dei gli avevano messo a disposizione, affinché lui le distribuisse. Grazie all’insipienza di Epimeteo, l’uomo si trova privo di strumenti d’aggressione e di mezzi di difesa. Ed è proprio così. L’uomo è per natura l’animale più impotente che ci sia. In un’opera capitale del Novecento, l’antropologo tedesco Arnold Gehlen ci ha spiegato che l’uomo, biologicamente, è un essere incompiuto, difettivo. Torniamo al mito. Dopo essersi reso conto della sua inettitudine, Epimeteo, disperato se non altro per la brutta figura che fa davanti agli dei, radunando la poca intelligenza che possiede, chiede aiuto al fratello Prometeo. Prometeo è esattamente l’opposto di Epimeteo: se l’intelligenza di Epimeteo è retrospettiva, quella di Prometeo guarda avanti (pro). Prometeo sa progettare il futuro, la sua è un’intelligenza anticipatrice. Però il povero Prometeo non può fare miracoli: le risorse naturali che dovevano essere distribuite agli animali sono state ormai tutte distribuite e sono esaurite. Allora, per evitare che la specie umana vada immediatamente distrutta, fatta a pezzi e divorata dagli altri predatori, bisogna dare agli esseri umani qualcosa che non appartiene alla natura. Prometeo dà agli uomini la capacità di accendere il fuoco e insegna loro come utilizzarlo. Capite benissimo che in questo mito, il fatto che gli uomini acquistino questa capacità, denota il loro distacco dalla natura. Non perché il fuoco non sia un elemento naturale – è chiaro che il fuoco appartiene alla natura: ma accendere intenzionalmente il fuoco, questo è biologicamente innaturale e pone l’uomo al di là della natura condivisa da tutti gli animali. In altre parole, Prometeo insegna all’uomo la tecnica, come cioè utilizzare la natura per dominarla. Arriviamo alla fine del mito: vedendo gli uomini in possesso del fuoco, gli dei si adirano, perché non avevano creato il genere umano per conferire ad esso questo potere e puniscono il Titano. Ma ormai il dono di Prometeo è stato acquisito dall’umanità, che grazie al fuoco si è sottratta alla natura, anche se non del tutto. È vero, infatti, che grazie a Prometeo gli uomini hanno acquisito la superba e sublime tecnica di accendere il fuoco, ma è anche vero che il fuoco resta pur sempre parte della natura, di cui è una dimensione. Anche in questo caso il mito greco rivela, ovviamente in forma narrativa, un’incredibile precisione. Attraverso il dono del fuoco, infatti, l’uomo non esce dalla natura, però riesce a dominarla, perché possiede una capacità che la natura in sé non sarebbe in grado di dargli. Come dire, l’uomo è un animale che appartiene alla natura, come tutti gli altri animali, ma, nello stesso tempo, l’uomo è più di un animale, perché ha poteri tecnici, che nessuna altra forma di vita animale potrà mai avere. Ecco spiegato il paradosso dell’uomo, ecco 12 Francesco D’Agostino la ragione del disagio costitutivo che noi proviamo nei confronti della nostra realtà naturale, un disagio di cui dobbiamo essere consapevoli e che caratterizza in particolare la medicina. Da una parte, la medicina cerca di difendere quella dimensione della natura che è la buona salute, interpretando la malattia come un’alterazione del nostro equilibrio naturale; dall’altra parte, però, la medicina è un sublime artificio, perché tutte le tecniche usate dai medici, soprattutto quelle più sofisticate, sono palesemente meta-naturali o addirittura innaturali. Sono innaturali nel senso che introducono nella nostra realtà naturale e biologica, qualcosa che la natura, con le sue forze, non sarebbe in grado di fornirci: si pensi, per fare un esempio qualunque, ad una protesi. Quindi – questo è il problema – noi siamo esseri naturali e nello stesso tempo non lo siamo, non siamo naturali del tutto. Questo è un tema che va addirittura – e di gran lunga – al di là della dimensione bioetica, è un tema antropologico fondamentale, è anzi il tema antropologico fondamentale del nostro tempo. Ritroviamo questa tematica all’interno della tradizione cristiana, in cui esso costituisce uno dei nodi più delicati, più scottanti e più inquietanti per la teologia. Da una parte, in quanto creatura, l’uomo è parte del creato; egli è creato da Dio a conclusione e coronamento di tutta la creazione. D’altra parte, però, l’uomo – ed esso soltanto – fuoriesce dalla logica della creazione, perché è creato ad immagine e somiglianza di Dio. Solo l’uomo, all’interno della natura, porta per dir così un contrassegno che in qualche modo lo pone non solo al vertice, ma al di fuori della natura stessa, come diviene chiaro solo se si pensa alla sua vocazione sovrannaturale. Questa vocazione può far pensare ad un salto tra l’uomo e la natura, ma nello stesso tempo questo salto non è tale da poter far pensare che l’uomo possa fare a meno della natura. Della natura l’uomo ha bisogno; egli deve integrarsi nella natura, perché al di fuori di essa non esiste per lui speranza di sopravvivenza. La natura che lo accoglie, però, non è completamente sua amica, anzi moltiplica minacce nei suoi confronti: quella natura, che l’uomo è chiamato a sottomettere, è ben in grado, a sua volta, di umiliarlo e di schiacciarlo. Il rapporto uomo-natura è quindi ambivalente, perché nella natura è presente una dimensione misteriosa di caducità, anzi di male, che attende di essere in modo altrettanto misterioso sanata e salvata (secondo il celebre accenno di S. Paolo, nella Lettera ai Romani 8,19 ss.). L’uomo è chiamato, salvando se stesso, o per essere più precisi, usufruendo della salvezza che Cristo gli ha portato, a salvare la stessa natura, che geme e soffre nelle doglie del parto e che attende anch’essa, in modo misterioso, di essere liberata dalla schiavitù della corruzione. Quanto risulta complesso questo insieme di tematiche e quanto la tradizione dell’Occidente cristiano ha dovuto faticare, quando si è confrontata con esse! Chi ragiona, sia pur rapidamente, su come è stato pensato il Prefazione 13 rapporto uomo-natura della tradizione occidentale, si accorge che in essa è stata esasperata l’idea che l’uomo sia responsabile di aver introdotto il peccato nella natura e che è a causa di tutto questo che la natura si è rivoltata contro l’uomo ed è diventata ostile e nemica nei suoi confronti. Si pensi a Dante. Fin dall’inizio del primo canto della Divina Commedia, la natura appare ostile al poeta, che la dipinge come una «selva selvaggia et aspra e forte» che genera nel suo animo un terrore cupo. Non solo la natura appare nemica dell’uomo, ma in un certo senso molte delle principali pene dell’Inferno sono presentate come attivate da forze naturali: il vento, il fuoco, il ghiaccio. Sul culmine della montagna del Purgatorio, la natura appare sanata, come Paradiso terrestre; ma nel Paradiso vero e proprio la natura non c’è più. Il modello dantesco non è di certo il modello tipico della tradizione cristiana; è solo è uno dei diversi modelli che la tradizione cristiana ha elaborato. Ne esistono altri: si pensi, per esempio, ad un’altra immagine che ha avuto una forza culturale straordinaria per quel che concerne il rapporto con la natura, quella elaborata da S. Francesco. S. Francesco predica agli uccelli, innalza le sue lodi al sole, alla luna, alle stelle, arriva addirittura a chiamare sorella la morte, cioè la dimensione della natura che più di ogni altra ci turba. Noi, oggi, difficilmente ci rendiamo conto di quanto sia stata dirompente l’immagine francescana di un rapporto fraterno tra uomo e natura, improntato ad una dolce e remissiva mitezza. Non ci rendiamo conto di come esso abbia operato un capovolgimento dal punto di vista sociologico-culturale, facendo emergere una volontà profonda di riappacificazione con la natura, che la cultura alto medievale non era stata in grado di percepire. È qui che si radica un filone culturale che, fra alti e bassi, con vicende complicatissime, arriva fino all’ecologismo contemporaneo e alla sua immagine idilliaca e ingenuamente semplificata della natura. Si può sostenere che l’ecologismo è un’estrema banalizzazione della visione della natura di S. Francesco, una banalizzazione dolciastra, che però non è del tutto infedele all’ispirazione originaria. Né il discorso può trovare qui la sua conclusione. Nella dialettica uomonatura va colta anche la specificità della grande prospettiva del romanticismo europeo e della sua spiritualizzazione, mai però fino in fondo attuata, del “naturale”. In un certo senso, viviamo ancora in un’età profondamente romantica, perché pretendiamo ancora come i romantici di trovare nella natura (in tutte le sue dimensioni, anche quelle più “terribili”, come la dimensione dell’“orrido”), le tracce del nostro spirito. E ancora speriamo, salvando la natura, di salvare la nostra identità. Ma non è nostro compito quello di fare considerazioni di storia della cultura. Dobbiamo piuttosto andare alla ricerca del nucleo teoretico del problema che ci sta a cuore, quello che ha per oggetto la natura e il suo rapporto con l’esperienza umana di oggi. Rapporto che viene comunemente 14 Francesco D’Agostino pensato come reso possibile dal medium della tecnica. Natura e tecnica sono ritenute oggi come due facce della stessa medaglia. Il rapporto dell’uomo con la natura è un rapporto inevitabilmente caratterizzato dalla presenza invasiva della tecnica e, a sua volta, la tecnica è il modo con cui noi moderni, inevitabilmente, ci colleghiamo alla natura, per poter, attraverso di essa, moltiplicare le dimensioni del nostro potere. Credo che sia impossibile esagerare sulla rilevanza di questo dato di fatto. Nel nostro rapporto con la natura, nel nostro continuo tentativo di moltiplicare le possibilità che la tecnica pone a nostra disposizione, noi siamo chiaramente tentati da un delirio di onnipotenza. Siamo tentati dall’idea che tutto possa essere fatto attraverso la tecnica e che nulla ci sia precluso, nei limiti in cui siamo in grado di sviluppare le potenzialità tecnologiche che ci consentono di operare nella e attraverso la natura. In altre parole, dietro questo delirio di onnipotenza si nasconde un presupposto relativamente elementare che è quello secondo il quale siamo in linea di principio in grado di poter far tutto; se non siamo in grado di fare qualcosa, è semplicemente perché ancora non abbiamo a disposizione gli elementi conoscitivi adeguati; si tratta semplicemente di aspettare che la ricerca scientifico-tecnologica vada avanti e possa porre a nostra disposizione i metodi adeguati per dare una risposta tecnica a tutte le nostre esigenze. La tecnica, in questa prospettiva, è uno strumento assoluto che l’uomo è in grado di elaborare, per potenziare all’infinito se stesso. Quella della tecnica è un’assolutezza di principio, anche se non lo è ancora di fatto. Anche se nella realtà le possibilità della tecnica sono ancora limitate, di principio nulla può essere precluso alle sue possibilità operative. Nel riflettere sul rapporto uomo-natura, come mediato dalla tecnica, ho usato l’espressione delirio di onnipotenza e non semplicemente desiderio di onnipotenza. Ho usato cioè volutamente l’espressione più forte a nostra disposizione. Il termine delirio appartiene al linguaggio psicopatologico e fa riferimento ad un problema psichico particolarmente grave e meritevole di una terapia. L’espressione desiderio di onnipotenza è un’espressione sicuramente più innocua, anche se nel termine desiderio, pur se non ce ne rendiamo conto, c’è un significato recondito che è tutt’altro che positivo. L’etimologia della parola desiderio è molto curiosa e anche affascinante. Il desiderio, etimologicamente parlando, è l’atteggiamento (in qualche modo colpevole) di colui che, cessando di contemplare le stelle (sidera in latino), sposta lo sguardo dal firmamento, dal cielo, dai corpi celesti alla terra e a questa soltanto dedica le proprie attenzioni. Il desiderio è ciò che resta all’uomo quando trasforma l’anelito di infinito, che è presente in lui, in una ben più misera volontà di appropriazione di quei “beni” finiti che la terra può offrirgli. In altre parole, nel desiderio l’uomo cessa di aspirare all’assoluto, si accontenta di piccole e mediocri aspirazioni terrene, sostituisce l’anelito di infinito con pulsioni occasionali che, Prefazione 15 ovviamente, sono ben più facili da realizzare. Ma queste pulsioni hanno un loro carattere di assolutezza, veicolano pretese a loro modo “assolute”, attivano appunto un desiderio di “onnipotenza”, nel quale si manifesta il tentativo inconscio da parte dell’uomo di volersi impadronire totalmente della realtà ambientale, nella quale è chiamato a vivere; di diventare (arbitrariamente!) signore, padrone, dittatore del mondo. Ma in realtà, le cose sono ancora più gravi: non solo all’uomo va imputato un desiderio di onnipotenza, che già di per sé sarebbe in qualche modo indebito, nei limiti in cui a questo desiderio corrisponde l’atrofia dell’anelito verso l’infinito, cioè verso Dio. Il vero problema è che il desiderio di onnipotenza tende a trasformarsi inevitabilmente in un vero e proprio delirio. Il delirio, a livello psicopatologico – faccio un discorso ovviamente molto semplificato – implica una perdita di contatto con la realtà. Colui che è in preda al delirio, non è più in grado di orientarsi nel mondo e precipita in una dimensione irreale, prodotta dalla sua patologia psichica e che è priva di ogni corrispondenza con la concretezza delle cose. Il possesso di strumenti tecnici superbamente sofisticati attiva nell’uomo moderno un vero e proprio delirio. Su questo non c’è dubbio. Ma perché si arriva da parte dell’uomo a questo esito? Su questo tema, in qualche modo ancora aperto, si è affaticata la migliore filosofia del Novecento, con esiti molto diversificati (da Bergson a Heidegger). Non entreremo in riflessioni di così elevata complessità. Limitiamoci ad osservare, che quando l’uomo si immerge nella logica di una tecnica che lo mette in grado, in linea di principio, di fare qualunque cosa egli voglia fare, di produrre qualunque prodotto egli voglia produrre, egli tende a perdere completamente la consapevolezza del fatto che la dimensione progettuale è tanto più autentica, quanto più è collocata all’interno della realtà fattuale nella quale egli vive e che costituisce, per dir così, la sua cornice di riferimento. Ma nella modernità tale cornice appare all’uomo repressiva e soffocante: nel suo delirio di onnipotenza egli esaspera la sua progettualità e si convince che la totalità della realtà è posta nelle sue mani. Questo è il punto teoretico fondamentale del nostro discorso, con il quale, come dicevo all’inizio, dobbiamo fare i conti, senza pretendere di avere la bacchetta magica per risolverlo. Si tratta però già di un’enorme acquisizione, l’aver assunto la consapevolezza di questo problema. L’uomo è un essere progettuale, ma l’autenticità di ogni progetto umano sta nell’accettazione dei vincoli naturali, di quel contesto naturale che ci limita e ci condiziona. È il tema del mito di Prometeo: Prometeo non inventa il fuoco (perché il fuoco appartiene alla realtà naturale); si limita ad insegnare agli uomini come lo si accende, il fuoco. Quando e come la competenza “tecnica” necessaria per accendere il fuoco attiva un delirio di onnipotenza? 16 Francesco D’Agostino Esiste una parola un po’ sofisticata, ma molto precisa, per indicare il momento in cui la tecnica cede a questo delirio: è la parola “tecnomorfismo”. Che cos’è il tecnomorfismo? È l’idea che attraverso la tecnica, attraverso l’artificio, l’uomo possa dar liberamente forma a tutte le cose. È, in un certo senso, la più blasfema traduzione, nel lessico contemporaneo, dell’idea di creazione. Negare Dio come Creatore e riconoscere all’uomo un potere tecnomorfico sono fondamentalmente la stessa cosa. Gli esempi vengono in mente a tutti. La fecondazione artificiale è un altro modo di procreare; l’ibridazione uomo-animale è un altro modo di strutturare un’identità biologica; l’introduzione, attraverso le nanotecnologie, di microprocessori nel corpo umano, fa sì che non ci sia più distinzione tra l’uomo costruito dalla natura e l’uomo costruito dall’uomo, tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale: il cyborg è un altro essere, creato tecnomorficamente dall’uomo. Questi esempi e mille altri che si potrebbero portare non vanno intesi in senso misoneistico. Non si tratta di vituperare la capacità progettuale dell’uomo, né la sua intelligenza, che è eminentemente intelligenza progettuale. La risposta ai nostri problemi non sta, come ogni tanto e ingenuamente qualcuno torna ancora a proporre, nel buttare a mare la tecnica o nel vagheggiare forme di esistenza depurate da ogni inquinamento tecnologico. Il sapere tecnologico, come ogni altra forma di acquisizione del sapere, è irreversibile e non sarà la subdola descrizione di paradisi naturalistici, di spiagge incontaminate, di isole in cui non è mai arrivata l’elettricità o la televisione a estirpare, se non nell’immaginario turistico, la verità del nostro io, che – come abbiamo ripetuto – è naturale, ma non naturale del tutto. Il cuore del problema non sta nel criticare la capacità progettuale, che – ripetiamolo – è tipica dell’intelligenza umana, ma nel riconoscere che esiste, nell’uomo, una dimensione che non è riducibile alla progettualità. Una dimensione nella quale la tecnica non può e non deve entrare, ma non perché non abbiamo ancora fatto gli studi necessari per impadronirci di quell’ambito, non perché siamo in una situazione di ritardo tecnologico, ma perché si tratta di una dimensione umanamente preziosissima, ma in linea di principio non gestibile in modo progettuale. Questa è la grande sfida, questo è il cuore del problema epistemologico della modernità. Si potrebbe mostrare come questo problema si corrobori anche grazie al diffondersi del pensiero neodarwiniano. Assumiamo l’idea evoluzionistica, secondo la quale nessuna tra le “qualità” umane è naturalmente orientata, perché propriamente per il darwinismo una natura umana non esiste e ciò che l’uomo è, lo è come prodotto casuale dell’evoluzione. A questo punto, la possibilità per l’uomo di automanipolarsi, modificando il patrimonio genetico della sua specie, non può apparire riprovevole, anzi assume i connotati di un progetto affascinante, grazie al Prefazione 17 quale, per la prima volta nella sua storia, l’uomo potrebbe liberamente costruire se stesso e il suo destino. Ne segue un vero e proprio paradosso: una dottrina radicalmente naturalistica, come quella di Darwin, verrebbe a costituire la base ideologica di giustificazione dello sperimentalismo più anti-naturalistico che mai si sia presentato alla mente degli uomini. La dottrina dell’evoluzione naturale, che tanto rilievo dà alla categoria del caso, viene a sposarsi, per dir così, con le più audaci teorie progettuali. Tra caso e progetto le possibilità di relazione sono molto evanescenti. Chiamiamo caso un evento naturale, che ci piove all’improvviso sulle spalle senza che ce lo aspettiamo e che non siamo in grado di ricondurre ad una catena causale oggettivamente identificabile. Il progetto invece è una dimensione che eccede l’ordine della natura: per noi uomini – e solo per noi, dato che questa categoria non possiede alcun senso per alcun altro – esso altro non è che un’anticipazione del futuro che sta per realizzarsi. È vero che molte volte noi abbiamo la capacità tecnologica di orientare ciò che avviene per caso secondo un nostro progetto: in questo senso possiamo ricordare l’orgoglio, con cui i darwiniani mostrano come in laboratorio si possano attivare, anche se per ora solo a livello di microrganismi, peculiari forme di evoluzione. Nella maggior parte delle situazioni, però, siamo chiamati ad accettare il caso. Ma accettare il caso non significa subirlo passivamente. Possiamo sempre operare per dargli un senso o, più propriamente, per elaborare a partire da esso dimensioni di senso. Molte volte, ad esempio, restiamo vittime dell’altrui volontà di male (ad es. siamo vittime di una violenza). Possiamo percepire la situazione in cui ci troviamo a vivere come prodotta dal caso (nel senso ad es. che se quella sera non fossimo usciti di casa non saremmo stati aggrediti e rapinati). Possiamo reagire alla situazione progettando future forme di autodifesa. Ma non possiamo di certo progettare né la giusta punizione né il pentimento dell’ingiusto aggressore: possiamo solo auspicarli. Non esiste tecnica per reintrodurre il bene nel mondo, né per eliminare quelle dimensioni di male che lo caratterizzano. Né esiste tecnica che ci possa, a priori, garantire il perdono, quando compiamo il male. Possiamo sperare di essere perdonati per il male che facciamo, ma non c’è tentazione maggiormente diabolica della tentazione di chi, mentre fa il male, è certo della possibilità di ottenere il perdono, progettando ad es. un risarcimento economico a favore della vittima talmente alto, da ritenere la sua futura benevolenza come cosa certa ed acquisita. Questa è un’illusione tecnomorfica! Analogamente, è un’illusione tecnomorfica quella di chi si illude di poter progettare l’ispirazione artistica. Certamente è possibile, anche per un artista, progettare la quantità giornaliera di lavoro da svolgere, ma non la sua qualità, perché la qualità non è progettabile. Allo stesso modo, non posso progettare l’amicizia, non posso progettare l’amore. Se mi innamo- 18 Francesco D’Agostino ro di una donna e voglio conquistarla, sicuramente posso sperare di rendermi gradito a lei e che attraverso il mio corteggiamento lei possa giungere ad innamorarsi di me, ma non ho alcuna tecnica che possa ottenere come risultato che il mio amore sia ricambiato. L’affermazione dantesca «amor che a nulla amato amar perdona» è vera, ma non nel senso che chi sia amato è obbligato da una necessità naturale a ricambiare l’amore, ma nel senso per cui la gratuità dell’amore ha un carattere così straordinario e stravolgente, da disarmare, per dir così, le resistenze dell’amato e porlo nella condizione ottimale per ricambiare l’amore di cui è oggetto. Ma anche in questo caso la progettualità è assolutamente esclusa. Con la sua stessa vita, nostro Signore ci ha mostrato come il massimo dell’amore possa avere come contraccambio la croce, cioè il massimo della violenza. Possiamo moltiplicare gli esempi. Nessun giudice, condannando un imputato, può progettarne la redenzione, la riabilitazione o l’espiazione. È possibile sperarlo, è possibile calcolare statisticamente la probabilità che una pena criminale possa ottenere questi ottimi effetti. Ma non abbiamo una tecnica adeguata per progettarli. Possiamo concludere. L’uomo non può fare a meno della tecnica, perché la tecnica è un’esplicazione di quel logos che Dio ci ha donato e che in qualche modo ci rende analogicamente simili a Lui. Se, tuttavia, noi esasperiamo il nostro rapporto con la tecnica e ci illudiamo che la tecnica ci possa dare l’onnipotenza e cadiamo nel delirio di chi la ricerca ciecamente, ci smarriamo e perdiamo le dimensioni più proprie e personali della nostra esperienza. Entriamo in un circuito mentale per cui, di fatto, aboliamo il futuro e l’imprevedibilità del futuro e pensiamo di poter dominare, in maniera totale e compiuta, il contesto sia ambientale sia relazionale nel quale siamo calati. E questo è l’aspetto obiettivamente perverso di tanti tentativi della scienza contemporanea, che occupa indebiti spazi nel sistema dell’informazione, che invade in maniera monotona la letteratura ferroviaria, i settimanali, i quotidiani, annunciando mirabolanti novità, quali la scoperta del gene della fantasia, del gene dell’erotismo, del gene dell’amicizia, del gene dell’affettività… Liberiamoci dall’illusione che esistano dimensioni biologiche, manipolando le quali, noi si sia in grado di produrre e riprodurre la nostra umanità. Il massimo che noi possiamo fare, manipolando il nostro genoma, non è di certo migliorare la nostra identità, ma offenderla ed alterarla. Le manipolazioni genetiche possono anche essere affascinanti, ma l’alterazione della nostra identità è qualcosa che si è sempre conosciuta, ben prima degli enormi, recenti progressi della genetica. Non c’è bisogno di rileggere la storia biblica di Noè, per sapere che l’uomo che beve troppo e si ubriaca perde il controllo di se stesso ed umilia la sua dignità. L’ubriacatura non è una manipolazione genetica, ma produce un effetto che è del tutto analogo a quello di una manipolazione, di una manipolazione dell’io. Si tratta ovviamente di una Prefazione 19 manipolazione estrinseca, che produce e si riduce ad un’alterazione del nostro equilibrio. Tutto questo non ha nulla a che vedere con il delirio di onnipotenza tipico del mondo di oggi, che caratterizza coloro che si illudono di poter rendere il nostro ruolo, la nostra funzione nel mondo, analoga a quella, paradossalmente, di Dio, nelle cui mani è la totalità dei possibili. Dobbiamo abbandonare questa illusione e dobbiamo stabilire, con la tecnologia, un rapporto sapienziale, riconoscendo ciò che la tecnologia ci può dare e ciò che, di principio, la tecnologia non potrà mai darci. È un compito difficile ma necessario, se non si vuole che l’uomo giunga a scatenarsi in imprese che possono sembrare esaltanti, ma che, il più delle volte, si traducono in vere e proprie forme di distruzione dell’identità umana. INTRODUZIONE Si può parlare di bioetica al futuro? La scienza che è conosciuta come bioetica, oggi, non ha ancora compiuto quarant’anni. Superficialmente, saremmo tentati di dire che non ha una storia, non ha un passato. Il suo presente, per giunta, è oggetto di vivaci dibattiti, inerenti al suo statuto epistemologico, la sua collocazione ed il suo stesso riconoscimento come scienza. Potremmo chiederci, dunque, che senso abbia tentare di declinarla al futuro. Di nuovo, superficialmente. In realtà, la lampadina che si accende nella mente di Van Rensselaer Potter, nel momento in cui, nel 1970, conia il neologismo “bioetica”, è alimentata da fili di rame dal percorso intricato e lunghissimo: potremmo seguirlo e trovare che tante correnti diverse sono confluite e hanno contribuito alla nascita di tale disciplina. Questo percorso a ritroso ci porterebbe in un passato popolato da nomi illustri, da Ippocrate a Platone, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, da Galeno al dottor Christiaan Barnard. Ma l’accelerazione vertiginosa che hanno avuto le scienze biomediche negli ultimi cinquant’anni, rischiava di schiacciare alcune dimensioni essenziali della vita umana, relegandole, per spinta centripeta, alla periferia. La bioetica, dunque, è emersa quasi come una necessità, non nuova, bensì rinnovata, di operare uno sforzo di sintesi, esaminando e valutando in modo sistematico la condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della salute, con l’apporto della deontologia, della morale religiosa, della dottrina del diritto e quella più recente dei diritti umani. E, naturalmente, accogliendo in sé l’etica medica e quella filosofica. Infatti, se la medicina è vecchia quasi come l’uomo, l’etica è sicuramente a lui contemporanea, poiché sorge come naturale conseguenza di ciò che lo caratterizza come persona: un essere libero nel suo agire volontario, quindi responsabile del suo agire volontario. Per usare un’immagine efficace, potremmo dire che la “Statua della Libertà” a New York è incompleta e meriterebbe la costruzione di una “Statua della Responsabilità”, sua gemella siamese: libertà e responsabilità sono drammaticamente inseparabili. 22 Introduzione Nel tempo, le teorie etiche si sono andate affinando, plasmandosi secondo la visione dell’uomo e del cosmo ad esse sottesa, quasi cogliendo, via via, frammenti di verità. Ad esempio, l’intuizione filosofica della spiritualità dell’essere umano, totalità unificata di corpo e anima, è antica e porta con sé l’idea di un’eccellenza, di una dignità del tutto speciale riservata alla persona: questa ha racchiuso un intero universo dentro di sé; grazie alla sua anima razionale è, in un certo qual modo, tutte le cose. Proprio mediante la ragione, quindi, l’uomo può percorrere la via della verità. Ma questo avvicinamento alla verità piena, compiuto con percorsi spesso tortuosi (e talvolta imboccando vicoli ciechi, perché cieca e sorda è a volte la ragione superba), rischiava di rimanere asintotico, se l’Infinito stesso non avesse deciso di avvicinarsi e di irrompere nel tempo: Gesù Cristo, Via, Verità, Vita. Il fatto dell’Incarnazione, della Morte e della Resurrezione è come una “bomba ad orologeria etica”, che il timer lascia esplodere nuovamente e con nuova intensità in ogni generazione, aiutando ogni generazione nella faticosa ricerca della via del bene. Secondo le immagini ardite di molti Padri della Chiesa, «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio» (S. Ireneo), per uno «stupefacente scambio fece sua la nostra morte e nostra la sua vita» (S. Agostino). Ecco che non c’è più «né Giudeo né Greco», né uomo né donna, né sano né malato, né embrione né vecchio: la distinzione non è più discriminazione. L’ultimo sarà come il primo. L’uomo non è più “se” e non è più “per”, schiacciato ed annullato da ideologie totalizzanti che lo fagocitano. L’uomo è, tutto l’uomo è, ogni uomo è persona. Immagine e somiglianza di Dio. Amico di Dio. Di più: nel Figlio anch’egli è figlio di Dio. Se di fronte all’esistere del mondo proviamo stupore infinito, cosa proviamo di fronte quest’uomo? Ad un essere di così eccelsa dignità, non ci si può avvicinare come ad un semplice mezzo da utilizzare. L’unico modo giusto di rapportarsi a tale esistente è l’amore. La misura del buon agire, del singolo e dell’intera società, del medico e del giurista, è, pertanto, l’uomo stesso: lo era ieri, lo è oggi, lo sarà domani. Questo orizzonte di riferimento è un abbraccio sincronico e diacronico. Con questo fondamento, l’etica diventa il vero ponte per il futuro. Perciò è possibile provare ad incamminarci verso il futuro stesso, senza rischiare che le parole del libro che avete tra le mani somiglino ad un inutile balbettio. Non si tratta di uno sterile esercizio, piuttosto risponde ad un nostro preciso dovere; noi nasciamo debitori e viviamo eticamente se tentiamo di restituire all’altro precisamente ciò che gli è dovuto: l’amore che corrisponde alla sua dignità. In questo libro “l’altro” sono i nostri figli e i figli dei nostri figli: sono le generazioni nascenti e quelle future, cui lasciare il più ampio orizzonte dei possibili. Mondo ed esistenza sono dono, eredi- Si può parlare di bioetica al futuro? 23 tà, talenti che riceviamo da chi ci precede. Mondo ed esistenza sono un prestito da restituire arricchito a chi ci segue su questa scena. Longitudine e latitudine individuano un punto esatto; gratitudine e sollecitudine individuano un uomo esatto. Oggetto delle riflessioni in questo testo sono le nuove tecnologie, oggi emergenti; come ogni prodotto umano, vivono la stessa contraddizione dell’essere umano: sono, o possono essere, meravigliose e pericolose. Certo imprimono una direzione al futuro: la portata degli interventi di oggi rende l’uomo del domani sanabile o manipolabile, rende l’intero pianeta più accogliente o più vulnerabile. Su questa base, abbiamo raccolto i lavori di questa pubblicazione in tre settori. La prima parte, “Le frontiere della tecnoetica”, dopo un panorama storico sulla tecnologia, ci condurrà verso affascinanti ricerche all’avanguardia, forse a molti ancora ignote: neuroscienze, robotica, cibernetica, nanotecnologie; frutto della meravigliosa creatività umana, esse costituiscono un enorme potenziale da condurre nella giusta direzione. La sicurezza dell’uso di ciò che è incredibilmente piccolo, l’esplorazione del cervello e l’espropriazione dei pensieri più nascosti, la riflessione sul “non umano” ed il confronto con l’intelligenza artificiale sono alcuni degli argomenti trattati e ciò permetterà di individuare con maggiore precisione la specificità della persona. La seconda parte, “Le biotecnologie, tra terapia ed utopia”, unisce aggiornati dati scientifici a profonde riflessioni antropologiche e teologiche, mettendoci in grado di svelare le promesse e gli inganni della nuova medicina. Possiamo, infatti, guardare con fiducia al domani della medicina, ma occorre che essa sia a servizio della “società degli umani” e non asservita “alla società dei sani”: biotecnologia, genetica e farmacologia sono veramente a beneficio dell’uomo integrale, o piuttosto dei suoi onirici fantasmi, come l’immortalità, la duplicazione di sé, e persino l’autoredenzione? Infine, nell’ultima parte, “Tecnica, Ambiente, Società”, abbiamo tentato di mostrare l’impatto che le nuove tecnologie stanno avendo, trasformando tutto ciò che ci circonda: quale ambiente erediteranno le prossime generazioni? E per ambiente intendiamo l’intero ambiente dell’uomo, quindi natura, cultura, società. I pregi di tale pubblicazione sono, pertanto, molteplici: il rigore scientifico, la rilevanza degli autori, l’approccio multidisciplinare e l’originalità tematica la rendono un prezioso strumento di riflessione, di lavoro e di speranza. Proprio la speranza, come ha sottolineato opportunamente il Santo Padre Benedetto XVI con la enciclica Spe Salvi, è la parola chiave che spalanca la porta altrimenti oscura del tempo, del futuro, «una speranza affi- 24 Introduzione dabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente» (Spe Salvi, 1). Essa ci consente di guardare con meraviglia alle capacità scientifiche e tecniche dell’uomo, svuotando l’avvenire dalle nubi minacciose di catastrofismi millenaristici: «la scienza può contribuire molto alla umanizzazione del mondo e dell’umanità» (Spe Salvi, 25). Allo stesso tempo, però, per essere pienamente affidabile, la speranza per l’uomo non va ristretta ad una dimensione esclusivamente materiale, perché l’uomo non può essere ridotto al suo solo confine visibile. Sebbene desideri la vita eterna, l’uomo non desidera che la sua attuale vita sia senza fine, anzi, senza la luce della grazia, anche in un corpo ideale e perfetto, «l’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio» (Spe Salvi, 10). Benessere e felicità, salute e salvezza, infatti, non si equivalgono. Come ricorda il racconto evangelico dei dieci lebbrosi, tra essere sanati ed essere salvati c’è – e rimarrà – un’incolmabile differenza: la scienza medica tenta di compiere il primo passo; lo scientismo si arroga il diritto del secondo, per rivelarsi una deludente religione della salute. Come nella celebre utopia descritta da Aldous Huxley, in questo mondo nuovo fatto di macchine, medicina scientifica e felicità universale in pillole, dove il “fenomeno tecnico” impone l’unica regola etica del raggiungimento del risultato nel modo più rapido possibile, dove non è più compatibile Dio e la trascendenza, dove non è concepibile la sofferenza, in ultima analisi non c’è nemmeno più spazio per un essere del tutto umano. Un mondo nuovo che ha un sapore vecchio, già tante volte amaramente gustato dall’umanità. Le promesse biomediche e tecnologiche possono, dunque, darci una “piccola speranza”, ma il nostro agire si paralizzerà se non incontra la “grande speranza” dell’Amore che ci attende. Eclissata questa speranza, spento questo amore, parafrasando Santa Teresa di Lisieux, potremmo dire che gli scienziati smetterebbero di fare scienza e gli uomini di cercare una strada per un futuro più umano. Guardando al futuro non “sappiamo”, con certezza: che macchine guideremo, se danzeremo con robot piroettanti, se indosseremo indumenti con nanoartifici che ci faranno sembrare più snelli. La scienza, oggi, non ce lo dice, con certezza. Tanto meno può dirci se, guidando quelle macchine, danzando con quei robot, snelliti da quei nanoartifici saremo veramente felici, che poi è l’unica cosa che veramente ci importa. Non “sappiamo”, ma speriamo. Mediante questa pubblicazione, dunque, la bioetica stessa gioca d’anticipo, affrancandosi dalla classica etichetta che la vede correre in affanno dietro l’inarrestabile progresso scientifico, persa nei suoi stessi percorsi interdisciplinari. Sul futuro la bioetica può parlare oggi con certezza, prima della stessa scienza. Lo sguardo del bioeticista corre in avanti. Può indicare la strada per un progresso scientifico che non tradisca, anzi, che accompagni l’uomo ver- Si può parlare di bioetica al futuro? 25 so la felicità intesa come piena realizzazione umana. Può percepire se le moderne tecnologie si stanno incamminando verso il bene comune. Può proporre adeguate soluzioni etiche e giuridiche, coerenti con l’edificazione della “civiltà dell’amore”. Guardando al futuro il bioeticista parla con certezza e chiede, oggi, almeno una certezza: quella di poter scorgere nella nebbia delle possibilità tecniche un volto familiare, piuttosto che un ignoto e perfetto Homo Sapiens versione 2.0. Che non accada che, traghettati dalle moderne tecnologie nel paradiso post-umano, ci rendiamo conto di avere lasciato dietro di noi l’uomo. Quello autentico, quello che – per dirlo con le parole poetiche di Karol Wojtyla – dallo scorrere delle cose, per le quali scorrere ed esistere era sufficiente, è emerso gridando: «Fermati! Questo scorrere ha un senso!». Un’ultima avvertenza. Questo libro non avrà una conclusione, e del resto come potrebbe, parlando al futuro? Il domani non è scritto nelle stelle, nelle carte, nei cromosomi e neppure in questo libro. Il futuro lo stiamo scrivendo adesso. L’unica conclusione possibile sarà, pertanto, una pagina bianca, senza numero, ma con una cornice. Abbiamo, cioè, “carta bianca”, ma abbiamo anche un riquadro in cui muoverci, un tempo (il presente) in cui operare, un ambito in cui agire, affinché ogni nostro atto (umano, tecnico, scientifico) si qualifichi come autenticamente umano. Il nostro fare, allo stesso tempo “ci fa”. Quale drammatico paradosso metafisico si racchiude in questo debole essere di frontiera che chiamiamo uomo! La nostra natura ci è data ma sta a noi realizzarla: realizzandola, farla compiuta e compiendola, scoprire di averla sempre avuta. La quercia secolare non ha tradito la sua ghianda. Io mi svelo mentre agisco; come questo testo compare mentre lo scrivo, il futuro compare mentre lo vivo. Il futuro è adesso. Noi vi aspettiamo là. Roma, marzo 2009 Massimo Losito Joseph Tham, L.C. Prima parte Le frontiere della tecnoetica INTRODUZIONE Si può parlare di bioetica al futuro? La crescita della tecnica e le possibilità che noi abbiamo di sfruttarla, sono divenute vertiginose, negli ultimi tempi. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, le neuroscienze, la nanotecnologia ci danno tante speranze, ma ci pongono ogni volta domande più urgenti: la tecnologia e il progresso sono sempre per il bene dell’uomo? Quali sono i limiti della tecnologia? Chi e in che modo ci può parlare delle frontiere della tecnoetica? Questa prima parte ha lo scopo di offrire alcune risposte attraverso un’analisi storica, una riflessione filosofica e, in conclusione, delle considerazioni d’ordine teologico. Offrendoci un panorama storico dello sviluppo della tecnologia, GIANLUCA CASAGRANDE fornisce una prospettiva della visione sul rapporto uomo-ambiente-tecnologia degli ultimi decenni. Fu proprio la meccanizzazione dei processi produttivi a consentire l’avvio di quel progresso economico che avrebbe lungamente caratterizzato l’Europa e il Nordamerica, aprendo nuove opportunità nel campo della qualità della vita, dell’istruzione e della cultura. Questa breve ricostruzione storica, sorretta da una corretta antropologia, arriva a denunciare due eccessi opposti: da una parte, la nostalgia per un passato mitico in cui un ipotetico animale uomo sarebbe stato in idilliaca armonia con la natura; dall’altra, l’illusione del mito del progresso, nuovo totem a cui l’uomo, ridotto a corpo materiale, affida la propria speranza. HENK TEN HAVE ci mette in guardia dalle false attese suscitate dalle biotecnologie e richiama la necessità di avere sempre un atteggiamento equilibrato. Purtroppo, ai nostri giorni, si sono percorse strade diverse e sono sorte varie forme d’utopismo biotecnologico. Il rischio della ricerca, che promette tutto questo, è quello di essere legata a forti interessi economici e di avvalersi, a volte, di scienziati privi di scrupoli. Ten Have conclude suggerendo ai bioeticisti di sviluppare una maggiore saggezza, che consiste in un sano scetticismo nei confronti dei progressi della scienza e nel dotarsi di una più vasta e appropriata informazione scientifica, per affrontare in maniera adeguata i difficili dilemmi etici dei nostri tempi. GONZALO MIRANDA illustra come l’uomo, potente e Le frontiere della tecnoetica 29 impotente, può divenire prepotente, nel suo rapporto con gli altri e con la natura, anche attraverso l’uso degli strumenti tecnologici. Albert Einstein, il giorno dell’esplosione della bomba atomica su Hiroshima, esclama: «Ci sono delle cose che sarebbe meglio non realizzare». Così, l’homo technicus e quello sapiens non saranno in contraddizione se, attraverso un’apertura al trascendente, l’uomo saprà «cogliere meglio il senso della propria fragilità, dei propri limiti e dei propri illimitati desideri». Un’analisi filosofica della tecnica prende avvio dal mito greco di Prometeo, al quale si fa risalire la sua origine. Attraverso un excursus storico, vengono esposti i tratti principali delle visioni d’importanti filosofi quali Platone, Aristotele, San Tommaso d’Aquino, Cartesio, Kant, fino a Gehlen, Heidegger e Hans Jonas. MICHAEL RYAN evidenzia le tappe e le trasformazioni avvenute nel corso del tempo e, responsabili, a suo giudizio, della situazione in cui la tecnica si trova ai nostri giorni. Si è passati da un saggio uso delle risorse ad una loro espropriazione, ed il rischio, per l’uomo moderno, è quello di un uso indiscriminato e pericoloso, soprattutto per le generazioni future: siamo di fronte ad un vero e proprio assalto alla natura. Come conseguenza, si assiste ad una perdita del valore del dono di sé e della solidarietà sociale, con la possibilità di una totale alienazione. LEOPOLDO PRIETO si preoccupa di definire i rapporti fra natura umana, cultura e tecnica. Questi rapporti, non sempre facili, spiegano l’odierno disagio di fronte alla tecnica e l’importanza che occorre attribuire alla natura umana per poter correttamente definire le finalità della tecnica. L’autore conclude affermando che: «I problemi tipicamente umani sono quelli del senso e del fine della vita e di fronte ad essi la scienza e la tecnica sono completamente impotenti». Per finire, GUIDO TRAVERSA riflette sull’intelligenza artificiale così com’è vista da un filosofo. Con un’analisi acuta e profonda del rapporto percezione-pensiero nell’uomo, giunge alla conclusione provvisoria che è alquanto improbabile che l’intelligenza artificiale possa sostituire quella umana. I soggetti non-umani sono titolari di diritti? La domanda che MARIO PALMARO ci pone sulla possibilità di includere i robot nella sfera dell’etica e del diritto è solo in apparenza un’esercitazione fantascientifica. Da essa, infatti, egli prende le mosse per trattare della tendenza, assolutamente reale ed attuale, di allargare la tavola dei diritti soggettivi ad esseri non umani, escludendo altresì alcuni uomini, giudicati privi di dignità umana. Il mondo ipotetico della robotica e delle sue leggi costituiscono l’occasione per una quanto mai opportuna, corretta ed urgente riflessione antropologica. Lasciandoci alle spalle la fantasia del mondo cibernetico, ADRIANA GINI c’introduce nel mondo delle neuroscienze. Parlando della neuroetica, ossia l’etica delle neuroscienze e le neuroscienze dell’etica, affronta le questioni delle protesi neurali e della lie detection, dopo una descrizione dei principi e delle applicazioni della Risonanza Magnetica Nu- 30 Parte prima cleare funzionale (fRMN). Nella sezione dedicata al neuromarketing, le indagini compiute su un gruppo di soggetti volontari, per comprendere le motivazioni all’acquisto di bevande, sono utilizzate con il fine di illustrare alcune delle sconcertanti applicazioni delle moderne tecnologie e i rischi derivanti da un’indesiderata invasione della nostra privacy. Questa prima parte si chiude con una prospettiva teologica sull’uomo e sulla tecnica. PEDRO BARRAJÓN esamina le importanti innovazioni apportate dalla Gaudium et Spes nell’ambito del discorso sulle tecnologie. Le attività dell’uomo, il corretto rapporto con gli altri uomini, l’uso delle risorse della natura, sono visti alla luce della Rivelazione, a partire dal libro della Genesi. Perché le attività dell’uomo e, quindi, l’uso della tecnologia sono buoni? Perché essi costituiscono lo sforzo che l’uomo compie, come singolo e come collettività, per migliorare le proprie condizioni di vita: tutto questo corrisponde alle intenzioni di Dio. Esiste, quindi, ed è attingibile dalle Scritture, un fondamento biblico delle attività umane che occorre attualizzare e contestualizzare ai fini di un corretto uso delle biotecnologie. GIAMPAOLO CREPALDI prende in esame il lavoro d’alcuni pensatori e lo pone a confronto con gli insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa, sulle questioni riguardanti la tecnologia. Il Magistero della Chiesa riconosce la capacità che l’uomo possiede di fare scienza, come un dono del Signore, ed il progresso scientifico come un invito a continuare l’opera del Creatore: il tutto deve rispondere, tuttavia, alle regole della destinazione universale dei beni e alla rigorosa funzione di servire il bene comune. Egli propone una strada culturale nuova che «intenda contrapporsi alla nudità nichilista della tecnica, a partire dalla fede cristiana», vale a dire, una ritrovata Creazione, intesa quale punto di partenza della vocazione di ogni uomo ed espressione della sua dignità. Gianluca Casagrande Breve storia della tecnologia L’Uomo si adatta al contesto materiale in cui opera e, a sua volta, tende ad adattarlo alle proprie esigenze ed ai propri interessi. Lo strumento fondamentale a sua disposizione per questo processo di adeguamento e azione sull’ambiente è la tecnologia, che può essere genericamente considerata l’insieme di conoscenze, strumenti e procedimenti attraverso cui l’Uomo utilizza le risorse dell’ambiente per organizzarlo ai propri fini e ricavarne beni, attraverso processi di trasformazione e costruzione. Mediante la tecnologia l’umanità è in grado di superare alcuni suoi limiti naturali quanto alla capacità di produrre beni e servizi e, così facendo, può instaurare, purché si faccia guidare da opportuni principi etici, dinamiche di collaborazione e interdipendenza fra diverse collettività in quelle che la geografia considera aree di centro ed aree di periferia nel quadro dello sviluppo nel mondo. Il tema è molto vasto; in questa sede ci limiteremo ad alcune considerazioni, rimandando all’ampia letteratura disponibile il lettore che volesse approfondirne aspetti specifici. L’idealizzazione del passato Nella seconda metà degli anni Novanta il geografo Roberto Mainardi, riportò, in un suo manuale universitario1, un’ipotesi affascinante. Molte culture paiono aver conservato il ricordo di una primordiale fase di felicità e di armonia fra l’uomo e l’ambiente; qualcosa di paragonabile all’età dell’oro della cultura greco-romana e al giardino dell’Eden in quella giudeo-cristiana. Mainardi osservò che tale visione culturale doveva risalire ad una fase individuata oggi comunemente nell’epoca dei cacciatori-raccoglitori2. Prima Ricercatore in ruolo, settore Geografia, Università Europea di Roma. R. MAINARDI, Geografia Generale, Carocci, Roma, 2001. 2 R. MAINARDI, op. cit., 129-130 1 32 Gianluca Casagrande della nascita dell’agricoltura, datata in genere ad oltre 10.000 anni or sono, gli uomini si sarebbero procurati il cibo con la caccia e la raccolta dei frutti spontanei nei diversi ambienti. L’autore aggiungeva un commento significativo: I raccoglitori della fine del Paleolitico e del Mesolitico, grazie alla perfetta padronanza della raccolta e della caccia, dispongono di un nutrimento facile e abbondante e iniziano il processo di sedentarizzazione [...]. Nel villaggio dei cacciatori-raccoglitori del Postglaciale vi è ampia disponibilità di cibo, ottenuto con una settimana lavorativa di 15 ore. È nel ricordo di questa facile abbondanza che affondano le radici del mito dell’età dell’oro e del presente come decadenza. [...] La piena padronanza del linguaggio e l’ampia disponibilità di tempo libero hanno consentito lo sviluppo di una ricca cultura orale: miti, leggende, concezioni religiose, politiche, magiche, stili artistici ecc. Nelle culture tribali le unità sociali sono piccole; le capacità, le differenziazioni e i privilegi sono limitati, e la partecipazione è relativamente omogenea. Sono praticati la schiavitù dei vinti in guerra e talvolta i sacrifici umani e il cannibalismo. Eppure la gamma totale delle attività è esigua e anche gli schiavi possono partecipare alla vita culturale del gruppo. Le culture più semplici devono affrontare problemi minori e più facili. [...] Le culture più grandi e più ricche hanno problemi sociali più grandi e più difficili da risolvere3. In altri termini, il nostro concetto di Arcadia, archetipo assoluto dell’armonia idillica uomo-natura, sarebbe derivato dal rimpianto per la fase storica in cui l’umanità fu, materialmente, carnivora tra i carnivori ed erbivora tra gli erbivori. Non è impossibile che nella memoria primordiale delle civiltà più antiche sia passato un ricordo della fase storica dei cacciatori-raccoglitori; ma certamente questa visione idealizzata ha perso, nella tradizione, tutti i connotati profondamente negativi che certamente la caratterizzarono e che portarono gruppi umani e civiltà, a cercare, attraverso una sempre più complessa organizzazione sociale ed un progresso materiale da raggiungersi col perfezionamento delle tecniche costruttive ed agricole, condizioni di vita che si distaccassero da quelle dei cacciatori-raccoglitori, con le sue regole di eliminazione degli svantaggiati. Noi stessi, oggi, pur consapevoli di come gli ordini sociali storicamente esistiti ed anche quelli attuali siano ben lontani dalla perfezione, pure siamo portati istintivamente a condannare, perfino nel nostro parlare comune, un sistema del tutto naturale ed ecologico come la legge del più forte e una logica, altrettanto diffusa in natura, come quella della sopraffazione e della 3 R. MAINARDI, op. cit., 130. Breve storia della tecnologia 33 nullità dell’individuo di fronte al vantaggio indiscriminato della collettività. Un’altra ricorrente nostalgia del passato è quella per fasi storiche più vicine a noi; il buon vecchio tempo antico – alcuni o molti secoli fa – in cui la vita sarebbe stata migliore, più autentica e più a misura d’uomo; e questo in contrapposizione ad un presente frenetico, rumoroso, appiattito e banale4. Sul piano spirituale e morale è difficile pronunciarsi in merito, giacché ciò ricade nella sfera dell’individuale. Come per tutte le epoche, al più si possono svolgere considerazioni di carattere puramente antropologico e culturale a partire da riti, usanze o costumi documentati. Sul piano materiale, tuttavia, è facile vedere i limiti di queste epoche rimpiante: povertà diffusa, analfabetismo, aspettative di vita media molto inferiori alle attuali; in caso di malattia, condizioni sanitarie che oggi sarebbero unanimemente considerate inaccettabili; e in molte epoche, instabilità politiche e scarsità di garanzie sociali5. Le conseguenze della rivoluzione tecnologica Quella che noi chiamiamo rivoluzione tecnologica, da non confondere con la tecnologia in senso stretto – questa, infatti, è di molto precedente – avviene in un momento storico e in un contesto geografico ben preciso. Essa si verifica nella seconda metà del XVIII secolo, nell’Europa in cui si affermavano nuovi modelli socio-economici derivanti dalla decadenza di quelli dell’Ancien-Régime e dall’emergere del peso economico e politico del Terzo Stato. I sistemi economici a tutti i livelli, nel Settecento, erano sempre maggiormente impostati sulla concorrenza fra diverse attività imprenditoriali gestite da agenti diversi: di conseguenza, finirono presto con l’imbattersi in quello che era stato da sempre il limite della massima quantità di lavoro ottenibile. Per millenni l’uomo aveva usato forza motrice muscolare, animale od umana; energia eolica e idraulica disponibile a seconda delle condizioni geografiche. Un progresso tecnologico c’era 4 Cf. A. VALLEGA, «Il Tempo nel Luogo, il Luogo nel Tempo», in Bollettino della Società Geografica Italiana, Roma, Serie XII, vol. XI (2006), 257-284. 5 Per approfondire alcuni aspetti di questo tema, con riferimento peraltro al passato recente del nostro Paese, cf. S. JACINI, I risultati dell’Inchiesta Agraria (1884) – La situazione dell’Agricoltura e dei Contadini Italiani dopo l’Unità, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1976. Relazione Pubblicata negli Atti della Giunta per l’Inchiesta Agraria; G. ROMILI, L’agricoltura e le Classi Agricole nel Mantovano, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1979; M. ROMANI, Un Secolo di Vita Agricola in Lombardia (1861-1961), Giuffré, Milano 1963. 34 Gianluca Casagrande stato, non esclusivamente ma prevalentemente realizzato con un lento e sofferto sviluppo empirico, più che a partire da un processo di acquisizione di conoscenze teoriche nel senso inteso dalla scienza odierna. In molti casi si era trattato per lo più di perfezionamenti su tecnologie di antica o antichissima invenzione: la forza muscolare degli animali era stata impiegata in modo più efficiente con diversi accorgimenti: ad esempio, intorno al X secolo, si era adottato il giogo alla spalla anziché al collo dell’animale; in agricoltura erano stati migliorati gli strumenti e si era evoluto l’aratro. Nel campo delle costruzioni navali si erano compiuti progressi passando da scafi per la navigazione lungo-costa, a strutture più grandi e raffinate; cosicché all’inizio dell’età moderna l’Europa disponeva di velieri medio-grandi, per alcune – a volte parecchie – centinaia di tonnellate di stazza, capaci di solcare gli oceani, decine di giorni, senza alcun rifornimento. Tuttavia i materiali erano sempre più o meno gli stessi; le velature, pur migliorate di molto soprattutto per consentire una crociera uniforme anche al variare delle condizioni ambientali, avevano garantito un netto ma relativamente modesto guadagno di velocità.6 Il limite fondamentale si trovava, in effetti, per tutte le applicazioni, nella generazione di energia per ricavarne lavoro. A metà del Settecento, il fiorire di attività imprenditoriali in concorrenza, basate sulla manifattura per la produzione di merci, o sull’attività estrattiva, richiedeva, dal punto di vista dell’imprenditore, di produrre le stesse quantità a costo più basso di quanto non facessero i suoi concorrenti, risultato che presupponeva un aumento della produzione specifica per unità di tempo. Questa stessa esigenza si era riscontrata anche, ad esempio, nei secoli precedenti; ma il minor costo relativo della manodopera da un lato, e soprattutto l’assenza di conoscenze scientifiche, la cui applicazione pratica sta alla base della realizzazione tecnologica, impedirono di ricavare un reale progresso nei processi di produzione nonostante alcune felici intuizioni della tecnica in antico. Il passo avanti, inizialmente non del tutto compreso, si ebbe ai primi del Settecento, con l’introduzione del motore atmosferico di Newcomen. Esso sfruttava l’espansione e la condensazione alternative del vapore prodotto da una caldaia entro un cilindro. Questo permetteva, pure in una bassa efficienza complessiva, di generare un moto alternativo controllato, efficacemente utilizzabile per l’azionamento di leveraggi. Se impiegato, ad esempio, per il drenaggio delle miniere, questo sistema permetteva di affrancarsi dall’impiego di imprevedibili mulini a vento o dalla necessità di realizzare l’impianto in prossimità di un corso d’acqua. Per 6 Cf. M. NUZZO (a cura di), Navi e Velieri, vol. 2, De Agostini, Novara 1998. Breve storia della tecnologia 35 tutti questi motivi il meccanismo, pur rudimentale, conobbe una notevole diffusione. Dalla macchina di Newcomen il passo ulteriore fu il motore a vapore di James Watt che, consentendo di effettuare le stesse operazioni in modo più efficiente portò ad applicazioni del tutto nuove7. Fu questo tipo di macchina a raggiungere la potenza e l’affidabilità sufficienti per superare il limite fondamentale di produzione di lavoro ed avviare la meccanizzazione delle manifatture, trasformandole nelle prime industrie. Il proliferare di attività che oggi chiameremmo di settore secondario non fu indolore, e la storia sociale presenta molti esempi delle tristi conseguenze causate dall’avvio dell’industrializzazione in Europa e nel Nordamerica. Tuttavia fu proprio la meccanizzazione dei processi produttivi a consentire l’avvio di quel progresso economico – e quindi sociale – che avrebbe lungamente caratterizzato l’Europa e il Nordamerica differenziandolo dalle altre regioni del mondo. Dopo le prime applicazioni negli stabilimenti per la produzione di merci, il motore a vapore trovò utilizzo nel campo dei trasporti 8, con la rapida evoluzione, nell’arco di 60-80 anni, delle velocità di trasporto ferroviario via terra dai 40 km/h ai 100 km/h; via nave si passò dagli 8-15 nodi dell’ultima epoca della vela ai 22-25 nodi dei grandi piroscafi transatlantici dei primi decenni del Novecento; ma se la velocità massima di una nave era limitata oggettivamente dalla resistenza idrodinamica, i limiti al tonnellaggio dipendevano solo dalla capacità di progettazione, dalla qualità della carpenteria e dai nuovi materiali metallici che si andavano affermando nella costruzione: così si passò da stazze di 1000-2000 tonnellate alla fine del Settecento alle 45.000 tonnellate circa del 1910-1920; e dalla capacità di trasportare 200-500 passeggeri ai 2500 di poco prima della Grande Guerra9. Questo progresso tecnologico avrebbe avuto conseguenze estremamente importanti nella vita quotidiana in molte nazioni d’Europa. Nella produzione, si ebbe un aumento a dismisura del volume di merci disponibili e quindi un crollo drastico dei costi e dei prezzi al pubblico; nei bilanci familiari, i generi di prima necessità conobbero una diminuzione di costo importante, liberando risorse per altri beni, materiali ed immateriali, precedentemente riservati alle classi più abbienti. 7 Cf. R. STUART, A Descriptive History of the Steam Engine, J. Knight & H. Lacey, London 1824. 8 Cf. R. H. THURSTON, A History of the Growth of the Steam Engine, H. Milford, Oxford University Press, London 1939. 9 Cf. R. BALLARD, S. DUNMORE, Exploring the Lusitania, Warner Books, New York 1995. 36 Gianluca Casagrande Nel campo dei trasporti si ebbe un aumento dei volumi di passeggeri e merci trasferiti, su distanze sempre maggiori; cosa che innescò potenti modificazioni non solo nella circolazione di merci, mezzi, manodopera e capitali; ma anche nelle dinamiche e negli equilibri di interazione fra aree geografiche. Percentuali significative della forza lavoro utile presso una nazione, qualora essa non avesse modo di impiegarle, si spostarono altrove e scrissero pagine importanti nello sviluppo socio-economico di altri continenti. I nuovi processi produttivi e le nuove modalità di spostamento cambiarono i modi di combattere le guerre, quando fattore di vantaggio per un contendente fu non solo di disporre di migliori armamenti e tecnologie militari in senso lato, ma anche di poter spostare le truppe, rapidamente, da uno scenario di guerra all’altro su una sviluppata rete di trasporto, mentre quelle nemiche dovevano continuare a muoversi lentamente per le vie tradizionali10; l’avvento infine del mezzo aereo avrebbe definitivamente ridefinito il concetto di superiorità bellica. Tutti questi cambiamenti non ebbero solo epocali conseguenze sul piano sociale, economico e politico, ma anche effetti significativi nella percezione dello spazio circostante da parte delle popolazioni di intere nazioni e continenti. Si accrebbe il raggio d’azione dei gruppi umani, e aumentò la circolazione sia all’interno sia all’esterno di aree geografiche che per tradizione erano rimaste anche e soprattutto culturalmente rinchiuse entro i propri confini11; interi tessuti geografici di territori, comunità e regioni iniziarono a sviluppare nuove reti di collegamento, relazione e scambio, riorganizzandosi e, in buona misura, delocalizzandosi. La velocità del viaggio è, infatti, insieme al costo – in senso lato – del viaggio stesso, uno dei fattori che maggiormente influenzano la percezione dello spostamento ed i concetti, fortemente soggettivi di vicino-lontano, raggiungibile-irraggiungibile, familiare-sconosciuto. Questo processo di delocalizzazione degli individui e delle collettività ebbe un ulteriore rafforzamento con la comparsa di sempre più evoluti strumenti di comunicazione e dunque con la separazione netta fra il trasferimento materiale di persone od oggetti e il trasferimento immateriale di informazioni e dati: dal telegrafo con filo a quello senza filo, alla comparsa della radiofonia che avviò, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, quel processo di globalizzazione delle informazioni in tempo reale o quasi-reale, definitivamente concretizzatosi nei decenni successivi; 10 Un esempio classico si ebbe in occasione della guerra franco-prussiana (18701871). Cf. H. MOLTKE, Storia della Guerra Franco-Germanica del 1870-71, Treves, Milano 1891. 11 Cf. S. MONTEBELLI, «I Confini della Territorialità», in Documenti Geografici, n. 3, Università degli Studi di “Tor Vergata”, Roma 2000. Breve storia della tecnologia 37 quello stesso processo permette a noi oggi di seguire, nel momento stesso in cui i fatti accadono, situazioni di ogni genere, in tutto il pianeta e con capacità di resa sensoriale sempre più raffinate. Il progresso delle condizioni di vita materiali raggiunto dall’umanità tra la fine del XIX secolo e la fine del XX è stato molto maggiore di qualsiasi analogo precedentemente avvenuto. Moore e Simon, nel loro volume divulgativo – per quanto esso, obiettivamente, non abbia preso in esame parametri meno incoraggianti su scala mondiale12 – hanno rappresentato questa realtà con una serie di grafici. Superati i limiti tradizionali di produttività, in tutti i settori della vita dell’uomo il progresso fu senza precedenti. La produttività agricola aumentò a dismisura; quella manifatturiera e industriale non cessò mai di crescere diminuendo sempre di più in costi ed impatti specifici; la società, liberata dai bisogni fondamentali, poté dare enorme impulso alla creazione di maggiori opportunità sul piano della salute e della qualità di vita; dei servizi alla persona, e dello sviluppo culturale. Il progresso nei processi di trasmissione delle informazioni e addirittura delle azioni materiali continuò inarrestabile; oggi è perfettamente scontata l’esistenza non solo di collegamenti globali nella comunicazione; ma anche l’esecuzione di lavori ed operazioni per via telemetrica. Essi sono possibili su impianti tecnologici e perfino, con la telemedicina, sulla persona umana: questo ha determinato la virtualizzazione dello spazio e modalità completamente nuove di concepirlo anche da parte dell’individuo; non parliamo poi della ampia affermazione, ai fini informativi, di collegamento e aggregazione sociale, di spazi virtuali creati e controllati direttamente dall’informatica, a prescindere dallo spazio materiale attualmente definito. Il progresso tecnologico riesce a trasformarsi in utile per l’umanità solo quando venga ad inserirsi su opportune condizioni complessive di crescita economica e sociale. Ciò accade, ovviamente, in un processo più lento di quello della pura e semplice ricerca tecnologica; ma che pure si verifica con il supporto fondamentale della tecnologia stessa, e che si rileva da decenni in molte parti del pianeta. Il mondo che attraverso la lunga epoca del colonialismo aveva consolidato quella struttura funzionale divisa sostanzialmente fra centri e periferie, ha trovato lentamente – certo a partire da complesse evoluzioni sociali, politiche e geografiche, ma anche economiche e tecnologiche – diversi e più complessi equilibri di interdipendenza reciproca, basati su nuove modalità di produzione di beni e servizi e su nuove e necessarie linee di scam- 12 S. MOORE - J SIMON, It’s Getting Better All the Time: 100 Greatest Trends of the Last 100 Years, Cato Institute, Washington, DC 2000. 38 Gianluca Casagrande bio. Parve più volte, fra Ottocento e Novecento, che la speranza per il genere umano dovesse venire da un’equa ripartizione dell’accesso ai beni materiali realizzati con la tecnologia. Sul piano materiale era una speranza pienamente legittima; ma affidarla alla sola capacità umana di realizzare un progresso attraverso la propria intelligenza, la propria volontà, le proprie ideologie ed il proprio lavoro fu alla base dell’illusione del mito del progresso, durante la Belle Époque, e della terrificante eruzione del male nel secolo che sarebbe venuto, fra le distruzioni belliche e le atrocità dei totalitarismi. Di fronte alle scelte fondamentali circa la vita dell’individuo e della collettività, la tecnologia non può sostituirsi alla coscienza e alla morale; e le opportunità offerte dai nuovi mezzi non possono essere considerate a prescindere da valutazioni etiche. La tecnologia, l’ambiente fisico e l’ambiente antropico Ogni attività umana nell’ambito materiale si riconduce, in definitiva, ad un’operazione nell’ambiente. L’espansione della capacità tecnologica ha aumentato il potenziale – ma, si badi, non necessariamente il reale effetto – di invasività dell’attività umana sull’ambiente, sia fisico sia antropico, in cui essa si svolge. L’attuale riflessione sulle dinamiche di sviluppo della tecnologia non può prescindere da un approfondimento delle problematiche connesse al rapporto tecnologia e ambiente nelle due accezioni indicate; tale approfondimento, anzi, è in molte circostanze, considerato come vera e propria chiave di lettura dei futuri sviluppi della riflessione sulla tecnologia. L’ambiente può essere soggetto a due tipi di conseguenze negative dell’attività tecnologica: il primo è quello connaturato all’azione produttiva stessa – quindi emissioni inquinanti, perturbazioni di ecosistemi, esternalità negative, note o ignote, del processo, ecc.; il secondo quello incidentale e non connaturato all’azione produttiva, eppure possibile: disastri nucleari, distruzione di impianti industriali, naufragi di superpetroliere ecc. Entrambi i tipi di impatto devono essere preventivati e considerati nella riflessione sulla tecnologia utilizzata, e questo perché, naturalmente, il mantenimento dell’abitabilità del pianeta e di utilizzabilità delle risorse anche nei confronti delle generazioni future è una priorità riconosciuta da tutti. Una riflessione dunque su alcune possibili linee di indirizzo da seguire per impostare un costruttivo rapporto uomo-tecnologia-ambiente nel quadro dello sviluppo tecnologico, è necessaria, ed è in corso da circa quattro decenni ai massimi livelli delle istituzioni internazionali. Senza la pretesa di aggiungere alcun elemento di novità al dibattito, si possono svolgere qui alcune brevi e semplici considerazioni. Breve storia della tecnologia 39 Dalla metà del XIX secolo ad oggi, in linea generale, lo sviluppo tecnologico è stato in propulsione reciproca con la libera impresa e il libero mercato. La competizione connaturata al modo di produzione capitalistico e la diversificazione e complessità tipiche di una produzione di beni di consumo di massa sono stati, in tempo di pace, i principali fattori di sviluppo della tecnologia. In tempo di guerra o di tensione internazionale prolungata, comprensibilmente, il principale fattore dello sviluppo tecnologico – a volte parossistico – è stata la ricerca della superiorità militare e strategica13. Ciò si è ampiamente riscontrato attraverso le due guerre mondiali – nella seconda si gettarono le fondamenta di tutte le moderne tecnologie che dominano nel nostro attuale quotidiano – e nel quarantennio della Guerra Fredda; periodo quest’ultimo, non dimentichiamolo, in cui in forza del contrasto USA-URSS l’Umanità realizzò le tecnologie per il volo spaziale, le telecomunicazioni via satellite e la diffusione di tecnologie informatiche ai prodromi di quella rivoluzione dell’informazione cui si accennava prima, che avrebbe poi modificato per sempre la nostra visione del mondo. La ricerca e lo sviluppo in ambito tecnologico hanno dunque il loro principale propulsore nella competizione, pacifica o bellica; mentre si è dimostrato storicamente che, ove la competizione sia mancata, i sistemi ad economia pianificata non sono riusciti in realtà a centralizzare il controllo dello sviluppo tecnologico riportando effettivi successi di lungo periodo. Un vero e proprio sviluppo della tecnologia deve necessariamente essere capillare e realizzarsi mediante miglioramento e selezione dei prodotti tecnologici attraverso il vaglio del mercato, a partire dai massimi livelli dell’hi-tech fino a quelli delle più banali realizzazioni quotidiane. La rinuncia a questa capillarità mediante, per esempio, l’impedimento della concorrenza, consente sì – come avvenne, ad esempio, in Unione Sovietica – di concentrare, da parte delle istituzioni dirigenti, risorse di ricerca e produzione nei settori tecnologici di interesse (industria energetica, pesante, ecc...); ma determina, nel migliore dei casi, un ritardo sulle tecnologie di base – oltre che su quelle di largo consumo – che a lungo andare può determinare conseguenze anche nel campo delle alte tecnologie, incidendo sui livelli di efficienza ed eventualmente su quelli di sicurezza. Miglior fortuna di un sistema di sviluppo economico e tecnologico direttamente governato dall’alto, stanno mostrando di avere invece i tentativi, da parte di entità di controllo nazionali o sovranazionali di regolamentare entro specifici standard (di sicurezza, qualità, produzione ecc.), l’attività 13 Cf. U. NOBILE, L’Umanità al Bivio, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1947; V. BUSH, «As We May Think», in The Atlantic Monthly, July (1945), 101-108, 101. 40 Gianluca Casagrande degli agenti produttori ed utilizzatori di tecnologie14. Questo tipo di controllo, che dovrebbe limitarsi a indirizzare secondo criteri favorevoli alla collettività l’attività tecnologica, può essere esercitato in ultima analisi secondo diversi possibili approcci attuativi. Essi, avendo a che fare con la visione ultima del rapporto uomo-ambiente, sono in linea teorica soggetti ad elaborazione e definizione ideologica e filosofica, più che pratica. Due tradizionali (e longeve) coordinate: Tecnocentrismo ed Ecocentrismo Il rapporto tra l’uomo e l’ambiente potrebbe essere visto, a seconda del principale oggetto di tutela, su due versanti: quello Tecnocentrista, in cui l’attività e l’iniziativa umana siano considerate prevalenti; e quello Ecocentrista, in cui la tutela dell’ambiente debba invece prevalere. Questa distinzione, dalla formulazione di Timothy O’Riordan (1981)15, ha subito un’incessante tradizione e rielaborazione – e non di rado, distorsione – in gran parte della letteratura che, a qualunque titolo e secondo qualunque visione, abbia trattato da allora il concetto di sostenibilità. Recentemente questa prospettiva è stata messa in discussione con la proposta di nuovi approcci16, tuttavia è ancora fortemente presente nel dibattito. Vale la pena di riassumere brevemente i termini, con una certa generalizzazione per includere i vari aspetti dell’attività tecnologica. Da ciascuna di queste due visioni, Tecnocentrismo ed Ecocentrismo, emergono sostanzialmente due livelli – ovviamente teorici – di applicazione, uno forte e uno debole. Ci si sposta dunque – ma, in pratica, secondo continuità – da una visione in cui l’attività umana e lo sviluppo economico, impren- 14 Un gran numero di agenzie, enti, uffici e consorzi istituzionali sono nati a questo scopo negli ultimi cinquant’anni. A semplice titolo di esempio potremmo ricordare vari esempi di entità globali di standardizzazione, a diversi livelli di istituzionalità, come l’ISO (International Organization of Standardization), l’ICAO (International Civil Aviation Organization), il W3C (World Wide Web Consortium). In alcuni casi vengono stabilite standardizzazioni a livello sovranazionale a valle della realizzazione di uno standard de facto da parte di uno o più agenti produttori, come nel caso dell’ECDL (European Computer Driving Licence). 15 T.O’RIORDAN, Environmentalism, Pion Books, London 1981. 16 Vale qui la pena di ricordare, fra gli altri: S. GOUGH - W. SCOTT - A. STABLES «Beyond O’Riordan: Balancing Anthropocentrism and Ecocentrism», International Research in Geographical and Environmental Education 9/1 (2000), 36-47; N. EGELS, Sorting out the mess, A Review of Definitions of Ethical Issues in Business, Gothenburg Research Institute, GRI-rapport 2005. Breve storia della tecnologia 41 ditoriale e tecnologico sono considerati l’obiettivo, verso uno in cui la tutela dell’ambiente sia il punto d’arrivo. Secondo il Tecnocentrismo forte, la tecnologia può superare qualsiasi limite ambientale, compensare la scarsità di risorse e venire a capo di ogni problematica produttiva sviluppando autonomamente le soluzioni; il mercato, lasciato totalmente libero di muoversi sulla base delle proprie leggi e dinamiche, riesce a trovare, in virtù della concorrenza, le soluzioni migliori anche dal punto di vista della convenienza sociale ed ambientale. Secondo il Tecnocentrismo debole, la tecnologia dovrebbe essere lasciata procedere nella sua evoluzione e sviluppo, sotto qualche azione di responsabilizzazione e controllo dell’azione degli agenti produttivi e commerciali. Libero sviluppo della produzione, dunque; libero mercato e concorrenza, ma nel limite di alcuni criteri fondamentali stabiliti da parte di organi di controllo preposti, estranei possibilmente agli agenti produttori. L’Ecocentrismo debole considera il binomio sviluppo industriale-libero mercato come potenzialmente dannoso perché basato sul concetto che un aumento della produzione di beni incrementi proporzionalmente il grado di impatto sul pianeta in termini di sfruttamento delle risorse, inquinamento e varie altre esternalità negative; dunque per il bene di tutti, sarebbe necessario contrapporvi un’economia sostanzialmente stazionaria. L’Ecocentrismo forte, infine, sostiene la necessità di instaurare una politica complessiva di prelievo minimo delle risorse e dunque di minimizzazione degli impatti. Una visione ecocentrista di tipo radicale implica la necessità di non applicare e anzi, se possibile, di rimuovere ogni azione trasformativa da parte dell’uomo sull’ambiente. L’uomo, avendo stabilito un sostanziale rapporto di alterità rispetto al sistema delle leggi di equilibrio naturale cui pure un tempo apparteneva, e avendo aumentato notevolmente la propria capacità di impatto va a costituire quel cancro del pianeta che oltre a distruggere o, nel migliore dei casi, squilibrare ecosistemi e sistemi geograficoumani, determina le condizioni fondamentali per il realizzarsi ed il moltiplicarsi di circostanze catastrofiche a danno di se stesso. Questa visione è stata spinta, nelle sue varie forme e ricorrenze negli ultimi decenni, a posizioni particolarmente radicali. Alcune di queste – per lo più quelle maggiormente legate all’ambientalismo radicale – contemplano, fra l’altro, l’esigenza di una riduzione, secondo diverse strategie, del numero di individui della specie umana, il cui incremento naturale moltiplicherebbe il suo effetto di impatto sul pianeta in forza dell’aspirazione, sempre più diffusa, di un tenore di vita elevato, ritenuto usurante per gli ecosistemi. Viene dunque spesso sostenuta, anzitutto, l’esigenza di varie politiche di controllo demografico, essenzialmente nei paesi emergenti: i paesi avanzati sul piano economico sono già per lo più soggetti a flessioni nella cre- 42 Gianluca Casagrande scita oppure a decrescita. Tale decrescita demografica è – secondo alcuni sostenitori di questa scuola di pensiero – considerata auspicabile ed anzi proposta come segno di civiltà17. Una visione iniziale diffusamente tecnocentrista, residuo dell’idealizzazione del progresso ereditata dal XIX secolo, che vedeva l’Uomo e la sua attività – priva di ogni limitazione – come regolatore supremo del mondo naturale fu sostituita da linee più o meno fortemente ecologiste negli anni ‘60-’90, e ad ogni visione Uomo-Ambiente finiva col corrispondere un diverso atteggiamento anche nei confronti della tecnologia nel suo complesso e degli specifici agenti produttori. La situazione odierna vede una diffusa attenzione della società ai problemi dell’impatto sull’ambiente. Si va tuttavia profilando una linea applicativa moderata, alla ricerca di una mediazione fra la tutela dell’ambiente ed uno sviluppo tecnologico che veda gli interessi dell’uomo – custode a proprio vantaggio del mondo materiale che lo circonda – al centro del panorama. Su questa linea è la nuova idea ambientale, appoggiata significativamente dalla Chiesa Cattolica18: l’Uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio ha autorità non 17 Una linea di questo tipo è tenuta dal think tank britannico Optimum Population Trust, che attraverso la stampa e il proprio sito Internet http://www.optimumpopulation.org/ propugna una drastica riduzione delle nascite come soluzione ai problemi del riscaldamento globale. Nel briefing Climate Change and Population si legge infatti: «According to the UN population projections revised in 2006: ‘A fertility path half a child below the medium [variant projection, 2006 Revision] would lead to a population of 7.8 billion by mid-century.’ If the world’s mothers reduce the number of children they have accordingly, there could be 1.4 billion fewer climate changers in 2050 - equivalent to the whole population of China». 18 Cf. C. MIGLIORE, «Intervento della Santa Sede al Secondo Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sul tema dello Sviluppo Sostenibile», New York, (29 ottobre 2007). Il punto di vista complessivo della Santa Sede in merito al rapporto uomo ambiente è chiaramente sintetizzato nel passo che segue: «La tutela dell’ambiente implica una visione più positiva dell’essere umano, nel senso che la persona non è considerata un elemento di disturbo o una minaccia all’ambiente, ma la responsabile della cura e della gestione dell’ambiente. In questo senso, non solo non esiste opposizione fra l’essere umano e l’ambiente, ma esiste anche una valida e inseparabile alleanza in cui l’ambiente condiziona essenzialmente la vita e lo sviluppo dell’uomo, mentre l’essere umano perfeziona e nobilita l’ambiente mediante la propria attività creativa [...] La questione dell’ambiente è legata direttamente ad altre questioni fondamentali e ciò rende sempre più difficile trovare soluzioni olistiche. L’ambiente è inseparabile da questioni relative a energia ed economia, pace e giustizia, interessi nazionali e solidarietà internazionale. Non è difficile osservare quanto questioni di tutela ambientale, modelli di sviluppo, equità sociale e la responsabilità di ognuno verso l’ambiente Breve storia della tecnologia 43 propria, ma conferita, su tutto il mondo creato, da cui può trarre nutrimento e vita; ma di cui, altresì, deve farsi amministratore oculato. Questa linea suggerisce dunque politiche nazionali ed internazionali di tutela dell’ambiente in prospettiva antropocentrica, mantenendo come obiettivo fondamentale di ogni progresso, anche di quello tecnologico, la vita e la dignità dell’uomo. Ciò indirizza verso un impulso allo sviluppo tecnologico a partire da criteri di sicurezza sia in fase di sviluppo che di applicazione, e di una progressiva riduzione dei suoi impatti sui tessuti sociali e sull’ambiente. La sicurezza non può prescindere da un approccio etico in tutte le fasi, dalla progettazione all’impiego; né da una reale e rigorosa azione di controllo e verifica da parte degli organi preposti alla supervisione del suo utilizzo19; la sostenibilità ambientale, più che attraverso una riduzione delle attività di produzione, dovrebbe essere ottenuta quanto più possibile attraverso un’evoluzione del processo produttivo stesso; e può essere incoraggiata dagli organi di controllo mediante incentivazione ad una riduzione degli impatti. Le tecnologie che presentino siano inestricabilmente legati». 19 Un principio complessivamente accettato a livello globale è il Principio di Precauzione (Precautionary Principle), inteso generalmente come sospensione dell’applicazione di una risorsa tecnologica disponibile ma anche solo potenzialmente dannosa, ed il proseguimento della ricerca tecnico-scientifica su di essa, fino a quando non venga determinata, con margini di garanzia ragionevoli, la sua sicurezza per la collettività. Codificato più volte a livello internazionale, del principio è rimasta fondamentale l’enunciazione nell’art. 15 della Dichiarazione di Rio (Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite, 1992): «In order to protect the environment, the precautionary approach shall be widely applied by States according to their capabilities. Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degradation». Tale dichiarazione, limitata di per sé al solo campo ambientale, è stata estesa in generalità da parte della Commissione Europea nella sua Communication from the Commission on the Precautionary Principle, (2 febbraio 2000). In essa si precisa che: «Scope [of the Precautionary Principle] is [...] where preliminary objective scientific evaluation indicates that there are reasonable grounds for concern that the potentially dangerous effects on environment, human, animal or plant health may be inconsistent with the high level of protection chosen for the Community» Tuttavia, sebbene la Comunicazione dichiari esplicitamente, poco più avanti, l’indiscriminato ricorso al principio di precauzione come una forma celata di protezionismo (p. 9), «è tuttavia diffusa nel pubblico la pretesa, che non potrà mai essere soddisfatta, di avere la dimostrazione certa dell’innocuità di agenti, tecnologie, prodotti diffusi nell’ambiente, e si interpreta il principio di precauzione come un obbligo in tal senso», C. PETRINI, Bioetica, Ambiente e Rischio, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2003, 111. 44 Gianluca Casagrande allo stesso tempo una grande utilità potenziale ma un parimenti grande potenziale di impatto o che dèstino allo stato attuale dubbi circa la loro sicurezza di impiego non dovrebbero per questo essere messe al bando cercando improbabili e meno efficienti alternative – come si è visto ripetutamente – ma una volta individuate dovrebbero essere sottoposte ad un forte impulso di ricerca per rendere in futuro la loro applicazione possibile in condizioni di sicurezza. Il dibattito fra le diverse visioni non è stato, negli ultimi decenni, puramente teorico o ideologico: esso ha prodotto e produce anzi concreti e significativi effetti a livello di attuazione pratica. Consideriamo cosa comporti, sul piano sociale ed economico, una politica produttiva nazionale o internazionale che scelga, ad esempio, di incoraggiare l’impiego di agricoltura biologica a danno di quella basata su organismi geneticamente modificati, o viceversa; oppure le conseguenze pratiche e quotidiane che comporti una scelta per l’incoraggiamento dell’uso di energia nucleare piuttosto che il divieto di quest’ultima a favore delle altre fonti energetiche. Si tratta di specifiche scelte a carattere di politica economica e tecnologica, e non si deve pensare che un approccio valga l’altro; esistono invece notevolissime differenze pratiche fra il considerare prioritaria la protezione dell’ambiente fisico o quella dell’interesse umano, perché in alcuni casi l’una esclude l’altra. Storicamente si è dimostrato che la tecnologia, quando responsabilmente sviluppata e condotta, può effettivamente risolvere i problemi materiali dell’Umanità, e l’Umanità è chiamata a fare l’uso migliore e più ampio possibile di questo strumento. Perché ciò avvenga, tuttavia, un elemento cruciale sarà l’allargamento dell’accesso alle opportunità tecnologiche e il rafforzamento dell’interdipendenza produttiva-economica come fattore primario di riduzione delle tensioni internazionali. Gli attuali processi di produzione e trasferimento di beni e servizi si muovono infatti in una prospettiva largamente sovranazionale; una rappresentazione, parziale ma significativa, di questo fenomeno, si è avuta proprio nel decorso del faticoso e complesso processo di integrazione Europea negli ultimi cinquant’anni20. Il nostro continente ebbe ed ha ancora oggi come forte elemento di aggregazione quello produttivo e commerciale (a partire dalla CECA, nel 1952), ed è il fattore economico, correlato alla capacità tecnologica, il 20 Cf. M. TABUSI, «Assetto e Geopolitica degli Scambi Commerciali nell’Allargamento dell’Unione Europea», Documenti Geografici 7 (2002), Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, 23-76. Breve storia della tecnologia 45 principale motore di un processo di aggregazione che oggi vediamo molto avanzato con l’allargamento dell’Europa ai 2721. Se pure non vivremo abbastanza per vedere l’Europa unita in un’unica realtà politica e sociale, almeno essa può dire già oggi di non essere mai stata, dai tempi del Sacro Romano Impero in qua, così aggregata ed unita nei suoi processi e nelle sue relazioni22. Non è infatti un caso che, dal 1945 in avanti, nel nostro continente non si sia avuto più alcun esempio di conflitto bellico se non nelle aree rimaste più a lungo estranee al processo di integrazione economica e tecnologica. La sfida si sposta oggi in altri e più vasti scenari del pianeta, allorché collettività dal grande volume demografico e dai notevoli potenziali tecnologici ed economici si affacciano sulla scena geopolitica ed economica mondiale, con le proprie rivendicazioni, i propri obiettivi e le proprie ambizioni; delle quali le potenze tradizionali dovranno tener conto per elaborare soluzioni a garanzia della giustizia e della pace nel mondo. Conclusioni Nata dall’approfondimento delle conoscenze scientifiche sul mondo naturale, e dalla loro applicazione attraverso opere costruite per produrre un’azione, una trasformazione o una costruzione materiale, la tecnologia ha avuto il suo principale sviluppo nella storia umana intorno al XVIII secolo, a partire dall’Europa. Fino ad oggi il suo sviluppo ed affinamento non hanno conosciuto limiti. Le nazioni che hanno avuto accesso agli strumenti tecnologici hanno visto moltiplicarsi a dismisura le loro capacità di produrre e far circolare beni e servizi, aumentando notevolmente il proprio livello di benessere materiale e liberando i propri cittadini, in notevole misura, da limiti fondamentali di vita ed opportunità caratteristici delle epoche precedenti. Il progresso fu così rapido e significativo da ingenerare, sullo scorcio del XIX secolo, la falsa convinzione che il solo progresso tecnologico, scevro da qualsiasi indirizzo di ordine etico potesse garantire il proprio successo nel combattere e risolvere i mali dell’umanità; di ciò il XX secolo vide le più catastrofiche smentite, in conflitti e atrocità inaudite. All’indomani della Seconda Guerra mondiale, dopo decenni in cui la tecnologia si era sviluppata freneticamente per garantire al- 21 Cf. G. RUSSO «Flussi di Merci e Capitali nel Processo di Allargamento Europeo», Bollettino della Società Geografica Italiana, Serie XII, vol. XI (2006), 335-364.; SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA, Rapporto 2006 – Europa: un Territorio per l’Unione, 2006, 14-15. 22 SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA, ibid., 18; Cf. M. TABUSI, op.cit., 23. 46 Gianluca Casagrande l’uno o all’altro contendente la supremazia, l’umanità assunse la consapevolezza di disporre di poteri materiali ormai tanto perfezionati e potenzialmente invasivi, su scala planetaria, da creare i presupposti per effetti distruttivi senza precedenti sia nelle applicazioni militari sia in quelle produttive; ciò contribuì ad incoraggiare un processo di sovranazionalizzazione di organizzazioni di controllo, sebbene, fra queste, fossero maggiormente sviluppate ed efficaci quelle che gestivano e coordinavano le azioni economiche e tecnologiche, più che quelle destinate a fornire un coordinamento politico e sociale su scala internazionale. Sempre più diffuse e standardizzate su tutto il pianeta, le opportunità tecnologiche ormai spaziano dal campo del molto grande – con macchine e processi di enorme potenza su scala geografica – al campo del molto piccolo – portando l’azione tecnologica fin nei più intimi recessi della vita degli organismi. Il potenziale di azione dell’uomo sul proprio ambiente, sulla natura e su se stesso ha continuato ad aumentare ed è prevedibile che tale crescita continui ancora per l’avvenire, con ritmi sempre maggiori; ciò rende urgente e necessaria l’adozione di un approccio etico circa le scelte riguardanti l’utilizzo delle opportunità tecnologiche. Henk ten Have Biotecnologie: tra follia e saggezza Uno degli aspetti più interessanti della bioetica dei nostri giorni è d’essere divenuta sempre più internazionale. Dai paesi in cui è nata – gli Stati Uniti e l’Europa occidentale – la bioetica si è diffusa ad altri paesi, ma con una prospettiva più globale. Seguendo questa visione, saranno esaminate non soltanto le differenze tra i diversi paesi – le loro culture e religioni – ma anche ciò che essi hanno in comune. In modo analogo, l’UNESCO ha sempre mantenuto un certo equilibrio fra il rispetto della diversità culturale, da un lato e la ricerca di valori condivisi, dall’altro. Sono quattro le questioni sul rapporto tra la bioetica e le biotecnologie che vorrei approfondire. Per prima cosa, se oggi prendiamo in esame le biotecnologie, vi ritroviamo un forte sentimento che potremmo definire di “utopismo”. La tecnologia, infatti, è spesso presentata come una facile soluzione a molti, se non a tutti i nostri problemi. In secondo luogo, per affrontare i problemi etici delle tecnologie si rende necessaria una prospettiva storica. Considerando le modalità con le quali, in passato, ci siamo confrontati con la tecnologia, con assai minore probabilità, ai nostri giorni, saremo presi da un senso d’euforia e di fascinazione. In terzo luogo, è certamente appropriato riflettere criticamente sui differenti livelli delle tecnologie, porsi domande quali, per esempio, quella su come procurarci le conoscenze e su come utilizzare le conoscenze che acquisiamo. In bioetica, non è particolarmente sentita la domanda sui modi di utilizzare le nostre conoscenze, mentre ritengo che sia particolarmente importante. Infine, se inseriamo la bioetica in un contesto più ampio, l’impatto sociale e culturale delle tecnologie potrà essere discusso nell’ambito dei settori delle scienze naturali e della genetica, attraverso processi che definisco di “genetizzazione”. Direttore, Divisione di Etica della Scienza e della Tecnologia, UNESCO, Parigi, Francia 48 Henk ten Have L’utopismo biotecnologico Nella letteratura bioetica odierna ci si può facilmente imbattere nella questione dell’“utopismo”. Ci saranno sicuramente molti altri esempi, ma vorrei qui citare tre libri pubblicati di recente perché degni di particolare attenzione. Designer Babies introduce il concetto che, ai nostri giorni, la tecnologia ci permetterà di progettare dei bambini con le caratteristiche desiderate. È un po’ come traslocare in un nuovo appartamento e organizzarlo secondo le nostre scelte, preferenze e desideri. Ci stiamo sempre più muovendo verso un tipo di medicina in cui bambini sono “modellati” secondo caratteristiche desiderate. Con questo non sto sostenendo che tale affermazione sia giusta, quanto che la tecnologia si sta spostando in questa direzione1. Un altro libro, The Body Bazar, parla di come il nostro corpo possa essere progettato a nostro piacimento, con le nuove tecnologie, attraverso l’ingegnerizzazione dei tessuti, la trasmutazione o la chirurgia cosmetica. Se il naso non è sufficientemente grazioso, andiamo dal chirurgo plastico ed egli ce ne darà uno nuovo. In pratica, si possono sostituire tutte le parti del corpo con delle altre, a nostro piacimento. È un argomento importante nello sviluppo di nuove tecnologie, come l’ingegnerizzazione dei tessuti e la tecnologia delle cellule staminali – ci consente di rifinire e rendere i nostri corpi “alla moda”, così come quelli dei nostri bambini2. Nello stesso modo, il terzo libro Future Perfect, tratta di come, in futuro, le nuove tecnologie ci permetteranno di cambiare o sostituire parti del corpo che non ci piacciono o che vanno incontro ad invecchiamento3. Nel ridisegnare il nostro corpo, possiamo eliminare le imperfezioni derivanti dallo sviluppo embrionale e che si rendono evidenti con il passare degli anni. È un po’ come andare dal meccanico per sostituire parti della nostra autovettura che non funzionano più. L’immagine che vi porto è costantemente presente nei dibattiti sull’uso delle biotecnologie e nuove tecnologie. Questi pochi esempi, nei quali l’uso delle tecnologie ingenera un’attesa eccessiva, sono utopistici, poiché, in effetti, i fondamenti di quest’ottimismo non sono così ovvii. Possiamo veramente sconfiggere la vecchiaia? Possiamo davvero eliminare tutte le malattie del passato? Si tratta di una previsione, ma non è così ovvio il perché questa previsione debba essere 1 R. GOSDEN, Designer Babies: The Brave New World of Reproductive Technology, V. Gollancz, London, 1999. 2 L. ANDREWS - D. NELKIN, Body Bazaar: The Market for Human Tissue in the Biotechnology Age, Crown Publishers, New York 2001. 3 L. ANDREWS, Future perfect: confronting decisions about genetics, Columbia University Press, New York 2001. Biotecnologie: tra follia e saggezza 49 più realistica oggi di quanto non fosse stata in passato. Nel dibattito sulle nuove tecnologie, vige il concetto che si possa liberare il corpo umano da tutti i suoi limiti, cioè dalle imperfezioni più gravi. L’anima o la mente possono essere libere, ma il corpo, inteso come supporto della mente e dell’anima, è considerato il punto debole della nostra esistenza. Se potessimo eradicare tutte le malattie ed allungare l’aspettativa di vita, avremmo, conseguentemente, un’esistenza perfetta. Naturalmente, questo avrà ricadute importanti per la medicina, perché essa non si concentrerà più soltanto sulla terapia delle malattie, ma aiuterà gli esseri umani anche a rendersi più perfetti. Per questo, uno degli argomenti più complessi della bioetica contemporanea è quello del potenziamento – non il trattamento di malattie, non la loro prevenzione – quanto far sì che i nostri corpi funzionino meglio. Ne derivano ricadute sul modo in cui percepiamo noi stessi. Se siamo solamente delle menti sfortunatamente imprigionate in un meccanismo destinato a deteriorarsi, dovremo revisionare tale meccanismo. La letteratura recente, che tratta di genetica e d’ingegnerizzazione tessutale, utilizza termini di nuovo conio quali: nuovi organi, organi presi dallo scaffale, parti sostitutive prefabbricate, per far passare l’idea che una promessa delle nuove tecnologie sia quella di scambiare parti o componenti del nostro corpo. Si tratta di una vecchia idea nella storia dell’Europa e risalente all’epoca dell’Illuminismo. Nel 1870, Benjamin Franklin sostenne che, con l’avanzamento della scienza: «Tutte le malattie potranno essere prevenute o curate, senza eccezione della stessa vecchiaia; le nostre vite saranno prolungate a nostro piacimento, anche oltre gli standards del periodo che precedette il diluvio universale»4. Quest’ultima frase si riferisce al periodo biblico, quando la gente viveva sino ad un’età massima di circa centoventi anni. Ai nostri giorni, non sembra troppo difficile vivere fino a centoventi anni, ma ai tempi di Franklin, quando l’età media era di circa quaranta anni, questo significava triplicare l’età media degli esseri umani. Si riteneva che la scienza avrebbe fornito dei benefici principalmente perché era in grado di curare le malattie e aiutare a superare i problemi dell’età avanzata. Si tratta della stessa motivazione che ritroviamo alla base degli sviluppi e dei progressi della genetica. Come predetto dal famoso vincitore del premio Nobel, Alfred Gilman: «Tra circa cinquanta anni, conosceremo ogni singola molecola che compone il corpo umano. Saremo in grado di progettare un tipo di farmaci che agiscono esclusivamente sulle molecole del corpo di nostra scelta e su nessun’altra» 5. Conse- 4 Citato in W.B. SCHWARTZ, Life without disease. The pursuit of medical utopia, University of California Press, Berkeley, 1998. 5 Alfred Gilman (Premio Nobel, 1996). Citato in W.B. SCHWARTZ, op. cit., 1998. 50 Henk ten Have guentemente, in un futuro molto vicino, la scienza sarà capace di sostituire molecole del corpo umano attraverso la sintesi di farmaci molto sofisticati, privi d’effetti collaterali e così precisi da poter fare un ottimo lavoro anche a livello microscopico. Occorre a questo punto indagare sull’origine di queste aspettative utopistiche nella nostra cultura. Nella cultura occidentale, ricca e industrializzata, dove le biotecnologie si sono sviluppate, ci saranno grandi aspettative legate probabilmente a tre importanti fattori: l’interesse commerciale, la tecnologia Internet e il coinvolgimento del pubblico. Per prima cosa, risulta maggiore, rispetto agli anni passati, l’interesse commerciale nelle biotecnologie, poiché la scienza odierna è profondamente interconnessa con il mondo degli affari e degli interessi economici. Basti pensare al caso del Dr. Hwang, che sperimentava con cellule staminali, nella Corea del sud, dove il Governo contava di essere il paese del sudest asiatico pioniere nella tecnica di clonazione. C’erano interessi economici e scientifici, così come quelli legati alla notorietà e alla pubblicazione d’articoli su riviste scientifiche. Questi fattori, presi insieme, creano un tipo di clima nel quale la motivazione più importante è quella di presentare i risultati ottenuti. La maggior parte della ricerca è finanziata da aziende private. Per esempio, nel mondo, il 30% della sperimentazione clinica era finanziata da aziende farmaceutiche nel 1918, rispetto all’80% attuale. Quindi, la maggior parte della ricerca medica, al giorno d’oggi, è spinta da interessi commerciali, poiché, in molti paesi, si è ridotto l’interesse per la ricerca finanziata dallo stato. Tutto questo solleva domande importanti sul significato della scienza e su come le biotecnologie si sviluppano e sono presentate. In genere, ci si attende che gli scienziati siano indipendenti, neutrali ed oggettivi differentemente dal caso del Dr. Hwang, del quale ho accennato sopra. Qualcosa di simile è accaduto in Norvegia, dove un medico si era “inventato” duecentocinquanta pazienti per un progetto di ricerca clinica, già finanziato. Tuttavia, poiché si era dimenticato di cambiare la data di nascita, risultarono duecentocinquanta nomi con la stessa data. Questo genere di falsificazione dei dati non dovrebbe verificarsi nell’attività scientifica, essendo una tale occorrenza assolutamente in contrasto con i valori fondamentali della formazione nel settore delle scienze. Esiste anche la questione della brevettabilità delle scoperte scientifiche. Quando si sottopone la domanda per ottenere il brevetto di una scoperta scientifica, in Europa o negli Stati Uniti, l’invenzione è protetta e coloro che vogliono farne uso dovranno pagare una certa somma. Di conseguenza, si potrà verificare una riduzione nel numero dei risultati scientifici che erano legati all’uso di quel brevetto. Tempo fa, mi trovavo a Giacarta, in Indonesia, per una conferenza. Un istituto di ricerca di Sumatra stava cercando di studiare le piante che si trovano in una foresta pluviale, Biotecnologie: tra follia e saggezza 51 dove il 60% delle piante erano ancora sconosciute. Mentre la foresta pluviale sta sparendo velocemente, compagnie europee stanno inviando degli scout per scoprire nuove piante, portarle nei loro laboratori e verificare se esse contengono sostanze da brevettare. Se gli scienziati indonesiani dovessero scoprire, più avanti, la stessa sostanza, scoprirebbero che è stata già brevettata altrove. Tutto questo crea una disuguaglianza nell’uso e nella produzione dei risultati scientifici. Oggi, un tale meccanismo sta diventando particolarmente importante nel settore delle scienze naturali, soprattutto perché esistono due metodi che misurano l’impatto che la ricerca produce nelle università: le pubblicazioni scientifiche ed i brevetti. Di conseguenza, occorrerebbe mettere in evidenza il ruolo svolto dagli interessi commerciali quale forza trainante lo sviluppo di nuove tecnologie. In secondo luogo, lo sviluppo delle biotecnologie e, in particolare, quella genetica, è spinto fortemente dalla tecnologia Internet. La genetica non si sarebbe mai sviluppata con la stessa velocità senza la presenza della tecnologia Internet. Se fate un’inchiesta pubblica su quale sia la tecnologia più importante ai nostri giorni, la risposta che vi sarà data sarà Internet oppure la genetica e le scienze naturali. Sia Internet che le tecnologie genetiche hanno origini simili. Alcuni commentatori storici sostengono che lo sviluppo esplosivo della tecnologia delle comunicazioni, negli ultimi quindici anni, sia dovuta allo sviluppo di uno dei predecessori d’Internet, la network segreta appartenente alle Università del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Alla fine della guerra fredda, non c’era alcuna ragione per mantenere ancora il segreto. Così, nel 1990, questo progetto di ricerca fu reso pubblico e si trasformò in Internet, sistema di comunicazione che è rapidamente divenuto largamente disponibile e si è notevolmente sviluppato da allora6. Nella vicenda del “Progetto Genoma Umano”, si trova una storia simile. Il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti aveva molti laboratori nei quali si svolgevano ricerche di genetica in rapporto alla tecnologia nucleare, per il rischio di una guerra nucleare durante il periodo della guerra fredda. Quel rischio particolare richiese lo studio degli effetti della ricaduta radioattiva sul corpo umano e, in particolare, gli effetti sui geni. Negli Stati Uniti, i soldati erano inviati nei luoghi dove si effettuavano esperimenti nucleari. Alla fine del periodo della guerra fredda, quando il rischio di una guerra nucleare era diminuito, i laboratori dotati di un’estesa infrastruttura per la ricerca, stavano cercandosi un’altra missione. La trovarono nel progetto avente come scopo il sequenziamento dell’intero ge- 6 ARPANET del Dipartimento della Difesa, con un piccolo numero di Università, (Advanced Research Projects Agency: 1969-1990 computer network). 52 Henk ten Have noma umano. Dato che le infrastrutture erano già presenti, ciò di cui avevano bisogno era soltanto convincere gli scienziati dell’importanza di questo progetto7. Quindi, sia la tecnologia Internet sia le tecnologie genetiche hanno avuto un’origine simile, resa possibile da un mutamento del contesto che aveva reso inutilizzabili alcune delle infrastrutture esistenti. Internet e le biotecnologie, specialmente quella genetica, hanno anche un’altra caratteristica in comune: quella di uno scambio d’informazioni molto rapido. Il sequenziamento del genoma umano è stato, per gran parte, un esercizio digitale; non era necessario per i laboratori fintantoché tutte le informazioni erano contenute in un data base virtuale del computer. Lo scambio d’informazioni, tra i laboratori di tutto il mondo, è stato notevolmente facilitato dalla presenza di networks di ricerca virtuale, sviluppati con l’introduzione d’Internet. Fu anche possibile, ad un livello ritenuto impossibile nei quindici anni precedenti, un combinarsi di risorse di materiali per la ricerca. Il consolidarsi di queste tecnologie ha rappresentato un’importante forza che ha reso possibili i cambiamenti più importanti che oggi vediamo, specialmente se consideriamo i problemi bioetici posti dalle scienze naturali e dalla genetica. Esistono anche problemi simili nel settore della tecnologia biomolecolare e di quella Internet. Dopo aver completato l’intera sequenza del genoma, la questione principale che la genetica si è posta è stata quella di comprenderne il significato. C’è una gran quantità di dati, la descrizione di quantità enormi di geni, sequenze, immense “biobanche”. Paesi come l’Islanda hanno inserito i loro dati genetici in un sistema comune. Tuttavia, la domanda su come utilizzare queste informazioni rimane irrisolta. La raccolta d’informazioni, in se stessa, non produce alcuna nuova idea sul loro impiego. Il possedere tutte le lettere dell’alfabeto non c’insegna come parlare o come comprendere una lingua. Lo stesso può essere detto d’Internet. Esiste una gran mole d’informazioni, e non c’è praticamente nulla che non si trovi su Internet. Paradossalmente, c’è talmente tanta informazione a disposizione che è difficile trovare ciò di cui si ha bisogno. Un’altra questione riguarda il significato da dare al possesso di tutta quest’informazione. Le informazioni e i dati non si traducono, necessariamente, in una conoscenza utile se manca uno scopo. Di conseguenza, esistono questioni morali parallele sia per Internet sia per le tecnologie genetiche, riguardanti l’uso e il significato delle informazioni disponibili e le loro implicazioni sui modi di relazionarsi tra persone, tra i pazienti ed i medici e con la percezione che gli esseri umani hanno di se stessi. Altre 7 Cf. T. COOK-DEEGAN, The gene wars. Science, Politics and the Human Genome. New York/London, W.W. Norton & Company, 1994. Biotecnologie: tra follia e saggezza 53 questioni morali concernono l’affidabilità delle informazioni, la privacy dei dati, la responsabilità circa l’uso di queste informazioni così come la disuguaglianza nell’accesso a questi dati. Dopo aver visto come la biotecnologia sia stata spinta, all’inizio, da interessi commerciali e, successivamente, dalla combinazione con la tecnologia Internet che ha disseminato le informazioni in maniera molto estesa, la terza questione riguarda i cambiamenti nella politica e nella società. Una delle trasformazioni più importanti degli ultimi dieci anni è stata che la bioetica e la scienza sono rapidamente divenute argomenti di politica nazionale. Tematiche che, in passato, erano esclusivamente d’interesse scientifico, sono ora considerate questioni pubbliche e politiche, da quando la nazioni hanno cominciato a stabilire linee guida per le cellule staminali, la clonazione e le nanotecnologie. Coloro che stilano le linee guida devono conoscere la caratteristiche di queste tecnologie, il tipo di problemi ad esse collegati e le questioni etiche implicate. Oltre ai politici, sono particolarmente importanti i modi con i quali le tecnologie sono presentate dai media al pubblico. Per esempio, in Francia, si è avuto il caso del trapianto del volto per il quale la Commissione Nazionale di Bioetica aveva dato un parere sfavorevole. Nonostante questo, i chirurghi avevano deciso di procedere con l’intervento. Ci si era posti la domanda su come questa vicenda fosse stata portata all’attenzione dei media. Era stato bene organizzare una conferenza stampa, così come fu fatto dalla équipe chirurgica, definendo l’intervento un meraviglioso risultato? Era stata una scelta corretta portare la paziente di fronte alle telecamere? Sono tutte domande importanti su come gli eventi scientifici e i progressi della scienza sono pubblicizzati. Ci potrebbero essere molti interessi in gioco, oltre al beneficio ottenuto dalla paziente, perché i medici potrebbero aver voluto promuovere se stessi, nei confronti del resto del mondo, come coloro che per primi avevano eseguito questo tipo d’intervento allo scopo di ottenere riconoscimenti e farsi una reputazione. Per cui, esistono sempre delle ambiguità nei modi in cui queste questioni sono presentate al pubblico, con importanti implicazioni sul nostro modo di percepire le biotecnologie. In tutti, l’“utopismo” rappresenta la caratteristica particolare con la quale la biotecnologia ci è presentata attraverso i mezzi di comunicazione, le riviste e gli scienziati. Nella nostra discussione di questioni bioetiche, è importante considerare come le biotecnologie sono presentate al pubblico in modo che le questioni in gioco possano essere analizzate criticamente, evitando di ripetere in maniera superficiale e retorica quanto già fanno i media. 54 Henk ten Have Prospettiva storica In questo senso, sarebbe molto utile una prospettiva storica riguardante i modi ed il contesto in cui le tecnologie si sono sviluppate. Due aspetti sono molto chiarificatori, se guardiamo alla storia della scienza: è sempre difficile fare previsioni circa lo sviluppo della conoscenza scientifica ed è difficile prevedere come la tecnologia sarà utilizzata. Non si può mai dire, in modo inequivocabile, che la scienza, ad esempio tra vent’anni, andrà in una certa direzione: vale a dire, oggi è in questo modo, domani sarà utilizzata in un altro. Le cose sono molto più complicate. Per esempio, uno dei padri fondatori della biologia molecolare, Gunter Stent lavorava nel campo della genetica, quando fu scoperta la struttura del DNA. Tutte queste scoperte costituiscono oggi una conoscenza di base e si ritrovano nei testi standard della scuola secondaria. Nel 1968, nella prestigiosa rivista Science, Stent scrisse del «declino prossimo della biologia molecolare, appena ieri un’avanguardia, oggi definitivamente un’attività di tutti i giorni»8. Cosicché, concluse che, nel campo della biologia molecolare, era stato tutto definito, che tutte le più grandi scoperte erano già state fatte, e che da allora in poi ci sarebbe stato soltanto un declino, perché tutte le idee interessanti erano state già trovate: dunque, se un famoso scienziato ha detto questo verso la metà della rivoluzione scientifica, nel 1968, l’avanguardia era terminata. In realtà gli scienziati non sono in grado di predire quanto avverrà in un futuro prossimo poiché, nessun settore, negli ultimi quarant’anni, è andato incontro ad un tale rivoluzionario sviluppo come la biologia molecolare. Gunter Stent parlò di un periodo di scuola strutturale seguito da un periodo di scuola sull’informazione, che consiste di tre fasi: la “fase romantica”, che ricercava il fondamento fisico dei geni, la “fase dogmatica” (1953-1963), dello sviluppo del dogma centrale e la “fase accademica”. Ritenne che la scienza genetica fosse arrivata alla fase accademica, perché erano già state sviluppate tutte le nuove idee; che non ci sarebbero più state delle sorprese e che tutto quello che era rimasto da fare era solamente chiarire i dettagli. L’articolo riportato su Science è interessante perché fa un’analisi interessante sullo stato di un settore che stava soltanto iniziando a svilupparsi, inconsapevole di tutti i maggiori progressi che sarebbero avvenuti successivamente. Pertanto, bisognerebbe essere molto cauti nei riguardi di quegli scienziati che sono particolarmente impegnati negli sviluppi di nuove tecnologie, oggi, e che fanno previsioni sul domani – ce ne sono molti esempi – in quanto le loro estrapolazioni o previsioni non sono necessariamente le migliori, 8 G. STENT, «That was the molecular biology that was», Science 160 (1968), 390395. Biotecnologie: tra follia e saggezza 55 quando non addirittura sbagliate. Dovremmo essere un po’ restii nel credere alla gente che parla di utopismo nei libri che ho citato, poiché le previsioni di scienziati, anche famosi, si sono rivelate sbagliate in precedenza. Uno di tali esempi è la terapia genetica. Da dieci a quindici anni fa fu salutata come magnifica idea quella di scambiare un gene difettoso con uno normale, in modo tale da eradicare la malattia dalle sue cause. I ricercatori hanno iniziato a lavorare in questo campo con una gran quantità di mezzi e di finanziamenti messi a disposizione. I risultati, quindici anni dopo, non sono molto soddisfacenti. Pertanto le buone idee non sempre si trasformano in risultati positivi. La pecora Dolly fu clonata dieci anni fa, ma lo scienziato che lo fece, in Scozia, ammette ora che i risultati attesi da questa ricerca saranno molto limitati e che le nostre aspettative erano comunque eccessive. È umano farsi prendere dall’entusiasmo e aspettarsi dei buoni risultati, ma in etica si dovrebbe imparare ad essere molto critici riguardo alle aspettative. Guardando alla storia, scopriamo che è in genere molto difficile predire come la tecnologia sarà utilizzata. Per esempio, ci sono molte previsioni su come la tecnologia che è stata sviluppata nelle imprese spaziali possa un giorno essere utilizzata in alcuni campi della medicina. Inoltre, è difficile prevedere come la tecnologia sarà utilizzata in particolari contesti e in culture diverse. La tecnologia sarà spesso incorporata in culture particolari, unendola con le tecnologie esistenti, secondo usi che sono assolutamente imprevedibili. C’è un paese dell’Asia dove un trattore è stato disassemblato e la struttura metallica che copriva i sedili del guidatore adattata in modo che potesse essere trainata da una mucca per il trasporto. Questo è l’esempio di come la gente stia utilizzando le tecnologie in modi insospettati. In breve, ci sono due lezioni dalla storia che possono avere conseguenze per le nostre riflessioni bioetiche: è difficile predire cosa accadrà ed è difficile sapere come la nostra conoscenza e le tecnologie saranno utilizzate. Una riflessione e una critica etica A questo punto, ci sono due questioni utili per una riflessione etica critica: come si giunge alla conoscenza e come utilizzarla. Come si ottiene la conoscenza? Esaminiamo l’esempio dell’uso delle cellule staminali per la ricerca e il dibattito tra i sostenitori delle cellule staminali adulte e di quelle embrionali nella ricerca. Per prima cosa, la scienza ci è generalmente presentata come una disciplina molto uniforme nonostante il fatto che si compone di scuole di pensiero differenti. In bioetica, è necessario avere un’immagine chiara dei fatti o dati empirici. Spesso trattiamo i dati empi- 56 Henk ten Have rici come se fossero neutri. In realtà, la raccolta e la presentazione dei dati presumono il possesso di alcuni valori particolari. Nel caso delle cellule staminali, è evidente che il dibattito è stato particolarmente difficile a causa della disaccordo sui dati presentati, poiché le diverse scuole utilizzano i propri dati in base alle loro prospettive normative. Pertanto, gli approcci alla ricerca non sono uniformi ma sono valoriali, facendo sì che i ricercatori interpretino i dati in un certo modo. Se esaminiamo i dati empirici della stessa scienza, non possiamo mai eliminare completamente le questioni morali che entrano in gioco. Le questioni morali possono differire in base all’applicazione della tecnologia, ma nessun approccio potrà eliminare completamente tutti gli interrogativi. Per i fautori della ricerca su cellule staminali adulte, sebbene si eviti la questione dello statuto dell’embrione, possono insorgere altri problemi di natura etica. Ci sono altri argomenti importanti che possono risultare più difficili da regolamentare e analizzare, rispetto alla questione dello statuto morale dell’embrione. Per esempio, la domanda su chi debba beneficiare di questo trattamento, solleva il problema della disponibilità e della regolamentazione delle banche degli organi dal punto di vista della responsabilità pubblica verso quella privata, caratterizzata da interessi economici. Esistono questioni più importanti circa l’impatto delle tecnologie sul nostro modo di rapportarci alla salute e alle malattie. Ci dobbiamo chiedere quale tipo di medicina stiamo promuovendo, quando utilizziamo le cellule staminali per la ricerca, allo scopo di sostituire organi e parti di tessuti derivati dallo stesso donatore. Nella medicina rigenerativa, parti alterate del corpo possono essere riparate o può essere ridotto l’impatto dei sintomi, ma la malattia continuerà il suo decorso. A questo metodo si oppone la medicina curativa che lotta per migliorare il meccanismo causale piuttosto che compensare per le parti non funzionanti. Ci si può pertanto chiedere legittimamente se la terapia genetica sia preferibile alla ingegneria tissutale, poiché la prima è molto più efficace, in tempi lunghi, e più centrata sui meccanismi causali rispetto agli approcci riparativi della medicina rigenerativa, che usa la tecnologia delle cellule staminali. Quindi, in bioetica dobbiamo chiederci: che tipo di medicina, alla fine, ci fornirà la tecnologia? In seguito, ci dobbiamo chiedere come utilizzare le conoscenze, una volta che sono state ottenute. Esiste una cornice di principi bioetici che riguardano l’applicazione delle conoscenze al contesto clinico. Questo è stato sviluppato, nel corso degli ultimi venticinque anni, esaminando i progetti di ricerca. Lo scopo è quello di bilanciare i benefici ed i rischi delle conoscenze. Esistono almeno due principi: il rispetto per l’autonomia e la beneficenza o non maleficienza. Il principio del rispetto per l’autonomia si basa sull’idea che la valutazione e il bilanciamento dei rischi e dei benefici siano fatti, preferibilmente, dal singolo individuo. Questo si Biotecnologie: tra follia e saggezza 57 basa su un consenso totale ed informato ed una lista di requisiti: i dati riguardanti la condizione morbosa ed i test, l’opzione post- test, le preoccupazioni riguardanti la privacy, le implicazioni per i membri della famiglia, l’impatto sulle scelte future, la possibile discriminazione e le reazioni psicologiche. Dovrebbero poter essere sempre prese decisioni libere e senza pressioni, che tengono conto delle motivazioni, influenza e volontarietà dell’individuo. Lo stesso vale per i principi di beneficenza e non maleficienza: il medico ha il compito di fare soltanto il bene del paziente o, al minimo, di non nuocergli. Ciò solleva un numero di questioni che sta al medico affrontare, quali, ad esempio, se sia meglio sia il paziente sappia tutto o rimanga una certa incertezza, i benefici o la necessità di una diagnosi precoce, l’affidabilità dei test e le alternative disponibili. Sebbene questa sia la cornice usuale, vorrei aggiungere, sulla base di quello che ho detto circa le caratteristiche delle biotecnologie che, oltre alla critica etica, occorre tenere in considerazione un più ampio contesto. Per una valutazione bioetica significativa delle biotecnologie, la cornice clinica di autonomia e della beneficenza non è sufficiente. L’impatto sociale e culturale Esistono tre questioni più importanti che occorre affrontare: gli scopi della medicina, il tipo di medicina promossa, le implicazioni sociali e le implicazioni culturali delle nuove tecnologie. Sostengo che, all’interno del dibattito bioetico sulle biotecnologie, occorrerebbe concentrare la nostra attenzione sulle ricadute sociali e culturali delle tecnologie, utilizzando, come esempio, la “genetizzazione”. Qui, il contesto più ampio si riferisce agli scopi della medicina. Ora che abbiamo una quantità enorme di informazioni e test possibili per predire il futuro clinico, dobbiamo chiederci quale sia il fine vero delle tecnologie genetiche. Si tratta soltanto di fornire delle informazioni? Si tratta di informazioni aventi uno scopo particolare? Gli scopi originari della medicina sono la cura, la prevenzione e il lenimento delle malattie, non di fornire informazioni. Non andiamo dal medico soltanto per sapere e per avere informazioni. La maggior parte delle informazioni riguarda le malattie ma esistono anche le predisposizioni ad ammalarsi. Supponete che io abbia qualcosa nel mio patrimonio genetico che mi predispone a sviluppare un certo tipo di malattia. Si tratta soltanto di una probabilità, non di una certezza. Si parla molto oggi delle malattie come predisposizioni genetiche, ma nella maggior parte dei casi non avremo mai la malattia, soltanto la predisposizione ad ammalarsi. Questo dato porta con sé molte conseguenze. Per prima cosa, espanderà il dominio della medicina che si focalizzerà maggiormente sulla predisposizione e non sulla malattia. Tutto questo può darci l’impressione 58 Henk ten Have che qualcosa non vada bene, con il risultato non desiderato di una stigmatizzazione. Esso avrà conseguenze sociali, perché riconoscere una predisposizione genetica ad una malattia ci renderà meno attraenti per le compagnie assicurative. Si introducono delle modificazioni nei fini della medicina che noi conosciamo. Per esempio, prendete il caso del carcinoma mammario in cui è stato scoperto che certi geni sono responsabili di una predisposizione familiare ad ammalarsi. I portatori di questi geni avranno una probabilità più elevata di sviluppare il carcinoma mammario ma, ricordiamolo, si tratta soltanto di una probabilità. Cosa fare quando si scopre il gene alterato? In alcuni paesi si sostiene che la migliore prevenzione sia rappresentata dall’asportazione chirurgica di entrambe le mammelle. Ci troviamo sicuramente di fronte ad un concetto strano di prevenzione, perché originalmente esso voleva dire mitigare l’impatto della malattia o impedire che essa si manifesti, non quello di rimuovere completamente l’organo in cui si potrebbe sviluppare il carcinoma. Ne consegue che il carcinoma mammario è divenuto sinonimo della predisposizione genetica ad ammalarsi. Inoltre, la gente è sempre più esposta a questo concetto di prevenzione, vale a dire che la presenza di predisposizioni richieda l’asportazione di parti del corpo a rischio. Ciò vale non soltanto per la mammella, dato che esistono test ugualmente affidabili che permettono di diagnosticare il carcinoma della prostata ed in questo caso si raccomanda agli uomini di sottoporsi a chirurgia. Già oggi raccomandiamo ai pazienti con la predisposizione ad ammalarsi di carcinoma del colon di asportare parti di questo organo. Al momento attuale, molte delle tecnologie hanno importanti ricadute sociali. Nei Paesi Bassi soltanto, un terzo dei pazienti che partecipano a programmi di ricerca di screening per l’ipercolesterolemia familiare hanno riferito successivamente di aver avuto problemi con le loro compagnie assicurative. Nel nostro paese (Paesi Bassi) esiste attualmente una legge che impedisce questa discriminazione da parte delle compagnie assicurative, ma questi fatti si verificano lo stesso, specialmente per i pazienti tumorali. Per chi ha una diagnosi di carcinoma e la necessità dell’assicurazione per comprare una casa, i primi cinque anni del premio assicurativo saranno più costosi rispetto ai cinque anni successivi. Allo stesso modo, risulterà assai probabile che, l’essere portatori di una predisposizione genetica ad ammalarsi, potrà essere considerato un fattore di alto rischio da parte delle compagnie assicurative. La gente che partecipa a programmi di prevenzione e di screening non è spesso consapevole di queste possibili conseguenze. Per evitare questi pregiudizi, l’opzione migliore potrebbe essere quella di non partecipare più ad alcun programma di screening. Questo, tuttavia, crea il problema di come far avanzare la scienza e, allo stesso tempo, evitare conseguenze sociali negative per i partecipanti agli studi di screening. Biotecnologie: tra follia e saggezza 59 Un’altra ricaduta sociale riguarda la questione della commercializzazione. Nei paesi dove è stato introdotto lo screening per il carcinoma mammario, la mutazione genetica nelle famiglie ad alto rischio potrebbe essere pari all’85%. Comunque, il brevetto di questo test è in possesso di una compagnia situata negli Stati Uniti, la Myriad Genetics, che richiede un pagamento di mille dollari per ciascun test effettuato e con la condizione che essa esamini tutti i campioni di sangue negli Stati Uniti. Centri di ricerca e governi di alcuni paesi dell’Europa occidentale, i quali hanno ritenuto che il test fosse importante per la salute pubblica, hanno deciso di ignorare il brevetto e hanno rifiutato di mandare i campioni di sangue in America per essere sottoposti al test. Questo fatto è giunto alla Corte di giustizia europea e il brevetto è stato annullato, per motivi di salute pubblica. Nella strutturazione attuale della scienza, le opportunità benefiche non si tramutano sempre in applicazioni positive. Circa le implicazioni culturali delle nuove tecnologie, si può citare l’eccesso di false aspettative. Le nuove biotecnologie hanno creato nel pubblico l’“illusione terapeutica” che la medicina possa portare terapie per tutti e per tutte le malattie9. Per esempio, alcuni anni or sono, alla conclusione del “Progetto Genoma Umano”, il presidente americano Bill Clinton ha invitato Cristopher Reeves, che impersonava Superman nei film, alla Casa Bianca per una cerimonia. Reeves era paralizzato a causa di un incidente ed era su una sedia a rotelle. Nel suo discorso aveva detto: «Ora sono su una sedia a rotelle ma ringrazio queste nuove tecnologie che, in futuro potranno curare la mia malattia». Stava suggerendo che la tecnologia è in grado di trovare una cura per le persone come lui, in breve tempo. Passare rapidamente dalla mappatura del genoma all’improbabile cura di pazienti sulla sedia a rotelle vuole dire trasmettere un messaggio sbagliato. In molti scienziati oggi è presente un idealismo che vede il patrimonio genetico come la componente reale e fondamentale della persona umana. Modificando i geni dell’individuo, il corpo e perfino la persona umana possono essere cambiati. Pertanto, questi avanzamenti tecnologici possono avere un impatto non solo sull’individuo, ma sulla medicina e la società. Possono avere un impatto su come percepiamo la nostra stessa identità, le nostre relazioni con gli altri e concetti quali quelli di medicina, malattia e salute. Questo è il senso di ciò che intendo per “genetizzazione”, analogo al concetto già noto di medicalizzazione. Quest’ultimo termine fa riferimento a quanto avviene, ai nostri giorni, in coloro che si recano dal dottore con un gran numero di problemi. Vanno dal medico se hanno pro- 9 T.G. FREEDMAN, «Genetic susceptibility testing. A therapeutic illusion?», Cancer, 11/79 (1997), 2063-2065. 60 Henk ten Have blemi familiari o si sentono soli. Il medico, tuttavia, non può far niente perché queste non sono, ovviamente, delle malattie. Pertanto, problemi umani e esistenziali sono veicolati all’interno del sistema sanitario sotto forma di una medicalizzazione della nostra esistenza. In un modo analogo, molti dei nostri problemi sono riportati nell’ambito genetico. C’è un interessante libro scritto da due sociologi che hanno fatto uno studio sui geni e sul DNA, visti dalla cultura popolare. Hanno trovato che, nei mezzi di comunicazione di massa popolari – cinema, televisione, cartoni animati, notizie, eccetera – l’immagine dei geni è una delle immagini più potenti10. Ci sono una serie di libri comici in cui si parla di attivatori del DNA oppure si riporta dell’uso di qualsiasi tipo di tecnologia a DNA per creare robot e modificare il corpo. Da cui, le nuove generazioni pervengono all’idea che le nuove tecnologie possono teoricamente risolvere molti problemi. Un altro esempio di cosa intendo per “genetizzazione”. A Cipro, la talassemia è una malattia seria con un’alta incidenza ed è così da molto tempo. Il governo ha deciso di stabilire un programma di prevenzione attraverso la diagnosi prenatale, alla quale fa seguito l’aborto se il bambino risulta affetto. Tale procedura non è stata accolta molto favorevolmente dalla Chiesa ortodossa di Cipro che, insieme con la classe politica, ha sviluppato un altro sistema secondo il quale tutti coloro che compiono i diciotto anni sono sottoposti a test per stabilire se sono portatori della malattia. Giovani uomini sono sottoposti a test quando entrano nel servizio militare e le donne quando ricevono una comunicazione scritta dalla scuola. Sono poi consegnati dei certificati che identificano i portatori o meno della malattia. Poiché la Chiesa ortodossa permette il matrimonio soltanto se i futuri sposi sono in possesso di questi certificati e a Cipro non esiste un matrimonio statale, ma solamente in Chiesa, questo sistema è divenuto un potente mezzo informativo sulla possibilità di avere un bambino con la talassemia. Se avete diciotto anni e una predisposizione genetica alla talassemia, non sarà saggio innamorarsi e sposare una ragazza che è anche essa portatrice. In un modo o in un altro, verrete a conoscenza dello stato del vostro partner. In questo modo, la gente sta cominciando a modificare i propri comportamenti. Il modo migliore per sfuggire al sistema è quello di fidanzarsi e sposare una persona che non viva a Cipro. Comunque, nonostante questo sistema, non è stato possibile eradicare la nascita di bambini affetti da talassemia. I bambini che oggi nascono talassemici lo sono fuori dal matrimonio, poiché le coppie decidono semplicemente di non fornire il certificato o di non sposarsi. Esi- 10 D. NELKIN - M.S. LINDEE, The DNA Mystique: The Gene as a Cultural Icon, W. H. Freeman, New York 1995. Biotecnologie: tra follia e saggezza 61 stono, quindi, alcune conseguenze sociali sul comportamento della gente provocate dalla tecnologia genetica. Il processo di “genetizzazione” La “genetizzazione” inizia quando ci consideriamo differenti, nel momento in cui scopriamo una predisposizione potenziale innata per una certa malattia in noi stessi o nella nostra prole. Come risultato, questo modifica il nostro modo di relazionarci agli altri e con il nostro ambiente. Dobbiamo essere molto critici nei riguardi di questo processo e vi faccio un esempio. Un risultato che deriva dal “Progetto Genoma Umano” è la descrizione completa del patrimonio genetico umano. Tuttavia, tutta questa informazione potrebbe risultare relativamente poco significativa poiché molti genetisti dicono oggi che gli essere umani e gli animali condividono il 99% dello stesso DNA. Inoltre, il DNA è relativamente insignificante. Parlando in termini biologici, le differenze genetiche sono localizzate in una percentuale molto piccola, laddove altri fattori possono essere più importanti nelle modalità di sviluppo degli esseri umani. Forse, il messaggio corretto, alla conclusione del “Progetto Genoma Umano”, sarebbe dovuto essere: «non siamo stati completamente soddisfatti dai risultati, anche se abbiamo descritto il genoma». Come scrisse Evelyn Fox Keller: «i successi della genetica hanno radicalmente ridimensionato il concetto guida centrale […], di gene […]. Il completamento del “Progetto Genoma Umano” non è la fine ma l’inizio di una nuova era della biologia». Conclude poi affermando che il successo ci dovrebbe insegnare ad essere umili11. Il successo scientifico dovrebbe ingenerare la sapienza. È una lezione importante per la scienza accettare questo paradosso: più conosciamo, meno comprendiamo. Nonostante abbiamo acquisito meravigliose conoscenze dallo studio del nostro patrimonio genetico, manca una terapia genetica efficace perché non abbiamo ancora scoperto i meccanismi della distribuzione dei geni nei posti giusti all’interno del nostro corpo umano. Esiste ancora, nel campo della scienza, una conoscenza di base insufficiente su come funziona veramente il corpo nonostante un ammontare incredibile di dati genetici e biologici. Quindi, la scienza non ha bisogno necessariamente di successi ma di acquisire la sapienza. In altri termini, ha bisogno di essere un po’ più cauta nelle sue affermazioni. Craig Ven- 11 E. FOX KELLER, The Century of the Gene, Harvard University Press, Cambridge, MA 2000. Henk ten Have 62 ter ha fatto parte del “Progetto Genoma Umano” come ingegnere privato. La sua compagnia competeva con i laboratori statali per svelare il segreto riguardante il genoma umano. Venter era presente alla stessa cerimonia con il presidente Bill Clinton e Cristopher Reeves. Durante quell’occasione, ha affermato: Il piccolo numero di geni […] convalida la nozione che noi non siamo determinati. Sappiamo ora che il dato che un singolo gene sia responsabile della produzione di una singola proteina e forse di una singola malattia è falsa […]. Sappiamo ora che l’ambiente agisce sulle nostre tappe biologiche ed è forse tanto importante nel costituirci così come siamo almeno quanto il nostro codice genetico12. Pertanto, la lezione dal “Progetto Genoma Umano” è che non è poi tutto così semplice come avevamo inizialmente immaginato. I geni in fondo non sono così importanti e forse l’ambiente ha un ruolo vitale da giocare più importante. Probabilmente dovevamo arrivarci prima, ma è soltanto dopo uno sforzo enorme che ci troviamo di nuovo, in un certo senso, al punto di partenza. Conclusioni Esaminando questi sviluppi tecnologici ed il dibattito che essi hanno generato, possiamo offrire alcune riflessioni conclusive. Per prima cosa, dovremmo provare un sano scetticismo nei riguardi dei progressi della scienza, specialmente perché i bioeticisti sono affascinati da queste promesse e dalle aspettative più degli stessi scienziati. È consigliabile prendere le distanze, essere più scettici e valutare i dati attentamente, per capire ciò si conosce veramente e come i dati sono stati validati. A partire dal “Progetto Genoma Umano” è sorto un dibattito sulla relazione tra i geni e l’ambiente, tra la natura e la cultura. Con un po’ di sapienza ed un’indagine storica retrospettiva sino agli anni cinquanta e sessanta, scopriamo che sostanzialmente si tratta dello stesso dibattito. In secondo luogo, dobbiamo essere molto cauti sulle applicazioni pratiche. Non tutte le novità scientifiche possono essere tradotte in risultati pratici. Certamente, alcuni di questi si verificheranno, altri necessiteranno di tempi più lunghi di quanto ci aspettiamo. Avviene in genere così, perché è necessaria molta più ricerca di base prima di giungere ad un’applicazione pratica. 12 C. VENTER, White House, June 2000 in http://www.genome.gov/10001356. Biotecnologie: tra follia e saggezza 63 Più precisamente, a causa delle pesanti implicazioni commerciali, esiste un pericolo reale quando si cercano risultati in tempi brevi. La mentalità affaristica è meno interessata alla ricerca di base quanto piuttosto alle applicazioni e ai risultati. In bioetica, dovremmo resistere a questa spinta a cercare applicazioni immediate, sostenendo invece la necessità di una seria ricerca di base. Una terza questione riguarda la necessità, per i bioeticisti, di essere maggiormente informati. Si può essere facilmente presi da una visione delle biotecnologie o troppo ottimistica o negativa, specialmente quando non si disponga di un elevato livello di informazioni su ciò che essa veramente implichi. Senza essere adeguatamente informati, i bioeticisti divengono facile preda di un’etica mescolata alla scienza, proiettando valori preconcetti sulle loro decisioni. Come detto in precedenza, l’ambito usuale nel contesto clinico del bilanciamento tra rischi e benefici si dimostra insufficiente. Ho sostenuto che è necessario guardare al contesto sociale e ricercare un bilanciamento tra i progressi della medicina che ci aiutano e il prevenire l’abuso dell’informazione genetica. Queste questioni devono essere poste con più decisione nell’agenda riguardante il dibattito sulle biotecnologie. C’è anche la necessità di una prospettiva internazionale e di un approccio globale. Per esempio, dovremmo essere consapevoli del fatto che le nuove tecnologie sono spesso focalizzate sui bisogni del mondo sviluppato piuttosto che del mondo in via di sviluppo. Può essere un po’ perverso suscitare un immenso dibattito bioetico sulla clonazione mentre, allo stesso tempo, in molti paesi la gente non viene curata per le malattie infettive a causa della mancanza di risorse, una distribuzione insufficiente delle stesse o per mancanza di priorità. È anche perverso parlare di potenziamento quando i popoli di altri paesi non si possono permettere di comprare le medicine perché non sono state brevettate. Tutte queste questioni dovrebbero essere affrontate secondo una prospettiva internazionale. In particolare, le caratteristiche sociali dovrebbero essere tenute in considerazione perché, nei paesi occidentali, è l’interesse individuale che viene spesso sovrastimato. Ultimo aspetto, ma non per questo meno importante, è che ci dovrebbe essere in bioetica una critica filosofica più raffinata piuttosto che un’attenzione eccessiva a quelle che sono le preoccupazioni usuali e pratiche della scienza. Dovremmo parlare meno di restrizioni e approfondire cosa questi nuovi sviluppi significhino per la nostra esistenza, le nostre società e la nostra comunità internazionale. Michael Ryan Tecnologia a servizio dell’uomo: riflessioni filosofiche ed etiche La questione in esame, cioè il potere acquisito dall’uomo di fabbricarsi oggetti con le proprie mani, si fa risalire al mito di Prometeo. È quindi utile riprenderne un breve passaggio, così come Platone lo riporta nel dialogo intitolato Protagora. Si può notare che l’ultima riga è quella che descrive in modo più dettagliato il nostro argomento: Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti, era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo1. Professore Ordinario di Etica Sociale e Già Decano della Facoltà di Filosofia, e Professore di Teologia Pastorale, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. 1 http://www.filosofico.net/prot3.htm. 66 Michael Ryan La tecnologia è un dono meraviglioso, ma ha bisogno della sapienza per essere utilizzata al meglio. Tale questione è divenuta un vero e proprio dramma, per non dire una tragedia, ai nostri giorni e nella nostra epoca. In questo saggio cercheremo di comprendere come siamo arrivati al punto in cui ora ci troviamo e di offrire un orientamento su come amministrare questo potere in modo da contribuire alla vita del genere umano. Senza alcuna pretesa di originalità, attingiamo da tre tra i più importanti filosofi che si sono occupati di questo tema: Cartesio, Heidegger e Jonas. Nell’antica filosofia greca, esisteva una distinzione fondamentale tra i significati di natura e di lavoro dell’uomo. La natura era chiamata physis e il lavoro dell’uomo era definito con il termine poiesis (da ποιέω, che significa fare). La filosofia greca Per i Greci, la natura rappresenta ciò che spiega i cambiamenti progressivi attraverso i quali un particolare soggetto passa nel corso del suo sviluppo, per giungere ad un fine specifico come, per esempio, ciò che accade ad una ghianda che, crescendo, diventa una quercia. Secondo Aristotele, la physis è il principio interno di mutamento di una forma vivente che spiega la sua capacità di andare incontro a delle modificazioni, pur mantenendo la sua identità di specie (193b21-22). Nella Fisica II.1, egli fa una distinzione tra oggetti naturali e artefatti. Ne consegue che, possedere una natura, s’identifica con qualche cosa che abbia un principio interno di mutamento che appartiene all’oggetto in virtù di se stesso (192b2122): questo principio interno è quello che distingue le piante, gli animali e gli esseri umani dagli artefatti, che mancano di tale principio. Con una parola, la physis è ciò che emerge dal proprio essere. Quando la filosofia greca ha cominciato a riflettere sulla natura, ha scoperto che la struttura della natura supponeva un’essenza, un’idea, un significato intrinseco. L’essenza delle cose naturali comprende uno scopo, così come l’essenza degli artefatti, come vedremo subito. Pertanto, il mondo è un luogo pieno di significato e di intenzionalità. Questa concezione del mondo ci conferisce una certa visione dell’uomo: noi esseri umani non siamo padroni della natura, ma lavoriamo con le sue potenzialità per realizzare un mondo che abbia un significato. La nostra conoscenza del mondo e delle nostre azioni non è arbitraria, ma è, in qualche modo, il completamento di ciò che è nascosto all’interno della natura. Poiesis, al contrario, è all’origine di ciò che noi chiamiamo artefatti: oggetti che non hanno un principio interno, del quale abbiamo parlato in riferimento alla physis. Questi sono prodotti dell’arte, dell’artigianato e delle convenzioni sociali. Le conoscenze necessarie per produrre questi arte- Tecnologia a servizio dell’uomo 67 fatti sono chiamate techne (τέχνη: letteralmente artigianato), che si può definire come ciò che è alla base di quello che noi oggi chiamiamo tecnologia. Anche in questo caso, queste conoscenze possiedono uno scopo e un significato, per gli artefatti che essa produce. Per cui la techne, le conoscenze, vengono prima dell’oggetto stesso e ci comunicano il modo giusto di fabbricare gli oggetti. Pertanto, sia la physis sia la poiesis hanno una struttura simile. Nelle cose c’è un significato! Cambiamento di prospettiva con Cartesio Questa concezione della natura è stata abbandonata dalla filosofia moderna. Una spinta in questa direzione è stata data da Cartesio che, nella sua opera, Discorso sul Metodo ci conduce lungo un percorso di pensiero molto differente sui modi di comprendere la natura. Per Cartesio, l’uomo è diviso in una mente e in un corpo, senza connessione tra le due parti. Da questo ne deriva una concezione dualistica radicale del mondo. Il corpo agisce come un orologio che possiamo analizzare pezzo per pezzo. Lo stesso si può dire della natura: da idee semplici possiamo costruire sistemi sempre più complessi. Così un autore spiega l’opera di Cartesio: Questa metafora naturalmente incoraggia ad avere una relazione particolare tra gli esseri umani e la natura, attribuendo alla mente che conosce una posizione preminente e assegnandole la responsabilità di svelare la natura. Scompare il significato tradizionale di essere umano come partecipe privilegiato della natura, con la responsabilità di rispettare la natura sia perché è divina (la visione classica pagana) o perché è la creazione unica e misteriosa di Dio (la visione cristiana tradizionale). La visione della natura di Cartesio conferisce agli esseri umani la licenza di cercare, esplorare e sperimentare; con una sola parola di immischiarsi con la natura, alla ricerca della conoscenza, senza doversi preoccupare di alcune delle qualità spirituali degli oggetti in esame, perché tutto quello che si trova al di fuori dell’animo umano è una macchina. Questa metafora, più di ogni altra, spiega l’attitudine incredibilmente aggressiva che la scienza occidentale ha rapidamente sviluppato nei confronti della natura2. 2 I. JOHNSON, «Su René Descartes Discourse on Method», in http://www.mala.bc.ca/ ~johnstoi/descartes/descarteslecture.htm. 68 Michael Ryan Secondo questo punto di vista, la natura doveva perdere la sua caratteristica di suscitare la meraviglia e le sue dimensioni di uso e di dominio acquistavano, invece, una posizione di preminenza. L’ambito morale che aveva guidato la natura era stato messo da parte ed il buon uso della natura diveniva così l’unico criterio. L’uso diviene il senso e lo scopo delle cose che creiamo e perde valore ciò che andiamo scoprendo. Non ci domandiamo più che cosa è ma come funziona. Siamo finalmente a casa nostra nel mondo e dobbiamo conquistarlo. In questo modo l’uomo si sente padrone e signore della natura. Questo lo rende quasi un dio: è l’inizio del mito di un progresso senza fine. Anche questo fu suggerito da Cartesio con la sua ipotesi dell’evoluzione del mondo. M. Heidegger Adesso ci mettiamo sulle spalle di Martin Heidegger per descrivere alcune delle conseguenze di questo cambiamento di prospettiva e, insieme a Heidegger, cercheremo di indagare su alcuni dei pericoli che hanno accompagnato questo cambiamento3. Heidegger inizia facendo una distinzione tra una comprensione comune della tecnologia, che non le attribuisce alcun pericolo, e la comprensione più profonda, che mette in evidenza i suoi pericoli. Dal punto di vista dell’uomo comune, quello “della strada”, per intenderci, noi percepiamo la tecnologia come un complesso di dispositivi e di abilità tecniche, provenienti dall’attività umana e sviluppate come mezzi in vista di fini. La tecnologia, in se stessa, sembra passiva; infatti, la concepiamo come resa attiva soltanto da noi stessi. In questo senso, la tecnologia non presenta gravi rischi. Ci basta utilizzare le cose in modo saggio, come afferma Platone nel mito di Prometeo. Inoltre, se la tecnologia è così utile da fornirci tante comodità presenti nella vita, come possiamo parlare del bisogno di una morale, di imperativi categorici o di controlli? Nel contesto moderno, la tecnologia non realizza essenze oggettive iscritte nella natura dell’universo, come si riteneva fosse nei tempi antichi con il concetto di techne. Essa appare esclusivamente strumentale e, pertanto, priva di valori. Non risponde a scopi intrinseci, è semplicemente un mezzo, che serve a scopi individuali che non decidiamo a nostro pia- 3 Cf. «The Question Concerning Technology», in. D. FARREL KRELL (ed.) Basic Writings, HarperCollins, San Francisco 1993, 311-341; «Only a God Can Save Us», in R. WOLIN (ed.), The Heidegger Controversy, MIT Press, Cambridge 1992, 91116. Tecnologia a servizio dell’uomo 69 cimento. Mezzi e fini sono separati: io posso costruire armi da fuoco e non preoccuparmi di chi li utilizzerà e a quale scopo: «Le armi da fuoco non uccidono le persone, le persone uccidono le persone». Una tecnologia di questo tipo è, pertanto, neutrale. Qui le conseguenze sono molteplici: la natura è vista come una risorsa che attende di essere trasformata in ciò che noi desideriamo. Il mondo è comprensibile secondo una visione meccanicistica e non teleologica. Esiste per essere controllato e utilizzato, senza avere uno scopo intrinseco. Inoltre, come propone Cartesio nelle sue ipotesi, il progresso può essere illimitato. Andando avanti, la domanda sulla direzione intrapresa non può più essere fatta. Il dove stiamo andando non si trova da nessuna parte e viene a dipendere esclusivamente dalle nostre scelte arbitrarie e soggettive4. Fino a quando non sono state attribuite alla tecnologia delle particolari conseguenze, si è lasciato che questa situazione continuasse quasi senza che alcuno protestasse. Oggi siamo più consapevoli di ciò che la tecnologia è in grado di causarci. 4 Molti altri fattori sono entrati in gioco da quando si è incominciata a formare una visione moderna e contemporanea del mondo. In una tesi dottorale che verrà presto presentata all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Maciej Bazela sostiene che: «Non è stata soltanto la filosofia stessa della scienza moderna ad appannare e a trasformare l’ambiente in una cosa. La mia ricerca dimostra che alla base dei cambiamenti epocali c’era una amalgama particolare del concetto moderno di scienza con la Teologia protestante, l’enfasi dell’Illuminismo sull’individuo e la ragione, e l’etica utilitaristica. All’inizio, la visione Platonica della natura prevalse su quella Aristotelica, nel Protestantesimo. Essa percolò nei tempi moderni attraverso il pensiero agostiniano e la filosofia nominalista. Platone credeva che la natura fosse l’espressione più debole dello spirito. Il mondo naturale era una manifestazione dello Spirito, ma limitato e molto imperfetto, poiché era la sfera dell’accidentale e del necessario. Inoltre, il nominalismo medievale sosteneva che il mondo fosse governato dagli accidenti e dalla contingenza. Dio volle che il mondo esistesse come una parte essenziale della storia della salvezza umana, ma allo stesso tempo la natura di Dio è totalmente diversa dall’essenza del mondo. Dio e la terra sono due esseri incommensurabili. Il Creatore è estraneo al mondo della materia, così che non possiamo conoscerlo attraverso lo studio dell’ecosistema. Alla fine, la teologia protestante vide la natura come un residuo della caduta e della corruzione morale. L’uomo sperava che, utilizzando la sua forza trasformante sarebbe stato in grado di redimersi dagli effetti della caduta. Il protestantesimo sottolinea il valore del lavoro umano e della creatività. Era quindi legittimo usare le risorse naturali per qualsiasi progetto che avesse come scopo quello di migliorare la condizione umana e moltiplicare il benessere». (manoscritto) 70 Michael Ryan Dove possiamo andare da qui? La tavola seguente può illustrare questa domanda. Se la tecnologia è autonoma Se la tecnologia è neutrale, con una totale separazione tra fini e mezzi Se la tecnologia è valoriale e i mezzi rappresentano un tipo di vita che include i fini A Determinismo = Teoria della Modernizzazione C Sostantivismo = Fini e mezzi collegati in un sistema Se la tecnologia può essere controllata dall’uomo B Strumentalismo = Fede liberale nel progresso D Teoria Critica = Esiste un sistema di scelte alternative fini-mezzi Nel riquadro A, abbiamo la visione deterministica. La spinta propulsiva della storia è l’avanzamento tecnologico, che soddisfa costantemente alcune delle caratteristiche della nostra natura. Non si tratta di adattare la tecnologia a noi, quanto noi di adattarci alla tecnologia. Nel riquadro B abbiamo la visione comune di oggi: lo strumentalismo; la tecnologia priva di valori, può essere controllata e utilizzata per soddisfare i propri bisogni. Nel riquadro C consideriamo il caso in cui la tecnologia possiede un valore ed è utilizzata per contribuire a tale valore. In altre parole, le si è attribuito un valore sostantivo (come la religione, essa avrebbe un valore sostantivo), in contrasto con l’altra posizione che considera la tecnologia avere soltanto un valore strumentale (come i soldi per esempio; sebbene anche i soldi possano acquisire un valore sostantivo). La tesi sostantivistica afferma che quando accettiamo la tecnologia accettiamo un tipo di vita e che questo non è solamente strumentale ai valori che possediamo. Essa porta con sé alcuni valori che hanno lo stesso carattere esclusivo delle credenze religiose. Se la società dovesse seguire un tale percorso sarà trasformata in una società tecnologica, dedita a valori quali l’efficienza e il potere. Nel riquadro D, abbiamo quella che è considerata una visione corretta: la tecnologia non ci determina, possiamo scegliere una strada oppure un’altra. Ora torniamo a M. Heidegger. Nella tecnologia vediamo una realtà molto sostanziale (riquadro C). Secondo Heidegger, commettiamo un errore fondamentale se consideriamo la tecnologia nel significato debole dell’uomo “della strada”: quando noi la consideriamo qualcosa di neutrale, ci rapportiamo ad essa nel modo peggiore. Al contrario, l’essenza della tecnologia ci rivela che essa è alquanto lontana dall’essere neutrale o semplicemente uno strumento del controllo umano; è un’attività organizzativa autonoma in cui gli esseri umani si strutturano. Vedere la tecnologia come un mezzo verso un fine, vuol dire sem- Tecnologia a servizio dell’uomo 71 plicemente manipolare la tecnologia nel modo giusto. Tuttavia, Heidegger suggerisce di considerare un’altra prospettiva: se la tecnologia non è più soltanto un mezzo, come si rapporta con la volontà che di essa fa uso? Come, infatti, possiamo rapportarci con essa se essa ci supera nella sua attività organizzativa? Era corretta la nostra visione della tecnologia come strumento. Come abbiamo detto prima, la parola deriva dal Greco techne che, per i greci, appartiene alla nozione generale di portare avanti, cioè poiesis. Techne e epistéme sono unite, l’ultima correlata a ciò che emerge dalla propria natura, e la prima correlata a ciò che emerge dal nostro intervento su quella natura. La tecnologia moderna si è comunque evoluta in misura considerevole dai tempi della Grecia. La moderna tecnologia si distingue per aver stabilito un’alleanza con la scienza fisica recente piuttosto che con le arti e l’artigianato. Mentre le arti e l’artigianato sono rimaste relativamente legate alla techne nel senso antico, la tecnologia moderna si è spostata in una direzione completamente diversa. Secondo Heidegger, ciò che caratterizza la tecnologia moderna è la sua natura di sfida e il modo in cui essa accumula le risorse della natura. La tecnologia moderna assale la natura e ne mette a prova le energie, in contrasto con la tecnica, la quale è sempre andata avanti in armonia con la natura. Noi non solo diamo una nuova direzione alla natura, ma, nei fatti, la dominiamo. In questo senso parliamo in termini di violenza e di sfruttamento. Un’indicazione di questa nuova caratteristica può essere ritrovata nel nostro sfruttamento delle risorse energetiche. Come esempio di vecchia tecnologia abbiamo il mulino a vento: esso catturava l’energia dal vento e la convertiva immediatamente in altre forme quali, per esempio, l’energia necessaria per la macina del grano. Il mulino a vento non liberava l’energia eolica allo scopo di immagazzinarla per una distribuzione successiva e arbitraria. I moderni impianti eolici, dall’altra parte, convertono l’energia eolica in energia elettrica, che può essere accumulata nelle batterie o in altro modo5. Il significato dell’accumulo è che esso rende disponibile l’energia; e, a causa di questo accumulo, i poteri della natura possono rivoltarsi contro se stessi. L’accumulo di energia è, in questo senso, il segno del nostro prevaricare la natura come un potente oggetto. Questi ed altri esempi hanno convinto Heidegger del fatto che siamo passati da una collaborazione con la natura ad un suo utilizzo con la forza. 5 Cf. http://www4.hmc.edu:8001/humanities/beckman/PhilNotes/heid.htm. 72 Michael Ryan Non vediamo più la natura come maestra e curatrice. Non soltanto modelliamo la natura, ma la trasformiamo profondamente. Hans Jonas Heidegger introdusse il concetto del dominio sulla natura e quello della responsabilità. Il suo lavoro è stato di stimolo per Hans Jonas che lo riprese subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Con la costruzione della bomba atomica, era sorta la questione della responsabilità degli scienziati in azioni simili. Ancora una volta si discusse sulla neutralità della tecnologia. K. Popper aveva qualche cosa da dire sulla fabbricazione delle armi da guerra. Uno scienziato che costruisce tali strumenti deve anche assumersi la responsabilità di spiegare quali sono gli effetti e di cercare delle contromisure allo scopo di non doverli usare. Inventiamo le armi per evitare situazioni come il totalitarismo; tuttavia, dobbiamo anche impegnarci per impedire manipolazioni politiche e sociali, che ne costituirebbero un altro aspetto. Se ciascuno di noi è responsabile di ciò che fa, anche per le conseguenze non volute delle sue azioni, lo stesso vale per lo scienziato. Nel caso dello scienziato, possiamo affermare che c’è un obbligo maggiore: sagesse oblige. Hans Jonas ha espresso la stessa idea nel suo Imperativo della responsabilità. Alla ricerca di un’etica per l’era tecnologica (1984)6. Provenendo dall’esperienza della Seconda Guerra Mondiale, si era occupato di studiare il fenomeno della vita e cominciò ad interrogarsi sul dualismo presente nella filosofia moderna. Le sue conclusioni furono: «L’organismo, con la sua insolubile fusione di interiorità ed esteriorità rappresenta la prova cruciale della divisione dualistica e, essendo noi privilegiati nel suo accesso sperimentale, il paradigma, per la filosofia di un essere concreto, non ridotto, piuttosto la chiave per reintegrare un’ontologia frammentata in una teoria uniforme dell’essere»7. In questo modo, egli dibatté con toni accesi per una 6 H. JONAS, The Imperative of Responsibility. In Search of Ethics for the Technological Age, University of Chicago Press, Chicago, IL / London 1984. L’edizione originale in tedesco: Da Prinzip Verantwortung Versuch einer Ethic fur die Technologische Zivilization (1979). Si può comprendere sotto forma di risposta al saggio di M. HEIDEGGER, The Question Concerning Technology (1977). Heidegger si preoccupava dell’impatto della tecnologia sull’uomo, la riduzione dell’uomo a mera risorsa. 7 H. JONAS, Philosophical Essays: From Ancient Creed to Technological Man, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J. 1974, xiii. Tecnologia a servizio dell’uomo 73 reintegrazione della mente e del corpo, di un uomo con una natura e con un’etica, quale parte della filosofia della natura8. Per Jonas, la natura dell’azione umana è così cambiata con la tecnologia che l’etica tradizionale non è più sufficiente. L’etica tradizionale ha esaminato l’azione umana usando il tempo al presente. Ora, con la possibilità di intervenire perfino sulla stessa natura umana, ci dobbiamo chiedere quali effetti l’azione umana avrà in futuro. Prima, «tutto ciò che aveva a che fare con il mondo non umano, cioè la realtà intera della techne, era eticamente neutro. Il significato etico apparteneva al rapporto diretto dell’uomo con l’uomo, ivi incluso l’uomo che ha a che fare con se stesso: tutte le etiche tradizionali sono antropocentriche. L’entità uomo e le sue condizioni di base sono state considerate costanti in essenza e non un oggetto modellato della tecnhe. Il campo effettivo di azione era piccolo, l’arco temporale di previsione, lo stabilire gli scopi e la responsabilità breve, limitato il controllo delle circostanze»9. Pertanto, secondo Jonas, la crescita del potere tecnologico dell’azione umana deve essere accompagnato da una corrispondente crescita in umanità. Ciò si dimostra particolarmente necessario se prendiamo in esame gli effetti cumulativi dell’impatto umano sul mondo. Siamo obbligati a prevedere il più possibile questi effetti. Il principio guida che chiameremo “l’euristica immaginativa della paura”, ci dirà cosa è in gioco e ciò di cui dobbiamo essere consapevoli. Tutto questo presuppone una metafisica dell’uomo allo scopo di scoprirne gli obblighi per se stesso e la sua progenie. A questo mondo tecnologico Jonas attribuisce le seguenti norme che connotano le azioni responsabili: - Agisci in modo che gli effetti delle tue azioni siano compatibili con la persistenza di una vita umana. - Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione non siano quelli di distruggere la possibilità futura di tale vita. - Il punto di partenza del discorso etico è la nostra responsabilità per il potere causale, che le nostre azioni sono sotto il nostro controllo e che noi possiamo prevederne le conseguenze solo sino ad un certo livello - L’etica si fonda sulla nostra responsabilità per il futuro e sulla preferenza netta per l’essere rispetto al nulla, della finalità sulla mancanza di scopo. - L’essere non è indifferente verso se stesso. La vita deve essere affermata sopra la morte. 8 9 Cf. H. JONAS, The Phenomenon of Life: Toward a Philosophical Biology, 1966. H. JONAS, The Phenomenon of Life, 4-5. 74 Michael Ryan Un altro aspetto importante di questa filosofia è che siamo obbligati, senza esserne capaci, di pretendere la reciprocità. Dato che gli uomini futuri e gli esseri futuri non umani ancora non esistono, essi come tali non posseggono diritti. I nostri obblighi verso di loro non sono, sotto questo punto di vista, reciproci. La responsabilità può essere naturale o contrattuale e Jonas prende come esempio di entrambe i genitori e i politici. La caratteristica principale della loro etica è: totalità, continuità e orientamento futuro. «Le responsabilità comprendono l’essere totale del loro oggetto. Il semplice essere come tale, e quindi ciò che è migliore per il bambino, è ciò che s’intende per cura parentale. La responsabilità per l’uomo di stato è per la durata del suo ufficio o del suo potere, per la vita totale della comunità, per il bene pubblico. Né la cura parentale né quella statale si possono permettere una vacanza o una pausa, perché la vita dell’oggetto continua senza intromissioni, rendendo le sue richieste nuove, di volta in volta». Ancora più importante è la continuità della stessa esistenza presa in cura per se stessa, intesa come preoccupazione. È il futuro del quale la responsabilità per una vita, sia essa individuale o collettiva, si preoccupa al di là dell’immediato presente. La responsabilità morale concreta di un agente, al momento dell’agire, si estende oltre ai suoi effetti prossimi. Jonas riassume l’imperativo della responsabilità come segue: «Il concetto di responsabilità implica quello di un dovere; per prima cosa un dovere di essere qualche cosa, poi un dover fare, da parte di qualcuno, in risposta al primo». Il caso più evidente è quello del neonato, il cui semplice respirare ci porta in modo incontrovertibile ad un dovere verso il mondo circostante, che è quello di occuparsi di lui. Non solo il neonato ci richiama in questo modo, ma «l’incondizionato fine in se stesso di tutto ciò che è vivo e di ciò che ancora deve avvenire delle facoltà per raggiungere questo fine»10. Conclusioni Lo spirito umano possiede la capacità peculiare di produrre strumenti che possono potenziare la vita. Ma possiede anche la capacità peculiare di permettere che alcuni di questi strumenti si trasformino in qualche cosa di più di uno strumento. Questo è quanto è espresso nell’aforisma popolare circa i soldi: «i soldi sono un buon servitore ma un cattivo padrone». Nello stesso modo il Vangelo afferma che nessuno può servire a due padroni... «non potete servire a Dio e a mammona». Qualunque sia 10 Cf. H. JONAS, The Imperative of Responsibility. Tecnologia a servizio dell’uomo 75 la sottile differenza dei significati della parola mammona, tutte quante sottolineano l’idea di “sicurezza”. Pertanto, i soldi, che sono strumento, possono in qualche modo diventare dei padroni. L’analogia con la tecnologia serve da illustrazione. Questo fenomeno si chiama “alienazione”. Il termine è stato reso popolare da autori come Rousseau e Marx. Esso suppone sempre un’inversione: causa ed effetto, oggetto e soggetto, mezzi e fini. Il marxismo ha criticato le società borghesi capitalistiche, rimproverando loro la mercificazione e l’alienazione dell’esistenza umana. Certamente, questo rimprovero è basato su una concezione errata ed inadeguata dell’alienazione, che la fa derivare solo dalla sfera dei rapporti di produzione e di proprietà, cioè assegnandole un fondamento materialistico [...]. L’esperienza storica dell’Occidente, da parte sua, dimostra che, se l’analisi e la fondazione marxista dell’alienazione sono false, tuttavia l’alienazione con la perdita del senso autentico dell’esistenza è un fatto reale anche nelle società occidentali (Centesimus Annus, 41). Nel caso della tecnologia, la soluzione è che ogni azione dell’uomo deve essere portatrice del suo sviluppo integrale e specialmente deve attualizzare la sua trascendenza, espressa nella sua capacità d’essere libero, nella sua capacità di donarsi. La tecnologia ci conferisce certamente una maggiore possibilità di libertà; ma ci dobbiamo chiedere se davvero godiamo della libertà che c’è data. Circa la capacità di donarsi, l’enciclica puntualizza: È alienato l’uomo che rifiuta di trascendere se stesso e di vivere l’esperienza del dono di sé e della formazione di un’autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio. È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana (Centesimus Annus, 82)11. 11 Preoccupazioni simili sono espresse in altri documenti. Ecco una citazione articolata tratta dall’Enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, n. 15: «L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di “alienazione”, nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono esser diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive 76 Michael Ryan Concludiamo con una domanda molto pratica. Come possiamo neutralizzare gli effetti negativi della tecnologia e godere soltanto di quelli positivi? Un confronto con l’esperienza estetica ci può aiutare a formulare una risposta. Quando contemplo un lavoro artistico (l’oggetto), questo lavoro realizza i suoi fini, quando il soggetto che lo contempla è arricchito nella sua soggettività. Il soggetto dapprima va verso (l’oggetto) della contemplazione, l’oggetto estetico, ma successivamente questo deve stimolare lo spirito del soggetto, arricchendolo. Applicando quest’analogia ad uno strumento molto comune della nostra tecnologia moderna possiamo chiederci: quando utilizziamo i cellulari (l’oggetto) che moltiplica i nostri contatti le nostre relazioni e comunicazioni sono davvero divenute più ricche? Se rispondiamo di no, la dipendenza che noi abbiamo dai nostri cellulari si trasforma in una resa. Questo è un test che possiamo utilizzare anche per la tecnologia. sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di un’inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire. Deve nascere, quindi, un interrogativo: per quale ragione questo potere, dato sin dall’inizio all’uomo, potere per il quale egli doveva dominare la terra, si rivolge contro lui stesso, provocando un comprensibile stato d’inquietudine, di cosciente o incosciente paura, di minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea e si manifesta sotto vari aspetti? Questo stato di minaccia per l’uomo, da parte dei suoi prodotti, ha varie direzioni e vari gradi di intensità. Sembra che siamo sempre più consapevoli del fatto che lo sfruttamento della terra, del pianeta su cui viviamo, esiga una razionale ed onesta pianificazione. Nello stesso tempo, tale sfruttamento per scopi non soltanto industriali, ma anche militari, lo sviluppo della tecnica non controllato né inquadrato in un piano a raggio universale ed autenticamente umanistico, portano spesso con sé la minaccia all’ambiente naturale dell’uomo, lo alienano nei suoi rapporti con la natura, lo distolgono da essa. L’uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo. Invece, era volontà del Creatore che l’uomo comunicasse con la natura come “padrone” e “custode” intelligente e nobile, e non come “sfruttatore” e “distruttore” senza alcun riguardo. Lo sviluppo della tecnica e lo sviluppo della civiltà del nostro tempo, che è contrassegnato dal dominio della tecnica stessa, esigono un proporzionale sviluppo della vita morale e dell’etica». (corsivo aggiunto). Gonzalo Miranda Homo Sapiens o Homo Technicus? Quattro secoli fa, il filosofo inglese Francis Bacon affermava: «L’oggetto della scienza è realizzare tutto ciò che è possibile». Ma il 6 agosto 1945 Albert Einstein esclamò: «Ci sono delle cose che sarebbe meglio non realizzare». Era il giorno dell’esplosione atomica su Hiroshima1. L’homo sapiens è anche homo technicus. Ma l’abuso delle sue capacità tecniche può oscurare la sua sapienza. Mi è sembrato, dunque, interessante proporre alcune riflessioni intorno alle capacità possedute dall’uomo per manipolare la realtà attraverso, soprattutto, lo sviluppo della tecnologia (potenza), considerando al tempo stesso i limiti di quelle capacità (impotenza) e la tentazione spesso incombente di cercare di superarli attraverso atteggiamenti e comportamenti smisurati (prepotenza) che alla fine si svelano un’ulteriore dimostrazione dei propri limiti. Potenza e super-potenza dell’uomo Il termine “potenza” ci richiama immediatamente al binomio “atto/potenza” studiato dai filosofi greci. Qualunque realtà finita può passare dalla situazione in cui si trova “in atto” a un’altra in rapporto alla quale si trova “in potenza”, trovandosi poi “in atto” nella situazione che prima era solo “potenziale”. La trasformazione di un ente consiste appunto nel passaggio dalla potenza all’atto. La trasformazione avviene spesso ad opera di un altro ente che provoca o induce quel passaggio. L’ente che causa la trasformazione esercita in questo modo la sua “potenza”: la capacità di indurre il passaggio da potenza ad atto, cioè di trasformare. Professore Ordinario e già Decano della Facoltà di Bioetica, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. 1 Cf. S. SPINSANTI, «Editoriale: perché una rivista di medical humanities», L’arco di Giano 1/1 (1993), 1-3. 78 Gonzalo Miranda In questo senso, la potenza è predicabile di qualunque ente. Anche l’uomo è potente in quanto è capace di fare, di manipolare, di gestire, di trasformare. Ma l’homo sapiens può trasformare una realtà in modo razionale e libero, vale a dire in quanto soggetto della propria potenza. Proprio per questo, l’uomo non solamente influisce sulla realtà altra ma, in quanto soggetto responsabile del suo agire libero, nel trasformare un’altra realtà trasforma e configura se stesso: se uccido qualcuno non solo provoco la sua morte ma divento anche responsabile di essa, divento assassino. Proprio in funzione della sua ragione, l’homo sapiens è anche homo technicus. Egli è capace di realizzare e sviluppare la techne, in quanto è capace di produrre strumenti, artefatti, e di utilizzarli per la trasformazione sempre più efficiente della realtà. E questa capacità proviene dalla sua ragione, dal suo logos. Aristotele vede, infatti, la techne come l’abitudine di fare (diversa dall’agire) con la partecipazione della ragione. La tecnica nasce dall’incontro tra manualità e razionalità. E da questa tecnica, in quanto sistematicamente razionalizzata, origina la tecnologia. In questo modo, la potenza o capacità di trasformare la realtà, e per ciò stesso di configurare la propria realtà, si presenta con caratteri di grandezza, estensione, profondità e flessibilità che sono di gran lunga superiori alla potenza di qualunque altro agente intramondano. Inoltre, la potenza dell’uomo, contrariamente a quella delle altre realtà, è una potenza dinamica, progressiva. Proprio a causa della sua razionalità, l’uomo è capace di imparare, di trasmettere le conoscenze acquisite ad altri, di creare cultura, anche cultura tecnologica. Questa “super-potenza” è stata utilizzata dall’uomo nello sfruttamento delle diverse fonti di energia (termica, idroelettrica, solare, atomica), e nella trasformazione e l’utilizzo di minerali, piante e animali, e addirittura nella produzione di realtà prima non esistenti (si pensi, per esempio, agli incroci e innesti classici o alle manipolazioni genetiche dei nostri giorni). Il carattere dinamico e progressivo della sua “super-potenza” può indurlo a pensare che si tratti in fondo di una specie di “onnipotenza” in fieri: i limiti di oggi non esisteranno domani, e un giorno l’uomo sarà potente in tutto (omni-potens). Impotenza radicale L’uomo sperimenta la sua potenza ma fa esperienza anche dell’impotenza. La sua tendenza ad utilizzare la potenza tecnologica nasce in parte dall’innato desiderio di conoscere, manipolare, utilizzare e progredire. Ma, se guardiamo in profondità, ci rendiamo conto che quella potenza risponde anche alla sua impotenza, nel senso che l’uomo ricorre alla tecnica quasi sempre per soddisfare un bisogno e superare in parte i propri li- Homo Sapiens o Homo Technicus? 79 miti. L’invenzione della ruota nacque dall’esperienza dei propri limiti in relazione al desiderio di muovere e trasportare oggetti pesanti. L’invenzione dell’aeroplano nacque dall’esperienza della propria incapacità di solcare lo spazio volando, come fanno altri esseri viventi. Ogni strumento tecnico aumenta la potenza dell’uomo dimostrando allo stesso tempo la sua impotenza, i suoi limiti, i suoi permanenti bisogni. Infatti, ci rendiamo conto che questi non vengono mai del tutto soddisfatti e che, se possiamo sempre accrescere le nostre conoscenze e le nostre capacità, è perché sempre siamo e saremo limitati. Possiamo sempre progredire perché non siamo mai perfetti. Possiamo sempre camminare, perché non siamo mai arrivati alla fine. Si tratta, naturalmente, di un’esperienza quasi sempre implicita e come nascosta nel subconscio, ma non per questo meno vera e meno profonda. In fondo, tutto il vissuto nel soggetto umano si snoda davanti a questo telone di fondo: sono potente, forse sempre più potente, ma radicalmente impotente, finito, contingente. E non è una contingenza temporanea e circostanziale, come se si trattasse di un incidente dalle conseguenze superabili. Mi rendo conto di essere essenzialmente ed esistenzialmente contingente. Intanto, esisto senza averlo deciso io, e senza che nessuno mi abbia chiesto il permesso di portarmi all’esistenza. Non ho scelto di nascere in questa famiglia, in questa società, in questo tempo, in questo paese e in questo pianeta. Non ho scelto di essere maschio o femmina. Non ho scelto di avere questo corpo e questo temperamento... Non ho scelto di essere. D’altra parte, la mia esistenza su questo mondo si presenta limitata nel tempo. Un giorno non c’ero e un giorno non ci sarò più. E questa constatazione contrasta in modo insultante con la mia innata tendenza a permanere, ad esserci, ad essere. Questa tendenza all’immortalità ha portato l’uomo a cercare delle scappatoie. E oggi alcuni pensano di trovarle attraverso la biotecnologia, con il ricorso alla clonazione. Qualcuno ha affermato che la clonazione lo renderà immortale. È il vecchio desiderio di utilizzare la propria potenza per raggiungere l’onnipotenza nella vittoria sulla contingenza e la temporalità. Non si rende conto che l’eventuale individuo clonato sarebbe un altro Io, simile a lui ma diverso; e che eventualmente quell’altro individuo potrebbe un giorno andare a deporre i fiori sulla sua tomba, per poi continuare a vivere la propria vita, unica e irripetibile. Se riflettiamo in profondità possiamo intuire che non siamo mortali solo di fatto, ma siamo “radicalmente mortali”: abbiamo un profondo e radicale bisogno di morire. Proviamo ad immaginare la nostra vita che si prolunga in questo mondo per 100 anni, 150, 200, 500, 1.000, 10.000 anni... Proviamolo davvero e sperimenteremo una strana angoscia. Abbiamo bi- 80 Gonzalo Miranda sogno di morire! Strano bisogno per uno che esperimenta allo stesso tempo la tendenza a vivere, ad essere. Non sarà che dentro di noi freme, senza che lo sappiamo spiegare, un indecifrabile desiderio di vivere ed esistere in un altro modo, in un altro mondo, fuori dalle condizioni di contingenza e limitatezza di questa nostra terrena esperienza? Forse è questa l’esperienza che ha portato Agostino d’Ippona a confessare: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te» (Confessioni, 1, 1). Comunque sia, si apra o meno la coscienza dell’individuo alla trascendenza, rimane il dato di fatto della sua innata aspirazione all’infinito e l’esperienza universale di una potenza sempre limitata e marcata dal segno dell’impotenza. La tentazione della prepotenza Sull’uomo, potente e impotente, incombe la tentazione della prepotenza. È la tentazione di porre la propria potenza prima o sopra la potenza altrui: prae-potens. A volte, attraverso l’abuso di potere e la sopraffazione. A volte, attraverso il vanto di potere, assumendo un “atteggiamento prepotente”. In fondo, anche qui, la prepotenza nasce spesso dall’impotenza. È la ricerca di dominio che esprime un’insoddisfazione, o il tentativo di fare apparire qualcosa che non c’è. Il prepotente è in fondo un debole che non ha accettato la propria debolezza e limitatezza. Conclusione L’homo technicus sa utilizzare e deve utilizzare le sue capacità, la sua potenza, per migliorare le condizioni proprie e altrui, contribuendo così al progresso di tutti. Con la sua potenza riduce i margini della propria impotenza. Ma è necessario che egli riconosca e accetti la propria realtà e i propri limiti. Solo allora l’homo technicus non sarà in contraddizione con l’homo sapiens e potrà evitare la tentazione della prepotenza. E se riesce anche ad aprirsi alla trascendenza, potrà cogliere meglio il senso della propria fragilità, dei propri limiti e dei propri illimitati desideri. Leopoldo Prieto Antropologia e tecnologia: natura umana e cultura I termini: Natura umana, cultura e tecnica La natura umana Per natura s’intende normalmente in filosofia il principio d’operazione di una cosa qualsiasi. In questo senso, la natura è un principio immanente alla cosa. Se invece di considerare una singola cosa si pone l’attenzione sulla totalità delle cose, risulta allora un’altra accezione di natura (quella in realtà più comune), secondo la quale la natura è l’insieme degli enti fisici dotati di un principio proprio di movimento. La nota di movimento, infatti, è essenziale alla natura. Essa appare già nel termine greco phýsis che procede dall’infinito phyein (e che ha la stessa significazione del latino nascor, da dove natura), e che significa lo svolgimento in forza di un principio interno di una qualsiasi cosa. Se infatti tale svolgimento è effettuato dal di fuori la cosa non appartiene più alla physis, ma alla techne (in latino all’ars). Facciamo ora attenzione a questa espressione: “principio delle operazioni di una qualsiasi cosa”. Abbiamo qui in realtà tre nozioni: principio, operazione e cosa. Metafisicamente parlando, l’articolazione di queste tre nozioni è la seguente: “operazioni → principio → cosa”. Le operazioni sono gli atti secondi (oppure accidenti del tipo azione oppure qualità). La cosa è il soggetto (o, se si vuole, la sostanza) che rende possibili, radicalmente parlando, tali atti secondi od operazioni, così come ci vuole un uomo (sostanza) perché ci sia il pensiero (accidenti). Non c’è infatti il pensiero senza il pensante né il cantare senza il cantante. Ambedue sono gli atti di un soggetto che pensa e che canta, e senza tale soggetto non ci sarebbe né il pensiero né il canto. Il pensiero non ha nessuna realtà al di fuori di un soggetto pensante. Il pensiero è un atto secondo (operativo oppure Professore Ordinario di Storia della Filosofia Moderna, Facoltà di Filosofia e Docente al Corso di Master in Scienza e Fede, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. 82 Leopoldo Prieto accidentale) e il pensante è una sostanza. Infine, il principio è la facoltà (o l’insieme delle facoltà) che rende possibile l’intermittenza degli atti che procedono da una sostanza che è in continuità e la realizzazione di atti che sono discontinui (poiché la sostanza non è sempre in atto di operare). Operari sequitur esse. La struttura “operazioni → principio → cosa” è alla base del vecchio principio filosofico operari sequitur esse. Esso significa fondamentalmente due cose: 1) che senza un soggetto esistente (oppure senza un ente) è impossibile l’operare, oppure che senza l’essere è impossibile l’operare; 2) ma significa anche che il soggetto (o meglio ancora l’ente), essendo di una determinata maniera, imprime questo suo modo di essere alle sue operazioni (“omne agens agit simile sibi”). Inoltre, l’ente agisce sempre in vista di un fine. Infatti, la natura è la fonte metafisica di ogni propensione o tendenza ad agire e gli atti si realizzano sempre in vista di un fine (omne agens agit propter finem). Ma c’è di più. Siccome la natura s’indirizza di per sé verso il fine (per mezzo degli atti), e il fine ha sempre ragione di bene (o di male) (bonum habet rationem finis et finis habet rationem boni), essa è perciò in ultima istanza il criterio radicale di giudizio circa la convenienza dei mezzi adoperati per il raggiungimento del fine. In questo modo, la convenienza secondo la natura dei mezzi adoperati per il raggiungimento del fine è il criterio di moralità (se si tratta di azioni prassiche) o di efficienza tecnica (se si tratta di azioni produttive). Struttura dinamica e struttura costitutiva dell’ente. La struttura di ogni dinamismo quindi è quella di “cosa → principio → operazioni”. Vediamo ora un po’ più in dettaglio la struttura costituiva (oppure estatica) della cosa (l’ente oppure la sostanza). Per dire più nettamente prendiamo la parola ente invece di cosa (la quale in rigore di termini è un principio dell’ente, coincidente con la sua essenza). L’ente, quindi, è un composto di essenza ed essere. L’ente è ciò che è (“ens est id quod est”), come il pensante è ciò o colui che pensa e cantante ciò o colui che canta. L’ente è un composto reale di due principi: l’essenza e l’essere. Ecco allora la struttura composta dell’ente: un soggetto e un atto. Ora in filosofia questo soggetto si chiama essenza e l’atto si chiama essere. Antropologia e tecnologia 83 La natura umana nel piano costitutivo e dinamico. L’ente, quindi, è un composto di essenza ed essere. L’essenza è ciò che una cosa è. L’essere è ciò che rende reale, esistente questa stessa cosa. Ora a noi interessa indicare che l’essenza è quel “principio delle operazioni” del quale abbiamo parlato prima. In tale senso, essenza e natura sono la stessa realtà, ma considerata da differenti punti di vista. La natura dell’uomo come essere tra le cose del mondo. Vediamo ora ciò che nell’uomo è il principio delle sue operazioni, o se si preferisce ciò che appartiene alla sua natura. La natura umana si determina a partire degli atti di conoscenza e di appetito che sono accidenti, i quali per mezzo delle rispettive facoltà, sono inerenti alla sua sostanza. L’uomo, animale razionale. Questa doppia costituzione di atti conferisce alla natura umana un tratto molto caratteristico, quello di essere al contempo sensibile e razionale, o se si vuole materiale e spirituale. L’uomo, infatti, è 84 Leopoldo Prieto allo stesso tempo un essere sensibile e un essere razionale. Vediamo con ciò qual è la natura dell’uomo: quella di un essere sensibile (non c’è nessuna problema nel chiamarlo “animale”) e al contempo razionale (o spirituale). Come dice la famosa formula di Aristotele, l’uomo, infatti, è l’“animale razionale”. La cultura Ma sono in molti a negare la natura umana. Il pensiero contemporaneo in larga misura ha negato l’esistenza della natura umana. Ciò è dovuto a diverse ragioni, la più importante delle quali è la mancanza di fondamenta metafisiche, anzi l’orientamento decisamente antimetafisico di queste correnti filosofiche. Essendo la natura umana una stessa cosa con l’essenza dell’uomo; ed essendo l’essenza un concetto di grande pregnanza metafisica, la filosofia contemporanea non poteva guardarlo di buon occhio. In questa prospettiva contraria all’esistenza della natura umana è pesato anche un nuovo pathos, una nuova sensibilità filosofica che respinge nell’analisi dell’uomo ogni dimensione o aspetto oggettivo e comune a tutti gli uomini (cf. Buber, Groethuysen, ecc.). Alla ricerca di un surrogato della natura umana: “condizione umana”, “storia umana”, “libertà umana”, “esistenza umana”. Ebbene, nonostante la natura dell’uomo consista nel cercare la verità e tendere verso il bene (secondo il particolare modo bipolare sensibile e razionale), non pochi, come abbiamo detto, negano che l’uomo abbia una tale natura. Infatti, un’opinione tanto diffusa quanto erronea afferma che l’uomo non ha natura. Questo è uno degli elementi più ricorrenti nelle antropologie del XX secolo, che potrebbero nella grande maggioranza essere caratterizzate dallo sforzo nel cercare un surrogato della nozione di natura umana. Per alcuni, infatti, il concetto natura umana è sostituito da quello meno metafisico di “condizione umana” (Martin Buber, Bernhard Groethuysen, Hannah Arendt, ecc.). Ma sorge spontaneo domandarsi quale nuovo senso aggiunge il termine di condizione umana e in che differisce dal classico di natura umana. Non è forse solo una sfumatura personalista aggiunta alle condizioni ‘avverse’ dell’esistenza umana? Altri preferiscono sostituire il concetto di natura umana con quello di “storia umana”. Fra questi troviamo Heidegger, Ortega y Gasset, Cassirer e, in parte anche la Arendt. A questi si può chiedere: come si può parlare di storia umana senza una sostanza che la renda possibile? Il concetto di storia è impossibile, come più ampliamente quello di movimento, senza quello di sostanza. Altri, infine sostituiscono il concetto di natura umana con quello di “libertà umana”. Qui sono da annoverare fondamentalmente gli esistenzialisti, e molto particolarmente, Sartre. In realtà, queste affermazioni dell’inesistenza Antropologia e tecnologia 85 della natura umana sono – a quanto modestamente mi sembra – tentativi teoreticamente deboli e chiaramente insufficienti. Ad ogni cosa, o ente, o come lo si voglia chiamare, che esiste, si accompagna necessariamente un certo modo di essere che, se colto dalla definizione, lo chiamiamo essenza, e se colto dalla sua attività lo chiamiamo natura. Non è possibile che un qualcosa di reale o di esistente non abbia alcun modo concreto di essere reale. E questo è la natura ovvero l’essenza. Dobbiamo imparare a distinguere, nella filosofia, ciò che è ragionamento, argomento, ecc. da ciò che si dice mosso dal pathos del tempo (da questo, infatti, non erano per nulla privi gli esistenzialisti, ad esempio) o persino dalla moda. Il “buon senso” di Umberto Eco. Umberto Eco, in un articolo giornalistico intitolato La forza del senso comune, ha ribadito che per il senso comune, come pure per un sano realismo, seppure minimalista come quello che lui professa, è evidente che “le cose vanno in un certo modo”, o il che è lo stesso, che hanno una propria natura, e che, quindi, ci sono delle “leggi di natura”. Dunque, penso che un buon illuminista [con ciò intende dire adesso un uomo di buon senso] sia qualcuno che crede che le cose ‘vadano in un certo modo’. Questo realismo minimalista è stato recentemente riaffermato da Searle, che non le dice tutte giuste, ma ogni tanto ha delle idee limpide e ragionevoli. Dire che la realtà va in un certo modo non significa dire che possiamo conoscerla o che un giorno la conosceremo. Ma anche se non la conoscessimo mai, le cose andrebbero così e non altrimenti. Persino chi coltivasse l’idea che le cose vanno oggi in un modo e domani nell’altro, e cioè che il mondo è bizzarro, caotico, mutevole, e passa da una legge all’altra in barba a metafisici e cosmologi, ammetterebbe che questa capricciosa mutevolezza del mondo è proprio il modo in cui vanno le cose. E quindi vale la pena di continuare a proporre delle descrizioni di queste maledettissime cose. Una volta dicevo a Vattimo che ci sono forse delle leggi di natura, visto che se incrociamo un cane con un cane ne nasce un cane, ma se incrociamo un cane con un gatto o non nasce niente o nasce qualcosa che non desidereremmo vederci girare per casa. Vattimo mi rispondeva che oggi l’ingegneria genetica riesce persino ad alterare le leggi che governano le specie. Appunto, gli rispondevo, se per incrociare un cane con un gatto ci vuole un’ingegneria (e cioè un’arte) questo significa che esiste da qualche parte una natura su cui quest’arte artificiosamente si esercita1. Conseguenza del rifiuto della natura umana è limitare lo studio sull’uomo al suo agire. In questo modo è venuto meno nella filosofia contemporanea il concetto di natura umana. Ora, siccome secondo questo tipo di analisi l’uo- 1 U. ECO, «La forza del senso comune», La Repubblica, (31 dicembre, 2000). 86 Leopoldo Prieto mo non avrebbe più un modo comune di essere uomo, cioè non ci sarebbe più una comune natura umana, all’antropologia ormai resterebbe soltanto un’esigua porzione nel suo studio sull’uomo: il suo agire. Venuto meno l’essere umano, l’antropologia si è dovuta rifugiare nell’ambito del suo agire. E come l’insieme degli atti degli uomini è ciò che si chiama cultura, allora la “cultura umana” (meglio le culture umane) ha rimpiazzato la “natura umana”. Ecco la ragione di fondo del discorso imperante sull’incommensurabilità tra le diverse culture. Solo la natura umana infatti è in grado di fornire criteri di giudizio sull’agire umano. In mancanza di essa, le culture diventano delle isole incomunicate, eterogenee, inaccessibili ad ogni forma di discorso extraculturale. Persino la traduzione di testi provenienti da diverse culture diventa impossibile. Due sensi fondamentali del termine cultura. Bisogna chiarire ancora con più precisione il significato del termine cultura. Esso ha due significazioni fondamentali: a) il primo e più antico significato del termine cultura significa la formazione dell’uomo, il suo migliorarsi e rendersi più nobile (cioè più umano). Questo senso corrisponde a ciò che i greci chiamarono paideia e i latini humanitas: l’educazione dell’uomo come tale, dovuta a quelle “buone arti” (come sono la poesia, l’eloquenza e la filosofia) che sono proprie soltanto dell’uomo e lo distinguono degli animali. La cultura, in questo senso venerando del termine, è in definitiva la ricerca e la realizzazione che l’uomo fa su ciò che egli è (in forza naturalmente della sua specifica natura). La realizzazione di questo ideale aveva fondamentalmente due dimensioni: il coltivare la filosofia (nella quale venivano incluse tutte le forme di ricerca e analisi razionale del reale, poiché ancora tutte le scienze particolari appartenevano alla filosofia) e la sua messa in pratica nella vita sociale e politica. b) Nel secondo senso, cultura (questo è il senso oggi più usato, soprattutto al plurale) è l’insieme dei modi di vita dei membri di una determinata società, senza riferimento ai valori verso i quali questi tipi di agire sono orientati. Cultura, in tale senso, si usa tanto per designare la civiltà più progredita come le forme di vita sociale più rozze ed elementari. Una sinfonia di Beethoven e un rito magico di un popolo selvaggio hanno lo stesso statuto e valore dinanzi a questo senso del termine cultura. Secondo Malinowski, «la cultura è un insieme integrale di istituzioni che tende a soddisfare l’intero rango dei bisogni fondamentali di un gruppo sociale»2. Per Coon la cultura è la somma totale delle cose che la gente fa 2 B. MALINOWSKI, Teoria scientifica della cultura e altri saggi, Feltrinelli, Milano 1962, 44. Antropologia e tecnologia 87 come risultato del fatto che sono state ad essa insegnate così3. In questo modo i tratti caratteristici di questo secondo significato di cultura sono: il carattere totale, ma non sistematico della cultura come risposta ai bisogni fondamentale di un gruppo umano, la diversità dei modi in cui le varie culture rispondono a tali bisogni, e il carattere di appreso o trasmesso della cultura. La tecnica L’interesse degli antichi per la tecnica. Il terzo dei concetti che dobbiamo analizzare è il concetto di tecnica. Non si creda che l’analisi filosofica sulla tecnica sia un qualcosa di recente. La filosofia, sin dai greci, si è interessata a questa forma di sapere che è la tecnica. Sinonimo del termine latino ars, la tecnica (techne) è per Aristotele la forma di sapere connessa ad ogni attività produttiva o poietica. In greco produzione si dice poiesis. La poíesis, a differenza della praxis (che è quella forma di operare le cui azioni sono immanenti al soggetto agente, e che è regolata dal sapere pratico chiamato phronesis), è un’attività di natura transitiva (cioè un’attività nella quale gli atti si dirigono al di fuori di lui, del soggetto agente e finiscono in un ergon (oppure in un factum), regolata dal sapere chiamato infatti tecnica. I romani chiamarono prudenza e tecnica queste due forme di sapere: la prudenza come recta ratio agibilium (che si svolge nel campo della morale) e la tecnica come recta ratio factibilium (che domina l’ambito della produzione). 3 Cf. C.S. COON, The Story of Man, A. Knopf, New York 1954. Leopoldo Prieto 88 Autori in confronto Alcuni suggerimenti dei filosofi classici sulla tecnica (Platone, Aristotele, San Tommaso d’Aquino e Kant) a) PLATONE: Il “sapere tecnico” (éntechnos sophìa) fu trasmesso agli uomini da Prometeo, imbarazzato alla vista della penuria e scarsità organiche con le quali Epimeteo li aveva dotati (Protagora, 320c-322b) Tempo vi fu in cui esistevano gli dèi, ma non le stirpi mortali. Poi che giunse anche per le stirpi mortali il momento fatale della loro nascita, gli dei ne fanno il calco in seno alla terra mescolando terra e fuoco e tutti quegli elementi che si compongono di terra e di fuoco. Ma nell’atto in cui stavano per trarre alla luce quelle stirpi, ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di distribuire a ciascuno facoltà naturali in modo conveniente. Epimeteo chiede a Prometeo che spetti a lui la cura della distribuzione: «E quando avrò compiuto la mia distribuzione – dice – tu controllerai». E così, avendolo persuaso, si pone a distribuire. Ora, nel compiere la sua distribuzione, ad alcuni assegnava forza senza velocità, mentre forniva di velocità i più deboli; alcuni armava, mentre per altri che rendeva per natura inermi, escogitava qualche altro mezzo di salvezza. A quegli esseri che rinchiudeva in un piccolo corpo, assegnava ali per fuggire o sotterranea dimora; quelli che, invece, dotava di grande dimensione, proprio con questo li salvaguardava. E così distribuiva tutto il resto, sì che tutto fosse in equilibrio. Ed escogitò tale principio preoccupandosi che una qualche stirpe non dovesse estinguersi. Dopo che li ebbe provvisti di mezzi per sfuggire alle reciproche distruzioni, escogitò anche agevoli modi per proteggerli dalle intemperie delle stagioni di Zeus: li avvolse, così, di folti peli e di dure pelli, che bastavano a difendere dal freddo, ma che sono anche capaci di proteggere dal caldo e tali inoltre da essere adatti quali naturale e propria coperta a ciascuno, quando avessero bisogno di dormire. E sotto i piedi ad alcuni dette zoccoli, ad altri unghie e pelli dure prive di sangue; ad alcuni procurava un tipo di alimento, ad altri un altro tipo; ad alcuni erba della terra, ad altri frutti degli alberi, ad altri ancora radici; ad alcuni poi dette come cibo la carne di altri animali, ma a questi concesse scarsa prolificità, mentre a quelli mancava compiuta sapienza; aveva consumato, senza accorgersene, tutte le facoltà naturali in favore degli esseri privi di ragione: gli rimaneva ancora da dotare il genere umano e non sapeva davvero cosa fare per trarsi di imbarazzo. Proprio mentre si trovava in tale imbarazzo sopraggiunse Prometeo a controllare la distribuzione; vide che tutti gli altri esseri viventi armoniosamente possedevano di tutto, e che invece l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi: era oramai imminente il giorno fatale, giorno in cui anche l’uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Prometeo allora, trovandosi appunto in grande imbarazzo per la salvezza dell’uomo, rubò a Efesto e ad Atena il sapere tecnico [éntechnos sophìa], insieme con il fuoco – ché senza il fuoco sarebbe stato impossibile acquistarlo o servirsene e così ne fece dono all’uomo. L’uomo, dunque, ebbe in tal modo la scienza della vita, ma non aveva ancora la scienza politica: essa si trovava presso Zeus; né più era concesso a Prometeo Antropologia e tecnologia 89 di andare nell’acropoli, ov’è la dimora di Zeus (e davvero temibili erano, per di più, le guardie di Zeus); riesce, invece, a penetrare di nascosto nella comune dimora di Atena e di Efesto dove essi lavoravano insieme, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e l’altra propria di Atena, le dona all’uomo, che con quelle si procurò le agiatezze della vita. Solo che, come si narra, più tardi Prometeo dovette, a causa di Epimeteo, pagare la pena del furto. Come dunque l’uomo fu partecipe di sorte divina, innanzi tutto per la sua parentela con la divinità, unico tra gli esseri viventi, credette negli dèi, e si mise ad erigere altari e sacre statue; poi, usando l’arte, articolò ben presto la voce in parole e inventò case, vesti, calzari, giacigli e il nutrimento che ci dà la terra4. b) ARISTOTELE: La tecnica come l’operato congiunto della mano e la ragione. La mano come strumento degli strumenti (strumento astratto) ad uso dell’intelligenza dell’uomo, un essere biologicamente peculiare La mano umana [687a] Si è dunque detto per quale causa alcuni animali abbiano due piedi, altri molti, altri ancora nessuno, per quale causa i viventi risultino gli uni vegetali, gli altri animali, e infine perché l’uomo soltanto fra tutti gli animali abbia posizione eretta. Stando naturalmente in posizione eretta, non ha alcun bisogno di gambe anteriori, e invece di esse la natura lo ha provvisto di braccia e di mani. Ora, Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’aver mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti uno strumento, e la natura, come farebbe una persona intelligente, attribuisce sempre ciascuno di essi a chi può servirsene; giacché è più conveniente dare flauti a chi è già flautista, che non attribuire l’arte del flauto a chi possiede flauti. La natura attribuisce ciò che è minore a ciò che è maggiore e più importante, non il più nobile e il maggiore al minore. Se dunque questa è la via migliore, e la natura nel campo delle possibilità realizza quella migliore, allora non è che l’uomo sia il più intelligente grazie alle mani, ma ha le mani grazie all’esser il più intelligente degli animali. E il più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; ora la mano sembra costituire non uno ma più strumenti: in un certo senso essa è uno strumento preposto ad altri strumenti. A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. Analisi della mano (687 b 1-27) Quanto a coloro che sostengono che l’uomo non è costituito bene, anzi peggio di tutti gli altri animali (dicono infatti che non ha protezione per i piedi, è nudo e sprovvisto di armi da combattimento), il loro discorso non è corretto. Gli altri animali hanno un solo mezzo di difesa, e non è loro concesso di sostituirlo con un altro, anzi devono dormire e fare qualsiasi altra cosa tenendo sempre, per così dire, le scarpe ai piedi, cioè 4 PLATONE, Protagora, 320c-322 b. (Il corsivo è mio) 90 Leopoldo Prieto senza deporre la corazza che hanno sul corpo, né possono cambiare l’arma che gli è toccata in sorte. All’uomo, invece, sono concessi molti mezzi di difesa, ed egli può sempre mutarli, adottando inoltre l’arma che vuole e quando la vuole. La mano infatti può diventare artiglio, chela, corno, o anche lancia, spada e ogni altra arma o strumento: tutto ciò può essere perché tutto può afferrare e impugnare. Anche la forma della mano è stata dalla natura congegnata in questo senso. Essa è articolabile e divisa in più parti, perché nella divisione è implicita anche la capacità di coesione, mentre la prima non è implicita nella seconda. Ed è possibile servirsene come di un sol organo, di due o di molti. Inoltre le articolazioni delle dita sono perfettamente adatte alla presa e alla pressione. Un dito, corto e grosso anziché lungo, è sito lateralmente; se questo dito non fosse posto lateralmente, la presa non sarebbe possibile, tanto quanto non lo sarebbe se non vi fosse affatto la mano. Esso infatti esercita dal basso in alto quella pressione, che le altre dita esercitano dall’alto in basso: e proprio così dev’essere, se il pollice ha da stringere fortemente come una forte morsa, in modo da eguagliare da solo la pressione delle altre dita. Ed è corto perché sia forte e perché a nulla servirebbe una sua maggiore lunghezza. Anche l’ultimo dito, correttamente, è corto, mentre il medio è lungo come il remo centrale nelle navi, perché è soprattutto necessario che gli oggetti che vengono presi per servirsene siano tenuti stretti all’altezza della loro circonferenza centrale. Perciò il pollice vien detto ‘il dito grande’, pur essendo corto, giacché gli altri sarebbero praticamente inutili senza di esso. Anche l’assetto delle unghie è stato ben congegnato. Mentre negli altri animali esse sono utilizzate anche per impieghi particolari, negli uomini servono solo da protezione: fungono infatti da tegumento per l’estremità delle dita5. c) TOMMASO D’AQUINO: La ragione astratta e la mano, l’organo degli organi, sono i due mezzi con i quali l’uomo (come essere sociale) può prepararsi strumenti in infiniti modi e per infiniti scopi San Tommaso pone la seguente obiezione sull’anima intellettiva dell’uomo nella Summa Theologiae: «L’anima spirituale è l’anima più perfetta. Ma siccome i corpi degli altri animali possiedono una protezione naturale, cioè pelli invece dei vestiti, e unghie invece di scarpe, oltre alle armi che naturalmente gli sono state date come artigli, denti e corni, sembrerebbe che l’anima spirituale non potrebbe essere unita ad un corpo così imperfetto»6. La risposta a tale obiezione dice: «L’anima 5 ARISTOTELE, Parti degli animali, 687a1-687b27. (Il corsivo è mio) TOMMASO D’AQUINO, st, I q. 76, a. 5, gag 4: «Ed anima intellettiva est perfectissima animarum. Cum igitur aliorum animalium corpora habeant naturaliter insita tegumenta, puta pilorum loco vestium, et unguium loco calceamentorum; habeant etiam arma naturaliter sibi data, sicut ungues, dentes et cornua, ergo videtur quod anima intellectiva non debuerit uniri corpori imperfecto tanquam tali6 Antropologia e tecnologia 91 spirituale, che è comprensiva degli universali, ha una potenza all’infinito. E per questo all’uomo non fu imposto per natura né il suo modo di conoscere né gli ausili delle difese o delle coperture, come, invece, fu fatto con gli altri animali, perché questi avevano un’anima capace soltanto dell’apprensione e della facoltà determinata verso le cose particolare. Ma l’uomo, invece di queste cose, possiede naturalmente la ragione e la mano, che è l’organo degli organi, e mediante questi due mezzi può prepararsi strumenti in infiniti modi e per infiniti scopi»7. Ancora nel De regimine principum (I, 1) viene trattata la stessa questione, ma aggiungendole una prospettiva sociale: «È naturale per l’uomo, essendo egli un animale sociale e politico, vivere in società; anzi, ciò è più necessario ancora all’uomo che agli altri animali, come la natura ci mostra. Per gli altri animali la natura provvede il cibo, la copertura di pelli, armi di difesa quali denti, corni e artigli e anche la velocità di sfuggire con prestezza. All’uomo, invece, non gli è stato concesso nessuno di questi mezzi, ma in compenso gli è stata data la ragione, con la quale, aggiunta la collaborazione delle mani, può prepararsi tutti i mezzi necessari, ma per compiere ciò non è sufficiente il singolo uomo. È naturale, quindi, all’uomo associarsi e vivere in società»8. d) KANT: La Ragione ha concesso all’uomo l’intelligenza e lo ha trattato con estrema parsimonia nell’elargizione dei mezzi fisici, negandogli anche gli istinti Leggiamo nell’opuscolo kantiano intitolato Idee per una storia universale in senso cosmopolita (1784): «L’uomo si vide costretto a procurarsi e produrre tutto da solo. Il trovare i suoi mezzi di sussistenza, il luogo di rifugio e ciò che gli proporziona sicurezza e difesa (per cui non è dotato né dei corni come il toro, né degli artigli come il leone, né della dentatura come il cane, ma soltanto delle sue mani); tutte le cose piace- bus auxiliis privato». STh, I, q.76, a.5, ad 4: «Dicendum quod anima intellectiva, quia est universalium comprehensiva, habet virtutem ad infinita. Et ideo non potuerunt sibi determinari a natura vel determinatae existimationes naturales, vel etiam determinata auxilia vel defensionum vel tegumentorum; sicut aliis animalibus, quorum animae habent apprehensionem et virtutem ad aliqua particularia determinata. Sed loco horum omnium, homo habet naturaliter rationem, et manus, quae sunt organa organorum, quia per eas homo potest sibi praeparare instrumenta infinitorum modorum, et ad infinitos effectus». (Il corsivo è mio) 8 TOMMASO D’AQUINO, De regimine principum, I, 1: «Naturale autem est homini ut sit animal sociale et politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat. Aliis enim animalibus natura praeparavit cibum, tegumenta pilorum, defensionem, ut dentes, cornua, ungues, vel saltem velocitatem ad fugam. Homo autem institutus est nullo horum sibi a natura praeparato, sed loco omnium data est ei ratio, per quam sibi haec omnia officio manuum posset praeparare, ad quae omnia praeparanda unus homo non sufficit. Nam unus homo per se sufficienter vitam transigere non posset. Est igitur homini naturale quod in societate multorum vivat». (Il corsivo è mio) 7 Leopoldo Prieto 92 voli, e persino l’intelletto e la prudenza e la volontà stessa dovranno essere pienamente opera sua. Sembra addirittura che la natura si sia ecceduta nell’aver dato all’uomo i mezzi di sussistenza così scarsamente e di aver misurato tanto strettamente gli attrezzi di tipo animale che pare abbia voluto che l’uomo passasse alla massima abilità, all’interna perfezione dell’arte di pensare e, in quanto è possibile nella terra, alla felicità, soltanto grazie ai suoi meriti»9. Arnold Gehlen e la tecnica Arnold Gehlen è un autore che ha proposto un’interessante spiegazione sulla natura della tecnica. Senza ignorare le limitazioni di fondo del suo pensiero, è necessario riconoscere che l’opera di Gehlen deve essere considerata uno dei maggiori sforzi compiuti nel secolo XX per elaborare un’antropologia filosofica unitaria, caratterizzata dalla vicendevole implicazione di corpo ed anima umani nell’essere e nell’operare umani. Le carenze dell’uomo: primitivismi morfologici e mancanza di istinti. Gehlen considera innanzitutto l’uomo come un “essere attivo” (handelndes Wesen) per necessità. In questa concezione, pur riconoscendo la parte di verità che essa contiene, si nasconde anche un certo pregiudizio caratteristico da Gehlen, il quale ha orientato la sua filosofia verso il vitalismo ed il pragmatismo e che avrà effetti negativi in diversi aspetti della sua opera, particolarmente nel modo di concepire la verità e la volontà. L’uomo è per 9 Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, VIII, 19-20: «Die Natur thut nämlich nichts überflüssig und ist im Gebrauche der Mittel zu ihren Zwecken nicht verschwenderisch. Da sie dem Menschen Vernunft und darauf sich gründende Freiheit des Willens gab, so war das schon eine klare Anzeige ihrer Absicht in Ansehung seiner Ausstattung. Er sollte nämlich nun nicht durch Instinct geleitet, oder durch anerschaffene Kenntniß versorgt und unterrichtet sein; er sollte vielmehr alles aus sich selbst herausbringen. Die Erfindung seiner Nahrungsmittel, seiner Bedeckung, seiner äußeren Sicherheit und Vertheidigung (wozu sie ihm weder die Hörner des Stiers, noch die Klauen des Löwen, noch das Gebiß des Hundes, sondern bloß Hände gab), alle Ergötzlichkeit, die das Leben angenehm machen kann, selbst seine Einsicht und Klugheit und sogar die Gutartigkeit seines Willens sollten gänzlich sein eigen Werk sein. Sie scheint sich hier in ihrer größten Sparsamkeit selbst gefallen zu haben und ihre thierische Ausstattung //20// so knapp, so genau auf das höchste Bedürfniß einer anfänglichen Existenz abgemessen zu haben, als wollte sie: der Mensch sollte, wenn er sich aus der größten Rohigkeit dereinst zur größten Geschicklichkeit, innerer Vollkommenheit der Denkungsart und (so viel es auf Erden möglich ist) dadurch zur Glückseligkeit empor gearbeitet haben würde, hievon das Verdienst ganz allein haben und es sich selbst nur verdanken dürfen». (Il corsivo è mio) Antropologia e tecnologia 93 Gehlen un “essere attivo”, un essere strutturalmente determinato all’azione, perché solo mediante l’azione rimedia alle carenze biologiche che caratterizzano la sua costituzione biologica. L’uomo, pertanto, è un essere destinato all’azione perché prima è un “essere di carenze” (Mängelwesen). Le carenze nell’uomo procedono dalla mancanza di specializzazione biologica. L’uomo è un essere biologicamente deficitario che deve mettere in atto la sua complessa interiorità per sussistere (soprattutto fantasia, pensiero e linguaggio). La deficiente dotazione biologica dell’uomo, se si confronta con quella degli altri animali, non è solo di indole morfologica, che chiama primitivismi (intesi questi come la mancanza di adattamento morfologico al medio ambiente), ma anche di tipo funzionale. L’uomo è un “essere senza istinti” (Instinktlos). La mancanza umana di istinti e la necessità di istituzioni. Da questa assenza di istinti proviene per l’uomo secondo Gehlen la necessità di forgiarsi delle istituzioni (e in definitiva di dare origine alla cultura) che gli procurino una stabilità di vita che la natura gli ha negato. D’altra parte, la carenza di istinti è in rapporto con l’assenza nell’uomo dei “filtri istintivi” che negli animali selezionano l’informazione di “interesse” biologico, cioè di valore per la loro vita. Ora, da questa assenza di “filtri istintivi” nasce l’esuberanza, anzi il sovraccarico e l’“inondazione” (Überfluß) di informazione e di impulsi disordinati che l’uomo deve semplificare per rendere più sopportabile la sua vita. Tale semplificazione riceve nella sua antropologia il nome di “funzione di esonero” o di “scarico” (Entlastung). Ma se l’uomo è un essere biologicamente precario, grazie al suo carattere eminentemente attivo è capace di trasformare la natura a suo proprio vantaggio, creando un ambito di vita nel quale, come una seconda natura, può vivere umanamente. È l’ambito della cultura, nel quale la disciplina, la morale e le istituzioni incanalano, contengono e danno stabilità alla grande quantità di impulsi, al poderoso potenziale pulsionale che, data l’universale apertura della natura umana al mondo, grava su di lui, minacciandolo continuamente di distruzione. La carenza di istinti e la sovrabbondanza di pulsioni fanno dell’uomo, infine, un essere altamente instabile ed esposto alla tensione e fatica nervose. Perciò, la disciplina, la cultura e la morale sono alla lunga – pensa Gehlen – condizioni indispensabili perfino per la salute nervosa dell’uomo. 94 Leopoldo Prieto Tecnica e istituzioni: la risposta dell’uomo alle costitutive mancanze della sua natura. La tecnica, secondo Gehlen. Quindi se alla carenza di istinti l’uomo risponde con la reazione delle istituzioni culturali, alla mancanza di specializzazione biologica l’uomo fa fronte mediante la tecnica. La tecnica, infatti, è l’artificio del quale si avvale l’uomo per la trasformazione e l’utilizzazione più efficace e vantaggiosa della natura data la sua penuria morfologica. In questo senso la tecnica è qualcosa di connaturale ad un essere attivo che deve operare per sussistere. «La questione della tecnica è la questione stessa dell’uomo», dice Gehlen. Dunque, la tecnica è per l’uomo una necessità inscritta nella sua stessa natura. L’uomo si serve di essa per supplire alle condizioni deficitarie che sono la caratteristica saliente della sua esistenza fisica. Dice Gehlen: «Se per tecnica si capiscono le capacità ed i mezzi coi quali l’uomo mette la natura al suo servizio (quando egli ha conosciuto le sue proprietà e le sue leggi) e ne approfitta di essa, allora in un senso generale la tecnica è qualcosa di essenziale alla natura dell’uomo»10. Martin Heidegger e la “questione sulla tecnica” Nell’opinione di Heidegger la tecnica è la manifestazione moderna di una metafisica improntata al dominio, al controllo, e al calcolo degli enti. Anche se la riflessione sulla tecnica è nella sua maggior parte di origine moderna, tuttavia le radici più profonde del pensiero calcolante (sul quale si fondano sia la scienza sia la tecnica moderne) risalgono alle origini del pensiero greco e al suo destino di dimenticanza dell’apertura dell’essere, per pensare gli enti e le ragioni delle loro rappresentazioni. In Was heisst denken si può leggere: «Se l’essere dell’ente non si imponesse già nel senso della presenza di ciò che è presente, allora l’essente non avrebbe potuto apparire come ciò che è oggettivo, come oggettività degli oggetti per essere in quanto oggettivamente rappresentabile e producibile in questo modo, fatto oggetto di quel porre e disporre della natura che si propongono incessantemente di 10 Die Seele in technischen Zeitalter, Hamburg 1937; trad. it. L’uomo nell’era della tecnica, Milano 1984, 12. Antropologia e tecnologia 95 compilare un inventario delle risorse che da essa sono ricavabili. Questo atteggiamento nei confronti della natura, intensa come patrimonio di risorse, deriva dall’essenza nascosta della tecnica moderna»11. Ora, nonostante la tecnica moderna sia un disvelamento, esso non è un produrre nel senso della ποίεσις, ma una pro-vocazione (heraus-forderung), che vuole costringere la natura a fornire energia da estrarre e da accumulare12. Presentiamo ora una sintesi della dottrina sulla tecnica presa da La questione sulla tecnica. La tecnica è un’attività dell’uomo diretta alla produzione e all’uso di strumenti e mezzi per i suoi scopi. Il carattere strumentale della tecnica tuttavia – pensa Heidegger – non ci manifesta ancora l’essenza profonda della tecnica. «L’esatta definizione strumentale della tecnica non ci mostra ancora, perciò, la sua essenza. Per poter raggiungere tale essenza, o almeno arrivare nella sua vicinanza, dobbiamo cercare, attraverso e oltre l’esatto, il vero. Dobbiamo domandarci: che cos’è la strumentalità in se stessa?»13. Quindi, bisogna porsi esplicitamente la domanda sulla strumentalità. Ora, a tale domanda Heidegger risponde che la strumentalità è la stessa cosa della causalità. Perciò, la domanda precedente ci rinvia a porci la domanda sulla causalità. Che cosa è la causalità? Ebbene secondo Heidegger la causalità è la disposizione di una qualche cosa a produrre dei risultati, degli effetti. «Da lunga data si usa rappresentarsi la causa come ciò che opera. Operare [wirken] significa in tal caso produrre dei risultati, degli effetti. La causa efficiens, una delle quattro cause, diventa così il modello per definire ogni causalità»14. Ma produrre degli effetti è far sì che qualcosa avvenga. Heidegger chiama “esser-responsabile” a ciò che fa che un’altra cosa avvenga o accada. «Causa, casus è connesso al verbo cadere [ac-cadere] e significa ciò che fa sì che qualcosa, nel suo risultato, riesca, ac-cada in questo o quel modo [...]. Ciò che noi chiamiamo causa, e che si chiama causa per i romani, si chiama, per i greci, aition, ossia ciò che è responsabile di qualcos’altro [ein an- 11 Was heisst denken, Tübingen 1954, tr. it. UGAZIO-VATTIMO, Che cosa significa pensare, Milano 1971, 104-105. 12 Tutti i testi ora riportati sono affermazioni letterali di Heidegger. La paginazione indicata alla fine delle citazioni corrisponde all’edizione italiana della raccolta «La questione della tecnica» (abbreviata QT) in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991. La questione della tecnica corrisponde a una conferenza tenuta a Monaco di Baviera (1953) nella Technische Hochschule di Monaco di Baviera in un ciclo di conferenze dal titolo “Le arti nell’età della tecnica”, organizzata dalla Accademia bavarese delle Belle Arti. 13 QT, 6. 14 QT, 8. 96 Leopoldo Prieto deres verschuldet]»15. Causa è ciò che è responsabile di qualcos’altro. Ma dobbiamo ancora domandarci in che cosa consista, insomma, questo esser responsabile? La causalità, l’essere-responsabile è rendere possibile l’essere-dinanzi, l’essere-disponibile dell’oggetto. L’essere-dinanzi e l’essere disponibile sono le note che caratterizzano la presenza di una cosa. Pertanto, causalità è portare dalla non presenza alla presenza. E proprio questo è la produzione. «L’essere-dinnanzi e l’essere-possibile caratterizzano la presenza di una cosa presente [das Anwesen eines Anwesendes]. I quattro modi dell’esser responsabile portano qualcosa all’apparire. Fanno sì che questo qualcosa si avanzi nella presenza»16. La produzione è un far avvenire ciò che dalla non presenza si avanza nella presenza. La produzione quindi conduce dal nascondimento alla disvelatezza e alla presenza. Perciò possiamo dire che la tecnica è, in quanto produzione, una modalità della verità, di quella heideggeriana alétheia che altro non è che portare qualcosa allo stato di svelatezza e di presenzialità. La tecnica quindi è uno dei modi del disvelamento nel quale consiste la verità. «La tecnica è un modo del disvelamento, cioè della verità»17. «La techne è un modo dello alétheuein. Essa disvela ciò che non si produce da se stesso e che ancora non sta davanti a noi»18. Che cosa è la tecnica moderna? Essa è disvelamento, ma non disvelamento come semplice produzione (poiesis), ma come pro-vocazione (heraus-forderung) della natura affinché essa fornisca energia e materiali da accumulare19. «Ma questo non vale per l’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sì spinte dal vento, e rimangono dipendenti dal suo soffio [...] La terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali. In modo diverso appare il terreno che un tempo il contadino coltivava, quando coltivare voleva dire ancora accudire e curare. L’opera del contadino non pro-voca la terra del campo. Nel seminare il grano essa affida le sementi alle forze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo»20. Perciò, conclude Heidegger, l’essenza della tecnica sta nella provocazione, nell’imposizione che costringe la natura a diventare un solo fondo di approvvigionamento di materiali da rielaborare e trasformare. In questo modo l’imposizione provocante si manifesta come disvelamento, ma al tempo stesso nasconde il disvelamento come tale, cioè la verità. L’imposizione della tecnica maschera il risplendere della verità. 15 QT, 7. QT, 9. 17 QT, 10. 18 QT, 10. 19 Cf. QT, 10. 20 QT, 11. 16 Antropologia e tecnologia 97 Conclusioni Natura umana “e” cultura: rapporto di complementarietà, non di esclusione Prima di tutto si deve dire che il titolo di questo saggio (“Antropologia e tecnica: natura umana e cultura”) non presenta il rapporto tra natura umana e cultura in forma di antinomia (natura umana o cultura), ma in forma di complementarietà (natura umana e cultura). Infatti, come abbiamo visto all’inizio, gli atti umani in genere (la cultura) non sarebbero possibili senza il soggetto metafisico (la sostanza) che gli dà realtà. E il soggetto metafisico (l’uomo in questo caso) non può non avere un determinato modo di essere reale, un’essenza o una natura. Quindi, il rapporto tra natura umana e cultura non è di esclusione, bensì di inclusione e di complementarietà. È una questione di logica e di metafisica. Abbiamo accennato prima anche i gravi pericoli (antropologici e culturali) che sorgerebbero (e che, di fatto, sono sorti con il multiculturalismo relativista, progetto ormai impossibile come i recenti accadimenti ci indicano) se si accettasse un rapporto di esclusione o alternativo tra natura e cultura, poiché mancherebbe ogni criterio di giudizio universale e di valutazione morale tra le culture, le quali diventerebbero incommensurabili tra loro e impossibili da essere valutate moralmente. Ciò a sua volta comporterebbe la morte della nozione di civiltà, poiché essa poggia inequivocabilmente sulla nozione di natura umana e sull’evidente superiorità di alcune culture su altre. Significato dell’odierno disagio di fronte alla tecnica L’odierno disagio dinanzi alla tecnica può avere diverse cause. Fra di esse si trova l’ecologia, che domanda un maggiore rispetto verso la natura. Ora, l’ecologia è un sintomo sicuro della fine dell’epoca moderna. È caratteristico dell’epoca moderna il disprezzo della natura, concepita come “pura materia” (semplice estensione), carente di ogni determinazione essenziale, qualitativa e finale proprie. Insomma, la natura diventa per il pensiero moderno un “materiale da trasformare”, “stoffa da modificare”, una sorta di muta plastilina da manipolare universalmente e plasmare da parte dell’uomo, nuovo demiurgo, onnimodo e sovrano configuratore del mondo. In un certo senso, la natura non esiste più a partire dal mondo moderno: essa, spogliata da qualsiasi propensione e attività propria, è diventata l’oggetto inerte sul quale si riversano le operazioni umane. È il meccanicismo, così caratteristico della modernità, nel quale la biologia viene ridotta a fisica, e l’animale (e l’uomo) a macchina. In questo senso, come molto bene ha evidenziato Heidegger, la scienza (dopo la ri- 98 Leopoldo Prieto voluzione scientifica del XVII secolo, che segna il momento della sua nascita) e la tecnica moderne sono nate sotto il segno dell’esaltazione prometeica dell’uomo, concepito come “volontà di potere”. Dietro l’“ego cogito” cartesiano si nasconde l’“ego volo”, che è la sua vera essenza. Classiche sono le parole in tale senso di Cartesio contenute alla fine del Discorso sul metodo, il quale augura uno stato futuro nel quale l’uomo, conosciute e dominate le proprietà di tutti i corpi e sostanze, diventerà “padrone e possessore della natura” (maître et possesseur de la nature), quando per mezzo della “nuova scienza della natura”, a differenza di quella precedente meramente speculativa, egli riuscirà ad impadronirsi dei segreti della costituzione naturale dei corpi21. Anche sulla stessa scia si muove il pensiero di Bacon (e in realtà tutto il pensiero di tutti i moderni) quando afferma che la “nuova scienza” non è più un esercizio di sterile speculazione (come egli considera sia stata la filosofia aristotelica e scolastica), ma potere (Knowledge is power) per dominare e soggiogare la natura e le sue forze. Alla cima dell’edificio della modernità, Kant affermerà nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragione pura che il ricercatore naturale non si pone di fronte alla natura nella veste del docile scolaro che sta a sentire tutto quanto piace al suo maestro, ma in quella ben diversa di un giudice che costringe la natura a rispondere alle sue domande. Così, vedendo la natura unicamente come il riflesso delle azioni dell’uomo su di essa, l’uomo non ha trovato in essa altro che la sua immagine, rotto il rapporto che unisce la natura a Dio. Ma la nascita e il progresso dell’ecologismo manifestano ben chiaramente che questa mentalità moderna è entrata nel suo occaso. Natura umana e tecnica Lo studio responsabile della natura umana può anche dare alla tecnica il suo giusto orientamento. In che senso? La tecnica non è di per sé un qualcosa di intrinsecamente perverso, come alcuni autori sembrano pensare. Abbiamo visto che la tecnica è stata oggetto di riflessione filosofica sin dai tempi di Platone, e che non è un merito esclusivo della filosofia contemporanea. I maggiori filosofi della storia, autori come Platone, Aristotele, San Tommaso, Kant, ecc. la hanno valutata in un modo straordinariamente positivo. Ora, se la tecnica non è di per sé perversa ma buona, essa non è neanche il bene fondamentale dell’uomo (come non poche persone sembra che pensino oggi nella nostra società tecnicamente sofisticata e edonista). La tecnica, infatti, trova il suo posto nell’ambito 21 DESCARTES, Discours de la méthode, AT, VI, 62. Antropologia e tecnologia 99 della strumentalità, vale a dire nell’ambito dei mezzi, e non dei fini. Ora, sapere a rigore quali sono i fini dell’uomo, e quindi che cosa sono invece semplicemente mezzi, è una domanda la cui risposta si deve dare unicamente alla luce della nozione di natura umana. Infatti, la natura è un principio di operazioni, e le operazioni non si compiono che in vista di un fine (omne agens agit propter finem), e il fine non si cerca e si persegue che in quanto un bene. Quindi, la dottrina dei fini dell’uomo è la stessa cosa della dottrina sui beni dell’uomo. Ma la dottrina sui beni dell’uomo è anche la dottrina sulla natura umana. Fini dell’uomo = beni dell’uomo = natura umana Ora, la natura umana conosce tre tipi di beni, secondo la nota classificazione di san Tommaso: beni onesti (bona honesta), beni sensibili (bona delectabilia) e beni utili (bona utilia). Questa classificazione corrisponde a quella di Sant’Agostino che distingue l’uti e il frui. Entro questo quadro dei fini (e di beni), quale è allora il posto della tecnica? È chiaro che la tecnica appartiene all’ambito dei mezzi e non a quello dei fini. Perciò essa non è né buona né cattiva se non in rapporto al fine per il quale venga usata. Ma c’è di più. Essendo la tecnica un bene semplicemente utile, ciò vuol dire che essa non è un autentico bene per l’uomo e che è assurdo aspettarsi da essa ciò che non può dare, e cioè la soddisfazione di quelle dimensioni più profonde (e più umane dell’uomo). È illudersi sperare che la scienza empirica e la tecnica possano risolvere i problemi dell’uomo, poiché i veri problemi dell’uomo non si pongono sul piano dei mezzi, ma su quello dei fini. I problemi tipicamente umani sono quelli del senso e del fine della vita e, di fronte ad essi, la scienza e la tecnica sono completamente impotenti. Guido Traversa L’intelligenza artificiale e la cibernetica viste da un filosofo Il rapporto visione-pensiero Questo mio scritto sul rapporto visione-pensiero intende essere un contributo ad una questione spesso presente nel dibattito attuale relativo all’“intelligenza artificiale”: il rapporto tra questa forma di “intelligenza” e quella “naturale” umana si cimenta non solo con la questione delle facoltà della conoscenza (di solito ricondotte ad una sola in una prospettiva determinista), ma anche con quella del carattere computazionale del pensiero e delle sue espressioni sensibili, come appunto il vedere; in tal senso fare chiarezza sul rapporto vedere-pensare, può essere molto utile per eliminare alcune prospettive deterministiche nell’affrontare le dinamiche cognitive umane. Questione: Se la visione sia semplice Ci chiediamo se (an quaeritur) la visione sia semplice, infatti notiamo che è possibile vedere un oggetto anche senza conoscere nulla dell’oggetto stesso: è possibile avere una visione dell’oggetto prima ed indipendente dalle credenze e dalle conoscenze che abbiamo di esso; infatti percepiamo oggetti senza conoscerne le loro proprietà. Questa dimensione della visione precede i processi del comprendere e ne è, pertanto, indipendente. Il vedere “pre epistemico”, «il cui espletamento è privo di un contenuto positivo di credenza, si contrappone ad un “vedere epistemico”», determinato «da tutte quelle variabili che sono in grado di influenzare ciò che vediamo»1. Professore Ordinario di Storia della Filosofia Contemporanea, Facoltà di Filosofia, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. 1 Cf. F. DRETSKE, Seeing and Knowing, Routledge and Kegan Paul, London, 1969. Guido Traversa 102 Non bisogna trascurare «l’aspetto peculiare che differenzia [il processo visivo] da altri processi cognitivi, l’aspetto per cui parliamo di percezione visiva. Infatti ciò che caratterizza la percezione visiva non sono quelle operazioni mentali, ma il fatto che esse si svolgono mediante il o accompagnate dal vedere. Si può cioè pensare senza vedere». «Perciò il termine ‘percezione visiva’ può avere un’accezione più ristretta e riferirsi soltanto a quella forma di attività conoscitiva – fenomenicamente diversa e logicamente distinguibile da altri modi di conoscere – che nell’uso comune viene chiamata ‘vedere’»2. Ma al contrario (sed contra) vedere è sempre un vedere “che” un oggetto “è”: ha determinate proprietà ed è in un determinato contesto, in altre parole la visione stessa è immediatamente comprensione, “proposizionale”, dell’oggetto, comprensione configurata dalle credenze che noi già abbiamo circa ciò che è o fa l’oggetto stesso, la visione, così, è il supporto percettivo condizionato dalla griglia delle nostre precedenti cognizioni (linguistiche e cognitive) sull’oggetto. «Il contenuto dell’esperienza visiva, come il contenuto della credenza, è sempre equivalente ad un’intera proposizione. L’esperienza visiva semplicemente di un oggetto; deve essere piuttosto un’esperienza che sta succedendo questo o quest’altro. [...] il contenuto di un’esperienza visiva [...] richiede l’esistenza di un intero stato di cose per poter essere soddisfatto: non fa cioè soltanto riferimento a un oggetto»3. La percezione «rappresenta il risultato di un dinamico processo di ricerca volto a fornire l’interpretazione più soddisfacente dei dati disponibili [...]. La percezione di un oggetto è un’ipotesi che viene suggerita e che può essere controllata dai sensi»4. Rispondo (responsio) a) Premessa metodologica per una possibile soluzione dell’opposizione. Di certo se tutto ciò che vediamo fosse un prodotto delle nostre precedenti credenze (linguistiche, di pensiero, cognitive) in qualche modo vedremmo sempre la stessa cosa, o comunque sempre tutto nella medesima scena di senso (tutto sarebbe contenuto nell’identità iniziale). Ugualmen2 Cf. G. KANIZSA, Vedere e pensare, Il Mulino, Bologna 1991, 16-17. Cf. J. R. SEARLE, Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, Milano 1985, 48. 4 Cf. R. GREGORY, Occhio e cervello. La psicologia del vedere, Il Saggiatore, Milano 1979, 6-7. 3 L’intelligenza artificiale e la cibernetica 103 te ritenere che la visione sia immediata, assolutamente distinta dall’insieme organico delle nostre precedenti conoscenze implicherebbe che conosceremmo, in qualche modo, sempre una sola assolutamente ‘distinta’ stessa scena di senso. Nel primo caso il ‘molteplice’ risulterebbe omogeneo perché, pur col variare (contingente o meno) delle credenze, ogni singola percezione mostrerebbe (puntualmente, ossia in modo ‘semplice’) sempre l’insieme delle credenze e conoscenze che ne condizionano la percettibilità. Nel secondo caso, ciascuna percezione, in modo puntuale e semplice, mostrerebbe sempre le caratteristiche pre-epistemiche del vedere; ogni singola percezione apparirebbe come un’unità (identità semplice) irrelata: non si percepirebbero le somiglianze e le dissomiglianze tra percezioni, ogni percezione (di e non che) rimanderebbe solo a se stessa. In entrambi i casi, opposti reciprocamente, si avrebbe un molteplice omogeneo (rispettivamente della comprensione e della visione): un molteplice senza scarti, senza differenze, avente un’unità intrinseca che farebbe di ogni singolo contesto conoscitivo o percettivo (sia a livello individuale, sia a livello della rappresentazione di una determinata collettività culturale) un tutto “incommensurabile” rispetto agli altri possibili contesti. In questo caso il desiderio naturale (la furbizia contadina del ‘salvare capra e cavoli’) diviene una necessità ontologica, cognitiva e pragmatica. La soluzione è quella di argomentare e mostrare i due elementi come antinomici: essi non possono essere capiti se non nella loro relazione, appunto, antinomia, non si escludono reciprocamente, ma richiedono una soluzione che sappia individuare il piano o livello su cui ciascun elemento è funzionale ed ha un ruolo preminente rispetto all’altro elemento. Affrontare il problema della visione implica la necessità di sopportare le sue antinomie interne: a) visione semplice, b) visione complessa. I conflitti sorgono non solo post festum, a teorie o posizioni fatte, grazie al fronteggiarsi reciproco di unitarie, semplici, ‘intere’ posizioni. Al contrario, i conflitti sorgono dalle preesistenti, reali, antinomie interne alle questioni conoscitive (e agli oggetti della conoscenza, che non si sciolgono mai interamente nelle diverse categorie conoscitive), alle questioni morali, sociali, politiche, storiche. Il carattere antinomico presente per gradi diversi nella percezione sensibile (il problema della visione, appunto) è un carattere intrinseco al dato. Il carattere oppositivo (antinomico) chiede di essere, di volta in volta, risolto; esige comunque la responsabilità di una scelta rispetto alla datità non neutrale del fatto da capire. È una ‘illusione’ che un qualcosa di determinato, per essere conosciuto, deve essere isolato e colto nella sua specificità: il mito della semplicità, dell’interezza, dell’unità irrelata prende un elemento e lo separa dagli altri, nega il conflitto, e manda l’elemento che ha separato in circolo con se stesso, in una pura 104 Guido Traversa identità analitica a tipo A=A; poi si confronta con le altre posizioni e “crede” che il conflitto non nasca dal problema stesso, che in qualche modo preesiste alla discussione, ma che sia il risultato del fronteggiarsi di quelle stesse posizioni diverse aventi ciascuna una propria “interezza”: interi incommensurabili tra loro e comunque di certo non aventi un comune problema (o oggetto) di cui rendere conto. L’oggetto non è (e non ha) possibilità indefinite, ma mostra le sue determinate e limitate propensioni, rispetto alle quali si deve esercitare la scelta, sia in ambito conoscitivo, sia in quello dell’agire sociale e politico. b) Una soluzione: l’individuazione di due livelli per i due elementi. Ritengo che non sia possibile trovare né un’assoluta visione semplice (identità analitica), univocamente determinata dalle sole strutture percettive, né una visione completamente determinata dal complesso di conoscenze e credenze dove appare (lo scomparire dell’identità nella distinzione). La questione può allora essere affrontata sul piano del grado di presenza del pensiero nella percezione, e della percezione nel pensiero, assumendo che in alcune percezioni la presenza del pensiero risulta pressoché inessenziale, essendo un elemento non determinante, in altre percezioni tale presenza è, invece, dominante per capire la struttura cognitiva della percezione stessa (ciò che essa stessa fa capire e ciò che si è capito). Per questo possiamo, metodologicamente, abbandonare l’opposizione terminologica pre-epistemico-epistemico, per assumere la relazione tra percezione e pensiero sul piano del grado della riflessione richiesta dalla percezione e del grado di percettibilità richiesto dalle conoscenze o credenze; assunzione resa possibile dal fatto che tanto il percepire, quanto il pensare sono quello che sono per il loro rapporto con l’oggetto, con l’esperienza. Le percezioni visive che, in base ad una capacità valutativa naturale, non invitano a riflettere hanno un carattere eminentemente semplice. Le percezioni visive che invitano, in base ad una capacità valutativa naturale, a riflettere (a ‘capire’ la visione) hanno un carattere eminentemente complesso. La recettività della percezione contiene in sé queste due possibilità mai completamente isolabili, questa opposizione dinamica; su piani diversi ciascuna di queste due propensioni è preminente (dominante rispetto all’altra possibilità). Ciò non vuol dire che una percezione sia un giudizio ‘oscuro e confuso’ che diviene, appunto, in modo continuo e progressivo, ‘chiaro e distinto’ nel vero e proprio giudizio: si tratta invece di mostrare sia la spinta della percezione verso il pensiero (spinta la cui intensità non è forte nello stesso modo in tutte le percezioni), e dunque la presenza di questo in quella, L’intelligenza artificiale e la cibernetica 105 sia la ‘percettibilità’ di un’idea, e non tutte le idee hanno la medesima intensità percettiva. Assumere questa soluzione implica comunque il dover rendere conto non solo del diverso grado di presenza della percezione nel pensiero e del pensiero nella percezione (grado che determina l’eminenza di uno dei due elementi rispetto all’altro), ma si dovrebbe anche individuare il criterio (o i criteri) per stabilire il grado stesso della presenza dei due aspetti. L’individuazione di questi criteri (che in modi differenti i sostenitori delle posizioni apparentemente opposte possono offrire sperimentalmente) è necessaria proprio per riconoscere la composizione reale tra percezione e pensiero. Sei tesi di antropologia filosofica Sei anti-tesi (in forma di quesiti) di intelligenza artificiale È necessario pensare ed esperire la sentenza “agere sequitur esse” rendendosi familiari non più soltanto all’agere o all’esse, ma soprattutto alla dinamica interna al sequitur. Nella intelligenza artificiale è possibile porre la questione del sequitur? O tutto ciò che consegue da una data base materiale artificiale è assolutamente identica a questa e dunque epistemologicamente indistinguibile? La molteplicità delle azioni – in quanto umane e perciò in base alla distinzione tra atti dell’uomo ed atti umani – è una molteplicità in sé disomogenea; che per essere capita, come tale, necessita di un modello di universalità che mantenga la reale distinzione e disomogeneità tra le singole azioni. La molteplicità degli stati e/o funzioni di una data base materiale artificiale può produrre una molteplicità di stati intrinsecamente diversi tra loro in senso qualitativo? La necessità di una simile universalità (concetto, Ciò che una data base materiale artificiale trasmetlegge, forma) deriva non solo dal piano gnoseo- te o mostra può essere distinto da questa stessa? logico, ma è originata principalmente dalla stessa struttura ontologica dell’esse dell’uomo; struttura che si trasmette e si mostra nel suo agire. L’identità ontologica dell’esse dell’uomo è la fon- L’identità ontologica di una data base materiale arte di un agire in sé disomogeneo perché è un’i- tificiale può contenere in sé una qualche forma di dentità non analitica (A=A), che non contiene distinzione? E se sì, quale? tutti i suoi predicati – accidenti – in sé come semplici modi; al contrario è un’identità in sé bipolare, un’identità che è l’unità di due principi: l’essenza e l’atto d’essere. L’uomo fa esperienza del carattere di non asso- A partire da una data base materiale artificiale cosa luta identità del proprio esse (e delle sue due può essere oggetto d’esperienza non immediato componenti ontologiche) non direttamente ma (nel senso che necessità di mediazioni?) soprattutto nell’agere, in quanto reale molteplicità di azioni tra loro disomogenee. Una metafisica degli accidenti – degli atti secondi – mostra la fisionomia di un particolare habitus, quello del ‘permanere’ dinamicamente nel sequitur, quale legame tra le azioni e la propria origine e rende abili al capire le somiglianze e le dissomiglianze tra le azioni, abili all’analogia entis. A partire da una data base materiale artificiale quale ambito d’esperienza può essere colto seguendo un modello di comprensione basato sulla analogia? E di quale tipo di analogia si tratterebbe (solo formale o in qualche modo sostanziale?) Mario Palmaro I soggetti non-umani sono titolari di diritti? Anno Domini 2058: le tre leggi della Robotica Nel 1940, quando ha soltanto 20 anni, Isaac Asimov scrive Robbie, il primo dei suoi celebri racconti di fantascienza che hanno per protagonisti macchine “intelligenti” costruite dall’uomo. Robbie, il robot concepito dalla fantasia del giovane Asimov – un russo figlio di genitori ebrei che ha sempre vissuto negli Stati Uniti – è un robot baby sitter costruito dalla U.S. Robots Mechanical Men Corporation, e ha delle caratteristiche piuttosto primitive: basti dire che non è capace di parlare. Però si sa muovere, sa giocare a nascondino, e gli possono essere affidati dei bambini in custodia. Quando i genitori della piccola Gloria decidono di riportare alla fabbrica quello che considerano «un brutto ammasso di metallo senza vita», la piccola si ribella dicendo: «Era una persona come te e come me, ed era mio amico. Lo rivoglio indietro»1. La fortunata raccolta di questi racconti porta in epigrafe le famose “Tre leggi della robotica”, inventate da Asimov come nucleo essenziale di qualsiasi cervello positronico, cioè il cervello di cui è dotato ogni robot. Le leggi funzionano come una sorta di “coscienza morale” del robot, nel senso che servono a orientare gli atti liberi delle macchine, o a impedire che le macchine stesse eseguano ordini malvagi impartiti da un uomo. Ecco le tre leggi nella loro formulazione originaria: 1. Un robot non può recar danno a un essere umano, né permettere che, a causa della propria negligenza, un essere umano patisca danno. 2. Un robot deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani, a meno che contrastino con la Prima Legge. Docente di Filosofia del Diritto, Filosofia Teoretica, Etica e Bioetica, Corso di Laurea in Giurisprudenza e Corso di Laurea in Economia Aziendale, Università Europea di Roma. Presidente Nazionale dell’Associazione Verità e Vita. 1 I. ASIMOV, «Robbie», in Io, Robot, Oscar Mondadori, Milano 2003, 28. Mario Palmaro 108 3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purchè questo non contrasti con la Prima o la Seconda Legge. Manuale di Robotica 56° Edizione, 2058 d.C. Le tre leggi della robotica sottintendono una serie di quesiti che sono alla base di questo studio, e che ci offrono una serie impressionante di addentellati e di collegamenti con il mondo della bioetica. Proviamo a riassumerle in sintesi: a. I robot sono esseri intelligenti? b. I robot possono essere considerati dei “soggetti morali”? c. I robot possono essere considerati delle “persone”? d. I robot possono essere considerati dei soggetti di diritto? e. In che senso queste domande possono essere interessanti nell’ambito della riflessione bioetica? f. La riflessione bioetica si è già posta delle domande che, per analogia, possono richiamare il problema dello “statuto giuridico e morale del robot”? g. Che cosa ha da dirci una corretta antropologia rispetto al mondo puramente ipotetico della robotica? Proveremo a rispondere a queste domande secondo un percorso trasversale, che punta innanzitutto a chiarire alcuni concetti fondamentali di uso corrente. Due grandi categorie Nell’ottica del diritto, tutta la realtà può essere riassunta in due grandi categorie concettuali: i soggetti di diritto e gli oggetti di diritto. Si tratta di categorie che si definiscono attraverso la relazione che intercorre fra loro: i soggetti di diritto dispongono degli oggetti di diritto. I soggetti di diritto sono detentori di diritti fondamentali intrinseci – come il diritto alla vita, alla libertà, al movimento, all’espressione intellettuale e artistica e così via – e di diritti con i quali essi – sempre i soggetti di diritto – compiono atti di disposizione nei confronti degli oggetti di diritto: stipulano contratti con cui si compra o si vende un’automobile; contratti con cui si affitta una casa; contratti di trasporto con cui si sale su un tram e si compie un certo percorso. La casa, il tram e l’automobile – per quanto belle, gradevoli e simpatiche – non sono soggetti di diritto. Sono – poiché “tertium non datur” – oggetti di diritto. I soggetti non-umani sono titolari di diritti? 109 L’oggetto di diritto ha sempre un certo tipo di valore: economico, affettivo, contrattuale, contingente. Questo valore determina l’esistenza di un prezzo, che è il tipico metro di misura del valore degli oggetti di diritto. Un’osservazione che – lo capiremo più avanti – ha grande rilevanza in bioetica: gli attributi incidono in maniera decisiva sul valore degli oggetti di diritto. Un ombrello rotto è sempre un ombrello, ma ha perso la sua funzione. Dunque, non ha mercato e verrà probabilmente gettato via. Questo dipende dal fatto che il valore di un oggetto di diritto è estrinseco, e non intrinseco: uso il mio ombrello non per un senso di rispetto alla categoria morale dell’“ombrellitudine” o dell’“ombrellità”. Lo uso perché mi serve. Ho nei suoi confronti un approccio sanamente utilitaristico, di cui non mi vergogno. La stessa cosa non può essere detta – o almeno: non dovrebbe dirsi – dei soggetti di diritto, il cui valore è ontologico, è nella natura stessa del soggetto. Ne riparleremo. In genere gli oggetti di diritto sono fungibili: cioè possono essere “rimpiazzati” con un oggetto identico, come accade quando si ottiene la sostituzione di un elettrodomestico nuovo difettoso con uno funzionante in modo corretto. Qualche volta sono non fungibili, come ad esempio la Gioconda di Leonardo o la Pietà di Michelangelo: non posso “sostituirli” con delle copie fatte in serie. Ma, anche in questo caso, pur di fronte al grande valore intrinseco dell’opera d’arte, essa rimane sempre un “oggetto di diritto”. Per quale motivo? L’uomo come unico soggetto di diritto La risposta è molto semplice: l’unica realtà che esiste e appartiene alla categoria dei “soggetti di diritto” è l’essere umano. Egli infatti è l’unica creatura che è dotata di un valore assolutamente intrinseco. Vale in se stessa, a prescindere da qualsiasi circostanza estrinseca. Usando le parole del Magistero cattolico, diremmo che l’uomo è l’unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa. L’uomo è frutto dell’amore di Dio, cioè di una libera scelta del Creatore rivolta non alla categoria “essere umano”, ma a ogni singola persona: Dio ha voluto esattamente che ognuno fosse. Poteva benissimo non volerlo, perché nessuna forza misteriosa lo obbligava (giacché non è dato alla ragione pensare coerentemente un Dio che sia insieme onnipotente e obbligato a fare alcunché). Dio dunque ha scelto di introdurre all’esistenza creature personali che prima non erano, avviandole a un destino di eternità. Tutto questo può essere detto soltanto a proposito di un essere umano. L’uomo è imago Dei. Fin qui la Rivelazione. Ma anche sulla base di una semplice osservazione dell’uomo così come ci si presenta, noi notiamo che egli esprime un valo- 110 Mario Palmaro re incomparabile. Questo valore non è il frutto di un accordo convenzionale – gli uomini si sono riuniti e hanno deciso che è loro conveniente considerarsi superiori al resto degli esseri viventi e inanimati – ma è invece la conseguenza della constatazione di ciò che l’uomo è in quanto tale, prima di qualsiasi considerazione giuridica. L’uomo è infatti l’unica creatura che esprime una serie di proprietà o caratteristiche. Non solo e non tanto l’intelligenza, concetto complesso che si ritiene con qualche ragione di poter applicare anche ad altri esseri viventi. In realtà si possono dire dell’uomo una serie di cose che non è possibile attribuire ad altre creature: innanzitutto, per dirla con Socrate, “l’uomo conosce se stesso”, cioè riflette su di sé, si pone delle domande sulla sua realtà. Pensa se stesso. Non solo: pensa il suo pensiero, si interroga sui suoi meccanismi logici. Anche quando l’uomo – come in questo articolo – si interroga per stabilire se le scimmie o i robot sono persone, sta implicitamente dimostrando la sua ontologica diversità dalle scimmie e dai robot. Infatti, può capitare di entrare in un’università e trovare eminenti studiosi che si accapigliano per ore discutendo della “umanità” degli orango; ma non capiterai mai a nessuno di entrare in un giardino zoologico e di trovare gli orango che discutono circa la vera natura dell’uomo. L’uomo è dunque un “animale razionale”. Di più: solo l’uomo si pone delle domande di natura esistenziale, che riguardano la sua origine e il suo destino. Basta osservare la storia dell’umanità, dall’antichità ai giorni nostri, per riconoscere che a ogni latitudine emergono sempre in tutte le civiltà queste domande: chi sono? Da dove vengo? Che cosa ci sarà dopo questa vita? Perché esiste il male? Come riconoscere il bene dal male? Chi ha creato tutto ciò che esiste? Perché c’è qualche cosa e non c’è il nulla? Solo all’uomo si addicono queste straordinarie e terribili domande. Nessuna macchina artificiale può giungere a porsi questi interrogativi, se non per ipotetica “sovrimpressione” da parte del suo costruttore – l’uomo – come lascia intendere lo stesso Asimov in altro racconto della sua saga fantascientifica, del quale parleremo più avanti2. L’uomo è dunque un “essere religioso”. Si potrebbero aggiungere innumerevoli considerazioni per rafforzare un concetto che tuttavia è già chiarissimo: l’uomo è l’unica realtà fra le creature che possa essere riconosciuta dall’ordinamento giuridico come soggetto di diritto. Gioverà ricordare che l’ordinamento giuridico stesso non sussisterebbe se non esistesse l’uomo. È l’uomo che – in quanto animale razionale e animale sociale – avverte l’urgenza di costruire il sistema giuridico e di ricorrere alle norme. Anzi: prima ancora egli avverte la domanda pungente che riguarda il problema della legge naturale, la questio- 2 I. ASIMOV, «Essere Razionale», in Io, Robot, op. cit., 71-98. I soggetti non-umani sono titolari di diritti? 111 ne dell’esistenza di norme non scritte da mano umana che vincolino in maniera inderogabile ogni legislatore, inchiodandolo all’ineluttabilità di confrontarsi con il problema della giustizia, del bene, del vero, come si conviene ad ogni sistema di diritto positivo che non voglia scivolare nel più cieco arbitrio del potere costituito. Un dibattito contro l’uomo Riassumendo: abbiamo colto il fatto inequivocabile che esistono nel linguaggio giuridico oggetti di diritto e soggetti di diritto; e che soltanto l’uomo è a rigore un “soggetto di diritto”. Questa classificazione ha due grandi pregi. Il primo: corrisponde al vero. Il secondo: elimina alla radice molti problemi e innanzitutto il pericolo dell’arbitrio. Infatti, l’appartenenza alla specie umana è un requisito inconfutabile e oggettivo. Esso descrive una serie di aspetti biologici, antropologici, spirituali, psicologici, sociali, che caratterizzano, senza ombra di dubbio, l’essere-un-uomo: ogni volta che si è messo in discussione questo confine oggettivo, si sono aperte strade mostruose nell’ambito del diritto e della morale. Ma nel corso della sua storia, l’umanità ha messo in discussione molte volte questa rigorosa distinzione, con tutte le conseguenze del caso. Anzi: dobbiamo dire subito che nel dibattito bioetico contemporaneo si è assistito a una poderosa aggressione alla centralità dell’uomo e alla sua identificazione con la categoria dei soggetti di diritto. Ma andiamo con ordine. Si possono citare una serie di soggetti che costituiscono materia di dibattito circa la loro collocazione nella categoria dei soggetti o degli oggetti di diritto: a. Gli schiavi (l’antichità; la sentenza Dred Scott vs Sanford, 1857) b. L’incontro di nuovi popoli mai conosciuti (es. gli Indios) c. Handicappati, disabili, malati di mente, malati terminali nella Germania nazista d. Embrioni, neonati handicappati, comatosi, SVP e. Gli animali a partire dagli anni Sessanta (Regan; Singer) f. Gli extraterrestri (se esistono) g. I robot e le intelligenze artificiali In questa discussione ha ovviamente un ruolo fondamentale il concetto di persona. Quando si dice che l’uomo è un valore in sé, e che è unico e irripetibile, e che questo lo differenzia da ogni altra realtà, si sta affermando implicitamente che egli è “persona”. Ora, oggi noi ci troviamo di fronte a una profonda crisi di questo concetto, e soprattutto al compi- 112 Mario Palmaro mento di un’operazione filosofica e culturale con la quale ci si prefiggeva di scindere il concetto di individuo umano dal concetto di persona. Si deve osservare che il processo di erosione della centralità e della peculiarità dell’uomo circa il suo valore morale, e di riflesso circa la sua preminenza giuridica, si è sviluppato attraverso due percorsi che sembrano solo a prima vista fra loro contraddittori. a. Il primo di questi percorsi ha come elemento caratteristico il tentativo di dimostrare che vi sono soggetti non umani che tuttavia devono – in tutto o in parte – essere equiparati su un piano morale e poi anche giuridico agli esseri umani. Esemplare l’azione in tal senso del c.d. Movimento di Liberazione animale3. Questa operazione è in principio guardata con una certa diffidenza dall’opinione pubblica, ma con il passare del tempo è progressivamente accolta senza troppe preoccupazioni perché presenta (a livello apparente) caratteristiche “accumulative”. In altre parole: si concedono a soggetti che prima non li avevano alcuni diritti, ma sembra che non se ne tolgano a nessuno. In realtà, per la caratteristica tipica di ogni sistema giuridico – paragonabile in qualche modo alla legge dei vasi comunicanti – se gli animali diventano soggetti di diritto automaticamente gli uomini si vedono erodere alcuni diritti che prima avevano nei confronti degli animali stessi. Ma c’è un fatto ancora più rilevante, di natura concettuale: se si ammette – anche con le migliori intenzioni – che un soggetto non umano può essere, magari solo “in un certo senso” – considerato un soggetto di diritto, ciò significa aprire la strada ad un principio nuovo, dagli effetti dirompenti e qualunque cosa potrebbe domani diventare soggetto di diritto, in base ai criteri (ovviamente arbitrari) decisi dal potere del momento. Anche un robot, o una cosiddetta intelligenza artificiale. b. Il secondo di questi percorsi procede nel senso inverso al primo, ma lo alimenta e ne è alimentato sul piano logico concettuale: ci si industria per dimostrare che non tutti gli esseri umani sono persone. Ci possono essere uomini che è giusto considerare non soggetti di diritto ma oggetti di diritto. È questa è la frontiera quotidiana della bioeti- 3 Per altro giova ricordare che il problema di fornire alcuni oggetti di diritto di una certa tutela trova una naturale soluzione nella definizione di alcuni doveri nei confronti dell’uomo. Ad esempio: è sacrosanto che gli animali non vengano torturati, e che chi li tortura sia punito. Ma questo risultato si raggiunge semplicemente dicendo che l’uomo non può, se vuole rispettare la sua dignità, compiacersi della sofferenza altrui, sia pure di un animale. Che rimane però un oggetto di diritti, non un soggetto. Così come non si può sfregiare impunemente il volto della Gioconda, anche se essa non ha diritti soggettivi. I soggetti non-umani sono titolari di diritti? 113 ca moderna: aborto, fecondazione artificiale, eutanasia, eutanasia neonatale, infanticidio “pietoso”, sperimentazione sugli embrioni, espianto coatto degli organi, produzione di embrioni come “cave” di organi. Sono classici esempi nei quali si osserva una tenace operazione di svuotamento dello statuto giuridico di alcuni esseri umani, allo scopo di poterli usare come oggetti di diritto, e di disporre “lecitamente” della loro vita. È interessante rilevare che questi due modi di pensare l’uomo e il nonumano muovono da cause storiche e obiettivi anche fra loro molto diversi, come ad esempio tutelare gli animali dalla sperimentazione oppure permettere alle donne di abortire secondo legge. Ma usano criteri di ragionamento assolutamente sovrapponibili. Proviamo a riassumerne alcuni: a. Non esiste un fondamento ontologico oggettivo circa il valore di un essere. b. L’essere è qualificato esclusivamente dai suoi attributi (o accidenti). c. Ma ci si riferisce non ai suoi attributi potenziali –cioè connessi ancora una volta alla sua “natura”. d. Ciò che conta è invece la condizione dei suoi attributi in atto. e. Ecco perché acquista grande rilevanza l’elemento della “capacità di soffrire”, di provare dolore con riferimento agli animali superiori. f. Viene assunto come parametro fondamentale di giudizio il criterio della funzionalità, tipico degli oggetti di diritto: la persona diventa una realtà “ben-funzionante”, a prescindere dalla sua natura intrinseca. g. Dunque, fra un essere umano, che è “capace di Dio”, ma che ha perso o non ha mai acquisito le facoltà intellettuali tipiche dell’uomo, e uno scimpanzè in perfette condizioni, il primo sarà non-persona e non soggetto di diritto, il secondo invece persona e titolare di diritti. Dunque, questi discutibilissimi ma diffusi criteri producono effetti paradossali di fronte alle nostre domande iniziali: a. I robot sono esseri intelligenti? b. I robot possono essere considerati dei “soggetti morali”? c. I robot possono essere considerati delle “persone”? d. I robot possono essere considerati dei soggetti di diritto? e. In che senso queste domande possono essere interessanti nell’ambito della riflessione bioetica? 114 Mario Palmaro f. La riflessione bioetica si è già posta delle domande che, per analogia, possono richiamare il problema dello “statuto giuridico e morale del robot”? g. Che cosa ha da dirci una corretta antropologia rispetto al mondo puramente ipotetico della robotica? Se l’essere uomo e l’essere-non-uomo non presenta alcun significato distintivo sul piano morale (e quindi poi giuridico), allora, fra un ipotetico robot intelligente e utile, e un uomo stupido e inutile, la partita è già decisa a favore della macchina. Di più: l’uomo potrebbe rivelarsi in prospettiva intrinsecamente inferiore alle sue stesse creature, proprio a causa di questi mostruosi criteri di giudizio. Riassumendo: l’uomo, che per “generosità” ha voluto allargare la tavola dei diritti soggettivi a esseri non umani, si ritrova poi ad allontanare alcuni dei suoi simili da quella stessa tavola; animali e robot acquistano dignità umana, mentre embrioni d’uomo, ammalati, idioti, e perfino persone considerate poco intelligenti si accomodano in nuovi gironi infernali della società, dove nessuna norma li può più proteggere dall’arbitrio dei presunti “perfetti”. Siano essi uomini o macchine. Il “post-umano” rischia di materializzarsi in una totale devastazione del concetto stesso di persona e di uomo, che inizialmente travolge i soggetti più deboli e indifesi, socialmente inutili, o così piegati dalla sofferenza da essere destinatari della pelosa pietà della società “buona”. Che li elimina. Ma con il tempo è l’uomo stesso a correre un rischio mortale. In Essere razionale (1942), Asimov racconta di un robot, Cutie, che si rifiuta di accettare l’idea che a crearlo sia stato l’uomo. A un certo punto, dice ai due tecnici che cercano di convincerlo: Guardatevi! Lungi da me ogni disprezzo, s’intende, ma guardatevi un po’: siete fatti di un materiale flaccido e molle, debole e deteriorabile, che è costretto per alimentarsi a dipendere dall’ossidazione alquanto inefficace di materia organica… come quella. – Indicò con disapprovazione ciò che restava del panino di Donovan. A periodi alterni entrate in una specie di coma e la minima variazione di temperatura, di pressione atmosferica, di percentuale di umidità e di livello di radiazioni pregiudica la vostra efficienza. Siete solo prodotti di ripiego. Io invece sono un prodotto finito. Ho una struttura di metallo molto forte, non cado mai in stato di incoscienza e posso sopportare facilmente condizioni ambientali critiche. Se si parte dall’assioma lapalissiano che nessun essere può crearne un altro a esso superiore, questi sono tutti fatti che riducono in cenere la vostra assurda teoria4. 4 I. ASIMOV, «Essere Razionale», in Io, Robot, op. cit., 78. I soggetti non-umani sono titolari di diritti? 115 Segnali di speranza Asimov fu probabilmente il più geniale scrittore di fantascienza del ventesimo secolo, ma rimase sempre vittima di un positivismo materialista senza speranza e senza apertura alla dimensione religiosa. Tuttavia, il suo robot Cutie ci aiuta a scoprire in filigrana, al di là delle intenzioni del suo inventore letterario, i limiti della parabola prometeica dell’uomo moderno, e la necessità di ritornare a un paradigma etico e logico di tipo classico. In fondo, Cutie dice tre cose: 1. Che gli uomini sono meno perfetti dei robot. 2. Che l’uomo è mortale e può morire con molta facilità. 3. Che un essere imperfetto non può creare un essere meno imperfetto di lui, o addirittura perfetto. È sorprendente notare che alle stesse constatazioni era giunto molto tempo prima un grande filosofo e matematico come Blaise Pascal, il quale a proposito dell’uomo ci ha lasciato questo celeberrimo pensiero: «L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa. Quand’anche l’universo lo schiacciasse sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla. Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero». Ma ben diverso era il giudizio che ne ricavava il grande Pascal: la debolezza dell’uomo è anche il sigillo della sua grandezza. Dunque non è in discussione la fragilità, la miseria, la vulnerabilità dell’uomo. È molto improbabile che le proiezioni fantascientifiche nel campo della cibernetica siano destinate a realizzarsi, visto che oggi, dopo decenni di studio, la scienza ha fortemente ridimensionato la sua pretesa di replicare la complessità del pensiero umano. Ma il punto centrale è un altro: con quale criterio vogliamo pesare il valore delle realtà che ci circondano. Se con una logica utilitaristica e funzionalistica, che definisce il valore di un soggetto sulla base dei suoi attributi. Oppure a partire dal riconoscimento del valore intrinseco della persona umana, e della impossibilità di elevare al suo livello qualsiasi altro soggetto-non-umano. Le tre leggi della robotica sono, in questo senso, l’implicita ammissione che non è possibile una riflessione morale se non a partire dal riconoscimento di alcune verità oggettive e da un’antropologia “forte”, opposta al pensiero debole dominante oggi. Le tre leggi della robotica sono, infatti, incontestabilmente ippocratiche. Sono infatti debitrici al Giuramento di Ippocrate di tre elementi essenziali: a. Il primato dell’uomo sulla macchina, che si manifesta nella gerarchia della vita di un uomo rispetto alla “sopravvivenza” del robot. 116 Mario Palmaro b. La necessità di assumere criteri morali umani quando si vogliono produrre macchine che siano in grado di compiere – tale è almeno la finzione fantascientifica – atti liberi verso terzi. c. Il primato dell’uomo in se stesso, “senza aggettivi”. Se oggi Peter Singer, o H.T. Engelhardt dovessero prendere in mano le tre leggi della robotica, avrebbero di che obiettare: in esse, infatti, non si specifica se l’uomo che merita il sacrificio di un robot sia sano, bello, giovane; oppure malato, handicappato, depresso. Ci sembra una constatazione istruttiva. Dove si dimostra che perfino uno scrittore di fantascienza ateo e un robot dotato di cervello positronico sono in grado di riflettere bagliori della legge naturale, più di quanto oggi sappiano fare eminenti esperti di bioetica. Adriana Gini Neuroetica e Neuromarketing Per introdurre i concetti di Neuroetica e Neuromarketing è necessario fare riferimento, in modo semplice e chiaro, ad alcuni fondamenti di neuroanatomia e neurofisiologia. Cenni di anatomia cerebrale Il cervello è diviso in due parti simmetriche, gli emisferi cerebrali destro e sinistro, connessi da una lamina di fibre nervose, chiamata corpo calloso. Ciascun emisfero è costituito da quattro lobi: frontale, occipitale, temporale e parietale. Ognuno di questi lobi ha una particolare funzione. In linea di massima e semplificando, possiamo affermare che il lobo frontale, in base alle conoscenze attuali, è associato alla pianificazione, alla strategia e all’azione. Il lobo parietale è implicato nella sensibilità e, in particolare, nel tatto. Il lobo occipitale controlla la visione. Il lobo temporale si occupa sia delle emozioni, sia di alcuni aspetti della memoria. Il cervello, insieme al cervelletto ed al tronco del mesencefalo, forma l’encefalo. Francis Gall e la frenologia Ci sono voluti molti anni per comprendere che le nostre facoltà potessero dirsi “localizzate” (con tutti i limiti che tale affermazione comporta, dato il continuo aggiornarsi delle nostre conoscenze e l’introdursi di nuovi concetti) in aree del cervello, secondo, tuttavia, una visione di sistema più che di specificità. Il neuroanatomista e fisiologo viennese Franz Joseph Gall, all’inizio del XIX secolo, descrisse dettagliatamente le suddivisioni del cervello, così come erano allora conosciute, basandosi su un approccio che oggi chiamiamo frenologia (da frenos, che vuol dire mente Dirigente Medico, Servizio di Neuroradiologia, Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma. Dottoranda, Facoltà di Bioetica, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. 118 Adriana Gini e logos, che significa studio). Gall ha dato alle neuroscienze due importanti contributi, che esercitano ancora una grande influenza: è stato il primo ad affermare che tutti i processi studiati sono localizzati in aree diverse del cervello. Pertanto, secondo Gall non esiste qualche cosa di simile all’anima o allo spirito all’origine dell’attività mentale, ma tutta l’azione mentale ha una base biologica. La sua è stata, pertanto, la prima concezione completamente materialistica delle funzioni mentali. In secondo luogo, Gall ha introdotto il concetto della localizzazione delle funzioni. Inoltre, ha proposto questa localizzazione delle funzioni in modo molto preciso, sostenendo che regioni specifiche controllassero funzioni molto elaborate, come la riservatezza, l’amore romantico, l’altruismo, la generosità, ecc. essendo ciascuna di esse associata a una parte diversa del cervello. Si interessò al linguaggio e alla memoria. Fu il primo a distinguere tra sostanza grigia e sostanza bianca, la prima costituita da cellule nervose e la seconda da fibre. Aveva costruito una cartografia (map) del cervello nella quale le tendenze al possesso, a essere parsimoniosi o risparmiatori, vale a dire tutti gli attributi collegati all’accaparrare, erano raggruppati insieme, e l’idealismo, l’esuberanza, la raffinatezza e il perfezionismo, tratti di ordine superiore, erano situati in altre aree del cervello. Gall era rimasto colpito dal fatto che i tratti intellettuali di certe persone sembrassero trovare una corrispondenza nella forma del cranio. Egli aveva osservato che alcuni tra i più intelligenti dei suoi amici avevano una fronte particolarmente prominente: aveva concluso che tale prominenza fosse dovuta al fatto che l’intelligenza, nel cervello, fosse localizzata nella regione frontale e che l’intensa attività intellettuale dei suoi amici avesse causato un maggiore sviluppo di questa regione, deformando così il cranio e rendendo la regione frontale più prominente. Gall chiamò questa disciplina “cranioscopia”. Il caso Gage e la localizzazione del linguaggio secondo Broca e Wernicke La descrizione del caso Gage, certamente familiare agli esperti delle neuroscienze1, ci aiuterà a comprendere come la conoscenza e lo studio del rapporto tra aree cerebrali e funzioni sia alla base di una corretta comprensione dei più recenti sviluppi e applicazioni delle indagini d’immagine non invasive, un settore, questo, della Neuroetica. Phineas Gage era un giovane capomastro di 25 anni, addetto alla costruzione di una linea ferroviaria nel Vermont, Stati Uniti, quando nel 1848 1 Le Neuroscienze si occupano dello studio della struttura, funzione, sviluppo, biochimica, fisiologia, farmacologia e della patologia del sistema nervoso centrale e periferico. http://it.wikipedia.org/wiki/neuroscienze. Neuroetica e Neuromarketing 119 subisce un incidente grave e alquanto bizzarro. A seguito di un’esplosione, una sbarra di ferro lunga circa un metro e larga tre centimetri, gli attraversa obliquamente il cranio, penetrando attraverso l’arco zigomatico2 sinistro e ne fuoriesce dall’osso frontale. Con sorpresa dei presenti, Gage, dopo un iniziale stordimento, si riprende. Al medico che lo visita, racconta l’incidente con minuzia di particolari. L’esaminatore descrive una ferita da oggetto penetrante che corrispondente alla traiettoria della barra metallica; in regione frontale constata la presenza di frattura con sottoslivellamento osseo. L’esame clinico evidenzia un soggetto cosciente e neurologicamente intatto. Dopo due mesi di ricovero e la comparsa di un ascesso cerebrale che sarà drenato, Gage è dimesso in condizioni cliniche soddisfacenti e cecità sinistra postraumatica, ma non sarà più la stessa persona. Così lo descrive il dott. Harlow, che lo aveva preso in cura: Egli è sregolato, irriverente, indulge talvolta nella bestemmia più volgare (che in precedenza non era suo costume), manifestando poco rispetto per i suoi compagni, intollerante verso limitazioni od avvertimenti quando questi vanno in conflitto con i suoi desideri, talora tenacemente ostinato, capriccioso ed esitante, progetta molti piani per il futuro che sono tuttavia abbandonati, anziché essere organizzati, in favore d’altri piani che sembrano più facilmente attuabili […] La sua mente era cambiata radicalmente, in modo così marcato che i suoi amici e conoscenti affermavano che “non era più Gage”3. Gage morì a 37 anni, per l’insorgenza di crisi epilettiche culminate in un grave episodio di stato di male epilettico, condizione a quei tempi senza cure. Il suo cranio fu donato al Warren Anatomical Museum, della Harvard University, dove si può tuttora vedere. Ne esistono alcune riproduzioni: del 1868 è un disegno schematico e poco corrispondente; ricostruzioni tridimensionali accurate furono ottenute nel 1982 e 1994, utilizzando complicate apparecchiature TAC. Queste ultime hanno permesso di definire, con sufficiente esattezza, la traiettoria della barra di ferro e di attribuire alla regione prefrontale ventro mediale, prevalentemente sinistra, la lesione postraumatica. Il caso Gage, nonostante l’attenzione scientifica ricevuta fosse inizialmente sensazionalista e minimo sembra sia stato il suo contributo ai successivi sviluppi della neuro e psicochirurgia, permise di stabilire un rapporto tra personalità e regione prefrontale. La corteccia frontale umana costituisce circa un terzo dell’intera superficie cerebrale. La parte anteriore è denominata corteccia prefrontale ed ha diffuse con- 2 L’arco zigomatico è la sporgenza ossea della guancia. M. MACMILLAN, An Odd Kind of Fame: Stories of Phineas Gage, The Mit Press, Cambridge, Mass. 2000, 414-415. 3 120 Adriana Gini nessioni col resto del cervello. La corteccia prefrontale, a sua volta, può essere suddivisa in un’area dorso-laterale ed una regione ventro-mediale, l’area appunto lesionata in Gage, che potrebbe rappresentare uno dei correlati neurali del sistema al quale, biologicamente, si fa riferimento, quando si studia il comportamento morale. L’esistenza di una vera e propria specializzazione funzionale, che divide le competenze tra i due emisferi, fu delucidata da Broca e Wernicke sul finire del XIX secolo. Nel 1861, Paul Broca, un neurologo ed antropologo francese, per primo descrisse, nel piede della terza circonvoluzione frontale dell’emisfero sinistro, la sede del linguaggio. Egli condusse esami autoptici su cervelli di soggetti con difficoltà nella produzione della lingua (afasia di Broca o afasia non fluente). I pazienti colpiti da afasia di Broca comprendono il linguaggio, ma sono incapaci di articolarlo per esprimersi. Qualche anno più tardi, nel 1874, uno psichiatra e neuropatologo tedesco, Karl Wernicke, compì una seconda scoperta. Egli studiò un paziente con una lesione dell’area parieto-temporale che aveva un difetto di linguaggio diverso da quello di Broca: i pazienti di Broca capivano, ma non riuscivano ad esprimersi. Questo paziente, invece, era in grado di esprimersi, ma non capiva nulla; quindi quello che diceva aveva ben poco senso. I pazienti con afasia di Wernicke sono in grado di usare frasi molto lunghe ma prive di significato, aggiungendo termini non necessari e, addirittura, creano nuove parole. Essi hanno una grande difficoltà a comprendere il linguaggio e, pertanto, sono inconsapevoli dei loro errori. Il merito più grande di Wernicke, tuttavia, non si limita a questa scoperta, ma al fatto di aver combinato le scoperte proprie e quelle di Broca nello sviluppo di una teoria del linguaggio. Ecco l’enunciato: la corteccia occipitale è il luogo in cui l’informazione visiva entra nel cervello, mentre l’area temporale è il luogo d’entrata dell’informazione uditiva. Quando si sente qualcuno parlare, o quando si legge qualcosa, le informazioni entrano all’interno di sistemi sensoriali specifici e quindi sono portate nell’area di Wernicke, dove sono tradotte in una sorta di codice neurale del linguaggio. Questo codice è poi inviato all’area di Broca, attraverso una via nervosa nota come fascicolo arcuato. Successivamente, nell’area di Broca, le informazioni sono tradotte in linguaggio, che può poi essere articolato e pronunciato. Wernicke ha, dunque, ripreso l’idea della localizzazione delle funzioni, nata con Gall e l’ha elaborata in modo interessante e sofisticato, sostenendo che una funzione complessa come il linguaggio non è controllata da una sola regione, ma dalla combinazione di più regioni. Assistiamo qui, per la Neuroetica e Neuromarketing 121 prima volta, allo sviluppo dell’idea dell’elaborazione distribuita e parallela, un’idea che oggi domina il campo delle neuroscienze cognitive4. La Neuroetica Origini della Neuroetica La nascita della Neuroetica si fa risalire agli anni ‘60, quando uno psichiatra americano, Louis West ed altri due ricercatori dell’Università dell’Oklahoma somministrarono una dose di LSD (dietilamide dell’acido lisergico), un allucinogeno allora poco conosciuto, ad un elefante, causandone involontariamente la morte5. La finalità dell’esperimento, pubblicato sulla rivista scientifica Science, era quella di studiare gli effetti, sulle funzioni cerebrali, di sostanze o farmaci da impiegare nel controllo di soggetti umani ed a scopo militare. L’esito infausto impedì la prevista sperimentazione su volontari, ma non arrestò la ricerca in questo campo che, grazie allo scienziato spagnolo Josè Delgado, riprese su tori6. Nel 1965, l’impianto d’elettrodi nel cervello di un toro, permise di arrestarne la terribile carica grazie all’impulso elettrico generato da un piccolo radiotrasmettitore tenuto in mano. Fu lo stesso Delgado ad incitare il toro con una cappa rossa in un’arena, la prima corrida della sua vita: ad un primo segnale, l’animale si arrestò a pochi passi dallo sperimentatore e, ad un secondo, si girò verso destra e trotterellò via! I risultati di questi due esperimenti non ebbero un riscontro immediato nella comunità scientifica e nella pubblica opinione, ma comunque diedero origine al primo serio tentativo di valutare eticamente le nuove scoperte nel campo delle neuroscienze. Agli inizi degli anni ’70, infatti, l’appena sorto Hastings Center, promosse uno studio per esaminare i problemi etici sollevati dagli interventi chirurgici e 4 Si parla di neuroscienze cognitive, quando i metodi delle neuroscienze si intrecciano con le scienze cognitive. Sono una disciplina popolata principalmente da psicologi cognitivi. La disciplina si sta però trasformando in un campo autonomo. Alcuni ricercatori ritengono che le neuroscienze cognitive forniscano un approccio bottom-up (dal basso, partendo cioè dai dati) per capire la mente e la coscienza, metodo che sarebbe complementare all’approccio top-down (dall’alto, cioè partendo dalla teoria) classico della psicologia più tradizionale. http://it.wikipedia.org/wiki/neuroscienze. 5 L.WEST – C.M. PIERCE – W.D. THOMAS, «Lysergic acid diethylamide: Its effects on male Asiatic elephant», in Science 138 (1962), 1100-1103. 6 J.A. OSMUNDSEN, «‘Matador’ with a Radio Stops Wired Bull Modified Behaviour in Animals the Subject of Brain Study», in New York Times (17 May 1965). 122 Adriana Gini farmacologici sul cervello7. Ricordiamo che, nel 1968, la Commissione ad hoc di Harvard introduceva i criteri d’accertamento della morte cerebrale. Anche in questo caso, tuttavia, non si ebbe l’impatto sperato, soprattutto perchè le neuroscienze, in quel periodo, non erano giunte ad un livello di sofisticazione ed applicazione tale da suscitare un dibattito etico sufficientemente vivace. Oggi le cose sono assai diverse. Le neuroscienze hanno, infatti, fatto passi da gigante da quando Louis West provocò, probabilmente per overdose, la morte dell’elefante e Delgado scioccò il mondo arrestando la carica di un toro con un impulso elettrico. Di recente ed a ragion veduta, l’analisi bioetica si è concentrata sul “Progetto Genoma Umano” che solleva e solleverà una serie di domande d’importanza vitale sullo screening, l’ingegneria genetica e la terapia genetica8. Silenziosamente e con molta meno enfasi, si è verificata un’esplosione parallela di nuove scoperte nel campo delle neuroscienze. Tecniche d’immagine o imaging9 sempre più sofisticate consentono di osservare il cervello in tempo reale, per studiarne le risposte a stimoli vari e ad input ambientali. Gli scienziati hanno iniziato a riconoscere specifici modelli cerebrali che corrispondono ad alterazioni e patologie ed a comprendere la struttura, biochimica ed organizzazione funzionale del cervello. La Neuroetica come disciplina: definizione Nel maggio del 2002, centocinquanta studiosi tra neurologi, psichiatri, psicologi, sociologi, bioeticisti, giuristi e filosofi si sono riuniti a San Francisco per discutere sui rapporti tra etica e neuroscienze. Il convegno, intitolato “Neuroethics: mapping the field” è stato sponsorizzato dalla Dana Foundation. Si deve a William Safire, editorialista politico del New York Times ed attuale presidente della Dana Foundation10, l’aver coniato e definito il termine (secondo Judy Illes, della Neuroethics Society, Stati Uniti, questo termine sarebbe stato introdotto almeno dieci anni prima) 11. Così si 7 Hastings Center, in http://thehastingscenter.org. La Geneterapia o terapia genetica, consiste nella sostituzione di geni alterati, attraverso vettori virali e non, in cellule della linea somatica o germinale. È una terapia, a tutt’oggi, sperimentale. 9 Imaging è un termine di lingua inglese che si riferisce all’uso di tecniche di diagnostica per immagine quali la TAC, la RMN, e la PET, l’ecografia, ecc. 10 La Dana Foundation è un’istituzione privata con base a New York, dedita al supporto di attività e pubblicazioni nei settori delle scienze, salute e educazione, soprattutto nell’ambito delle neuroscienze. In Europa è presente una succursale. 11 Da Judy Illes (2003) che riferisce di come la letteratura scientifica ne faccia uso a partire dall’1989-1991. 8 Neuroetica e Neuromarketing 123 esprime Safire: «La Neuroetica è quella parte della Bioetica che s’interessa di stabilire ciò che è lecito, vale a dire quello che si può fare nella terapia o nel miglioramento delle funzioni cerebrali, così come di valutare l’invasione indesiderata e la preoccupante manipolazione del cervello umano». Safire introduce il concetto di miglioramento (enhancement in inglese), inteso come il recare un beneficio senza dover eliminare un danno, in considerazione delle nuove scoperte nel campo della Neurofarmacologia12 e Neurotecnologia13. Considera preoccupante l’impiego delle nuove conoscenze sul cervello se esso si esprime in un tentativo di controllo sull’uomo o se non ne rispetta la dignità e la privacy. La neuroetica, così intesa, comporta ricadute sui settori sanitario, sociale e legale come spiegherò brevemente più avanti. Nel convegno, che segna l’inizio “moderno” della Neuroetica, sono stati affrontati molti temi, alcuni dei quali saranno qui affrontati. Recenti sviluppi della diagnostica per immagini Senza dubbio, con l’applicazione delle nuove tecniche d’immagine, quali la RMN funzionale (fRMN) e la Tomografia ad Emissione di positroni (PET da Positron Emission Tomography), allo studio delle funzioni cerebrali, si è avuta una svolta nelle ricerche nel campo delle neuroscienze. Semplificando, possiamo affermare che la Risonanza Magnetica Nucleare strutturale si basa sull’impiego di un campo elettromagnetico per generare immagini statiche dell’interno del corpo umano. La fRMN è un’applicazione della Risonanza Magnetica Nucleare che permette di generare immagini del flusso e dell’ossigenazione ematica localizzati a livello dell’encefalo e provocati da stimoli sensoriali o da esercizi motori e cognitivi 14. Essa è pertanto in grado di misurare l’attività di una determinata area cerebrale, quando il soggetto è sottoposto a compiti specifici, evidenziando, attraverso una scala di colori, le zone con maggiore attività funzionale. Si deve ad essa il sorgere e l’affermarsi degli studi più avanzati e promettenti sulle funzioni cerebrali. La PET è una tecnica di medicina nucleare che produce immagini o mappe dei processi funzionali all’interno del corpo. 12 La Neurofarmacologia si occupa della ricerca e sperimentazione di farmaci attivi sul sistema nervoso. 13 La Neurotecnologia si interessa della applicazione al sistema nervoso delle recenti scoperte della tecnica quali protesi cocleari per l’udito, retina artificiale, chip della memoria, ecc. 14 Il flusso ed il livello di ossigenazione del sangue sono indicatori dell’attività funzionale di una determinata area del cervello e ci consentono di valutarne il grado, espresso secondo una scala di colori. 124 Adriana Gini Essa consiste nella somministrazione, generalmente per via endovenosa, di una sostanza radioattiva (radioisotopo) a breve vita, legata chimicamente ad una molecola attiva a livello metabolico, quale per esempio uno zucchero. Dopo un tempo d’attesa durante il quale la molecola metabolicamente attiva raggiunge una determinata concentrazione all’interno dei tessuti da studiare, il soggetto è posizionato nello scanner. Una sofisticata tecnica di rilevazione delle radiazioni consente la produzione d’immagini dettagliate della distribuzione della radioattività nelle varie aree, proporzionalmente alla loro attività. Negli studi sul cervello, sono utilizzati radiotraccianti quali il 15-ossigeno ed il 18F-fluorodeossiglucosio (FDG). Sono inoltre stati sviluppati dei radiotraccianti che funzionano come leganti di recettori specifici, quali la dopamina, la serotonina, ecc. Anche nel caso della PET, le immagini ottenute riproducono, secondo una scala di colori, la differente concentrazione del radiotraccianti, corrispondente alla differente attività funzionale. Applicazioni e ricerche Le tecniche d’imaging descritte consentono di studiare le funzioni cerebrali di soggetti volontari sottoposti a compiti particolari quali, per esempio: a. Ascoltare la descrizione di una serie di oggetti e silenziosamente ripeterne il nome; b. Memorizzare un disegno astratto, se sia presente o meno in una serie mostrata precedentemente; c. Usare la mano destra per imitare la posizione di mani destre riprodotte in immagini presentate; d. Seguire con lo sguardo oggetti illuminati che si accendono e spengono; e. Usare mentalmente dei nomi che corrispondono ad oggetti mostrati in immagini. Scopo di questi studi è quello di comprendere sempre meglio il funzionamento del nostro cervello e, a questo fine, è sempre utilizzato un test standard che è confrontato con quelli specifici assegnati ai volontari, in modo che siano ben evidenziate le zone dotate di maggiore attività. Le immagini ottenute per ciascun test, sono inoltre comparate tra loro per ottenere mappe dettagliate della variabilità individuale. Sono in corso ricerche su soggetti volontari sani per comprendere: la personalità, la memoria, i meccanismi del linguaggio, della visione e del ragionamento, le differenze d’elaborazione e risposta agli stimoli, l’apprendimento nei singoli soggetti e nei due sessi, le emozioni, la decezione, la tendenza all’aggressività o alla vendetta, il comportamento morale e patologie come la depressione e l’autismo. Nel campo delle tecniche Neuroetica e Neuromarketing 125 d’immagine occorre tener sempre presente che l’interpretazione delle immagini ottenute è basata sulle ipotesi e sulle teorie elaborate da ciascun laboratorio. Ci troviamo di fronte, quindi, ad una gran variabilità per la quale è indispensabile una notevole prudenza nell’approccio ai dati ed alla elaborazione dei risultati. Le “impronte cerebrali” e la giustizia criminale L’esame delle “impronte cerebrali” o brain fingerprinting è un’indagine scientifica che determina l’eventuale presenza d’informazioni immagazzinate nella memoria del soggetto studiato. Essa consiste nel misurare la risposta, sotto forma di onde cerebrali, a parole, frasi, suoni o immagini presentati con l’aiuto di un computer. I dettagli della scena di un crimine, o altri tipi d’informazione, sono mostrati mescolati in sequenza con altri dati irrilevanti. In particolare, sono mostrati quei dettagli che la persona sottoposta al test avrebbe sicuramente notato se avesse commesso il crimine, mentre la persona innocente non avrebbe avuto alcun modo di conoscere. Se il sospettato riconosce i dettagli del crimine, ciò vuol dire che ha immagazzinato tali dati nel cervello. L’inventore di questa indagine, uno psichiatra americano che lavora a Fairfield, nello Iowa, ha compiuto studi sull’attività elettrica del cervello ed in particolare su onde di durata brevissima, associate al riconoscimento di suoni, odori ed immagini familiari. Tra esse, ve n’è una denominata p300 che inizia circa 300-800 millisecondi dopo il riconoscimento di uno stimolo e può essere misurata attraverso elettrodi posti sul capo, come in un elettroencefalogramma standard. Dal 1980, il dott. Farwell ed altri scienziati stanno valutando se questo fenomeno possa essere utilizzato per capire se un soggetto stia o non stia mentendo. Uno dei motivi di tanto interesse è che il lie detector (un apparecchio usato per cercare di identificare il soggetto che mente) maggiormente usato in passato, cioè il poligrafo, ha sempre creato imbarazzo tra gli scienziati. Il poligrafo, infatti, misura soltanto una serie di reazioni fisiche provocate dall’interrogatorio. Il presupposto è quello secondo il quale le persone indagate di un crimine al quale hanno effettivamente preso parte, mostrano un incremento involontario del battito cardiaco, pressione arteriosa, frequenza del respiro e sudorazione. Molti tra i critici sostengono, invece, che il test è inaccurato perché misura le emozioni piuttosto che scoprire ciò che il colpevole veramente sa. Inoltre il colpevole potrebbe imparare a rispondere in modo da ingannare coloro che lo interrogano, mentre alcuni innocenti, facilmente impressionabili, potrebbero risultare ingiustamente colpevoli. Per questi motivi, a partire dal 1988, il poligrafo non ha trovato quasi più applicazione negli USA. L’uso dell’onda p300 nei test eseguiti dal dott. Farwell ha mostrato, al contrario, un’accuratezza del 99% e, sebbene siano necessari successivi 126 Adriana Gini studi, lo scopritore sostiene che la tecnica sarà, in futuro, largamente usata anche nella lotta al terrorismo. «Sulla scena di un crimine, le impronte digitali o il DNA sono rinvenibili solo nell’1% dei casi», afferma Farwell. «Tuttavia, il cervello del colpevole è sempre lì, a pianificare, e ricordare il crimine commesso»15. Protesi neurali A Los Angeles, ricercatori americani guidati dal neurobiologo Theodore Berger, sostengono che, tra una decina d’anni, potrebbe essere impiantata in pazienti con ictus cerebrale, epilessia o morbo d’Alzheimer un microchip, allo scopo di sostituire i centri della memoria danneggiati. Si tratterebbe della prima protesi cerebrale, da inserirsi nella sede dell’ippocampo, area della coordinazione mnemonica. Per il momento il microchip è stato impiegato con successo per sostituire un circuito neurale in sezioni di cervello di topi mantenute in vita in un terreno di cultura. A breve la protesi sarà pronta per essere sperimentata in animali vivi. Si tratta del primo tentativo di sostituire aree cerebrali che hanno a che fare con funzioni cognitive come la memoria, il linguaggio e l’apprendimento ma, oltre a trattare condizioni di tipo degenerativo, le protesi cerebrali saranno usate anche per potenziare l’apprendimento ed altre facoltà. I ricercatori, che hanno impiegato quasi dieci anni per creare un ippocampo artificiale, riconoscono, seguendo una visione fisicalista, che il loro lavoro possa provocare delle controversie in quanto dal cervello dipendono, tra le altre cose, anche il nostro umore, la consapevolezza, la coscienza, così come la memoria, tutte facoltà che fanno parte della nostra personalità. Sono consapevoli, conseguentemente, di sollevare interrogativi etici. L’ippocampo è situato alla base del cervello, nel lobo temporale, in prossimità della giunzione con il midollo spinale. Si ritiene che codifichi le nostre esperienze in modo che siano immagazzinate come memorie a lungo termine in altre aree. Una lesione all’ippocampo comporta la perdita della capacità di archiviare nuovi ricordi e, sebbene non si conosca con esattezza come l’ippocampo funzioni, il gruppo di scienziati californiani di Berger, ha tentato di copiarne il comportamento. Sezioni d’ippocampo di topo sono state colpite con stimoli elettrici milioni di volte, sino a capire quale output generasse un determinato input. In questo modo, mettendo insieme le informazioni ottenute da ciascuna sezione, i ricercatori hanno elaborato un modello matematico per l’intero ippocampo. Tale modello è stato poi inserito in un chip. Il chip, posto sulla superficie del 15 L.A. FARWELL, «Brainwave Forensics: A new Paradigm in Criminal Investigations», in http://forensic-evidence.com/site/Farwell.html. Neuroetica e Neuromarketing 127 cranio, comunicherebbe con il cervello attraverso due file d’elettrodi, posti su ciascun lato della zona danneggiata. Una fila registrerebbe l’attività elettrica proveniente dalla restante parte del cervello, mentre l’altra rinvierebbe al cervello le istruzioni necessarie. I ricercatori hanno concluso che, poiché l’ippocampo può essere assimilato ad una serie di circuiti simili operanti in parallelo, risulta possibile bypassare la zona danneggiata con un’accuratezza pari al 95%. «Se osservate gli output ottenuti nelle sezioni di cervello di topo, non sareste in grado di distinguere tra l’ippocampo biologico ed il microchip inserito», sostiene Berger. «Sembra proprio che funzioni»16, aggiunge. Il suo gruppo di ricercatori ha in programma di lavorare con topi che si muovono e apprendono e di dedicarsi più tardi alle scimmie (all’uscita di questo saggio, probabilmente tra quattro anni). In particolare, i ricercatori dovranno trovare dei farmaci o altri mezzi in grado di disattivare temporaneamente l’ippocampo biologico ed impiantare così il chip e gli elettrodi. «Cercheremo di adattare l’ippocampo artificiale ad animali viventi e, quindi, dimostrare che un certo comportamento, che dipende da un ippocampo intatto, non è compromesso se la neuroprotesi è inserita e la normale funzione dell’ippocampo temporaneamente interrotta», afferma Deadwyler. «In questo modo si dimostrerà che il chip ha sostituito la normale funzione» 17. Deadwyler, professore alla Wake Forest University, a Winston-Salem, nella North Carolina, sta studiando l’attività neuronale nell’ippocampo di topi e scimmie. Il suo gruppo di ricerca calcola che occorreranno da due a tre anni per sviluppare un modello matematico dell’ippocampo di topi viventi e attivi e trasferirlo ad un microchip, e da sette ad otto anni per fare lo stesso sulle scimmie. Se tutto andrà bene, in quindici anni si potrà avere un ippocampo artificiale umano da utilizzare in una serie di condizioni patologiche. Accanto all’indubbio vantaggio di poter trattare pazienti con disturbi neurologici debilitanti, esiste la probabilità di un suo potenziale abuso. Dato che i ricordi determinano le nostre azioni, l’eventualità dell’impianto di microchips con memorie falsificate non può non essere eticamente considerato. E che dire dei ricordi persi che non si vorrebbe siano ripristinati dal microchip? Si sarebbe inoltre portati a pensare di eliminare gli istituti penitenziari rimuovendo i brutti ricordi dei reclusi in modo da renderli dei bravi cittadini. E così via sino a prospettare l’impiego di microchips da parte dei governi degli stati come mezzo di controllo mentale dei cittadini. 16 L. SANDHANA, «Chips Coming to a Brain Near You», in http://www.wired.com/ medtech/health/news/2004/10/65422. 17 D. GRAHAM-ROWE, «World's first brain prosthesis revealed», New Scientist (12 March 2003), in http://www.newscientist.com/article.ns?id=dn3488. 128 Adriana Gini Tra le neuroprotesi è bene menzionare, inoltre, un microchip al silicio, ideato dai ricercatori dell’Optobionics, a Wheaton nell’Illinois, che serve a stimolare le cellule danneggiate della retina, permettendo così l’invio di segnali visivi al cervello. Il suo uso è indicato in pazienti con la retinite pigmentosa18, la degenerazione maculare legata all’età19 e altre patologie retiniche. In studi clinici iniziati nel giugno del 2000, i ricercatori hanno impiantato il microchip nello spazio subretinico di dieci pazienti con la retinite pigmentosa, per valutarne la sicurezza e l’efficacia nel trattamento di malattie della vista dovute a patologia retinica, come parte di un protocollo approvato dalla FDA e della durata di due anni. Sino ad oggi nessun paziente ha mostrato segni di rigetto, infezioni, infiammazioni, erosione o distacco della retina da attribuirsi all’impianto del microchip. Nell’aprile del 2004, la rivista scientifica Archives of Opthalmology ha pubblicato un articolo nel quale sono stati riportati i risultati dei primi sei pazienti trattati, i quali hanno riferito un miglioramento soggettivo caratterizzato da una migliore percezione della luce, del contrasto, del colore, del movimento, della forma, della risoluzione e dimensione del campo visivo. Il microchip retinico è un chip al silicone del diametro di 2 mm e dello spessore di 25 micron, inferiore quindi allo spessore di un capello umano. Contiene circa 5000 cellule solari microscopiche chiamate “microfotodiodi”, ciascuna delle quali dotata di un proprio elettrodo di stimolazione. Questi microfotodiodi convertono l’energia luminosa delle immagini in impulsi elettro-chimici che stimolano le cellule ancora funzionanti della retina, in pazienti con specifiche patologie retiniche. Il microchip riceve energia esclusivamente dalla luce solare incidente e non richiede l’uso di batterie o di collegamenti elettrici esterni. Impiantato al di sotto della retina, nello spazio noto come spazio subretinico, il microchip produce segnali visivi simili a quelli dello strato fotoelettrico retinico. Da questo spazio subretinico, i segnali fotoelettrici artificiali originati dal microchip sono capaci, grazie alla loro posizione, di indurre segnali visivi biologici nelle rimanenti cellule retiniche normofunzionanti, tali che possono essere elaborati ed inviati al cervello attraverso il nervo ottico. Negli studi pre-clinici di laboratorio, animali impiantati con questa neuroprote- 18 A.Y. CHOW et al., «The Artificial Silicon Retina Microchip for the Treatment of Vision Loss From Retinitis Pigmentosa», Arch. Ophthalmol. 122 (2004), 460469. 19 La degenerazione maculare legata all’età è una condizione degenerative della macula. Rappresenta la causa più frequente di perdita della vista in soggetti di età superiore ai 50 anni. È provocata dall’indurimento delle arterie che nutrono la macula con risultante riduzione di ossigeno e sostanze nutritive. La visione centrale deteriora. Neuroetica e Neuromarketing 129 si hanno risposto alla stimolazione luminosa con segnali elettrici e, a volte, con onde cerebrali. L’induzione di questi segnali biologici da parte del microchip indica che si è effettivamente verificata una risposta visiva. All’uscita di questo saggio, la sperimentazione clinica su pazienti sta continuando. Il Neuromarketing Cosa accade nel cervello quando osserviamo i prodotti sugli scaffali del supermarket prima di decidere quale, tra tanti, mettere nel carrello? E nei circuiti neuronali, quando scorriamo un catalogo per gli acquisti? Gli esperti di marketing20 spendono cifre enormi ogni anno per tentare di comprendere i meccanismi decisionali dei loro potenziali acquirenti, utilizzando i focus group21. Recentemente, una nuova disciplina conosciuta come Neuromarketing, si avvale d’immagini dell’attività cerebrale ottenute nei momenti cruciali della fase della scelta negli acquisti. Gli scienziati hanno, infatti, iniziato ad impiegare la fRMN per studiare l’attività del cervello, mentre soggetti volontari, distesi all’interno di un tubo cilindrico, osservano le immagini di prodotti commerciali. Fino a pochi anni fa, la RMN era impiegata nelle strutture universitarie, ospedali e cliniche private, nella diagnosi e stadiazione di patologie del sistema nervoso, quali l’ischemia (ictus), l’emorragia cerebrale ed i tumori e quindi a scopo prevalentemente clinico, mentre più recentemente è stata utilizzata nell’identificazione d’aree cerebrali connesse ai movimenti del corpo o alle emo- 20 Il Marketing, termine anglosassone, è un ramo della scienza economica che si occupa dello studio descrittivo del mercato e dell’analisi dell’interazione del mercato, degli utilizzatori con l’impresa. Il termine marketing prende origine dall’inglese market cui è aggiunta la desinenza del gerundio per indicare la partecipazione attiva, l’azione sul mercato. http://www.en.wikipedia.org/wiki/main_page. 21 Un focus group è una forma di ricerca qualitativa, in cui un gruppo di persone è interrogato riguardo all’atteggiamento personale nei confronti di un prodotto, di un concetto, di una pubblicità, di un’idea, o di un imballaggio. Le domande sono fatte in un gruppo interattivo, in cui i partecipanti sono liberi di comunicare con altri membri del gruppo. Nel mondo del marketing, i focus group sono uno strumento importante per l’acquisizione di feedback riguardo ai nuovi prodotti. In particolare, i focus group permettono alle aziende che desiderano sviluppare, nominare, o esaminare un nuovo prodotto, di discutere, osservare e/o esaminare il nuovo prodotto prima che esso sia messo a disposizione del pubblico. Ciò può fornire informazioni inestimabili sull’accettazione del prodotto da parte del suo mercato potenziale. http://www.en.wikipedia.org/wiki/main_pageipedia.org/ wiki/main_page. 130 Adriana Gini zioni, a scopo di ricerca. Recentemente, negli Stati Uniti, sono stati aperti due centri di Neuromarketing: il BrightHouse Institute for Thought Sciences (cf. http://www.thoughtsciences.com) e il Mind Marketing Laboratory22. Nel 2003, la rivista scientifica Neuron ha riportato i risultati di una ricerca, divenuta famosa, nella quale, con la tecnica di fRMN, si è cercato di comprendere perchè la Coca Cola venda di più della Pepsi, sebbene questa ultima sia preferita quando le bevande non siano rese identificabili dalle rispettive etichette. Read Montague, Direttore del Laboratorio di Neuroimaging23 del Baylor College of Medicine a Houston, nel Texas, ha dimostrato che soggetti volontari che preferivano la Pepsi mostravano un’attivazione cinque volte maggiore nella porzione ventrale del putamen, uno dei centri di “ricompensa” del cervello, rispetto a coloro ai quali piaceva di più la Coca Cola. Ripeté quindi l’esperimento; questa volta, però i volontari non sapevano quale bevanda fosse loro somministrata ed il risultato ottenuto fu sorprendente. Infatti, non solo quasi tutti i soggetti asserivano di preferire la Coca Cola, ma un’altra area del cervello, la corteccia mediale prefrontale, che è connessa al ragionamento e al giudizio, si attivava come la porzione ventrale del putamen. Secondo Montague, il risultato del secondo esperimento indicava che il ricordo o le emozioni legate alla bevanda, cioè “l’immagine” che i volontari si erano creati della Coca Cola, avevano il potere di influenzare la scelta. L’apprezzamento di una marca famosa può, quindi, “scavalcare” di fatto, le nostre percezioni gustative. Si potrebbe concludere che, se si trovasse ciò che stimola la corteccia mediale prefrontale si possiede il segreto di una campagna pubbli- 22 Il Mind of the Market Laboratory (trad. italiana personale: Laboratorio d’applicazione al marketing delle scienze della mente), co-diretto dal Prof. Gerald Zaltman, fa parte dell’Harvard Business School dell’Harvard University e si trova a Boston, nel Massachusetts, Stati Uniti. Sorto con lo scopo di definire e qualificare i criteri di giudizio e le percezioni di consumatori e managers aziendali su un’ampia gamma di concetti, quali “lealtà”, “privacy”, “cioccolata”, unisce teorie e metodi di discipline diverse, dalla psicologia alle neuroscienze. L’attività si avvale del Zaltman Metaphor Elicitation Technique (ZMET), uno specifico sistema di raccolta dati ottenuti mediante colloqui, elaborato dallo stesso Zaltman, il quale così lo descrive: “L’utilizzo di metafore ed espressioni idiomatiche del consumatore, per trasferire, ad un livello di consapevolezza, ciò che è presente nell’inconscio. In pratica, si tratta di aiutare il consumatore ad aprire una spiraglio sul proprio modo di pensare, di incoraggiarlo a guardarsi dentro e a condividere con noi ciò che egli percepisce”. Secondo Zaltman, circa il 95% delle nostre decisioni sugli acquisti avviene nell’inconscio. 23 Il Neuroimaging, termine entrato ormai nell’uso corrente in radiologia, si riferisce all’applicazione delle tecniche di diagnostica per immagine (TAC, RMN, SPECT, PET, ecc) allo studio del sistema nervoso. Neuroetica e Neuromarketing 131 citaria di successo? Il lavoro di Montague è stato ripreso dal Brighthouse Institute of Thought Sciences24, situato nel Dipartimento di Neuroscienze dell’Emory University Hospital ad Atlanta, in Georgia. Clint Kilts, direttore scientifico della Brighthouse, ha commentato i risultati affermando che la corteccia prefrontale mediale è l’area della nostra coscienza del sé ed è la stessa che è asportata durante l’intervento di lobotomia frontale. Si sa che un danno a questo livello produce cambiamenti rilevanti nella personalità, come avvenuto in Phineas Gage. Se essa si attiva alla vista di un determinato prodotto, il suo acquisto diviene più probabile perchè vuol che esso esercita un effetto positivo sulla “immagine” che noi abbiamo di noi stessi. Il gruppo di ricerca della Brighthouse ha osservato che, quando i volontari affermavano di gradire molto qualche cosa, la corteccia prefrontale mediale risultava particolarmente attiva all’indagine di fRMN. Questi risultati potrebbero consentire alle diverse aziende di scoprire se i loro prodotti siano o non siano in grado di stimolare una risposta favorevole all’acquisto, determinando così strategie di marketing. “Scrutare” nel cervello del consumatore in questo modo è, però, economicamente dispendioso. L’utilizzo di un apparecchio di fRMN ha un costo di circa 1000 dollari l’ora, ed una singola sperimentazione su 12 soggetti volontari può costare fino a 50.000 dollari. Tali cifre, tuttavia, sarebbero ampiamente ammortizzate dai vantaggi ottenuti grazie ad una più efficace campagna pubblicitaria. Da un punto di vista etico, il Neuromarketing sembra possedere un certo potere di manipolazione sul consumatore. Secondo Gary Ruskin, direttore esecutivo del Commercial Alert di Portland, nell’Oregon, un’organizzazione non profit che si è opposta all’uso della pubblicità nelle scuole e nei locali pubblici, «è illecito usare la tecnologia per il marketing e non per curare: l’epidemia d’obesità, diabete, alcolismo, gioco d’azzardo e fumo sono dovuti al marketing. Qualsiasi sistema o tecnica che ne aumenti l’efficacia può avere effetti devastanti sul pubblico»25. Tuttavia, alcuni neuroscienziati hanno manifestato un certo scetticismo a riguardo. Chris Frith, dell’Istituto Neurologico di Londra, sostiene che «il solo fatto di poter vedere e misurare un aumento d’attività nel cervello ci fa considerare questo dato più importante di quanto ci è invece riferito su pensieri ed emozioni. Tuttavia, non conosciamo sufficientemente il funzionamento del cervello per poter elaborare i dati ottenuti in queste ricerche. È ancora troppo presto per dire che significato attribuire tali risultati». Le incertezze espresse dal prof. Frith sono state evidenziate anche nel lavoro del gruppo del Max Plank Institute, a Tubin- 24 Thought Science equivale alla scienza del pensiero o della mente. Neuromarketing: http://www.commercialalert.org/issues/culture/neuromarketing. 25 132 Adriana Gini gen in Germania. I ricercatori hanno scoperto che, mentre le indagini di fRMN forniscono dati accurati sul tipo d’informazione che giunge in una determinata area, non sono in grado di stabilire con la stessa esattezza cosa sia trasferito in altre aree. Quindi si conoscerebbe solo una parte del quadro d’insieme. Una teoria della mente che soddisfi a tanti interrogativi non è ancora disponibile. Valutazione etica del Neuromarketing e conclusioni Che esista e sia possibile trovare o non il “bottone degli acquisti” o buy button nel nostro cervello, come alcuni esperti di Neuromarketing sembrano intenzionati a fare, solo il tempo, forse, potrà dircelo. Una cosa certa è che i bioeticisti che si interesseranno di neuroetica e di Neuromarketing, dovranno tenere ben presenti alcuni punti chiave nella formulazione dei loro giudizi. In un ipotetico vademecum, dovranno ascrivere la virtù della prudenza, indispensabile nella valutazione dei risultati delle ricerche o nell’allestimento di protocolli d’indagine. Da quanto abbiamo visto, infatti, manca una teoria della mente adeguata. Un consenso libero e adeguatamente informato e la sperimentazione rispettosa su volontari sarà da ricercarsi in tutte le ricerche compiute su soggetti umani. Come nel caso dello screening genetico, si dovrà ricorrere alla privacy (neuroprivacy26) per tutelare le persone, incluse in protocolli sperimentali o clinici, da probabili discriminazioni nei settori lavorativo, assicurativo, famigliare e sociale. L’equa distribuzione dei vantaggi ottenuti dalle scoperte nel campo delle neuroscienze per non favorire le disuguaglianze sociali e l’ampliarsi del divario esistente tra paesi ricchi e paesi poveri, sarà un altro elemento da tenere a mente nel giudizio bioetico. Infine, occorre ricordare che ciò che è mentale e spirituale in ciascuno di noi, non è identificabile con il metodo empirico e, pertanto, non è possibile ridurre l’uomo a ciò che è osservabile e misurabile, né la persona al proprio cervello! Concludo, avvicinandomi al mistero della mente umana, con le parole tratte dal discorso di Giovanni Paolo II ai Membri della Pontificia Accademia per le Scienze, tenuto in occasione del Convegno su “Mente, cervello e educazione”, il 10 Novembre 2003: […] La neuroscienza e la neurofisiologia, attraverso lo studio dei processi chimici e biologici del cervello, contribuiscono molto alla comprensione 26 Per neuroprivacy s’intende il rispetto alla riservatezza delle informazioni sulle funzioni cerebrali, normali o patologiche, ottenute mediante l’imaging cerebrale ed altre tecniche diagnostiche. Neuroetica e Neuromarketing 133 del suo funzionamento. Tuttavia, lo studio della mente umana comprende molto più che i semplici dati osservabili, propri delle scienze neurologiche. La conoscenza della persona umana non deriva solo dal livello dell’osservazione e dell’analisi scientifica, ma anche dall’interconnessione tra lo studio empirico e la comprensione riflessiva. Gli scienziati stessi percepiscono, nello studio della mente umana, il mistero di una dimensione spirituale che trascende la fisiologia cerebrale e sembra guidare tutte le nostre attività come esseri liberi e autonomi, capaci di responsabilità e di amore, e caratterizzati dalla dignità […] Gli scienziati, oggi, spesso riconoscono la necessità di mantenere una distinzione tra la mente e il cervello, o tra la persona che agisce con libero arbitrio e i fattori biologici che sostengono il suo intelletto e la sua capacità di apprendere. In questa distinzione, che non deve necessariamente significare una separazione, possiamo vedere le fondamenta di quella dimensione spirituale propria della persona umana che la Rivelazione biblica indica come rapporto speciale con Dio Creatore (cf. Gen 2,7), a immagine e somiglianza del quale è fatto ogni uomo e ogni donna (Gen. 1,26-27). Pedro Barrajón L’uomo e la tecnica secondo una prospettiva teologica Spesso si presentano oggi le posizioni della Chiesa come contrarie ad un legittimo progresso della scienza e della tecnica, come se la Chiesa conservasse ancora un atteggiamento di diffidenza di fronte ai grandi progressi scientifici degli ultimi secoli e il caso Galileo non fosse definitivamente superato. Una tale presentazione della posizione della Chiesa è chiaramente inesatta e falsa. Il Magistero della Chiesa si è manifestato in circostanze diverse su questa tematica e i suoi interventi sono molto articolati. Nel presente intervento si cercherà di chiarire la sua posizione soprattutto prendendo spunto dalla grande costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, che è il punto di riferimento obbligato per le ulteriori prese di posizione del Magistero ecclesiastico. In un secondo momento si vedrà come l’uomo, creato ad immagine di Dio, è un amministratore responsabile del mondo nel quale Dio lo ha messo. Il principio di responsabilità, considerato anche da altri grandi autori contemporanei, ci aiuta a capire perché la Chiesa, pur aperta alle grandi scoperte della scienza, conservi un atteggiamento di prudenza e di salvaguardia del bene della persona al di là di altre considerazioni che, nel nome del progresso scientifico, si fanno oggi per accettare certe sperimentazioni, soprattutto nell’ambito della bioetica, che ledono profondamente la dignità dell’essere umano, al quale queste sperimentazioni vorrebbero servire. La tecnica come attività umana nel mondo nella Gaudium et Spes Il tema delle biotecnologie è relativamente recente ma già la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa nel mondo odierno del Concilio Vaticano II, Rettore e Professore Ordinario di Teologia, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. 136 Pedro Barrajón Gaudium et Spes, che accanto alla Lumen Gentium è come la spina dorsale dell’ultimo grande concilio ecumenico, aveva affrontato il tema più generale della tecnica in diversi numeri1. La tecnica, come dominio sul mondo e servizio ai fratelli Nel numero 57, dedicato al rapporto tra la fede e la cultura, si mette in collegamento il tema della tecnica con la teologia della creazione, quale emerge nel primo capitolo della Genesi: L'uomo, infatti, quando coltiva la terra col lavoro delle sue braccia o con l'aiuto della tecnica, affinché essa produca frutto e diventi una dimora degna di tutta la famiglia umana, e quando partecipa consapevolmente alla vita dei gruppi sociali, attua il disegno di Dio, manifestato all'inizio dei tempi, di assoggettare la terra e di perfezionare la creazione, e coltiva se stesso; nel medesimo tempo mette in pratica il grande comandamento di Cristo di prodigarsi al servizio dei fratelli2. Il Concilio considera la tecnica alla luce del comandamento divino di dominare la terra. Questa prospettiva è molto positiva perché essa ci offre un collegamento tra la tecnica, e le biotecnologie che ne sono un caso particolare, e il volere divino. Attraverso la tecnica, infatti, l’uomo domina la terra e fa di questa terra, casa di Dio per l’uomo, una dimora veramente umana, degna dell’umanità. Accanto al dominio sulla terra, dominio per niente dispotico, ma sempre messo in relazione con il capitolo secondo della Genesi dove l’uomo è presentato come guardiano e custode del giardino dell’Eden («Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse», Gen 2,15), si sottolinea il carattere di servizio ai fratelli e in questo senso la tecnica permette all’uomo di mettere in pratica il grande comandamento di Cristo di prodigarsi al servizio degli altri. Lo stesso numero 57 della Gaudium et Spes esprime un giudizio molto positivo della tecnica (e delle scienze naturali), per il fatto che essa permette all’uomo di essere più libero per dedicarsi alla contemplazione: «lo spirito umano, più libero dalla schiavitù delle cose, può innalzarsi con maggiore speditezza al culto ed alla contemplazione del Creatore». Mi sembra che questa ragione di tipo sapienziale, che sottolinea la profonda dimensione contemplativa della vita umana, venga spesso dimenticata. La tecnica 1 2 Gaudium et Spes, n. 5, 33, 36, 57. Gaudium et Spes, n. 57. L’uomo e la tecnica 137 agevolando il dominio dell’uomo sulla materia dovrebbe permettergli di dedicarsi all’essenziale, che è la contemplazione della verità. Subito dopo, però, il testo conciliare lascia trasparire un pericolo presente non solo nella tecnica ma anche e soprattutto nella scienza o piuttosto nel suo metodo: quello di cadere in un certo “fenomenismo” e “agnosticismo”, che sono conseguenza logica di un certo positivismo di fondo con cui alcuni vorrebbero fare la scienza. Tale fenomenismo e agnosticismo consiste nel fatto di non riconoscere nell’uomo il potere di arrivare veramente alla verità metafisica del reale, ma di restare piuttosto “all’esterno” della realtà senza poter veramente entrarvi. Se si può dire che la scienza, in forza del suo metodo empirico, ha certi limiti conoscitivi, facilmente constatabili da una sana filosofia della scienza, sarebbe anche un errore cadere in una cerchia di subdolo scetticismo. «Anzi» – dice il Concilio – «vi è il pericolo che l'uomo, fidandosi troppo delle odierne scoperte, pensi di bastare a se stesso e non cerchi più valori superiori»3. Ma se il Concilio segnala dei pericoli, subito chiarisce che questi pericoli non debbono indurre alla tentazione di non riconoscere i suoi valori positivi. Il Concilio fa un’enumerazione dei vantaggi notevoli che si possono trarre dalla scienza e dalla tecnica: Il gusto per le scienze e la rigorosa fedeltà al vero nella indagine scientifica, la necessità di collaborare con gli altri nei gruppi tecnici specializzati, il senso della solidarietà internazionale, la coscienza sempre più viva della responsabilità degli esperti nell'aiutare e proteggere gli uomini, la volontà di rendere più felici le condizioni di vita per tutti, specialmente per coloro che soffrono per la privazione della responsabilità personale o per la povertà culturale (GS, n.57). La valorizzazione positiva della scienza e della tecnica da parte di questo documento è molto importante perché, contrariamente a ciò che certi media hanno diffuso, la Chiesa ha un atteggiamento fondamentalmente favorevole verso la tecnica. È da notare che tra i valori positivi annoverati si trova quello della collaborazione tra gruppi di scienziati e tecnici specializzati che aiuta a sviluppare il senso di responsabilità della comunità scientifica verso l’umanità. Nella prospettiva conciliare, questi valori umani hanno una valenza di praeparatio evangelica, perché possono aprire la strada alla ricezione del Vangelo e al suo annuncio al mondo di oggi. 3 Ibid. 138 Pedro Barrajón La tecnica come attività umana nel mondo La visione così equilibrata della scienza e della tecnica che fa il numero 57 della Gaudium et spes, deve essere inquadrata secondo la prospettiva ancora più generale del numero 36, che svolge il tema dell’autonomia dell’attività umana. La tecnica, infatti, è una peculiare forma di attività umana. In questo numero si parte da un timore che alcuni dei contemporanei nutrono verso la religione in generale e il cristianesimo in particolare. Il timore è quello dell’ingerenza, della non chiara distinzione tra l’ambito religioso e quello profano che darebbe come risultato una specie di controllo della Chiesa delle diverse attività umane tra cui la stessa scienza. Il Concilio chiarisce innanzi tutto ciò che si intende per autonomia delle realtà temporali, mettendo in evidenza che se per autonomia di queste realtà si intende l’accettazione delle leggi proprie insite nelle realtà mondane, allora non c’è niente da temere di fronte ad una tale autonomia, la quale si fonda non da autosufficienti rivendicazioni umane, ma nello stesso volere del Creatore, il quale ha immesso queste leggi nel cosmo; leggi che l’uomo, con la fatica dello studio e della ricerca, trova e scopre, traendone profitto per la persona umana e la società. Questa legittima autonomia ha un fondamento nella teologia della creazione. Dio Creatore, infatti, ha dotato le creature di una loro propria consistenza, verità e bontà. L’uomo trova queste esigenze di tipo metafisico e le deve anche rispettare, così come deve rispettare il legittimo metodo proprio ad ogni scienza. «Le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio»4. Questo è il principio rettore che guida le relazioni tra le realtà profane e le realtà soprannaturali. Non ci sono due fonti di verità in contrasto, come del resto la Chiesa ha sempre proclamato5. Anzi, il Concilio va oltre, affermando che, chi si sforza con umiltà e perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono. La riflessione del Concilio cerca di creare un rapporto fondamentale di verità tra il Dio Creatore, il mondo e l’uomo. La filosofia sistematica prende, infatti, questi tre temi come oggetto fondamentale del suo studio. Il rapporto dell’uomo con il mondo deve essere guidato dal volere divino. Sia il mondo che l’uomo sono creature e come tali devono rispettare le leggi del Creatore. Lungo la storia si sono date posizioni di tipo 4 Gaudium et Spes, n. 36. CONCILIO VATICANO I, Costituzione dogmatica sulla fede cattolica Dei Filius, cap. III. DZ 1785-1786 (3004-3005). 5 L’uomo e la tecnica 139 antropocentrico e altre di tipo cosmocentrico. In realtà non c’è un’opposizione necessaria tra l’uomo e il mondo. Alcune filosofie, che non abbandonano completamente la dialettica marxista, li vogliono vedere come necessarie realtà antagonistiche. La creaturalità accomuna l’uomo e il mondo di fronte a Dio. Questa creaturalità è la motivazione teologica per poter parlare, come ha fatto San Francesco, di “fratello sole e sorella luna”. Le realtà del mondo sono creature, come noi lo siamo. Il mondo non ha il carattere personale, proprio della persona umana. L’essere personale è superiore ontologicamente al mondo, ma ciò non significa che il mondo sia da disprezzare ma anzi l’uomo è tenuto a rispettare la propria valenza ontologica. L’uomo che è, come diceva Heidegger, il custode dell’essere, deve essere anche il custode del mondo, non il distruttore del mondo. La comprensione più precisa del numero 36 della Gaudium et Spes si deve fare alla luce dei numeri precedenti, dove il documento conciliare si pone una serie di interrogativi sull’operare dell’uomo nei confronti della natura. Questo dominio sulla natura ha trasformato la faccia della terra. In molte zone del mondo e non solo nelle zone urbane, il paesaggio è profondamente cambiato dalle applicazioni della tecnica. L’habitat umano è profondamente cambiato lungo i secoli. La tecnica ha avuto ottimi effetti positivi, ma allo stesso tempo sorge in modo quasi inevitabile la domanda sul senso e il valore di questa attività. L’uomo si domanda fino a dove egli possa trasformare il pianeta o se queste trasformazioni si volgeranno contro lo stesso uomo per distruggerlo. Il Concilio nel numero 33 della Gaudium et Spes fa una confessione di umiltà, che spesso viene dimenticata, quando afferma che «la Chiesa non ha sempre pronta la soluzione per ogni singola nuova questione». Il progredire delle tecnologie e tante altre questioni, soprattutto quelle che riguardano l’ambito della vita, pongono alla coscienza dell’uomo nuovi quesiti, a cui la Chiesa deve poter rispondere con l’uso della ragione e la luce della rivelazione. Per ogni singola questione ci vuole una profonda riflessione che tenga conto di tutti gli aspetti di tipo scientifico, tecnico, morale, umano e religioso coinvolti nel problema. L’apporto specifico della Chiesa è quello di mettere al servizio dell’uomo la luce della rivelazione e l’uso retto della ragione, purificata dal lume della fede. Ma la Chiesa non ha di per sé competenze di tipo tecnico. La sua competenza specifica è di tipo spirituale e morale. Ed è in questo senso che, come diceva Paolo VI, è esperta in umanità6. 6 Populorum Progressio, n. 13. 140 Pedro Barrajón Il valore supremo della persona umana Con queste premesse si può riflettere (numeri 34-35 della Gaudium et Spes) sulla tecnica alla luce della questione più amplia dell’attività umana. Il valore supremo della persona dalla quale scaturisce l’attività umana, è il bene supremo da rispettare perciò, «l’attività umana, come deriva dall’uomo, così è ordinata all’uomo»7. La persona umana è al centro di ogni considerazione morale e la sua azione sul mondo non implica solo una realizzazione transeunte, esteriore all’uomo, ma comporta un’azione immanente, nel senso che l’azione che trasforma il mondo attraverso l’applicazione della tecnica, trasforma l’uomo stesso, sviluppando così le sue facoltà e dandogli la possibilità di trovare un superamento fuori di sé. Il Concilio ribadisce con chiarezza che l’uomo vale di più per quello che è che per quello che ha8. Questa frase proviene da una citazione di Paolo VI di un discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede nel gennaio del 1965. Il Concilio la riprende per mettere in risalto il valore essenziale della persona umana in se stessa sopra ogni sua esteriorità o realizzazione. La tecnica ha un grande valore cosmologico perché è capace di trasformare il mondo, ma ha un più grande valore antropologico, perché rende l’uomo più umano, se usata con rettitudine di intenzione e secondo l’ordine morale oggettivo. Lo sviluppo tecnico viene dunque valorizzato perché offre «la base materiale della promozione umana»9, ma da solo non può dare la vera promozione dell’uomo, se viene slegato dalla persona e dalla sua dignità. La tecnica non è dunque il valore supremo, neanche il mezzo oggettivamente principale per ottenere lo sviluppo umano, perché la tecnica, se non rispetta l’uomo in ciò che profondamente è, potrebbe convertirsi in un’arma che si alza contro di lui e lo distrugge. La tecnica dunque non si oppone in linea di principio alla vera realizzazione dell’uomo. Anzi scaturisce in un certo senso dal comandamento divino di dominare la terra. Ma questo dominio deve a sua volta essere normato secondo quella norma personalistica di cui parlava spesso Giovanni Paolo II10. La tecnica deve essere realizzata in funzione del bene della persona, deve essere adeguata alla sua dignità perché «l’agire umano 7 Gaudium et Spes, n. 35. Ibid. 9 Ibid. 10 K. WOJTYŁA, «L’uomo nel campo della responsabilità», in ID., Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Bompiani, Milano, 2003, 1296 e ss. 8 L’uomo e la tecnica 141 non è soprattutto realizzazione del mondo ma realizzazione di sé: dell’umanità della persona»11. Bontà della tecnica e disegno di Dio Il numero 34 della Gaudium et Spes, riprende questa bontà fondamentale della tecnica affermando che l’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni, corrisponde al disegno di Dio. Il riferimento biblico è sempre quello di Gen 1,27, dove si presenta l’essere immagine di Dio come il fondamento ontologico del dominio dell’uomo sul mondo. L’uomo domina con la tecnica il mondo in quanto egli è immagine del Creatore, che solo possiede un dominio assoluto sul creato. Il dominio dell’uomo è delegato. L’uomo non può fare da padrone del mondo, ma lo domina in quanto ne prende cura e serve il Creatore. Perciò l’attività umana nel mondo deve essere riferita essenzialmente al Creatore e così, in questo riconoscimento della presenza e dell’azione di Dio nel mondo, Dio è glorificato, il suo amore di Creatore e di Padre è manifestato. Risulta ben chiaro dunque che il Concilio riconosce il valore e la bontà della tecnica come attività umana che trasforma il mondo secondo il volere di Dio, proprio perché attraverso la tecnica - che richiede una conoscenza profonda delle leggi della natura e una capacità operativa per applicare questa medesima conoscenza alla natura per farle produrre beni - l’uomo si presenta e si auto-riconosce in un certo senso come “co-creatore”, efficace collaboratore del Creatore nell’opera di trasformazione del mondo affinché questo arrivi alla sua pienezza. Detto questo, non bisogna però dimenticare che la tecnica è uno dei mezzi di dominio dell’uomo sul mondo, ma che l’attività umana sul mondo non si riduce solo alla tecnica e che la forma di glorificare Dio sulla terra non si riduce solo all’esercizio della tecnica. Anzi, quando lo scopo della glorificazione di Dio, quando il senso di collaborare con il Creatore si affievolisce, allora l’uomo rischia seriamente anche di perdere il senso della sua attività con la susseguente tentazione di volere diventare Creatore assoluto e dimenticando che egli è fondamentalmente creatura. Ma queste tentazioni e pericoli non devono far retrocedere l’impegno attivo del cristiano nel suo volere far della terra un luogo veramente umano anche attraverso l’uso della tecnica. Le conquiste tecniche dell’uomo non sono rivali del potere del Creatore. La rivalità tra Dio e l’uomo appare già come una forte tentazione nelle parole del serpente alla donna quando egli gli disse: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando 11 Ibid., 1297. 142 Pedro Barrajón voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri cuori e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 4-5). Il serpente vuole additare Dio come potenziale concorrente dell’uomo. Lungo la storia dell’umanità alcune filosofie hanno cercato di opporre l’attività divina a quella umana, mostrandole come alternative inconciliabili. Il cristianesimo invece sempre ha ritenuto che le vittorie dell’uomo sono segno della grandezza di Dio e conseguenza del suo ineffabile disegno di salvezza. Emerge qui una visione eminentemente positiva della tecnica e delle altre attività divine nel mondo. Tale visione contrasta con le filosofie e le ideologie che, come il materialismo dialettico e il materialismo storico e i suoi derivati ed epigoni, vogliono sottolineare l’antagonismo tra Dio e l’uomo, come se la vittoria di uno fosse la morte dell’altro. Ma ogni attività umana ha l’ambiguità propria dello stato in cui si trova l’umanità, redenta dal sangue di Cristo, ma ancora sotto l’azione del peccato. La tecnica può deviare dal suo fine originale e diventare strumento di potere, di distruzione, di obnubilazione dei valori etici e morali. Può diventare un’attività non umana, non in se stessa, ma nell’uso che se ne può fare, se non è messa al servizio dell’uomo e secondo il volere di Dio. La tecnica ha dunque un grande valore ma non è il valore supremo, come alcuni, collegandola al tema del progresso, vorrebbero. Un valore anche più alto della tecnica è lo sforzo umano allo scopo di conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano dei rapporti sociali12. La tecnica, redenta anche da Cristo Per capire teologicamente in profondità il valore della tecnica bisogna considerarla alla luce del mistero pasquale, che assume il peccato del mondo e lo trasforma, grazie all’amore redentore di Cristo, in pegno di salvezza. Il peccato ha immesso nell’azione umana un’ambivalenza che continua nel presente ordine storico per cui il progresso tecnico, che di per sé contribuisce al servizio del bene dell’uomo e al raggiungimento della sua perfezione, può invece anche essere usato per forme di potere oppressivo. È necessaria una purificazione dell’attività umana per superare le insidie che minacciano la tecnica. La redenzione di Cristo ha dato all’uomo la possibilità di trasformarsi, per la grazia, in una nuova creatura e di amare Dio sopra ogni cosa e le altre persone e il mondo in Dio. La grazia di Cristo opera nell’interiore dell’uomo un rinnovamento che gli permette di vivere con la gloriosa libertà di figli di Dio (Rom 8,19) e di guardare e usare le cose con spirito di povertà, aprendosi ai bisogni degli 12 Gaudium et Spes, n. 35. L’uomo e la tecnica 143 altri, possedendo tutto come colui che tutto ha e a niente si afferra (2 Cor 6,10; 1 Cor 3,22-23). Questa purificazione interiore e questo rinnovamento lo opera Gesù Cristo. Infatti, il Verbo di Dio, entrando nel mondo, assume su di sé la storia dell’uomo, purificandola ed elevandola e gli rivela il senso della vita e della storia. Il suo nuovo comandamento della carità è il perno sul quale trasformare il mondo, dando agli uomini l’ethos di una vera e nuova fraternità. In questo compito, egli conta sull’azione dello Spirito Santo che rinnova i cuori degli uomini affinché cerchino l’avvenimento del Regno dei Cieli. Mentre camminano verso la patria definitiva, il sacramento dell’Eucaristia li conforta ed è il pegno della speranza di un mondo nuovo. Nell’Eucaristia gli elementi naturali del mondo, pane e vino, coltivati dall’azione dell’uomo (tecnica) diventano attraverso l’azione sacramentale Corpo e Sangue di Cristo13. L’Eucaristia introduce anche il tema escatologico perché in essa si anticipa in un certo senso la gloria futura. Il Concilio ricorda che questo mondo passerà (1 Cor 7,31) benché non sappiamo quando questo evento avrà luogo né conosciamo i particolari. Ciò che la rivelazione ci dice è che Dio prepara cieli nuovi e terra nuova dove regna la giustizia (Cf. 1 Pt 3,13) e che la morte sarà vinta con la partecipazione alla risurrezione di Cristo. Allora la nostra debolezza sarà rivestita di forza (Cf. 1 Cor 15,42) e rimarrà la carità e le sue opere. L’uomo troverà allora la vera libertà, essendo libero dalla servitù del peccato e dalla morte. L’avvento di questo mondo futuro finale non è opera dell’uomo. È dono divino, ma l’uomo, da parte sua, deve fare ciò che gli compete per poterlo raggiungere. Egli può preparare con la sua azione l’avvento del mondo futuro. Ma l’attesa di questo mondo non dovrebbe essere un ostacolo per l’impegno in favore del mondo presente. Le accuse fatte alla Chiesa, provenienti dalla filosofia marxista e da altre correnti di pensiero, che presentano la fede come l’oppio del popolo non rispecchiano la verità sul cristianesimo. La fede non vuole allontanare l’uomo dalla sua responsabilità in questo mondo. Anzi, Cristo ha dato un nuovo valore alla libertà e al suo impegno nel concreto della storia per salvarla dal di dentro, con l’aiuto della grazia. Il progresso tecnico e scientifico può ordinare meglio la società umana e dare migliore condizione di vita agli uomini. Questo progresso interessa al Regno di Dio ma, come abbiamo visto, il Regno non si identifica necessariamente con il progresso perché il progresso, buono in sé, potrebbe anche essere messo al servizio di fini che non sono consoni con lo spirito del Vangelo né con la dignità dell’uomo. Allora la bontà intrinseca dei progressi scientifici si pervertirebbe e si con- 13 Gaudium et Spes, n. 38. 144 Pedro Barrajón vertirebbe in un’arma distruttrice della persona. Per cui «bisogna distinguere con attenzione il progresso temporale e la crescita del Regno di Cristo»14. Il progresso scientifico e tecnico potrebbe purtroppo comportare a volte un recesso etico e religioso, se l’uomo non lo sa usare per costruire la civiltà dell’amore. Qui appare di nuovo l’ambiguità delle realtà temporali e il veleno del peccato che a ogni momento è come in agguato per pervertire l’azione umana. Ma il peccato e il suo potere di distruzione non è l’ultima parola sulla storia perché l’evento della risurrezione, che è un fatto avvenuto nella storia, la supera e la rinnova dal di dentro. La risurrezione è «la più grande mutazione mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l'ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l'intero universo»15. Questo evento cosmico e salvifico, che tocca l’intimo dell’essere dell’universo e della persona umana, rinnova anche i grandi beni dell’umanità come la dignità umana, l’unione fraterna e la libertà. Questi grandi beni, che sono adesso in questo mondo sotto l’influsso del peccato, saranno ritrovati, purificati, illuminati e trasformati. Poiché la risurrezione di Cristo è già avvenuta ed è stato glorificato. Egli ci ha inviato il suo Spirito, che opera in modo misterioso dal di dentro rinnovando tutto in modo silenzioso ma efficace come il seme gettato alla terra dal seminatore che dà frutto nel tempo opportuno (Cf. Mt 13,3 ss.). L’uomo amministratore della creazione visibile: una chiamata alla responsabilità Abbiamo accennato il fatto che la tradizione cristiana presenta l’uomo come un essere creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1, 26-27). L’uomo non rassomiglia però ad un Deus solus ma al Dio uno e trino. La fede trinitaria, propria del cristianesimo, comporta una visione antropologica profondamente comunionale. L’uomo, infatti, è chiamato dalla Trinità a vivere la comunione che caratterizza le relazioni trinitarie. Come essere dotato d’intelligenza, volontà e libertà, essere chiamato alla comunione, l’uomo spicca al di sopra degli altri esseri. Infatti, a lui fu rivolto il comandamento divino: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, e abbiate dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, 14 Gaudium et Spes, n. 39. BENEDETTO XVI, Discorso al IV Convegno Nazionale della Chiesa italiana, 19 ottobre, 2006. 15 L’uomo e la tecnica 145 sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28). Il Creatore ha concesso all’uomo il dono di poter rappresentarlo in mezzo al mondo visibile, esercitando un dominio non dispotico né velleitario sul mondo, ma pieno di bontà, di saggezza e di amore. In questo senso, l’uomo non è un mero padrone del mondo. È piuttosto un amministratore. Egli deve rappresentare Dio in mezzo al mondo. Gesù stesso parla spesso nelle sue parabole di questo carattere di rappresentanza, del dover essere amministratori fedeli (Lc 12,42; 16,1ss.). San Paolo parla del vescovo come amministratore di Dio (Tt 1,7). La parabola dei talenti è chiara a questo riguardo. L’uomo deve rispondere dei talenti che Dio gli ha dato (Mt 25,1ss.). Per cui possiamo dire che la signoria che Dio confida all’uomo per amministrare il mondo creato è una signoria che deve essere vissuta nella diaconia, esercitata in modo creativo, non solo conservando il talento del mondo che Dio gli ha affidato, ma cercando di farlo fruttificare in modo abbondante. Qui si inserisce tutta l’attività dell’uomo per cambiare il mondo in modo tale da renderlo più casa per l’uomo e qui si inserisce il valore della scienza, della tecnologia, dell’arte, di tutte quelle attività in cui l’uomo manifesta il suo potere creativo in funzione del perfezionamento di se stesso e del mondo. Poiché l’uomo non è il padrone del mondo, ma il suo amministratore, egli è chiamato ad esercitare una tale diaconia in modo simile a Dio. «È un grave fallimento morale per gli essere umani agire da dominatori della creazione visibile separandosi dalla più alta legge divina» 16. L’essere amministratore rende l’uomo più consapevole della sua creaturalità, ma non lo esenta dalla sua attiva collaborazione. La conoscenza del mondo attraverso la scienza Un primo momento nel dominio del mondo dalla parte dell’uomo è quello della ricerca della struttura profonda della realtà. L’uomo è chiamato a penetrare la realtà attraverso la sua sistematica conoscenza. Tale è l’impegno della scienza. La conoscenza scientifica è diventata oggi il modello, talvolta univoco, di ogni sapere. Il risultato ottenuto dalle scienze empiriche e dalle scienze fisiche è stato talmente forte che le altre scienze, includendo a volte certi approcci filosofici e teologici, ne hanno voluto imitare il metodo. La scienza si caratterizza per il suo rigore logico e per la sua oggettività. Il rigore scientifico si manifesta nel fatto che le singole affermazioni che si fanno all’interno di un determinato campo del sapere possono essere giu- 16 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Comunione e Servizio, n. 60, (23 luglio 2004), Cf. La Civiltà Cattolica 4 (2004), 254-286. 146 Pedro Barrajón stificate e stabilire tra di esse correlazioni ragionate. Una verità di tipo scientifico può essere giustificata perché constatata empiricamente o perché fondata come postulato iniziale. Per la scienza è importante stabilire correlazioni logiche che costituiscono nell’insieme una teoria. Ogni sapere scientifico deve avere il suo rigore logico ma ogni scienza realizzerà questa constatazione in modo diverso. La fisica, la biologia, le scienze naturali constatano in modo diverso i fatti che studiano. Ogni scienza seguirà un metodo proprio che deve essere applicato con rigore, precisione e sistema. Non tutte le scienze possono avere lo stesso metodo della matematica, considerata come la scienza pura per eccellenza. Alcune scienze dovranno tener più in considerazione le generalizzazioni induttive; altre, le classificazioni. Ciò che è essenziale è che le correlazioni logiche seguano un processo rigoroso17. La fedeltà della scienza al proprio metodo garantisce la sua oggettività scientifica. Questo carattere della scienza fa riapparire in essa il concetto di verità, che adesso ritorna ad essere applicato anche alla scienza, dopo un certo periodo dove sembrò sparire. La conoscenza scientifica ci dà conoscenze utili e pragmatiche, ma queste sono tali perché sono vere. Accanto al carattere di oggettività si deve anche aggiungere quello dell’intersoggettività che permette di giungere a risultati convergenti, in un determinato ambito del sapere, potendo controllare e verificare i procedimenti usati. L’invarianza di tipo matematico, un altro carattere della scienza, si riferisce al fatto che gli esperimenti, se fatti in modo giusto da diversi scienziati, ottengono uguali risultati. L’intersoggettività e l’invarianza suppongono che una determinata scienza restringe la sua indagine ad un suo oggetto specifico proprio (oggetto materiale), considerato da un punto di vista anche specifico (oggetto formale), e ha determinati presupposti epistemologici accettati dalla comunità scientifica. La scienza ci dà una conoscenza oggettiva della realtà, non nel senso che il soggetto sparisce, viene assolutamente neutralizzato o si può in assoluto prescindere da lui, ma piuttosto che l’attenzione conoscitiva è centrata sull’oggetto da studiare, cercando di superare, nella misura del possibile, le determinazioni soggettive. Dall’altra parte, i presupposti epistemologici propri di una scienza sono il risultato di un accordo tacito degli studiosi che accettano determinate regole. Un accordo formale sarebbe impossibile. Per esempio, si dà per scontata l’accettazione tacita del metodo ipotetico-deduttivo di Galileo, il quale, lasciando da parte i modelli metafisici applicati alla conoscenza scientifica, si concentrò sugli aspetti quantitativi, empirici e misurabili della realtà. 17 Cf. E. AGAZZI, Il bene, il male e la scienza, Rusconi, Milano, 1992. L’uomo e la tecnica 147 La conoscenza che dà la scienza è dunque relativa alla validità di questo metodo e di altri presupposti epistemologici. I limiti del metodo e dei presupposti si ripercuotono necessariamente sui risultati conoscitivi. Volere fare di questo tipo di conoscenza qualche cosa di assoluto, che misconosce questi fondamenti epistemologici, sarebbe evidentemente riduttivo. Il principio morale di responsabilità Abbiamo già considerato che la conoscenza scientifica del mondo comporta anche un dominio tecnico che deve essere usato con la dovuta responsabilità. L’uomo deve essere responsabile delle sue azioni e l’applicazione della tecnica alla realtà deve essere fatta con responsabilità: «quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità, sia individuale che collettiva»18. La tecnica è senza dubbio una forma di potere. Chi può dominare il mondo non solo domina la natura ma può estendere anche il suo dominio sugli altri uomini e sulle diverse forme di convivenza sociale, culturale, economica e politica. Chi ha più grandi conoscenze tecniche ha una più grande responsabilità di usarle nel rispetto della persona umana e non secondo i propri capricci o interessi. Questa responsabilità diventa ancora maggiore nel cristiano perché egli ha il dovere di impegnarsi ancora di più nell’edificazione del regno di Dio in questo mondo secondo il volere di Dio e il bene della persona umana. Il cristiano non è uno che, come ha presentato una certa letteratura di propaganda anticristiana, si disinteressa del mondo e che vive una fede religiosa che sarebbe l’oppio del popolo. Il cristiano invece vive con passione il suo essere-nel-mondo proprio perché sa che l’edificazione del mondo è parte integrale della sua vocazione e in questo modo si avvicina a Dio, diventando una sua più perfetta immagine. Queste considerazioni sono fondamentali per capire certe posizioni del Magistero ecclesiastico e della Chiesa stessa. La Chiesa non è contraria né alla ricerca scientifica né all’uso della tecnica, ma entrambe devono essere usate con responsabilità rispettando la dignità dell’essere umano secondo il volere di Dio. Il cosiddetto principio di responsabilità garantisce che il progresso scientifico sia veramente tale. Non si può invocare il progresso scientifico e tecnico, se questi si applicano per ledere l’essere umano, negando così l’intenzione primaria dell’attività tecnica e scientifica. Il principio di responsabilità deve garantire anche il contenuto di tale responsabilità nel rispetto assoluto della persona umana. 18 Gaudium et Spes, n. 34. 148 Pedro Barrajón La responsabilità etica è un’esigenza dello stesso sistema scientifico come ha cercato di mostrare Hans Jonas, il quale con il suo noto Prinzip Verantwortung volle presentare le esigenze etiche nell’era della tecnologia. Jonas voleva mostrare come il pensiero scientifico moderno, con la sua pretesa di ridurre tutto al meramente fattivo, rendeva irrazionale lo stesso fondamento dell’etica. La scienza esige fondamentalmente una forte dimensione morale se vuole essere messa al servizio dell’uomo e non viceversa. Se così non fosse, noi dovremmo passare da una situazione in cui l’uomo si sentiva terrorizzato di fronte alle forze ignote della natura selvaggia, ad un’altra in cui si sente terrorizzato dalla tecnica, che egli stesso ha creato per dominare la natura ma che sembra non poter dominare. La tecnica può creare condizioni secondo le quali l’uomo diventa pericoloso per l’uomo: homo homini lupus. Essa mette l’uomo di fronte a problemi globali i cui esiti si possono difficilmente prevedere. Come soluzione di una tale situazione, Jonas riconosce la struttura teleologica dell’essere e la superiorità dell’avere uno scopo di fronte all’assenza di esso. Nelle sue azioni, anche quelle che riguardano la scienza e la tecnica, l’uomo dovrebbe dare una risposta positiva al suo stesso essere e alla sua vita. Agire in questa direzione è agire con responsabilità e riconoscere che l’essere ha sempre una connotazione morale dalla quale l’uomo non può prescindere. L’essere deve essere. E l’uomo non può negare questa dinamica dell’essere, se vuole rispettare l’essere stesso e il suo stesso essere personale. Benché il principio di responsabilità di Jonas è stato criticato da certe correnti etiche perché troppo orientato verso un antropocentrismo e una visione troppo negativa della scienza e della tecnica, il suo tentativo si deve leggere come una proposta di mediazione tra il principio-speranza di Ernst Bloch, che Jonas critica severamente, e il “principio-disperazione” di Anders. Lasciando da parte la sua peculiare forma di capire la responsabilità, Jonas ha messo l’accento sulla necessità di fare entrare considerazioni di tipo etico nell’ambito dell’azione umana tecnico-scientifica. Alcuni autori, come E. Agazzi, aggiungono che la responsabilità non è solo un dovere morale ma anche un’esigenza del sistema stesso per il fatto che i diversi sistemi dove opera l’uomo non possono essere considerati in modo assolutamente separato. Il sistema morale interagisce con il sistema scientifico. Agazzi vuole superare in questo modo un certo atteggiamento moralistico, facendo vedere come l’etica non deve essere considerata dal di fuori ma dal di dentro dell’azione umana, anche quella dell’ambito tecnico-scientifico. Il principio di responsabilità cristiana Da un punto di vista teologico è ovvio che l’azione umana nel mondo, derivante dal comandamento divino di “dominio” sul mondo (un domi- L’uomo e la tecnica 149 nio che, come abbiamo visto, è innanzi tutto servizio) deve essere vissuta con responsabilità. I grandi progressi tecnici che rendono possibile mettere a disposizione dell’uomo maggiori e migliori beni naturali, più elevati tenori di vita, un miglior stato nella cura della salute individuale e pubblica, una più lunga aspettativa di vita e tanti altri miglioramenti della condizione umana, sono accompagnati anche da certi disagi, che aumentano col crescere della presenza della tecnica a scala globale e che possono rappresentare anche, se incontrollati, un pericolo per la sopravvivenza stessa dell’uomo. Pensiamo concretamente ai problemi che riguardano l’inquinamento atmosferico o delle acque, l’abitabilità del pianeta, la scomparsa di alcune specie biologiche. L’uomo ha acquistato, con la nuova situazione che si è venuta a creare con l’uso indiscriminato della tecnica, una nuova consapevolezza dei profondi legami di tutti gli organismi viventi che popolano la biosfera, tra cui anche la stessa specie umana. Le cause di una tale situazione sono molteplici, ma si possono ricondurre a ciò che la Centesimus Annus chiama un errore antropologico, secondo il quale l’uomo dimentica che il suo lavoro nel mondo si svolge grazie ad una precedente donazione di Dio 19. L’uomo non si rende conto che il suo operare nel mondo è in un certo senso normato dalla stessa natura. Se egli non rispetta la natura e in concreto anche la sua peculiare natura, la sua attività può distruggerlo. La teologia cristiana ricorda che la creazione è un dono originario di Dio e che questa donazione originaria si rifà all’amore trinitario, fonte di ogni altra donazione. Per cui, il cosmo è anche il luogo della dimora della Trinità ed è stato assunto dal Verbo per portare avanti l’opera della redenzione. Questo universo benché provvisorio, sarà una dimora definitiva nell’eschaton futuro. Per cui il principio morale di responsabilità viene rafforzato dalla cosmovisione cristiana e dalla sua peculiare forma di concezione dell’uomo. Il principio morale di responsabilità è specialmente applicabile al campo delle nuove sfide che gli sviluppi della scienza nel campo della biologia presentano all’uomo. Qui il principio di responsabilità è strettamente connesso con la concezione della persona umana che si ha. L’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, anche nella sua corporeità, non ha nessun diritto di disporre pienamente della sua stessa natura biologica. In questo senso la tradizione cristiana ha sempre affermato che l’uomo, per essere stato creato da Dio, ha un di più. La persona umana, costituita da anima e da corpo, non ha la capacità di disporre totalmente del suo corpo come se questo fosse un mero strumento della sua vita, come se 19 Centesimus Annus, n. 37. Pedro Barrajón 150 questa gli appartenesse in modo incondizionato. La persona umana non può essere oggetto di nessuna azione umana arbitraria: Il nostro status ontologico di creature fatte a immagine di Dio impone determinati limiti alla nostra capacità di disporre di noi stessi. La signoria attribuitaci non è illimitata; noi esercitiamo una certa signoria partecipata sul mondo creato e, infine, dobbiamo rendere conto del nostro servizio al Signore dell’Universo. L’uomo è creato a immagine di Dio ma non è egli Dio stesso20. Conclusione Le grandi problematiche odierne intorno ai temi di bioetica devono essere considerate alla luce di un’“antropologia adeguata”, come amava dire Giovanni Paolo II. Questa antropologia cristiana è basata sul concetto di persona umana, chiamata alla vita di comunione con Dio e con le altre persone. La persona, creata ad immagine del Creatore, costituita da un’anima e da un corpo, incarnata come uomo o come donna, è fatta per la comunione con la Trinità e con le altre persone. Bisognosa di essere redenta dal peccato e dunque bisognosa di salvezza, la persona umana è destinata ad essere conforme all’immagine di Cristo, immagine perfetta del Padre, nella potenza dello Spirito Santo. Gli esseri umani sono creati a imago Dei proprio come persone capaci di una conoscenza e di un amore che sono personali e interpersonali. In virtù di questo essere imago Dei, le persone umane sono capaci di profonde relazioni interpersonali e sociali. Nessuna persona umana è sola. Benché non ne sia cosciente, è in rapporto con Dio e, attraverso Dio, con tutta la creazione. Questo concetto di comunione è necessario per capire in profondità l’essere umano. La comunione, offerta da Dio, è costitutiva della persona, benché questa non sia capace di manifestare in pienezza tutte le sue capacità ad un determinato momento del suo sviluppo vitale e storico. Una considerazione della tecnica che lasci da parte il concetto di comunione sarebbe incompleta. La tecnica deve essere messa al servizio di questa comunione, trascendentale e categoriale, e non cercare di asservirla o negarla. La comunione che fonda l’esistenza della persona e la giustifica è stata ferita dal peccato. Questo significa che la persona è peccatrice ma anche che le è stata offerta la salvezza operata da Cristo. Se il peccato deturpa l’imago Dei, non la corrompe del tutto né la toglie. Ma il peccato ha un in- 20 Comunione e servizio, n. 94. L’uomo e la tecnica 151 flusso profondo nell’attività umana, che chiede di essere redenta da Cristo. Questo incide sull’ambiguità di ogni azione umana e di questa ambiguità anche partecipa la tecnica, la quale, in sé buona, può essere messa al servizio del male. Perciò anche la tecnica ha bisogno di essere salvata con tutta la persona. Solo Cristo, la sua grazia salvifica, è capace di ripristinare l’immagine di Dio nell’uomo, ricostruendo in lui la capacità di amare in modo totalmente libero Dio e i fratelli. Per ciò, anche riferito alla tecnica è vero ciò che dice il numero 22 della Gaudium et Spes, che «solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». Anche Cristo deve liberare la tecnica dei germi di superbia che possono essersi infiltrati in essa. Solo Cristo, infatti, rivela l’uomo all’uomo, la grandezza del suo essere, la sua natura originaria e il suo compimento finale. Soltanto una visione unitaria e complessiva dell’essere umano, visto alla luce di Cristo, darà alla tecnica tutto il suo valore. Una tale concezione dell’essere umano, creato a immagine di Cristo, ci aiuta a capire l’uomo e la sua attività e dunque anche la tecnica nella sua più vera profondità. Questa antropologia ci permette di capire e di valutare positivamente i progressi scientifici e tecnici, ma allo stesso tempo di scoprire la loro ambiguità che deve essere purificata da Cristo stesso. L’uomo è la creatura intelligente e libera che, amata da Dio in se stessa e non come mezzo ad un altro fine, ha la preziosa responsabilità di amministrare l’universo creato, ma non in qualunque modo ma come il Creatore stesso l’ha voluto. Giampaolo Crepaldi L’uomo e la tecnica nel Magistero Sociale della Chiesa Premessa In questo saggio vorrei proporre alcune riflessioni sulla tecnica alla luce del Magistero sociale della Chiesa. Più in particolare, vorrei provare a rispondere a due domande preliminari. La prima è questa: da dove nasce l’importanza del problema della tecnica oggi? Perché oggi più di ieri la tecnica ci inquieta e ci si pone davanti come la questione più urgente? Ciò è senz’altro dovuto allo stesso progresso tecnico, ossia al nuovo potere che la tecnica mette nelle nostre mani. Quando le possibilità tecniche superano certe soglie critiche, la percezione della tecnica come problema diventa viva, da parte di tutti e non solo per gli addetti ai lavori. Tuttavia, non può essere questa l’unica spiegazione. L’emergenza della tecnica come problema non può derivare solo dalla constatazione che l’uomo è in grado di operare più di ieri – riprendo a questo proposito il lessico di Hannah Arendt –, anche se questo dato costituisce un punto fortemente critico della sua esistenza. La percezione che la tecnica rappresenta un problema deve essere legata anche ad un’interpretazione dello sviluppo tecnico, non solo ad una sua constatazione. A questo aspetto, appunto, intende riferirsi la mia domanda: perché oggi più di ieri la tecnica ci inquieta e ci si pone davanti come la questione più urgente? La risposta a questa prima domanda rimanda ad una comprensione o interpretazione della tecnica, perciò è strettamente collegata con la risposta alla seconda domanda che intendo pormi: che cosa ha oggi la tecnica di diverso rispetto al passato? La tecnica è sempre stata tecnica e nient’altro. Tuttavia, ci si può chiedere se oggi non siamo davanti ad una nuova fase della tecnica, ad una nuova comprensione di essa. Questo costituisce il vero problema: non la tecnica in sé, ma la nuova ideologia tecnocratica ad essa oggi soggiacente che, a mio avviso, è diversa dal passato. Segretario, Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. 154 Giampaolo Crepaldi Prenderemo in considerazione poi alcuni spunti di riflessione del Magistero della Chiesa sulla tecnica. Lo faremo, però, da un preciso punto di vista, cercando di vedere se nel Magistero sociale ci siano modelli di tecnica capaci di correggere, per un verso, e di indirizzare, per l’altro, la nuova ideologia tecnocratica. A questo proposito, vorrei anticipare una mia convinzione, che riprenderò alla fine di questa relazione. Sono del parere che il problema della tecnica sia oggi il principale problema della nostra cultura e della nostra società. Penso che il principale pericolo sia la “tecnicizzazione” di sfere di vita che, così considerate, anziché venire governate dall’uomo ci sfuggono al punto che il nostro potere si trasforma in impotenza. Il sogno di Prometeo o, per restare più vicini nel tempo, di Francesco Bacone, volendo mettere nelle mani dell’uomo il segreto dell’onnipotenza, in realtà spoglia quelle mani, consegnando l’uomo alla tecnica che diventa anonima nudità del puro fare. Orbene, davanti all’enorme peso di questo problema, ritengo che il Magistero sociale della Chiesa dovrebbe fare uno sforzo ulteriore di comprensione del fenomeno e di indirizzo delle menti. Come avrò modo di dire in seguito, il Magistero ha affrontato il problema della tecnica ed è in grado di illuminarlo in modo significativo, con importanti principi di riflessione e criteri di giudizio. A mio parere, tuttavia, si dà ancora un grande spazio di lavoro e di approfondimento del pensiero per raggiungere un quadro organico di interpretazione del problema. Questo ulteriore lavoro di riflessione si fa urgente, come ho già detto, perché inarrestabile è la penetrazione della tecnica nella nostra vita e impellente la necessità per l’uomo di orientarla. Un aspetto mi sembra decisivo. Il problema della tecnica, che il Magistero ha considerato soprattutto nell’ambito del rapporto con la natura tramite il lavoro e in quello della manipolazione della vita, travalica oggi questi due ambiti e si pone come problema sociale globale. Anche il Compendio della dottrina sociale della Chiesa considera il problema della tecnica all’interno del rapporto uomo-natura e delle biotecnologie1. Esso, però, lascia anche intuire che il discorso della tecnica va ampliato ben oltre il tema della natura, quando lo collega ai problemi della cultura (n. 461), della povertà (n. 482) o all’ecologia umana (n. 464). 1 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, capitolo X, nn. 451-487, 248-266. L’uomo e la tecnica 155 La tecnica, oggi Mi chiedevo perché oggi il tema della tecnica emerga con drammatica urgenza e come si presenti oggi diversamente dal passato. Il mio pensiero è che oggi la tecnica tenda a presentarsi ormai allo stato puro, ossia, come dicevo prima, nella nudità del puro fare. Sembra avverarsi la previsione di Henri De Lubac. Egli, illustrando il pensiero di Auguste Comte2, metteva in evidenza come secondo il Positivismo la religione si sarebbe estinta, superata dalla visione positiva delle cose. Ciò, però, si sarebbe verificato non con modalità ateistiche ma post-ateistiche: la scienza positiva non avrebbe solo dimostrato che le domande di senso non sono accessibili – che è la posizione ateistica – ma anche che esse sono prive di senso. L’uomo positivo non solo non risponde a quelle domande perché le ritiene inutili, ma non se le pone nemmeno più. L’appiattimento dell’uomo sul puro fare, la tecnicizzazione del suo mondo ci impauriscono perché non li vediamo nemmeno più accompagnati dall’ideologia della tecnica, ma dall’indifferenza rispetto a quanto non sia tecnica. Siamo preoccupati sì dalla tecnica, ma soprattutto dal fatto che dietro ad essa non si intraveda nulla, o si intraveda il nulla, giacché l’uomo si pone solo domande circa il “come”. A questo atteggiamento mi riferisco con l’espressione “nudità della tecnica”. Oggi la tecnica tende a giustificarsi come mera presenza e come pura possibilità di fare. Anche Romano Guardini indicava questo volto livido della tecnica. Nelle sue Lettere dal Lago di Como3 egli collega il dominio della tecnica con la pretesa di portare alla luce la radice stessa della vita, ciò che in essa è più intimo: «si scoprono uno dopo l’altro nuovi rapporti; i fatti diventano leggi; lo sguardo si spinge ad esplorare sempre più da vicino le sorgenti primordiali della vita, le origini»4. Questo rendere presente, questo portare alla luce, questo disincantare, questo mettere davanti ai nostri occhi, da un lato, riducono lo spessore della realtà, appiattendola su quanto è presente nella sua nudità, dall’altro riducono lo spessore della coscienza umana che si limita, indifferentemente, ad un constatare una mera – e vuota – possibilità. A distanza di anni dalle previsioni di De Lubac e dalle riflessioni di Guardini, Joseph Ratzinger ha lucidamente messo a fuoco la dittatura della tecnica, che egli chiama Positivismo, secondo la quale «ciò che si sa fare, 2 Cf. H. DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1988, 124130. 3 R. GUARDINI, Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo, Morcelliana, Brescia 19932. 4 Ibid., 40-41. 156 Giampaolo Crepaldi si può anche fare»5. Joseph Ratzinger aveva da tempo seguito lo sviluppo della tecnica e nell’opera Introduzione al Cristianesimo ne aveva descritto la genealogia, secondo tre fondamentali passaggi: la trasformazione del sapere in calcolo da parte di Cartesio, l’individuazione della verità nel factum ad opera di Vico e successivamente nel da farsi nella prospettiva di Marx6. Questa prospettiva di adesione al novum inteso come faciendum ha portato a intendere l’alienazione come persistenza del passato (tradizione) e del trascendente (metafisica). La dittatura della tecnica sta tutta nella sua nudità, ossia nel ritenere che tutto sia visibile e che tutto sia fattibile. Di più: nel pensare che l’essere delle cose consista nella visibilità e nella fattibilità. La “dittatura del relativismo”, denunciata più volte da Benedetto XVI, oggi prende soprattutto le sembianze della nudità della tecnica. Uno dei motivi storici di questo trapasso culturale è da vedersi nei fatti dell’‘89 e in quanto ne è seguito. Se di tutto questo periodo storico facciamo una lettura realistica, comprendiamo che fino all’‘89 il potere della tecnica era trattenuto da quello dell’ideologia. Come recentemente ha affermato il Cardinale Martino, presentando il Compendio della dottrina sociale della Chiesa ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali riuniti a Montecassino: «Tolta la camicia di forza dell’ideologia, si sono aperti spazi di libertà e di recupero religioso, ma si sono anche aperti spazi per il nichilismo allo stato puro. Il nichilismo, che in passato si era espresso mediante ideologie distruttrici, ora si esprime mediante la pura tecnica»7. Se oggi le questioni etiche e le questioni tecniche si oppongono in modo così radicale è perché la tecnica vuol fare dell’uomo un “prodotto”. Dicevamo sopra che la nudità della tecnica comporta che tutto sia visibile e tutto sia fattibile. Quanto al primo punto, Ratzinger notava che, per la fede, «l’elemento non suscettibile di essere visto, quello che non può assolutamente entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà»8. Quanto al secondo egli osservava che «La fede cristiana è un’opzione a favore di una realtà in cui il ricevere precede il fare, senza che per questo il fare venga sminuito di valore o addirittura 5 J. RATZINGER, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Introduzione di Marcello Pera, Cantagalli, Siena 2005. 6 J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312, 32-35. 7 R.R. MARTINO, Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa e le scienze dell’uomo, Relazione all’Assemblea della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, Montecassino 30 aprile 2006, in www.vanthuanobservatory.org. 8 J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 21. L’uomo e la tecnica 157 dichiarato superfluo»9. La conseguenza di queste asserzioni è di fondamentale importanza; mi limito qui ad accennarla per riprenderla poi più avanti: la nudità della tecnica è assolutamente incompatibile con la fede cristiana, che è indispensabile per vincere la nudità della tecnica. Vorrei precisare meglio questa mia convinzione: la ricostituzione di un senso ricevuto e non prodotto non potrà avvenire se non attraverso un recupero del Logos, della ragione, ma oggi non può essere la ragione da sola a compiere questo sforzo, deve essere sostenuta dalla fede, la quale, indicando il senso ricevuto, salva anche la ragione. La fede può vincere il nichilismo della tecnica sapendosi proporre come espressione dell’Intelligenza del Principio, recuperando, in questo modo, spazio e ruolo per se stessa, ma anche per la ragione umana. La vera portata della tecnica Quali strade potranno percorrere i cristiani, assieme a tutti gli uomini di buona volontà, in questo grande impegno per ridare senso e orientamento alla tecnica ridotta alla sua nudità? I limiti di questo mio intervento mi permettono di fare solo due riflessioni. La prima riguarda la necessità di considerare la dimensione della tecnica oltre la tecnica stessa, di favorire una comprensione globale della tecnicizzazione, di cogliere, insomma, la vera portata della tecnica. La seconda riguarderà la teologia della Creazione, vista come inizio di una cultura del ricevere prima che del fare. Ho già osservato che, normalmente, gli ambiti nei quali il Magistero solitamente affronta il problema della tecnica sono quelli del lavoro, degli interventi sulla natura e della vita. Di recente, per esempio, uno Studio del Pontificio Consiglio per la Famiglia, del 13 maggio 2006, ha nuovamente condannato la tecnicizzazione della procreazione umana 10. Esso si colloca sulla scia di altri precedenti Documenti dello stesso Dicastero e di importanti e noti interventi del supremo Magistero pontificio su questo argomento. Questo tema importantissimo non deve mai far perdere di vista il dato, peraltro macroscopico, che oggi quella della tecnica è la vera e propria “questione sociale”. Come tale essa non va vista limitatamente ai tre ambiti qui sopra richiamati, ma come dimensione – la tecnicizzazione appunto – dell’intera società. Del resto, se seguiamo l’impostazione dell’enciclica Evangelium vitae, essendo in positivo la vita stessa la massima questione sociale, in negativo anche la tecnica lo diventa proprio a partire 9 Ibid., 41. PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Famiglia e procreazione umana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006. 10 158 Giampaolo Crepaldi dalla tecnicizzazione della procreazione. È lì, infatti, che l’uomo diventa originariamente un “prodotto”, il che, come dicevo, è l’essenza stessa della nudità della tecnica. A partire, quindi, dalla tecnicizzazione della vita si possono e si devono considerare anche gli altri ambiti sociali in cui il processo di tecnicizzazione è in atto. Solo a queste condizioni è possibile elaborare una vera proposta culturale alternativa. Vorrei qui fare alcuni esempi, che prenderò direttamente dal già citato Discorso del Cardinale Martino alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali del 30 aprile 2006. Egli ha detto: «Il terrorismo, una concezione tecnica della politica, la laicità intesa come luogo neutro da valori e assoluti, la democrazia come procedura, la finanziarizzazione dell’economia, il relativismo delle culture, la tecnicizzazione del diritto e dei diritti umani, sono nuovi assoluti negativi che assolutizzano la tecnica» 11. Essi rappresentano altrettanti campi in cui è in atto il processo di tecnicizzazione. Pochi cenni possono bastare. Terrorismo. Nei Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2002 e 2003, Giovanni Paolo II aveva collegato tra loro terrorismo e nichilismo. Benedetto XVI, nel Messaggio del 1° gennaio 2006 12, ha ripreso questo rapporto. Egli ha sostenuto che il terrorismo può nascere sia dal fondamentalismo religioso, sia dal nichilismo. In tutti e due i casi si tratta del disprezzo della verità, sia che si pretenda di possederla per intero sia che la si neghi risolutamente. Il terrorismo nasce dalla devastazione dell’animo umano e dallo svuotamento delle coscienze. Anche per il terrorista vale il principio: se si può fare si deve fare. Politica. Una concezione tecnica della politica si ha ogni volta che la si riduce ad “amministrazione di cose” piuttosto che a “governo di persone”. Capita così quando si affida la politica agli apparati amministrativi, in dispregio del principio di sussidiarietà, quando si dimentica che i molti bisogni sono bisogni umani e richiedono interventi umani, oppure quando, come leggiamo nella Deus Caritas est, si pretende di perseguire la giustizia senza la carità. La democrazia risulta tecnicizzata quando la si riduce a procedura, a dittatura della maggioranza, a rispetto delle regole convenzionali. Lo Stato e gli stessi Organismi internazionali possono essere ridotti a queste funzioni e, quindi, sovrapposti alla vita anziché posti al suo servizio. Finanza. La finanziarizzazione dell’economia è una sorta di tecnicizzazione in quanto all’economia reale, fondata sui bisogni e sul loro soddisfaci- 11 R.R. MARTINO, Il Compendio della dottrina sociale, op.cit. BENEDETTO XVI, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 1° gennaio 2006, in L’Osservatore Romano, 14 dicembre 2005, 4-5. 12 L’uomo e la tecnica 159 mento da parte dell’apparato produttivo, si sovrappone un virtuale gioco d’azzardo, disinteressato delle sue ricadute sulle persone. Culture. Le culture e i loro rapporti sono ridotti a tecnica quando si svolgono nell’indifferenza per una comune natura umana che trascende le culture e nei cui confronti le culture sono varie vie di accesso. Diritti umani. I diritti umani sono sottoposti ad un simile processo riduzionistico quando ci si dimentica che essi sono inscritti nella comune natura dell’uomo e si presume invece di fondarli sul consenso umano e sul voto di un’assemblea. Sviluppo. Dello sviluppo si danno, spesso, letture quantitative più che qualitative. Se è giusto compiacersi del fatto che ormai da numerosi anni l’Onu considera anche la speranza di vita, l’uguaglianza di genere e l’accesso all’istruzione primaria quali indici di sviluppo da associare al prodotto interno lordo, si deve altrettanto dire che siamo ancora lontani da una visione pienamente umanistica dello sviluppo stesso. Se, del resto, nella quasi totalità dei manuali universitari di economia politica la famiglia viene considerata solo come elemento che può incidere sulla domanda di beni e servizi – vale a dire come soggetto consumatore – significa che una visione tecnicistica dello sviluppo economico ci tiene ancora legati a formule riduttive. Si badi poi ad un ulteriore elemento di interesse. La tecnicizzazione esasperata di questi ambiti di vita rischia di produrre un altrettanto deplorevole atteggiamento antitecnico, davanti al quale il Magistero della Chiesa pure mette in guardia. Succede così, per esempio, che ad una visione economicistica dello sviluppo vengano opposte teorie di “decrescita” o di “dopo sviluppo” ossia di negazione dello sviluppo in quanto tale. Ho fatto questi esempi per mostrare come oggi la tecnicizzazione della vita sia pervasiva e come il problema della tecnica investa settori della società tra i più diversi. Una strategia culturale che intenda contrapporsi alla nudità nichilistica della tecnica a partire dalla fede cristiana deve oggi collocarsi a questo livello di comprensione, evitando approcci settoriali al problema. La teologia della creazione come un ricevere che precede il fare Provo a questo punto a fare una seconda proposta di linea culturale da seguire per il futuro, oltre a quella, appena formulata, dell’ampliamento della portata della tecnica. Essa riguarda la necessità di un rilancio della dottrina cristiana della Creazione come punto di partenza di una cultura del ricevere prima che del fare. Sono d’accordo con chi segnala una certa 160 Giampaolo Crepaldi trascuratezza e qualche difficoltà della teologia della Creazione13. Si tratta di un grande tema teologico da rilanciare e di una prospettiva culturale da percorrere, estendendola come criterio dall’ambito dello stretto rapporto con la natura all’ambito più vasto dei diritti, che devono essere esercitati nella consapevolezza dei corrispondenti doveri. La tecnica, infatti, riconduce al tema dei diritti. La nudità della tecnica riconduce al nichilismo, che è l’assolutizzazione dei diritti, che spezza i legami di senso costituiti dai doveri. La tecnica come “pura possibilità di fare” coincide con l’esasperazione dei diritti. Una nuova cultura della tecnica deve quindi recuperare la priorità del dovere sul diritto e a questo scopo può essere decisiva una visione della natura – sia del cosmo sia della natura umana – intesa come “creato”, ossia qualcosa da assumere come un compito piuttosto che da produrre con la tecnica14. La natura intesa come creazione, afferma Giovanni Paolo II, è una “vocazione”15. Le cose non sono solo cose, ma anche i significati che le legano tra loro. Per l’uomo questo ordine diventa normativo in senso morale. Da un lato la natura è un “dono” e dall’altro è un “disegno” che è stato affidato all’uomo perché collabori alla sua realizzazione. La natura, così intesa, è una “vocazione” per l’uomo: egli è chiamato a leggere nella propria natura personale, ma anche nella natura degli esseri infraumani, il disegno di Dio, a non opporvisi e a collaborare per la sua realizzazione. Questa chiamata in cui consiste la creazione, secondo Guardini, ha l’effetto di produrre la consapevolezza reale del proprio “io”: «L’uomo ha in assoluto la necessità di intendere se stesso come un io autonomo, solo perché scaturisce dalla chiamata di Dio e persiste nella forza di tale chiamata»16. Ricevendo se stesso come compito assieme all’intera natura fisica, l’uomo si costituisce nella propria identità. Il peccato ha indebolito questa percezione umana del proprio compito, ma non l’ha annullata. La venuta di Cristo, nel quale Dio ha assunto la natura umana, si pone come 13 N.C. MURPHY, Creazione divina e cosmologia, in R. MARTÌNEZ - J.J. SANGUINETI (a cura di), Dio e la natura, Armando Editore, Roma 2002, 58-59. Sulle difficoltà della teologia della Creazione riflette anche G. ANCONA, Fede nella creazione e questione ambientale, Ibid., 128-129. 14 Ho condotto qualche riflessione iniziale su questi temi in: G. CREPALDI, Chiesa e diritti umani: percorsi, in FONDAZIONE LANZA, AA.VV., Tra etica e politica: pensare i diritti, Gregoriana Libreria Editrice, Padova 2005, 271-293. Si veda anche S. FONTANA, «Una cultura y una polìtica de los «deberes» humanos. Algunos puntos de vista del magisterio social de Juan Pablo II», in Sociedad y Utopia, n. 27, 315325. 15 Così si esprime GIOVANNI PAOLO II nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, n. 3. 16 R. GUARDINI, Mondo e persona, Morcelliana, Brescia 2000, 47. L’uomo e la tecnica 161 “nuova creazione”, inizio di un processo di ricapitolazione e di riconciliazione di tutte le cose oltre che delle persone in Dio, per mezzo del Figlio (cf. Col. 1, 19-20; Ef. 1, 9-10); tale processo sanerà definitivamente le carenze e le imperfezioni umane. Il fondamentale Discorso di Giovanni Paolo II all’Assemblea generale dell’ONU del 5 ottobre 1995, con il denso concetto di “grammatica naturale”, può essere considerato una piccola “summa” magisteriale di quando andiamo dicendo. La vocazione del creato, che ci chiama a riconoscere una natura ricevuta prima di essere prodotta, è l’appello di Dio che ci costituisce nel nostro io cosciente e ci fa percepire la nostra dignità di persona: «È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona»17. Il nichilismo della tecnica propone all’uomo di essere costruttore di se stesso come “prodotto”. Alla coscienza propone di limitarsi a constatare le pure possibilità di fare che le si presentano davanti in tutta la loro nudità. All’io impone di non tenere conto di un “sé” come proprio ambito di significato oggettivo. Se l’uomo, così, ha solo diritti poco importa se a soddisfarli sia un apparato politico burocratico centralizzato oppure un mercato che soddisfa le voglie e trasforma i desideri in diritti. Ambedue sono espressioni della tecnicizzazione. Cenni conclusivi Scriveva Heidegger che «L’essenza della tecnica non è niente di tecnico»18. La frase è, nel bene e nel male, vera. Sia che dietro la tecnica ci sia l’uomo sia che non ci sia, la tecnica non si spiega da sé. Essa può rivelare un pieno oppure un vuoto. La tecnica, considerata nella nudità del suo essere un puro manipolare, può consumare l’esistenza nell’istante dell’operare19, può a tal punto occultare la presenza umana da trasforma- 17 GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus 13. M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, a cura di G. VATTIMO, Mursia, Milano 1974. 19 «Tra le cause del deperimento dell’esperienza c’è, non ultimo, il fatto che le cose, sottoposte alla legge della loro pura funzionalità, assumono una forma che riduce il contatto con esse alla pura manipolazione, senza tollerare quel surplus – sia in libertà di contegno che in indipendenza della cosa – che sopravvive come 18 162 Giampaolo Crepaldi re l’uomo in “massa”, in una società burocratica che, secondo Hannah Arendt, è il “governo di nessuno”20. Essa, al contrario, può rivestirsi di senso e riscattare la propria nudità, se accetta di appartenere al regno dell’agire a partire da un senso ricevuto. Credo che, in futuro, queste problematiche saranno sempre maggiormente emergenti. Ad un’umanità che sarà chiamata a decisioni tanto grandi e ardue, il Magistero sociale della Chiesa è impegnato a fornire l’aiuto di una riflessione orientativa organica. Il corpus della dottrina sociale della Chiesa può essere arricchito. nocciolo dell’esperienza perché non è consumato dall’istante dell’azione» (T.W. ADORNO, Minima moralia, Einaudi, Torino 1994, 36). 20 H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1997, 33. Seconda parte Le biotecnologie, tra terapia e utopia Gennaro Auletta Organisms as a New Class of Physical Systems Questa parte del libro esamina in maniera particolare le tecnologie applicate alla medicina e la questione della terapia. L’attuale dibattito di bioetica si è incentrato da alcuni anni sullo stabilire se sia giusto o no manipolare la natura umana e, nel caso affermativo, sino a che punto. L’applicazione alla medicina delle moderne tecnologie ci consente di guarire da un numero sempre maggiore di malattie, di sostituire parti danneggiate del corpo e di posticipare la vecchiaia e la morte. Tuttavia, questi progressi della biomedicina potrebbero addirittura cambiare noi stessi e i nostri figli. Ci troviamo davanti ad una serie di domande cruciali per l’umanità intera: dove porre il confine fra la cura e il potenziamento? Possiamo cambiare o manipolare la nostra natura umana con la tecnologia riproduttiva, l’ingegneria genetica, la medicina rigenerativa senza il rischio di cambiare anche la nostra stessa identità di esseri umani? Chi può decidere se questi cambiamenti siano leciti o no e se debbano quindi essere applicati all’uomo? Alcuni tentativi di riposta si trovano nei contributi dei seguenti autori. LEONARDO SANTI ci introduce alle attese e prospettive delle biotecnologie e della medicina partendo da una prospettiva che prende spunto dagli sviluppi dalla biologia, attraversa i campi della genetica e dell’informatica e arriva a descrivere la systems biology. Inizialmente, per comprendere l’essenza della vita si era utilizzato un approccio riduzionista; oggi, l’acquisizione di un sempre più esteso patrimonio di conoscenze, fa recuperare la complessità dei sistemi viventi. Lo sviluppo delle biotecnologie nei paesi industrializzati, quali l’Europa e gli Stati Uniti, ci ammonisce sulla necessità di esportare tale patrimonio nei paesi in via di sviluppo, allo scopo di impedire il sorgere di gravi forme di discriminazione e d’ingiustizia sociale. Subito dopo, LUCIO ROMANO affronta l’argomento della diagnosi genetica sull’embrione pre-impiantatorio (PGD): le indicazioni, le patologie su base genetica che essa è in grado di evidenziare, e le differenti tecniche utilizzate. Prosegue esaminando le linee guida europee sulla PGD, la per- Le biotecnologie, tra terapia e utopia 165 centuale delle gravidanze ottenute, la perdita d’embrioni conseguente all’applicazione della metodica, la crioconservazione degli embrioni bioptizzati ed il loro trasferimento in utero e conclude con la valutazione degli errori diagnostici. FERNANDO FABÓ inquadra i più recenti sviluppi delle tecnologie genetiche e riproduttive nella più ampia cornice della ricerca scientifica, evidenziandone pregi e limiti. L’orizzonte di riferimento è nella solida parte teoretica del saggio, ampia e posta volutamente all’inizio: ogni punto d’arrivo della riflessione bioetica è condizionato dal punto di partenza, che si basa sulla definizione dell’uomo e della natura che gli è data. INEKE MALSCH tratta dell’ammissibilità del potenziamento del corpo e della mente umana, dibattito che si è andato intensificando grazie alle nuove possibilità tecniche offerte dai progressi nel campo delle nanotecnologie, quelle tecnologie, vale a dire, che hanno in comune le dimensioni d’ordine piccolissimo. L’autrice mette in risalto le differenze e le somiglianze negli approcci derivanti dai valori illuministici di libertà, eguaglianza e fraternità e la visione cristiana, secondo la quale la persona umana è ad immagine di Dio. «Uno dei sogni ricorrenti dell’umanità è stato quello di appropriarsi del controllo delle leggi naturali per sradicare la fragilità e la finitudine della vita umana», così prende avvio l’interessante saggio di EDMUND PELLEGRINO. Il concetto di trattamento delle malattie si è andato modificando nel tempo: con l’introduzione delle scoperte biotecnologiche è addirittura possibile sostituire parti del proprio corpo, grazie alla reingegnerizzazione tessutale. Inoltre, l’aver introdotto l’argomento della terapia ha un altro scopo quello, cioè, di affrontare la questione del potenziamento umano, la sua liceità e il requisito etico di una sua regolamentazione. La riflessione bioetica sulla centralità della dignità dell’uomo, come stella polare dell’avanzamento scientifico, è il rimedio proposto da MARIA PAGLIA alla stringente logica dello scientismo. L’autrice sostiene, infatti, che non si può lasciare la nuova medicina, col suo immenso potere, nelle mani esclusive del mercato, della massimizzazione del profitto economico ed eudemonico. Si imboccherebbe la strada dell’eugenetica, con l’eliminazione dei soggetti “difettosi”, il superamento dei “normali” ed il potenziamento di alcuni “eletti”. Questa è la direzione desiderata dai post-umanisti, con l’evidente intento di frantumare il ponte con le generazioni passate e quello della solidarietà con gli altri della generazione presente, verso la costruzione di un nuovo uomo: si tratta di usare tecniche nuove per discriminazioni antichissime. Per finire questa parte, vengono affrontati gli aspetti etici e legali che riguardano la produzione di embrioni attraverso la tecnica della clonazione. ALBERTO GARCÍA ne spiega le implicazioni nell’ambito dei diritti umani e le questioni di natura etica. Afferma che, in quanto tali, essi appartengono alla specie umana e possiedono una dignità intrinseca: «Non è con- 166 Seconda parte forme al diritto, a nostro giudizio, che la legge permetta la clonazione umana o il trasferimento dei nuclei e la produzione di esseri umani clonati, che per la maggior parte sarebbero destinati alla manipolazione, distruzione e utilizzazione». Tale pratica contraddirebbe, infatti, ad uno degli obblighi dello Stato, che è quello di tutelare la vita dei soggetti più vulnerabili e deboli. Leonardo Santi Biotecnologie e medicina: attese e prospettive Tratterò il tema in modo non specifico, piuttosto secondo una visione generale: esso servirà ad inquadrare quella che è la situazione degli sviluppi delle nuove frontiere della medicina e le rispettive applicazioni, a partire dalle conoscenze biologiche. Farò anche qualche riflessione sull’evoluzione dei concetti biologici. Il significato di tutto questo sta nell’avere, le biotecnologie, un’applicazione molto vasta, per due aspetti importanti. Questi due aspetti, in parte, coincidono; da un lato, perché si tratta di garantire una migliore qualità di vita alle popolazioni e, dall’altro, perché è intrinseco lo scopo di un aiuto allo sviluppo delle economie di alcuni paesi, sviluppo ormai divenuto cruciale. Sviluppo e importanza mondiale delle biotecnologie Parliamo delle biotecnologie, un argomento che è stato affrontato anche in sede europea con molta attenzione, allo scopo di favorire strategie nazionali che potessero, successivamente, inserirsi a pieno titolo nel piano strategico europeo sulle Scienze della vita e sulle Biotecnologie. Il documento corrispondente, ottenuto in tale sede, è stato redatto e approvato a tutti i livelli nel 2002 e poi, annualmente, con un rapporto d’aggiornamento, per dare agli Stati membri delle linee guida. Vorrei concentrarmi sui principi di cui accennavo prima, solamente per rilevare l’importanza che questo settore delle biotecnologie ha per gli Stati membri europei e non solamente per essi. Le biotecnologie, infatti, sono al centro dell’attenzione, non esclusivamente dei paesi maggiormente sviluppati economicamente, ma anche di quelli emergenti. Basti pensare all’India, alla Cina, che hanno inserito proprio le biotecnologie al Presidente, Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie, Italia. 168 Leonardo Santi centro dei loro programmi di sviluppo. A settembre del 2005, si è svolto un grande convegno sulla Bioeconomia in Cina, che ha avuto come slogan: “Dall’imitazione all’innovazione”. Il senso di questo slogan è far presente che dopo un periodo iniziale caratterizzato in Cina da uno sviluppo economico basato sulle imitazioni di prodotti ottenuti in altre nazioni, era ormai indispensabile elaborare proprie forme di conoscenza con ricerche che possono avere proprie capacità innovative e proprio per questo considerando in modo prioritario le biotecnologie. Nel 2006, in Messico, si è fatto un gran convegno sulle biotecnologie, nei suoi vari settori d’applicazione. L’importanza di tale evento deriva ancor più dalla funzione propedeutica che questo evento esercita per un convegno mondiale dell’Unesco, avente come tema le Scienze e la Società, in programma per 2007. La vera essenza del progresso economico è determinata dall’innovazione ed è quindi necessario mettere in evidenza come le biotecnologie si sono sviluppate in Europa e negli Stati Uniti. L’industria biotecnologica statunitense ha il doppio del numero degli impiegati, rispetto all’Europa, spende una cifra due volte e mezzo maggiore per la ricerca e lo sviluppo. Il guadagno delle industrie biotecnologiche statunitensi è circa cinque volte maggiore di quelle aventi sedi europee. Gli Stati Uniti investono, in media, cinque volte di più per ciascun’azienda ed il capitale del mercato biotecnologico è nove volte maggiore, rispetto allo stesso mercato in Europa. Si può anche parlare di quelli che sono i frutti della ricerca sul mercato e le richieste di soluzioni tecnologiche, in un’era di grandi e drammatici cambiamenti. Cambiamenti e sviluppi delle scienze biologiche Lo sviluppo della ricerca, in campo biologico, ha provocato cambiamento radicale in biologia. La biologia, una volta all’interno di se stessa, risolveva alcuni problemi conoscitivi. In seguito, ha avuto una sostanziale interazione con le conoscenze chimiche, accelerando in tal modo i processi della conoscenza e, più recentemente, con la genomica, e con conoscenze informatiche. Questo iter ha portato alla realizzazione della systems biology, come intreccio di competenze diverse. La convergenza di queste conoscenze ha influito in modo radicale anche sulla medicina, che è quindi passata da attività quasi artigianale ad una vera e propria scienza e, quindi, ad una medicina razionale. La systems biology impone ora qualche ulteriore riflessione in quanto sino ad ora, per conoscere l’essenza della vita, è stato utilizzato il metodo riduzionista per arrivare alle molecole ed anche strutture più piccole delle stesse molecole. Si è come “scavato”, per arrivare alle molecole ed anche a strutture più piccole delle stesse mole- Biotecnologie e medicina 169 cole. Tutto questo ha portato ad un’integrazione delle conoscenze e alla necessità di capire meglio i processi chimici, fisici, ecc. Ora che questa conoscenza di base è stata acquisita, pur non soddisfacendoci completamente, si può fare una riflessione ulteriore che ci porta a recuperare il concetto di complessità. Dalla conoscenza delle cellule, dobbiamo meglio comprendere quali sono i passaggi per lo sviluppo di un organismo. Vi sono tappe intermedie con promotori, acceleratori, sistemi d’accensione di geni che permettono di arrivare alla formazione di un tessuto, di un organo e di un intero organismo. Questo, tuttavia, non è sufficiente, perché il processo non è determinato solo dall’interno dell’individuo e, cioè, dal suo profilo genetico, ma è plasmato anche da un rapporto derivato dall’integrazione integrato tra la sua costituzione genetica e l’ambiente, ambiente inteso nel senso più ampio e cioè condizionato da fattori fisico-chimici o d’altra natura, presenti nell’ambiente esterno, ma anche da vari comportamenti individuali, che incidono nella formazione di un individuo. Lo studio su gemelli omozigoti, in questo senso, è illuminante. In situazioni diverse, i gemelli omozigoti, pur avendo lo stesso patrimonio genetico, rispondono in maniera diversa. Ecco perché si afferma che la clonazione umana non è possibile. La clonazione dello stesso individuo e delle stesse caratteristiche genetiche, è forse possibile: non si può, però, clonare tutto il processo che porta poi alla costituzione di un particolare individuo, processo che è condizionato da fattori che non sono solo di tipo genetico. Questi problemi fanno sì che la medicina moderna non è competenza soltanto degli addetti tradizionali – il medico e l’infermiere. Ormai entrano in gioco anche altri aspetti e competenze diverse. Si è giunti ad una medicina che non si occupa solamente di catalogare i farmaci in un certo modo o di fare uso, anche attraverso l’informatica, di domande e risposte. Si tratta ora di applicare alla medicina le nuove conoscenze. Il paziente vuole sentire il parere del medico ed il medico rappresenta sempre l’attore principale, anche perché c’è sempre questa richiesta da parte del paziente, quella di interagire soprattutto con la figura del medico, che ha la responsabilità di identificare e curare la sua malattia. Tuttavia occorre anche pensare ad una compartecipazione, alla presenza di altri esperti, quali psicologi, bioeticisti, ecc. che rappresentano figure preminenti della nuova medicina. Ho parlato prima della systems biology – oggi si va verso la biologica sintetica, la possibilità, cioè, di produrre cromosomi artificiali. Questo, non perché si stia tentando di creare artificialmente la vita, cosa impossibile, quanto invece per poter utilizzare una piccola parte della cellula, invece della cellula intera, per arrivare alle stesse soluzioni, impiegando anche i sistemi di ingegneria edile. 170 Leonardo Santi Concetti base sulle biotecnologie Danno e riparazione del DNA A questo punto, dopo brevi considerazioni sugli aspetti generali della biologia è utile ricordare come si è arrivati a procedure per prodotti biotecnologici. Sono queste, probabilmente, nozioni conosciute; in ogni caso, vorrei ricordare due concetti base che sono all’origine delle biotecnologie. Dalle ricerche sui tumori abbiamo appreso che, a un certo punto, nel doppio filamento del DNA, si verifica un danno, provocato da una sorgente chimica o fisica, esterna o anche interna. Su questo filamento, il danno è espresso dal cosiddetto “ingombro sterico”. Il processo di danno e riparazione del DNA rappresenta una mirabile situazione biologica. Vi è, infatti, un enzima che percorre incessantemente il filamento del DNA; quando l’enzima rileva un’alterazione del filamento, un altro enzima taglia il punto danneggiato, un terzo enzima lo asporta, e un quarto enzima ripara infine il filamento dell’altro. Questo è il processo di danno e riparazione del DNA. Se ci esponiamo in modo prolungato al sole, si produce un simile danno, che, però è riparato, in quanto si tratta di un processo naturale. Da ciò si è concluso che possiamo utilizzare questi enzimi e la loro capacità di tagliare, cucire ed eliminare dal DNA un pezzetto che ci può essere utile. Virus oncogeni Un altro aspetto importante è quello dello studio dei virus oncogeni, cancerogeni sugli animali, in grado di inserirsi nel materiale genetico di un’altra cellula e divenirne parte costitutiva. DNA ricombinante In conformità a queste conoscenze, i ricercatori hanno utilizzato la capacità posseduta da enzimi, di tagliare il DNA. Hanno poi utilizzato l’altra conoscenza, quella sui virus oncogeni. Questi virus, rimossa la parte infettante, sono caricati di questo pezzettino di DNA, che è successivamente inserito nel DNA della cellula che si voleva ottenere. Interferon Si può, a questo punto, fare l’esempio dell’interferon. L’interferon è una sostanza prodotta naturalmente dall’organismo umano, quando è esposto ai virus, soprattutto i virus lenti, come il virus sendai. Molti donatori di sangue finlandesi e svedesi erano sottoposti a salasso; i sacchi di sangue Biotecnologie e medicina 171 raccolti erano infettati dai virus sendai per produrre l’interferon. Da qui nasce l’impiego dell’interferon per alcune patologie infettive e anche per i tumori, con costi esagerati e anche dei rischi. L’interferon IFN usato in Francia fece insorgere dei casi di malattia simile alla cosiddetta “malattia della mucca pazza”, per questo ne fu sospeso l’uso. Con il processo che ho descritto sopra, di ingegneria genetica, possiamo ottenere una cellula umana che contiene il gene dell’interferon. È noto che la cellula di un batterio, l’Escherichia coli, non ha il gene dell’interferon nel suo patrimonio genetico. Se, con il sistema di taglio descritto sopra, rimuoviamo il gene dell’interferon dal patrimonio genetico della cellula umana e lo inseriamo nel plasmide dell’Escherichia Coli che non lo possiede, otteniamo cellule batteriche produttrici di interferon in forma pura e in quantità sufficiente. Farmaci biotecnologici In laboratorio, avremo, pertanto, cellule batteriche “operaie” che lavorano per noi e ci permettono di produrre farmaci biotecnologici. Il primo di questi farmaci fu l’insulina e quindi l’interferon. Raramente, ai nostri giorni, è usata quella estratta dai suini, in quanto disponibile quella ricombinante, che non ha problemi di ordine quantitativo ed è priva di rischio biologico. Patologie gravi, quali il nanismo ipofisario, per esempio, un tempo erano curate con l’ormone della crescita, estratta dall’ipofisi di cadavere; tuttavia, vi erano rischi legati ad infezioni e la terapia era riservata solo a coloro che disponevano di mezzi economici adeguati. Oggi, invece, questa terapia è molto diffusa e si può utilizzare su larga scala. Non si deve esagerare, naturalmente, come è avvenuto negli Stati Uniti dove, l’ormone della crescita, è utilizzato per potenziare la massa muscolare. Bisogna utilizzare in modo appropriato ed etico, questi prodotti biotecnologici. Esempi di applicazione delle biotecnologie alla medicina Epidemiologia Lo studio delle biotecnologie è ormai utilizzato non solo per la cura ma anche per la prevenzione di molte patologie. Gli interventi di prevenzione sono concretamente basati su studi epidemiologici che però prendono in considerazione situazioni morbose dopo che sono già avvenute esposizioni a sostanze cancerogene, di cui si ignorava l’azione. Con uno studio retrospettivo sono quindi presi in considerazione gruppi di persone in cui un particolare tipo di tumore si manifesta con maggiore incidenza 172 Leonardo Santi risalendo quindi alla causa della patologia riscontrata. Oggi, grazie all’epidemiologia molecolare e all’utilizzazione di markers biologicamente efficaci, è invece possibile intervenire prima che il danno possa essere evidenziato clinicamente. In particolare, in base a studi compiuti su vigili urbani e su floricoltori che lavorano in serre, esposti a pesticidi, abbiamo potuto rilevare danni espressi nel loro DNA, che, anche se poi si auto-ripara, è però espresso in un maggior numero di cellule danneggiate rispetto a quelle presenti in soggetti non esposti. Ciò significa che esiste un rischio e se noi sottraiamo questi soggetti a quel particolare rischio presente nel loro ambiente, si può evitare un passaggio obbligato verso una forma neoplastica. A titolo di esempio, basta pensare ai vigili di Genova, che operano in zone di intenso traffico veicolare per cui sono esposti a concentrazioni elevate di gas di scarico e così via. Tests genetici Tests genetici sono anche utilizzati per le predittività di talune malattie, per diagnosi precoci, per analisi genetica di popolazione, per conservare materiale biologico, per il funzionamento di una banca del DNA a fini di giustizia, ecc. Ognuno di questi tests va applicato con razionalità. Bruno Dallapiccola ha fatto un’importante campagna di informazione e il nostro Comitato ha elaborato un documento fatto proprio dall’Istituto Superiore di Sanità per evitare che i test genetici possano diventare una forma di “consumismo” diagnostico, in casi per cui non esiste una vera necessità. Abbiamo proposto un regolamento per i tests genetici e per quelli di screening di popolazione perché, anche in questo caso, occorre evitare che siano utilizzati per motivazioni futili o non sufficientemente motivate. Tests per la criminalità Un altro aspetto, e questo è un tema in discussione in Parlamento, è il fatto di poter verificare se i tests del DNA, per esempio, sono in grado di ridurre certi tipi di criminalità. Si è svolto recentemente un incontro con le altre Nazioni europee e con gli USA, che hanno adottato la banca del DNA: in quei Paesi sono stati drasticamente ridotti i reati di stupro, di scippo, di furto, ecc. Questo perché l’identificazione del colpevole del reato è particolarmente rapida. È peraltro necessario procedere con cautela e abbiamo per questo discusso con il garante della privacy e abbiamo anche provveduto a elaborare un apposito documento con il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB), che ha dato parere favorevole a questa iniziativa, perché era una proposta che prevedeva una serie di garanzie. Biotecnologie e medicina 173 Tests genetici predittivi L’applicazione di queste nuove ricerche biologiche invade peraltro tutti i campi di interesse collettivo. Proseguendo, in campo diagnostico si studia l’intestino per cercare le caratteristiche genetiche specifiche che possono aver favorito l’insorgenza di una neoplasia. Qual è l’utilità di questi studi? Nel sangue occulto o nelle feci si possono trovare, infatti, geni che potrebbero essere premonitori per l’esistenza di un cancro. Per quanto riguarda la cosiddetta medicina predittiva, sono da approfondire anche tanti problemi etici, come per esempio: se in un neonato che ha un danno nei geni che denuncia l’insorgere a breve di un retinoblastoma certamente questo bambino avrà una patologia neoplastica in entrambi gli occhi. In questo caso, qual è la cosa più giusta da fare? È lecito fare questi tests, quando non sappiamo ancora quale terapia potrà essere attuata, una volta in possesso dei risultati? Asportiamo entrambi gli occhi al neonato? La medicina predittiva e quella diagnostica devono quindi essere accompagnate costantemente da una valutazione etica di ciò che occorre fare e dal giudizio, se sia o no lecito intervenire e in che modo. Passiamo ad un altro caso che ha però aspetti diversi. Un padre affetto da un tumore derivante dalla degenerazione neoplastica della sua condizione genetica, la poliposi familiare, che è trasmissibile ai figli. Fino ad ora si eseguiva un esame endoscopico su tutti i figli, con frequenza annuale. Oggi si può, invece, stabilire quale dei figli possiede il gene alterato e sottoporre solo questo soggetto ad accertamenti periodici, risparmiando agli altri figli indagini spesso fastidiose o invasive. Sviluppo di farmaci biotecnologici Per ciò che riguarda lo sviluppo di farmaci biotecnologici, era stato previsto il loro ingresso nel mercato con una progressione graduale nel tempo con una linea gradualmente ascendente. Vi è stata invece una vera impennata dovuta al progredire della ricerca. Qual è l’obiettivo che ci si propone? Per i tumori, l’obiettivo è di colpire solo le cellule neoplastiche, risparmiando le cellule sane. Con la chemioterapia sono danneggiate tutte le cellule, quelle neoplastiche ma anche quelle sane, specie quelle ematiche. In questo caso, si tratta di prospettare un cambiamento di quella che è la caratteristica della cellula tumorale. Molti farmaci biotecnologici sono già in commercio: oggi si tende verso la farmacogenetica e la farmacogenomica. Si sta cercando, cioè, di realizzare una medicina personalizzata. E’, tuttavia, assai prematuro affermare che ci troviamo nelle condizioni per poter già parlare di una medicina ad personam. Questo è solo un obiettivo. Oggi, la medicina personalizzata è utilizzata soltanto in qualche caso, per esempio nelle sperimentazioni cliniche dei farmaci nelle fasi 174 Leonardo Santi preliminari e si scelgono, per questi particolari protocolli, soggetti con lo stesso corredo genetico. È difficile che possa essere attualmente applicato questo accertamento a tutta la popolazione, sia per i costi sia anche per la reale fattibilità. Questo è, però, un obiettivo che ci poniamo. Sarebbe, infatti, importante conoscere il genotipo del soggetto malato e, quindi, poter disporre del farmaco adatto al singolo paziente o gruppo di pazienti. Farmaci dalle piante Esistono inoltre nuove frontiere, nuovi settori di applicazione, come l’utilizzazione delle biotecnologie in campo vegetale. L’obiettivo, in questo caso, è ottenere vaccini attraverso le piante. Si tratta di una rivoluzione che darà frutti sia nel campo del bioterrorismo, permettendo la conservazione di farmaci in grandi quantità, sia nei paesi dell’Africa, dove, mancando la catena del freddo, non è possibile la conservazione dei vaccini tradizionali e dove non esiste un’organizzazione sanitaria adeguata per il loro uso. Con le biotecnologie estese al settore vegetale si potrà arrivare, specialmente mediante foglie del tabacco, ad avere pillole che possono essere somministrate con facilità e conservate senza bisogno della catena del freddo. Un obiettivo di questo tipo è auspicato in tutto il mondo: negli Stati Uniti, per esempio, hanno prodotto con questo metodo il vaccino contro la peste. Per patologie in Africa, i ricercatori stanno mettendo a punto un vaccino contro le varie forme di dissenteria, spesso letali. Conclusioni Sir Osler ha affermato: «Man mano che il progresso si sposta, dal laboratorio di ricerca alla corsia, si rendono disponibili nuovi strumenti di lettura delle “istruzioni” contenute nel DNA, che aiutano a predire i rischi di malattia e a prevenirli. È questo il momento in cui “l’arte medica” incontra la “scienza”». L’innovazione scientifica ci ha posto pertanto di fronte a problemi assolutamente diversi rispetto al passato. Per concludere, desidero ricordare con forza il concetto di una necessaria interazione, per il progresso della scienza, di competenze diverse. Non mi riferisco soltanto alle competenze scientifiche tradizionali, quali la fisica, la chimica, l’economia, ecc. ma anche alle scienze cognitive, che sono ormai divenute contestuali a una ricerca scientifica responsabile. L’innovazione scientifica ha pertanto bisogno, proprio perché ormai coinvolge tutta l’opinione pubblica, di un continuo contatto con la gente e deve poter trasmettere informazioni corrette ed in grado di far avanzare la scienza, evitando discussioni aride e, sovente, fini a se stesse. Lucio Romano Le nuove biotecnologie riproduttive e la diagnostica genetica pre-impiantatoria La diagnosi genetica preimpianto (Preimplantation Genetic Diagnosis o PGD) consente di determinare, secondo diverse tecniche, alterazioni genetiche a carico di embrioni prodotti con la fecondazione artificiale. La PGD non permette di curare l’embrione ma di eliminarlo se ritenuto non sano, ovvero affetto da patologia genetica o che si ritenga possa sviluppare una determinata patologia nello sviluppo futuro anche a distanza di anni. La PGD fu descritta per la prima volta nel 1990 in uno studio di A.H. Handyside in pazienti portatori di malattia X-linked, differenziando e selezionando embrioni maschili da quelli femminili1. Nel 1992 si registra la nascita della prima bambina dopo PGD per fibrosi cistica2. Le principali motivazioni per la PGD3, riportate nella letteratura scientifica del settore, sono: determinazione di alterazioni genetiche in embrioni classificati a rischio4; riduzione degli aborti spontanei in coppie portatrici di traslocazioni5; screening dell’aneuploidia6 nelle tecniche di fecondazione artificiale (PGD-AS: Preimplantation Genetic Diagnosis for Aneuploidy Scree- Medico, Specialista in Ostetricia e Ginecologia, Docente presso il Dipartimento di Scienze Ostetrico-Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Vicepresidente Nazionale del Movimento per la Vita. 1 A.H. HANDYSIDE - E. KONTOGIANNI - K. HARDY - R. WINSTON , «Pregnancies from biopsied human preimplantation embryos sexed by Y-specific DNA amplification», in Nature 344 (1990), 768-770. 2 A.H. HANDYSIDE - J.G. LESKO - J.J. TARIN, et al., «Birth of a normal girl after in vitro fertilization and preimplantation diagnosic testing for cystic fibrosis», in N Engl J Med. 327 (1992), 905-909. 3 F. SHENFIELD - G. PENNINGS - P. DEVROEY, et al., «ESHRE Ethics Task Force. Taskforce 5: preimplantation genetic diagnosis», in Hum Reprod. 18 (2003), 649651. 4 K. SERMON - A. VAN STEIRTEGHEM - I. LIEBAERS, «Preimplantation genetic diagnosis», in Lancet 363 (2004), 1633-1641. 176 Lucio Romano ning) e per donne di età superiore ai 36 anni (età fertile avanzata) 7. Alcuni suggeriscono la PGD anche per la selezione degli embrioni secondo il sesso, per bilanciamento familiare e sociale (SPD: Social Preimplantation Diagnosis)8. La PGD viene proposta per la tipizzazione HLA nella preselezione di donatori per il trapianto di cellule staminali ematopoietiche tra consanguinei (fratelli/sorelle)9: anemia di Fanconi10, sindrome di Wiskott-Aldrich11, beta-talassemia12, ecc. Le principali patologie per le quali attualmente sono riportati studi con ricorso alla PGD sono: talassemia, fenilchetonuria, fibrosi cistica, retinite 5 Le traslocazioni sono anomalie strutturali nelle quali avviene lo scambio di materiale genetico tra due o più cromosomi non omologhi, ovvero un frammento di cromosoma viene rimosso per essere reinserito in posizione differente, sia sullo stesso cromosoma che su un altro cromosoma (traslocazione intracromosomica e intercromosomica). Le traslocazioni possono essere bilanciate e non bilanciate: quelle bilanciate si caratterizzano per uno “scambio alla pari” di frammenti fra cromosomi diversi. La traslocazione bilanciata non comporta perdita di materiale genetico, pertanto i portatori di traslocazione bilanciata non manifestano in genere alcun segno clinico. Nella traslocazione non bilanciata, uno o più cromosomi in seguito alla traslocazione hanno subito la perdita di materiale genetico, mentre altri ne hanno in sovrappiù. Chi è portatore di una traslocazione bilanciata, pur non manifestando alcun sintomo, rischia di avere figli portatori di traslocazioni patologiche (non bilanciate). 6 L’aneuploidia, modificazione numerica dei cromosomi, è caratterizzata da una situazione in cui uno o pochi cromosomi vengono persi oppure aggiunti rispetto all’assetto cromosomico fisiologico. La situazione normale è detta diploidia. Nella maggior parte dei casi l’aneuploidia è letale. Nel caso degli organismi diploidi le variazioni aneuploidi possono essere suddivise in 4 categorie principali: nullisomia (si è verificata la perdita di un paio di cromosomi omologhi e la cellula ha un corredo 2N-2); monosomia (è stato perso un solo cromosoma e la cellula è 2N-1); trisomia (la cellula ha 3 esemplari di uno stesso cromosoma, ad es. la trisomia 21 o sindrome di Down); tetrasomia (la cellula ha un paio di cromosomi in più: essa è 2N+2). 7 «L’età della donna è uno dei principali limiti posti alla fertilità. Con l’età, inoltre, aumenta il rischio di abortire spontaneamente. Tale rischio risulta essere pari al 10% circa per donne di età <30 anni, al 18% per i soggetti con età compresa fra i 30 e i 39 anni, al 34% per donne intorno ai 40 anni. Donne di età superiore ai 35 anni hanno una più elevata probabilità di avere difficoltà riproduttive in relazione ad aneuploidie determinate da non disgiunzioni cromosomiche. La capacità riproduttiva della coppia subisce un declino con l’età. Tale fenomeno si manifesta in maniera più sensibile nella donna; l’aspettativa di avere un figlio per una coppia nella quale è presente una donna di età > 35 anni è ridotta del 50% rispetto alle coppie nelle quali le donne hanno un’età inferiore. Sebbene esistano evidenze scientifiche che la fertilità nella donna diminuisca a partire dai 25-28 anni è unanimemente accettato che la riduzione della capacità riproduttiva nella Le nuove biotecnologie riproduttive 177 pigmentosa, malattia di Tay-Sachs, anemia a cellule falciformi, distrofia miotonica, acondroplasia, sindrome di Marfan, sindrome del cromosoma X fragile, corea di Huntington, sindrome di Lesch-Nyhan, emofilia di tipo A e B, sindrome di Alzheimer, rene policistico. Recentemente è stato pubblicato uno studio clinico che annuncia la nascita della prima bambina, selezionata con PGD per il fattore RhD-negativo, non affetta da anemia emolitica da isoimmunizzazione per il fattore Rh, e conseguente partner femminile inizi intorno ai 35 anni con un progressivo e considerevole calo fino al completo esaurimento della funzionalità ovarica» in MINISTERO DELLA SALUTE, Linee guida di procreazione medicalmente assistita, Decreto (21.07.2004); Cf. L.J. HEFFNER, «Advanced maternal age: how old is too old?», in N Engl J Med. 351 (2004), 1927-1929. 8 «Regarding the issue of sex selection for non-medical reasons by means of PGD, the Task Force has not been able to reach a unanimous decision. Two positions can be distinguished: those opposed to every application of sexing for non-medical reasons and those who accept sex selection for family balancing. Position 1: sex selection and human rights. For some, sex selection for nonmedical reasons is intrinsically sexist. Sex selection for social reasons is seen as an issue of human rights which entails non-discrimination on grounds of sex (as well as religion or phenotype), enshrined in both the Universal Declaration of Human Rights of 1948 and the European Convention of Human Rights of 1950. […] Position 2: sex selection for family balancing. The wish to increase autonomy while avoiding conflicts with other ethical principles leads to the position that sex selection for non-medical reasons is only allowed to balance the family. No selection is allowed for the first child or where there is an equal number of both sexes. The application of the technology for family balancing is not considered as good but as morally acceptable. Consequently, sex selection for this reason should be permitted. The restriction of sex selection to applications for family balancing gives parents more control of the composition of their family and simultaneously avoids the potential disasters (like a skewed sex ratio in society) caused by the unrestricted application of sex selection. However, the application should not jeopardize other generally accepted moral principles, like the principle of justice (as expressed in the equality of the sexes) and the principle of respect for the autonomy of the future person. The application for family balancing differs from the unrestricted application because the parents do not and cannot choose a child of a certain sex but choose a child of the other sex». SHENFIELD, «ESHRE Ethics Task Force…»; cf. A. MALPANI, «PGD and sex selection», in Hum Reprod. 17 (2002), 517–523; G. PENNINGS, «Personal desires of patients and social obligations of geneticists: applying preimplantation genetic diagnosis for non-medical sex selection», in Prenat Diagn. 22 (2002), 1123–1129; B.M. DICKENS - G.I. SEROUR - R.J. COOK, et al., «Ethical and legal issues in reproductive health. Sex selection: Treating different cases differently», in Int J Gynecol 178 Lucio Romano esclusione di tutti gli altri embrioni che, comunque sani ed in quanto con fattore RhD-positivo, impossibilitati ad essere trasferiti13. Tecniche di PGD Le tecniche sono: 1) biopsia del globulo polare (polar-body biopsy) allo stadio di ovocita (I globulo polare) o di zigote (I e II globulo polare)14; 2) biopsia dei blastomeri di embrione entro il terzo giorno dalla fecondazione, allo stadio di segmentazione o clivaggio (cleavage-stage biopsy); 3) biopObstet. 90 (2005), 171-177. Negli ultimi anni si è riscontrato nelle letteratura internazionale un significativo aumento degli studi in merito alla applicazione della PGD per ragioni non mediche e particolarmente per bilanciamento familiare, significando pertanto una sovraindicazione nel ricorso alla PGD e, detto in altro modo, la ulteriore conferma di una cultura eugenetica negativa. Cf. S. MATTHEW, «The ethics of using genetic engineering for sex selection», in J Med Ethics 31 (2005), 116-118; ETHICS COMMITTEE OF THE AMERICAN SOCIETY OF REPRODUCTIVE MEDICINE, «Sex selection and preimplantation genetic diagnosis», in Fertil. Steril. 82 Suppl 1 (2004), S245-248; H. Watt, «Preimplantation genetic diagnosis: choosing the “good enough”child», in Health Care Anal. 12 (2004), 51-60; JA ROBERTSON, «Extending preimplantation genetic diagnosis: medical and nonmedical uses», in J Med Ethics 29 (2003), 213-216. 9 J.E. WAGNER J.P. KAHN S.M. WOLF, et al., «Preimplantation testing to produce an HLA-matched donor infant», in JAMA 292 (2004), 803-804; Y. VERLINSKY S. RECHITSKY - T. SHARAPOVA, et al., «Preimplantation HLA testing», in JAMA 291 (2004), 2079-2085; S. RECHITSKY - A. KULIEV - I. TUR-KASPA, et al., «Preimplantation genetic diagnosis with HLA matching», in Reprod Biomed Online 9 (2004), 210-221. 10 B. BIELORAI - M.R. HUGHES - A.D. AUERBACH, et al., «Successful umbilical cord blood transplantation for Fanconi anemia using preimplantation genetic diagnosis for HLA-matched donor», in Am. J. Hematol. 77 (2004), 397-399. 11 RECHITSKY, KULIEV, TUR-KASPA et al., «Preimplantation genetic diagnosis…» 12 S. CHAMAYOU - C. ALECCI - C. RAGOLIA, et al., « Successful application of preimplantation genetic diagnosis for ß-thalassaemia and sickle cell anaemia in Italy», in Hum Reprod. 17 (2002), 1158-1165. 13 Una donna di 27 anni, sposata, positiva per anticorpi anti RhD (fattore Rh+) si sottopose a consulenza preconcezionale per la programmazione di una futura gravidanza. La coppia aveva avuto già 2 figli, il secondo dei quali era stato affetto alla nascita da malattia emolitica. Entrambe le gravidanze era state portate a termine con parti spontanei. Dalla consulenza si mise in evidenza la possibilità futura di gravidanze con un quadro più grave per l’alloimmunizzazione RhD. La coppia, dopo la consulenza, decise di sottoporre a screening per il fattore RhD, mediante PGD, gli embrioni prodotti mediante ICSI e trasferimento selettivo dei soli embrioni RhD-negativi così da evitare qualsiasi possibilità di incompati- Le nuove biotecnologie riproduttive 179 sia delle cellule del trofoectoderma di embrione dopo il terzo giorno dalla fecondazione, allo stadio di blastocisti (blastocyst biopsy). Per poter praticare la PGD sono necessarie l’iperstimolazione ovarica e la fecondazione artificiale, con produzione di diversi embrioni. In particolare: stimolazione ovarica con superovulazione, prelievo ovocitario, fecondazione artificiale con tecnica ICSI (Intra-Cytoplasmic Sperm Injection), valutazione morfologica degli embrioni con 2 pronuclei, coltura degli embrioni. La PGD richiede la penetrazione della zona pellucida con rimozione del globulo polare o delle cellule embrionali, secondo la tecnica usata15. bilità materno-fetale nel corso della gestazione. Nello specifico la donna fu sottoposta a stimolazione ovarica, con aspirazione di 19 ovociti e 17 dei quali furono sottoposti a ICSI. Al giorno 1, 12 ovociti risultavano essere stati fecondati. Al giorno 3 si praticò la biopsia ed analisi genetica (PGD-PCR), dalla cui risultarono 9 embrioni RhD-positivi, 2 embrioni RhD-negativi ed 1 embrione con un profilo di amplificazione uni-parentale. Soltanto i 2 embrioni RhD-negativi, al giorno 5 ed allo stadio di 10 cellule, furono trasferiti in utero. «L’alloimunizzazione all’antigene D del sistema Rh può essere causa della malattia emolitica del feto e del neonato se il sangue del feto è RhD-positivo. Sebbene l’incidenza della severa alloimunizzazione si è ridotta grazie alla profilassi con somministrazione di immunoglobuline anti-D durante e dopo il parto, permane ancora in un piccolo gruppo di donne. In questi casi la malattia da alloimmunizzazione all’antigene D rappresenta un significativo problema sia per le stesse gestanti che per i feti e neonati. La PGD potrebbe essere utilizzata per evitare l’incompatibilità materno-fetale per il fattore RhD in donne già sensibilizzate allo stesso fattore RhD. La biopsia di una singola cellula dall’embrione in una fase precoce della segmentazione selezionerebbe gli embrioni RhD-negativi, e conseguente trasferimento in utero del solo embrione RhD-negativo o dei soli embrioni RhD-negativi. Questa procedura eviterebbe qualsiasi complicazione inerente la malattia emolitica del feto e del neonato. L’articolo descrive il primo caso riportato di gravidanza non affetta da alloimmunizzazione RhD usando la tecnica della PGD. Attraverso la fecondazione artificiale con ICSI ed il trasferimento dell’embrione di un feto di sesso femminile, sano, con sangue di tipo RhD-negativo. La PGD in coppie con il partner RhD-positivo eterozigotico rappresenta una opzione per evitare la malattia emolitica del neonato in madri con alloimmunizzazione RhD». S.K.M. SEEHO - G. BURTON - D. LEIGH, et al., «The role of preimplantation genetic diagnosis in the management of severe rhesus alloimmunization: first unaffected pregnancy. Case report», in Hum Reprod. 20 (2005), 697701. 14 Il primo globulo polare, che contiene 46 cromosomi, viene espulso dall’ovocita prima della sua fecondazione e rappresenta il risultato della I divisione meiotica. Il secondo globulo polare, che contiene 23 cromosomi, viene espulso dopo la fecondazione ed il completamento della seconda divisione meiotica. 180 Lucio Romano La PGD non è esente da rischi. I principali interrogativi vertono sulle procedure tecniche che ledono l’integrità dell’embrione16, le capacità di sopravvivenza degli stessi e le possibilità di impianto successivo; la possibilità di un aumentato rischio di parti pretermine, basso peso alla nascita dei neonati, mortalità perinatale; sviluppo di anomalie congenite in bambini concepiti con le tecniche di fecondazione artificiale (FIVET o ICSI) e sottoposti a PGD17. Non ci sono certezze riguardo agli effetti a lungo termine su bambini nati con fecondazione artificiale dopo PGD. 1) Biopsia del globulo polare (polar-body biopsy). La maggioranza degli ovociti prelevati dopo induzione farmacologica si trovano allo stadio di metafase II, caratterizzato dalla presenza del I globulo polare (first polar body, PB1) che si forma ~36-42 ore dopo la stimolazione dell’ovulazione. Il II globulo polare (second polar body, PB2) si forma dopo la fecondazione ed il suo prelievo richiede una maggiore attenzione a causa delle connessioni che potrebbero esistere tra il PB2 e la membrana plasmatica. Il PB2 viene rimosso dallo zigote a 18-22 dall’inseminazione. Il primo ed il secondo globulo polare possono essere rimossi simultaneamente, anche se il primo globulo polare potrebbe essere degenerato dopo 24 ore. È accettabile tecnicamente la rimozione sequenziale dei globuli polari, con il primo che viene rimosso al tempo “0” ed il secondo al giorno “1”. La prima fase, che è comune a tutte le tecniche, è quella di praticare un foro nella zona pellucida, che circonda l’ovocita o l’embrione fino allo stadio di blastocisti, preferibilmente con procedura meccanica. Successivamente 15 La penetrazione della zona pellucida può essere attuata secondo le seguenti tecniche: a. meccanicamente con puntura diretta, dissezione parziale della zona pellucida (partial zona dissection o PZD) o dissezione tridimensionale parziale della zona pellucida (three-dimensional partial zona dissection o 3D-PZD); b. chimicamente con soluzione acida di Tyrodes; c. con tecnologia laser, di recente introduzione, che richiede ulteriori studi. 16 Per quanto riguarda il danneggiamento dell’embrione, gli effetti sono classificabili come “tutto o nulla” (all or none). Se un embrione risulta danneggiato non prosegue il suo sviluppo, viceversa lo continua senza che ne conseguano evidenti alterazioni. Il rischio di arrecare danni all’embrione è per i centri con maggiore esperienza dell’1.0%, comunque l’incidenza può essere variabile in ragione delle competenze di chi pratica la biopsia. Il danno embrionale è certamente prevedibile e ricorrente se la biopsia viene praticata quando i blastomeri sono maggiormente compattati per la formazione delle tight junctions. In alternativa è stato proposto il lavaggio degli embrioni in soluzioni che lisano le adesioni tra i blastomeri. 17 R.D. LAMBERT, «Safety issues in assisted reproductive technology: aetiology of health problems in singleton ART babies», in Hum. Reprod. 18 (2003), 19871991. Le nuove biotecnologie riproduttive 181 si introduce una micropipetta che aspira i 2 globuli polari. Il materiale genetico ivi presente viene preparato e analizzato per la diagnosi. L’analisi del I globulo polare, allo stadio di ovocita, circa 4 ore dopo il prelievo dello stesso, sarebbe giustificato dal fatto che l’80% delle aneuploidie origina nella prima meiosi materna, tuttavia lo studio del solo I globulo polare non è sufficiente perché solo l’analisi di entrambi i globuli polari aumenta l’accuratezza della diagnosi18. L’analisi del primo globulo polare può essere complicata da eventi di ricombinazione. L’analisi del secondo globulo polare è essenziale19. L’analisi di entrambi i globuli polari raddoppia il numero delle manipolazioni e dei campioni da analizzare. La biopsia dei globuli polari è usata per l’individuazione o delle aneuploidie legate all’età o nei casi in cui la donna è portatrice di una traslocazione. 2) Biopsia allo stadio di segmentazione o clivaggio (cleavage-stage biopsy). È la tecnica oggi maggiormente usata20. Gli embrioni, prodotti con fecondazione artificiale e posti in coltura, proseguono lo sviluppo ed al terzo giorno dopo fecondazione, alla terza divisione quando il patrimonio cellulare è costituito da 6 o più cellule, sono sottoposti a biopsia. La biopsia dei blastomeri è generalmente praticata a ~62-64 ore dopo l’inseminazione, anche se l’esatto timing non è univocamente definito dai diversi laboratori. Dalla biopsia sono dapprima esclusi gli embrioni definiti di bassa qualità biologica (very poor quality ), ovvero gli embrioni che all’osservazione microscopica si ritiene che non abbiano possibilità di evolvere ulteriormente e di annidarsi. Tecnicamente si crea una lesione a carico della zona pellucida e si introduce una micropipetta che, con pressione negativa, aspira delicatamente 1 o 2 blastomeri. Si preferisce aspirare 2 blastomeri, in embrioni di 6 o più cellule, per consentire una diagnosi genetica maggiormente attendibile, anche se la rimozione di 2 cellule riduce significativamente il patrimonio cellulare embrionale da cui riduzione delle capacità di successivo sviluppo21. I blastomeri rimossi, che hanno la proprietà della totipotenza, vengono sottoposti ad analisi genetica mentre l’embrione 18 S. RECHITSKY - C. STROM - O. VERLINSKY O, et al., «Accuracy of preimplantation diagnosis of single-gene disorders by polar body analysis of oocytes», in J Assist Reprod Genet. 16 (1999),192-198. 19 Questa valutazione può essere complicata dal fenomeno della perdita di alleli (allele dropout o ADO) che può verificarsi durante l’analisi mediante PCR, così che la rivelazione di un singolo allele nel primo globulo polare non può essere distinta tra un genotipo vero o un ADO. 20 A. DE VOS - A. VAN STEIRTEGHEM, «Aspects of biopsy procedures prior to preimplantation genetic diagnosis», in Prenat Diagn. 21 (2001), 767-780. 21 P. BRAUDE - S. PICKERING - F. FLINTER , et al., «Preimplantation genetic diagnosis», in Nature Reviews Genetics 3 (2002), 941-953. 182 Lucio Romano corrispondente viene riposto in coltura in attesa del risultato e dell’eventuale successivo trasferimento. La motivazione per la quale si preferisce la biopsia a 62-64 ore dopo l’inseminazione è dettata dalla non ancora avvenuta compattazione delle cellule embrionali. Il compattamento, con formazione delle tight junctions 53 dallo stadio delle 16 cellule, comporterebbe maggiori difficoltà a separare le cellule e maggior rischio di creare lesioni a carico dei blastomeri e quindi dell’embrione, sebbene sia possibile ridurre il compattamento cellulare, caratteristico delle fasi successive di sviluppo, ponendo l’embrione in opportuna coltura. La biopsia dell’embrione allo stadio di 4 cellule comporta la rimozione di una significativa quantità di c.d. massa cellulare con effetti dannosi per l’ulteriore sviluppo. Lo stadio di sviluppo delle 8 cellule rappresenta sotto il profilo biologico quello migliore, caratterizzato dall’inizio del processo di polarizzazione delle cellule embrionali. Secondo J.F. Strauss e R.L. Barbieri sono necessari ulteriori studi controllati randomizzati per meglio definire le possibilità di impianto dell’embrione a cui siano stati aspirati 2 blastomeri22. 3) Biopsia della blastocisti (blastocyst biopsy). Lo stadio di blastocisti rappresenta la fase più avanzata di sviluppo embrionale entro il quale praticare la biopsia. Al 5°-6° giorno dalla fecondazione si pratica una minilesione della zona pellucida, con erniazione di vescicola trofoectodermica23. Il vantaggio della biopsia in questo stadio è la possibilità di prelevare un maggior numero di cellule con ridotto rischio di danni all’embrione. Il prelievo viene effettuato a carico delle cellule del trofoectoderma così da non intervenire sulla massa cellulare interna. Gli svantaggi della tecnica sono: ridotto numero di embrioni (~36%) maturi fino a questo stadio ed in non tutti gli embrioni è possibile praticare la PGD 24; il tempo a disposizione per poter praticare la diagnosi genetica è limitato e non ci sono studi numericamente congrui che raffrontino i risultati della diagnosi genetica delle cellule del trofoectoderma con le cellule della massa cellulare interna. Comunque, gli stadi avanzati di sviluppo embrionale non possono essere considerati ottimali per la biopsia perché il compattamento è già rilevante, iniziando dalla fase embrionale a 16-32 cellule. 22 J.F. STRAUSS - R. BARBIERI (eds.), Yen and Jaffe’s Reproductive Endocrinology, Physiology, Pathophysiology and Clinical Management, Elsevier Inc., New York 2005, 886-892. 23 H.J. CLOUSTON - M. HERBERT - J. FENWICK, et al., «Cytogenetic analysis of human blastocysts», in Pren Diagn. 22 (2002), 1143-1152. 24 G. VERHEYEN - L.VAN LANDUYT - H. JORIS, et al., «Different embryo developmental patterns in different sequential media appear to result in similar pregnancy rates», in Hum Reprod. 18 suppl. 1 (2003), XVIII-37. Le nuove biotecnologie riproduttive 183 PGD e Linee Guida L’European Society of Human Reproduction and Embryology (ESHRE) ha redatto linee guida per l’applicazione della PGD25. Una prima considerazione è attinente la classificazione della PGD. Si distingue la PGD per pazienti ad alto rischio di trasmissione alla prole di alterazioni genetiche o cromosomiche26 e la PGD-AS per lo screening della sterilità per migliorare l’indice di gravidanza (pregnancy rate). Il counselling genetico rappresenta la tappa preliminare, informando anche la coppia circa l’affidabilità della PGD e della possibilità di errori diagnostici o di effetti avversi (reliability of PGD diagnosis, chance of misdiagnosis or adverse outcome); la decisione da assumere in merito agli embrioni affetti o sui quali non è stata posta diagnosi (decision making about disposition of affected embryos or undiagnosed embryos); la possibilità di un aumentato rischio di parti pretermine con neonati di basso peso e ad elevato rischio di mortalità perinatale e di anomalie congenite (discussion about possible increased risk of premature birth, low birth weight, perinatal mortality, congenital anomalies and/or developmental delay in children following IVF/ICSI/PGD treatment, uncertainty about long-term adverse effects for children born after assisted reproduction with or without PGD and the importance of followup for children born after PGD). Altri aspetti qualificanti il counselling sono: rischi connessi alle complicazioni mediche durante la stimolazione ovarica ed il prelievo ovocitario; possibilità che tutti gli embrioni prodotti siano affetti; che alcuni possano essere inidonei alla biopsia e che ci siano embrioni che non sopravvivano alla biopsia; possibilità di non fare diagnosi per tutti gli embrioni sottoposti a PGD; rischi di gravidanze plurigemellari. In merito alla PGD per la determinazione della compatibilità HLA, con il counselling si informa anche che solo il 25% degli embrioni potrebbe essere idoneo per il trasferimento e nel caso di tipizzazione HLA combinata a PGD specifica per un disordine autosomico recessivo soltanto ~3 embrioni su 16 (~18.8%) saranno idonei al trasferimento. Se la tipizzazione HLA è combinata ad un disordine X-linked, una media di solo 1 embrione su 8 (~12.5%) sarà trasferibile. 25 A.R. THORNHILL - C.E. DE DIE-SMULDERS - J.P. GERAEDTS, et al., «ESHRE PGD Consortium “Best practice guidelines for clinical preimplantation genetic diagnosis (PGD) and preimplantation genetic screening (PGS)”», in Hum Reprod. 20 (2005), 35-48. 26 Singoli difetti di geni autosomico recessivi o dominanti o disordini X-linked, così come anomalie cromosomiche come le traslocazioni e le aberrazioni strutturali. 184 Lucio Romano PGD, Gravidanze, Embryo Loss Secondo i dati pubblicati dall’ESHRE, di tutti i cicli con PGD, si è ottenuto il 17% di gravidanze cliniche dopo ricerca di anomalie cromosomiche strutturali, comprese le traslocazione; il 16% dopo determinazione del sesso ed il 21% dopo PGD per malattie monogeniche 27. I risultati ottenuti sono più bassi rispetto a quanto atteso per cicli senza PGD (2025%). Per quanto riguarda la PGD-AS, per bassa prognosi da età fertile avanzata o ripetuti cicli con fallimenti, si è ottenuto il 25% di gravidanze cliniche. L’International Working Group on Preimplantation Genetics riporta il 24% di gravidanze cliniche dopo PGD, con il 4.7% di bambini nati affetti da anomalie28. Ulteriori dati sono forniti sempre dalla ESHRE in ulteriori report. Raffrontando i risultati tra un primo report (data for collections I-III)29 ed uno successivo (data for collection IV)30, per quanto riguarda la diagnosi di anomalie cromosomiche, sono state ottenute gravidanze cliniche rispettivamente nel 16% e nel 14% dei casi. Il basso indice di gravidanze cliniche è riconducibile al ridotto numero di embrioni ritenuti idonei al trasferimento: ~1 embrione su 4 biopsiati per tutte le classi di alterazioni cromosomiche, e 1 embrione su 5 per le traslocazioni reciproche. PGD per l’emofilia di tipo A e la distrofia muscolare di Duchenne ha evidenziato gravidanze cliniche rispettivamente del 19% e del 17%; del 20% e del 21% per le patologie monogeniche31. Per quanto riguarda lo screening dell’aneuploidia, raffrontando i dati dei report in oggetto, gli indici di gravidanza sono risultati pressoché sovrapponibili: 20% e 21%. Analizzando i dati riferiti agli embrioni (report data collection I-III): 26.712 inseminazioni, 19.034 embrioni prodotti, 15.039 sottoposti a biopsia, 5.030 embrioni ritenuti idonei per il trasferimento, 3.892 gli embrioni trasferiti e 907 crioconservati; poi (report data-collection IV): 19.869 insemina- 27 ESHRE PGD CONSORTIUM STEERING COMMITTEE, «ESHRE Preimplantation Genetic Diagnosis Consortium: data collection III (May 2001)», in Hum Reprod. 17 (2002), 233-246. 28 INTERNATIONAL WORKING GROUP ON PREIMPLANTATION GENETICS, «10th Anniversary of Preimplantation Genetic Diagnosis», in J Assist Reprod Genet. 18 (2001), 66-72. 29 ESHRE PGD CONSORTIUM STEERING COMMITTEE, «ESHRE Preimplantation Genetic Diagnosis Consortium: data collection III (May 2001)», in Hum Reprod. 17 (2002), 233-246. 30 K. SERMON - C. MOUTOU, et al., «ESHRE PGD Consortium data collection IV: May-December 2001», in Hum Reprod. 20 (2004), 19-34. 31 Disordini autosomico recessivi: fibrosi cistica, beta-talassemia, anemia a cellule falciformi, epidermolisi bollosa; disordini dominanti: distrofia miotonica, corea di Huntington, malattia di Charcot-Marie-Tooth, sindrome di Marfan. Le nuove biotecnologie riproduttive 185 zioni, 14.467 embrioni prodotti, 10.167 sottoposti a biopsia, 3.438 embrioni ritenuti idonei per il trasferimento, 2.555 gli embrioni trasferiti e 290 crioconservati. Si evince la significativa progressiva perdita di embrioni dalla fase di inseminazione a quella di selezione e trasferimento, a cui sono da aggiungere gli embrioni che non saranno in grado di sopravvivere al procedimento del congelamento-scongelamento o che non saranno ritenuti idonei al trasferimento dopo lo scongelamento. Crioconservazione degli Embrioni Biopsiati ed Embryo Transfer Dopo aver praticato la PGD sugli embrioni prodotti con fecondazione artificiale, quelli rimanenti e non trasferiti e ritenuti sani sono crioconservati per un successivo impianto o utilizzati a fini di ricerca là dove la legge non lo proibisca. Una prima considerazione: dopo la PGD gli embrioni che sopravvivono sono pochi, così la microlesione della zona pellucida e la biopsia di uno o più blastomeri comporta una riduzione delle possibilità di sopravvivenza degli stessi embrioni dopo crioconservazione32. Tale evidenza clinica è particolarmente problematica particolarmente per quanto attiene l’applicazione di avanzate tecniche di PGD come la comparative genomic hybridization (CGH) che richiede un certo lasso di tempo perché la diagnosi possa essere completata. Ciò significa la necessità di crioconservare gli embrioni biopsiati, successivo scongelamento e trasferimento nei cicli seguenti33. Gli embrioni sottoposti a PGD e crioconservati accusano una ridotta probabilità di sviluppo verso gli stadi successivi, ovvero formazione della camera gestazionale, rilevazione dell’attività cardiaca, nascita a termine. D.H. Edgar riporta un’incidenza, dopo scongelamento con protocolli standard, di embrioni vivi già sottoposti a biopsia, del 46.0% versus il 70.3% di embrioni non biopsiati 34. Modificando il protocollo di crioconservazione si rileva un miglioramento dell’incidenza di sopravvivenza degli embrioni biopsiati: 67.9%. La perdita di blastome32 Cf. P.M. CIOTTI - C. LAGALLA - A.S. RICCO et al., «Micromanipulation of cryopreserved embryos and cryopreservation of micromanipulated embryos in PGD», in Mol Cell Endocrinol. 169 (2000), 63-67; H. JORIS - E. VAN DEN ABBEEL A.D.VOS et al., «Reduced survival after human embryo biopsy and subsequent cryopreservation», in Hum Reprod. 14 (1999), 2833-2837. 33 L. WILTON - R. WILLIAMSON - J. MCBAIN, et al., «Birth of a healthy infant after preimplantation confirmation of euploidy by comparative genomic hybridization», in N Engl J Med. 345 (2001), 1537-1541. 34 D.H. EDGAR - J. ARCHER - D.A. GOOK, et al., «Survival and developmental potential of stored human early cleavage stage embryos», in Eur J Obstet Gynecol. 115S (2004), S8-S11. 186 Lucio Romano ri (blastomere loss) in embrioni allo stato di segmentazione e scongelati riduce le possibilità di impianto nella misura del 30%35. In altra ricerca36 si è rilevata la sopravvivenza del 43% degli embrioni biopsiati allo scongelamento secondo i protocolli standard rispetto ad una sopravvivenza del 75% applicando protocolli modificati di crioconservazione. Analizzando, poi, i dati inerenti al trasferimento degli embrioni biopsiati scongelati e gli annidamenti ottenuti, furono realizzati 36 trasferimenti per un totale di 50 embrioni che erano stati congelati secondo protocolli modificati; 8 dei 36 trasferimenti (22%) diedero un test di gravidanza positivo e soltanto 6 si annidarono (12%). La perdita totale di embrioni biopsiati (embryo loss), dallo scongelamento al trasferimento ed all’annidamento, fu dell’88%. Queste ricerche sono concordi con quanto già riportato in letteratura: infatti, H. Joris e coll. hanno evidenziato che l’indice di sopravvivenza degli embrioni, biopsiati e crioconservati, risultava severamente ridotto e richiamano, tra l’altro, la necessità di informare le pazienti che le possibilità di gravidanza, con il trasferimento di embrioni biopsiati – crioconservati – scongelati, è bassa37. Ancora, M.C. Magli e coll. 38 in uno studio su 55 embrioni sottoposti a biopsia di 1 blastomero e successivamente crioconservati, versus 94 embrioni non sottoposti a biopsia e crioconservati, hanno constatato che la percentuale di embrioni sopravvissuti intatti dopo scongelamento era significativamente più bassa nel gruppo di embrioni biopsiati rispetto al gruppo di controllo (9% versus 25%). Errori Diagnostici La certezza della diagnosi con PGD non è assoluta. Le metodologie tecniche di prelievo ed analisi genetica comportano una standardizzazione di errore diagnostico che, nei vari centri, è attualmente di circa il 10% per 35 D.H. EDGAR - H. BOURNE - A.L. SPEIRS, et al., «A quantitative analysis of the impact of cryopreservation on the implantation potential of human early cleavage stage embryos», in Hum Reprod. 15 (2000), 175-179. 36 H. JERICHO - L. WILTON - D.A. GOOK, et al., «A modified cryopreservation method increases the survival of human biopsied cleavage stage embryos», in Hum Reprod. 18 (2003), 568-571. 37 H. JORIS, «Reduced survival…», 2833-2837. 38 M.C. MAGLI - L. GIANAROLI - D. FORTINI, et al., «Impact of blastomere biopsy and cryopreservation techniques on human embryo viability», in Hum Reprod. 14 (1999), 770-773. Le nuove biotecnologie riproduttive 187 quanto riguarda la definizione dell’aneuploidia 39. Si includono negli errori i risultati falsi negativi ed i risultati falsi positivi 40. Esiste la possibilità che cellule provenienti dallo stesso embrione possano avere un differente numero di cromosomi, così che la cellula sottoposta a PGD risulta normale, mentre altra cellula nello stesso embrione presenta alterazione cromosomica (mosaicismo). Le metodologie correntemente in uso sono soggette a diverse possibilità di errori, conseguentemente viene raccomandato il ricorso alle tecniche convenzionali di diagnosi prenatale (amniocentesi, prelievo dei villi coriali) per confermare l’accuratezza della PGD, ovvero la definizione del c.d. falso negativo41. Infatti, L. Speroff e M.A. Fritz affermano: «however, current methods are technically challenging and subject to several sources of potential error. Consequently, conventional prenatal diagnosis is recommended to confirm the accuracy of PGD»42. Ancora, l’impossibilità di predefinire l’entità e le caratteristiche di sviluppo delle malattie, può comportare la selezione di embrioni che rientrano nei c.d. falsi positivi. Infatti, la stessa ESHRE richiama quanto segue su questo aspetto: «[…] furthermore, the imperfection in predicting the development of the disease forces us to accept that a number of embryos will be discarded that will not develop the disease. This is similar to the selection of embryos on the basis of sex in case of sex-linked diseases». Ancora, l’amplificazione di un singolo gene soltanto, piuttosto che di entrambi presenti nella cellula, può comportare un errore diagnostico con trasferimento ed impianto di embrioni affetti dalla patologia, così l’errore diagnostico è stimato nella misura del 7% dopo biopsia di un singolo blastomero43. L’ESHRE, nel III report sulla PGD, riporta il 2% di errori diagnostici, in altre parole 8 casi su 451 gravidanze: 5 su 145 gravidanze (3%) dopo PGD-PCR e 3 su 305 gravidanze (1%) dopo PGD-FISH. In sintesi possono incidere come causa di errore diagnostico alterazioni inerenti alla denaturazione del DNA, il c.d. allelic drop-out, l’amplificazione di DNA contaminato. 39 THORNHILL, «ESHRE PGD Consortium “Best practice guidelines…», 38. S. EMILIANI - E. GONZALEZ-MERINO - Y. ENGLERT, et al., «Comparison of the validity of preimplantation genetic diagnosis for embryo chromosomal anomalies by fluorescence in situ hybridization on one or two blastomeres», in Genet. Test 8 (2004) 69-72. 41 C.M. LEWIS - T. PINEL - J.C. WHITTAKER, et al., «Controlling misdiagnosis errors in preim-plantation genetic diagnosis: a comprehensive model encompassing extrinsic and intrinsic sources of error», in Hum. Reprod. 16 (2001), 43-50. 42 L. SPEROFF - M.A. FRITZ, Clinical Gynecologic Endocrinology and Infertility, Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia 2005, 1239. 43 S. MUNNÉ - M. SANDALINAS - T. ESCUDERO, et al., «Chromosome mosaicism in cleavagestage human embryos: evidence of a maternal age effect», in Repr. Bio. Med. Online 4 (2003), 223–232. 40 Fernando Fabó Le biotecnologie genetiche e riproduttive: principi etici ed antropologici Parte teoretica Il problema antropologico Con questo saggio affronteremo la tematica delle tecnologie genetiche e riproduttive facendo leva sugli aspetti etici e antropologici. Forse sembrerà scontato dire quello che sarà il punto centrale del nostro intervento ma scontato non è. Ecco la nostra tesi: il punto di arrivo di ogni riflessione bioetica viene assolutamente condizionato dal suo punto di partenza. Dietro ad ogni approccio bioetico si nasconde una precisa concezione antropologica, cioè una concreta visione dell’uomo, della sua natura, della sua realtà. Questo significa che la logica formale, cioè i sillogismi, le argomentazioni, l’articolazione del discorso, può essere – più o meno – sempre la stessa, però se il punto di partenza è diverso, se l’antropologia è diversa, il punto di arrivo necessariamente sarà diverso. Il punto centrale, il nodo, il grande problema della bioetica è proprio questo: il problema antropologico. Non riusciamo a metterci d’accordo su che cosa sia l’uomo, su chi è l’uomo. Dicevo all’inizio che il nostro sarebbe un approccio etico ma abbiamo iniziato parlando di antropologia. Questo non è a scapito dell’etica. L’antropologia e l’etica hanno bisogno l’una dell’altra e non si possono separare. Un’antropologia che non arrivi a manifestare la dignità della natura umana tramite le scelte, tramite l’agire, è un’antropologia vuota. Ed è anche vero che un’etica che non viene fondata su una buona antropologia, su quella che noi chiamiamo natura umana o dignità umana è anche un’etica vuota, poggiata sull’aria. C’è un collegamento molto stretto e non si può separare né l’antropologia dall’etica, né l’etica dall’antropologia. Decano, Facoltà di Bioetica, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. 190 Fernando Fabó Alcune nozioni introduttive Per quelli che non sono filosofi, bisogna fare subito all’inizio una distinzione importante. Infatti, in molti trattati di bioetica si fa confusione. Cerchiamo di fare chiarezza. Esistono tre piani, tre approcci diversi alla realtà. Uno è il piano dell’essere, quello che riguarda le cose che sono. L’ente, l’esistente è qualcosa che viene intuito e non sperimentato tramite i sensi. Facciamo un esempio: vado per la strada e un bambino dà un calcio ad una palla che mi colpisce il naso. Il naso mi fa male, dunque la palla c’è, esiste, non è qualcosa che ho sognato o immaginato. Tramite i sensi sperimento il dolore, la consistenza, la durezza della palla. Però l’esistenza della palla, la palla in quanto esistente, cioè come ente, non è qualcosa sperimentabile tramite i sensi, piuttosto è un’intuizione. Di questo si occupa la metafisica e questo è il primo piano della realtà, il piano fondativo che si estende a tutto quello che c’è. Un altro piano diverso, un altro approccio alla realtà riguarda le cose che si pensano, le idee, i concetti. Per questo piano non conta l’intuizione ma piuttosto l’astrazione, che è un altro processo molto complesso della mente umana. Non è questa la sede adatta per spiegare dettagliatamente in che cosa consista l’astrazione ma è qualcosa che ci fa diversi dagli animali, è un’operazione spirituale che qualifica la nostra anima e che trascende la materia. In altre parole è la spiritualizzazione della realtà. L’uomo si manifesta come qualcosa che va al di là del puramente biologico proprio tramite questa attività, e tramite la reditio, cioè, la capacità che ha di andare fuori da se stesso e poi tornare dentro se stesso. L’uomo malato non solo sperimenta il dolore ma soffre. Sa di soffrire, è perfettamente conscio di questa esperienza che può riguardare il passato, il presente, o anticipare il futuro. C’è un dolore diverso, umano, che chiamiamo sofferenza. C’è un terzo livello che riguarda il mondo dell’agire, i fatti. E questo riguarda anche la natura che è il principio di operazione di un essere, di un’essenza. Questo mondo dell’agire viene colto tramite l’esperienza che è diversa dall’intuizione e dall’astrazione. Tutte queste cose che abbiamo messo dentro la pentola, tutti questi aspetti della realtà, tutti questi approcci diversi, hanno un buon sapore quando stanno insieme, tutti e tre nella pentola. Quando un filosofo parla solo dell’essere o parla solo dell’agire o riflette soltanto su idee si allontana necessariamente dalla realtà. Esistono diversi approcci della bioetica che puntano molto sull’agire senza fare assolutamente riferimento all’essere o alle idee che – lo abbiamo visto prima – sono aspetti costitutivi della realtà umana. Esistono scuole di bioetica, approcci alla bioetica che non tengono conto della realtà, della realtà tutta. In questa relazione, seguendo l’approccio tipico della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Le biotecnologie genetiche e riproduttive 191 Regina Apostolorum, cercheremo di mantenere l’equilibrio tra questi tre piani costitutivi della realtà e dell’esperienza dell’uomo. Dualismo e dualità Abbiamo detto che il grande problema della bioetica è il problema antropologico. La questione si risolve in due parole: dualismo o dualità. Per il dualismo l’uomo è una realtà composta da due parti, il corpo e l’anima. Si tratta di due realtà diverse, separabili. Invece, l’uomo concepito come dualità è costituito sì da corpo e anima, due realtà diverse però che sono unite sostanzialmente e dunque non separabili tra loro. Queste sono due visioni dell’uomo radicalmente diverse. Non possiamo qui soffermarci su Cartesio e sull’uomo-macchina. Il problema è questo: o l’uomo è una realtà olistica, globale, pluridimensionale, o è un insieme di pezzi, corpo da una parte, anima dall’altra. Dualità e dualismo sono due parole chiave, due chiavi di lettura per capire lo spessore del cosiddetto problema antropologico. Nel dualismo si parla di separazione tra corpo e anima, tra le attività corporali e le attività spirituali. Invece, nella visione dualistica dell’uomo propria del personalismo e che condivide con altre filosofie che hanno una visione antropologica integrale, non si parla di separazione ma di distinzione. Distinzione significa che io nella mente riesco a separare cose che nella realtà non sono separate. Il grande problema del dualismo è che la mente separa di fatto cose che nella realtà non si possono separare. Questo tocca tutti i temi della bioetica in un modo o in un altro. Si tratta di una questione trasversale di tremenda importanza. Ad esempio: l’aspetto unitivo e l’aspetto procreativo del rapporto coniugale, la clonazione, ecc. Nel dualismo incontriamo di fatto un atteggiamento riduttivo perché si vede il problema o dal punto di vista del corpo o dal punto di vista dell’anima. Esiste di fatto un dualismo spiritualistico in cui ha la prevalenza lo spirito, l’anima, a scapito del corpo. Esiste anche un dualismo materialistico che privilegia il corpo ignorando lo spirito. Invece dal punto di vista dell’antropologia integrale e della dualità dell’uomo l’atteggiamento non è riduttivo ma integrativo. Una visione integrale dell’uomo, ad esempio, in temi come l’attenzione e la cura del paziente, tiene conto non solo degli aspetti materiali, biologici e fisiologici dell’uomo, ma si cura anche di tanti altri aspetti che formano parte della esperienza umana e che sono ugualmente importanti. La possibilità di una visita familiare ad esempio, il modo di disporre le stanze dei malati, i bagni, gli spogliatoi, eccetera. La concezione globale, integrale, della persona umana si manifesta in molti aspetti concreti. Quando questi aspetti 192 Fernando Fabó concreti vengono trascurati viene offesa la dignità dell’uomo perché l’uomo non viene trattato come quello che è nella sua globalità. Nel dualismo esiste sempre una mancanza di equilibrio, la separazione porta necessariamente alla prevalenza di un aspetto sull’altro. L’antropologia integrale invece cerca l’equilibrio ed è integrativa, rispettosa di tutti gli aspetti costitutivi della realtà dell’uomo, aspetti che sono uniti sostanzialmente e che non possono essere mai trascurati. Perfezione dell’uomo e utopie Nel campo del dualismo è sempre presente un orizzonte non tematizzato, non esplicito ma, comunque, sempre presente, che è l’idea di uomo perfetto. Nella riduzione dualistica è sempre presente una concezione utopica di uomo che poco ha a che vedere con la realtà. Secondo la definizione di salute proposta dalla WHO, essa è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non meramente l’assenza di infermità. Questo stato perfetto impone un ideale di perfezione. Un vero umanesimo, una concezione realistica della persona umana tiene conto della realtà, non dell’ideale. L’uomo nella sua realtà concreta si ammala, sperimenta delle difficoltà. Non esiste un uomo perfetto. Non esiste una donna perfetta. La malattia, la sofferenza, sono una realtà nella nostra vita. Lo è anche la morte. Una persona malata, una persona che soffre, anche se non è una persona perfetta, non ha una dignità minore di chi non si ammala. Non c’è differenza perché tutti noi abbiamo la stessa dignità. L’uomo non viene misurato a seconda della sua maggiore o minore prossimità all’ideale di perfezione. La ragione di questo è la seguente: la perfezione umana, la dignità umana, non è qualcosa che viene misurata quantitativamente. La dignità umana è trascendente, intangibile, non negoziabile. Nella visione dualistica né la malattia né la sofferenza hanno un senso e un significato. In altre parole, o l’uomo è perfetto o viene scartato. In questo contesto si capisce come alcuni possono parlare di post umanesimo, transumanesimo e di homo sapiens versione 2. Siamo oggi in una tappa storica fortemente marcata da una visione dualista dell’uomo. Se la prevalenza sia materialistica o spiritualistica non è chiaro. Rimane fermo però che c’è un ideale di perfezione di uomo con una matrice fortemente edonistica. Questa cornice dualistica è un contesto culturale importantissimo per poter capire alcune posizioni di bioetica in campo di procreatica, di interventi di ingegneria genetica, di ricerca sugli embrioni, eccetera. Lungo la storia umana le utopie si sono fatte presente in un modo abbastanza frequente. L’idea di perfezione umana, di stato perfetto di salute, è un’utopia, è qualcosa che non corrisponde ad un’esperienza umana normale. Sappiamo bene che i sostenitori delle utopie hanno sempre giustifi- Le biotecnologie genetiche e riproduttive 193 cato i propri eccessi in funzione del proprio ideale di perfezione e sappiamo bene che tutte le utopie sempre sono finite nel sangue. Nel secolo scorso queste utopie, negando la verità sull’uomo hanno sacrificato molte vite umane. La realtà, la saggezza popolare ci insegna un detto: Dio perdona sempre, gli uomini qualche volta, la natura mai. In campo di procreatica e in campo d’ingegneria genetica questo principio, sebbene non si trovi citato in nessun manuale di bioetica, si applica e molto. Tre principi fondamentali Per concludere queste riflessioni introduttive sottolineo ancora tre cose. La prima: da una prospettiva umanistica e rispettosa della visione globale dell’uomo ogni intervento sul corpo umano è un intervento sulla persona umana. Se io sostengo che esiste un’unità sostanziale tra il corpo e l’anima dell’uomo devo rendermi conto che non è indifferente per la persona un intervento medico sul suo corpo. Secondo: dire per il bene del paziente non è lo stesso che dire per il bene dell’uomo. Detto in altre parole, l’attività medica non si svolge per il bene dell’uomo ma per il bene del paziente. Quale è la differenza tra il paziente e l’uomo? Il paziente è quest’uomo concreto che ho qui, ora, davanti a me. È questa persona che soffre e che ha bisogno di me. Il medico lavora per quest’uomo, non per l’Uomo con la maiuscola. Il medico non è uno che sacrifica alcuni per il bene degli altri, non sta al servizio della specie umana ma delle singole persone. Si prenda, ad esempio, il principio di totalità. In alcuni manuali viene anche menzionato come principio terapeutico. In etica classica si dice che “il tutto è più della parte”, dunque, io posso sacrificare una parte per il bene del tutto. Se io ho in cancrena un piede, ho due possibilità: conservare il piede e morire, o chiedere l’amputazione di quell’arto e continuare a vivere. La mutilazione è un delitto, un reato, però sarebbe moralmente lecito sacrificare un arto, per salvare la vita. Questo è vero a livello fisico, non però a livello sociale. Non possono essere tollerate sperimentazioni fuori da ogni controllo, senza nessun tipo di finalità terapeutica ed altamente rischiose, solamente confidando che in futuro forse saranno utili per il bene dell’Uomo con la maiuscola. Il ricercatore, il medico, lo scienziato che cerca di fare vera scienza, è tenuto a lavorare sempre per il bene del paziente, del singolo uomo, e non mette nessuno a rischio. Terza verità: la società è per l’uomo e non l’uomo per la società. La scienza è per l’uomo e non l’uomo per la scienza. Questo si può esprimere come principio di vulnerabilità. Cosa significa questo? Significa che la scienza, come il diritto, deve stare dalla parte del più debole. Quando il diritto si pone della parte del più forte si capovolge tutto l’ordinamento sociale. Similmente, quan- 194 Fernando Fabó do la scienza non è al servizio dell’uomo, del paziente concreto, la sua finalità cambia e l’uomo singolo diventa strumento, mezzo per qualcos’altro. Si sacrifica quest’uomo chissà per quale finalità. I diversi approcci ai problemi della bioetica Diversi sono stati lungo la storia i modi di confrontarsi e porsi delle domande per risolvere le numerose questioni di bioetica. Il modo di argomentare in bioetica è cambiato col passare del tempo. Possiamo dire che in una prima tappa il modo di argomentazione dialettica è stato prevalentemente logico-discorsivo. Questa prima tappa ha puntato molto sul mondo delle idee e ha fatto grande uso della logica per l’argomentazione. Questo uso della filosofia classica ha portato necessariamente ad un vicolo cieco e al confronto da cui sembra non si possa più uscire. Il problema è antropologico. Il punto di partenza della discussione è diverso in ogni scuola e proprio per questo è impossibile condividere le applicazioni. I ragionamenti, ben costruiti, sono contraddittori perché diversa è l’idea di uomo. Non essendo unica l’idea di uomo si arriva a un conflitto irrisolvibile tra, ad esempio, la bioetica laica e la bioetica cattolica. Questo modo di affrontare il discorso in bioetica alla fine risulta deludente perché non permette di arrivare a risultati condivisibili da tutti. Proprio questa delusione ha portato a una nuova tappa, caratterizzata da un nuovo modo di affrontare i problemi bioetici. In questa tappa non si è fatto appello alla logica ma soprattutto alla filosofia del linguaggio. Finiti gli argomenti si passa a distruggere le parole. Si parla delle parole e si fa filosofia del linguaggio. In ambito anglosassone questo è stato chiamato metabioetica. Vista l’incapacità di arrivare ad un accordo, si passa dallo scetticismo al relativismo. Tutto dipende dal contesto culturale, dalle risorse che ho a disposizione, eccetera. Niente è buono e niente è cattivo: è vero tutto e il contrario di tutto. Tutto dipende da fattori estrinseci. In verità questo è molto triste perché implica il rinunciare alla ragione, il ridurre in ultima analisi tutto il discorso a utilitarismo. E si arriva così a una nuova tappa, la terza, in cui si ritorna alle cose. La riflessione etica si fa in chiave fenomenologica. Dimentichiamo le parole e andiamo a vedere come stanno le cose, come succedono le cose nella realtà, nella natura. E qui si inserisce nel discorso filosofico e nel ragionamento scientifico la bioetica che per alcuni è un modo nuovo di fare scienza, che al di là delle parole, delle idee, punta sul reale, sulle cose, sulla natura. Se facciamo un esempio concreto forse sarà più chiaro quanto importante sia l’approccio ai problemi della bioetica per la sua corretta risoluzione. Una delle questioni più difficili da argomentare è la non separabilità dell’aspetto unitivo e dell’aspetto procreativo nel rapporto coniugale. Senza una comune base antropologica è impossibile arrivare alla condivisione Le biotecnologie genetiche e riproduttive 195 delle applicazioni etiche. Facendo uso della logica unicamente si può arrivare al confronto e allo scontro. Chi non condivide la stessa idea di uomo, non capirà né il perché sì né il perché no. Si pensi, ad esempio, alla problematica degli anticoncezionali. Esiste però un altro modo di ragionare che fa appello alla fenomenologia. Non cercherò di spiegare perché non si possono separare questi due aspetti, cercherò piuttosto di vedere quali siano gli effetti di questa separazione per vedere se si tratta di qualcosa per il bene dell’uomo o è piuttosto qualcosa che offende la dignità della persona umana. Gli effetti (sono passati già quasi cinquant’anni dalla scoperta della pillola) sono palesi. Oggi abbiamo sesso senza procreazione (tutte le combinazioni di età e sesso possibili) e procreazione senza sesso (PMA, clonazione, eccetera). Se l’effetto è cattivo, allora la causa sarà anche cattiva perché l’albero buono non può portare frutti cattivi. Si tratta di effetti cattivi prevedibili e questo ci riporta alla scolastica medievale. Esistono atti che hanno delle conseguenze cattive che si possono prevedere. Se vado avanti e compio questi atti mi faccio responsabile delle conseguenze cattive (volontario in causa). Parlando a questo riguardo di sperimentazione genetica la cosa diventa molto più seria. Scuole di bioetica e problema antropologico A seconda della diversa concezione antropologica è possibile stabilire collegamenti con le diverse scuole di bioetica. Cercheremo adesso di fare una presentazione molto semplice, molto schematica, per avere una panoramica e una visione d’insieme. Un primo gruppo sarebbe quello rappresentato dai seguaci della filosofia classica e dell’etica classica. La sua filosofia viene fondata sull’essere, sulla metafisica. Fanno appello alla dignità dell’uomo, alla sua natura e ai diritti umani. Questa corrente, oggi come oggi, è rappresentata dal personalismo ontologicamente fondato e trova in monsignor Elio Sgreccia uno dei più noti rappresentanti. Il personalismo è una filosofia debole perché nasce in un contesto esistenzialistico. Messo a contatto però con la filosofia aristotelico-tomista e saldamente fondato sulla dignità dell’uomo, diventa uno strumento molto adatto per la riflessione bioetica. In questa scuola di bioetica l’uomo deve rendere conto dei suoi atti davanti alla retta ragione, davanti alla legge naturale e, se siamo aperti alla trascendenza, deve render conto anche davanti a Dio che è la fonte ultima e il fondamento ultimo della moralità. Dio appare come fondamento remoto ma non unico. La norma prossima di moralità è la coscienza rettamente formata. Esistono altre scuole che puntano non sulla metafisica e sull’essere ma piuttosto sul fare, sull’attività. Sono scuole funzionalistiche, “l’uomo vale per quello che fa, per le funzioni che svolge”, non per quello che è. In 196 Fernando Fabó queste scuole ci sono tre parole chiave: la prima è autocoscienza. L’uomo vale in quanto capace di svolgere un lavoro intellettuale. La seconda parola chiave è comportamento: autonomia, libero arbitrio, ecc. La terza: rapporti interpersonali. Alcuni nomi rappresentativi di queste scuole funzionalistiche sono Engelhardt (contrattualismo), Singer (utilitarismo), Reagan (deontologismo), Rachels (difensore dell’eutanasia), Tooley (promotore dell’infanticidio e dell’aborto), eccetera. Altre scuole invece fanno leva sugli animali (animalisti) o sull’ambiente (ecologismo, ambientalismo). Comune a tutte queste scuole di bioetica è un’antropologia riduttiva che privilegia gli aspetti biologici e fisiologici da una parte e la pura soggettività dall’altra. Ciò che è in gioco Giovanni Paolo II in un importante discorso all’Assemblea Generale dell’Associazione Medica Mondiale (AMM) spiegava molto bene la posta in gioco. «È evidente – diceva il Pontefice rivolgendosi ai medici – che gli eccezionali e rapidi progressi della scienza medica fanno sorgere riconsiderazioni frequenti sulla deontologia. Voi dovete necessariamente affrontare nuovi problemi, appassionanti ma molto delicati». Più avanti aggiungeva: «la ricerca di una posizione soddisfacente sul piano etico dipende fondamentalmente dalla concezione che si ha della medicina. In definitiva si tratta di sapere se la medicina è al servizio della persona umana, della sua dignità, in ciò che essa ha di unico e di trascendente, o se il medico si considera innanzitutto come colui che ha ricevuto un mandato dalla collettività, al servizio degli interessi dei sani, ai quali sarebbe subordinata la preoccupazione dei malati. Ora, la morale medica è sempre stata caratterizzata, fin da Ippocrate, dal rispetto e dalla protezione della persona umana. Ciò che è in gioco, è molto di più che la salvaguardia di una deontologia tradizionale; è il rispetto di una concezione della medicina che valga per l’uomo di tutti i tempi, che protegga l’uomo del domani, grazie al riconoscimento del valore della persona umana, soggetto di diritti e di doveri, e mai oggetto utilizzabile per altri scopi, foss’anche per un sedicente bene sociale»1. Ricordiamo qui il principio di vulnerabilità. Oggi il medico, l’operatore sanitario, lo scienziato, devono scegliere da quale parte stare. 1 Cf. GIOVANNI PAOLO II, «Discorso al termine della XXXV Assemblea Generale dell’Associazione Medica Mondiale», in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VI/2, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1983, N.3. Le biotecnologie genetiche e riproduttive 197 Parte applicativa. Bioetica e problemi di Procreazione e Genetica. Tre presupposti 1. Ridurre la sessualità al sesso, alla genitalità è un riduzionismo antropologico. La sessualità, non solo è predisposta nella struttura biologica, ma coinvolge tutta la persona, e cioè l’unione sessuale è un atto che coinvolge le tre dimensioni del soggetto: fisica, psichica, spirituale; è vero che tutti i fenomeni genitali sono fenomeni sessuali, ma non è vero che tutti i fenomeni sessuali sono da circoscrivere alla genitalità. 2. La sessualità è complementarietà e comunione; essa conduce all’apertura ad un tu. La stessa morfologia lo mostra, ma ancor di più lo notiamo nella struttura psicologica e spirituale. È questo uno degli elementi essenziali della visione personalista: un vissuto sessuale che intenda escludere la comunione sarà contro la natura stessa della persona. L’uomo porta già nel suo genere il rimando ad un altro. È il rapporto tu-io che costituisce il noi e che nella riproduzione dà origine alla possibilità di concepire il figlio. 3. C’è un rapporto intrinseco tra amore e procreazione. L’amore è dono fecondo; dimensione unitiva e procreativa non vanno mai separate. La PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) Che significato ha la PMA? Se essa s’inscrivesse esclusivamente nell’ambito di un atto terapeutico di natura medica, sarebbe un conto. Ma l’atto medico in questione mira come scopo intrinseco alla procreazione di persone umane. Al di là di ogni terminologia usata, quanto si promette alle pazienti da sottoporre a PMA è un figlio: cioè un nuovo soggetto umano. Classificazione delle tecniche PMA Non si parla normalmente di riproduzione assistita quando l’intervento medico consiste nel tentativo di dare o restituire all’organismo la sua capacità riproduttiva naturale (come per es. la stimolazione ormonale delle ovaie o la ricomposizione delle tube). Si usa piuttosto il termine per indicare quelle tecniche messe in atto per procurare la riproduzione nei casi in cui questa non è possibile senza l’intervento diretto della tecnica in almeno una delle fasi del processo riproduttivo. Le tecniche di riproduzione assistita intervengono, di fatto, facilitando o realizzando l’incontro dei gameti femminile e maschile. In questo senso, le molteplici tecniche in uso possono essere utilmente classificate in rela- 198 Fernando Fabó zione al tipo di intervento che realizzano sui gameti per il loro incontro. In funzione delle riflessioni etiche che faremo più avanti può stabilirsi una classificazione in quattro gruppi. Il primo gruppo congloba le tecniche che comportano solamente un intervento sugli ovociti, con la finalità di facilitare l’incontro con lo sperma, che sarà presente nell’organismo della donna a causa di un normale rapporto sessuale. LTOT (Low Tubal Ovum Transfer) che consiste nel trasferimento dell’ovulo nella parte inferiore della tuba. OPT (Ovum pick-up and transfer chamber) che consiste nella collocazione permanente di un dispositivo di silicone che conduce gli ovociti dalle ovaie alla cavità uterina, affinché possa avvenirvi la fecondazione. Nel secondo gruppo consideriamo le tecniche che prevedono il trasferimento dello sperma maschile nell’organismo femminile. Inseminazione Artificiale (IA). Viene chiamata omologa (IAH, dall’inglese homologous) se il seme è quello del “partner”, o eterologa (IAD, dall’inglese donor) se il seme proviene da un donatore, o da una “banca del seme”. Il terzo gruppo è quello delle tecniche che implicano l’ottenimento di entrambi i gameti, maschile e femminile, e il loro trasferimento nel corpo della donna, dove avviene la fecondazione. La GIFT (Gametes Intrafallopian Transfer), che prevede il trasferimento dei gameti nelle tube attraverso un catetere nel quale sono separati da una bolla d’aria. La TOT (Tubal Ovum Transfer), nella quale, contrariamente a quanto potrebbe far pensare il nome, vengono trasferiti non solo degli ovuli ma anche lo sperma (per cui alcuni la chiamano TOTS, aggiungendo l’iniziale corrispondente a Sperm). GIUT (Gamete In Uterus Transfer), tecnica che prevede un breve incontro in laboratorio dei gameti ai fini di facilitare il loro incontro fecondante all’interno dell’utero. Nei primi tre gruppi la fecondazione è intracorporea. Il quarto gruppo invece si riferisce a quelle tecniche nelle quali, dopo l’ottenimento dei gameti, si realizza la fecondazione in laboratorio. Si tratta dunque di una fecondazione extracorporea. Il prodotto della fecondazione, l’embrione, viene trasferito poi in utero. Le biotecnologie genetiche e riproduttive - 199 La FIVET (Fecondazione in vitro con embryo transfer)2. La CIVETE (Cultive Intravaginale et Transfert d’Embrion), che consiste nella deposizione dei gameti, chiusi in un tubicino, all’interno della vagina, che fa da incubatrice; avvenuta la fecondazione gli embrioni sono trasferiti all’interno dell’utero (come nel caso della FIVET). Le diverse tecniche, tranne quelle del primo gruppo, possono essere applicate con diverse “modalità”, non indifferenti anche dal punto di vista etico. Tra queste modalità ricordiamo: l’utilizzo dei gameti solamente provenienti dai coniugi, cioè con una pratica “omologa”, oppure il ricorso a gameti (ovociti o spermatozoi, o anche tutti e due) provenienti da un “donatore”: pratica chiamata “eterologa”; lo sperma può esser “fresco” o congelato, magari proveniente da una “banca del seme”. Nelle tecniche del quarto gruppo si procede a volte alla produzione di più embrioni di quanti si pensa di trasferire nell’utero (creando i così detti “embrioni in surplus”), i quali di solito vengono congelati, per essere destinati a un secondo tentativo, o per ottenere un secondo figlio, o donati a un’altra donna, o per la ricerca; o possono semplicemente essere eliminati3. Sempre in relazione alle tecniche di fecondazione in vitro, si ricorre a volte alla cosiddetta “maternità surrogata”: gli embrioni vengono trasferiti nell’utero di una donna che non è la loro madre genetica né si prevede che sarà la loro madre legale. 2 È stato pubblicato [2007] dall’Istituto Superiore di Sanità (G. SCARAVELLI et al.) il 1° Report sull’attività del Registro Nazionale Italiano di Procreazione Medico Assistita (RNIPMA), da cui emergono i seguenti dati: la percentuale di gravidanze (e non di parti) su prelievi ovocitari effettuati per tecnica FIVET (fecondazione in vitro e trasferimento dell’embrione nell’utero) ed ICSI (introduzione diretta del singolo spermatozoo all’interno del citoplasma dell’ovocita) è del 21.2%. Tale percentuale varia sensibilmente con l’età della donna (dal 31.1% in donne di età inferiore a 29 anni, al 2.0 vs 0.0% di quelle che superano i 45 anni), peraltro non è chiaro quante di queste pazienti abbiano poi partorito, a causa della grande perdita di informazioni in merito al proseguimento della gravidanza. Nella migliore delle ipotesi dunque la percentuale di successi appare piuttosto bassa e del tutto sproporzionata rispetto all’impegno della coppia. 3 Il numero degli embrioni che vengono impiantati nell’ambito di una fecondazione in vitro varia notevolmente. Gli impianti singoli in Europa ammontano al 12%, mentre gli impianti di due embrioni sono aumentati dal 46,7% del 2000, al 51,7% del 2001. L’impianto di tre embrioni è invece calato dal 33,3% del 2000, al 30,8% del 2001, mentre l’impianto di quattro embrioni è passato dal 6,7% al 5,5%. 200 Fernando Fabó Criteri di giudizio4 Anche se una tecnica soddisfa un criterio ma non tutti gli altri, non è corretta: devono essere accettati tutti i criteri insieme. Bisogna unire il desiderio al rispetto dell’altro. Il tentativo di soddisfare il desiderio del figlio di per sé è legittimo e nobile, si può intervenire. Questo desiderio non significa che ci sia il “diritto al figlio” “ad ogni costo”5, si deve guardare alla protezione del bene integro del proprio figlio. C’è un’etica dei fini, ma anche un’etica dei mezzi. Scienza e coscienza: «Non possiamo assolutamente bloccare le conquiste della scienza» – si sente dire –. Si ha in mente che la scienza deve sempre progredire, che mai si deve mettere dei limiti. Questo, sappiamo, però, non è sempre a favore dell’uomo. Talvolta è totalmente contrario al bene della persona e dunque non è vero progresso, neanche vera scienza. Non tutto quello che è tecnicamente possibile è eticamente ammissibile: che si possa fare non vuol dire che lo si debba fare. Rispetto della vita umana: Questo criterio riguarda la perdita e manipolazioni degli embrioni. Le statistiche variano da centro a centro e da paese a paese, però si può parlare di sette bimbi nati per ogni cento embrioni prodotti in laboratorio, col sacrificio di 93 vite umane6. Rispetto della dignità umana nel modo di procreare: Possiamo dire che c’è un modo umano di procreare e c’è anche un modo umano di essere procreato. Produrre non è procreare. Il “fare” (facere) ha un risultato che è chiamato prodotto. Tra chi “fa” e la cosa “fatta” si stabilisce un rapporto di causalità efficiente. È un rapporto di dipendenza esistenziale, oggettiva. Per chi reputasse il prodotto del concepimento null’altro che materiale biologico – d’indiscutibile specie umana sì, ma con una natura umana ancora tutta da dimostrare – la PMA non si occuperebbe d’altro che di produrre cose che solo in seguito diventano uomini. Come per tutte le cose – anche per quelle di grande valore, reputate tali o per universale giudizio o per intenso interesse personale – sarà possibile sacrificare qualche esemplare per un risultato migliore e più alto e la tensione etica sarà rivolta semplice- 4 Può essere molto utile la lettura di J.M. ANTÓN, «Famiglia, dignità della procreazione e fecondazione artificiale. Alcune riflessioni etiche», in Alpha Omega VII/1 (2004), 91-114. 5 «Il figlio non è qualcosa di dovuto, ma un dono», afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2378. 6 Si veda A. SERRA, «Riflessioni sulle «tecnologie di riproduzione assistita. A 21 anni dalla nascita della prima bambina concepita in vitro», in Medicina e Morale 49 (1999), 869-875. Le biotecnologie genetiche e riproduttive 201 mente a regolamentare una prassi al fine di renderla più sicura, più efficace e più vantaggiosa. Forse non sarà superfluo sottolineare che “sicuro”, “efficace” e “vantaggioso” non sono categorie morali, almeno non prima di aver risposto affermativamente all’interrogativo: “È giusto?”7. Nell’agire (agere) invece il risultato non è cercato in quanto tale dall’agire stesso; il risultato non è un prodotto ma un “frutto”, quindi non c’è un rapporto di dominio. Come aiuto e non come sostituzione Qualunque tecnica deve porsi, nel rispetto della dignità umana di procreare, come aiuto e non come sostituzione dell’atto sponsale, atto di amore8. Rispetto dell’integrità psico-sociale. Dipende da questa il futuro rapporto della persona con gli altri. Bisogna vedere la responsabilità delle condizioni future: l’importanza della figura del padre e della madre, poi l’identità parentale, la possibilità di nascere, di crescere in un ambiente familiare normale. C’è anche la differenza morale tra “gestire” una situazione ormai difficile e “provocare” volontariamente questa situazione negativa. I giuristi hanno più filo da torcere da quando si sono diffuse le metodiche di PMA e ancora più nel caso della clonazione. Il rapporto giuridico, ad esempio quello della paternità, risulta completamente sovvertito nel suo significato; oggi nascono altre categorie: il padre legale, il padre biologico, la madre in affitto, la madre biologica, la madre legale, ecc. Nella IAH (omologa) ed IAD (eterologa) c’è la problematica del terzo soggetto. 7 Cf. J.M. ANTÓN, «Famiglia, dignità della procreazione…», op. cit., 91-114. «Il tema che state trattando [i problemi della P.M.A.] si rivela carico di gravi problemi ed implicazioni, che meritano un attento esame. Sono in gioco valori essenziali non soltanto per il fedele cristiano, ma anche per l’essere umano come tale. Sempre di più emerge l’imprescindibile legame della procreazione di una nuova creatura con l’unione sponsale, per la quale lo sposo diventa padre attraverso l’unione coniugale con la sposa e la sposa diventa madre attraverso l’unione coniugale con lo sposo. Questo disegno del Creatore è inscritto nella natura stessa fisica e spirituale dell’uomo e della donna e, come tale, ha valore universale. L’atto in cui lo sposo e la sposa diventano padre e madre attraverso il reciproco dono totale li rende cooperatori del Creatore nel mettere al mondo un nuovo essere umano, chiamato alla vita per l’eternità. Un gesto così ricco, che trascende la stessa vita dei genitori, non può essere sostituito da un mero intervento tecnologico, impoverito di valore umano e sottoposto ai determinismi dell’attività tecnica e strumentale». GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Pontifica Accademia per la Vita, (21 febbraio 2004). Il testo può visualizzarsi in http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2004/february/documents/hf_jpii_spe_20040221 _plenary-acad-life_it.html [26 marzo 2006]. (corsivo aggiunto). 8 202 Fernando Fabó Nella clonazione la problematica è ancora più complessa e va dall’autofecondazione alle molteplici possibilità a seconda di tutte le combinazioni possibili. Inoltre la tecnica porta a sperimentazioni che vanno oltre l’eticamente accettabile come ad esempio la polifecondazione (cioè mettere più di un nucleo) o la fecondazione interspecifica (ibridazione). Analisi etica delle diverse tecniche Per quanto riguarda il primo gruppo non c’è nessuna obiezione di tipo etico, perché lì si tratta soltanto del trasporto degli ovociti, di un aiuto e non una sostituzione. Nel secondo gruppo, l’inseminazione artificiale, bisogna evitare la fecondazione eterologa in forza soprattutto del terzo criterio (sviluppo armonico normale). Per quanto riguarda la omologa, in merito al primo criterio non c’è nessun problema. Pio XII ha detto può essere considerata un aiuto. La condizione è che sia omologa e che lo sperma sia prelevato da un atto sponsale che sarà poi portato dal tecnico più in là. Per il terzo gruppo non c’è unanimità di giudizio. Le metodiche del quarto gruppo dal punto di vista etico non sono ammissibili. Infatti, insegna Mons. Carlo Caffarra: «La persona, ogni persona, è unica e singolare nel suo valore; non può essere equiparata a niente e non può essere messa a confronto con niente. Essa ha veramente un valore assoluto, in questo senso. Questo valore unico – che noi abbiamo chiamato “dignità” della persona – non consiste nella sua capacita di rendere felice un’altra persona; non dipende dal fatto che altre persone gliela attribuiscono. Essa (dignità) è semplicemente il suo essere persona»9. Chi percepisce questa singolare dignità della persona non può non percepire una verità etica fondamentale. Esiste una sola relazione giusta per la persona, cioè adeguata alla sua dignità, una relazione che può essere espressa nel modo seguente: ogni persona deve essere voluta in se stessa e per se stessa. In ogni situazione, cioè, la persona deve essere trattata come un fine e mai esclusivamente come un mezzo, in vista del raggiungimento di un fine. E da questa verità deriva, come necessario corollario, che esistono atti che sono sempre e comunque (ut in omnibus, non ut in pluribus) illeciti, poiché per loro stessa natura non riconoscono adeguatamente l’essere persona. È molto chiara la spiegazione di Mons. Caffarra: la ragione che dà origine alla procedura tecnica e la natura stessa della procedura introducono una 9 C. CAFFARRA, I problemi etici della procreazione umana, Atti del Primo Corso Internazionale di Bioetica «Bioetica un’opzione per l’uomo», Bologna, aprile 1988. Le biotecnologie genetiche e riproduttive 203 nuova persona umana nell’essere, come un prodotto, che immediatamente dopo la sua produzione, sarà accolto come persona nella comunità coniugale. Il fatto che poi, in seguito, il figlio sia collocato entro una comunione coniugale ed amato come persona, non elimina il fatto che esso sia stato introdotto nell’essere come una cosa. Ma, l’intrinseca dignità di ogni persona esige che nessuna persona, in nessun momento della sua esistenza, sia collocata in una condizione o status subpersonale, cioè di cosa. Quindi, la FIVET è un atto intrinsecamente illecito10. La ragione che dà origine alla richiesta di una FIVET è un tale desiderio del figlio, che senza di esso (figlio) si pensa di non raggiungere la pienezza della propria autorealizzazione. Il rapporto con la nuova persona umana viene istituito, fin dal suo sorgere, in una forma eticamente ambigua, quanto meno. Il figlio, cioè una persona umana, è visto come ciò di cui si ha bisogno: come ciò che serve ad essere se stessi dando compimento al proprio desiderio. E questa è la prima ragione per cui la persona è vista come un prodotto, offerto perché un desiderio sia soddisfatto. La natura, poi, dell’attività che pone le condizioni per la venuta all’essere della nuova persona, è tale che il figlio è il termine di una produzione: è qualcosa di fatto, non di generato. Documenti del Magistero I valori fondamentali connessi con le tecniche di procreazione artificiale umana sono due: la vita dell’essere umano chiamato all’esistenza e l’originalità della sua trasmissione nel matrimonio. Il giudizio morale su tali metodiche di procreazione artificiale dovrà quindi essere formulato in riferimento a questi valori. La Chiesa ha da tempo affrontato i problemi derivanti dalle tecniche di fecondazione in vitro. Nel 1987 la Congregazione per la dottrina della fede ha pubblicato l’istruzione Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione (Donum Vitae)11. Sin dal 1987, le tecnologie utilizzate nella FIV sono cambiate molto, ma gran parte dei problemi etici di fondo sono rimasti immutati. La scienza e la tecnologia sono risorse importanti, riconosce l’Istruzione. Tuttavia, è un errore considerare la ricerca scientifica e le sue applicazioni come ambiti moralmente neutrali. Esse – spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede – devono essere poste al servizio della persona umana e dovrebbero seguire i criteri della legge morale. È un errore considerare il 10 Ibid. CONGREGAZIONE Febbraio 1987). 11 PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione Donum Vitae, (22 204 Fernando Fabó corpo umano meramente come un insieme di elementi biologici, sostiene l’Istruzione. La persona umana è nello stesso tempo corporale e spirituale. Dal momento del concepimento, insiste l’Istruzione, la vita di ogni persona umana deve essere rispettata. Le tecniche di PMA troppo spesso comportano la distruzione di embrioni umani. In questo modo l’uomo viene a costituirsi donatore di vita e di morte “su comando”, avverte il testo. La vita fisica, per cui ha inizio la vicenda umana nel mondo, non esaurisce certamente in sé tutto il valore della persona né rappresenta il bene supremo dell’uomo che è chiamato all’eternità. Tuttavia ne costituisce in un certo qual modo il valore “fondamentale”, proprio perché sulla vita fisica si fondano e si sviluppano tutti gli altri valori della persona. L’inviolabilità del diritto alla vita dell’essere umano innocente “dal momento del concepimento alla morte” è un segno e un’esigenza dell’inviolabilità stessa della persona, alla quale il Creatore ha fatto il dono della vita. Peraltro, per quanto riguarda la questione della trasmissione della vita, non è possibile ignorare la speciale natura della persona umana. Rispetto alla trasmissione delle altre forme di vita nell’universo, la trasmissione della vita umana ha una sua originalità, che deriva dall’originalità stessa della persona umana. «La trasmissione della vita umana è affidata dalla natura a un atto personale e cosciente e, come tale, soggetto alle santissime leggi di Dio: leggi immutabili e inviolabili che vanno riconosciute e osservate. È per questo che non si possono usare mezzi e seguire metodi che possono essere leciti nella trasmissione della vita delle piante e degli animali»12. I progressi della tecnica hanno oggi reso possibile una procreazione senza rapporto sessuale mediante l’incontro in vitro delle cellule germinali antecedentemente prelevate dall’uomo e dalla donna. Ma ciò che è tecnicamente possibile non è per ciò stesso moralmente ammissibile. La riflessione razionale sui valori fondamentali della vita e della procreazione umana è perciò indispensabile per formulare la valutazione morale a riguardo di tali interventi della tecnica sull’essere umano fin dai primi stadi del suo sviluppo. La Congregazione ammette che il desiderio di avere figli e l’amore tra i coniugi che desiderano superare i problemi di sterilità costituiscono motivazioni comprensibili alla base del ricorso alle tecniche di PMA. Ciò nonostante, le buone intenzioni devono essere commisurate alla natura stessa del matrimonio e alla necessità di rispettare i diritti dei figli. Il sistematico ricorso a queste tecniche crea il rischio di generare una mentalità del dominio dell’uomo sulla vita e la morte di altri esseri umani, una men- 12 Ibid., Introduzione, n.4. Le biotecnologie genetiche e riproduttive 205 talità che con il passare del tempo produce un’inesorabile deriva verso pratiche che implicano gravi questioni morali e sociali. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ai numeri 2373-2379 individua sinteticamente i principi morali applicabili alla fecondazione in vitro. Dopo aver espresso compassione per la sofferenza delle coppie che non possono avere figli, il testo spiega che la Chiesa è a favore della ricerca delle soluzioni che possano aiutare loro a superare il problema. Ma avverte al contempo che tali sforzi devono essere compiuti nel contesto del servizio alla persona umana e nel rispetto dei diritti umani. Le tecniche che utilizzano un ovulo o uno spermatozoo provenienti da una persona estranea alla coppia sposata sono “gravemente disoneste” in quanto non rispettano il legame matrimoniale e negano al figlio il diritto di nascere da un padre e da una madre da lui conosciuti. Il Catechismo esprime poi gravi riserve sulle tecniche praticate in seno alla coppia, in cui l’atto sessuale è dissociato dall’atto procreativo. «Il figlio non è qualcosa di dovuto, ma un dono», afferma il testo al n. 2378. Non può essere considerato come oggetto di proprietà, e in questo senso non esiste un “diritto al figlio”. Orientamenti culturali e pastorali - - Favorire la ricerca sulle cause dell’infertilità, con l’aiuto di uno psicologo (in Italia sono spariti i reparti di diagnostica dell’infertilità)13. Favorire l’accesso alle terapie propriamente dette: microchirurgia e altre. Uso delle tecniche di supporto che a volte hanno carattere psicologico e a volte funzionale. Ad esempio si può adoperare il metodo Billings o altre metodiche naturali per aiutare a procreare, il che inoltre aiuta a superare le problematiche di coppia. Orientare verso l’adozione e l’impegno sociale14. Di fronte alle leggi sulla procreazione artificiale viene consigliato: Per gli operatori sanitari: 13 Mons. Elio Sgreccia in diversi interventi e tutto l’episcopato italiano, a motivo del referendum sulla legge 40/2004 riguardante la PMA, si sono ripetutamente pronunciati su che cosa può essere fatto per cambiare la cultura che sta portando ad una svolta nella fecondazione artificiale. Unanimemente chiedono di approfondire lo studio delle cause dell’infertilità poiché tante coppie non fanno prima una diagnosi di quale sia il problema. 14 Da notare che in Italia c’è una diffusione di richieste di adozione verso alcune etnie che potrebbe nascondere una serie di preconcetti di origine razziale; si tende a ricercare caratteristiche legate alla specie (bambini russi, con pelle chiara, occhi chiari, capelli biondi, ecc). 206 Fernando Fabó - Esercitare il diritto di obiezione di coscienza allargandolo anche alle tecniche di riproduzione artificiale. Per i parlamentari: Esigere il rispetto di ogni singolo embrione (Donum Vitae, parte III). Rispetto e difesa della famiglia fondata sul vincolo matrimoniale (esclusione della fecondazione eterologa, accesso solo alle coppie sposate). Davanti alle leggi ingiuste è lecito cercare la riduzione del male, cercare la modifica degli articoli15(Evangelium Vitae, n.73). Problemi bioetici e Genetica Come traccia – guida per l’approccio etico alle tematiche genetiche, seguo il testo del discorso di Giovanni Paolo II all’AMM già citato prima16, accennando ed estrapolando alcuni dei paragrafi più significativi17: La domanda. Trattiamo un tema umanamente importante, i diritti dell’essere umano davanti a certe possibilità nuove della medicina, in particolare in materia di “manipolazione genetica”, che pone alla coscienza morale di ogni uomo una seria domanda. Come conciliare, infatti, una tale manipolazione con la concezione che riconosce all’uomo una dignità innata e un’inviolabile autonomia? Un intervento strettamente terapeutico che si ponga come obiettivo la guarigione di diverse malattie, come quelle che riguardano le deficienze cromosomiche, sarà considerato, in linea di principio, auspicabile, purché tenda alla vera promozione del benessere personale dell’uomo, senza intaccare la sua integrità o deteriorare le sue condizioni di vita. Un tale intervento si situa, infatti, nella logica della tradizione morale cristiana, come già detto alla Pontificia accademia delle scienze il 23 ottobre 198218. 15 Una buona panoramica sulla situazione si trova in C. MANTOVANI, «La Procreazione Medicalmente Assistita: alcune considerazioni dopo l’approvazione della legge n. 40 del 19 febbraio 2004», in Cristianità 323 (2004). 16 Cf. GIOVANNI PAOLO II, «Discorso al termine della XXXV Assemblea Generale dell’Associazione Medica Mondiale», in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VI/2, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1983 (corsivo nostro). 17 Si veda anche J. DE DIOS VIAL CORREA – E. SGRECCIA (a cura di), Human Genome, Human Person and The Society of the Future. Proceedings of fourth assembly of the Pontifical Academy For Life (Vatican City, Febraury 23-25, 1998). 18 Cf. GIOVANNI PAOLO II, «Allocutio ad eos qui conventui de biologiae experimentis in Vaticana Civitate habita interfuere», in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. V/3, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982, 891-892. Le biotecnologie genetiche e riproduttive 207 Un intervento che oltrepassa i limiti della terapeutica in senso stretto. Ma qui il problema si ripresenta. Infatti, è di grande interesse sapere se un intervento sul patrimonio genetico che oltrepassa i limiti della terapeutica in senso stretto debba essere considerato, esso stesso, moralmente accettabile. Affinché questo si verifichi, bisogna che vengano rispettate numerose condizioni e che siano accettate alcune premesse. Permettetemi di ricordarne alcune. Salvaguardare l’identità dell’uomo “corpore et anima unus”. La natura biologica di ciascun uomo è inviolabile in quanto essa è costitutiva dell’identità personale dell’individuo in tutto il corso della sua storia. Ciascuna persona umana, nella sua singolarità assolutamente unica, non è costituita unicamente dal suo spirito, ma anche dal suo corpo. Così, nel corpo e attraverso il corpo, si raggiunge la persona stessa nella sua realtà concreta. Rispettare la dignità dell’uomo significa, di conseguenza, salvaguardare questa identità dell’uomo «corpore et anima unus» come dice il Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 17 § 1). È sulla base di questa visione antropologica che si devono trovare i criteri fondamentali per quelle decisioni da prendere su interventi non strettamente terapeutici, per esempio quegli interventi volti al miglioramento delle condizioni biologiche umane. La dignità umana. In particolare, questo genere di interventi non deve pregiudicare l’origine della vita umana, cioè la procreazione legata all’unione non solamente biologica ma anche spirituale dei genitori, uniti dal legame del matrimonio; deve dunque rispettare la dignità fondamentale degli uomini e la natura biologica comune che è alla base della libertà, evitando manipolazioni tendenti a modificare il patrimonio genetico e a creare dei gruppi di uomini diversi, col rischio di provocare nella società nuove emarginazioni. Del resto, gli atteggiamenti fondamentali che ispirano gli interventi di cui stiamo parlando non devono derivare da una mentalità razzista e materialista, volta ad un benessere umano, in realtà riduttivo. La dignità dell’uomo trascende la sua condizione biologica. Manipolazione arbitraria e ingiusta. La manipolazione genetica diviene arbitraria e ingiusta quando riduce la vita a un oggetto, quando dimentica che ha a che fare con un soggetto umano, capace di intelligenza e di libertà, che deve essere rispettato qualunque siano i suoi limiti; o quando lo tratta in funzione di criteri non fondati sulla realtà integrale della persona umana, col rischio di mettere in pericolo la sua dignità. In questo caso, espone l’uomo al capriccio altrui, privandolo della sua autonomia. Non nuocere. Il progresso scientifico e tecnico, quale esso sia, deve dunque mantenere il più grande rispetto dei valori umani che costituiscono la salvaguardia della dignità della persona umana. E poiché, nell’ordine dei valori medici, la vita è il bene supremo e il più radicale dell’uomo, occorre un principio fondamentale: innanzitutto impedire qualsiasi danno, e poi ricercare e perseguire il bene. 208 Fernando Fabó Manipolazione o “chirurgia genetica”? A dire il vero, l’espressione “manipolazione genetica” resta ambigua e deve essere oggetto di un vero discernimento morale, perché nasconde da una parte tentativi avventurosi tendenti a promuovere una sorta di superuomo e, d’altra parte, tentativi positivi volti alla correzione di anomalie, quali alcune malattie ereditarie, senza parlare poi delle applicazioni benefiche nei campi della biologia animale e vegetale utili per la produzione alimentare. Per questi ultimi casi, alcuni cominciano a parlare di “chirurgia genetica”, come per mostrare che il medico interviene non per modificare la natura ma per aiutarla a svilupparsi secondo la sua essenza, quella della creazione, quella voluta da Dio. Lavorando in questo campo, evidentemente delicato, il ricercatore aderisce al disegno di Dio. Dio ha voluto che l’uomo fosse il re della creazione. A voi, chirurghi, specialisti delle ricerche di laboratorio e medici generici, Dio offre l’onore di cooperare con tutte le forze della vostra intelligenza all’opera della creazione iniziata nel primo giorno del mondo. Ineke Malsch Le nanotecnologie e il potenziamento umano Introduzione I ricercatori ed i fautori di linee guida che promuovono la ricerca su nanotecnologie ed implantologia si attendono che queste tecnologie possano aiutare a curare i malati e ad assistere i disabili, affinché essi possano essere parte attiva nella nostra società. C’è chi non vuole fermarsi qui e spera che le stesse tecnologie possano essere applicate al potenziamento delle capacità umane. Nell’aprile del 2006, una commissione su “Il significato delle nanotecnologie in campo sanitario” del Consiglio della Salute dei Paesi Bassi, ha proposto di dare inizio ad un ampio dibattito su questo ed altri argomenti. «La Commissione ha definito ambigue le questioni riguardanti la separazione tra diagnosi e terapia, l’assistenza domiciliare avanzata, il potenziamento e le applicazioni militari perché esse comportano giudizi di valore, che differiscono da un individuo all’altro o tra gruppi di diverso orientamento»1. Questo lavoro centra la sua attenzione sul potenziamento umano e propone alcuni elementi per un quadro etico che includa quei valori che si ritrovano nella tradizione illuministica e nel pensiero cristiano. Lo scopo è stimolare un dibattito aperto su come le nuove possibilità tecniche si possano armonizzare con le differenti tradizioni etiche, iniziando a discutere la possibilità di un potenziamento umano secondo queste prospettive differenti. Naturalmente il pensiero dell’Illuminismo e la tradizione cristiana sono molto vasti e non possono essere compresi in questo breve lavoro. Essi devono essere esplorati nel corso di un dibattito più ampio e più approfondito. Il Nanoforum offre una piattaforma per questo dibattito all’interno del suo gruppo di discussione, anche attraverso la ristampa di articoli di eticisti2. Direttrice del Malsch TechnoValuation, Utrecht, Olanda. Consiglio della Sanità dei Paesi Bassi, Health Significance of Nanotechnologies, Health Council of the Netherlands, The Hague 2006, 17; publication no. 2006/06E. in www.healthcouncil.nl 1 210 Ineke Malsch I valori rappresentativi che si trovano nell’Illuminismo sono la Libertà, l’Uguaglianza e la Fraternità. L’essere umano è la misura di tutte le cose. La particolare prospettiva cristiana considera la persona umana ad immagine e somiglianza di Dio, essendo stata creata ad immagine di Dio e destinata a divenire come Dio e vivere per sempre nel Regno eterno di Dio3. Come sostenuto dalla Commissione del Consiglio della Salute dei Paesi Bassi, non è attualmente chiaro quale valore debba essere attribuito al potenziamento, così si è raccomandato di iniziare un dibattito pubblico che includa una varietà di interessati. Il Consiglio Scientifico Olandese per le Linee Guida Governative (WRR) ha proposto la seguente definizione di valori e di norme: I valori creano lo spazio, indicano, in termini astratti, ciò che è buono, desiderabile e di valore e non determinano dei comportamenti specifici. Sebbene la gente si riconosca negli stessi valori, il comportamento effettivo, che è basato sugli stessi valori, può essere molto diverso. Le norme impongono dei limiti, in particolare indicano ciò che è considerato sbagliato e indesiderabile e forniscono linee guida pratiche circa i comportamenti. È utile distinguere tra le norme legali, che sono obbligatorie per tutti e certe norme sociali e morali, senza imposizione legale e limitate ad alcuni gruppi sociali4. Nella situazione attuale, ambigua, è troppo presto per imporre norme e restrizioni sul potenziamento. Questo articolo si propone soltanto di contribuire ad un’aperta discussione su come la gente, che proviene da tradizioni etiche differenti, possa considerare le questioni della nanomedicina e delle altre tecnologie che convergono su scale nanometriche, se applicate al potenziamento umano. Numerosi gruppi hanno richiesto un tale dibattito, compreso il citato Consiglio della Salute dei Paesi Bassi, il Consiglio Mondiale delle Chiese e l’Associazione Mondiale della Comu- 2 NANOFORUM, Benefits, Risks, Ethical, Legal and Social Aspects of Nanotechnology, Nanoforum, 2005. www.nanoforum.org > login > Nanoforum reports. 3 G. WOLBRING, The triangle of enhancement medicine, disabled people, and the concept of health. A new challenge for HTA, Health Research and Health policy. HTA initiative Series #23, December 2005. Alberta Heritage Foundation for Medical Research, Edmonton, Alberta. http://www.ihe.ca/documents/hta/HTA-FR23.pdf. 4 WRR, «Waarden, Normen en de Last van het Gedrag (Values, Norms and the Burden of Behaviour)», Wetenschappelijke Raad voor het Regeringsbeleid, Den Haag, 2003, in www.wrr.nl. Le nanotecnologie e il potenziamento umano 211 nicazione Cristiana5. Il dibattito sul potenziamento umano, reso possibile dalle nanotecnologie e le tecnologie convergenti è quello più recentemente suscitato dalla Fondazione Nazionale delle Scienze negli Stati Uniti e l’European Commission High Level Export Group6. Di seguito indicherò brevemente quali applicazioni delle nanotecnologie sono o possono essere inserite nel corpo umano e chi possa essere potenziato. Poi passerò a parlare del potenziamento a partire dalla prospettiva dei valori illuministici di “Libertà, Uguaglianza e Fraternità” e dalla prospettiva cristiana che considera gli uomini ad immagine di Dio. Questo lavoro si conclude discutendo l’opportunità di un dibattito aperto sulle prospettive etiche, filosofiche e teologiche del potenziamento, le nanotecnologie e le tecnologie convergenti. Le nanotecnologie e il corpo umano Le nanotecnologie stanno gradualmente trovando una loro strada nel corpo umano sotto forma di farmaci, materiali e rivestimenti per strutture impiantabili attive e passive. Il materiale nanostrutturato o i nanostrumenti inseriti di proposito nel corpo costituiscono, soprattutto, una parte di un sistema più grande. Il materiale nanostrutturato, volutamente applicato, può essere usato, per esempio, come rivestimento biocompatibile, oppure nella forma di materiale grezzo, nelle protesi dell’anca. Può inoltre essere incorporato, come materiale per elettrodi o batterie o in rivestimenti antibatterici o di altri farmaci su pacemakers o impianti cocleari nell’orecchio interno. Le prime applicazioni delle nanotecnologie produrranno un graduale miglioramento degli strumenti sanitari esistenti e nei sistemi per la somministrazione di farmaci7. 5 P. LEE - M. ROBRA, (eds), Science, Faith and New Technologies: Transforming Life. Vol. I: Convergent Technologies, World Council of Churches and World Association for Christian Communication with Bossey Ecumenical Institute, December 2005, http://www.wcc-coe.org/wcc/what/jpc/pa-booklet-nano1.pdf. 6 M.C. ROCO – W.S. BAINBRIDGE, Converging technologies for improving human performance: Nanotechnology, biotechnology, information technology and cognitive science, Kluwer Academic Press, 2003, in http://www.wtec.org/ConvergingTechnologies/; W.S. BAINBRIDGE - M.C. ROCO, Managing Nano-bio-info-cogno innovations: Converging technologies in society, Springer, 2006, http://www.wtec.org/ConvergingTechnologies/; A. Nordmann et al., «Converging technologies – shaping the future of European societies», Report by the High Level Expert Group, European Commission, 2004. 7 Si veda il Nanoforum (2003) per una più ampia discussione sulle tendenze delle tecnologie. NANOFORUM, Nanotechnology and its implications for the health of the EU 212 Ineke Malsch Negli anni a venire, soggetti con protesi degli arti superiori e inferiori, paraplegici o soggetti affetti da malattie cerebrali o del sistema nervoso periferico potranno partecipare più attivamente alla vita sociale grazie all’impiego di queste nuove tecnologie nanoinclusive, quali, per esempio, gli impianti retinici per la vista. Ci si attende che strumenti e nanomateriali rappresentino la parte più importante di questi impianti e protesi, ma saranno impiegati insieme alle biotecnologie, l’ICT e le scienze cognitive. La tecnologia al momento non fornisce compatibilità con i nostri organi sani, arti e tessuti, limitando la maggior parte delle applicazioni pratiche ad un semplice aiuto per i disabili e alle cure per i malati. Si veda, per esempio, Gregor Wolbring per un’ampia discussione sulle nanotecnologie, tecnologie convergenti e i disabili8. Chi può essere potenziato? Alcuni gruppi hanno discusso circa l’uso delle tecnologie non limitato a soli scopi medici. Questi gruppi comprendono i Trans-umanisti, gli organizzatori e i partecipanti dei workshops NFS sulle tecnologie convergenti per il potenziamento umano negli USA, ed il President’s Council on Bioethics degli Stati Uniti9. I fautori del potenziamento umano considerano il corpo e la mente umana, così come lo conosciamo, non sufficientemente perfetto, ma suscettibile di miglioramento. Questo può voler dire l’incorporazione di nano-, info-, bio- e neuro-tecnologie nel corpo di un soggetto sano. Con il progredire delle nanotecnologie e di altre tecnologie, il dibattito diviene meno teorico e più realistico. I chips di identificazione attraverso radiofrequenze (RFID) sono già stati impiantati, su base volontaria, in lavoratori domestici messicani, in studenti giapponesi e bagnanti delle spiagge olandesi e spagnole che non vogliono portare con sé un borsellino. Altre persone possono seguire i loro movimenti senza essere notati dalla persona che porta il chip10. citizen, Nanoforum, 2003. In www.nanoforum.org > login > Nanoforum reports. 8 G. WOLBRING, The triangle of enhancement medicine, disabled people, and the concept of health. 9 PRESIDENT’S COUNCIL ON BIOETHICS, Beyond Therapy. Biotechnology and the pursuit of happiness, The President’s Council on Bioethics, Washington, DC, 2003. http://www.bioethics.gov/reports/beyondtherapy/beyond_therapy_final_webcorrected.pdf [10-10-06]. 10 J. VAN DEN HOVEN, «Nano-ethics and privacy: the instructive case of RFID», paper presented at The Agenda for Nano-ethics, CEPTES and TA-NanoNed, University of Twente, Enschede, (27 September 2006). Le nanotecnologie e il potenziamento umano 213 Possibilità di potenziamento, su base più o meno volontaria, sono state inoltre considerate per scopi militari, sportivi e di chirurgia estetica. Fino ad oggi le nanotecnologie non sono state applicate al potenziamento in questi settori, ma lo sono altri tipi di tecnologie, quali ad esempio i farmaci che permettono ai soldati di stare svegli per molti giorni ed il doping nello sport. I motivi per potenziare i soldati possono essere quelli di migliorare il loro ruolo di comando e di controllo, attraverso una comunicazione più efficace sul campo di battaglia, o per conferire al singolo soldato un vantaggio fisico sul suo nemico. I professionisti dello sport sono già predisposti all’uso delle tecnologie in modo legittimo e, a volte, anche illegittimo per aumentare le probabilità di vittoria. Infine, per ciò che concerne la medicina estetica, da tempi immemorabili la gente ha cercato di utilizzare mezzi artificiali per “potenziare” la bellezza: dalle tinte dei capelli alle operazioni chirurgiche; Bet Gordijn ammonisce che il potenziamento nell’ambito sportivo è meglio regolato del potenziamento nel settore della cosmesi, almeno nei Paesi Bassi11. Ancora più controverso è il potenziale di potenziamento forzato dei “bambini medicina”, per rimediare alle caratteristiche negative, fisiche o mentali o per incorporare caratteristiche desiderabili12. Queste idee sono assimilabili a forme di eugenismo, coi suoi tentativi storici di incrociare gli esseri “super umani” nella Germania nazista: l’eugenismo è stato proibito dalla fine della seconda guerra mondiale per ottime ragioni. In merito a ciò, un gruppo di esperti, in Svizzera, ha discusso, nel 2003, il potenziamento e altri aspetti etici della nanomedicina, affermando: «Questi sviluppi (nel potenziamento umano) rendono poco chiara la distinzione tra l’essere umano e le macchine. Solo le intenzioni costruttive sono legittime, le procedure per valutare i rischi devono essere seguite, non è accettabile nessuna violazione dei diritti umani o dell’autonomia in caso di un’interferenza nella procreazione umana, nelle percezioni mentale o sensoriale. L’eugenismo e i neurochips devono essere evitati»13. 11 B. GORDIJN, «Converging NBIC Technologies for improving human performance: a critical assessment of the novelty and the prospects of the project», in Journal of Law, Medicine and Ethics, Winter (2006). 12 F. FUKUYAMA, Our posthuman future; consequences of the biotechnology revolution, Farrar, Straus and Giroux, New York 2002. 13 W. BAUMGARTNER - B. JÄCKLI - B. SCHMITHÜSEN - F. WEBER , Nanotechnologie in der Medizin, TA Swiss, Bern, Switzerland, 2003, www.ta-swiss.ch 214 Ineke Malsch Libertà, Uguaglianza, Fraternità e potenziamento La Libertà, l’Uguaglianza e la Fraternità sono stati ideali dell’Illuminismo a partire dalla rivoluzione francese. Questi valori si ritrovano nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo. Tali valori liberali ispirano la ricerca scientifica così come l’accettazione di nuove tecnologie in Europa e nel Nord America. Il potenziamento umano, reso possibile dalle nanotecnologie e dalle tecnologie convergenti, è accettabile sotto questa prospettiva fino a quando promuove la libertà dell’individuo, non discrimina ingiustamente tra individui e stimola la coerenza sociale e la pace tra individui e tra i sottogruppi nella società. Il President’s Council on Bioethics degli Stati Uniti afferma che lo stimolo al potenziamento umano è insito nell’Illuminismo e fa risalire la domanda di miglioramento delle condizioni umane fino a Cartesio. Il comitato statunitense individua questo nel desiderio di oggi di una vita più lunga, corpi più resistenti, anime più felici, una migliore perfomance e bambini migliori. Queste motivazioni possono essere anche promosse attraverso le scienze della vita, se perseguite con prudenza. Dopo un’attenta considerazione, il comitato degli USA ha concluso prendendo posizione contro il potenziamento14. Le applicazioni di materiale nanostrutturato e di nanosistemi ad impianti neurali, o facente parte di farmaci fatti giungere al cervello o al sistema nervoso, sono quelle che più probabilmente sollevano dubbi circa la libertà individuale. Potrà una particolare applicazione, come un chip cerebrale, migliorare o ridurre la capacità che una persona possiede di prendere decisioni autonome? Chi controlla il chip? Le comunità scientifiche e industriali potrebbero sviluppare criteri per rendere accettabile il mercato di chips cerebrali e d’altri strumenti di potenziamento, permettendo solamente quelli in grado di migliorare la libertà dell’individuo. Un tale processo di schematizzazione morale si sta già verificando per i chips RFID, usati semplicemente per la marcatura, e non per essere integrati all’interno del sistema nervoso15. L’Uguaglianza e la Fraternità sono molto importanti per l’accessibilità della nuova tecnologia ai differenti gruppi presenti nella società. Si tratta principalmente di una responsabilità dei governi che sottoscrivono tecnologie costose e delle compagnie che stabiliscono prezzi ragionevoli per i loro prodotti. La comunità scientifica europea, al momento, sta approntando la sua agenda di ricerca strategica nel campo della nanomedicina verso una medicina diagnostica, rigenerativa e terapeutica nei riguardi d’importanti malattie selezionate per il loro impatto socio-economico in 14 15 PRESIDENT’S COUNCIL ON BIOETHICS, Beyond Therapy. J. VAN DEN HOVEN, Nano-ethics and privacy. Le nanotecnologie e il potenziamento umano 215 Europa16. Esiste una suddivisione del lavoro tra l’European Technology Platform sulla nanomedicina, quello sulla medicina innovativa e il settimo programma quadro dell’Unione Europea su NMP (Nanoscienze, Nanotecnologie, Materiali e Tecnologia della Produzione) e la Salute. Il programma sanitario dell’Unione Europea è più incentrato sulle malattie infettive e gli altri rischi maggiori per la salute nei Paesi in Via di Sviluppo rispetto al programma NMP. Il programma NMP per sua natura si focalizza sulla ricerca su base industriale e non ricalca la ricerca fondata da altri programmi17. Se i valori illuministici di Uguaglianza e Fraternità guidassero la ricerca nel settore della nanomedicina e in altre forme di medicina innovativa, la maggior parte dei fondi e delle altre risorse dovrebbero essere investiti in una ricerca rivolta alle priorità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e ai cosiddetti Millennium Goals delle Nazioni Unite. Le priorità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle Nazioni Unite comprendono: la lotta alle malattie infettive come HIV/AIDS, la malaria, la tubercolosi, la riduzione della mortalità infantile ed il miglioramento della salute materna18. Capacità mnemoniche maggiori e cervelli più veloci per studenti più intelligenti non rientrano nei Millennium Development Goals. L’educazione per tutti invece sì. I politici e tutti gli interessati, a livello generale così come a livello nazionale (o di Unione Europea), dovranno discutere e decidere quali prodotti della nanomedicina e quali forme di potenziamento siano accettabili e quali debbano essere bandite o regolate. Non esiste, nella prospettiva illuministica, un’autorità maggiore di questa. 16 ETP NANOMEDICINE, «Nanotechnology for Health: Strategic Research Agenda for Nanomedicine», European Technology Platform Nanomedicine, November 2006, in http://cordis.europa.eu/nanotechnology/nanomedicine.htm [08-012007]. 17 EUROPEAN COMMISSION, «Cooperation programme objectives. Includes Health, Nanoscience, Nanotechnologies, Materials and Production Technology, and other thematic programmes», 2006, in http://cordis.europa.eu/fp7/cooperation/home_en.html [08-01-2007]. 18 UN Millennium Development Goals in www.millenniumgoals.org; A. MNYUSIWALLA - A.S. DAAR – P.A. SINGER, «Mind the Gap; Science and Ethics in Nanotechnology», Nanotechnology 14 (2003), R9-R13, Institute of Physics Publishing, London, in http://portal.unesco.org/shs/en/file_download.php/ 9de4f503e585a04e6b78aa4c706bbf62Mindthegap.pdf [22-05-06]; I. MALSCH, «Social and Economic Contexts: Making choices in the development of biomedical nanotechnology», in N.H. MALSCH (ed.), Biomedical Nanotechnology, CRC Press, Boca Raton, 2005. 216 Ineke Malsch Il Potenziamento e l’immagine di Dio Nella visione cristiana, in particolare, la persona umana è ad immagine e somiglianza di Dio, destinata a vivere per sempre nel Regno di Dio in Paradiso. La libertà umana non è assoluta, in quanto implica la libertà di scelta di rispondere sì o no alla volontà di Dio. In questa prospettiva vanno considerate la libertà, l’uguaglianza e la fraternità/solidarietà tra le persone umane. Rispetto alla tradizione illuministica, le differenze maggiori per quanto riguarda la vita sulla terra, sono la relazione con Dio e il credere nella vita come dono. Le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche sono ben accette fino a quando rispettano la dignità umana, sono perseguite per il bene comune e non solo a vantaggio di un’elite. La ricerca del potenziamento umano e dell’immortalità, non hanno senso se si crede nel Paradiso dopo la morte. Alcuni considerano che l’inserimento di oggetti artificiali all’interno del corpo umano senza una motivazione di ordine medico, sia una minaccia alla dignità umana. Dall’altra parte, nell’antropologia teologica di Pannenberg, è sottolineato che l’umanità deve crescere e svilupparsi19. Noi non siamo perfetti così come siamo oggi. Il potenziamento, come tale, non deve porsi in conflitto con la visione dell’uomo ad immagine di Dio. Concetti quali quelli del transumanismo possono entrare in conflitto con i valori inerenti questa prospettiva, se negano la dignità dell’essere umano, creato ad immagine di Dio. Gli esseri umani non dovrebbero essere sostituiti da animali o forme di vita artificiali, che alcuni reputano, arbitrariamente, più perfette. L’eugenismo o altri tentativi di selezione in conformità a caratteristiche fisiche o mentali, sono fuori luogo. La dignità di tutti gli esseri umani, compresi i disabili, deve essere rispettata20. La crescita dell’umanità avviene secondo questa prospettiva di ordine morale, con il miglioramento della capacità di amare Dio e gli altri e la volontà di condividere e di vivere insieme in pace. Questi valori assai difficilmente possono essere considerati una forza trainante per il potenziamento artificiale del corpo e della mente di soggetti umani oppure per l’interconnessione artificiale di menti per formare un “super cervello” virtuale. Dall’altro lato, la gente è libera di scegliere il proprio percorso di vita e, come a degli amministratori, è loro data la responsabilità affinché 19 W. PANNENBERG, Anthropology in Theological Perspective, Westminster, Philadelphia. 1985. (Translator Matthew J. O’Connor.) 20 In questo breve lavoro, parlo semplicemente dei valori che aprono il dibattito, non di norme che impongono delle limitazioni. Pertanto, non entro nel merito della definizione di essere umano, perché moltissimo è stato detto e scritto su questo argomento altrove. Le nanotecnologie e il potenziamento umano 217 le risorse della terra producano frutto. Inoltre, dipende dallo scopo e dalla struttura di un particolare strumento di potenziamento, se esso possa essere considerato accettabile oppure no. Poter sviluppare criteri di schemi morali, come proposto da Van den Hoven, si armonizza inoltre con i valori insiti in questa prospettiva21. Come detto sopra, esiste una gran varietà di opinioni tra i pensatori cristiani circa le nuove scienze e la tecnologia. Alcuni percepiscono le nuove possibilità come opportunità per gli essere umani di esercitare il proprio giudizio morale e in questo modo realizzare il proprio destino. Joachim Schummer si è occupato dei fondamenti religiosi della questione del potenziamento e delle nanotecnologie e percepisce un legame forte tra il potenziamento e la visione tipicamente apocalittica della cristianità che domina l’opinione pubblica negli Stati Uniti22. Egli non crede che gli Europei saranno mai tanto entusiasti circa le visioni trans-umaniste o post-umaniste quanto gli Americani. Il gruppo europeo sull’etica ammonisce che: «Le applicazioni di tipo non sanitario delle protesi ICT costituiscono una minaccia potenziale per la dignità umana e per le società democratiche»23. Il Concilio Mondiale delle Chiese esprime le sue critiche sul pensiero principale corrente, sotteso alle tecnologie convergenti e al potenziamento e cerca di allargare il dibattito includendo i disabili e altri gruppi di emarginati. Propone una prospettiva nuova sull’etica e la teologia, introducendo i valori di gruppi di emarginati, quali, per esempio, una visione mondiale di tipo olistico che si ritrova nelle comunità africane, per riequilibrare le ragioni di natura tecnologica ed economica24. 21 J. VAN DEN HOVEN, Nano-ethics and privacy. J. SCHUMMER, «Nano-Erlösung oder Nano-Armageddon? Technikethik im christlichen Fundamentalismus», in A. NORDMANN - J. SCHUMMER - A. SCHWARZ (eds.), Nanotechnologien im Kontext, Aka Verlag, Berlin, 2006. Based on Ethics in the age of fundamentalism: vacillation between nano-salvation and nano-armageddon. Paper presented at “Nanotechnology: Ethical and Legal Issues”, University of South Carolina, Columbia, SC, USA, 2-6 March 2005. http://www.joachimschummer.net/publications.html. 23 EGE, «Ethical aspects of ICT implants in the human body», opinion presented to the Commission by the European Group on Ethics, Brussels, 17 march 2005. http://ec.europa.eu/european_group_ethics/avis/index_en.htm [10-1006]. 24 P. LEE - M. ROBRA, (eds.), Science, Faith and New Technologies. 22 218 Ineke Malsch Conclusioni Il potenziamento umano ottenuto con mezzi tecnici può essere considerato come uno degli scopi intrinseci ai valori di Libertà, Uguaglianza e Fraternità, ma non all’interno di quel mondo di valori nel quale gli essere umani sono visti come immagine di Dio. In ogni modo, questi valori non si oppongono a tutte le modalità di potenziamento umano, ma possono rappresentare una fonte di forti limitazioni e di restrizioni per quelle tecnologie utilizzate a scopo di potenziamento. In questo breve lavoro, non pretendo di avere risolto l’ambiguità che circonda il potenziamento che si basa sull’uso delle nanotecnologie e le tecnologie convergenti. Spero che le mie riflessioni sul potenziamento, alla luce di valori dell’Illuminismo e di alcuni valori cristiani possano apportare un contributo utile al dibattito emergente. Coloro che aderiscono al movimento trans-umanista, i fautori del Foresight Institute statunitense ed altri si sono occupati sin dagli anni ottanta, con riflessioni e scritti, di questi argomenti25. Eticisti, filosofi e teologi stanno cominciando ad interessarsi delle nanotecnologie e delle tecnologie convergenti per il potenziamento umano dal 2002, e alcuni gruppi religiosi hanno anche istituito dibattiti sul potenziamento, le nanotecnologie e le tecnologie convergenti, tra cui la Chiesa di Scozia, il Consiglio Mondiale delle Chiese e l’Associazione Mondiale della Comunicazione Cristiana, La Chiesa Evangelica Tedesca e la Conferenza Europea dei Vescovi (COMECE)26. Gli anni a venire vedranno un accentuarsi del dibattito. Il Nanoforum lo sta stimolando attraverso la richiesta di articoli su questi ed altri aspetti etici, legali e sociali delle nanotecnologie perché siano (ri)pubblicati sul sito web27. La discussione si può allargare in molti modi diversi: 1. Attraverso revisioni etiche di proposte ed includendo comitati etici o di ricerca sulle implicazioni filosofiche, etiche e teologiche 25 Foresight Institute: www.foresight.org; World Transhumanist Association: www.transhumanism.org. 26 D. BRUCE, «Nanotechnology: Making the World Better?», in New Scientist 11/6 (2005), 21; CHURCH OF SCOTLAND, Society, Religion and Technology: http://www.srtp.org.uk/nano01.htm; EVANGELISCHE AKADEMIE ISERLOHN, Ortlohner Manifest, Für einen verantwortlichen Umgang mit den Nano-, Bio- und Informationstechnologien, Institut für Kirche und Gesellschaft, Evangelische Akademie Iserlohn (11-13 March, 2005): http://www.kircheundgesellschaft.de/akademie/documents/ortlohner-manifest.pdf; P. Lee - M. Robra (eds.), Science, Faith and New Technologies; COMMISSION OF EUROPEAN BISHOPS CONFERENCES COMECE: http://www.comece.org/comece.taf?_function=ecosoc&_sub=_bio&id=1&language=en. 27 NANOFORUM, Discussion board in www.nanoforum.org/nanoboard/ Le nanotecnologie e il potenziamento umano 219 delle nanotecnologie e in programmi nazionali o europei di nanotecnologie R&D o networks, stimolando frequenti interazioni tra esperti delle scienze della natura, ingegneri e studiosi delle scienze umane così come già avviene con quelli delle scienze sociali nella ricerca ELSA di Piano d’Azione dell’Unione Europea sulle nanotecnologie28. Nei programmi quadro dell’unione europea, tutte le proposte di ricerca e di progetti sono stati già esaminati dal punto di vista della loro conformità ai principi etici dell’Unione Europea e, dove necessario, sono state organizzate revisioni dettagliate ad hoc. Le proposte che non sono conformi ai principi etici dell’Unione Europea, non ottengono fondi da parte della Comunità Europea, attraverso i programmi quadro. Normalmente i programmi quadro dell’Unione Europea de facto non finanziano il potenziamento umano, ma attribuiscono fondi per la terapia delle malattie29. Le tre università olandesi di studi tecnologici hanno aperto un centro d’eccellenza sull’etica, la nano e altre tecnologie nel 2007. 2. Attraverso la costruzione di gruppi sociali civili, compresi ONG religiose, sulle nanotecnologie e le tecnologie convergenti ed il loro aspetti etici, in progetti dedicati quali il NANOCAP finanziato dall’Unione Europea (2006-2009) per i gruppi d’ambientalisti ed i sindacati30. 3. Inviando articoli di stampa, fornendo interviste che chiariscano le varie questioni e chiedendo contributi al dibattito da parte di leaders del settore che rappresentano prospettive differenti. 28 EUROPEAN COMMISSION, Nanosciences and Nanotechnologies: An Action Plan for Europe 2005-2009, COM(2005) 243 Final, European Commission, Brussels, (7 June, 2005), 9, in http://cordis.europa.eu/nanotechnology/actionplan.htm; EUROPEAN PARLIAMENT, «Resolution on nanosciences and nanotechnologies: an action plan for Europe», Strasbourg, (28 September 2006), in http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT%2BTA%2BP6-TA2006-0392%2B0%2BDOC%2BXML%2BV0//EN. 29 Renzo Tomellini, Commissione Europea, comunicazione personale. 30 Rinie van Est, Rathenau Institute, comunicazione personale. Edmund Pellegrino Oltre la terapia: è lecito il potenziamento umano? La tecnologia apre le porte, ma non costringe l’uomo ad entrarvi. Lynn White Jr., Medieval Technology and Social Change Uno dei sogni ricorrenti dell’umanità è stato quello di appropriarsi del controllo delle leggi naturali per eradicare la fragilità e la finitudine della vita umana. In gran parte della storia umana, questa speranza illusoria si ritrova soltanto nell’immaginazione letteraria. Gli scrittori hanno propagandato un gran numero di utopie esenti da conflitti, dalla vecchiaia, dalla malattia e dalla morte1. Altri, con lo stesso zelo, hanno messo in evidenza gli incubi e gli sforzi attuati dagli uomini per superare il Creatore 2. A partire dai secoli sedicesimo e diciassettesimo, in ogni modo, la scienza e la tecnologia hanno iniziato a porre, nelle mani dell’uomo, gli strumenti di controllo della natura e questo sogno illusorio ha acquisito un significato più reale. Professore Emerito di Medicina e Etica medica, Center for Clinical Bioethics, Georgetown University Medical Center e Chairman del President’s Council on Bioethics, Washington, DC, USA. 1 PLATONE [ca 380 A.C.], The Republic, Basic Books, New York 1968, (trad. con le note e un saggio interpretativo di Allan Bloom); THOMAS MORE, Utopia, Yale University Press, New Haven, CT 1965 [1516]; C. FOURIER, Oeuvres Complètes de Charles Fourier, Librairie Sociétaire, Paris 1845-46; F. BACON, New Atlantis, Clarendon Press, Oxford 1915 [1626]; A. HUXLEY, Brave New World e Brave New World Revisited, Harper & Brothers, New York 1964 [1931]. 2 G. ORWELL, 1984, Harcourt, Brace, New York 1949; S. BUTLER, Erewhon and Erewhon Revisited, Random House, New York 1979 [1927]; J. SWIFT, Gulliver’s Travels, Penguin Books, New York, 2001 [1726] (Con l’introduzione e le note di Robert De Maria Jr.); A. TROLLOPE, The Fixed Period, W. Blackwood and Sons, Edinburgh 1882. 222 Edmund Pellegrino Il primo ad essere posto sotto controllo è stato il mondo fisico, evento culminato con la conquista dello spazio e dell’energia atomica, nel ventesimo secolo. Nella seconda metà dello stesso secolo, il controllo si è esteso alla biologia e ai segreti della stessa vita umana. Le biotecnologie del ventunesimo secolo, nella forma di biologia molecolare, genetica, nanotecnologia, cibernetica e psicofarmacologia promettono di eradicare le malattie, di andare oltre la semplice terapia per potenziare l’aspetto qualitativo di ogni ambito della vita3. Al di là di tutto questo vi è la tentazione di trasformare la stessa natura umana per liberarla perfino dai capricci della selezione naturale, evoluzione ed ecologia4. Come risultato, il sogno ricorrente dell’umanità è stato rivitalizzato. Gli scienziati, i filosofi, e gli eruditi di oggi vedono un’umanità moderna liberata dalle divinità e da Dio. Il loro entusiasmo sfrenato deride la sapienza caustica dell’Ecclesiaste. Essi archiviano il pessimismo dell’autore sulla vanità di tutte le cose sotto il sole perché c’è, invece, qualcosa di nuovo sotto il sole: le biotecnologie. L’umanità può divenire la redentrice di se stessa, come uno tra i medici più saggi, il canadese Sir William Osler, ha predetto in un momento di adulazione gioiosa della bravura della medicina degli inizi del ventesimo secolo5. Osler difficilmente avrebbe potuto prevedere che la sua arte tanto amata sarebbe andata oltre l’eradicazione delle malattie e sino al soddisfacimento di ogni desiderio umano, non solo per quanto concerne la salute ma per la perfezione fisica, psicologica ed emotiva. Per usare la metafora di Lynn White, le biotecnologie hanno, in realtà, aperto una serie di porte nuove, ampie, che ci confondono6. Oggi dobbiamo decidere attraverso quali di queste porte entrare, quali cercare di esplorare e quali tenere ermeticamente chiuse. Più di ogni altra cosa, dobbiamo tenere sotto controllo il nostro potere di controllare chi e che 3 L.M. SILVER, Remaking Eden: Cloning and Beyond in a Brave New World, Avon Books, New York 1997; R. KURZWEIL, The Age of Spiritual Machines: When Computers Exceed Human Intelligence, Viking Press, New York 1999. 4 R.F. DENISON - E.T. KIERS - S.A. WEST, «Darwinian Agriculture: When Can Humans Find Solutions beyond the Reach of Natural Selection?», in Quarterly Review of Biology 78/2 (June 2003), 146-48; E. 0. WILSON, The Future of Life, Alfred A. Knopf, New York 2002; J. WATSON - A. BERRY, DNA: The Secret of Life, Alfred A Knopf, New York 2003; «Humanist Manifesto II», in The Humanist 33 (September-October 1973), 3-4, 13-14; F. FUKUYAMA, Our Posthuman Future: Consequences of the Biotechnology Revolution, Farrar, Straus & Giroux, New York 2002. 5 W. OSLER, Man’s Redemption of Man: A Lay Sermon, (McEwan Hall, July 2, 1910), Constable, London 1913. 6 L. WHITE JR., Medieval Technology and Social Change, Clarendon Press, Oxford 1962, passim. Oltre la terapia 223 cosa siamo. Altrimenti, saremo in pericolo di diventare vittime della nostra stessa ingenuità, con la quale trasformiamo le utopie in distopie. Tristemente, comunque, non c’è un precedente storico nel quale la tecnologia potesse essere limitata da confini di ordine morale oppure nel quale ciò che inizialmente costituisce la legittima terapia di una certa malattia, non sia usato al di là della stessa terapia7. Esercitare delle restrizioni morali richiede l’agganciarsi a cosa significhi essere un essere umano. Questa è la domanda cruciale, la domanda principale di ordine filosofico e teologico, che crea la più profonda frattura nella cultura contemporanea. Il President’s Council on Bioethics ha chiaramente riconosciuto questo fatto8. La chiarezza di questo Comitato nel definire le questioni più fondamentali e il suo richiamarsi ad una “bioetica più ricca”, sono i primi passi essenziali. Questo è solamente l’inizio, perché è dopo questo primo passo che prende origine il dilemma etico. In questo scenario, va esaminata la questione più limitata della relazione tra la medicina e le biotecnologie. Fino a che punto la medicina ed i medici possono divenire i veicoli dell’accesso di singoli individui e della società ai benefici promessi dalla tecnobiologia? Nel campo della terapia delle malattie, non c’è dubbio che i medici siano gli agenti più logici e necessari. Che dire del potenziamento della vita individuale e sociale o le promesse di perfezionamento della stessa natura umana, oltre la terapia? Fino a quale livello la medicina dovrebbe essere schiava delle biotecnologie? Si dovrebbe ridisegnare la medicina per incorporarvi le biotecnologie? Si dovrebbe istituire una nuova professione, a questo scopo? I fini delle biotecnologie sono da considerarsi “buoni” per i pazienti o per gli essere umani in quanto tali? Infine, l’essere un medico cristiano, come può influenzare la risposta da dare a queste domande? Questo lavoro è incentrato sulle relazioni esistenti tra le biotecnologie, il potenziamento e i fini della medicina secondo entrambe le prospettive, secolarizzata e cristiana. Iniziamo con le difficoltà insite nel tentativo di definire termini chiave quali: salute, morbo, malattia e sentirsi malati. Data la varietà di significati, si offrono delle definizioni operative, soprattutto per il termine più recente: il potenziamento. Queste definizioni operative sono quindi poste in relazione con i fini della medicina, dal punto di vista con- 7 S.M. ROTHMAN - D.J. ROTHMAN, The Pursuit of Perfection: The Promise and Perils of Medical Enhancement, Pantheon Books, New York 2003. 8 PRESIDENT’S COUNCIL ON BIOETHICS, Human Cloning and Human Dignity: The Report of the President’s Council on Bioethics, Public Affairs, New York 2002; PRESIDENT’S COUNCIL ON BIOETHICS, Beyond Therapy: Biotechnology and the Pursuit of Happiness, A Report of the President’s Council on Bioethics, University of Chicago Press, Chicago 2003. 224 Edmund Pellegrino cettuale e, quindi, con i tre punti dove le biotecnologie si intersecano con la medicina: 1) nel trattamento delle malattie, 2) nel potenziamento oltre la terapia, e 3) nel rimodellare la società umana e la natura umana. Ciascun punto di intersezione è esaminato da un punto di vista etico, filosofico e religioso. I concetti chiave: difficoltà concettuali e storiche Se le finalità della medicina sono quelle di costituire condizioni di confine per alloggiare o escludere qualsiasi forma di biotecnologia all’interno o al di fuori della medicina clinica, la difficoltà legata al definire certi concetti – salute, morbo, malattia, guarigione, la medicina stessa ed il nuovo termine di potenziamento – deve pur essere affrontata. La letteratura in proposito, sia contemporanea sia passata, è molto ampia. Sia i concetti che gli argomenti a loro associati sono ben espressi in due ottime raccolte di opinioni, Concepts of Health and Disease: Interdisciplinary Perspective, a cura di Arthur L. Caplan - Tristam Engelhardt Jr. - James J. McCartney; e Health, Disease, and Illness: Concepts in Medicine, a cura di Arthur L. Caplan James J. McCarthey - Dominic A. Sisti9. Salute La salute è il fine ultimo della medicina intesa come medicina per i singoli soggetti e per la società. Forse questo è il concetto chiave più difficile da definire. La parola salute, “health” in inglese, deriva da un’antica parola inglese che significa globalità o “wholeness”. Leon Kass ritiene che questo sia un concetto statico, in contrasto con l’idea greca di hygei o euexi, «un modo buono di vivere» e di «una buona attitudine». Kass preferisce il significato greco di salute inteso come «il buon funzionamento dell’organismo come un tutto [...] un’attività del corpo in accordo con le sue eccellenze specifiche»10. 9 Cf. A.L. CAPLAN - H.T. ENGELHARDT JR. - J.J. MCCARTNEY (eds.), Concepts of Health and Disease: Interdisciplinary Perspectives, Addison-Wesley, Reading, Mass. 1981; and A.L. CAPLAN - J.J. MCCARTNEY - D.A. SISTI (eds.), Health, Disease, and Illness: Concepts in Medicine, Georgetown University Press, Washington, D.C. 2004 (foreword by Edmund D. Pellegrino). 10 L.R. KASS, «Regarding the End of Medicine and the Pursuit of Health», in CAPLAN - ENGELHARDT - MCCARTNEY (eds.), Concepts of Health and Disease, 3-30, at 29. Oltre la terapia 225 Nel mondo antico, la parola salute aveva una varietà di significati, con sottili differenze tra loro. Per i Pitagorici, per esempio, la salute era una questione di equilibrio sul nutrimento, l’attività fisica e l’esposizione all’ambiente – essenzialmente si trattava di limitare la smodatezza degli appetiti11. Per i medici Ippocratici, la salute era anch’essa una situazione d’equilibrio, ma tra quattro umori12. Sextus Empiricus considerava la salute come il bene maggiore, mentre altri ponevano le virtù prima della salute, come bene per l’uomo. Galeno aveva una definizione più pratica, definendo la salute come «uno stato nel quale non soffriamo alcun dolore né siamo ostacolati nelle attività di tutti i giorni»13. Nell’era moderna, la definizione di salute ed il suo rapporto con la malattia è divenuta più complicata. Questo è il risultato della dicotomia che si è stabilita tra il concetto scientifico di malattia, privato dai suoi valori ed il gran numero di definizioni, determinate dalla società e dalla cultura, che risultano cariche di valori14. Nelle raccolte di concetti sulla salute di Caplan, Engelhardt e McCartney troviamo che la salute è definita in modi diversi, secondo la sua relazione con le opposte visioni circa la malattia. La maggior parte di queste visioni enfatizzano i concetti carichi di valori, quali quello della salute come ideale regolativo (in un lavoro di Engelhardt), la capacità ottimale di impersonare un ruolo per il quale un soggetto è socializzato (Parsons), la conformità alle idee culturali prevalenti (King; Fabrega)15. 11 O. TEMKIN - C.L. TEMKIN (eds.), Ancient Medicine: Selected Papers of Ludwig Edelstein, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1967. 12 P. CARRICK, Medical Ethics in the Ancient World, Georgetown University Press, Washington, D. C. 2001. 13 Galeno è citato da O. TEMKIN, «The Scientific Approach to Disease: Specific Entity and Individual Sickness», in CAPLAN - ENGELHARDT - MCCARTNEY (eds.), Concepts of Health and Disease, 247-63, 254. 14 C. BOORSE, «On the Distinction between Disease and Illness», in Philosophy and Public Affairs 1 (1975), 49-68; H.R. WULFF - S.A.PENDERSEN - R. ROSENBERG, Philosophy of Medicine: An Introduction, Blackwell Scientific Publications, London 1990; R. GILLON, Philosophical Medical Ethics, John Wiley, New York 1986); L. REZNEK, The Nature of Disease, Routledge & Kegan Paul, New York 1987; K. FABER, Nosography: The Evolution of Clinical Medicine in Modern Times, Paul Roeber, New York 1930 [1923]. 15 In CAPLAN - ENGELHARDT - MCCARTNEY (eds.), Concepts of Health and Disease, gli esempi delle differenti definizioni citate qui sono H.T. ENGELHARDT JR., «The Concepts of Health and Disease», 31-45; T. PARSONS, «Definitions of Health and Disease in the Light of American Values and Social Structure», 57-81; L.S. KING, «What Is Disease?», 107-118; H. FABREGA JR., «The Scientific Usefulness of the Idea of Illness», 131-142. 226 Edmund Pellegrino La definizione di salute più estesa – definita anche in rapporto all’assenza di malattia – viene proprio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: «uno stato di completo benessere, fisico, mentale e sociale [...] un diritto fondamentale di ciascun essere umano»16. Esso comprende la salute mentale, forse il concetto più difficile da definire, così come quello di “benessere”17. La definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità indebolisce qualsiasi tentativo di stabilire dei confini ai perimetri della medicina o della pratica medica. Fino ad un certo punto, questo potrebbe essere vero per una qualsiasi delle definizioni di salute più orientate verso il punto di vista valoriale. Stato morboso La definizione di stato morboso è gravida di difficoltà così come la definizione di salute18. Come la salute, esso può essere definito, dal punto di vista obiettivo e scientifico, come fa Borse, oppure come negazione di alcuni stati carichi di valori, definiti da un punto di vista sociale e culturale19. Recentemente, Worral e Worral hanno suggerito che qualsiasi tentativo di definire il concetto di stato morboso è inadeguato e che bisognerebbe abbandonare qualsiasi sforzo in questa direzione 20. Esistono soltanto alcuni stati morbosi specifici, ciascuno con i propri segni che li definiscono, i sintomi e così via. Sebbene questa analisi abbia una qualche sua validità, non aiuta molto, perché sembra aver necessità di una domanda. Dopo tutto, con quali criteri stabiliamo quali insieme di segni e di sistemi rappresentino degli stati morbosi specifici e quali no? 16 La definizione di “salute” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si trova nel «Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità» adottata dalla Conferenza Internazionale sulla salute, New York, 19-22 Giugno, 1946, Firmata il 22 Luglio 1946 dai Rappresentanti di 61 Stati, Official Records of the World Health Organization, no. 2, 100; entrata in vigore il 7 Aprile, 1948. «Constitution of the World Health Organization», in CAPLAN - ENGELHARDT MCCARTNEY (eds.), Concepts of Health and Disease, 83-84. 17 F.C. REDLICH, «The Concept of Health in Psychiatry», in CAPLAN - ENGELHARDT - MCCARTNEY (eds.), Concepts of Health and Disease, 373-390; P. SEDGWICK, «Illness Mental and Otherwise», in CAPLAN - ENGELHARDT - MCCARTNEY (eds.), Concepts of Health and Disease, 119-129. 18 B. HOFMANN, «On the Triad Disease, Illness and Sickness», in Journal of Medicine & Philosophy 27/ 6 (December 2002), 651-73. 19 BOORSE, «On the Distinction between Disease and Illness». 20 J. WORRALL - J. WORRALL, «Defining Disease: Much Ado about Nothing?», in A.-T. TYMIENIECKA - E. AGAZZI (ed.), Analecta Husserliana LXXII, Kluwer, Dordrecht 2001. Oltre la terapia 227 Non è questo il luogo dove tentare di risolvere il problema dal punto di vista epistemologico, per quanto critico esso possa essere. Prima o dopo, l’argomentazione dovrà stabilirsi su alcune definizioni operative. La loro validità sarà dimostrata dall’urgenza delle conclusioni alle quali esse tendono. Con queste ammonizioni, offriamo alcune definizioni basate sull’uso comune e quindi ne colleghiamo l’uso ai fini della medicina. La salute è intesa sia come uno stato soggettivo sia oggettivo. La salute soggettiva si riferisce a quello stato in cui una persona sente che il proprio corpo, la mente e la psiche, sebbene non necessariamente perfettamente funzionanti, permettono di eseguire la maggior parte delle cose che si desiderano fare senza alcun fastidio. Questa è una parafrasi della semplice definizione di Galeno, che è stata data sopra21. La salute, secondo questa visione, è uno stato relativo nel quale ciascuna persona cerca un equilibrio tra le limitazioni che la genetica, l’ambiente o l’esperienza gli hanno imposto e le proprie aspirazioni. Uno può sentire di essere “in salute” in questo senso, anche se sa di avere una malattia o una disabilità. La persona in salute si sente “bene” fino a quando lei o lui, può raggiungere altri scopi piuttosto che focalizzare tutta la sua attenzione sul proprio corpo o sulla propria mente. Diviene malata, quando il proprio corpo diventa il centro della propria vita e un impedimento ai propri scopi. Pertanto, la salute soggettiva è uno stato molto personale di soddisfazione o di sconforto, che viene determinato dallo stesso paziente. La salute in senso oggettivo, al contrario, è una condizione in cui non è possibile dimostrare alterazioni fisiologiche, psicologiche o biochimiche rispetto ad alcuni standard di normalità esistenti. A differenza della salute soggettiva, la salute oggettiva è determinata da esperti – persone diverse dal paziente. Se dovessimo esaminare ogni persona, senza tener conto dell’età e con le informazioni richieste, potremmo trovare qualche processo patologico quiescente o in procinto di insorgere. Pochi, forse nessun soggetto umano, potrebbe essere definito in salute, dal punto di vista oggettivo. La salute oggettiva va incontro a cambiamenti in qualsiasi istante a livello molecolare, cellulare o a livello dei tessuti e degli organi. Si può o non manifestare come sintomo o segno. Una persona si può sentire soggettivamente “in salute” anche alla presenza di uno stato morboso nascosto oppure manifesto, oppure uno può non avere alcuno stato morboso oggettivo e non sentirsi in salute. Uno si può sentire “non in salute”, anche se non si dimostra la presenza di alcuno stato morboso, se, per un gran numero di ragioni, non possiede un attributo o degli attributi del corpo, 21 TEMKIN, «Scientific Approach to Disease», 254. 228 Edmund Pellegrino della mente o del carattere di cui si senta ingiustamente deprivato. Questo è spesso il caso nel mondo sviluppato e ricco di oggi22. Lo stato morboso è uno stato abnorme, che si può determinare in maniera oggettiva dal punto di vista anatomico, fisiologico, biochimico o psicosociale. Lo stato morboso è uno stato di deviazione di alcuni ordini di grandezza, per esempio due deviazioni standard dalla media, per un certo gruppo di persone. Murphy ha dimostrato come anche la nozione di normalità possa creare confusione23. Comunque tale concetto non si può evitare nel linguaggio clinico e nelle decisioni cliniche. Lo stato morboso, come la salute, è un continuum nel quale il medico deve porre un punto di demarcazione tra la normalità e l’anormalità. Ad un’estremità del continuum, l’anormalità è così ovvia che, per esempio, anche un occhio non allenato può scoprire un carcinoma voluminoso del seno, passato inosservato. All’altra estremità, la demarcazione è così sottile o insignificante che gli esperti spesso differiscono, per esempio, nel decidere se un’immagine mammografica (una lesione) deve essere seguita o abbia bisogno di essere sottoposta ad una biopsia. In realtà, le preferenze del paziente, i valori del medico, l’età e la disponibilità delle risorse possono influenzare la decisione, ma una decisione deve essere presa. Questo referto è “nei limiti della norma” oppure no? Un continuum simile esiste per gli stati morbosi di origine emotiva e quelli di carattere psicosociale. In questo caso, i determinanti oggettivi delle decisioni di normalità e di patologia sono: l’osservazione del comportamento, i test psicometrici e, in maniera crescente, gli studi biochimici, così come le sofisticate immagini radiografiche e quelle digitali. Criteri culturali e sociali possono giocare una parte importante, ma devono essere ancora stabiliti alcuni punti sul continuum che separa ciò che è normale da ciò che è patologico, almeno come distinzione lavorativa, se non ontologica. Malattia e star male La malattia e lo star male sono stati soggettivi nei quali il paziente determina ciò che è normale o alterato. In entrambi i casi, il soggetto percepisce che “qualcosa” non va bene con il proprio corpo o con le proprie funzioni mentali. Ci possono essere, oppure no, sintomi vaghi e diffusi. Il paziente prova uno stato di malessere o un vago senso di sconforto nei 22 G. EASTERBROOK, The Progress Paradox: How Life Gets Better While People Feel Worse, Random House, New York 2003. 23 E.A. MURPHY, The Logic of Medicine, John Hopkins University Press, Baltimore 1997. Oltre la terapia 229 riguardi degli eventi ordinari della vita. Spesso non si trova niente di oggettivamente alterato e la maggior parte delle difficoltà sembrano essere dovute alla propria particolare situazione di vita. La malattia e lo star male possono accompagnare il morbo o essere sperimentate in sua assenza. Non trovare dei segni obiettivi non significa che la percezione della malattia da parte del paziente sia immaginaria, solamente che non può essere categorizzata. La persona può assumere oppure non assumere il “ruolo di malato”, sia che questo sia riconosciuto della società che da se stesso. Sentirsi male, sentirsi malato rappresentano delle vere fonti di stress, di infelicità e di disfunzione. L’insoddisfazione, o il senso di deprivazione che ne risultano, offre un terreno fertile per alcuni potenziamenti degli aspetti qualitativi della vita, che le biotecnologie promettono. Le finalità della medicina definite dalla tradizione Prima di tentare di correlare i potenziamenti biotecnologici con le finalità della medicina, dobbiamo verificare come le finalità della medicina sono state tradizionalmente definite. Possiamo quindi volgere la nostra attenzione ai significati di potenziamento, per vedere se essi possono essere efficacemente sistemati nel dominio della pratica medica. Aristotele inizia la sua Etica con l’importanza dei “fini” e del “bene”, rispetto alla globalità dell’etica: «Ogni arte e ciascun’indagine e, similmente ciascun’azione e attività è pensata in funzione di qualche bene; per questa ragione il bene è stato correttamente definito come ciò al quale tutte le cose tendono»24. Da ora in poi, in questo capitolo i termini di fine e bene saranno utilizzati nel significato aristotelico, quando sono applicati alla medicina. Secondo questa visione, il fine della medicina è il bene del paziente ed il fine della medicina sociale è il bene della società. La maggior parte del nostro interesse è rivolto alla medicina clinica. Rispetto alla questione più vasta della trasformazione delle specie, allo stesso modo è trattata l’etica delle società. Sebbene il bene di ciascun paziente ed il bene della società siano strettamente connessi, sono trattati separatamente. Il fine dell’incontro clinico, da tempo immemorabile, è stato il trattamento delle malattie e il sollievo dalla sofferenza. Il fine della medicina, secondo le parole del medico ippocratico è quello di «cercare di eliminare le sofferenze del malato, ridurre la violenza della loro malattia e il rifiutarsi di trattare quelli che sono sopraffatti dalla loro malattia dato che, in 24 ARISTOTELE, Nichomachean Ethics: The Basic Works of Aristotle, Random House, New York 1968, l094A. (ed. con l’introduzione di Richard McKeon). 230 Edmund Pellegrino questi casi, siamo senza alcun potere»25. Non si parla della cura, perché le conoscenze di medicina dell’antichità raramente permettevano di promettere un tale risultato. È importante notare che, inizialmente, nella storia della medicina, se ne riconoscevano i limiti e, in alcuni casi, la nozione di futilità era sufficiente per sospendere le terapie. Nei secoli successivi, le conoscenze mediche e le tecniche erano sufficientemente migliorate tanto che le cure divennero una possibilità più frequente. Il sollievo della sofferenza e il miglioramento delle condizioni di malattia rimanevano ugualmente dei fini, specialmente, quando una cura non era possibile. La prevenzione delle malattie e il preservare lo stato di salute erano anch’essi tra i fini della medicina dai tempi d’Ippocrate26. Nella medicina contemporanea, si aggiunsero due nuove finalità a quelle originarie della medicina dell’antichità: il bisogno di unire ciò che è tecnicamente corretto con il moralmente buono; ed una ripresa del concetto di rispetto per la dignità del paziente, espresso come riconoscimento del diritto morale di partecipare alle decisioni che riguardano il paziente stesso. Il bene del paziente inteso come telos o fine della medicina è diventata una nozione complessa, olistica. La guarigione è adesso più vicina al suo significato etimologico di ricostituire “l’interezza”27. Possiamo distinguere i fini della medicina in prossimi ed ultimi. Il fine prossimo è una fusione di ciò che è tecnico con ciò che morale, in altre parole una decisione corretta tecnicamente ed una decisione giusta moralmente circa il bene del singolo paziente. Il fine ultimo è la salute, un concetto che è difficile da definire, come abbiamo visto. Entrambi i fini richiedono una conoscenza aggiornata della scienza medica e dell’arte clinica della diagnosi, prognosi e terapia se si vuole ottenere la guarigione. Oggi, i termini di “scopi” e “obiettivi” (goals) sono spesso sostituiti da “fini”. Essi sono socialmente determinati e definiti dai costumi di una comunità particolare, dal tempo e dallo spazio. Si possono stabilire molti fini per la medicina oltre la guarigione, che conferisce alla medicina il suo carattere specifico. La medicina, nei nostri giorni, per esempio è stata usata ai fini dell’eugenismo, del genocidio, a scopi militari ed altri. I fini, 25 IPPOCRATE, Hippocrates: The Art, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1923. (traduzione inglese di W. H. S. Jones). 26 IPPOCRATE, Airs, Waters, and Places, in Galen’s Commentary on the Hippocratic Treatise, Israel Academy of Sciences and Humanities, Jerusalem 1981. 27 E.D. PELLEGRINO, «The Goals and Ends of Medicine: How Are They to Be Defined?», in M.J. HANSON - D. CALLAHAN (eds.), The Goals of Medicine: The Forgotten Issue in Health Care Reform, Georgetown University Press, Washington, D.C. 1999, 55-68. Oltre la terapia 231 in ogni modo, non sono arbitrari. Essi derivano da – ed essi stessi definiscono – il tipo d’attività che la medicina stessa è28. Per i nostri scopi, i fini di cui più c’interessiamo sono quelli della medicina clinica: l’uso delle conoscenze mediche nel trattare e prevenire le malattie (come definito sopra) di singoli pazienti, così come alleviare il dolore e la sofferenza dovuta a malattie fisiche e/o su base emotiva. La medicina clinica ha il suo fine specifico nel bene di soggetti singoli, i quali trovano giovamento dall’uso delle conoscenze mediche e di particolari abilità. Questo è senza dubbio un approccio basato sulla malattia, pienamente consapevole delle difficoltà insite in una tale posizione. È in ogni caso, nel complesso, da preferire a quelle ideologie che definiscono la medicina in modo più ampio, in conformità a quei fini che i pazienti, i medici o la società decidono di stabilire29. Una tale definizione confonde gli scopi con i fini e rende i medici automaticamente schiavi dei desideri della società o delle possibilità biotecnologiche. Essi privano la società di qualsiasi influenza restrittiva che, invece, i medici potrebbero esercitare sugli abusi più incredibili delle conoscenze o sui capricci sociali, che la stessa società potrebbe escogitare. La biotecnologia, la medicina ed il potenziamento Le promesse e le attuali capacità delle biotecnologie hanno dato preminenza ad un nuovo e possibile fine della medicina, il potenziamento. Questo termine non ha la lunga storia di quelli discussi sopra per definire i fini della medicina. Quasi ogni cronista dei nostri giorni sottostima le difficoltà, l’impossibilità o la futilità di qualsiasi definizione che cerchi di distinguere tra il potenziamento e la terapia30. Tuttavia, ognuno, alla fine, finisce con l’utilizzare questo termine perché non ne esiste ancora uno in grado di sostituirlo. Ciò succede perché non è possibile stabilire dei limiti tra gli usi moralmente validi e quelli moralmente non accettabili delle biotecnologie, senza averne almeno una definizione lavorativa. Quello che la maggior parte delle definizioni sul potenziamento rileva, in un modo o in un altro, è l’andare “oltre” qualche cosa, in altre parole, an- 28 Ibid. Ibid. 30 Es., Cf. E. PARENS, «Is Better Always Good?» e E. JEUNGST, «What Does Enhancement Mean?» entrambi in Enhancing Human Traits: Ethical and Social Implications, E. PARENS (ed.) Georgetown University Press, Washington, D.C. 1998, 128, 29-69, rispettivamente. 29 232 Edmund Pellegrino dare oltre i fini generalmente accettati della medicina o del benessere personale, oppure oltre i limiti stessi della specie umana. Questo è il significato che si ritrova nel comunicato del 2003 Beyond Therapy, del President’s Council on Bioethics31. Eric Juengst lo descrive in maniera molto succinta: il potenziamento comprende «gli interventi aventi lo scopo di migliorare le forme o le funzioni al di là di ciò che è necessario per sostenere o restituire un buono stato di salute»32. La maggior parte dei cronisti è alla ricerca di un consenso su alcuni standard che rendono possibile l’applicazione di restrizioni morali. Questo vale anche per gli sforzi, più moderati di Brock per rendere le discussioni pubbliche di politica della gestione «più consistenti, sottili e sistematiche»33. In effetti, dove porre i limiti – e a quale scopo – dipende, in generale, dalla particolare prospettiva che l’autore desidera adottare. La maggior parte degli sforzi di Daniel Brock, per esempio, rappresentano un’estensione dei suoi interessi nei settori della salute e in quello assicurativo34. Altri enfatizzano la questione più vasta del potenziamento personale, il miglioramento della natura umana o la dimensione teologica. È sufficiente affermare che, senza una definizione lavorativa, evidente o nascosta, la maggior parte delle discussioni sul potenziamento sarebbe addirittura difficile da iniziare. La nostra definizione operativa di potenziamento sarà fondata sul suo significato etimologico generale: «migliorare, intensificare, sollevare, esaltare, innalzare o ingrandire», sono alcuni degli usi che si trovano nell’Oxford English Dictionary. Ciascuna di queste parole porta con sé la connotazione di andare “oltre” ciò che esiste in alcuni momenti, sia che si tratti di un certo stato di cose, una funzione o caratteristica corporea, oppure una limitazione generale della natura umana. Il potenziamento è, come dice Fowler, «una parola pericolosa per le persone inesperte», ma il suo impiego, sotto alcune forme, sembra ineludibile35. 31 PRESIDENT’S COUNCIL ON BIOETHICS, Being Human: Readings from the President’s Council on Bioethics, U.S. Government Printing Office, Washington D.C. 2003. 32 JEUNGST, «What Does Enhancement Mean», 29. 33 D.W. BROCK, «Enhancement of Human Function: Some Distinctions for Policymakers», in PARENS (ed.), Enhancing Human Traits: Ethical and Social Implications, 48-69, 49. 34 N. DANIELS, «Growth Hormone Therapy for Short Stature: Can We Support the Treatment/Enhancement Distinction?», Growth Genetics and Hormones, Suppl. 1/8 (1992), 46-48. 35 H.W. FOWLER, A Dictionary of English Usage, Oxford University Press, New York 19652, (ed. Sir Ernest Gowers), S.v. “enhance”. Oltre la terapia 233 Più specificatamente, per questo discorso, il potenziamento starà a significare un intervento che va oltre i fini della medicina, come descritto sopra. Per la medicina, la distinzione tra il trattamento/potenziamento non può essere evitata, perché i medici giocheranno un ruolo centrale laddove le conoscenze della medicina saranno usate sia per riacquistare la salute sia per andare oltre a ciò che è richiesto per riacquistare la salute. In realtà, sono necessari specialisti delle scienze fisiche, biologiche e sociali e gli ingegneri se si vogliono realizzare anche le più semplici promesse delle biotecnologie; esse forniranno le basi conoscitive, scientifiche e tecniche dalle quali emergeranno i potenziamenti biotecnologici. Tuttavia, i medici hanno un ruolo cruciale nell’utilizzo vero e proprio di questa tecnologia sugli esseri umani. Da un lato, i medici saranno necessari nel disegnare e nel condurre i protocolli sperimentali e gli studi clinici. Essi scriveranno le prescrizioni per l’impiego, al di “fuori del foglietto illustrativo” di interventi di potenziamento, perché molti dei farmaci in questione sono stati inizialmente studiati per il trattamento di malattie specifiche. Il farmaco “Modafinil” è un chiaro esempio di questo tipo di processo. È stato studiato per il trattamento della narcolessia, un disturbo grave del sonno, ma già un gran numero di prescrizioni lo prevedono per altri usi, in altre parole, non per la narcolessia, quanto piuttosto per modificare il ciclo del sonno ed eliminare la sonnolenza di qualsiasi tipo36. Questa è la strada già intrapresa con gli steroidi anabolizzanti, l’eritropoietina ricombinante e le trasfusioni, intesi come potenzianti la performance negli sport competitivi37. In ciascuno di questi casi, l’iniziale uso a scopo terapeutico è esteso “oltre la terapia”. È chiaro che alcuni medici hanno già superato la distinzione tra il trattamento ed il potenziamento, tra l’uso indicato dalla medicina e l’abuso desiderato dal paziente. È giunto il momento, per i medici, di riflettere sulle implicazioni etiche del loro coinvolgimento negli usi delle biotecnologie. Le nostre considerazioni convergono su tre usi: 1) La terapia delle malattie; 2) il soddisfacimento dei desideri di pazienti e di non-pazienti per il potenziamento di alcune caratteristiche somatiche o mentali, o alcune condizioni che si desiderano perfezionare; 3) (più distanti nel tempo) il ridisegnare la natura umana e quindi il potenziamento delle specie, in futuro. 36 B. VASTAG, «Poised to Challenge Need for Sleep, ‘Wakefulness Enhancer’ Rouses Concerns», in Journal of the American Medical Association 291/2 (January 14, 2004), 167-170. 37 M. SOKOLOVE, «In Pursuit of Doped Excellence: Lab Animal», in New York Times Magazine, January 18, 2004, 28. 234 Edmund Pellegrino Il trattamento delle malattie Tra gli usi più promettenti delle biotecnologie, sono i recenti trattamenti di malattie nuove e vecchie, i più conformi ai fini clinici ed etici della medicina. La lista delle malattie bersaglio è lunga. Trovare trattamenti per queste malattie è un bene legittimo, desiderabile, individuale e sociale. In questi casi, il medico agisce nel suo ruolo, onorato nel tempo, di guaritore, con l’obbligo morale di essere sempre informato e preparato sull’uso di nuove tecnologie. Le questioni etiche sono in rapporto ai mezzi con i quali questi nuovi trattamenti sono sviluppati e applicati. Le manipolazioni genetiche, la cibernetica, la nanotecnologia e la psicofarmacologia in se stesse non sono né intrinsecamente né moralmente buone né cattive. In ogni modo, le procedure derivate dalla distruzione d’embrioni umani, la deviazione ed il superamento dei normali processi riproduttivi, la clonazione d’esseri umani e così via non sono moralmente accettabili, non importa quanto utili possano essere da un punto di vista terapeutico. Tali questioni sono l’essenza della bioetica, ma non saranno prese in considerazione individualmente. Tra i fini tradizionali della medicina, l’intenzione primaria è nell’uso delle biotecnologie per la cura di malattie fisiche o mentali. Non c’è dubbio che, curare o migliorare una sindrome morbosa porti secondariamente anche a potenziare la qualità di vita dei pazienti. Qui, però, il potenziamento sta nel ripristinare la salute o nell’alleviare i sintomi causati dalla malattia. Il paziente si sente “meglio” e riacquista le proprie capacità funzionali, forse ritorna allo stato primitivo di salute o addirittura ne acquisisce uno migliore (per esempio, dopo l’intervento chirurgico di riparazione del labbro leporino). Questo tipo di potenziamento fa seguito alla terapia ed è parte dei suoi scopi terapeutici; non è “oltre” la terapia, quanto un risultato di questa. Tutto ciò differisce dal potenziamento concepito come intenzione primaria. In questo caso, infatti, partiamo con qualcuno che non ha una malattia oppure un’ovvia malformazione corporea. La persona (paziente o non paziente) è considerata “normale”, nel senso classico del termine, però si sente insoddisfatta nei confronti di una parte della sua vita. Uno si sente svuotato e svantaggiato socialmente o insufficientemente competitivo per alcune caratteristiche mentali o fisiche. Una tale persona può volere aumentare il proprio stato fino a quello che ritiene sia un livello normale o raggiungere qualche cosa che si avvicini alla perfezione. I motivi, i fini e i mezzi del potenziamento, come intenzione primaria, sono moralmente variabili. Alcuni fini, così come desiderare bambini in salute, intelligenti e affettuosi sono più che comprensibili. Se i mezzi che portano a queste condizioni, in se stessi, non disumanizzano i loro soggetti, possono essere considerati dei fini legittimi della medicina e, in par- Oltre la terapia 235 ticolare, della medicina preventiva. Uno degli esempi potrebbe essere la manipolazione genetica per curare o prevenire malattie familiari. Al contrario, molte altre intenzioni si focalizzeranno altrove come, per esempio, sull’eccitamento dovuto all’andare più lontano, più velocemente e con maggiore costanza, nelle competizioni atletiche. Oppure il potenziamento potrebbe essere stimolato da un aumento dell’adrenalina, quando si comprende quanto il corpo e la mente umana possano essere spinti oltre i limiti stabiliti della normalità propria della specie. Un potenziamento di questo tipo diviene in se stesso un fine che va oltre il fine della guarigione della medicina, inteso in senso tradizionale. Qualcuno vorrebbe estendere il significato di paziente a qualsiasi persona infelice, di qualsiasi grado, con il proprio corpo, mente, anima o psiche. Questo vorrebbe dire “medicalizzare” qualsiasi aspetto dell’esistenza umana. Se i medici accettassero un potenziamento di questo tipo, nell’ambito del loro dominio, le conseguenze sociali sarebbero atroci. Il numero dei medici necessari andrebbe alle stelle, sarebbe compromesso l’accesso alle cure da parte dei malati; la ricerca e lo sviluppo diverrebbero perfino più commercializzati e industrializzati di quanto non lo siano già diventati. Le risorse per la ricerca sarebbero dirottate dalla terapia. Il dislivello per l’accesso alle cure, tra coloro in grado di pagare il medico e quelli non in grado di farlo, aumenterebbe. Trasformare i medici in terapisti del potenziamento è rendere la terapia un nostrum di felicità, non una vera impresa della guarigione. Inoltre, se un numero significativo di medici dovesse decidere, su basi etiche, che il potenziamento, come fine in se stesso, non è sotto la responsabilità del medico, la terapia a scopo di potenziamento potrebbe divenire un settore a sé stante “oltre” la medicina. Non è chiaro come questi nuovi terapisti si relazionerebbero con i pazienti e con i medici. Si tratterebbe semplicemente di quei medici desiderosi di collaborare? Si tratterebbe di persone provenienti da altri campi – come gli allenatori sportivi, gli psicologi, i neuropati – che si interesserebbero di un gruppo particolare di richieste di potenziamento? Cosa farebbero questi terapisti del potenziamento alla presenza di effetti collaterali seri, misteriosi, o potenzialmente letali? È verosimile che un rifiuto totale del potenziamento incontrerebbe una forte resistenza da parte della gente comune e dei professionisti. Il soddisfacimento dei desideri personali, la libertà di scelta ed una “qualità di vita”, per alcuni, sono divenute delle autorizzazioni irriducibili in una società democratica. Oggi pochi desiderano subire restrizioni sulle loro scelte di potenziamento. La pressione dei propri pari, la spinta di una società competitiva e la pressione dei mercati, gonfiata dai “bisogni” creati dalla pubblicità, saranno in grado di convincere molti medici ed eticisti che è inutile resistere. A causa dell’incessante ricerca, da parte della no- 236 Edmund Pellegrino stra società, della soddisfazione di tutti i desideri di questo mondo, molti converrebbero che il potenziamento è, o dovrebbe essere, parte delle responsabilità del medico – senza considerare cosa ne pensi la professione nel suo insieme. Le reali possibilità di dannosi effetti collaterali non costituiranno, verosimilmente, un deterrente. Molti già considerano questo positivamente. Già molte persone, volontariamente, affrontano la spesa e il fastidio della liposuzione, le protesi mammarie, l’iniezione dell’ormone della crescita e degli steroidi, l’infiltrazione della tossina botulinica e i ripetuti tentativi di FIVET. Molti, avidamente, pagano cinquecento dollari per una confezione di crema che ringiovanisce il volto. Il desiderio di correggere ciò che la natura, senza aiuti esterni, non ci ha fornito è forte e costante nella natura umana. Il confluire di una cultura centrata sul proprio ego e sostenuta dal consenso sociale, l’esempio dei propri simili ed una pubblicità più mirata produrranno una valanga di richieste. I medici saranno spinti a praticare il potenziamento per una serie di ragioni. Alcuni di questi vi vedranno solo il bene; alcuni lo accetteranno come un “trattamento” per l’infelicità e la depressione di cui soffrono coloro che non possono essere tutto ciò che vorrebbero essere. Altri sosterranno che è necessario il coinvolgimento dei medici per raggiungere la sicurezza e per consentire un migliore controllo degli abusi. «Quale sistema migliore per trattare l’intera persona?», aggiungerebbe qualcuno. «Non è forse il paziente colui che conosce, più di ogni altro, quale è il bene per se stesso?» Affermazioni come questa suggeriscono che la decisione di non potenziare potrebbe costituire una rottura del rapporto medico-paziente o del contratto che il medico stabilisce con la società. Il potenziamento risulterà appetibile all’interesse dello stesso medico. Si svilupperà sicuramente una clientela desiderosa e disposta a pagare. I pazienti saranno più bramosi di potenziare lo stile di vita che desiderano, piuttosto che trattare una malattia che non volevano contrarre. I medici possono dire di star facendo del “bene” ai loro pazienti, anche se in realtà stanno facendo del bene a se stessi. Non si può ignorare la possibilità e la probabilità di un grave conflitto di interessi da parte del medico. Le motivazioni economiche possono facilmente indurre il medico ad applicare un potenziamento di dubbio valore o di scarsa efficacia. Più nello specifico, per esempio, sarà il conflitto che coinvolge il medico della squadra che deve fare la sua parte per produrre una squadra vincente. Il potenziamento della performance atletica è applicato in tutto il mondo. I loro effetti collaterali dannosi sono ben noti. A cosa serve il medico? Al bene del paziente, al successo della squadra che gli paga lo stipendio o alla propria infatuazione per il successo atletico che può essere conseguito? Oltre la terapia 237 La domanda fondamentale circa il ruolo che il potenziamento ha sui nostri concetti riguardanti gli scopi della vita umana e la natura della felicità umana, saranno sepolti da una più immediata domanda di felicità, pienezza e tranquillità mentale38. L’enfasi moderna e post-moderna saranno sulle misure effettive di regolamentazione, tecniche migliori e medici competenti – non sulle restrizioni morali. Le restrizioni e la proibizione che vanno oltre la prevenzione degli abusi e degli effetti collaterali dannosi saranno, pertanto, alquanto improbabili. Coloro i quali riducono la libertà di scelta saranno visti come un pericolo alla realizzazione di una maggiore qualità di vita per tutti. Qualsiasi restrizione sarà interpretata come una violazione dell’obbligo del medico di rispettare l’autonomia del paziente o perfino la benevolenza. Molti di noi considereranno questi argomenti troppo capziosi se accolti, perché renderebbero la medicina schiava delle biotecnologie ed eroderebbero il suo ruolo più tradizionale di trattamento dei malati. Difficili saranno gli argomenti contrari, dati i potenti vettori di cambiamento dei nostri costumi culturali. Le speranze in un paradiso sulla terra sono, apparentemente, alla portata di molta gente che non crede più nella vita oltre la morte. Per codesti, ottenere il massimo dal potenziamento personale è un seducente surrogato. Reingegnerizzare la razza umana Creare una nuova specie umana e più perfetta è il più grandioso progetto dei fautori delle biotecnologie. Con la genetica, i meccanismi della cibernetica o la nanotecnologia, la speranza è quella di purgare le specie dai suoi mali storici e di bypassare le forze dell’evoluzione e della selezione naturale. Le aspirazioni hanno ridotto il titano Prometeo ad essere senza senso: non si tratterà di niente di così primitivo come il rubare il fuoco agli dei; semplicemente, l’umanità controllerà tutti i processi vitali e li modellerà secondo i propri desideri. In questo reingegnerizzare le specie, i medici, in quanto medici, avranno un ruolo sussidiario, forse come sperimentatori preliminari su piccoli campioni delle specie. Saranno chiamati a valutare gli effetti delle procedure o a trattare gli incidenti occorsi. Saranno verosimilmente sostituiti, quando i metodi di ingegneria saranno standardizzati e applicati a tutte le specie. Lo spazio di discrezionalità nell’applicazione delle conoscenze delle biotecnologie sarà notevolmente limitato dal grande piano, la cui configurazione saranno altri a determinare. Una volta perfezionate, le 3838 P.D. KRAMER, Listening to Prozac, Viking Press, New York 1993. 238 Edmund Pellegrino tecniche di potenziamento saranno facilmente attribuite ad una nuova professione per renderle più ampiamente disponibili. Il produrre una nuova specie non si conforma agli scopi di guarigione della medicina o alle sue preoccupazioni per gli ammalati. I soggetti che dovranno essere trasformati saranno soprattutto quelli delle generazioni future che non avranno altra scelta, se non quella di essere migliorati. Occorrerà tempo affinché i processi di cambiamento possano eliminare le ultime tracce dei difetti delle specie originali. Gli stessi medici saranno a loro volta dei soggetti, così come i loro successori. Qualsiasi apparenza di professionalità verrebbe eradicata dal sogno utilitaristico di una nuova specie, perfezionata secondo un nuovo modello di natura umana. Una volta che il modello è stato stabilito, non ci sarà più bisogno della funzione di discrezionalità del medico; piuttosto, essa rappresenterà un ostacolo al sogno utopistico. I motivi etici di una regolamentazione Daniel Callahan e Leon R. Kass, due dei cronisti più cauti dello scenario bioetico dei nostri giorni, hanno sollevato argomentazioni serie circa la regolamentazione dell’uso delle biotecnologie39. Qui di seguito alcune delle loro argomentazioni ed altre ancora. Le nostre questioni sono poste nei termini del bene medico e del bene per gli esseri umani. Può il potenziamento soddisfare le richieste morali della medicina che è quello di agire per il bene dei pazienti e il bene comune? Può il potenziamento servire il fine del bene per gli essere umani, in quanto umani? Una delle questioni etiche di cui si discute attualmente è la giustizia distributiva e quella sociale. Se il potenziamento fosse un bene per gli esseri umani, non dovrebbe essere disponibile e accessibile al numero maggiore di loro? I costi, indubbiamente, sarebbero notevoli e molti sarebbero esclusi per la mancanza di mezzi. Sta ai medici provvedere ai benefici putativi del potenziamento per pochi, che quindi, presumibilmente, possono competere con più successo con i non potenziati? Il concetto di “avere” e di “non avere”, allora, si estenderebbe alle caratteristiche personali che attribuiscono a qualcuno dei vantaggi sociali. Sarebbe accelerata l’attuale evoluzione della società in due classi. Coloro che non possono usu- 39 Es., Cf. D. CALLAHAN, «Visions of Eternity», in First Things 133 (May 2003), 2835; L.R. KASS, «Ageless Bodies, Happy Souls: Biotechnology and the Pursuit of Perfection», in The New Atlantis 1 (2003), 19-20. Cf. anche G. STIX, «Ultimate Self-Improvement», in Scientific American 289/Special Issue 3 (September 2003), 44. Oltre la terapia 239 fruire di menti o corpi potenziati sarebbero condannati ad una vita di ridotte opportunità o alla sottomissione virtuale – dove non reale – al volere dei “potenziati”. Possono la società o i medici condonare il consumo di risorse limitate per il potenziamento di pochi, quando molti, nel mondo, sono poveri, affamati e malati? Non esiste l’obbligo, verso gli esseri umani, di provvedere alle abitazioni, l’igiene e all’acqua pulita per molti, piuttosto che al potenziamento di pochi? Le implicazioni generali derivanti da questa cattiva distribuzione delle risorse umane, dovranno essere necessariamente affrontate. Può un mondo che progressivamente si unisce attraverso la comunicazione, l’informazione e l’economia tollerare pacificamente un’allocazione così sproporzionata delle sue risorse? In questo confronto, rifiutare la complicità in una tale squilibrata distribuzione delle risorse è una responsabilità morale del medico. Le conoscenze della medicina e le conoscenze specialistiche del potenziamento, in particolare, non sono una proprietà privata del medico. I medici hanno l’obbligo di utilizzare le risorse di una società in modo saggio come buoni amministratori, non come venditori di scarpe, il cui solo scopo è la soddisfazione del cliente40. Certamente, l’igiene, l’immunizzazione, l’accesso alle cure mediche necessarie devono avere la precedenza sull’urgenza del super atleta di guadagnare alcuni secondi sui quattro minuti impiegati in un miglio o un nuovo record di goal segnati in un anno. I miliardi spesi nel mondo per il potenziamento atletico rappresentano una vergogna rispetto alle priorità dell’umanità. Un’argomentazione forte e di rilievo sul dibattito riguardante la clonazione si può ugualmente applicare alla questione del potenziamento. Si tratta della ripugnanza, del sentimento intuitivo di disgusto e di repulsione che molti provano per l’arroganza, la superbia ed il culto personale che il potenziamento favorisce41. Sulla base dell’umanesimo, sia secolare sia religioso, la grande ossessione per se stessi (il corpo e la psiche) che principalmente motiva il potenziamento sarebbe, nella migliore delle ipotesi, indecente e, nella peggiore, un narcisismo patologico. I protagonisti del potenziamento si appoggiano molto sulla priorità dell’autonomia, per rigettare questioni come questa. Tuttavia, il potenziamento della memoria e dell’intelligenza, da parte di farmaci o elettrodi impiantati, potenzia o indebolisce l’autonomia? Non sottopone gli esseri umani a un maggiore controllo esterno? Predeterminare i nostri modi di agire, il comporta- 40 CALLAHAN, «Visions of Eternity». Cf. in particolar modo L.R. KASS, «The Wisdom of Repugnance», in New Republic (June 2, 1997), 17-26; KASS, «Ageless Bodies»; L.R. KASS - J.Q. WILSON, The Ethics of Human Cloning, AEI Press, Washington, D.C. 1998. 41 240 Edmund Pellegrino mento o le capacità verso un fine specifico necessariamente limita altri interessi, attività e stili di vita. Se la nostra progenie è stata geneticamente ingegnerizzata per assumere certi ruoli (atletico, intellettuale o artistico), risulterà esclusa da altri ruoli che richiederebbero attributi differenti. È ciò che veramente sceglierebbe? Il cyborg volente è veramente in grado di volere42? Questo tipo di “potenziamento” non sostituisce la libertà di scelta con la sottomissione all’egemonia del tecnobiologisti? Come C.S. Lewis descrive con la sua caratteristica precisione: «Ciascun nuovo potere ottenuto dall’uomo diviene un potere sull’uomo stesso»43. Sarebbe naturalmente ironico se il nostro desiderio intrattabile e insaziabile di libertà personale dovesse finire nella limitazione di alcune delle nostre più importanti libertà. C’è poi la questione della giustizia commutativa. Chi dobbiamo ricompensare, quando un cyborg, un atleta o uno studioso potenziato, o un soldato coraggioso ottengono dei risultati straordinari? Il farmaco, il chip, o l’apparato? L’inventore della modalità di potenziamento? L’inventore dell’idea? L’uomo ristrutturato? Chi ha il diritto di chiederne il credito? Chi ottiene il premio, la citazione, la medaglia, o il riconoscimento onorario? Riconoscimenti come il premio Nobel o le medaglie delle Olimpiadi devono essere riprodotti in multipli di sei o dodici per rendere giustizia a tutti? Più seriamente, cosa avviene del giusto orgoglio per aver ottenuto dei risultati, del merito o della virtù? Ci sono molti dubbi che il potenziamento primario possa essere un bene per gli esseri umani. Non ci renderà migliori come esseri umani, non ci farà più coraggiosi, comprensivi, giusti, gentili o altruistici. Verosimilmente, ci renderà più disumani. Non c’è, dopotutto, una relazione causale tra l’intelligenza, le capacità atletiche, artistiche e l’umanità. Piuttosto, il potenziamento di alcune delle capacità umane preferite, potenzierà soltanto la capacità di fare il male. La società sarà migliore quando un numero maggiore di suoi membri sarà più alto, più muscoloso e più intelligente? La crescita massiva di gruppi di caratteristiche popolari al momento, condurrà ad una divisione sociale, svalutazione, e dissenso da parte di coloro che scelgono tipi differenti di potenziamento oppure nessuno. Una società omogenea nella condivisione... progresso e originalità. Una società costituita da gruppi 42 H.J. ACHTERHUIS, «The Courage to Be a Cyborg», in C. MITCHAM (ed.), Research in Philosophy and Technology, vol. 17, Technology, Ethics, and Culture, Jai Press, Greenwich Conn. 1998, 9-24. 43 C. S. LEWIS, The Abolition of Man, Collier Books, New York 1962 [1947], 69. Oltre la terapia 241 che ricercano il potenziamento ma differiscono uno dall’altro nelle qualità che essi stessi preferiscono, favorisce la competizione distruttiva. Che dire della responsabilità morale e legale? Se risulta già difficile nel caso di successi conseguiti artificialmente, chi incolpiamo nel caso di insuccessi? Chi è responsabile del crimine, il cyborg o il chip impiantato? Quale è la responsabilità morale del medico o del tecnico che potenzi l’intelligenza rivolta al potere o alla tirannia piuttosto che al bene sociale? Hans Jonas e Jacques Ellul, due dei cronisti più acuti sui poteri della tecnologia e sul suo impatto sulle cose umane future, hanno sollevato la domanda fondamentale sulla responsabilità morale in modi particolarmente preveggenti44. Ad ogni modo, una società piena di persone esenti da malattie, che vivono indefinitamente in stati diversi di potenziamento, si troverà ad affrontare problemi insuperabili. La competizione per lo spazio, le opportunità di auto-espressione sconfiggeranno il vero scopo per il quale il potenziamento era stato introdotto. Occorrerà regolare l’accesso alle risorse. Regolamentare vorrà dire applicare delle restrizioni all’istinto di autodeterminazione che i post-umanisti cercano così intensamente. La vecchia domanda su chi decide su chi e come regolare, comparirà di nuovo e con essa l’altra dimensione della responsabilità. La visione di una specie umana migliore o migliorata consentirà una capacità di pianificare e progettare così bene da decidere quali caratteristiche potenziare, quali eliminare e quali non potenziare mai. La congettura è, spesso, quella che i più qualificati a fare queste scelte sono coloro che comprendono e controllano i mezzi tecnologici. Tuttavia, non c’è nessuna prova che gli scienziati siano migliori di altri nel decidere quale sia il bene per gli esseri umani in quanto umani. Supporre diversamente vuol dire cadere vittime dello scientismo e delle sue pretese ideologiche. Queste pretese erano evidenti nel 1963, quando le prime possibilità di potenziamento genetico cominciavano ad essere afferrate45. H. Jonas ha percepito il fatto irrefutabile che l’ingegnerizzazione di una generazione futura migliore «richiede un livello scientifico esponenzialmente più elevato di quello attualmente presente nella tecnologia dal quale dovrebbe essere estrapolato»46. La mancanza di questo requisito, indicato come “livello scientifico più elevato”, potrebbe portare alla speri- 44 Cf. H. JONAS, Imperative of Responsibility: In Search of an Ethics of the Technological Age, University of Chicago Press, Chicago 1984; J. ELLUL, The Betrayal of the West, Seabury Press, New York 1978. 45 G.E.W. WOLSTENHOLME (ed.), Man and His Future: A CIBA Foundation Volume, Little, Brown, Boston 1963. 46 H. JONAS, Imperative of Responsibility, 52. 242 Edmund Pellegrino mentazione massiva della trasformazione delle specie, che terminerebbe in un disastro delle specie piuttosto che nel potenziamento. La prescienza di Jonas cattura la nostra attenzione quando osserviamo due tecniche di potenziamento attuali: la nanotecnologia e la biologia dei sistemi. La nanotecnologia ha due fini, uno relativamente benigno, l’altro potenzialmente disastroso. Nel primo caso, i nanotecnologi costruiscono minuscoli motori robotici che, per esempio, sono in grado di far pervenire agenti chemioterapeutici in cellule tumorali, in modo selettivo. I nanotecnologi possono costruire nuove forme molecolari, quali la carbo-molecola buckyball, o nanotubi al carbonio con proprietà e forza straordinarie. In questa forma, la nanotecnologia è un’espansione molto sofisticata della scienza dei materiali con molte possibili applicazioni benefiche. L’altra direzione intrapresa dalla nanotecnologia è più radicale. Il suo scopo è quello di produrre macchine biologiche da pezzetti selezionati di molecole del DNA che potrebbero essere usate «per fare praticamente qualsiasi cosa l’uomo desideri»47. Questo risulta molto attraente per coloro che cercano di rifare completamente la natura umana e a dare agli uomini la possibilità di realizzare i loro sogni – cioè, una condizione di immortalità senza età e senza malattie. Questo comprende macchine molecolari in grado di auto-replicarsi48. Un’altra versione di questa nanotecnologia è la biologia sintetica, che utilizza frammenti di DNA per reingegnerizzare i circuiti genetici e quindi produrre molecole su ordinazione. Queste molecole potrebbero liberarci dalle sostanze inquinanti e permetterci di scoprire esplosivi o, come “biomattoni”, permetterci di fare dei microbi da trasformare in computer programmabili49. Il problema è che questi microbi fatti su ordinazione potrebbero sfuggirci, penetrare nell’ambiente, moltiplicarsi ed alterare estesamente il sistema ecologico della terra. In ogni modo, questi ed altri sforzi futuri di modificare la natura umana – cioè, i progetti dei trans-umanisti e post-umanisti – sono ben al di fuori delle finalità della medicina. Il bene morale della medicina clinica è nel bene del singolo paziente. Nulla, nella nostra esperienza sino ad ora giustifica la ricerca di tali utopistiche aspirazioni. Né c’è alcuna prova che, dove ottenibile, lo stato post-umano ci renderebbe più felici, migliori o più pacifici. Come Jürgen Habermas ha recentemente fatto notare, esi- 47 D. KEIPER, «The Nanotechnology Revolution», in The New Atlantis, 2 (2003), 17-34, 20. 48 E.K. DREXLER, Engines of Creation: The Coming Era of Nanatechnology, Anchor Books/Doubleday, Garden City, NY 1990 [1986, 1987]. 49 D. FERBER, «Synthetic Biology: Microbes Made to Order», in Science 303/5635 (January 9, 2004), 158-161. Oltre la terapia 243 stono delle difficoltà intrinseche nello sposare l’attuale interpretazione di una scienza buona e di una filosofia liberale, com’è stata tentata nelle nozioni dominanti della maggior parte dei biotecnologisti50. Messe insieme, queste credenze possono “tirannizzare” quanto liberare. Nonostante queste ammonizioni, per sfruttare la nanotecnologia per scopi medici si sta prevedendo la nascita di tutto un nuovo settore della nanomedicina51. La biotecnologia e la relazione medico-paziente Nel riflettere sull’opportunità che la medicina abbracci o meno le biotecnologie, e fino a che punto, si deve tenere in considerazione le modificazioni nella natura della relazione medico-paziente avvenute negli ultimi cinquanta anni, quando la medicina ha subito alterazioni da parte delle pressioni scientifiche, economiche e sociali di una tale estensione da dover essere ancora totalmente comprese. I medici sono stati spinti a diventare scienziati clinici, entrepreneurs, managers delle risorse, impiegati e avvocati della società, non di singoli pazienti. Come risultato, i pazienti sono stati trasformati in oggetti d’interesse tecnico, clienti, consumatori e sperperatori di fondi pubblici. Sebbene ancora valido per la maggior parte dei medici, il loro tradizionale ruolo di guaritori è stato seriamente ridimensionato. Poiché il dibattito su ciò che significa essere un medico continua, dobbiamo essere molto cauti per evitare che le opportunità biotecnologiche di potenziamento non continuino a corrodere ulteriormente la professione medica. In tempi in cui si ritiene che la professionalità sia profondamente in crisi, non è prudente accettare il nuovo ruolo di potenziatori di desideri personali ed idiosincratici. Aumentare e potenziare ogni aspetto di ciò che significa essere umani, non garantisce che noi saremo più umani. Essere migliori a far qualcosa, o più perfetti in alcune delle nostre caratteristiche non garantisce la felicità o la salute. Nonostante tutto questo, dobbiamo riconoscere che preminenti bioeticisti di convinzione “tecno-utopistica”, intravedono pochi problemi etici, perfino nelle più provocatorie tecniche di manipolazione cerebrale. Per esempio, un eticista preminente, Arthur L. Caplan, ha affermato: «Non vedo nulla di sbagliato nel cercare di potenziare e ottimizzare i nostri cer- 50 J. HABERMAS, The Future of Human Nature, Polity, Cambridge 2003 (trad. Max Pensky e William Rehq). 51 R.A. FREITAS JR., Nanomedicine, Volume 1: Basic Capabilities, Landesbioscience, Georgetown, Tex. 1999). 244 Edmund Pellegrino velli»52. Egli rifiuta la nozione secondo la quale il potenziamento di alcuni causerà svantaggi ad altri, che la manipolazione cerebrale ci renderà meno umani, o che saremo tutti soggetti a coercizione per seguire l’allettamento del potenziamento. Pillole intelligenti, miglioramento della memoria e possibilità di “scaricare” il contenuto del nostro cervello in un computer (il potenziamento primario) non è la stessa cosa che usare occhiali, impianti protesici dell’anca o l’insulina. Questioni di questo tipo hanno già generato una nuova sottobranca della bioetica chiamata “neuroetica” che ha che fare, in maniera specifica, con problemi che emergono dalla manipolazione cibernetica, elettromagnetica e farmacologica del cervello umano. Le questioni etiche del potenziamento cerebrale assumono un particolare significato morale a causa della stretta associazione delle funzioni cerebrali con il pensiero, la personalità, il libero arbitrio e il comportamento 53. Metodi sofisticati di imaging cerebrale sembrano suggerire una base biologica per la mente, l’anima e la psiche, riportandoci alla speranza di Cartesio di trovare l’anima nella ghiandola pineale. Pur ammettendo che l’anima non si trovi nella ghiandola pineale, molti utilizzano le nuove evidenze scaturite dalla neurofisiologia per sostenere un riduzionismo monista e materialista della natura umana come epifenomeno della complessità della sua struttura molecolare. Questa è la risposta modernista e umanista secolare alla domanda del salmista, «Cos’è l’uomo?» (Salmi 8 e 144). È questa una risposta difendibile alla domanda del President’s Council on Bioethics per “una bioetica più ricca”, fondata su una migliore comprensione di cosa significhi essere umano54? Per l’umanista secolare, il riduzionismo materialista monista è sufficiente come punto di riferimento finale per il giudizio e per l’indagine, non soltanto per il potenziamento, quanto per tutte le questioni bioetiche. Questa idea di umanità è, naturalmente, direttamente in conflitto con l’antropologia filosofica e teologica della cristianità. Le antropologie dell’umanista secolare e dell’umanista cristiano sono in un’opposizione ancora più forte di quanto non siano mai state prima. Questa dissonanza è ulteriormente aggravata da attacchi recenti su un principio morale centrale dell’etica cristiana, il principio della dignità umana. Ruth Macklin, bioeticista, ha brevemente affermato che la dignità è «un concetto inutile». Sostiene che è «vago e senza speranza» e troppo strettamente correlato 52 A.L. CAPLAN, «Is Better Best?», in Scientific American 283, Numero Speciale, no. 3 (September 2003), 104-105. 53 Ibid. 54 PRESIDENT’S COUNCIL ON BIOETHICS, Being Human. Oltre la terapia 245 alle sue origini religiose, particolarmente quelle della Chiesa Cattolica Romana. Un altro autore, Matti Hayry, afferma che esistono quattro significati della “dignità” che competono e entrano in conflitto tra di loro – cioè, quello cristiano e cattolico romano, quello kantiano, quello genetico, e quello espresso nella Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite55. L’autore sostiene che, nel caso l’uno o l’altro di questi significati divenisse dominante, il termine “dignità” diverrebbe antiegalitario56. Entrambi le opinioni di questi eticisti sono l’estrapolazione di una tendenza forte in bioetica di screditare qualsiasi nozione che attribuisca uno stato morale unico agli esseri umani ad eccezione di quello dell’autonomia. La capacità di autogovernarsi è proposta da entrambi questi eticisti per superare quello che considerano essere una base più importante per la bioetica rispetto alla dignità. Non è questo il luogo per esprimere la contraddizione logica e la pochezza morale di una tale distorsione di un concetto così fondamentale come quello della dignità umana57. Questi attacchi alla dignità umana, se avranno successo, sicuramente renderanno frustrante qualsiasi nozione circa una bioetica “più ricca”. Al suo posto, possiamo aspettarci un culto di se stessi e un egoismo, edonistico, utilitaristico e moralmente cambiato. Il potenziamento e il medico cristiano Fino a questo punto, le considerazioni sulle questioni etiche riguardanti il potenziamento ci hanno portato a ciò che si può accertare con l’uso della ragione umana che, nel contesto della bioetica attuale, non trova una definizione condivisa su cosa significhi essere umano. Per i medici cristiani, la discussione inizia altrove e, precisamente, dove le visioni secolari di 55 Cf. UNITED NATIONS, International Bill of Rights, 1966, Incorporating the Universal Declaration of Human Rights, 1948, with the International Covenant on Economic, Social, and Cultural Rights and the International Covenant on Civil and Political Rights. Entered into force January 3, 1976. Background reported in Office of the UN High Commissioner for Human Rights, Fact Sheet 2, June 1996, in http://www.unhchr.ch/the menu6/2/Ps2.htm. 56 Due attacchi recenti alla dignità del concepito sono venuti da R. MACKLIN, «Dignity Is a Useless Concept» (ed.), in British Medical Journal 327/7429 (December 20, 2003), 1419-1420; M. HAYRY, «Another Look at Dignity», in Cambridge Quarterly of Health care Ethics 13/1 (2004), 7-14. 57 Cf. C.B. MITCHELL - E.D. PELLEGRINO - J.B. ELSHTAIN - J.F. KILNER - S.B. RAE, Biotechnology and the human good, Georgetown University Press, Washington, DC 2007, 32-57. 246 Edmund Pellegrino tipo liberale si dividono – cioè, su un concetto di umanità, su un’antropologia filosofica e teologica, sulle quali è basato tutto il discorso morale. Abbiamo assistito ad un confronto aperto con l’antropologia cristiana che offre la sola speranza reale di limitazione morale dell’alta marea di infatuazione circa il potenziamento degli individui e delle specie. Ciò che è fondamentalmente differente nella nozione cristiana di umanità, è il suo fondarsi nell’ordine trascendente della Creazione e nella moralità. La fonte della dignità umana è il suo stato morale speciale e ciò che lo spiega è Dio, il quale si è rivelato attraverso le Scritture, gli insegnamenti della Chiesa, la tradizione e le pratiche dei Cristiani. Queste sono riflessioni sulla Legge Divina, di cui solo una parte è disponibile alla ragione umana, senza l’aiuto della Rivelazione. Pertanto, la ragione umana può costituire le basi di un’antropologia filosofica che sarà sempre incompleta senza l’introspezione che nasce da un impegno di fede. Nulla nella storia del pensiero umano è in grado di convalidare la nozione che la ragione, non aiutata, possa sondare tutto il mistero dell’umanità. La natura spirituale dell’umanità e il suo destino possono essere afferrati in modo sufficiente, comunque, per fornire una guida affidabile con la quale possono essere giudicati la qualità morale del potenziamento e il loro rapporto al bene degli uomini. Più cerchiamo, più profondo diventa il mistero, così come evidenziano chiaramente le domande che si trovano nell’Ecclesiaste e in Giobbe. Tuttavia, più cerchiamo, più apprezziamo come l’animo umano sia più grande del risultato della complessità emergente dalla materia. Donne e uomini di fede sapranno che la macchia del Peccato Originale non può essere eliminata dai microchip, la nanotecnologia o le metamorfosi dei cyborgiani. Neppure cercheranno la salvezza nella redenzione utopistica che si trova nella superbia umana. Piuttosto, capiranno che i doni della scienza e della tecnologia sono buoni solo se rendono l’umanità buona e più consapevole della presenza creatrice di Dio, in ciascuna meraviglia che la scienza va scoprendo. I credenti non sono disposti a cedere la loro fede o il loro destino ai biotecnologi o a vendersi per il guazzabuglio di una zuppa di potenziamenti. La medicina e i quattro livelli di bene Dai Cristiani il potenziamento non deve essere temuto né adulato. Le possibilità della nuova biologia devono essere utilizzate per il bene dell’uomo, non per la deificazione dell’umanità. La medicina, in quanto medicina, può comprendere soltanto il bene medico, quello che è diretto alla risoluzione delle malattie e all’alleviamento delle sofferenze causate delle malattie e suscettibile dell’applicazione delle conoscenze della medicina. Questo è l’unico bene al quale la medicina può indirizzare se stessa Oltre la terapia 247 in maniera autorevole. Ci sono altri tre livelli di bene umano, oltre alla medicina. In ordine crescente, essi sono: 1) il bene personale, percepito dal paziente all’interno del contesto esistenziale della sua stessa vita; 2) il bene del paziente, come essere umano, inteso come un essere avente una sua natura; 3) il bene spirituale, quello definito dal destino spirituale di una persona, che è l’unione con Dio58. Per poter guarire, la medicina ha bisogno di tenere in considerazione tutti e quattro i livelli, sebbene il suo dominio particolare è nei confronti del bene situato più in basso – il bene medico. La medicina si deve basare sulle scienze psicosociali e le scienze umanistiche per comprendere il bene personale; sulla filosofia, per comprendere il bene per gli esseri umani intesi come esseri aventi una propria natura e sulla religione, o uno dei suoi sostituti, per quella fame di immortalità che, frequentemente, è oscurata dalla richiesta di perfezione esistente nel mondo. Resistere alla tentazione spirituale del “super potenziamento” Per i Cristiani, il potenziamento primario sarà sempre una tentazione causata dall’orgoglio, la stessa tentazione alla quale hanno ceduto Lucifero e Prometeo e sono morti. La Redenzione dell’umanità non può venire dagli uomini, soltanto da Dio. La fede non può riposarsi in attesa della promessa utopistica in questo mondo, ma non può neppure disperarsi. Con la fede vengono la speranza e la carità e la felicità nell’amore di Dio e nell’umanità, anche in un mondo imperfetto. Il “super potenziamento” e il nuovo “post-umanesimo” sono disastrose distrazioni spirituali dalle ragioni per le quali siamo stati creati. Si tratta di sfide alla sovranità di Dio su di noi, alle Sue ragioni della nostra creazione e la negazione dell’indispensabilità dell’Espiazione e della Resurrezione. La perfezione cui siamo chiamati è la perfezione delle nostre vite morali e spirituali – una perfezione che possiamo cercare in maniera solo asintotica sulla Terra. Sì, noi siamo gli amministratori dei nostri corpi. Sì, dovremo utilizzare la tecnologia in modo saggio e bene. In questo seguiamo l’esempio di Gesù guaritore e la sua missione. La guarigione va sempre intesa all’interno della Sua più grande missione. Non è stata mai per perseguire il culto pagano di idolatrare il corpo che tanto domina la cultura di oggi. Il Cristiano non è né un asceta manicheo né un narcisista dionisiaco. Gesù si era incarnato in un corpo come il nostro. L’esempio che noi utilizziamo, ai fini di un “uso appropriato” dei nostri corpi, si basa su una 58 E.D. PELLEGRINO - D.C. THOMASMA, For the Patient’s Good: the Restoration of Beneficence in Healthcare, Oxford University Press, New York 1988. 248 Edmund Pellegrino teologia cristologica del corpo59. Questa teologia è sempre più in difficoltà nei riguardi della percezione ateistica di un’esistenza umana perfettibile, senza Dio. Entrando nell’era trans-umanista e post-umanista, la possibilità di una qualche sintesi tra la visione scientifica e la visione cristiana dell’umanità risulta alquanto remota60. La visione cristiana è chiaramente in difficoltà con l’ottimismo biotecnologico. La conoscenza umana è un bene perché è sinceramente una ricerca di Dio. Tuttavia, può essere utilizzata allo stesso modo, per la distruzione dell’umanità. Martin Rees, astronomo reale del Regno Unito, ha suggerito che le probabilità che l’umanità sopravviva in questo secolo non sono superiori al 50%, soprattutto per la possibilità di tragedie di massa che originano da un uso errato o dall’abuso dei nostri nuovi poteri61. L’umanità è più del risultato della selezione naturale e della sua dotazione genetica. Siamo destinati a molto di più che alla soddisfazione dei nostri bisogni personali edonistici. Il Paradiso per i Cristiani non è fatto dall’uomo, un paradiso terreno dovuto a prestidigitazione chimica o biologica. È l’unione con Dio e la gioia di fare la sua volontà, non la nostra. Solamente in quella unione finale con Dio, in un corpo glorificato dalla resurrezione, può essere soddisfatta l’insaziabile fame che spinge gli essere umani al potenziamento. Ellul ha riconosciuto che è inevitabile una «collisione frontale tra l’uomo che vuole essere se stesso, e Dio che, anche, vuole che l’uomo sia se stesso». Continua dicendo che «la difficoltà è che “se stesso” non significa la stessa cosa in entrambi i casi; infatti un significato contraddice l’altro» 62. Questo è anche, nello stesso preciso modo, ciò che i più estroversi fautori dello scientismo hanno riaffermato63. Si tratta di una forte negazione della riconciliazione nella quale molti avevano sperato64. Coloro che promuovono o richiedono il potenziamento soffrono di ciò che Robert Burton, circa cinquecento anni fa, ha definito “melanconia”, descritta come «uno stato mentale nel quale un uomo si sente così lonta- 59 B.M. ASHLEY, Theologies of the Body: Humanist and Christian, Pope John Center, Braintree, Mass. 1995. 60 F.L. SHULTS, Reforming Theological Anthropology: After the Philosophical Turn to Relationality, Eerdmans, Grand Rapids 2003. 61 M. REES, Our Final Hour, William Heinemann, London 2003. 62 ELLUL, Betrayal of the West, 77. 63 P. KUNZ - B. KARR - R. SANDHU (eds.), Science and Religion: Are They Compatible?, Prometheus Books, Amherst, N.Y. 2003). 64 S.M. BARR, «The Story of Science», in First Things 131 (2003), 16-25. Oltre la terapia 249 no dal suo ambiente che la vita ha perso ogni sua dolcezza»65. L’antidoto di Burton era una «vita dedica al prossimo, attiva e non egoistica». La “melanconia” non è una malattia che si possa curare con i farmaci o attraverso l’impianto di chip computerizzati. È una malattia dell’anima, per la quale esiste soltanto un rimedio: la redenzione dell’umanità da parte del Dio fatto uomo, non la redenzione dell’umanità da parte degli uomini. La sete innata dell’umanità di una felicità perfetta è la sete di Dio. Essa può essere soddisfatta dall’amore di Dio, in questo mondo, oppure dall’unione con Lui nel prossimo, oppure sarà riempita con dei surrogati, quei tentativi infiniti di farsi migliori del Creatore. Conclusione I medici cristiani non dovrebbero temere né adulare le biotecnologie. Come Sirach scrive, dovrebbero comprendere che: Il medico acquisisce la sua sapienza da Dio [...]. Egli dona agli uomini la conoscenza per dare Gloria al suo possente lavoro attraverso il quale il dottore riduce il dolore e il farmacista prepara le sue medicine. Pertanto lo Spirito creativo di Dio continua senza mai cessare (Sir 38, 2.6-8). È troppo presto per tentare di delineare dei confini specifici circa l’uso delle biotecnologie e, specialmente, dei potenziamenti, da parte dei medici cristiani. Ovviamente, il potenziamento della vita dei pazienti quale risultato del trattamento di malattie, è da considerarsi ben all’interno dei fini della medicina. L’unico requisito è che i mezzi usati non violino le limitazioni di ordine morale. Infatti, in questa categoria, esiste l’obbligo morale di utilizzare tutta la conoscenza che il medico possiede per consentire di curare, risanare, mitigare o prevenire le malattie. Quando il potenziamento costituisce l’unica intenzionalità nell’uso delle biotecnologie, quando non esiste una malattia, ma soltanto il desiderio di raggiungere la perfezione, l’immortalità, la super performance, un margine competitivo, e così via, ci sembra che possa esserci soltanto una giustificazione minima per il medico che vi partecipi e delle buone ragioni morali per escluderne la partecipazione. Quando i motivi sono chiaramente l’orgoglio, il narcisismo o la ricerca della “felicità” o dell’immortalità, i medici cristiani non possono giustificare la loro cooperazione. Quando è 65 R. EURTON, The Anatomy of Melancholy, Tidor Publishing, New York 1955 [1621]. 250 Edmund Pellegrino presente anche il pericolo di effetti collaterali, la partecipazione dovrebbe essere preclusa dal fine della medicina, che è il bene del paziente, perfino quando il paziente è disposto a correre il rischio di subire un male. In ogni caso, i medici cristiani verificheranno tali questioni dalla prospettiva dei propri valori cristiani e dall’immagine dell’umanità – quei fondamenti verso i quale altri possono tendere, e dai quali, invece, il Cristiano inizia66. Papa Giovanni Paolo II ha posto l’intera questione del credere cristiano e della tecnologia in termini personali molto forti: Bisogna convincersi della priorità dell’etica sulla tecnica, del primato della persona sulle cose, della superiorità dello spirito sulla materia (cf. Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 16). La causa dell’uomo sarà servita se la scienza si allea con la coscienza. L’uomo di scienza aiuterà veramente l’umanità se conserverà il senso della trascendenza dell’uomo sul mondo e di Dio sull’uomo 67. 66 E.D. PELLEGRINO, «Bioethics and the Anthropological Question», Geneva Lecture Series Lecture and Colloquium, University of Iowa, Iowa City, (April 8, 2005). 67 GIOVANNI PAOLO II, Costituzione Apostolica Ex Corde Ecclesiae, n. 18 (15 Agosto 1990); GIOVANNI PAOLO II, «Discorso durante l’incontro con scienziati e rappresentanti dell’università delle Nazioni Unite», in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IV/1, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1981. Maria Paglia Il post-umano: traguardo della genetica odierna? Mio intento con questo saggio è quello di suscitare alcuni spunti di riflessione, o anche solo delle curiosità, su un tema che a me pare di estrema attualità, e che, soprattutto, mi sembra richiedere con urgenza uno sforzo di pensiero: il futuro dell’uomo. Quello che cercherò di presentare è un qualcosa che non riguarda immediatamente l’oggi, ma il “domani”, il “come saremo” in un futuro non troppo lontano e come potrebbe mutare il concetto stesso di uomo in una prospettiva post-umanistica o postumana. Come in un gioco di ruolo possiamo provare ad immaginare situazioni e ambienti futuri, scenari che ci vedono confrontarci con intelligenze artificiali, cyborg, esseri modificati, uploading ed altri tipi di realtà, a cui tutta una filmologia recente e meno di recente ci ha ormai abituato. Basterà ricordare da un lato Tetsuo: the iron man, del regista giapponese Shinya Tsukamoto (1989) e la serie di Matrix (a partire dal 1999) e dall’altro Intelligenza Artificiale di Spielberg (2001). Sarebbe però un errore pensare che tutto ciò sia solo virtuale e riguardi solamente una realtà fantascientifica; e cioè una situazione immaginabile, pensabile, ma non reale, né realizzabile; né più né meno come una chimera (vedremo poi che le chimere esistono, eccome!). I recenti richiami in questo senso di Leon Kass, già presidente del President’s Council on Bioethics, e di Francis Fukuyama consigliere scientifico di Bush, vanno presi in seria considerazione1. Eppure, proprio questa sicurezza (pensare che le chimere non siano per definizione possibili), proprio questa rassicurante gnoseologia, è il primo pericolo che incontriamo sul nostro cammino allorché proviamo ad immaginare il nostro futuro alla luce delle odierne biotecnologie e dei risul- Cavaliere della Repubblica, Filosofa, Comitato Nazionale di Bioetica, Italia Cf. «Biotecnologie, la fine dell’uomo», in Corriere della Sera, 9 marzo 2005, trad. it. dalla rivista Foreign Policy (settembre/ottobre 2004). 1 252 Maria Paglia tati già ottenuti. Indipendentemente da come sarà effettivamente il nostro futuro, sarebbe imperdonabile se, sulla base di ciò che sta già accadendo nei laboratori di mezzo mondo, pensassimo che stiamo parlando di uno scenario futuribile come se ne potrebbe parlare in un film o in un gioco. Questo futuro, il nostro futuro, lo stiamo costruendo adesso! Questo deve essere l’orizzonte del nostro impegno morale. Dopo Jonas sappiamo che la nostra responsabilità deve essere lungimirante, che la nostra ignoranza non è innocente2. Come in una partita a scacchi tanto più si è abili quante più mosse si riescono a prevedere, così tanto più si è raffinati moralmente quante più conseguenze dei propri atti si riescono a calcolare, tanto più si è responsabili quanto più si vede lontano e tanto più saremo moralmente colpevoli quanta minor attenzione e conoscenza avremo prestato circa le conseguenze delle nostre azioni. Chiudersi nell’ignoranza – è sempre stato, ma in questo caso lo è ancor di più – una grave colpa. Non voglio dire che il futuro è predeterminato, tuttavia, indipendentemente da come esso sarà per noi e per le prossime generazioni, indipendentemente da preferenze e giudizi di valore dobbiamo avere ben chiaro che oggi, come mai prima d’ora, l’uomo sta costruendo il proprio futuro; e non solo lo fa come sempre è accaduto, determinando con le proprie scelte, più o meno consapevolmente, scenari politici, qualità e stili di vita, nuovi orizzonti culturali, nuovi spazi ominizzati, nuove fedi o ideologie, nuovi rapporti sociali, ecc., determinando novità più o meno grandi, e tuttavia sempre restando all’interno di un orizzonte umano, immanente o trascendente qui poco importa; l’uomo sta oggi costruendo un futuro (o è in grado di costruire un futuro) in cui la novità (il futuro) è costituire se stesso, come passato. Il futuro che ci si prospetta è, quindi, radicalmente diverso dal futuro delle generazioni passate, poiché ciò che diviene passato non sono le generazioni di uomini, ma l’uomo stesso. La misura temporale che sembra essere propria di questo passaggio non è quella di un cambiamento rapido, ma di un cambiamento che si accelera rapidamente! Un cambiamento rapido, una rivoluzione, cui la storia dell’umanità è stata spesso sottoposta, è come un passaggio di livello, i protagonisti passano, anche se non tutti, da un livello ad un altro. In un cambiamento che si accelera rapidamente il punto di approdo è un altro cambiamento. È impossibile qualsiasi previsione. In via preliminare teniamo fermi questi tre momenti: il presente che stiamo vivendo porta già in sé i germi del futuro; il futuro che si sta preparando può rendere obsoleto l’uomo stesso; 2 Cf. H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it., Einaudi, Torino 1990. Il post-umano 253 - il passaggio dal presente al futuro rischia di sfuggirci completamente di mano, una volta innescati alcuni meccanismi. Detto questo come premessa, prima di procedere, è opportuna un’analisi delle forze in campo. Post-umano e post-umanesimo E in primo luogo dobbiamo precisare cosa si deve intendere per postumano e post-umanesimo. Lo faremo in modo contrastivo, ponendo cioè a confronto il post-umanesimo e il post-umano con il postmoderno e con l’umanesimo, onde cogliere la peculiarità (e vedremo se c’è) del prefisso e del sostantivo che concorrono a formare questo neologismo, questa parola d’ordine del nostro tempo. Il prefisso “post” è stato utilizzato più volte in questi ultimi decenni per coniare termini che sono diventati vere e proprie parole d’ordine; in particolare esso è stato usato per formare la parola post-moderno, ma si è parlato anche di post-cristianesimo (società post-cristiana), di post-illuminismo, post-naturalismo, di epoca post-industriale, anche di post-rock e così via, poiché tutto, in qualche modo, è candidato al post. Le parole in “post” sono sicuramente tra le più frequenti nel vocabolario della contemporaneità. In qualche modo si ripete oggi ciò che in un altro grande periodo di trasformazione e cambiamento, il XVII secolo, era accaduto con l’aggettivo nuovo. In entrambi i casi, allora ed oggi, ciò che si intende esprimere è il cambiamento, meglio, la percezione e la consapevolezza del cambiamento. Sennonché, mentre con il nuovo si prospettava un superamento dell’antico (la contrapposizione era tra antiqui e moderni), superamento dell’antico che era o liberazione dall’antico, lo scrollarsi di dosso un giogo, l’abbattere le pareti di una stanza per troppo tempo chiusa (è questa un’espressione di Keplero), o utilizzazione dell’antico (la metafora usata da Francis Bacon dei nani sulle spalle dei giganti esprime bene questo atteggiamento) per andare al di là, ma sempre in vista dell’edificazione di un regnum hominis – il superamento delle colonne d’Ercole, rappresentato nel frontespizio del baconiano Novum Organum ne costituisce l’emblema –, ciò che oggi si intende esprimere con il post è piuttosto una fine che un principio, una consumazione non una speranza, la fine di un’illusione non l’alba di un nuovo giorno. Postmoderno è proprio questo riconoscere conclusa l’esperienza della modernità, è un collocarsi dopo quell’esperienza senza gli obiettivi o le illusioni. È la fine di un mondo di valori e di certezze, cui non si contrappongono nuove certezze, ma piuttosto sfiducia verso qualsiasi certezza, in altre parole è l’avvento del pensiero debole. 254 Maria Paglia Se questa lettura del postmoderno è esatta allora il post-umano e il postumanesimo non si inseriscono o non si inseriscono del tutto all’interno di questo paradigma: il post-umano, infatti, come ora diremo in modo più articolato, preconizza un superamento, non un ripiegamento, il futuro contiene veramente un novum assoluto. Tuttavia il post-umano condivide con il postmoderno la messa in crisi di categorie filosofiche ereditate dal passato, in particolare le classiche contrapposizioni, quali natura/cultura, soggetto/oggetto, organico/inorganico, reale/virtuale ecc. L’Uomo, inteso tanto come singolo quanto come genere umano, ha imparato a guardare a se stesso non più come un fatto, ma come un da fare. In questa temperie culturale, filosofi, scienziati ed anche artisti di provenienza diversa si sono ritrovati a pensare in modo assolutamente originale il futuro dell’uomo, aprendo un nuovo ambito per la riflessione e coniando un nuovo termine per definirlo: post-umano. In via preliminare possiamo a questo punto dire che con post-umano si è soliti definire gli esiti estremi di una nuova filosofia, per la quale la natura biologica dell’uomo, ivi compreso il cervello, non costituisce il limite delle possibilità dell’essere umano. Anzi, per questa filosofia, la natura umana può o addirittura deve essere superata attraverso l’implementazione sul corpo biologico umano di protesi tecnologiche. D’altro lato, radicalizzando questa prospettiva, ed estendendola a tutti gli aspetti della natura su cui si è rivelato possibile l’intervento dell’uomo, si potrebbe dire che il post-umano, enfatizzando la figura dell’ibrido, nega la centralità dell’uomo nella natura e la divisione tra natura e cultura, che contraddistingueva l’umanesimo moderno. In questo modo il post-umano è un post-umanesimo. Abbiamo detto degli ambiti disciplinari diversi; in realtà, il filone postumano appare come il frutto di un percorso comune ad alcuni degli ambiti più originali della ricerca scientifica e tecnologica del Novecento: si pensi all’avvento della cibernetica e dell’intelligenza artificiale e alla sua importanza per lo sviluppo di un altro settore tecnologico in espansione: la robotica. A questi filoni di ricerca si aggiungono poi gli sviluppi delle nuove tecnologie informatiche in settori come le telecomunicazioni, in particolare internet e le reti informatiche (ricordiamo il passaggio da collettivo a connettivo) fino alla “riconfigurazione sensoriale” di Derrik de Kerckhove, allievo di McLuhan3. Altre suggestioni futurologiche sono giunte ai post-umanisti dalle nanonotecnologie, con le loro macchine molecolari, cui viene attribuito un ruolo fondamentale nella ridescrizione del rapporto organico/inorganico, natura/cultura. Infatti, la scala della materia su cui intervengono i nano- 3 Cf. D. DE KERCKHOVE, Brainframes, Baskerville, Bologna 1993. Il post-umano 255 tecnologi è talmente microscopica da respingere la distinzione tra organico e inorganico, per cui i prodotti delle nanotecnologie costituiscono in un certo senso la definitiva uscita dalla mera speculazione filosofica e l’ingresso in una nuova antropologia; il vero ponte tra la filosofia degli ibridi professata dai post-umanisti e la sua materializzazione. Fondamentali altresì, nella costituzione del pensiero post-umanista, sono gli sviluppi delle scienze biologiche, in particolare della genetica, con la scoperta del DNA. In questo settore, infatti, sono nati nuovi ambiti di sperimentazione, tra cui spicca il settore del transgenico. L’agricoltura diventa così il grande laboratorio mondiale dell’ingegneria genetica. Sul terreno dell’agricoltura crolla lo iato tra natura e cultura: l’oggetto della trans-genetica è artificiale o naturale? Il seme, che l’ingegneria genetica dota di nuove trans-qualità è naturale o artificiale? Non dimentichiamo anche di citare l’humus socio-politico da cui trae il nutrimento il post-umanesimo: il filone di pensiero è quello neoliberista americano di questi ultimi anni, con riferimenti marcati al darwinismo sociale, tutto proteso verso la libertà d’impresa e la rivendicazione da una parte di sempre meno vincoli (la deregulation) e dall’altra di libertà maggiori nelle opzioni di aggregazioni e manifestazioni di pensiero attraverso i canali telematici. Le conseguenze sull’uomo e sull’umanesimo Ora – dopo questo quadro d’insieme sugli elementi che hanno portato alla nascita del post-umano – torniamo a noi con una domanda. La capacità di intervento dell’uomo grazie all’ingegneria genetica cosa comporta per l’uomo stesso, nel momento in cui soggetto e oggetto coincidono, nel momento in cui l’uomo stesso diventa il luogo dell’applicazione delle tecniche trans-genetiche? Due soluzioni spiccano nella prospettiva postumanistica. Una prima ipotesi prevede che l’uomo, grazie all’implementazione, e quindi non più soltanto l’uso, delle nuove tecnologie sul corpo biologico possa emanciparsi sempre più dalla cieca ed eterodiretta azione casuale dell’evoluzione, costringendola a misurarsi con i suoi scopi ed obiettivi. In questa visione ottimistica, l’uomo si trasforma in un cyborg in grado di far fronte sempre meglio alle richieste del proprio ambiente. In questa prospettiva l’uomo vedrà non solo migliorare le proprie condizioni di vita, ma, grazie allo sviluppo di nuove potenzialità, connesse all’ibridazione del proprio corpo cyborg, vedrà aumentare i modi in cui la sua umanità può esprimersi. Una seconda ipotesi più pessimistica, ma non per i trans-umanisti – movimento estremista del post-umano – prevede o, comunque, non esclu- 256 Maria Paglia de, la possibilità che l’azione combinata delle tecnologie hi-tech e bio-tech, determini la nascita di una nuova specie artificiale, più adatta di noi alla sopravvivenza e capace di soppiantarci senza troppi scrupoli4. Siamo ora in grado di instaurare con più cognizione di causa un confronto tra il post-umanesimo/post-umano e l’umanesimo. L’umanesimo aveva sì collocato l’uomo al centro. Ma la centralità dell’uomo nell’umanesimo è più una centralità morale che una centralità teleologica. L’uomo dell’umanesimo è, infatti, al centro soprattutto perché responsabile, egli è centro di se stesso, non del mondo, è in qualche misura autonomo, pur in un orizzonte che non cessa d’essere teologico. Si prenda quello che è stato considerato giustamente, seppur spesso frainteso, il manifesto dell’umanesimo: il De hominis dignitate di Pico della Mirandola. L’uomo è l’unica creatura (e su “creatura” si dovrà insistere) cui Dio non ha dato una natura predefinita, a lui al quale Dio ha dato in dono tutti i semi, dai quali nascono le altre creature viventi, spetta di divenire bruto o angelo e innalzarsi fino all’incontro mistico unitivo con Dio, toccherà a lui scegliere se incamminarsi attraverso quell’itinerarium mentis in Deum, di cui Pico offre sei varianti, ciascuna scandita da quattro momenti o precipitare a livello dei bruti. L’uomo camaleontico di Pico artefice della sua natura, della sua natura morale, è tutto inscritto, con aperture verso tutta la storia del pensiero (pensata come una pia philosophia), in un orizzonte teologico. È, infatti, l’unione con Dio, la sua compiuta realizzazione5. Il post-umanesimo si pone come un’estensione dell’umanesimo da cui dice di trarre le radici: gli umanisti sostenevano l’importanza del singolo essere umano, del pensiero razionale, della libertà, della tolleranza, concetti questi tutti ripresi, ma vi si aggiunge qualcosa di diverso. Una forte enfasi viene posta su quello che, potenzialmente, potremmo divenire: un essere post-umano è il discendente di un essere umano che è stato incrementato (biologicamente o con inserimenti macchinici) fino al punto di non essere più un essere umano. La concezione umanistica viene completamente ribaltata dai post-umanisti almeno per due ordini di motivi: 1) nel “posto” che viene assegnato all’uomo: i post-umanisti, infatti, postulano il superamento della posizione antropocentrica in favore di una visione che ponendo l’uomo in una posizione di equilibrio-mediazione con le sue alterità (macchina e animale) ne determina un processo di contaminazione ibrididativa. 2) mentre per gli umanisti il perfezionamento dell’uomo è tutto a livello morale e spirituale, per i post-umanisti esso è esclusivamente fisico. Potremmo dire schematizzando e volutamente minimizzando: mentre per gli umani- 4 5 Cf. http://www.transumanisti.it. Cf. P. DELLA MIRANDOLA, De hominis dignitate, Arnoldo Mondadori, Milano 1995. Il post-umano 257 sti è il filosofo colui al quale chiedere la strada della perfezione e della salvezza, per i post-umanisti, artefici della perfezione dell’uomo, coloro che l’accompagnano nel suo transito verso il post-uomo sono, a seconda dei casi, l’ingegnere genetico e il chirurgo (estetico). Umanesimo: Ricerca dell’identità → caduta (animalità) /o perfezionamento → purificazione → umanità/divinità Post-umanesimo: Abbandono dell’identità → perfezionamento → contaminazione con l’alterità → fenomeno ibridativo/post-uomo Ma che tipo di uomo viene fuori? Risponde Michel Serres (filosofo e storico francese della scienza) delineandolo come un possibile in un ventaglio di potenza, o meglio, onnipotenza, poiché egli può divenire tutto. Cos’è quest’uomo? Questo stesso ventaglio, questa onnipotenza. Noi viviamo una natura contingente; noi viviamo un progetto contingente6. Il divenire assume quindi un senso nuovo rispetto all’impianto del finalismo classico che lo poneva nell’ordine dell’inesorabile, del necessario; cambia in certo qual modo il concetto stesso di destino. Aprendo il proprio essere alla potenzialità del divenire, l’uomo sperimenta la propria totipotenza. L’uomo diviene proprio nella misura in cui non si limita ad addivenire, ad accadere, né come essere né come specie. Il suo motto è “Fare e, facendo, farsi”. Occorre comprendere, infatti, che la proposta post-umana, non costituisce più una condizione, ma una scelta capace di stravolgere in modo profondo non solo le nostre singole identità, ma l’idea stessa dell’identità e dell’alterità. Roberto Marchesini, a mio parere uno fra i più brillanti postumanisti italiani, ha sostenuto a questo proposito: Inizia a prendere forma un nuovo modo di concepire la soggettività, basato non più sul raggiungimento di una forma perfetta, assoluta e desiderabile per tutti gli uomini, né sul processo separativo e autarchico (autoreferenziale) dell’ontogenesi, e tanto meno sulla stabilità (identità=identico), singolarità (identità=individuo), purezza (identità=incontaminazione). La soggettività inizia a giocarsi nella promiscuità ontologica, dove l’ibridazione e la contaminazione con le realtà non umane (animali o macchiniche) non rappresentano più minacce alla definizione identitaria, bensì divengono l’espressione più autentica della soggettività. Come dire il soggetto non si identifica in un progetto di epurazione dell’alterità ma, al contrario, ritrova il suo carattere personale e creativo proprio attraver- 6 Cf. M. SERRES, Les nouvelles tecnologies: le point de vue d’un philosophe (conférence, oct. 1999). 258 Maria Paglia so il commercio con la rete di alterità che si muove in lui. In questo senso ogni soggettività è aperta, frutto di un processo creativo e non determinato […] e l’alterità diventa un partner che accompagna il passo di danza ontologica dell’uomo, attraverso processi di partnership simbolica o performativa7. Oggetto – Soggetto: una nuova relazione Si vede, dunque, che viene così introdotta una sostanziale novità proprio nel rapporto soggetto/oggetto. L’uomo ha da sempre costruito manufatti che gli sono stati utili per le sue attività ed anche per venire incontro a particolari problemi fisici, penso per es. alle protesi. Una protesi è un qualcosa che si viene ad aggiungere laddove – diciamo – manca un pezzo: penso alla dentiera, alla gamba di legno, alle stampelle ecc. Una protesi è dunque un qualcosa che tu puoi mettere da una parte e riprendere all’occorrenza. Pensate invece alle realizzazioni già in uso o agli studi che si stanno facendo ora nel campo della protesica: per es. l’orecchio bionico o il rene bionico (RTAD) o i più comuni ed usati pacemakers. Questi “oggetti” non sono esterni, ma impiantati nell’organismo, fanno parte del soggetto ricevente, diventano parti del suo corpo. È l’uomo che si autocompone, e per sgombrare il campo ad ogni possibile replica sul fatto che queste cose non fanno ancora parte del nostro mondo, cito il fatto che è in atto, presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa dove è partito a gennaio 2005, il progetto di ricerca Neurobotics, finanziato dalla Comunità Europea, che si pone l’obiettivo di creare diverse tipologie di piattaforme congiunte fra neuroscienziati e robotica8. Proprio questa strada ha prodotto dei risultati incoraggianti, con ricadute utili soprattutto per persone che non hanno la funzionalità di parti o dell’intero corpo. Si pensi ai computer azionati da microchip impiantati nel cervello (ma esiste anche la versione soft di un computer azionato da onde cerebrali prodotte da microchip installati in una specie di cuffia, progettato dalla Fondazione Santa Lucia di Roma9) oppure di microchip istallati su pazienti paraplegici, anche qui c’è una versione soft che è quella di una tuta bionica con impianti esterni per venire incontro alle carenze funzionali degli arti: è stata progettata in Giappone e mi dicono che si può acquistare su internet. 7 R. MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 8 Cf. http://www.sssup.it. 9 Cf. http://www.hsantalucia.it. Il post-umano 259 Per citare solo quello che avviene in Italia, nell’Università di Genova, ma anche in altre Università, sono contemplati studi e ricerche che seguono questa direzione; a Lecce è sorto un polo per le nanotecnologie, con interessi specifici per le nanobiotecnologie10. Fin qui le implementazioni o ibridazioni tra uomo e macchina, ma vi sono anche le ibridazioni tra uomo e animale... intendo le chimere. L’idea di inglobare il patrimonio genetico di cellule umane in un embrione animale consente di aver accesso a materiale di grande valenza rigenerativa ben distinto da un essere umano. Meno di due anni fa, un gruppo di biologi cinesi aveva inserito il genoma umano in cellule uovo di coniglio, fuso il tutto, creando un ibrido da cui aveva estratto le cellule staminali. Ora le autorità americane hanno accettato la proposta di far sviluppare cellule di cervello umano nella scatola cranica degli animali: tale studio – si dice – servirà a capire e curare malattie come l’Alzheimer, la sclerosi multipla, il Parkinson. Esistono poi chimere molto più soft che rientrano nel quadro degli “animali transgenici” (es. topo OGM per lo studio del carcinoma polmonare), che sono diventati “prassi normale”. Il concetto di corpo post-umano influisce anche sulle teorie e le politiche riproduttive, invitando a riconsiderare le implicazioni della riconfigurazione e riproduzione del corpo nelle griglie di potere della scienza istituzionale e del capitalismo industriale. Attraverso tecniche di manipolazione e di appropriazione del vivente, infatti, si sta affermando un processo di frantumazione dell’individuo che fa diventare possibile la vendita dei suoi prodotti organici. Si viene a rovesciare così il rapporto tra le due sfere della produzione e della riproduzione, enunciato nella tradizionale visione marxiana, secondo cui la riproduzione, quale fenomeno di crescita dell’umanità, sarebbe sottoposta alle leggi della produzione (più si produce, più ci si riproduce). Oggi al contrario, la sfera realmente “produttiva” di ricchezza e profitto appare quella riproduttiva, il cui controllo sta diventando il campo di battaglia strategico delle grandi imprese. Ci avviamo a considerare la sfera riproduttiva come “il petrolio del futuro”. Cambia dunque il rapporto produzione/riproduzione, ma cambia anche il rapporto scienza-tecnica/capitale. Alla fine del XVIII secolo si diceva “Niente tecnica senza ricchezza, niente ricchezza senza tecnica”. In effetti, se da un lato, la scienza per portare avanti le proprie ricerche aveva bisogno di laboratori sempre più attrezzati tecnologicamente, di cui non poteva permettersi il costo, dall’altro, i cambiamenti dei sistemi di produzione spingevano il capitale ad aumentare gli investimenti nelle cosiddet- 10 Cf. http://www.unile.it/ateneo/dipartimenti_ricerca/istituti_ricerca/ist_naz_ fisica_materia.htm. Maria Paglia 260 te tecnologie di punta. Così attraverso le rispettive necessità tecniche, scienza e capitale si trovano avvinti in un unico destino comune. Il sapere diviene una merce pregiata, e come merce sottostà alle leggi del mercato che, facendo il loro ingresso nei laboratori, finiscono col contaminare le “asettiche” leggi della fisica e della chimica. Ecco che, accanto alle narrazioni logiche della scienza, auspicate dai neopositivisti, a quelle storiche dei post-popperiani, ed a quelle sociali dei sociologi della conoscenza, dobbiamo aggiungere quelle economiche. È evidente che qui non ci possiamo fermare a considerare questo punto che di per sé meriterebbe una corposa trattazione a parte, mi limito quindi a citare, uno per tutti, Marcuse quando nel suo famoso L’uomo a una dimensione del 1964 diceva: La società ha riprodotto se stessa in un crescente insieme tecnico di oggetti e di relazioni che ha incluso l’utilizzazione tecnica di uomini; in altre parole, la lotta per l’esistenza e lo sfruttamento dell’uomo e della natura è diventata sempre più scientifica e razionale […] la quantificazione della natura, che ha portato a fornire di essa una spiegazione in termini di strutture matematiche, ha separato la realtà da ogni scopo inerente e, di conseguenza, ha separato la verità dal bene, la scienza dall’etica11. Natura e cultura vengono a trovarsi, dunque, sullo stesso piano quantitativo, meramente quantitativo, quello dello sfruttamento offerto dalla razionalità tecnica. Attraverso le attese della scienza e ai suoi successi si finisce col mettere la natura umana nelle mani del mercato. Di che natura è la natura? La natura umana dunque divenuta contingente, costituisce solo un punto di partenza e non una condizione ineludibile. Bisogna ripensare la natura. Ma pensare di poter ripensare la natura significa prima di tutto, trasformare la natura da un’evidenza empirica in un problema concettuale ed attraverso questo in un problema storico e filosofico. Cos’è la natura? La risposta non è per nulla semplice, malgrado nel linguaggio comune si faccia un grande uso di questo termine. In effetti, è proprio l’uso in contesti e con accezioni differenti ad essere all’origine 11 H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967. Il post-umano 261 della difficoltà. Ad esempio gli si fa assumere il significato deontico di giusto o ingiusto: «Questo atto è contro natura»; di semplice, spontaneo, non affettato: «È così naturale!»; di legge fisica: «la legge di gravità è naturale!»; a volte assume il senso di immediatamente evidente (noi diciamo): «È naturale!». Insomma, sembrerebbe proprio che, interrogandosi su che cosa sia la natura, ci si imbatta in un’ulteriore domanda che rischia di apparire assurda, un vicolo cieco. La domanda è: «Ma di che natura è la Natura?» In effetti, a seconda dei momenti storici, del luogo o dei contesti culturali in cui la domanda «cos’è la natura» è stata formulata, diverse sono state le risposte. Chi le ha attribuito una Natura divina, giungendo ad adorarne le manifestazioni. Chi le ha attribuito una Natura metafisica e chi le ha attribuito e le attribuisce una Natura fisica. Si potrebbe ancora distinguere tra chi la ritiene amica o nemica. Per alcuni è luogo delle regole stabili, il perdurare, accanto al continuamente mutevole mondo della storia dell’uomo. Ma vi è anche chi la ritiene il luogo del caos perenne a cui l’uomo con la sua storia e la sua scienza porrebbe un argine. C’è chi ritiene come gli ambientalisti che bisogna salvare l’ambiente naturale e chi ritiene che l’ambiente naturale non esista. C’è poi chi distingue diverse nature della natura, la natura umana, la natura animale, la natura vegetale, ecc.; ora essendo ogni natura, diversa dalle altre, quella umana da quella animale e vegetale e viceversa, essa si presenterebbe, dunque, contemporaneamente come la natura delle singole nature e la Natura di tutte le nature. La natura delle leggi fisiche, d’altro canto, è diversa dalla natura delle leggi etiche, così il comportamento naturale di un corpo nello spazio ha una cogenza di cui è priva la natura etica, cioè il comportamento pratico. È per questo che la violazione delle leggi fisiche fa gridare al miracolo, mentre la contravvenzione a quelle etiche al peccato. Insomma, sembrerebbe proprio che la natura non sia mai stata realmente in sé, ma che della natura si parli in diversi modi, con diverse accezioni, secondo mutanti significati. Ed è in questo quadro di evanescente possibilità che si viene a collocare la novità dell’approccio post-umano: l’uomo afferma con forza la propria natura ibrida, un tempo appannaggio esclusivo dei miti. «Le chimere siamo noi: pasticci organici transitori e affamati di congiunzioni con l’alterità» dice Roberto Marchesini12. L’ibrido è il mostro che confonde le “nature”, i generi e le specie, disintegra le frontiere naturali tra il sé e l’altro. Organico ed inorganico, artificiale naturale, maschile e femminile, politico e scientifico scoprono o affermano, a seconda dei punti di vista, di non essere mai stati divisi. La natura non è 12 R. MARCHESINI, Post-human…, op. cit. 262 Maria Paglia più in grado di garantire il fondo sostanzialmente unitario della realtà al di là dei cambiamenti: si consuma così il passaggio da soggetto ad oggetto, da forza primordiale a materiale da poter utilizzare. Nuove abilità, nuove disabilità La natura, dicono i post-umanisti, non è solo il regno del bello, ma in essa c’è anche dolore, malattia, deformità, handicap, morte. E dunque se l’uomo può riuscire a contrastare questi “effetti collaterali” perché non farlo? Se fosse tecnologicamente possibile, perché non dovremmo volere essere “migliori” rispetto alla nostra specie attuale? Perché non volere un figlio sano? Perché non volere un figlio anche più intelligente rispetto alla media? Cosa c’è di male a volere una vita più lunga? L’apparente ragionevolezza di queste domande, specialmente se consideriamo i piccoli miglioramenti che si potrebbero introdurre, fa sì che si pensi a tutto ciò in termini di conquiste positive della scienza, conquiste che possono servire a migliorare la nostra qualità di vita. È possibile che noi ci serviamo a piccoli bocconi delle offerte tentatrici della biotecnologia senza renderci conto che esse hanno uno spaventoso costo morale. Il subdolo insinuarsi di richieste minimaliste nei confronti della scienza si sta radicando nella nostra società; la ricerca di una vita più lunga e di una qualità di vita migliore, sembrano cose normali, quasi ovvie13. Nel caso della genetica, se la manipolazione dell’embrione porta all’eliminazione di gravi malattie, perché – si dice – non dovrebbe esser fatta? Pensate alle nuove procedure e tecnologie che oggi emergono dai laboratori e dagli ospedali, che si tratti di farmaci per modificare l’umore, di sostanze per incrementare la massa muscolare o cancellare selettivamente la memoria, di screening genetico prenatale o di terapia genica, tutte queste possono essere usate per alleviare malattie, ma possono essere anche facilmente usate per “migliorare” la specie. Ma c’è ancora un’altra domanda che sovrasta le altre e che merita un supplemento di riflessione. Cosa succede se alcuni (in questo caso parecchi) “scelgono” di autoimplementarsi rispetto a chi “sceglie” di non farlo? 13 Segnalo che “Spoleto Scienza” rappresenta un appuntamento importante per chi ha a cuore questi temi. Ad esempio, si è svolto Spoleto Scienza 2005, promosso dalla Sigma-Tau, col titolo “Alterando il destino dell’umanità”: robot che si autoreplicano, vestiti di fibre ottiche, posate e tovaglie che ci informano sulle proprietà dei cibi che stiamo mangiando, farmacogenetica ecc.; si è parlato anche di allungamento della vita umana a partire dallo slogan “L’età è curabile”. Cf. www.fondazionesigmatau.it. Il post-umano 263 Certamente nessuno ti obbliga a fare un qualcosa che tu non vuoi, ma nel momento in cui, facciamo questo esempio, molti decidessero di sfruttare l’opportunità di aver una vista a raggi X tipo Superman o sentire fino poniamo a 10 km, che ne sarà di chi invece decide di voler conservare le sue funzioni naturali? Sicuramente sarà iscritto fra i “nuovi ciechi” o i “nuovi sordi”. Ma c’è di più, se si desse l’opportunità di far nascere bambini con un’intelligenza superiore alla norma, quale genitore se la sentirebbe di declinare questa opportunità sapendo di far nascere un figlio che già in partenza sarebbe considerato “stupido” nei confronti di questa classe di superintelligenti? Sono certamente responsabilità e decisioni molto gravi da prendersi, tanto più perché non riguardano solo se stessi, ma un altro, un figlio! Né varrebbe il discorso di porre limiti, per lo meno non come quelli attuali, per un duplice motivo: Quello che non si potrebbe fare in un paese, lo si potrebbe fare in un altro, visto che viviamo in un mondo globalizzato in cui si può reperire, pagando, tutto ciò che ci serve. Le nazioni che decidessero di dare attuazione ad una politica di implemetazione dell’umano, si troverebbero ad avere una classe di uomini superdotati con cui – volenti o nolenti – gli altri dovranno fare i conti e in questo caso i conti sarebbero notevolmente sbilanciati… Considerazioni bioetiche Alla luce e nella consapevolezza delle potenzialità umane nel quadro del loro sviluppo futuro, alcuni filosofi hanno cominciato ad interrogarsi sugli effetti etici e politici connessi alla realizzazione dei corpi e delle identità post-umane. Infatti, se il contratto sociale muoveva dall’assunzione che tutti gli uomini sono uguali, il contratto naturale dovrà tenere conto della possibilità che, in un futuro non troppo lontano, questo potrebbe non essere più vero. In particolare, sui problemi politici ed etici prospettati alla tradizione occidentale dagli sviluppi della genetica, e dalla sua capacità di modificare il corpo umano, si è interrogato – con la consueta profondità e lucidità – il filosofo tedesco, continuatore della scuola di Francoforte, Jürgen Habermas nel suo Il futuro della natura umana14. Pur riconoscendo che «non sia irrealistico pensare che la specie umana possa, a breve termine, prendere nelle sue mani la propria evoluzione biologica», Habermas, tuttavia non lesina critiche ai filosofi post-umani- 14 J. HABERMAS, Il futuro della natura umana, Einaudi, Milano 2001. 264 Maria Paglia sti, definiti «un pugno d’intellettuali psichicamente crollati che cerca di leggere i fondi di caffè di un post-umanesimo naturalisticamente declinato». Questo perché egli tende ad enfatizzare, il rapporto esistente tra la coscienza della propria natura umana e quella che lui definisce la nostra autocomprensione di esseri morali. Stante questo stretto rapporto, per Habermas bisognerà considerare la necessità di stabilire precisi limiti all’azione del genitore che decide d’intervenire sul patrimonio genetico del nascituro. Infatti «il fenomeno inquietante consiste nel venir meno del confine tra la natura che noi siamo e la dotazione organica che noi ci diamo». Per Habermas, il rischio etico connesso all’uso indiscriminato dell’intervento genetico, ossia senza riguardo alla differenza tra intervento clinico ed intervento eugenetico vero e proprio, è duplice. Da un lato, egli teme che il soggetto geneticamente manipolato perda la percezione di sé come autore indiviso della propria vita. E, dall’altro, paventa il rischio di un secondo e conseguente effetto, quello della nascita di soggetti geneticamente modificati che non si percepiscano in una linea di sostanziale continuità naturale ed etica rispetto agli uomini delle generazioni precedenti. Nonostante la sofisticata analisi offerta dall’autore dei problemi sollevati dalla manipolazione genetica, è egli stesso, nel “Proscritto”, a prendere atto dell’esistenza su questi problemi, all’interno della filosofia contemporanea, di due distinti punti di vista difficilmente conciliabili. Scrive, infatti: «mentre i filosofi tedeschi, facendo uso di un concetto di persona normativamente saturo e di un concetto di natura metafisicamente sostanzioso, discutono con un certo scetticismo se sia il caso di sviluppare ulteriormente la tecnica (soprattutto per quanto riguarda la coltivazione di organi e la medicina riproduttiva), i colleghi americani si preoccupano invece di come si possa implementare uno sviluppo che in linea di principio non viene più messo in discussione e che, passando per le terapie genetiche, sembra destinato a sfociare nello “shopping in the genetic supermarket”. Agli occhi dei colleghi americani – che la pensano in modo pragmatico – le nuove pratiche lungi dal sollevare questioni di tipo inedito, si limitano a radicalizzare vecchie questioni di giustizia distributiva». In un’ottica di etica eudemonistica che tende alla massimizzazione della felicità ed in cui la natura non è più rivestita di ineluttabilità, ma vissuta come un limite superabile e da superare, una natura che si manifesta sotto le categorie della malattia, dell’invecchiamento, della morte, e in cui, al contrario, le biotecnologie sono viste come il futuro dell’umanità, la bioetica è chiamata a confrontarsi con situazioni che cambiano profondamente anche gli eventi della vita e i modi per affrontarla. I grandi risultati della scienza contemporanea, e le prospettive che ne scaturiscono, la fiducia ormai assoluta che l’uomo contemporaneo le concede, hanno, di fatto, ingenerato nel comune sentire l’attenuazione - quando non la perdita - della percezione dei propri limiti, con ciò provocando uno sposta- Il post-umano 265 mento categoriale all’interno dei tradizionali quadri di pensiero: basterà pensare allo spostamento del concetto di malattia dalla categoria del “patologico” a quella dell’“indesiderabile”, e quello di genitorialità, svincolato dalla famiglia, da quella del dovere (o comunque della scelta) a quella del diritto. In questa situazione la bioetica, ma direi tutti noi, siamo chiamati ad una rinnovata difesa del valore della vita umana – e qui il personalismo può svolgere una sua peculiare funzione – e ad un’applicazione sempre più forte del principio di precauzione, perché la scienza e soprattutto le sue applicazioni siano sempre poste di fronte alle conseguenze future, e ad un vigile e costante impegno critico, filosofico quindi e non demonizzante, delle posizioni che si confrontano e che sempre più spesso hanno per oggetto non solo le scelte più convenienti per le generazioni future – seguendo logiche utilitaristiche – ma il destino stesso dell’uomo e della sua umanità. Alberto García Clonazione e diritti dell’uomo La clonazione umana è uno dei temi di grande attualità nell’agenda bioetica applicata alle nuove biotecnologie. Essa ravviva la riflessione sull’inizio della vita, sul valore che la vita concreta degli esseri umani possiede, così come sul suo significato e contenuti che, per la maggior parte dei giuristi, costituiscono la pietra angolare su cui poggiano i diritti fondamentali dell’uomo: la dignità ed il diritto alla vita. L’impulso delle innovazioni biotecnologiche e la reale possibilità di poter arrivare, in breve tempo, a clonare esseri umani viene a destare, una volta di più, una discussione etica e giuridica di gran rilievo come quelle che, in precedenza, suscitarono temi come l’aborto o le tecniche di riproduzione assistita. Tale questione si è centrata, com’è logico, sul diritto alla vita, universalmente riconosciuto nella sua formulazione; questo diritto continua però ad avere, in molti ambiti, contorni ancora sfumati, soprattutto quando si tratta di riconoscerlo e di stabilire in che modo riconoscerlo al concepito non ancora nato. Nell’ambito della filosofia giuridica è opportuno formulare una serie di domande alle quali cercheremo di rispondere nelle pagine che seguono: spetta, ad un embrione clonato, il riconoscimento del diritto alla vita? In che misura l’embrione clonato è portatore della dignità umana e quali sono le implicazioni pratiche rispetto agli altri membri della società? Un embrione clonato è degno di rispetto? Non c’è dubbio che una risposta a queste domande, che sia serena, ragionata e responsabile e certamente non utopica, arrivi necessariamente ad affrontare la questione dello statuto ontologico ed etico degli embrioni che si producano mediante questa tecnica. Che cosa o chi è l’embrione umano clonato? Quali benefici giuridici potrebbero e dovrebbero salvaguardare il diritto delle persone che vogliono usare questa tecnica in diverse circostanze e con intenzioni diverse? Professore straordinario della Facoltà di Bioetica, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Membro del Comitato Direttivo per la Bioetica del Consiglio d’Europa. Ricercatore dell’Istituto per i Diritti umani dell’Università Complutense. 268 Alberto García La risposta che si è data a tali questioni, sia in ambito legislativo sia attraverso alcune interpretazioni giurisprudenziali, non è stata uniforme. Questo ha fatto sì che il diritto non abbia ancora espresso una posizione sufficientemente solida e convincente su questo tema fondamentale. Da cui ne sono derivati dubbi e, in maniera ricorrente, si riaprono i dibattiti, si esita nelle decisioni e si approvano, come a tentoni, norme giuridiche mutevoli, d’incerta giustificazione etico-giuridica. Per comprendere in quale misura i diritti umani siano attinenti ai quesiti fondamentali che la biomedicina moderna pone e, in concreto, per analizzare la questione della clonazione umana, ci sembra opportuno analizzare, ancorché molto sommariamente, quale sia il fine e l’origine della teoria moderna dei diritti umani, così come le caratteristiche proprie di questi diritti ed il modo in cui sono stati accolti negli ordinamenti giuridici moderni. Questa riflessione si rivela di straordinaria utilità per mettere a fuoco ed esaminare il tema della clonazione umana e di altre biotecnologie connesse alle moderne tecniche di riproduzione umana. Sotto la lente dei diritti fondamentali potremo dare risposta ad alcune delle domande formulate sopra che sono senza dubbio di capitale importanza. In questo processo di analisi sarà utile considerare in quale misura si generino scontri o conflitti tra i diversi diritti in gioco. Da questa analisi si potrà finalmente comprendere quale debba essere il contenuto sostanziale delle norme giuridiche che uno Stato democratico, che affermi di agire legittimamente per il bene di tutti i membri della società, dovrebbe promulgare. I diritti umani nel campo della biomedicina Nello studio dei temi fondamentali collegati con la biomedicina è regola, e non potrebbe essere altrimenti, che si analizzi in che misura le azioni dei professionisti della ricerca e della sanità tengano conto dei diritti umani dei soggetti della ricerca e dei pazienti che richiedono le cure. È sempre più frequente, perciò, assicurare che i progressi scientifici e le applicazioni da essi derivate rispettino i diritti di tutte le persone alle quali lo sviluppo scientifico e tecnologico dovrebbero essere indirizzati. È necessario che il risultato di questa valutazione sia riflesso nelle norme di diritto internazionale che, per loro vocazione universale, hanno lo scopo di demarcare i modelli di attuazione che possano servire per risolvere, in modo adeguato, i nuovi dilemmi che la biomedicina moderna pone, in un mondo sempre più globalizzato. È proprio attraverso la concretizzazione e l’applicazione della teoria dei diritti umani che si può giungere gradatamente ad una protezione più concreta di questi diritti. Clonazione e diritti dell’uomo 269 In ogni caso, ciò che appare chiaro è che la teoria dei diritti umani è un buon punto di partenza che ci permette di affrontare le sfide poste dalle biotecnologie contemporanee, nella misura in cui si riconosce che questi diritti sono da considerarsi come un accordo morale minimo, in virtù della loro vocazione universale. Certamente, non è sufficiente che le questioni connesse alle biotecnologie ed alla biomedicina siano affrontate unicamente a partire dalla teoria dei diritti umani: è infatti necessario che siano spiegate attraverso altre branche dell’ordinamento giuridico. Ci sembra nondimeno che questo sia un indispensabile punto di partenza comune. Di fatto sono diversi i rami del diritto che approcciano, da prospettive diverse, i temi principali della bioetica attuale e, in particolare, il tema della clonazione umana. Alcuni diritti per l’uomo Lo studio dei diritti umani, del loro contenuto e del loro scopo, si allaccia ineludibilmente a questioni di natura etica. Appare chiaro che la categoria giuridica di ciò che oggi chiamiamo “diritti umani” è in stretta relazione con ciò che è stato chiamato, nella dottrina giusfilosofica, col nome di “diritti naturali” e che questi riflettano indubitabilmente un contenuto morale fondamentale. La definizione dei diritti umani più adeguata e completa è quella che li descrive come il complesso dei beni1 che, in ciascun momento storico, specificano le esigenze della dignità, libertà ed uguaglianza umana tali da dover essere riconosciute all’interno di ordinamenti giuridici a livello nazionale ed internazionale. Questa definizione, che assumiamo come punto di partenza della nostra riflessione, presenta con successo la doppia dimensione, etica e giuridica, che caratterizza ciascuno dei diritti umani: non sono semplicemente una serie di modelli morali – più o meno generici – né possono ridursi ad una semplice formulazione positiva, suscettibile di essere o meno riconosciuta dalle norme giuridiche, in funzione della mutevole volontà legislativa. I diritti umani spettano a quegli individui dei quali si possa affermare con certezza che sono esseri umani, senza rivolgersi, a questo livello, ad altre dimensioni nelle quali gli esseri umani si sviluppano nella vita sociale. La conclusione logica è che la presenza di un individuo di condizione uma- 1 Intendiamo il concetto giuridico di “bene” come sinonimo di ciò che la tradizione giuridica classica denomina “la cosa”, ovvero, “ciò che spetta a ciascuno”, che è lo ius oggetto della giustizia, intesa come “dare a ciascuno il suo” (ius suum cuique tribuere). 270 Alberto García na, senza aggiungere altro, è ciò che fa emergere il dovere di un riconoscimento di tali beni o diritti. E per questa ragione sembra logico dedurre che ogni uomo è il destinatario e la ragion d’essere di questi diritti. I diritti umani sono quelli che l’uomo possiede dal momento in cui naturalmente ha inizio la sua esistenza che, giustamente, essendo la vita di un uomo, consideriamo degna di rispetto. «Dire che ci sono “diritti umani” o “diritti dell’uomo” nel nostro contesto storico-spirituale, equivale ad affermare che esistono diritti fondamentali che l’uomo possiede per il fatto di essere uomo, per la sua propria natura e dignità; diritti che gli sono inerenti e che, lungi dal nascere da una concessione della società politica, devono essere consacrati e garantiti da questa»2. Chi sono i soggetti chiamati a beneficiare di questa speciale categoria di diritti? Sono tutti gli uomini che, proprio per il fatto di esserlo, sono essenzialmente uguali e, proprio per questo, sono i detentori e i possessori di questo tipo di beni giuridici che devono essere riconosciuti a tutti nello stesso modo. Sia dal punto di vista etico che da quello giuridico, è il riconoscimento della personalità umana e della sua speciale dignità il punto di partenza e la colonna sulla quale si poggia la teoria dei diritti umani. È proprio l’uomo, nella sua dimensione individuale e sociale, che si fa creditore del rispetto degli altri esseri umani, della società nel suo complesso e dello Stato, come organizzazione politica che deve facilitare la vita e lo sviluppo di tutti i membri della comunità. Nella sua dimensione individuale, la teoria dei diritti umani è andata riconoscendo, come esigenza della dignità umana, il diritto alla vita, all’integrità fisica e psichica, alla propria identità, alla salute, così come una serie di libertà che permettono all’uomo di sviluppare adeguatamente la sua personalità. Dei diritti davvero umani devono essere di beneficio ad ogni essere umano ed a tutti gli esseri umani, senza distinzione. La dignità, la vita, l’integrità e identità, la salute e gli altri diritti basilari devono accompagnare tutti gli uomini dall’inizio della loro esistenza. Fondamento etico dei diritti umani Una delle questioni sulle quali non sembra trovarsi un accordo nella dottrina giusfilosofica è il fondamento dei diritti umani. Già esiste, tuttavia, comunemente, un consenso su quali siano questi diritti, almeno i più elementari, o comunque si assumono come evidenti senza che, con il tempo 2 A. TRUYOL Y SERRA, Los derechos humanos, Tecnos, Madrid, 1994, 11. Clonazione e diritti dell’uomo 271 di una riflessione più profonda, si giunga a trovare la ragion d’essere fondamentale di questi enunciati. A nostro modo di vedere, il fondamento dei diritti umani è di natura etica, in quanto esplicita una serie di doveri morali nei confronti di tutta l’umanità che, per la loro speciale rilevanza nelle relazioni sociali, richiedono un processo di positivizzazione che garantisca la loro efficacia. In questo senso, ci sembra corretto il fondamento proprio della tesi del moderno giusnaturalismo critico e moderato, che coniuga la radice etica di questi diritti con la loro essenziale vocazione giuridica3. Si tratta dunque di diritti morali antecedenti alle norme positive che devono essere adottati, giustamente, dall’ordinamento giuridico se esso vuole pregiarsi di non essere semplicemente un complesso di norme promulgate formalmente con contenuto carente in riferimento al diritto. In questo modo di dar loro un fondamento, i diritti umani appaiono come diritti morali, ossia, come esigenze etiche e diritti che gli esseri umani hanno per il mero fatto di essere uomini, e pertanto, con uguale diritto al loro riconoscimento, protezione e garanzia, da parte del potere politico e del Diritto. Questo complesso di beni che sono i diritti umani delineano una serie di esigenze etiche delle quali devono beneficiare tutti gli esseri umani e che, obbligando sia la società nel suo complesso, sia gli individui in particolare, attirano l’attenzione del diritto. Alla luce di quanto visto fino a questo momento, appare chiaro che l’effettivo riconoscimento di questi diritti da parte dello Stato, ha un carattere meramente dichiarativo e non costitutivo, dal momento che ciò che fa il potere legittimamente costituito è constatare l’esistenza di tali esigenze etiche in seno alla società, riconoscendo così il carattere antecedente dei diritti umani rispetto a qualunque legge positiva. Di conseguenza questi diritti devono essere riconosciuti dall’autorità e dalle norme che questa promulga. I diritti umani sono una categoria preposta, anteriore – nel senso di preesistente – al diritto positivo, dal momento che evocano un’entità giuridica preesistente al diritto positivo in maniera che un ordinamento giuridico che non riconosca i diritti umani – o alcuni di essi –, sarà ingiusto, discriminatorio o tirannico. Una tale affermazione, natural- 3 Condividiamo pienamente il pensiero di Pérez-Luño, nel quale abbiamo trovato una visione equilibrata e moderna di questi diritti: «Per fondamento giusnaturalista dei diritti umani intendo quello che coniuga la loro radice etica con la loro vocazione giuridica. Come loro espressione, i diritti umani possiedono una irrinunciabile dimensione prescrittiva o deontologica: implicano esigenze etiche di “dover essere”, che legittimano la loro rivendicazione lì dove non siano state riconosciute». A.E. PÉREZ LUÑO, Derechos humanos, Estado de derecho y Constitución, Tecnos, Madrid 2003, 549. 272 Alberto García mente, non avrebbe senso se non preesistesse all’ordinamento giuridico una realtà concreta – i diritti umani – che stia alla base del criterio di legittimità e giustizia. Solo a partire da una teoria moderna del diritto naturale, che supera le limitazioni proprie del giusnaturalismo razionalista si giungono a giustificare pienamente i diritti umani, come esigenza universale e punto di riferimento permanente per la mutua convivenza. Ciononostante, come già avevamo sottolineato, troviamo settori dottrinali che non condividono questa radice giusnaturalista dei diritti umani, giacché credono che la valutazione etica delle leggi non si debba realizzare basandosi su un ordine di valori che si poggia sulla riflessione metafisica. Non riusciamo a comprendere il perché di questa negazione della validità di una riflessione che cerca di spiegare, con la ragionevolezza nella ricerca della comprensione della realtà, il fondamento di questi diritti umani comunemente accettati4. A partire da una visione pure positiva ma più moderata e, a nostro parere, più equilibrata, c’è chi non nega radicalmente che i diritti naturali possano chiamarsi diritti, sempre che si intenda il loro significato in senso debole, riservando al diritto positivo, cioè, alle norme giuridiche, il senso forte del diritto5. 4 Condividiamo il parere di Francesco D’Agostino che, riferendosi al modello del positivismo giuridico formalista, per il quale le norme giuridiche devono essere separate da qualunque filosofia dell’uomo che contaminerebbe la purezza del diritto, commenta che contro il modello del positivismo giuridico formalista «la migliore via di uscita da questa impasse sarebbe una sola: quella di far riassumere alla scienza giuridica una sua specifica valenza antropologica, per indurla a superare ogni tentazione di sterile formalismo e per costringerla a misurarsi con le strutture che qualificano l’essere dell’uomo», in F. D’AGOSTINO, Bioetica: nella prospettiva della filosofia del diritto, Giappichelli Editore, Torino 1996, 85. 5 Questo è il parere di Norberto Bobbio che, parlando specificamente sui diritti umani afferma: «Non ho nulla in contrario a chiamare “diritti” anche queste esigenze di futuri diritti, purché si eviti la confusione tra un’esigenza ben motivata di protezione futura di un certo bene con la protezione effettiva di quel bene che si può ottenere ricorrendo ad un tribunale di giustizia capace di riparare il danno ed, eventualmente, castigare il colpevole [...] se posso, suggerirei che si distingua un diritto in senso debole ed un diritto in senso forte e si attribuisca la seconda espressione unicamente all’esigenza o pretesa efficacemente protetta», in N. BOBBIO, El tiempo de los derechos, Sistema, Madrid 1991, 124. Clonazione e diritti dell’uomo 273 Vocazione giuridica dei diritti umani e loro caratteristiche essenziali Secondo un significato tecnico-giuridico, attraverso la categoria dei diritti fondamentali, si sono ottenuti i mezzi politici e giuridici adeguati per garantire il rispetto e la promozione dei diritti umani in virtù della forza normativa e di riferimento morale e sociale che hanno i testi costituzionali i quali, per loro vocazione, dotano di speciale forza giuridica tali diritti, garantendone così una maggiore realizzazione effettiva. Come abbiamo visto, i diritti umani esistono prima di essere riconosciuti, ma la loro efficacia dipende, in buona misura, dalla loro positivizzazione. I diritti fondamentali sono, dunque, diritti umani costituzionalizzati, chiamati ad essere riconosciuti dall’ordinamento giuridico internazionale per dotarli di garanzie giuridiche necessarie alla loro effettività universale. Questo ricorso alla nozione dei diritti umani fondamentali – intesi, quindi, come esigenze etiche che devono essere positivizzate – richiede un ultimo passaggio sulle caratteristiche di tali diritti. Analizzando la clonazione umana alla luce dei diritti fondamentali, teniamo presente la ragion d’essere di questa costruzione giuridica, chi sono i suoi beneficiari, così come la forza normativa oggettiva che tali diritti devono imprimere alle norme che regolino la clonazione umana e le altre biotecnologie applicate all’uomo, sia nella legislazione nazionale sia nella normativa internazionale, che per loro vocazione devono cercare la costruzione di una comunità universale più giusta ed umana. Sono vari i tratti distintivi dei diritti umani e tra questi ci sembrano particolarmente rilevanti, per il nostro studio, la loro universalità ed inerenza. Si accetta comunemente, nella dottrina giusfilosofica, che sono qualità proprie di questi diritti anche la loro condizione di essere inalienabili ed indisponibili, incondizionati ed inviolabili. L’universalità è la caratteristica che ci indica che questi diritti spettano a tutti gli esseri umani senza eccezione, come dire che si riconoscono ad ogni individuo ed a tutti in generale. I diritti umani sono universali, giacché sono posseduti da tutti gli uomini, che sono essenzialmente uguali e, proprio per questo, devono essere anche giuridicamente uguali. La proprietà dell’universalità attribuita ai diritti umani dà risposta alla domanda su chi sia o chi siano i beneficiari o destinatari di questi diritti, cioè chi è o chi sono i loro titolari. Sembra ragionevole affermare che sono titolari dei diritti umani tutti e ciascuno degli esseri umani. La condizione necessaria e sufficiente per godere di questi diritti e della protezione che essi portano, è quella di “essere umano” e questo senza eccezioni, come dire, senza eliminare dal complesso di coloro dei quali possiamo affermare che sono umani, nessun soggetto o gruppo di soggetti a cui si limita o riduce il beneficio che questi diritti comportano. 274 Alberto García L’insistenza su questa caratteristica non è questione insignificante, dato che, affrontando il tema della clonazione umana, e l’eventuale protezione degli embrioni clonati, sembra che si ignori o si minimizzi il fine dei diritti umani. In non poche occasioni, quando si trattano le questioni riguardanti l’origine della vita umana, si afferma che sono titolari dei diritti umani tutte le persone, ma che la protezione specifica che questi diritti conferiscono non può o non deve raggiungere nel medesimo modo gli embrioni ed i feti umani, dal momento che non si può affermare con certezza che essi siano propriamente persone. Questa differenziazione concettuale tra esseri umani e persone non è in alcun modo rigorosa, dato che le ragioni che si adducono per stabilirla ignorano che la condizione umana personale non si acquisisce in modo graduale e per fasi. È infatti ragionevole pensare che, dal momento che si origina un nuovo individuo umano, si dica di lui che è una persona e debba essere trattato come tale. Il gioco dell’ambiguità nell’uso di queste due espressioni viene implicitamente a significare che tutte le persone sono titolari dei diritti umani, ma che alcuni esseri umani (dei quali non si può dire propriamente che siano persone dal punto di vista giuridico) meritino sì una protezione, ma non uguale a quella che corrisponde a coloro che sono persone. Una distinzione che, per certo, ha incontrato eco ed accoglienza favorevole nel dibattito bioetico e biogiuridico sui temi riguardanti la vita nascente, la riproduzione assistita e, ovviamente, nel dibattito sulla clonazione umana. In modo tale che, contro il sentire comune e la riflessione sulla realtà, sembra essersi aperta una specie di breccia ontologica tra coloro che sono persone e coloro che sono solo esseri umani, con alcune conseguenze etiche e giuridiche molto importanti. È sufficiente per adesso notare che, qualora ai diritti umani si sottragga o si limiti questo tratto distintivo dell’universalità, saranno gli esseri più deboli – o quelli meno favoriti biologicamente e socialmente – che verranno danneggiati da coloro che, da posizioni volontaristiche, hanno interesse a sminuire, assottigliare o, anche, manipolare il fine di questi diritti. Che i diritti umani siano inerenti all’essere umano dà risposta al quando ed al perché si ha diritto a godere di tali diritti. Diciamo che qualcosa è “inerente”, quando, per sua natura, è unito a tal punto a qualcos’altro che non si può separare da esso. Applicandolo ai diritti umani, si vuole intendere che la pertinenza dei diritti umani a ciascun individuo è inseparabile dalla sua condizione umana, in modo che col comparire di un essere di condizione umana, germogliano le esigenze etiche proprie dei diritti umani. L’unica condizione, perciò, per riconoscere a qualcuno la titolarità dei diritti umani è il poter affermare di lui che è un essere umano, cioè, una persona. È nella metafisica, tante volte emarginata dal pensiero moderno e postmoderno – giunto anche in certi settori della bioetica contemporanea – che si studia la condizione di inerente agli accidenti degli Clonazione e diritti dell’uomo 275 enti con relazione alla sostanza degli stessi. Nella stessa forma in cui si parla dell’inerenza degli accidenti alla sostanza, così spettano i diritti umani a ciascuno degli esseri umani. Questi diritti nascono nello stesso momento nel quale sorge un nuovo essere umano. La forma nella quale sia stato generato, il luogo, tempo o le condizioni nelle quali si trovi questo essere umano non sono ragioni che giustifichino il modificare il riconoscimento della dignità propria di ogni essere umano e l’adeguata protezione dello stesso. I diritti umani sono anche indisponibili ed inalienabili, perché non è possibile esercitare con essi o su di essi gli atti propri del possesso. I benefici del titolare di questi diritti e la dignità inerente che accompagna coloro che posseggono tali diritti sono intrasferibili ad un’altra persona. La condizione umana porta con sé una dignità connaturata così profonda che, neanche se lo volesse, il titolare potrebbe rinunciarvi o abdicare ad essi. Una persona può disporre delle cose che ha o di quelle che possiede a titolo personale, ma ciò che non può fare è disporre di ciò che egli è. Né la sua dignità, né la sua libertà, né la sua condizione personale sono suscettibili di essere alienate. E se il titolare non può disporre di essi, a maggior ragione possiamo affermare che né i privati né lo Stato possono disporre o trasferire, mediante una norma, questi diritti inseparabili dalla condizione personale di ogni essere umano. I diritti umani sono incondizionati ed inviolabili unicamente «se non si fanno dipendere dal soddisfacimento di certe condizioni qualitative sulla cui esistenza decidono coloro che sono già membri della comunità giuridica»6. Queste caratteristiche sono particolarmente rilevanti e degne di considerazione proprio quando ciò che è in gioco, come nel caso della clonazione umana, è la determinazione dei soggetti titolari dei diritti umani, con le conseguenti implicazioni etiche e giuridiche che ha una condotta di questa natura per il fatto di produrre e distruggere embrioni umani. Le condizioni o circostanze nelle quali si trovano questi esseri umani (nelle loro prime fasi di sviluppo vitale, che si svolgono in laboratorio) non è una ragione sufficiente per non riconoscere a tali esseri la dignità e la garanzia che tutti i diritti umani offrono loro per il fatto di essere umani. Non sembra legittimo nemmeno privarli di questa speciale protezione in funzione del fatto che tale privazione favorirebbe altre persone che potrebbero beneficiarne per la salute, o che vedrebbero soddisfatti i loro desideri di paternità a danno di altri esseri umani. Precisamente, l’inviolabilità dei diritti umani, derivata dalla dignità di ogni uomo, ha come conseguenza il postulato che non si permette la compensazione interperso- 6 R. SPAEMANN, Personas, Eunsa, Pamplona 1999, 236. 276 Alberto García nale dei beni, anche se di questo potrebbero beneficiare, con un calcolo meramente utilitarista di massimizzazione dei benefici, più persone o il complesso della società. I diritti umani si estendono all’embrione clonato? Comunemente si considera che la titolarità dei diritti fondamentali debba essere riconosciuta alle persone nate, senza che possa sorgere alcuna discussione. Sebbene forse non sappiamo molto bene il perché – o non ci siamo soffermati a pensarci in modo rigoroso – ci sembra normale riconoscere tali diritti ad un neonato, ad un bambino di pochi anni, ad una persona matura o ad un anziano. Risulta anche indubitabile che questi diritti siano riconosciuti ad ogni individuo indipendentemente dal suo stato di salute o dalla sua intelligenza e ci parrebbe discriminatorio, cioè, contrario alla giustizia ed all’uguaglianza umana, trattare in modo diverso le persone in funzione di tali qualità. Allo stesso modo è comunemente accettato considerare che questi diritti non decadono né si perdono, quando la persona si trova in stato di incoscienza, perché è addormentata, anestetizzata o per qualunque altra ragione. Infine, appare chiaro – anche se su questo c’è più discussione – che anche una persona che si trova in coma o in stato vegetativo è titolare di questi diritti. Da quanto detto possiamo concludere che riconosciamo la titolarità dei diritti umani a tutti questi esseri umani perché percepiamo immediatamente la loro condizione di persone, indipendentemente dai diversi stati e situazioni in cui si trovano, e valutiamo la loro essenziale uguaglianza indipendentemente dal maggiore o minore sviluppo delle loro facoltà fisiche, psichiche o anche morali, dalla loro età o grado di sviluppo o stato di salute. Adesso dunque sarebbe opportuno chiedersi: è legittimo riconoscere ad un minuscolo embrione umano (che sia clonato o no) uno statuto giuridico specifico che esiga nei suoi confronti un rispetto in funzione della sua dignità umana, e che lo si riconosca come titolare dei diritti umani che naturalmente siamo disposti a riconoscere ad altri esseri umani? Per il suo piccolo aspetto esteriore e per la sua figura visibile, in nulla somigliante a quella di una persona già perfettamente formata, non risulta certo evidente che ci troviamo di fronte a una persona, né è immediatamente riconoscibile come tale7. Nonostante ciò, questa prima percezione 7 Questa assenza di percezione sensibile da parte di altre persone è ciò che porta alcuni a non attribuire all’embrione un valore intrinseco, ma solo conferito, visto Clonazione e diritti dell’uomo 277 sensibile, che ora possiamo captare grazie alla moderna tecnologia, non ci esime dal confrontare l’apparenza di ciò che possiamo vedere o conoscere sperimentalmente, con la realtà ontologica di questo piccolissimo embrione umano, per cercare di scoprire che cosa o chi sia. Come frutto di questa osservazione e della riflessione, potremo trarre determinate conclusioni e conseguenze, sia dal punto di vista morale che da quello giuridico. Consideriamo che riconoscere agli embrioni clonati la titolarità dei diritti umani sarà legittimo sempre, qualora tale riconoscimento sia possibile, ragionevole e giusto. Al contrario, non dobbiamo riconoscerli se gli argomenti si baseranno su ragionamenti assurdi, arbitrari o volontaristici. È possibile riconoscere che i diritti umani si estendono ad un embrione clonato dal momento che possiamo identificare un individuo reale e concreto, che sia il soggetto di tali diritti. Tecnicamente è possibile tale identificazione a partire dal momento in cui compare il nuovo individuo, cioè, quando un nuovo essere vivente inizia il suo ciclo vitale. Il bambino, l’adulto e l’anziano sono biologicamente lo stesso individuo dell’embrione che furono un tempo e nessuno di essi sarebbe potuto giungere alla fase di sviluppo nella quale si trovano, senza essere passato per questa fase imprescindibile dello sviluppo vitale. Da questa prospettiva, l’embrione clonato riunisce le condizioni sufficienti per essere idoneo come soggetto di benefici giuridici, questione che non sembra ragionevole estendere, al contrario, alle molecole, ai geni, alle cellule o ai tessuti umani isolati, ma lo è invece estenderla ad un’entità individuale di natura umana, ossia, ad un organismo essenzialmente umano. Le nostre cellule si differenziano, si originano e muoiono, i nostri organi possono essere perfettamente funzionanti o soffrire di qualche patologia; possiamo anche sopravvivere come individui malgrado ci manchi qualcuno degli organi non vitali. Malgrado questo, l’individuo è uno e lo stesso dall’inizio del suo ciclo vitale fino alla distruzione della sua esistenza. È di questo soggetto individuato che possiamo affermare che può essere ragionevolmente soggetto di diritti. Facendo un passo avanti possiamo considerare che sarà ragionevole riconoscere tali diritti se siamo capaci di apportare buone ragioni, cioè ragioni che si possano giustificare. Sono tre i motivi per i quali ci sembra sensato riconoscere tali diritti agli embrioni umani: in primo luogo perché i diritti umani sono una categoria giuridica aperta; in secondo luogo per- che l’embrione precoce di certo non si presenta con certi tratti tipici dell’aspetto umano. Sarà pertanto dopo la comparsa dei suoi organi che questi tratti susciteranno nell’osservatore i primi sentimenti di riconoscimento. 278 Alberto García ché gli embrioni clonati sono esseri umani, ed infine perché essendo portatori di una dignità inerente, devono essere rispettati. I diritti umani come categoria giuridica di tipo aperto I diritti umani, per loro propria essenza, si sono rivelati come una categoria giuridica di tipo aperto, i cui contenuti si vanno scoprendo, integrando e specificando in un determinato contesto storico, che si vede ovviamente influenzato dai diversi fattori sociali e culturali nei quali si sviluppa la vita umana nella società in ogni momento. Nella delineazione e nel fiorire di tali diritti, si è presentato come comune denominatore il fatto che con i diritti umani si cercava di riconoscere e proteggere gli esseri umani che, in un dato momento storico, la società percepiva in una situazione di debolezza e vulnerabilità. Questo ha fatto sì che si invochino i diritti umani come un mezzo per raggiungere un’adeguata protezione di questi individui da situazioni di subordinazione e ingiusta dominazione da parte dello Stato o di altri gruppi di persone con potere. Definendo i diritti umani, affermiamo già che i doveri etici che devono essere riconosciuti dalle norme giuridiche sono quelli che “in ogni momento storico” specificano le esigenze della dignità, libertà e uguaglianza umane. Conviene sottolineare ed illuminare questo tratto fondamentale dei diritti umani giacché questi non ci si presentano come un concetto concluso e perfettamente definito; al contrario, la scoperta e l’individuazione del loro contenuto ci si presenta come un assunto inconcluso e, in un certo senso, inconcludibile. I diritti umani, perciò, si mostrano nella tradizione giuridica come una realtà aperta e dinamica che si modifica con le trasformazioni scientifiche, tecniche, sociali e culturali. La loro inclusione nelle norme giuridico-positive non permette un’interpretazione restrittiva degli stessi. Così dunque, possiamo vedere che i diritti umani non sono una categoria chiusa, bensì aperta alle nuove necessità che vanno nascendo e che richiedono di definire ed aggiornare i valori della dignità, libertà ed uguaglianza umane. Per la loro particolare configurazione dinamica, i diritti umani non solo sono chiamati a essere positivizzati ma anche ad essere dettagliati e delineati in funzione delle diverse fasi della vita umana. Se consideriamo ragionevole riconoscere i diritti umani agli embrioni clonati è perché il tipo aperto della categoria giuridica dei diritti umani ci permette, e sicuramente perciò esige da noi, di riconoscerli a tutti gli esseri che possiamo scoprire nella loro condizione essenziale di esseri umani. Di conseguenza, ed in virtù dei beni basilari che questa categoria è chiamata a proteggere, i diritti umani godono di un fine il cui raggio di Clonazione e diritti dell’uomo 279 azione, attrazione ed integrazione deve estendersi a coloro che, formando una parte dell’umanità, richiedono una speciale attenzione o protezione. Gli embrioni clonati sono esseri umani Se l’embrione è un essere umano, sembra ragionevole riconoscergli i diritti fondamentali che riconosciamo a tutte le persone. L’oggetto dei diritti umani, come abbiamo sottolineato, è la protezione degli esseri umani, cioè, i soggetti beneficiari devono essere, semplicemente e facilmente, gli uomini. Se risulta che l’embrione è uomo per il fatto di essere un individuo della specie umana, cioè, si tratta di un organismo biologicamente umano che come tale possiede già un corpo umano o, per dire meglio, è un corpo umano, allora questo fatto esige che si rifletta sui doveri che abbiamo nei confronti di questi esseri umani, che sono gli embrioni (clonati o no), capace di generare da loro – con il mezzo adeguato ed in permanente relazione con esso – tutte le strutture del corpo umano adulto. Possiamo concludere, pertanto, che gli embrioni prodotti mediante la tecnica della clonazione umana (come d’altra parte accade con quelli generati mediante altre tecniche di riproduzione umana) sono membri della specie umana. Gli embrioni clonati umani, perciò, non solo partecipano dell’umano (come succede con qualunque altra parte del corpo umano), ma sono essenzialmente ed esistenzialmente umani, ragion per cui già fanno parte dell’umanità, cioè, della famiglia umana. Gli embrioni clonati possiedono una dignità inerente Se su ciascuno dei diritti umani si proietta la dignità umana ed è ad essa, incarnata in ciascun individuo, che servono fondamentalmente tali diritti, la nostra riflessione si deve incentrare ora sulla questione se l’embrione umano sia possessore di una dignità umana inerente. La dignità umana ha la sua radice nella potenzialità della persona di essere libera ed autocosciente, di modo che se l’uomo ha dei diritti, cioè, facoltà che esigono con forza di essere rispettate da qualunque altro soggetto, li ha proprio in virtù di questa dignità di base. L’embrione umano, come individuo umano, a nostro giudizio detiene questa potenzialità essenziale. Ogni uomo è essenzialmente dotato della capacità morale che gli permette di agire liberamente per proiettare la sua vita e per realizzarla in modo autonomo in accordo con la sua idea di felicità. Come è evidente, questa facoltà emerge effettivamente non nella fase iniziale della sua esistenza, 280 Alberto García ma in un momento più avanzato del suo sviluppo vitale, alcuni anni dopo la sua nascita. Risulta innegabile che né un embrione, né un feto, né un neonato, né un bambino piccolo possano esercitare responsabilmente questa capacità e, senza dubbio, non gli neghiamo la sua dignità personale per questo. Sono persone, sì, anche se non si comportano ancora come normalmente fanno i soggetti adulti e maturi, autocoscienti ed eticamente responsabili delle proprie azioni. Da quanto abbiamo analizzato finora, possiamo affermare che l’embrione clonato, visto che è un essere umano, deve essere trattato e rispettato come persona. Certo è che non possiamo dimostrare scientificamente che l’embrione sia una persona, dato che si tratta di una realtà trascendentale non verificabile empiricamente. Quello che sappiamo è che in questo piccolo essere umano può esistere già una persona. Non solo, non si può ragionevolmente negare la probabilità che lo sia, il che, dal punto di vista morale, sarebbe ragione sufficiente perchè sia rispettato, concedendogli così, quantomeno, il beneficio del dubbio sulla sua condizione personale. E accettando questo, che ci sembra moralmente ragionevole, non si deve né produrre né eliminare intenzionalmente, come accade nelle distinte modalità della clonazione umana, chi è quantomeno probabile che sia una persona. Per di più, «è in gioco qualcosa di tanto importante che, dal punto di vista dell’obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi davanti ad una persona per giustificare la più incondizionata proibizione di qualunque intervento destinato ad eliminare un embrione umano»8. Affermiamo, dunque, che i diritti umani devono estendersi e proteggere gli esseri umani concepiti e non nati (indipendentemente dalla maniera nella quale questi siano stati generati), dalle azioni intenzionali degli altri. Questo non vuol dire, dunque, che ci sia un obbligo morale di salvare gli embrioni che naturalmente si danneggiano nel processo naturale di riproduzione, ma che si deve prevenire che queste perdite si producano come conseguenze di azioni umane. Si deve, pertanto, evitare che la creazione di embrioni umani di realizzi, come nel caso della clonazione umana, guardando alla sua successiva distruzione o assumendo la stessa come un fenomeno inevitabile, giacché tali azioni possono essere evitate, e non si giustifica l’uso di mezzi immorali per raggiungere un fine buono. Non esiste nemmeno, come è opinione comune, un obbligo di generare il maggior numero possibile di vite umane per il semplice fatto che la vita umana sia qualcosa di buono e pertanto l’incarnazione di un valore che deve essere riconosciuto e promosso come tale da parte del complesso della società. 8 GIOVANNI PAOLO II, Evangelium Vitae, PPC, Madrid 1995, 130. Clonazione e diritti dell’uomo 281 In entrambi i casi si tratta di operare con responsabilità, nella vita individuale e sociale. Ora, una volta che un essere umano è chiamato alla vita (e qui non è rilevante se è stato procreato mediante un atto d’amore o se è stato generato mediante un’azione eticamente dubbiosa o apertamente immorale) questi merita, per la sua dignità inerente, il rispetto da parte di tutti ed il riconoscimento della sua condizione umana. Gli si riconosce tale dignità per il fatto di discendere dall’uomo e a partire dal primo momento della sua esistenza naturale. Ogni embrione umano (clonato o no) è una realtà preziosa, ha un valore per se stesso e non per il fatto che altri glielo conferiscono. Tale questione è fondamentale dal momento che se il valore della vita è inerente ad ogni essere umano, l’interesse che altre persone hanno per queste vite è una questione accessoria. L’essenziale è che ogni essere umano vale di per sé, per ciò che egli è e non tanto per la relazione, interesse o aspettativa che altri hanno su di lui. Naturalmente con questo non stiamo dicendo che non sia importante la dimensione relazionale di ogni essere umano, né tanto meno che non abbia alcuna rilevanza il desiderio e l’interesse dei genitori verso i propri figli. Ciò che stiamo dicendo è che il riconoscimento dei diritti umani e la protezione che essi conferiscono devono ruotare intorno al titolare di questi diritti, a questo essere umano che si cerca di proteggere, in modo tale che il desiderio o l’interesse degli altri deve essere subordinato al fatto che effettivamente si rispetti la dignità, la vita, l’integrità, e le altre esigenze etiche che riguardano i diritti umani di colui al quale si riconosce una dignità propria ed inerente. È la sua vita e la sua dignità ciò che è in gioco e ciò che deve essere garantito mediante la protezione dei diritti fondamentali. Se pensiamo che gli embrioni clonati possiedano una dignità inerente allora bisogna riconoscere loro un valore giuridicamente rilevante. Non gli si riconosce o conferisce un valore, dal momento che lo hanno di per sé; non perchè sono una parte del corpo umano – per l’identità o gli elementi che mostra, come accade nel caso delle cellule, dei tessuti e degli organi di un corpo – quanto perchè loro stessi sono un corpo umano individuale, cioè, un essere umano. Di conseguenza, creare embrioni clonati per sacrificarli o per copiarli sarebbe un attentato contro la dignità umana, anche se di questo beneficiassero altre persone. Sulla giustizia di una legge che permetta la clonazione umana Una volta analizzato il ruolo sempre più importante che i diritti umani giocano nel campo delle applicazioni biomediche, e considerato il fondamento etico e la vocazione giuridica dei diritti dell’uomo, converrà trarre 282 Alberto García alcune conclusioni sulla giustizia di un’eventuale legislazione che autorizzi la clonazione umana, e sulle norme giuridiche che oggi proibiscono questa pratica. Dal nostro punto di vista, se la legge di uno stato democratico permette la clonazione umana, questa sarà radicalmente ingiusta. In primo luogo, perché nel suo contenuto, di fatto, starà ignorando le esigenze etiche che i diritti umani sono chiamati ad accogliere, anche se questo riconoscimento si facesse per giungere alla soddisfazione dei diritti fondamentali di altre persone. Nell’analisi realizzata finora abbiamo teso a sottolineare che ci sembra ingiusto che la realizzazione e soddisfazione effettiva di tali diritti si realizzi a costo del danneggiamento dei diritti umani che legittimamente spettano ad altri esseri umani. Sarebbe ingiusta questa norma giuridica perché non sarebbe in accordo con i valori obiettivi che gravitano attorno ai diritti naturali o umani in gioco, e perché, giustificando legalmente la produzione e distruzione di esseri umani, procederebbe in modo arbitrario, e contro soggetti che, per la loro situazione di vulnerabilità, meriterebbero non solo uguale considerazione, ma anche una particolare attenzione e cura. La ragion d’essere di ogni legge positiva è la protezione della dignità e la vita di ognuno e, come abbiamo potuto analizzare, una legge che permetta la clonazione umana (in qualunque delle sue modalità) non rispetterebbe questo principio fondamentale della bioetica e della vita sociale9. L’ingiustizia di una tale norma sarebbe radicale, visto che danneggerebbe il diritto di un altro, che non è giustificato sopprimere, restringere o condizionare basandosi sulle buone intenzioni o le nobili finalità che attraverso questi comportamenti si perseguano. Non è conforme al diritto, a nostro giudizio, che la legge permetta la clonazione umana o il trasferimento dei nuclei e la produzione di esseri umani clonati, che per la maggior parte sarebbero destinati alla manipolazione, distruzione e utilizzazione. Una norma giuridica che preveda o permetta questa pratica soffrirebbe di una grave mancanza nel suo contenuto sostanziale, giustificando la lesione della dignità e della vita umana di questi esseri umani che sarebbero impiegati nel processo scientifico e tecnico; a maggior ragione quando, nella situazione di vulnerabilità della 9 Così lo percepisce Elio Sgreccia, quando afferma: «Solo sulla base di queste premesse il diritto può ritrovare la sua funzione intrinseca, al riparo dai pericoli del relativismo etico, che troppo spesso nella storia ha consentito di giustificare scelte abusive del potere politico e ha fatto coincidere giustizia e libertà con autoritarismo e arbitrio, sopratutto nei confronti dei più deboli». E. SGRECCIA, Manuale di bioetica, Vol. I, Fondamenti di etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano 2000, 67. Clonazione e diritti dell’uomo 283 vita umana nella sua fase iniziale di sviluppo, proprio allo Stato spetterebbe di vegliare su quelli che sono più deboli o meno favoriti. Al contrario, a nostro giudizio, la legge che proibisce la clonazione umana, in qualunque delle sue modalità è giusta e conforme al diritto, nella misura in cui – tanto nel suo contenuto che nella sua formulazione – rispetti i diritti fondamentali di tutti gli esseri umani, specialmente dei deboli e dei vulnerabili. Dal punto di vista giuridico ci sembra pienamente giustificato proibire la condotta mediante la quale si produrrebbero esseri umani per la loro successiva manipolazione e distruzione, giacché un embrione è il membro più inerme della specie umana, e il suo uso utilitaristico, che implica la sua distruzione, deve essere proibito dalla legge e sanzionato adeguatamente. Terza parte Tecnica, ambiente e società INTRODUZIONE Si può parlare di bioetica al futuro? La terza parte del libro esamina l’impatto che la tecnologia ha sulle varie sfere dell’attività umana, l’ambiente e la società. Il dibattito attuale sull’ambiente è assai controverso. Gli sviluppi tecnologici certamente sono stati considerati colpevoli dell’inquinamento, ma potrebbero costituirne anche un elemento di redenzione. Oltre che nell’ambiente naturale, la tecnologia è entrata in ogni aspetto della nostra esistenza: nel cibo e nei medicinali, derivati sia dai vegetali sia dagli animali; nei divertimenti come lo sport, il cinema, i videogiochi, e il gioco d’azzardo. Sull’impatto ambientale della tecnologia, ANTONIO GASPARI sostiene che la ricerca scientifica, così come le nuove tecnologie, sono un bene per l’uomo e per l’ambiente, se virtuosamente utilizzate. L’innovazione tecnica permette una maggiore produzione, una riduzione dell’uso di energia e di materie prime per unità di prodotto, un abbassamento dei prezzi, un utilizzo vasto e diffuso anche nelle fasce più povere della popolazione. Il problema si crea quando diversi soggetti pensano all’utilizzo egoistico dell’innovazione tecnologica e della ricerca scientifica. La conoscenza scientifica e l’innovazione tecnologica aumentano il grado di libertà dell’umanità, ma, se intese egoisticamente, rischiano di ridurre l’umano a oggetto e di favorire la dittatura della tecnica. Il rapporto tra sviluppo chimico-tecnologico e l’inquinamento ambientale sarà esposto brevemente da GIANNI FOCHI. L’industria è stata, ed è tuttora, un fattore decisivo ed indispensabile per garantire la sussistenza dell’odierna società del benessere. Nei nostri giorni, però, si assiste ad una vera fobia collettiva per gli effetti indesiderati dell’industria che possono provocare inquinamento e gravi danni ambientali. Tuttavia, questa situazione crea un paradosso: da un lato, la necessità di difendere l’ambiente, con lo scopo di viverci meglio; dall’altro, l’impossibilità di vivere bene senza uno sviluppo continuo della tecnica e della chimica. Il caso più diretto, in cui lo sviluppo delle scienze biologiche rappresenta una minaccia per la società, è nel loro uso criminale, nel cosiddetto bioterrorismo. VITTORFRANCO PISANO analizza tale strategia, le sue modalità e Tecnica, ambiente e società 287 la sua diffusione reale e potenziale. La lucida analisi risulta piuttosto rassicurante: difficilmente si può ipotizzare uno scenario devastante ad opera di un attacco con armi biologiche, in quanto troppo sproporzionato rispetto ai fini dei gruppi terroristici e troppo costoso. Resta l’amara considerazione conclusiva che lo sviluppo tecnologico delle armi convenzionali è in condizione di permettere attentati di notevole letalità senza l’uso precario di armi biologiche. Gli organismi geneticamente modificati (OGM) vegetali hanno, alle spalle, una storia difficile, sostiene DAVIDE EDERLE. Nonostante il grande successo riportato e la possibilità di alleviare la fame e le malattie, come, ad esempio, con il Golden Rice (un tipo di riso che fornisce la Vitamina A e creato appositamente per prevenire la diffusione della cecità), alcuni gruppi hanno fatto ricorso al principio di precauzione, per bloccarne la diffusione. All’autore spiegare questo importante principio: per consentirne una giusta applicazione ed evitare i rischi derivanti da un suo uso improprio, in modo che esso non diventi, per interessi nascosti o paure immotivate, uno strumento di assedio della tecnologia alimentare. Lasciamo quindi il mondo vegetale per esplorare con MARIALUISA LAVITRANO le moderne tecniche per la produzione di animali transgenici; senza dimenticare l’esistenza di questioni di ordine etico, il suo saggio si indirizza verso i vantaggi promessi e talvolta già realizzati da queste biotecnologie avanzate: miglioramento delle razze in zootecnia; produzione di animali in grado di funzionare come bioreattori per la sintesi di proteine ricombinanti e molecole di interesse farmaceutico; animali come modello di studio per patologie umane; in ultimo la frontiera degli xenotrapianti. Inoltre, il rapido sviluppo delle biotecnologie costituisce una sfida alla normativa sulle privative industriali, settore che attribuisce, in regime di monopolio, la protezione temporanea a prodotti e processi innovativi provenienti dall’ingegneria genetica. GIOVANNA MORELLI GRADI inserisce tale questione nel più ampio quadro metodologico e storico dei brevetti di invenzioni, sottolineando sia gli elementi di continuità sia l’assoluta novità generata dalla brevettabilità della materia vivente. L’autrice analizza le problematiche giuridiche ed etiche, nelle quali si è cercato di contemperare i benefici derivanti dalla protezione giuridica, con le fondamentali esigenze di tutela della persona umana. Uno degli effetti principali della rivoluzione digitale nella società è la diffusione di nuove forme di intrattenimento, come i videogiochi e i casinò virtuali legati alla rete internet; se le cifre di questo fenomeno sono impressionanti, ancora di più lo sono i rischi ad esso connessi. Senza cadere in apocalittici allarmismi, VINCENZO COMODO e LOREDANA LA RICCIA esplorano gli eccessi cui si può arrivare in tali attività, non escludendo da esse l’opportunità di svago. La dipendenza, però, è come una spada di Damo- 288 Terza parte cle puntata su ogni giocatore e in certi casi il game over assume aspetti drammatici. La rete è virtuale ma il rischio è assolutamente reale. PASQUALE BELLOTTI mette in rilievo la necessità di dare corpo all’accostamento, che oggi sempre più si tenta, tra sport e bioetica. In realtà lo sport, pur nella degradata situazione in cui si trova, sembrerebbe manifestare una forte affinità con la bioetica, che lo interpreta e lo spiega assai bene alla luce del rispetto della persona di cui lo sport è fautore in teoria, ma – nei fatti – pessimo attore. Per concludere, FRANCO BACCARINI ci offre una panoramica di film selezionati che trattano del nostro argomento, in altre parole, di un’etica della tecnologia. «Il cinema ha superato le altre forme di espressione artistica che hanno presa sul pubblico», sostiene l’autore, e, continua «ormai, l’immagine ha una superiorità rispetto alla parola scritta». Questo richiama una forte responsabilità, poiché, oggi, larga parte della popolazione ricava dal cinema e dalla televisione le informazioni con le quali poter costruire una propria visione della scienza e delle sue applicazioni pratiche. Antonio Gaspari L’impatto ambientale della tecnologia Nonostante gli enormi benefici che lo sviluppo tecnologico e scientifico hanno apportato alla civiltà umana e all’ambiente, secondo l’ideologia ambientalista dominante, la crescita demografica ed il progresso economico sono le uniche e definitive cause dell’inquinamento. L’economista Serge Latouche, uno dei guru ambientalisti e no-global più ascoltati, è convinto che il mito della crescita ci porterà al collasso ambientale, ed ha addirittura scritto un saggio dal titolo Come sopravvivere allo sviluppo (Bollati-Boringhieri). In questo volume, l’economista francese sostiene che «certi pensano che l’economia è il solo mezzo per sconfiggere la povertà» mentre «lo sviluppo e l’economia sono il problema e non la soluzione»; ed ancora: «sviluppo è una parola tossica, lo sviluppo è stato ed è l’occidentalizzazione del mondo». Anche l’editorialista del quotidiano Il Corriere della Sera, Giovanni Sartori, autore del libro La Terra Scoppia – sovrappopolazione e sviluppo (Rizzoli) ha sostenuto che «la tecnologia ci ha fatto imboccare il tunnel dello sviluppo non sostenibile». In linea con gli insegnamenti erronei e catastrofici del reverendo anglicano Thomas Robert Malthus (1778-1834), diversi esponenti del variegato arcipelago ecologista hanno sostenuto che la continua ed inarrestabile crescita della popolazione insieme allo sviluppo economico e scientifico avrebbe provocato: fame, carestie, povertà, scomparsa delle specie, scarsità di risorse, affollamento insostenibile del globo, inquinamento e avvelenamento del pianeta. In questo scenario da film dell’orrore, il biologo Paul Erlich già nel 1968 ha descritto la crescita demografica come più pericolosa di una bomba atomica, e per lanciare l’allarme ha pubblicato il famoso libro The Population Bomb. In occasione del II Congresso Internazionale del World Wildilife Fund, (WWF, la più vasta e influente associazione ecologista al mondo), tenutosi a Londra nel Novembre 1970, l’allora Presidente, Principe Bernardo di Olanda, inviò ai Capi di governo di tutti i Paesi del Mondo il seguente Giornalista, Saggista e Direttore del Master in Scienze Ambientali, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. 290 Antonio Gaspari messaggio: «L’annuale e continuo incremento della popolazione umana impedisce ad un gran numero di persone dei paesi in via di sviluppo l’accesso ad un decente livello di vita. Nei paesi già sviluppati, invece, questo incremento ostacola sempre più un miglioramento della qualità della vita. II risultato finale sarà la fine della vita umana, se non di ogni forma di vita su questa terra. Per la sopravvivenza stessa della razza umana e del suo ambiente si richiede pertanto, urgentemente, che il suo governo prenda ogni provvedimento necessario a stabilizzare la popolazione il più presto possibile, utilizzando qualsiasi mezzo venga accettato dai suoi cittadini». Commentando la presa di posizione dell’allora presidente del WWF, Carlo Matteotti ha scritto su Panda, rivista dell’associazione in Italia: «La posta in gioco allora è troppo grave per poter fare concessioni alla demagogia. L’unica via di salvezza è davanti al nostro naso, se non ci ostiniamo a non volerla vedere: l’arresto del folle aumento demografico, con tutti i mezzi a disposizione, ma soprattutto con una massiccia propaganda che scoraggi tanto la natalità che la nuzialità, sua causa più diretta; e un’energica frenata del moderno, insensato e micidiale processo di industrializzazione irresponsabile»1. Nel 1972 fu pubblicato il famoso studio commissionato dal Club di Roma a Dennis e Donella Meadows, con il titolo The limit to growth (I limiti dello sviluppo), in cui si sosteneva che la crescita della popolazione collegata ai consumi sempre crescenti avrebbe esaurito le risorse del pianeta in pochi anni2. Nel 1974, Lester L. Brown, già Presidente del World Watch Institute (WWI), scrisse I limiti della popolazione mondiale, un libro massicciamente diffuso nell’allora inquieto mondo giovanile. Il Presidente del WWI sosteneva che «Il tema centrale di questo libro, scritto per l’Anno mondiale della popolazione, è il pericolo demografico. Far fronte a questo pericolo costituisce una sfida fondamentale per la comunità umana»3. 1 C. MATTEOTTI, «Il problema n.1», in Panda 10, (luglio 1971). Cf. anche In difesa della natura, i venticinque anni del WWF, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1991, 27. 2 D.H. MEADOWS - D. MEADOWS - J. RANDERS - W.W. BEHERENS III, The limits to growth, A report for the Club of Rome’s Project on the predicament of mankind, Universe Book , New York 1972. (Edizione Italiana I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1973.) 3 L.R. BROWN, I limiti della popolazione mondiale, una strategia per contenere la crescita demografica, Edizioni Scientifiche e Tecniche Arnoldo Mondadori Editore, Milano, seconda edizione maggio 1975, 197. L’impatto ambientale della tecnologia 291 Nel luglio del 1980 fu presentato a Washington The Global 2000 Report to the President, uno studio elaborato da una serie di esperti nominati dall’allora Presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, in cui venivano esaminati i problemi della popolazione e delle sue attività nei rapporti con le risorse naturali. I mezzi di comunicazione di massa dedicarono enorme attenzione a questo studio, il quale venne presentato con titoli terrificanti: «Uno studio del governo prevede disastri su scala mondiale», «Global 2000 Report: visione di un mondo lugubre», «Verso un ventunesimo secolo problematico: un gruppo di esperti incaricati dal Governo profetizza un pianeta desolato». Un’intera pagina di pubblicità del Rapporto, pubblicata dal New York Review of Books, titolava: «Mari avvelenati, piogge acide, scarsità idrica e l’atmosfera che muore». Nel 1991 Gianfranco Bologna, vicepresidente del WWF, nel presentare la valutazione del WWF sulla crescita demografica, ha scritto: É necessario fare il possibile per ridurre ovunque il tasso di fertilità totale, cioè la media di figli per donna, in particolare nei paesi poveri. […] Per ottenere ciò è indispensabile sostenere e finanziare gli investimenti internazionali relativi alla pianificazione familiare da estendere il più possibile sia alle donne che agli uomini […]. La pianificazione demografica dovrebbe essere inclusa in tutti gli altri settori della pianificazione dello sviluppo, con la presenza di un servizio ad hoc specializzato in queste tematiche, presso i ministeri ed i servizi che si occupano di aiuti allo sviluppo. Tali aiuti dovrebbero essere sistematicamente abbinati a programmi di assistenza denatalista. […] I programmi per la pianificazione demografica dovrebbero ricevere una maggiore assistenza internazionale. Le risorse destinate alla pianificazione familiare nei paesi poveri dovrebbero raddoppiare per raggiungere, entro la fine del secolo, i 9 miliardi di dollari all’anno. […] É indispensabile che le grandi fedi religiose – in particolare quella cattolica e quella islamica, che hanno ampia diffusione nei paesi poveri dove la crescita demografica è particolarmente sostenuta – riconsiderino con urgenza le loro posizioni contrarie all’utilizzo di sistemi di pianificazione familiare4. Nel luglio del 2002, poco prima della conferenza ONU di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile, il WWF ha presentato il rapporto The living planet, un elenco infinito di sciagure. «Entro il 2050 – è scritto nel rapporto del WWF – scompariranno le foreste, le specie si estingueranno, non ci saranno più pesci nel mare, né animali sulla terra. I consumi sono troppi, 4 G. BOLOGNA, Le posizioni del WWF Italia, La popolazione, Documento approvato dal Consiglio Nazionale del WWF Italia del 26 novembre 1991. Pubblicato dal WWF Italia nel Dicembre 1991. 292 Antonio Gaspari non ci saranno più risorse naturali, la terra morirà e l’uomo dovrà cercarsi un altro pianeta dove vivere». Il Living Planet Report, Rapporto sul Pianeta vivente del 2006, sostiene che gli ecosistemi naturali si stanno degradando ad un ritmo impressionante, senza precedenti nella storia della specie umana. Secondo gli esperti del WWF il ritmo attuale di consumo delle risorse (quali il terreno fertile, l’acqua, le risorse forestali, le specie animali, comprese le risorse ittiche), indicano che la popolazione umana entro il 2050 raggiungerà un ritmo di consumo pari a due volte la capacità del pianeta Terra. Profeti di sventura? No grazie! Grazie a Dio, queste drammatiche e spaventose previsioni non si sono mai verificate. Alla prova dei fatti, le profezie delle cassandre verdi si sono rivelate inaccurate, errate nelle elaborazioni e nel metodo. A distanza di anni neanche una delle previsioni catastrofiche ha avuto esito, anzi in molti casi, alla presunta scarsità di risorse, di cibo, di acqua potabile, di materie prime, si è sostituita l’abbondanza delle stesse. La previsione sulla scomparsa delle specie si è rivelata inaccurata e, in molti casi, fallace. Sono state ritrovate specie come il celacanto che si pensavano estinte da milioni di anni. La superficie forestale sta crescendo nei Paesi avanzati ed è vittima di fenomeni di sottosviluppo nei Paesi poveri. La qualità delle acque è in costante miglioramento. Il salmone è tornato nel Tamigi e la potabilità delle acque che arrivano nelle abitazioni è, in molti casi, migliore delle acque minerali. Le argomentazioni dei catastrofisti sono state duramente contestate da autorevoli studiosi, tra cui diversi premi Nobel, in tutti campi della scienza e della morale. Gli eco-ottimisti sostengono che la scarsità di risorse ed i problemi legati alla crescita ed al consumo hanno un carattere relativo alle tecnologie utilizzate nei diversi periodi della storia. Studi approfonditi ed accurati dimostrerebbero, infatti, che nel medio e lungo periodo la crescita della popolazione è la prima tra le fonti dello sviluppo economico e sociale. Certo l’umanità non è povera di problemi, ma mai nella sua storia è vissuta così a lungo ed in maniera così salubre. Mai è stata capace di produrre tanti beni come nei tempi moderni. I parametri ambientali, soprattutto nei paesi più avanzati, sono tutti in costante miglioramento. Alcuni esempi: nel 1900 l’aspettativa di vita media negli USA era di quarantasette anni, oggi siamo a settantasette. Non siamo mai vissuti così a lungo. L’aspettativa di vita media è più che raddoppiata nel corso dell’ultimo secolo, soprattutto nei Paesi in Via di Sviluppo. La mortalità infantile è crollata. Il numero di persone che soffrono la fame è calato da una percentuale L’impatto ambientale della tecnologia 293 del 35% del 1970 al 18% del 2000. Più di due miliardi di persone che vivono nei PVS hanno visto il loro consumo calorico salire del 38%. I poveri dei nostri giorni, hanno accesso ad una serie di servizi come ricoveri ospedalieri, cibo, cure mediche, svaghi, comunicazioni e trasporti che 100 anni fa erano privilegio solo delle famiglie più agiate. Ha scritto l’United Nations Development Programme (UNDP) nel suo rapporto su povertà e disuguaglianza: «Sono pochi coloro i quali si sono accorti dei grandi avanzamenti già compiuti: negli ultimi 50 anni la povertà è diminuita di più che nei 500 anni precedenti ed è stata ridotta, in pressoché tutti i paesi»5. Un singolo agricoltore del mondo avanzato produceva all’inizio del secolo cibo per sette persone, oggi lo stesso agricoltore produce alimenti per quasi 100 persone. Nel diciannovesimo secolo quasi tutti gli adolescenti lavoravano nei campi o nelle fabbriche, oggi nove su dieci frequentano la scuola superiore. Attualmente i cittadini dei paesi più sviluppati dispongono di una quantità di tempo libero pari a tre volte quello dei loro nonni. Il prezzo del cibo, calcolato in relazione ai salari, è crollato. All’inizio del 1900 ogni americano doveva lavorare due ore per acquistare un pollo, oggi bastano venti minuti di lavoro. Non è mai accaduto nella storia che la lunghezza e la qualità della vita crescessero in maniera così repentina e per strati così vasti della popolazione. Per quanto riguarda le risorse, grazie all’aumento della produttività ed allo sviluppo tecnologico si può affermare che non esistono limiti fissi all’uso delle risorse per il futuro, semmai solo dei limiti momentanei, ma questi si allargano continuamente, e preoccupano sempre meno nel passaggio tra una generazione e l’altra. Alla prova dei fatti e della storia è evidente che la teoria malthusiana e le sue varianti ecologiste siano completamente errate, sia nei risultati, sia nel metodo. L’errore più grande di questo parametro culturale sta nella concezione dell’uomo e delle risorse. Per i neomalthusiani e per i seguaci ecologisti, l’umanità è il cancro del pianeta perché composta solo da consumatori sempre più numerosi e sempre più avidi. In realtà, è proprio l’umanità l’unica in grado di continuare l’opera del Creatore, moltiplicando le risorse a disposizione. La crescita dell’umano, la capacità di agire socialmente, osservando le leggi naturali che regolano l’universo, carpendone il significato e riproducendolo in forme tecnologiche, ha permesso all’umanità di compiere successive rivoluzioni in campo agricolo, manifatturiero, industriale ed economico, che gli permettono di avere a disposizione una 5 UNITED NATIONS DEVELOPMENT PROGRAMME (UNDP), «Sradicare la povertà», in Rapporto sullo sviluppo umano, vol.8, Rosenberg & Sellier, Torino 1997, 13. 294 Antonio Gaspari quantità enorme di risorse che mai la natura sarebbe stata in grado di fornirgli. Per una certa ideologia ecologista, la crescita economica e tecnologica significa saccheggio sfrenato della natura. Ma se andiamo a vedere cosa accade in realtà con l’innovazione tecnologica ci rendiamo conto del contrario e cioè che lo sviluppo tecnologico, se virtuosamente guidato, riduce l’impatto ambientale ed il consumo delle risorse, garantendo nel contempo la crescita della produttività e l’abbassamento oggettivo dei costi di produzione. Anche se una visione romantica ed illuminista indica il buon selvaggio come la condizione del bene anche ambientale, è evidente che se l’umanità fosse rimasta ai livelli di civiltà e di economia di tipo primitivo, simile a quella che caratterizza il mondo animale e cioè di “caccia, pesca e raccolta”, oggi avrebbe veramente divorato il pianeta. L’economia dell’uomo primitivo, infatti, prende tutto dalla natura e non innova e moltiplica le risorse. Sembrerà paradossale, ma l’impatto ambientale procapite dell’uomo primitivo, era molto più grande di quello dell’uomo moderno. Solo per alimentare la propria comunità, proteggersi dai predatori, costruire un’abitazione, fornire un minimo di energia per scaldarsi, cuocere le carni, trattare i metalli ed il vetro, ecc, l’uomo primitivo aveva bisogno di spazi e risorse naturali vastissimi. Anche il semplice fuoco di legna, era un sistema di riscaldamento tragicamente inefficiente, altamente inquinante e dai costi forestali ed idrogeologici elevatissimi. Da questo punto di vista, fa impressione constatare quanto tragiche possano essere le conseguenze di un’ideologia naturalistica. È stato scritto un libro e prodotto un film sulla tragica fine del giovane Chris McCandless, il quale, convinto di poter vivere ecologicamente a contatto con la natura, è morto di fame nei boschi dell’Alaska6. La propaganda ecologista lo presenta come un eroe, mentre in realtà è una vittima di un’ideologia che gli ha fatto credere che fosse facile e moralmente gratificante vivere a contatto con la natura selvaggia. La rivoluzione economica inizia con la nascita delle pratiche agricole e di allevamento che permisero alle prime comunità umane di disporre di alimenti, carni, pelli, ossa per costruire utensili, fibre per tessuti, legno per costruire abitazioni e alimentare il fuoco, in maniera più certa e prevedibile. Le prime piante coltivate includevano diversi tipi di grano, l’orzo, la veccia amara, il pisello, il cece, la lenticchia, il lino. Dal 6000 avanti Cristo furono coltivati anche l’olivo, il fico, i datteri, il melograno e la vite. Nello stesso periodo, animali allevati erano i bovini, caprini, ovini e suini. Oltre alla disponibilità di latte, carni, ossa e pelli, gli animali di allevamen- 6 J. KRAKAUER, Nelle terre estreme, Corbaccio, Milano 2008. La storia di Chris McCandless è stata raccontata anche nel film Into the Wild, scritto e diretto da Sean Penn. L’impatto ambientale della tecnologia 295 to vennero utilizzati per i lavori agricoli ed i trasporti. Il passaggio all’economia di allevamento e agricoltura permise anche una rivoluzione sociale, con una parte della comunità umana che venne liberata dalla funzione diretta di procurarsi il cibo e passò a sviluppare nuove attività, funzionali alla diversificazione dell’economia. Dal punto di vista ambientale il beneficio di questa prima rivoluzione è evidente: l’umanità poté incrementare la propria crescita non spogliando la natura ma moltiplicando la disponibilità delle risorse. Se pensiamo al mondo moderno, la quasi totalità delle risorse alimentari per nutrire gli oltre sei miliardi di persone presenti sul pianeta, per quanto enormemente diversificate e varie, provengono direttamente da attività ideate, migliorate e praticate dalla comunità umana. Mai la natura con il suo corso millenario sarebbe stata in grado di far crescere e alimentare tante piante e tanti animali da allevamento, come è riuscita a fare l’umanità. Mai la natura sarebbe stata in grado di conservare gli alimenti per mesi ed anni, come sono riusciti a fare gli uomini. Inoltre grazie alla prima rivoluzione verde, che ha introdotto la meccanizzazione e la chimica in agricoltura, e soprattutto grazie alla seconda rivoluzione verde, che prevede l’introduzione delle biotecnologie, è aumentata la produzione, pur riducendosi la disponibilità unitaria di superficie coltivata. Questo significa che si produce più cibo con minore superficie coltivata, un aumento di produttività di cui beneficia anche l’ambiente, con una sempre maggiore superficie dedicata a parchi e aree protette. Tramite i moderni sistemi di irrigazione si utilizza meno acqua e con le biotecnologie si sta riducendo il consumo di antiparassitari. La natura è bella di per sé, ma la natura curata dall’uomo può essere ancora più bella. Basta osservare un qualsiasi paesaggio di un Paese avanzato per godersi le meravigliose geometrie dei filari ordinati, dei boschi puliti, dei giardini armonicamente ordinati. Queste prime considerazioni ci fanno capire che l’umanità non è il problema bensì è la risorsa che può trovare le soluzioni. L’uomo non è il cancro del pianeta, ma la possibile medicina. È per questo motivo che molti premi Nobel per l’economia, tra cui Gary Becker e Amartya Sen, indicano nell’uomo e nella famiglia naturale il capitale umano e il capitale sociale, che hanno permesso lo sviluppo delle società avanzate e che sono il fondamento di ogni progresso economico e civile. La produzione alimentare cresce più della popolazione Non è vero, come asseriscono i neomalthusiani, che più cresce la popolazione più ci saranno problemi di scarsità alimentare. Al contrario oggi produciamo più cibo che in tutta la storia dell’umanità. E con l’utilizzo delle biotecnologie siamo alle soglie di una rivoluzione che si annuncia 296 Antonio Gaspari sempreverde. Tra il 1950 e il 1987 la popolazione mondiale è raddoppiata, siamo passati da 2,5 a 5 miliardi. Nello stesso periodo la produzione alimentare è così cresciuta che il numero delle persone che soffrivano la fame si è ridotto del 75%. Grazie alle varietà di sementi ed alla prima rivoluzione verde la produttività agricola ha compiuto balzi enormi. In India, per esempio, dal 1968 ad oggi, la popolazione indiana è più che raddoppiata. Nello stesso periodo la produzione di cereali è triplicata, e l’economia nel suo complesso è cresciuta di nove volte. Il missionario del PIME Padre Piero Gheddo ha sottolineato in una lettera al Corriere della Sera che: «L’India, che ha favorito la democrazia, l’educazione e l’agricoltura, è passata da 390 milioni di abitanti nel 1947 al miliardo attuale. Era il Paese delle carestie, oggi esporta cereali in Medio Oriente e Africa. La crescita di produttività agricola è passata dallo 0,5% annuale nel 1950 al 3,5% oggi, mentre la crescita demografica è diminuita dal 3,1% al 2,1%»7. Secondo la FAO (Food and Agricultural Organization) la dieta per nutrire adeguatamente una persona deve essere di 3000 calorie al giorno. La FAO ha calcolato che, per nutrire 9,3 miliardi di persone, senza incrementare l’attuale superficie coltivata che è di 1,4 miliardi di ettari pari all’11% del suolo terrestre, bisogna raggiungere – di media – una produttività di 1,8 tonnellate per ettaro. In Africa, il continente con la più bassa produttività agricola del pianeta, la produttività non supera una tonnellata per ettaro, ma nei Paesi avanzati siamo ben oltre. Negli Stati Uniti la produttività per i cereali è di tre tonnellate per ettaro, in Europa è di sei tonnellate per ettaro. Il mais è prodotto negli Usa a otto tonnellate per ettaro. Il riso è prodotto in Sud Corea al ritmo di sei tonnellate per ettaro. In Brasile la produzione è di sei tonnellate per ettaro in terreni irrigati, e di tre tonnellate per ettaro in terreni che godono solo del ciclo delle piogge. In merito al rapporto tra disponibilità alimentare e crescita demografica, Alberto Mingardi ha scritto sul sito della Fondazione Liberal: «L’idea che fame e sovrappopolazione siano l’una la conseguenza dell’altra implica il pregiudizio che un’alta densità di popolazione debba essere sinonimo di carestia. Se fosse vero, non si capisce perché soltanto sette dei ventuno Paesi più poveri del mondo abbiano una densità di popolazione superiore ai 100 abitanti per kmq, mentre tra i ventuno Paesi più ricchi ben dodici superano questa cifra»8. È facile verificare che se l’India ha una densità di 284 abitanti per kmq, il Belgio ne fa registrare 331, il Giappone 7 Lettera del missionario Padre Piero Gheddo a Paolo Mieli, Corriere della Sera (20 giugno 2002). L’impatto ambientale della tecnologia 297 332, l’Olanda 378, Singapore 5373, Hong Kong 5956. La superficie del Madagascar è quasi il doppio di quella del Giappone (587.040 kmq contro 377.835), eppure gli undici milioni di malgasci muoiono di fame mentre i 126 milioni di giapponesi (con i loro 38160 dollari di reddito pro capite) sono il popolo più ricco al mondo dopo gli svizzeri. E la terra del Sol Levante non abbonda certo di risorse naturali. Per quanto riguarda la scarsità alimentare, è ormai evidente a tutti che il problema è quello di vincere il sottosviluppo. La fame si vince costruendo infrastrutture e favorendo l’utilizzo dei moderni metodi di sviluppo agricolo, e non finanziando inumani e costrittivi programmi di riduzione della popolazione. È certamente vero che la popolazione mondiale dal 1900 ad oggi è aumentata di circa quattro volte, ma, grazie al progresso economico, scientifico e tecnologico, nello stesso periodo di tempo il prodotto mondiale lordo è aumentato di diciassette volte, da 2300 miliardi di dollari nel 1900 ai 39.000 miliardi del 1997. Anche ammettendo che la popolazione mondiale sia destinata a stabilizzarsi intorno ai dodici miliardi, il problema non sarà quello delle risorse, piuttosto sarà riuscire a trasmettere una cultura che favorisca lo sviluppo ed il benessere. Ma questo è un problema che non dipende dalla crescita della popolazione bensì dalla promozione della persona, dall’educazione, dalla determinazione a volere lo sviluppo delle popolazioni dei paesi poveri. Non c’è sviluppo economico senza densità demografica. In merito alla crescita della popolazione e alle condizioni che favoriscono lo sviluppo, i neomalthusiani incappano in una serie infinita di luoghi comuni in aperta contraddizione con la realtà dei fatti. Per esempio, non è vero che la sovrappopolazione impoverisce. Al contrario non c’è sviluppo economico dove non c’è densità demografica. Nel 1800 la popolazione umana era di appena un miliardo di persone ed il reddito pro capite era di 100 dollari l’anno. Nel 1900 la popolazione è cresciuta fino a due miliardi ed il reddito pro capite è salito a 500 dollari. Attualmente, con sei miliardi di persone, il reddito pro capite è di 5000 dollari e nel 2100 si prevede che sarà di 30.000 dollari. Sartori ha scritto sulla rivista L’Espresso che: «la tecnologia ci ha già fatto imboccare il tunnel dello sviluppo “non sostenibile”. Non sostenibile nel senso che la na- 8 A. MINGARDI, Non è vero che sulla Terra siamo troppi, pubblicato sul sito web della Fondazione Liberal, (13 giugno 2002): www.liberalfondazione.it. 298 Antonio Gaspari tura non è più in grado di provvedere a se stessa, di rigenerarsi e di autoripararsi. Non è solo che noi stiamo consumando risorse finite (petrolio e carbone) che finiranno presto; è anche che stiamo pericolosamente inquinando l’aria e l’acqua e pericolosamente disturbando gli equilibri climatici»9. Ma, come ha spiegato Giovanni Paolo II, «la tecnologia che inquina può anche disinquinare, la produzione che accumula può distribuire equamente, a condizione che prevalga l’etica del rispetto per la vita e la dignità dell’uomo, per i diritti delle generazioni umane presenti e di quelle che verranno»10 e dal punto di vista scientifico è dimostrato quanto le nuove tecnologie siano sempre meno inquinanti delle precedenti. Inoltre i seguaci di Malthus mostrano di non conoscere il fenomeno della dematerializzazione. Nel 1900 a New York c’erano 120.000 cavalli che producevano più di 200 tonnellate di escrementi. In media ogni singolo abitante di New York nel 1900 produceva più rifiuti dello stesso abitante che vive nel 1990. Per esempio, nonostante che oggi le case siano più grandi, più fornite, più comode, il consumo di legno per costruzioni degli Stati Uniti è sceso a meno della metà di quello che era nel 1900. In parte perché gran parte del legno era utilizzato anche come combustibile ed in parte perché è stato sostituito da altro materiale (plastiche, alluminio, zinco, cemento...). Un grattacielo richiede oggi il 35% in meno di acciaio di quanto ne fosse necessario venti anni fa. Meno acciaio significa minor uso energetico, minori emissioni. Un cavo di fibre ottiche richiede circa sessantacinque chilogrammi di silice, e può trasportare lo stesso numero di messaggi di un cavo di rame di una tonnellata. Un cd rom può contenere novanta milioni di numeri di telefono, equivalenti a cinque quintali di elenchi telefonici. In merito allo sviluppo tecnologico, Gino Solitro ha scritto sulla rivista telematica dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici (I.S.S.P.E.): Noi che abitiamo l’emisfero nord della Terra abbiamo avuto la fortuna di essere stati favoriti dalla tecnologia che – dice il prof. Sartori – “ci consente di vivere e di sopravvivere in modo innaturale” (ma abbastanza bene n.d.r.); perché dovremmo fermarla? Perché negare a quelli dell’emisfero sud igiene, sieroprofilassi, antibiotici, geriatria, diminuzione della mortalità infantile, progressi della medicina e della chirurgia, stabilità di 9 G. SARTORI, «Addio stupidi eccessi», in L’Espresso (01 Gennaio 2003). GIOVANNI PAOLO II, «Discorso ai partecipanti ad un convegno su Ambiente e Salute», (24 marzo 1997), in http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/ speeches/1997/march/documents/hf_jp-ii_spe_19970324_ambiente-salute_it.html [03-03-2008]. 10 L’impatto ambientale della tecnologia 299 rifornimenti alimentari e di sicurezza individuale e collettiva? Per non farli vivere come noi oltre i 75 anni? Perché il numero dei nati morti superi sempre quello dei nati vivi? Il prof. Sartori che è uno scienziato, o quasi, dovrebbe essere meno egoista ed avere più fiducia nella scienza, che ha già scoperto il genoma del riso, presto sarà la volta del grano, con possibilità nutrizionali impensabili, che avrà la capacità di rendere compatibile alle risorse disponibili l’incremento globale della popolazione mondiale nel rispetto assoluto delle norme morali e dei principi religiosi di ciascun popolo11. Il mondo era migliore quando era meno popolato? È opinione diffusa che il mondo fosse migliore quando c’erano poche persone. Ma si tratta solo di una sensazione irrazionale, perché in realtà Londra, Parigi, Roma, erano meno popolate ma altamente inquinate. Nel 1661 lo scrittore John Evelyn così descriveva Londra: A Londra la gente cammina e conversa perseguitata da questo fumo infernale. Si respira una nebbia spessa ed impura mischiata a vapore sozzo e fuligginoso che causa mille malanni rovinando i polmoni e la salute dell’intero corpo per cui catarri, tisi, tossi e consunzione dominano in questa città. Quando Goethe visitò Palermo e chiese perché mai nessuno spazzasse via gli escrementi dalle strade, la risposta fu «che la nobiltà gradiva un selciato molle per le carrozze». In Francia, al tempo di Rousseau: «Il fango di Parigi è una complessa mistura di sabbia infiltratasi nei selciati, di nauseabonde immondizie, di acqua stagnante e di sterco; le ruote dei veicoli la impastano, la diffondono, spruzzano le lordure sui muri, sui passanti». Nel 1902, negli USA, la vita media era di quarantasette anni. Le prime cinque cause di morte erano: i) polmonite e influenza; ii) tubercolosi; iii) diarrea; iv) malattie cardiache; v) ictus. Non c’erano gli antiparassitari e gli antibiotici: la popolazione era decimata da malaria, tifo e tubercolosi. Solo nel 14% delle case c’era una vasca da bagno e le donne solitamente si lavavano i capelli una volta al mese, usando un tuorlo d’uovo per shampoo. Nove adulti su dieci erano analfabeti e solo il 6% della popolazione possedeva un diploma di scuola superiore. Come si fa a sostenere che oggi sia peggio? 11 G. SOLITRO, «Demografia ieri e oggi», in http://www.isspe.it/Ago2001/solitro.htm [03-03-2008]. 300 Antonio Gaspari Insieme alla popolazione ed allo sviluppo tecnologico, i malthusiani soffrono di un’altra ossessione: la Chiesa Cattolica. Sartori, per esempio, sostiene che sia la Santa Sede la principale responsabile della sovrappopolazione mondiale, perché si oppone da sempre alle politiche contraccettive. Anche in questo caso Sartori mostra di essere rimasto molto indietro nella conoscenza del dibattito. Anche se il suo ragionamento fosse plausibile, alle ultime conferenze dell’ONU l’opposizione alle politiche contraccettive è stata molto vasta, insieme alla Santa Sede si sono schierati gli Stati Uniti e la maggioranza dei Paesi in Via di Sviluppo. A proposito dell’influenza che la Chiesa Cattolica avrebbe nella crescita demografica, il missionario Piero Gheddo ha scritto sulle pagine del quotidiano Il Corriere della Sera: «Il Terzo Mondo non soffre per troppi abitanti o per scarse risorse, ma per mancanza di educazione, di libertà, di pace, di ragionevoli scelte politiche a favore di campagne, agricoltura, e non delle elite e dei militari. Ecco perché la Chiesa dice: aiutiamo i poveri a svilupparsi e diminuirà anche la loro crescita demografica». L’educazione, unita allo sviluppo, è il solo metodo che funziona. Un rapporto del Parlamento indiano (1976) riconosce che gli unici a veder diminuite le nascite in modo sensibile sono i cristiani, perché le ragazze cristiane studiano, si sposano dopo i 18 anni e hanno, rispetto alle loro coetanee che si sposano a 15-16 anni, due figli in meno. L’ultimo censimento indiano (1991) attesta che nel decennio 1981-1991 le due regioni che hanno avuto il più basso incremento demografico sono le due più popolate da cristiani: Goa (15,96%) e Kerala (13,98%), contro una crescita nazionale del 23,50%. L’incremento demografico in India, nel decennio 1981-1991, è stato del 30,96% fra i musulmani, del 24,14% tra gli indù, del 22,25% tra i buddisti, del 16,83% tra i cristiani. Davvero la Chiesa è responsabile per l’aumento delle nascite nel Terzo Mondo? E ancora. Le violente campagne di controllo delle nascite realizzate in Cina e in India hanno fallito e procurato gravissimi danni. In Cina, il regime totalitario impone un solo figlio per coppia; nelle campagne (dove vive l’80% dei cinesi) la gente uccide le bambine appena nate; i giovani in età di matrimonio faticano a trovare le ragazze da sposare; s’è creato uno squilibrio fra maschi e femmine: demografi giapponesi hanno calcolato, in occasione del censimento del 1991, che in Cina mancano all’appello 100.000 donne! In Bangladesh, dopo trent’anni di campagne contro la natalità, secondo un rapporto dell’Onu, «solo l’8% della popolazione ha diminuito in modo sensibile le nascite». Chi? «Fanno meno figli i ricchi e le classi medie, cioè proprio quelli che dovrebbero averne di più, perché potrebbero mantenerli e dare così una classe dirigente al Paese. I poveri, invece, continuano come prima». Stupisce poi che un liberale come il prof. Sartori possa proporre un autoritarismo contraccettivo, cioè un’autorità che intervenga per impedire agli uo- L’impatto ambientale della tecnologia 301 mini, soprattutto ai più poveri, di non procreare. Il prof. Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, intervenendo ad un seminario “Sulla disuguaglianza” tenuto a Roma il 10 luglio 2000, ha dichiarato: Io penso che l’analisi di Malthus sulla crescita della popolazione sia completamente sbagliata. La storia e l’esperienza hanno dimostrato che l’istruzione delle donne è quella che permette di ridurre la fertilità. La produzione agricola inoltre è cresciuta sempre più rapidamente della popolazione. Non c’è quindi nessuna ragione di applicare queste idee antidemocratiche e antiumane di Malthus. Quello che più stupisce è l’orribile concezione dell’umanità che i neomalthusiani esprimono: gli uomini sono sempre stati troppi anche quando erano relativamente pochi, perché per loro è l’uomo che è di troppo. Da qui le considerazioni di Sartori che, in un’intervista rilasciata alla rivista Sette, ha affermato che non è più il caso di parlare di homo sapiens, perché oramai sostituito dall’homo stupidus stupidus. Questa orribile concezione dell’uomo sta alla base dell’opposizione con la Chiesa Cattolica, che al contrario vede l’uomo come fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Questa contrapposizione ci permette di chiarire meglio il punto di vista cristiano sull’ambiente e perché questo è in contrasto con la cultura ambientalista dominante. Le differenze tra l’ideologia neomalthusiana e il pensiero cattolico sono molte e rilevanti. Innanzitutto, la concezione dell’uomo. Come abbiamo già rilevato, per un cattolico l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio, mentre, per certi ecologisti, l’uomo è cancro del pianeta. Per un cattolico la crescita demografica è una benedizione del Signore, per l’ideologia catastrofista è una disgrazia, la causa di tutti i mali. I cattolici hanno una visione teocentrica che tende alla verticalità, dove il creato è stato messo a disposizione dell’uomo, dal Signore, per curarlo, svilupparlo e governarlo. Mentre l’ideologia ambientalista ha una visione orizzontale che tende verso il basso, con la tendenza a divinizzare la fauna e la flora. Il Dio in cui i cattolici credono è buono e ama alla follia l’umanità, mentre la cultura ecologista parla di una natura cattiva e vendicativa che si ritorce contro l’uomo per ogni sua azione. Dottrina Sociale e “ecologia umana” Secondo la dottrina sociale cristiana, nessuno può considerare la biosfera come dominio privato. Ciò significa che, nei confronti della natura, l’uomo è sottomesso a leggi non solo biologiche, ma anche etiche. 302 Antonio Gaspari A questo proposito Giovanni Paolo II, parlando a quarantamila giovani nei primi giorni di ottobre del 1988 nello stadio Meinau di Strasburgo, ha detto: In principio Dio non ha voluto il male, né il disordine, né l’umiliazione dell’uomo, né lo scompiglio della natura, né il disprezzo dei poveri. Egli ha creato il mondo per essere buono, bello, armonioso. Egli ha creato la natura per l’uomo. Dio è amore... Il versetto che scandisce il racconto della creazione delle stelle, della terra, delle piante, degli animali, dell’uomo è: “Dio vide che era cosa buona, molto buona”12. Se tutto viene da Dio, quale deve essere il nostro atteggiamento? – si è chiesto il Pontefice polacco: Accogliere il mondo come un dono di Dio. Non disprezzarlo. Non catturarlo per sé. Ma rendere grazie [...] Ma l’uomo non può restare in posizione passiva, timoroso della natura. Dio lo ha chiamato a dominare la natura. Gli ha donato l’intelligenza per scoprirne le leggi e i segreti, per controllarla. È il senso del lavoro. Il mondo è affidato alle mani dell’uomo ed al suo genio creativo, al suo coraggio. L’intervento umano non ha che il rispetto di Dio come limite al rispetto della vita e della dignità degli uomini e anche la prudenza per non rischiare di rompere gli equilibri della natura. Ecco la grandezza dell’uomo13. È quindi più che mai chiaro che il dominio accordato dal Creatore all’uomo non è potere assoluto, né si può parlare di libertà di usare ed abusare o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di “mangiare il frutto dell’albero” (Gen 2,16s) mostra con sufficiente chiarezza che nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire. Una giusta concezione dello sviluppo non può prescindere da queste considerazioni, le quali impongono alla nostra coscienza la dimensione morale che deve distinguere lo sviluppo. Secondo la Dottrina Sociale della Chiesa è quindi la crisi morale all’origine della crisi ambientale. Una crisi morale che si muove tra gli estremi dell’idolatria naturalistica e una concezione magica e disumanizzata della 12 GIOVANNI PAOLO II, «Incontro con i giovani d’Europa nello stadio Meinau», (8 ottobre 1988), n.1, in http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1988/october/documents/hf_jp-ii_spe_19881008_giovani-strasburgo_it.html [03-03-2008]. 13 Ibid., n.2 L’impatto ambientale della tecnologia 303 tecnica: un atteggiamento a metà tra panteismo e futurismo, tra l’adorazione di Gaia e la divinizzazione della tecnica come strumento per cancellare Dio. È quindi nello squilibrio tra sviluppo economico, scientifico e tecnologico e coscienza morale che si trovano le origini della crisi ecologica. Il mondo moderno offre all’umanità delle grandi opportunità. La ricerca scientifica, lo sviluppo economico, la disponibilità alimentare, le migliori condizioni di salute, forniscono prospettive di vita come mai è accaduto in tutta la storia del genere umano. Eppure questa grande libertà viene a volte fraintesa. I grandi poteri che l’uomo ha sviluppato spesso sono usati egoisticamente, non per ma contro l’uomo. Il peccato di Caino, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, la discriminazione per ragioni religiose, razziali e di ceto, la soppressione dei più deboli, l’onnipotenza cieca di volere usare altri uomini e donne come schiavi, fino all’idea di clonare ed utilizzare il corpo di altri uomini per i propri benefici, sono tentazioni aberranti ma fortissime e praticate. In questo tragico scenario i limiti che contraddistinguono i confini tra il bene ed il male sono stati cancellati da un sempre più invadente relativismo morale che ha confuso le coscienze, al punto tale che oggi si compiono azioni malvagie credendo di difendere dei diritti. Come ha sottolineato Giovanni Paolo II: «Esaminando la situazione dell’umanità, è forse eccessivo parlare di crisi della civiltà? Scorgiamo grandi progressi tecnologici, ma questi non sempre sono accompagnati da un grande progresso spirituale e morale»14. In effetti, viviamo un mondo in cui il relativismo morale permette di commettere crimini senza che si avverta la gravità di questi atti. La banalità del male è la caratteristica più drammatica del nostro vivere quotidiano. Siamo anzi al paradosso, alcune di queste azioni malvagie sono viste dalla comunità mondiale come atti di compassione, di carità, di emancipazione, di liberazione. Guardiamo per esempio all’aborto. Le moderne tecniche mediche sono in grado di far vivere bambini che nascono prematuri, con solo ventiquattro settimane di gestazione e che pesano meno di un chilogrammo; nello stesso tempo, però, ogni anno si praticano nel mondo più di quarantacinque milioni di aborti15. Di questi, venticinque milioni avvengono con il consenso delle leggi dei vari Stati. In qualche Paese, come la Cina, 14 GIOVANNI PAOLO II, «Discorso a conclusione dell’Assemblea Interreligiosa: “Alle soglie del III Millennio: collaborazione fra le diverse religioni”», Roma (28 ottobre 1999), in http://www.vatican.va/cgi-bin/w3-msql/news_services/bulletin/month_num_3.html?lang=it&month=10 [03-03-2008]. 15 G. GAZZANEO «Aborti, 45 milioni nel mondo - ogni tre nascite un’interruzione di gravidanza», in Avvenire (17 febbraio 1996), 3. 304 Antonio Gaspari possono essere addirittura obbligatori16, in altri esiste una sorta d’incoraggiamento, costituito dall’uso gratuito delle strutture sanitarie pubbliche17. L’umanità ha impiegato tutta la sua storia per ridurre la mortalità infantile, e mentre ci sta riuscendo, sopprime prima della nascita il 20% dei concepiti. È anche per questo che il Patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, nel corso di un convegno organizzato dalla Fondazione Giorgio Cini sul tema “Per un’ecologia del Buon Governo” ha affermato: «Non si respirerà un’atmosfera di libertà nelle nostre società, né si attuerà un’ecologia del buon governo fino a che si favorirà l’ideologia neomalthusiana oggi purtroppo ancora dominante in campo demografico». Chiaro e preciso anche il pensiero della Chiesa in merito al progresso: lo sviluppo economico scientifico e tecnologico, che viene indicato da ecologisti radicali come la causa dell’inquinamento, è per la Chiesa un dono del Signore. Ha detto il Pontefice Benedetto XVI a questo riguardo, ricevendo gli scienziati della Pontificia Accademia delle Scienze: Il cristianesimo non presuppone un conflitto inevitabile tra la fede soprannaturale e il progresso scientifico. Il punto di partenza stesso della rivelazione biblica è l’affermazione che Dio ha creato gli esseri umani, dotati di ragione, e li ha posti al di sopra di tutte le creature della terra. In questo modo l’uomo è diventato colui che amministra la creazione e l’“aiutante” di Dio. Se pensiamo, per esempio, a come la scienza moderna, prevedendo i fenomeni naturali, ha contribuito alla protezione dell’ambiente, al progresso dei Paesi in Via di Sviluppo, alla lotta contro le epidemie e all’aumento della speranza di vita, appare evidente che non vi è conflitto tra la Provvidenza di Dio e l’impresa umana. In effetti, potremmo dire che il lavoro di prevedere, controllare e governare la natura, che la scienza oggi rende più attuabile rispetto al passato, è di per se stesso parte del piano del Creatore18. 16 P. LAWLER, «Former Chinese Abortionist testifies Before Congress», Catholic World News Service, Daily News Briefs, (11 giugno 1998). 17 Il dato è stato confermato dal Cardinale Renato Raffaele Martino, quando, ancora monsignore in qualità di Osservatore della Santa Sede alla Nazioni Unite, tenne una relazione a Roma il 26 novembre 1999 nella riunione con i rappresentanti delle Organizzazioni Non Governative pro-famiglia e pro-vita in preparazione della Conferenza ONU Pechino+5. 18 BENEDETTO XVI, «Discorso ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze», (6 novembre 2006), in http://www.vatican.va/holy_father/ benedict_xvi/speeches/2006/november/documents/hf_ben-xvi_ spe_20061106_academy-sciences_ it.html [03-03-2008]. L’impatto ambientale della tecnologia 305 Il Santo Padre, Benedetto XVI ha quindi sottolineato che «la prevedibilità scientifica solleva anche la questione delle responsabilità etiche dello scienziato. Le sue conclusioni devono essere guidate dal rispetto della verità e dall’onesto riconoscimento sia dell’accuratezza sia degli inevitabili limiti del metodo scientifico. Certamente ciò significa evitare le previsioni inutilmente allarmanti quando queste non sono sostenute da dati sufficienti o vanno oltre le capacità effettive di previsione della scienza». Ma mentre la Chiesa Cattolica distingue nettamente i benefici dello sviluppo tecnologico e scientifico dalle aberrazioni del relativismo morale, l’ideologia ambientalista confonde i termini e sostiene la tecnica anche quando viene usata per fini disumani come quando sopprime gli embrioni. Nel caso dell’utilizzo delle biotecnologie per esempio, la Chiesa sostiene le innovazioni in campo vegetale ed animale e rifiuta le tecniche che vorrebbero utilizzare gli embrioni umani. Al contrario gli ecologisti si oppongono alle biotecnologie vegetali ma non hanno nessuno scrupolo nei confronti delle tecniche di manipolazione e soppressione degli embrioni. A questo proposito è interessante leggere cosa è scritto nel Dizionario di Dottrina Sociale della Chiesa, alla voce Biotecnologie: Ci sono gruppi di persone che, vedendo alcuni disastri ambientali e prevedendone altri maggiori, si oppongono fortemente allo sviluppo e all’applicazione della biotecnologia; non di rado tali gruppi sono mossi da una certa ideologia antiumanistica, quando propongono misure restrittive per la manipolazione della specie vegetali animali, mentre favoriscono la manipolazione della persona umana, a livello di embrioni, in nome di finalità terapeutiche, ma anche con una permissività sempre più ampia nelle pratiche di aborto ecc. Occorre pertanto superare i due estremi: la biotecnologia non deve essere divinizzata né demonizzata. La tecnica e, di conseguenza, la biotecnologia è una cosa buona, ma può essere usata male; è dunque necessario che, come ogni attività umana, l’economia, la politica e via dicendo, essa sia guidata dalla morale. La biotecnologia ha prodotto concretamente un grande sviluppo in molti settori, come la medicina, la farmacologia, la zootecnia ecc. che, se correttamente utilizzato, potrà risolvere molte delle questioni sociali del mondo odierno19. 19 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, G. CREPALDI - E. COLOM (a cura di), Dizionario di Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Ateneo Salesiano (LAS) 2005, 88. Antonio Gaspari 306 Ecologia Umana È stato il pontefice Giovanni Paolo II a sottolineare per primo e dare un senso profondo al concetto di ecologia umana, dove i diritti della persona, la centralità della famiglia, la dignità del lavoro, la libertà di educazione e lo sviluppo integrale siano promossi, difesi e sostenuti. Persona, famiglia e libertà di educazione, sono gli stessi valori che il pontefice Benedetto XVI, ha sancito come non negoziabili. Con ecologia umana non si intende solo stabilire un nuovo, rinnovato e rispettoso rapporto tra umanità e creato, ma realizzare le condizioni per costruire una civiltà dell’amore, facendo dell’umanità una famiglia di famiglie. Giovanni Paolo II parla di ecologia umana nel paragrafo 38 dell’enciclica sociale Centesimus annus e si tratta della prima volta che nella storia della dottrina sociale si indica e approfondisce questo concetto. Il Pontefice intende subito chiarire qual è la differenza tra una concezione naturalistica che cancella il Creatore e l’uomo a favore di un’idolatria di flora e fauna e la concezione di un uomo che compie il bene in funzione del suo rapporto di amore con il Creatore: Oltre all’irrazionale distruzione dell’ambiente naturale è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell’ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la necessaria attenzione. Mentre ci si preoccupa giustamente, anche se molto meno del necessario, di preservare gli “habitat” naturali delle diverse specie animali minacciate di estinzione, perché ci si rende conto che ciascuna di esse apporta un particolare contributo all’equilibrio generale della terra, ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica ecologia umana20. Sempre nella Centesimus annus Giovanni Paolo II spiega il ruolo decisivo della famiglia nella realizzazione dell’ecologia umana: La prima e fondamentale struttura a favore dell’ecologia umana è la famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte dell’uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino21. 20 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Centesimus annus, (01 maggio 1991), n. 38, in http://www.vatican.va/edocs/ITA1214/__P5.HTM [03-03-2008]. L’impatto ambientale della tecnologia 307 In conclusione, come sostiene anche il Dizionario della Dottrina Sociale, bisogna ridare al progresso tecnologico il suo vero senso e, di conseguenza, la sua autentica grandezza: esso proviene dall’uomo e deve essere indirizzato al bene dell’uomo; ancor di più, esso proviene da Dio e a Lui deve essere finalizzato. Il progresso tecnologico non deve prevalere sul bene comune ma essere ordinato e subordinato allo sviluppo di ogni uomo e di tutto l’uomo. 21 Ibid. n. 39 Gianni Fochi Brevi considerazioni su inquinamento, chimica e sviluppo Dal trionfalismo alle fobie «E, signora, badi ben/ che sia fatto di Moplen!». Con questo slogan, allegro e scoppiettante (efficace distico d’ottonari tronchi a rima baciata), Gino Bramieri si rivolgeva una quarantina d’anni fa dal popolarissimo palcoscenico di Carosello alle casalinghe italiane. Erano i tempi del miracolo economico, sostenuto in parte non piccola dalla chimica: nella società era diffusa una fiducia trionfalistica nel progresso tecnico e nella crescita del benessere, dopo le immense rovine e la miseria portate dalla seconda guerra mondiale. Non s’andava tanto per il sottile. Oggi l’ambientalismo combatte forse più battaglie sbagliate che giuste, ma allora proprio non era ancora nato e non c’erano movimenti a difendere la natura. Inoltre le garanzie sindacali erano molto inferiori a ora (anche in quel campo si è passati in vari casi da un’esagerazione a quella opposta). Sicché talvolta, mezzo secolo fa, le conquiste della chimica erano applicate senza la dovuta attenzione alla salute degli operai nelle fabbriche e alla salvaguardia dell’ambiente, con conseguenze che in parte si protraggono finora. La nostra mentalità d’oggi è portata a criticare ciò severamente; dobbiamo tuttavia evitare l’errore dell’antistoricismo, cioè dobbiamo riuscire a spiegare — se non ad approvare — gli atteggiamenti dei nostri predecessori, alla luce delle situazioni in cui essi vissero. Soprattutto dobbiamo soppesare i pro e i contro. In effetti, l’industria chimica ha contribuito notevolmente al benessere degl’italiani, i quali, quando l’hanno raggiunto e non prima, hanno potuto aprire con facilità assai maggiore gli occhi su certi sgraditi effetti collaterali del progresso. È l’eterna vicenda di chi è indietro e di chi è avanti: Docente di Chimica Generale e Inorganica, Corso di Laurea in Scienze Agrarie, Università di Pisa. Ricercatore, Scuola Normale Superiore, Pisa 310 Gianni Fochi l’intellettuale che vive nel mondo progredito vorrebbe offrire a chi è arretrato un aiuto per farlo rimanere in uno stato di purezza primordiale (che fra l’altro non corrisponde al vero), e l’altro s’aspetterebbe invece un sostegno di ben altro genere. Un libro di alcuni anni fa illustrava benissimo, fin dal suo titolo, questa incomprensione1. La fiducia nella tecnica, impersonata nella pubblicità televisiva di Carosello dal popolare comico rotondo e pacioccone, è oggi un ricordo lontanissimo. La colpa è in parte di certi settori della stessa industria; eppure gli imprenditori seri, alla faccia dei talebani dell’ambientalismo, non mancano, e dimostrano come si possa produrre senza inquinare. I rapporti Responsible care della Federchimica sono eloquenti: l’inquinamento cala vistosamente d’anno in anno, a prezzo di grossi sforzi innovativi e finanziari2. Tuttavia, come sempre, gli esempi contrari fanno assai più notizia e rischiano di rendere invalicabile la divisione creatasi fra industria e opinione pubblica. Certi strateghi industriali mirano d’altronde a risolvere il problema nel modo peggiore: con l’abbandono di produzioni importanti per la nostra economia, che pure ne ha bisogno, come tutte quelle sviluppate. Una conquista della scienza e dell’imprenditoria italiane Sotto le bordate d’un ambientalismo irrazionale s’è creato in questi ultimi anni un clima da naufragio imminente, dove chi è furbo pensa a salvare se stesso e ad afferrare quello che può, tanto la nave è ormai persa. La vecchia euforia, pur forse esagerata, era invece adatta a spronare al lavoro, alla creazione di nuovo progresso. Del resto ai tempi del Carosello di Bramieri, la chimica italiana aveva una base assai solida: la collaborazione strettissima fra grande industria e ricerca universitaria d’alto livello. Dai lavori cominciati mezzo secolo fa (dal gruppo di Giulio Natta, n.d.r.) s’è sviluppato in tutto il mondo un filone scientifico ricchissimo, intuibile da un’occhiata a due volumi recenti di Ezio Martuscelli1 e ad un libro con preziose immagini storiche2. È dunque ancor più triste che l’Italia, terra dove Natta visse e lavorò, stia lasciando in piedi solo quel po’ d’attività chimica che possono avere alcune aziende coraggiose, ma troppo piccole 1 L. MOONEY - R. BATE, Environmental Health. Third world problems – first world preoccupations, Butterworth-Heinemann, Oxford, 1999. 2 Per esempio: 8° Rapporto Responsible Care, Federchimica, Milano, 2002. 1 E. MARTUSCELLI, La ricerca sui polimeri in Italia e Dalla scoperta di Natta lo sviluppo dell’industria e della ricerca sulle plastiche in Italia, C.N.R., 2001. 2 L. PORRI et al., Giulio Natta – l’uomo e lo scienziato, AIDIC, Milano, 1988. Brevi considerazioni 311 per contar qualcosa nel panorama economico europeo e mondiale. Ed è triste che certi ambientalisti ne esultino, sognando magari un’impossibile cancellazione totale della chimica dal nostro paese. L’ambiente va difeso, è vero, perché così potremo viverci meglio. Ma non si vive bene senza sviluppo, e non c’è sviluppo senza la chimica: l’ambientalismo serio consiste nel conciliare queste due realtà, per quanto è possibile e con uno sforzo continuo di miglioramento. Davide Ederle OGM vegetali e principio di precauzione Quando si discute di biotecnologie applicate all’agricoltura, spesso si dedica poca attenzione al contenuto tecnico-scientifico del tema e si tende a focalizzare il dibattito su temi etici ed emotivi, che costituiscono in ultima analisi l’unica base sulla quale viene fondata la propria decisione. Questo almeno è quanto emerge leggendo tra le righe dei diversi sondaggi svolti sulle biotecnologie, tra cui ad esempio l’Eurobarometro «Europei e Biotecnologie» o quello condotto dal Ministero dell’Agricoltura Italiano. Tra i dati più significativi che emergono vi è, tra l’altro, anche la triste considerazione che dal 1996 a oggi l’alfabetizzazione sul tema “biotecnologie” non ha fatto grandi passi avanti, continuando a presentare evidenti lacune ed equivoci. Ad esempio, solo una persona su tre riconosce che i geni sono una caratteristica di tutti gli esseri viventi e non solo degli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), mentre una persona su due crede che mangiando OGM venga alterato il proprio DNA. Appare quindi evidente la necessità di presentare e illustrare alcuni temi “propedeutici” alla comprensione delle biotecnologie e degli OGM prima di passare ad una discussione più etico/politica su come gestire la loro introduzione nella nostra vita di tutti i giorni e parlare di Principio di Precauzione (PP). OGM, chi era costui? Per capire cosa sono le biotecnologie è forse opportuno partire dalla loro origine: circa 14.000 anni prima di Cristo. In quel periodo, infatti, l’uomo ha cominciato a capire che poteva addomesticare alcuni animali per assi- Ricercatore e Docente, Parco Tecnologico Padano, Centro di Eccellenza per l’Agroalimentare della Regione Lombardia. Fondatore, Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani. Responsabile, Gruppo Scientifico per il settore Agroalimentare e Young European Biotech Network. 314 Davide Ederle curarsi un approvvigionamento di cibo costante, per svolgere lavori pesanti e così via. Qualcuno potrebbe obiettare che questo tipo di biotecnologie1 è ben diverso da quello che porta agli OGM e, sebbene in parte sia vero -essendo le tecniche per la produzione di un OGM più sofisticate di quelle utilizzate dai nostri antenati per addomesticare piante ed animali - in ultima analisi entrambe possiedono la stessa radice, derivando dall’applicazione dell’intelligenza umana alle conoscenze disponibili al fine di trovare risposte efficaci e possibilmente semplici a problemi complessi. Questo anzi, a ben vedere, è il metodo che tutti noi utilizziamo tutti i giorni per arrivare a fine giornata “sani e salvi”, dal decidere a che ora puntare la sveglia per giungere in orario al lavoro, fino a quando decidiamo di andare a coricarci la sera. In tutti questi casi, più o meno consciamente, più o meno abilmente, valutiamo i vari fattori della realtà e cerchiamo di trovare soluzioni adeguate per far coesistere positivamente la necessità di rispondere efficacemente alle circostanze contingenti con i nostri desideri ed aspirazioni. Il processo logico, dunque, che sottende alle biotecnologie è profondamente “umano”, figlio della nostra struttura del pensiero, della nostra capacità di analisi della realtà e di ciò che di essa siamo in grado di conoscere. Ciò che è possibile chiedersi è se questa attitudine “biotecnologica” abbia, nella storia, portato ad esiti ultimamente positivi o negativi. Fare ciò è abbastanza semplice: è infatti sufficiente verificare i risultati concreti che hanno apportato le biotecnologie “classiche” o “convenzionali”2 all’esperienza umana. Se si osserva ad esempio il frutto delle attività biotecnologiche sulle piante di interesse agrario, è possibile osservare che queste, durante i secoli di selezione, hanno drasticamente modificato la loro struttura piegandola ad interessi “poco naturali” e “molto umani”3. Que- 1 Secondo una definizione ampiamente accettata, vengono definite “biotecnologie” tutte quelle tecniche che utilizzano organismi viventi, o parti di essi, al fine di ottenere beni o servizi; pertanto, in ultima analisi, la stessa agricoltura può essere considerata biotecnologia. 2 Questa definizione molto ampia raggruppa quelle tecnologie che permettono la produzione di vino, birra e distillati, pane, formaggio (ovvero quei prodotti che derivano da alcuni microrganismi fermentatori) e le tecniche di selezione di piante ed animali. 3 Le piante selvatiche tendono a disperdere il seme, a competere efficacemente per lo spazio (risorse) e la luce, e a massimizzare il numero di semi prodotti. Le piante coltivate (addomesticate) trattengono il seme, sono generalmente di taglia bassa e producono semi di grandi dimensioni che presentano un eccesso di sostanze di riserva. Per queste ragioni le piante addomesticate, se non coltivate dall’uomo, non sarebbero in grado, nella maggior parte dei casi di sopravvivere nel- OGM vegetali e principio di precauzione 315 sto è stato funzionale ad un significativo aumento della produzione e ad un corrispondente calo del costo delle derrate alimentari4. Le tecniche messe a punto per lo sviluppo di queste nuove varietà sempre più produttive sono diverse. La più antica è senza dubbio la scelta di individui “mutati” che presentassero caratteristiche superiori (e.g. trattenimento e dimensione dei semi). A questa è seguita la tecnica di incrocio tra varietà diverse per ottenere ibridi superiori o inserire particolari caratteri desiderati. Sono state infine introdotte tecniche di selezione basate sulla coltura in vitro, la propagazione clonale attraverso l’embriogenesi somatica, la variazione somaclonale o la fusione di protoplasti5. Tali tecnologie, pur avendo portato ad un eccezionale potenziamento delle capacità agricole che ha permesso, nonostante le previsioni maltusiane, di sostenere la crescita della popolazione mondiale (cf. Rivoluzione Verde), hanno senza dubbio anche esacerbato l’impatto delle attività agricole sull’ambiente introducendo fattori di inquinamento ambientale, riduzione degli ecosistemi, ecc. Con la scoperta della struttura del DNA e delle tecniche di analisi e modificazione (anni ’70 del secolo scorso)6 si è presentata un’occasione l’ambiente naturale. Cf. M.J. CRAWLEY - S.L. BROWN - R.S. HAILS - D.D. KOHN M. REES, «Transgenic crops in natural habitats», in Nature 409 (2001), 682-683. 4 Se l’uomo vivesse ancora di caccia e pesca la popolazione sostenibile dall’intero pianeta non supererebbe i 20.000.000 di individui. Inoltre, l’inizio delle grandi civiltà è strettamente correlato all’abbandono del nomadismo e all’adozione di un’agricoltura stanziale legata alla monocultura (ad es. riso in Asia; grano in Europa; mais in America). 5 Tutte queste tecniche hanno lo scopo di propagare o modificare le caratteristiche geniche di un organismo senza utilizzare la riproduzione. Tali tecniche, largamente utilizzate negli ultimi quarant’anni per la creazione di nuove varietà o la propagazione clonale delle esistenti sono comunque tecniche empiriche che operano sulla base di osservazioni sperimentali e schemi di selezione e non su modelli di modificazione genetica meccanicistici. Attraverso la fusione di protoplasti (unione di due cellule vegetali a cui è stata rimossa la parete cellulare) ad esempio si era cercato di ottenere il “topato”(pomodoro e patata), una pianta che producesse patate e pomodori. L’esito non è stato dei più felici essendo stata ottenuta una pianta con la parte aerea della patata e l’apparato radicale del pomodoro. Altri casi invece hanno ottenuto ottimi risultati e i frutti delle piante così ottenute sono disponibili sugli scaffali dei nostri alimentari. 6 L’unità di DNA che contiene un’informazione comprensibile e traducibile dalla cellula, viene chiamata “gene”. Un gene mediamente è formato da qualche migliaio di basi e in genere contiene il codice per la produzione di una proteina. Tutti gli esseri viventi possiedono geni il cui linguaggio è universale. Questo sta alla base della possibilità di trasferire un gene da un organismo a un altro. Un batterio possiede circa 4.000 geni, il lievito di birra 6.000, una pianta 30.000, nel- 316 Davide Ederle straordinaria per rilanciare la ricerca, la selezione e gli ambiti stessi di applicazione delle biotecnologie agrarie. Grazie alla Biologia Molecolare, infatti, era divenuto possibile abbandonare il modello empirico che si basava su tentativi (incroci e mutazioni ripetute fino all’ottenimento del risultato desiderato) per passare ad un modello meccanicistico in cui era possibile, identificata la caratteristica desiderata, operare incroci e selezioni mirate (Marker Assisted Selection) o andare ad inserire direttamente il gene o i geni correlati alla caratteristica genetica di interesse. Questo processo, che si basa essenzialmente sull’uso di enzimi e batteri naturalmente presenti in natura, ha portato da un lato alla nascita dei cosiddetti Organismi Geneticamente Modificati7, e dall’altro ha permesso di capire cosa era accaduto ai genomi delle piante e degli animali durante i lunghi secoli di selezione8. l’uomo le stime parlano di 40-50.000. Non tutta la sequenza di DNA di un organismo, in particolar modo in quelli superiori, descrive geni. Le funzioni di tali regioni sono ancora dibattute nella comunità scientifica. Molti geni sono conservati tra specie diverse, ad esempio l’omologia tra l’uomo con il lievito di birra è circa del 30%, con la banana del 50%, con il topo del 90%, ma non si raggiunge il 100% nemmeno tra due gemelli monozigotici. 7 Con il termine Organismo Geneticamente Modificato – anche se impropriamente, visto che da un punto di vista biologico, tutti gli organismi caratterizzati da riproduzione sessuata sono, a rigor di termini, geneticamente modificati (nessun individuo è uguale ai propri genitori e nemmeno ai propri fratelli) – vengono intesi gli esseri viventi il cui DNA è stato modificato attraverso tecniche di “ingegneria genetica”. Queste tecniche permettono l’isolamento, la modifica e il trasferimento da un organismo a un altro di sequenze di DNA. È quindi possibile parlare di OGM anche nel caso in cui si “trasferisca” un gene di mais in mais, purché questo sia fatto utilizzando la tecnica del DNA ricombinante. La definizione adottata dalla Direttiva europea 2001/18, che regola il rilascio ambientale degli OGM, è la seguente: «un organismo, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genica naturale». Tutto ciò che viene invece ottenuto con programmi di miglioramento genetico convenzionale «inclusa la mutagenesi e la fusione cellulare di cellule vegetali di organismi che possono scambiare materiale genetico anche con metodi di riproduzione tradizionali» è escluso dalla definizione di OGM. 8 Si è ad esempio scoperto che due varietà di mais molto utilizzate per la produzione di ibridi commerciali tra gli anni ’70 e ’80 in realtà presentavano oltre 4000 geni (su un totale di 20.000) non condivisi, che cioè erano presenti solo in una delle due varietà. Nonostante una differenza a livello di genoma del 20% entrambe rimanevano in ogni caso piante di mais. Cf. S. BRUNNER - K. FENGLER M. MORGANTE - S. TINGEY - A. RAFALSKI, «Evolution of DNA Sequence Nonhomologies among Maize Inbreds», in Plant Cell 17 (2005), 343-360. OGM vegetali e principio di precauzione 317 Attualmente esistono più di 150 eventi9 OGM autorizzati a livello mondiale e la diffusione degli OGM ha superato gli oltre 90 milioni di ettari 10 in soli 10 anni, dimostrando un livello di adozione senza precedenti a livello globale (oltre 9.000.000 di agricoltori li coltivano, ma soprattutto sono molto pochi quelli che abbandonano la tecnologia). Accanto alle applicazioni più famose che riguardano Colza, Cotone, Mais e Soia, in cui sono stati inseriti geni che conferiscono resistenza agli attacchi di taluni insetti o la tolleranza ad alcune classi di erbicidi, riducendo l’impatto ambientale della loro coltivazione, vi sono molte altre applicazioni. Dalla bonifica ambientale, alla tutela dei prodotti tipici, alla messa a punto di biosensori per gli inquinanti, o ancora alla produzione di vaccini, farmaci e biofortificanti, come nel caso del Golden Rice. Per quanto riguarda quest’ultimo, la speranza è che completi presto il suo iter autorizzativo visto che, essendo in grado di accumulare pro-vitamina A (il composto che dà il caratteristico colore alle carote e non presente nei chicchi di riso) può contribuire efficacemente ad affrontare il problema della carenza di vitamina A (VAD) che causa ogni anno cecità in circa 500.000 bambini e la morte (ca. 6000 casi/giorno). Il PP: da dove, come e perché… Quello che inizialmente veniva indicato come “approccio precauzionale” ha fatto la sua prima comparsa nell’arena internazionale durante la Convenzione della Diversità Biologica di Rio (CBD, 1992) definito come segue: «nel caso esista il rischio di una significativa riduzione della diversità biologica, la mancanza di certezze scientifiche sugli esiti di una tecnologia non deve essere utilizzata per evitare l’adozione di misure volte a minimizzare tale rischio». In realtà la sua origine è molto più antica e risponde all’ippocratica massima “primum non nocere” o se vogliamo “prevenire è meglio che curare” o ancora l’inglese “better safe than sorry”. 9 Con il termine “evento” viene identificato non solo il gene inserito, ma anche l’assetto genico derivato dall’inserimento. Ad esempio l’evento MON809 e l’evento MON810 sono stati ottenuti entrambi con lo stesso costrutto genico, cioè sono stati inseriti gli stessi geni, ma la loro posizione ed il loro assetto nel genoma della pianta è diverso e, da un punto di vista normativo, vengono considerati due eventi, appunto, diversi. 10 Per avere un termine di paragone basti pensare che la superficie agricola italiana totale è di 15 milioni di ettari. Davide Ederle 318 La storia ci ha consegnato diversi esempi di PP ante litteram. Il Duca di Wuerttemberg e Teck nel 1778 proibì ad esempio l’uso delle tubazioni di piombo con 200 anni di anticipo rispetto alle linee guida dell’OMS basate su dati scientifici. John Snow nel 1854 fece rimuovere la pompa idrica in Broad Street a Londra per prevenire la diffusione del colera nonostante non vi fossero dati scientifici certi sul meccanismo di trasmissione della malattia. Gli esempi tuttavia non sono tutti positivi: ad Avignone (ed in altre parti della Francia) tra il 1200 ed il 1500 come norma sanitaria si vieta agli ebrei, alle donne pubbliche ed ai lebbrosi di toccare le carni esposte dai macellai (ma se ne potrebbero fare altri anche molto più recenti11). Questo ha portato in tempi recenti a stabilire criteri abbastanza rigidi per l’applicazione del PP. In questo senso la Commissione Europea, in una comunicazione del 2 febbraio 2000 ha stabilito le linee guida per la sua corretta applicazione nel contesto europeo. Tale comunicazione, fatta propria anche dal Parlamento Europeo, costituisce il documento cardine che ha portato all’integrazione del PP all’interno della normativa comunitaria e lo definisce come segue: Il PP comprende quelle specifiche circostanze in cui le prove scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni, ricavate da una preliminare valutazione scientifica obiettiva, che esistono ragionevoli motivi di temere che gli effetti potenzialmente pericolosi sull’ambiente e sulla salute umana, animale o vegetale possono essere incompatibili con il livello di protezione prescelto. E aggiunge: 11 Ad esempio un articolo scientifico apparso negli anni ’80 aveva ipotizzato la rischiosità della clorazione delle acque in quanto avrebbe potuto, presumibilmente, trasformare i residui organici presenti nell’acqua in composti organoclorurati che avrebbero potuto a loro volta favorire l’insorgere di tumori. Nonostante la IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) avessero pubblicato, nel 1991, un rapporto che affermava che non vi erano prove tali da destare allarme e che, comunque, il rischio ipotetico andava confrontato con quello certo che verrebbe dal bere acqua non clorata, il governo peruviano, in quello stesso anno e in nome di un PP ante litteram, decise di interrompere la clorazione dell’acqua potabile. Ne conseguì un’epidemia di colera che colpì, nei successivi 5 anni, un milione di persone, uccidendone diecimila. Cf. F. BATTAGLIA, «Il principio di precauzione: precauzione o rischio?», in F. BATTAGLIA, A. ROSATI (a cura di), Il principio di precauzione - i costi della non-scienza, Edizioni 21mo secolo, Milano 2004, 37-69. OGM vegetali e principio di precauzione 319 Le misure basate sul PP dovrebbero essere, tra l’altro: 1. proporzionali rispetto al livello prescelto di protezione, 2. non discriminatorie nella loro applicazione, 3. coerenti con misure analoghe già adottate, 4. basate su un esame dei potenziali vantaggi e oneri dell’azione o dell’inazione, 5. soggette a revisione alla luce dei nuovi dati scientifici, e 6. in grado di attribuire la responsabilità per la produzione delle prove scientifiche necessarie. Tale modalità di applicazione dovrebbe consentire di introdurre in modo sicuro nuove tecnologie nella Comunità e d’altra parte consentire una rivalutazione corretta ed appropriata di quelle già in uso, evitando il ripetersi del caso dell’amianto, per il quale gli esperti ritengono che nei prossimi 35 anni vi saranno in Europa tra i 250000 e i 400000 casi di decesso, dovuti a mesotelioma, cancro ai polmoni e asbestosi ad esso imputabili. Considerando che l’estrazione ha avuto inizio nel 1879 e che i primi casi di danni alla salute sono rintracciabili già nel 1898, mentre il bando è avvenuto in UE solo nel 1998-9, ovvero un secolo dopo, una corretta definizione e applicazione del PP è senza dubbio benvenuta. OGM e PP: un matrimonio riuscito? Uno dei primi casi di applicazione del PP formato europeo sono stati senza dubbio gli OGM, che dal 1998 hanno visto riscrivere l’intera legislazione di riferimento (risalente al 1990 – Dir. 90/220) proprio attorno al PP. In particolare la nuova Direttiva 2001/18: nel rispetto del principio precauzionale, mira al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri e alla tutela della salute umana e dell’ambiente quando: si emettono deliberatamente nell’ambiente organismi geneticamente modificati a scopo diverso dall’immissione in commercio all’interno della Comunità, si immettono in commercio all’interno della Comunità organismi geneticamente modificati come tali o contenuti in prodotti. Le motivazioni che hanno spinto a disegnare questa nuova, e molto complessa, normativa, sono state essenzialmente due: ottenere il consenso dei cittadini secondo l’assioma “più una cosa è controllata, più è sicura”; garantire il più possibile la sicurezza dei prodotti presenti sul mercato interno e ridurre le possibilità di scandali alimentari. 320 Davide Ederle Tale Direttiva presenta otto allegati tecnici che descrivono le procedure per l’approvazione di nuovi eventi OGM. In particolare il IIIB definisce le 4112 classi informative di natura scientifica richieste; va ricordato che i dati devono essere di qualità sufficiente a consentire la pubblicazione su di una rivista scientifica internazionale, e tra gli altri deve essere fornita: D. INFORMAZIONI RELATIVE ALLA PGM (13 sottoclassi informative) 1. Descrizione del/i tratto/i e delle caratteristiche introdotte o modificate. 6. Eventuali modifiche della capacità della PGM di trasferire materiale genetico ad altri organismi. 7. Informazioni su eventuali effetti tossici, allergenici o altri effetti nocivi per la salute umana riconducibili alla modificazione genetica. 8. Informazioni sulla sicurezza della PGM per la salute animale, con particolare riguardo ad eventuali effetti tossici, allergenici o altri effetti nocivi riconducibili alla modificazione genetica se si intende impiegare la PGM negli alimenti per animali. 9. Meccanismi di interazione tra le PGM e gli organismi bersaglio (se del caso). 10. Potenziali cambiamenti nelle interazioni della PGM con organismi non bersaglio risultanti dalla modificazione genetica. 11. Potenziali interazioni con l’ambiente abiotico. Nonostante queste informazioni debbano essere fornite prima di ottenere l’autorizzazione ad una sperimentazione in campo di un nuovo OGM, a garanzia del consumatore e dell’ambiente, oggi la “preoccupazione” dei cittadini verso gli OGM è molto superiore rispetto al 1990 o al 1999, secondo l’assioma “se sono controllati ci sarà un motivo e sicuramente non ci dicono tutto”; inoltre sono stati proprio gli OGM che hanno risentito maggiormente degli scandali alimentari intervenuti in altri settori consi12 ALLEGATO III B: informazioni obbligatorie per le notifiche relative all’emissione di piante superiori geneticamente modificate (PGM). A. Informazioni generali. B. Informazioni sull’organismo ospite o, se del caso, sui progenitori. C. Informazioni sulla modificazione genetica. D. Informazioni relative alla pianta geneticamente modificata. E. Informazioni sul sito di emissione. F. Informazioni concernenti l’emissione. G. Informazioni sui piani di monitoraggio, controllo e trattamento del sito e dei rifiuti dopo l’emissione. OGM vegetali e principio di precauzione 321 derati ormai maturi (cf. BSE, diossina, listeria ecc.) e dove il livello di controllo era di gran lunga più lasso. Un altro caso emblematico di applicazione del PP agli OGM è quello del Golden Rice, pensato per rispondere in modo efficace ed economico al problema della Vitamin A Deficiency (VAD), largamente diffuso nelle popolazioni che basano la loro dieta sul riso. Tale coltura, infatti, non presenta B-carotene (pro-vitamina A) nel chicco, e per questo un ricercatore, Ingo Potrykus, nel 1999 ha sviluppato un OGM che fosse in grado di accumularlo anche nel chicco. Da allora questo OGM ha seguito un iter per la valutazione del rischio molto simile a quello europeo, centrato sul PP come unico strumento di valutazione. Questo ha permesso solo recentemente di effettuare le prime prove in campo, dopo aver dimostrato che i chicchi di riso arricchiti in pro-vitamina A non erano dannosi per la salute e per l’ambiente. Fa sorridere, per così dire, che questa varietà, che verrà distribuita gratuitamente agli agricoltori con un reddito inferiore ai 10.000 $ e alle popolazioni che soffrono di VAD, sia ferma al palo da anni e che nel frattempo (per garantire la salute di quelle popolazioni da possibili effetti collaterali, peraltro poi non rilevati e con una spesa complessiva che supera i 12 M€) si siano lasciati in balia della VAD circa 400 milioni di persone (3 milioni di bambini nel frattempo sono diventati ciechi e 12 milioni di persone sono morte). Per tornare su temi più nazionali, appare utile analizzare l’iter del cosiddetto Decreto “Amato” (4 Agosto 2000). Il decreto, «[…] considerato che l’Istituto Superiore di Sanità ha evidenziato che dei sette prodotti [OGM] notificati i quattro tipi di mais contengono livelli di proteine derivanti dalle modificazioni genetiche compresi tra 0,04 e 30 parti per milione» nonostante «[…] nel predetto parere l’Istituto Superiore di Sanità giunge, altresì, alla conclusione che, alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, non risultano esistere rischi per la salute umana ed animale a seguito del consumo dei derivati dei predetti OGM […] il parere dell’Istituto Superiore di Sanità non si esprime circa il rischio di un eventuale “rilascio ambientale” degli OGM in questione, pure a fronte dell’accertata permanenza di residui di componenti modificati nel prodotto, sicché ancora più lesiva del principio di precauzione […]» sancisce che «la commercializzazione e l’utilizzazione dei prodotti transgenici Mais BT 11, Mais MON 810, Mais MON 809 e MAIS T25 sono sospese.» In realtà tale tipo di applicazione del PP, come abbiamo visto, non è corretta: infatti non si identifica alcun rischio concreto legato al consumo di quel mais; inoltre viene richiesta l’analisi dell’impatto ambientale di farine e prodotti alimentari, cosa che risulta quantomeno discutibile. In questo modo è stato possibile vietare in Italia l’uso di prodotti derivati dai mais OGM senza alcun motivo e alimentare la paura dei cittadini verso questo tipo di prodotti. Davide Ederle 322 Questa applicazione distorta del PP sarà annullata dalla sentenza del TAR del Lazio che nel novembre 2004, dopo ben 4 anni, metterà fine alla questione asserendo che: La semplice presenza di residui di proteine transgeniche in nuovi prodotti alimentari non impedisce la loro immissione in commercio, mediante una procedura semplificata, se non vi sono rischi per la salute umana. […] il rischio non deve essere puramente ipotetico, né risultare fondato su semplici supposizioni non ancora verificate; lo Stato deve basarsi su indizi precisi e non su ragioni aventi carattere generico. In ogni caso, poiché il tema OGM-free è molto caro al nostro paese, si è cercata un’altra via al mantenimento del blocco, in particolare predisponendo un ulteriore allegato tecnico (da aggiungersi agli otto già presenti) alla versione italiana della Dir 2001/18 (DLgs 224/2003). In questo allegato vengono sanciti come “nuovi” rischi legati agli OGM, di cui è necessaria una valutazione preventiva, i seguenti: - - abbandono o sostituzione di colture divenute, in seguito all’impatto dell’OGM, non più adatte o economicamente non più convenienti, con particolare riguardo alle varietà locali; danni all’immagine dei prodotti locali e/o della zona di emissione e costi da sostenere per difenderla; cambiamento dei percorsi commerciali per i prodotti provenienti dalla zona di emissione dovuti ad impossibilità di accesso alla vendita OGM-free (grande distribuzione, alimenti per lattanti e bambini) o ad altre tipologie commerciali; modificazioni del paesaggio con impatto negativo sull’attività agrituristica; abbandono e/o marginalizzazione della zona di emissione in seguito alla compromissione di forme di agricoltura praticate nella zona divenute meno redditive in seguito all’impatto dell’OGM. Questo allegato in sostanza può essere tradotto: “Per evitare qualunque rischio, compreso quello di impresa, in nome del PP non si vogliono gli OGM, soprattutto se funzionano”. Altri casi di applicazione discrezionale e funzionale del PP abbondano, ve ne sono anche di storici come quello del bando del caffè risalente al 1500-1600, in cui si sono addotti pretesti anche pseudo-scientifici per sostenere la moratoria e per sostenere in tal modo l’economia del vino (Francia) o della birra (Germania). Di sicuro, leggere che nel 1679 l’Associazione dei Medici Francesi affermava che «[…] l’utilizzo [del caffè] riduce il fluido cerebrospinale e può generare convulsioni […] in alcuni casi portando anche a paralisi ed impotenza. […] abbiamo notato che OGM vegetali e principio di precauzione 323 questa bevanda disgustosa […] ha quasi completamente disabituato al consumo di vino», ci può far sorridere, come farà sorridere i nostri nipoti ciò che probabilmente si sta scrivendo oggi sugli OGM, che appaiono più come la causa di tutti i mali del mondo che una risorsa tecnologica che può aiutare a risolvere alcuni problemi. Sta di fatto che ad oggi, nonostante le oltre 6.000 pubblicazioni sul tema, da cui emergono con chiarezza i benefici della tecnologia a fronte di rischi che via via si vanno assottigliando e diventano sempre più ipotetici13, si ha ancora una folle paura di questa tecnologia. Come sottolineava Busquin, ex commissario alla ricerca UE: Uno dei “segreti meglio conservati” degli ultimi anni di accese discussioni attorno agli OGM, è l’enorme mole di ricerche condotte in Europa, e nel mondo, finalizzate alla valutazione del rischio. Queste ricerche dimostrano che le piante geneticamente modificate e i prodotti sviluppati e commercializzati fino ad oggi, secondo le usuali procedure di valutazione del rischio, non hanno presentato alcun rischio per la salute umana o per l’ambiente. Anzi l’uso di una tecnologia più precisa e le più accurate valutazioni in fase di regolamentazione rendono probabilmente queste piante e questi prodotti ancora più sicuri di quelli convenzionali. In conclusione Nonostante le precise enunciazioni in sede Europea, il Principio di Precauzione, nella sua seppur breve storia, si è prestato più a sfruttamenti inappropriati rispondenti a logiche protezionistiche o ideologiche che di reale attenzione ambientale e per la salute (umana o animale). Si è inoltre sfruttata indebitamente l’incapacità della scienza, che per la sua struttura non dispone di strumenti adatti a dare risposte ultimative (la conoscenza umana è sempre perfettibile), per bloccare a comando quelle innovazioni tecnologiche, tra cui gli OGM, che sono funzionali ad acquisire visibilità per taluni gruppi di pressione. 13 Esistono molte pubblicazioni che sottolineano una riduzione dei casi di avvelenamento da pesticidi tra gli agricoltori che utilizzano OGM, un aumento di reddito, una riduzione di composti chimici ad alto impatto ambientale oltre che una maggior qualità e salubrità delle produzioni (es. fumonisine nel mais). Tali benefici sono inoltre indipendenti dalle dimensioni aziendali e valgono anche e soprattutto per gli agricoltori dei PVS. D’altra parte non sono stati rilevati né danni ambientali né sanitari, nonostante i molti lanci allarmistici, legati agli OGM e i dieci anni di utilizzo commerciale. Davide Ederle 324 Poiché una precauzione totale non è possibile, sarebbe più opportuno adottare per la valutazione del rischio un principio diverso dal PP che sappia tener conto innanzitutto del fatto che l’azione umana deve sempre partire da dati concreti con cui confrontarsi nel presente. In tal senso sarebbe un’utile miglioria l’adozione del Principio di priorità, che si basa su 5 punti cardine: 1. immediatezza: a parità di condizioni, i rischi più vicini nel tempo devono avere la precedenza rispetto ai rischi più lontani; 2. incertezza: rischi che sono più certi (cioè più probabili) devono avere la precedenza su rischi meno certi, se i rispettivi effetti sono equivalenti; 3. valore atteso: tra rischi ugualmente certi, deve avere la precedenza quello che minaccia di avere conseguenze più gravi; 4. adattabilità: se sono disponibili tecnologie sufficienti a ridurre o invertire le conseguenze negative di un evento, allora il rischio deve essere “scontato”; 5. irreversibilità: le conseguenze che probabilmente saranno irreversibili, o caratterizzate da un’alta persistenza, devono ricevere un peso maggiore. Alla base di questi cardini è però necessario introdurre due considerazioni di base: - Considerazione morale: l’uomo ha la precedenza sulle creature non umane e sull’ambiente. Considerazione pratica: i rischi (soprattutto se solo presunti) devono sempre essere posti a confronto con i benefici (soprattutto se reali). Marialuisa Lavitrano OGM animali e xenotrapianti OGM animali Sebbene le biotecnologie siano state utilizzate inconsapevolmente per millenni per produrre vino, yogurt e prodotti fermentati in genere, la moderna biotecnologia che si basa sulla consapevole applicazione di conoscenze scientifiche è nata negli anni ’50 con la scoperta degli antibiotici e dei relativi processi produttivi mediante fermentazione di specifici microrganismi. Lo sviluppo e l’impiego di biotecnologie è oggi oggetto di dibattito a livello internazionale: a fronte dell’introduzione nella biosfera di organismi geneticamente modificati (OGM) si pongono infatti questioni di carattere etico concernenti la biosicurezza, e al contempo sono da tenere in giusta considerazione i potenziali contributi che gli OGM potrebbero fornire allo sviluppo futuro in svariati ambiti. Le cosiddette “biotecnologie avanzate” sono ormai entrate prepotentemente in molti settori, tra i quali l’ingegneria, la medicina e la produzione agricola e zootecnica, proponendosi agli esperti ed agli operatori di questi campi, come una delle risorse su cui investire - soprattutto nei mercati biomedico e farmacologico - ed al legislatore, come oggetto di una doverosa regolamentazione circa limiti e modalità di sviluppo da un lato, e criteri d’uso dall’altro, di tali tecnologie1. La modificazione degli organismi viventi a livello genetico germinale, passibile di trasmissione alla prole, tramite l’inserimento di sequenze co- Docente, Patologia e Immunologia, Responsabile del Molecular Medicine Laboratory, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Università di Milano-Bicocca; articolo in collaborazione con Marco Busnelli, Maria Grazia Cerrito, Laura Farina, Roberto Giovannoni, Emanuela Grassilli, Stefano Manzini, Robert Narloch, Stefano Pozzi, Alessandra Scagliarini, Alessia Vargiolu. 1 J. SUK - A. BRUCE - R. GERTZ - C. WARKUP - C.B. WHITELAW - A. BRAUN - C. ORAM - E. RODRIGUEZ-CEREZO - I. PAPATRYFON, «Dolly for dinner? Assessing commercial and regulatory trends in cloned livestock», in Nat Biotechnol. 25/1 (2007), 47-53. 326 Marialuisa Lavitrano dificanti proteine di interesse nel genoma dell’individuo, processo noto come transgenesi, è sicuramente una delle biotecnologie innovative di maggiore interesse degli ultimi anni, soprattutto considerandone il vasto raggio di applicabilità. La tecnologia del trasferimento di geni esogeni in cellule recipienti con tecniche di laboratorio ha aperto una nuova area di ricerca, che rappresenta da alcuni anni la frontiera dell’ingegneria genetica ed ha dimostrato inoltre di essere uno strumento di grande utilità nella ricerca di base ed applicata. La modificazione genetica degli animali è stata effettuata per la prima volta nel 1980 nel topo ma già nel 1985 ha interessato altre specie di grossa taglia quali bovini, ovini e suini2. In zootecnia questo tipo di tecnologia è, prevalentemente, finalizzata al miglioramento delle razze attraverso l’introduzione di caratteri economicamente significativi, quali una migliore efficienza nell’utilizzazione del cibo, una carne più magra, il raggiungimento del massimo peso corporeo in un tempo minore o la resistenza a malattie in grado di compromettere la salute animale. Il concetto di “fattoria molecolare” ha catturato la fantasia degli investitori di capitale, che negli ultimi anni hanno finanziato Università e compagnie private per studiare la possibilità di produrre animali transgenici di interesse commerciale. I genetisti molecolari e gli allevatori convenzionali, inoltre, si propongono un altro traguardo: l’utilizzazione degli animali transgenici quali bioreattori viventi, in grado di secernere proteine ricombinanti e molecole di interesse farmaceutico nel latte o nel sangue. Organismi animali di grossa taglia come mucche, pecore, capre, maiali e conigli presentano, infatti, vantaggi nella produzione di proteine ricombinanti su larga scala, consentono corrette modificazioni post-traduzionali, produzione a basso costo, veloce propagazione delle linee transgeniche ed alta stabilità d’espressione. Le proteine contenute nei liquidi biologici presentano l’ovvio vantaggio di venire recuperate da una fonte ciclicamente ottenibile, senza dover sacrificare l’animale produttore. Ne sono esempio maiali transgenici secernenti nel latte fino ad 1 grammo di Proteina C umana e fattore IX della coagulazione, capre transgeniche il cui latte contiene antitrombina III (ATIII) e l’attivatore del plasminogeno (tPA é il più potente anticoagulante disponibile, utilizzato nella terapia dell’infarto), pecore transgeniche che producono durante la lattazione da 1,5 a 37 g/l di α1-antitripsina (la carenza di questo enzima è coinvolta nell’insorgenza di gravi forme di enfisema polmonare precoce). L’enzima α-glucosidasi dal latte di conigli transgenici, inizialmente regi- 2 R.E. HAMMER et al., «Production of transgenic rabbits, sheep and pigs by microinjection», in Nature 315 (1985), 680-683. OGM animali e xenotrapianti 327 strato come farmaco orfano, è stato invece efficacemente testato per la malattia di Pompe e attualmente è l’unico modo per trattare il gravissimo difetto metabolico che sarebbe altrimenti fatale in bambini minori di due anni. Basandosi sui livelli medi d’espressione, il volume di latte giornaliero e l’efficienza di produzione, è stato ipotizzato che 5400 mucche sarebbero sufficienti per produrre i 100000 Kg di albumina serica umana necessari a soddisfare il fabbisogno mondiale per un anno; 4500 pecore basterebbero per la produzione di 5000 Kg di αAT, 100 capre per la produzione di 100 Kg di anticorpi monoclonali, 75 capre per sintetizzare 75 Kg di ATIII e due maiali per la produzione di 2 Kg di fattore della coagulazione IX umano3. Animali transgenici vengono attualmente prodotti per aiutare i ricercatori ad identificare, isolare e caratterizzare i geni al fine di comprendere in modo sempre più puntuale la funzioni di tali geni di interesse e come vengono regolati. È possibile apportare modificazioni genetiche opportune per “sopprimere” l’attività di geni prescelti. Correlando la mancanza di una determinata funzione in seguito al “silenziamento” di un gene è così possibile ottenere informazioni sul ruolo rivestito dal gene e dal prodotto proteico da questo codificato. Gli animali transgenici sono stati anche utilizzati come modelli sperimentali per lo studio delle patologie umane: per quanto riguarda l’analisi dettagliata dei meccanismi molecolari della patogenesi; per verificare l’efficacia di nuove terapie prima di intraprendere trial clinici su soggetti umani; per definire nuove strategie in grado di ristabilire il corretto funzionamento di geni mutati (l’obiettivo della cosiddetta terapia genica). Topi transgenici sono stati utilizzati sia per studiare patologie gain-of-function: neoplasie, una forma del morbo di Alzheimer, l’Atassia Spinocerebellare di tipo I (una malattia da espansione di triplette), la sindrome di Gerstmann-Straussler-Scheinker (una patologia neurodegenerativa causata da una mutazione dominante del gene della proteina prionica); sia per patologie loss-of-function: tumori causati dall’inattivazione di geni oncosoppressori, fibrosi cistica, sindrome dell’X fragile e la β-talassemia. Gran parte degli investimenti sono stati finora dedicati alle malattie monogeniche; la ricerca in futuro si rivolgerà verso la creazione di modelli animali 3 R. STRAUGHAN, Ethics, morality and animal biotechnology, Biotechnology and Biological Sciences Research Council, Swindon 1999; J. CLARK - B. WHITELAW, «A future for transgenic livestock», in Nat Rev Genet. 4/10 (2003), 825-833; C.B. WHITELAW, «Transgenic livestock made easy», in Trends Biotechnol. 22/4 (2004), 157-159. 328 Marialuisa Lavitrano per malattie multigeniche che coinvolgono un numero più elevato di geni4. La produzione di animali geneticamente modificati ha inoltre la finalità di mettere a disposizione della comunità scientifica organi e tessuti da impiegare nei trapianti d’organo sull’uomo. Lo xenotrapianto è il trapianto di cellule, tessuti ed organi tra individui di specie differenti; attualmente si presenta come la strada più promettente da percorrere per porre rimedio alla carenza d’organi. Infatti, se e quando lo xenotrapianto diventerà realtà, consentirà una sorgente costante di organi di ogni tipo e dimensione. Dal punto di vista strettamente medico, una simile disponibilità minimizzerà il tempo speso nelle liste d’attesa, evitando il progressivo deterioramento clinico del paziente; ridurrà considerevolmente i costi per il trattamento dei pazienti; consentirà una migliore organizzazione delle unità trapiantologiche e di conseguenza interventi chirurgici programmati in condizioni cliniche ideali, in cui i tempi di ischemia saranno ridotti al minimo. È inoltre auspicabile che la riduzione dei costi per l’intervento contribuirà ad eliminare il traffico illegale d’organi umani. Lo xenotrapianto offrirà un ulteriore unico vantaggio: la possibilità di “precondizionare” l’organismo donatore, ad esempio mediante ingegneria genetica, per renderlo più compatibile con il ricevente; mentre negli allotrapianti (trapianto tra organismi della stessa specie) è possibile agire solo sul ricevente per assicurare la sopravvivenza a lungo termine dell’organo trapiantato5. È evidente come la realizzazione su larga scala di maiali transgenici destinati allo xenotrapianto, a seguito della crescente richiesta di organi da trapiantare, potrebbe consentire l’apertura di un nuovo filone zootecnico di elevatissime potenzialità economiche, di immediato interesse per la salute dell’uomo. La manipolazione genetica degli animali ha quindi rivoluzionato le conoscenze nell’ambito della biologia molecolare. Diverse tecniche di trasferimento genico possono essere utilizzate per produrre animali transgenici i cui genomi portano nuove informazioni genetiche oppure contengono mutazioni specifiche predeterminate. Come detto, l’organismo animale nella sua interezza è il modello animale più adatto per studiare la funzione di geni, in particolare quelli coinvolti nei processi biologici più complessi. 4 W.A. KUES - H. NIEMANN, «The contribution of farm animals to human health», Trends Biotechnol. 22/6 (2004), 286-294; C.V. HUNTER - L.S. TILEY - H.M. SANG, «Developments in transgenic technology: applications for medicine», in Trends Mol Med. 11/6 (2005), 293-298. 5 E. COZZI - E. ANCONA, «Xenotransplantation, where do we stand?», in J Nephrol. 16/Suppl 7 (2003), S16-21. OGM animali e xenotrapianti 329 Microiniezione nel Pronucleo La microiniezione nel pronucleo maschile dell’ovocita fecondato è la metodica attualmente più impiegata per la transgenesi animale e quella grazie alla quale sono stati generati i primi animali transgenici6. Subito dopo la fecondazione, il pronucleo della cellula uovo e quello dello spermatozoo sono distinti l’uno dall’altro; la scelta del pronucleo maschile come bersaglio preferenziale della microiniezione deriva dalle sue maggiori dimensioni rispetto a quello femminile. Attraverso un apposito ago vengono iniettati circa 2 picolitri di soluzione contenente il DNA esogeno di interesse. Gli embrioni vengono poi coltivati in vitro fino allo stadio di morula e successivamente impiantati in madri pseudogravide7. Il DNA esogeno si integra o, raramente, rimane libero nelle cellule per una o più divisioni; nel primo caso l’animale è definito transgenico, nel secondo caso invece si parla di animale chimerico. Spesso l’integrazione del transgene è accompagnata da estese delezioni e riarrangiamenti del DNA genomico limitrofo. L’integrazione è casuale, anche se può avvenire con una certa frequenza a livello delle rotture che si originano sui cromosomi in condizioni naturali. La microiniezione nel pronucleo richiede un equipaggiamento sofisticato e costoso oltre ad una grande abilità manuale; inoltre il livello di efficienza di tale metodica è basso: nei grandi animali solo il 3-5% degli ovociti trattati origina animali geneticamente modificati8. Cellule Staminali Embrionali Una seconda tecnica per la modificazione genetica di animali prevede l’utilizzo di cellule staminali di origine embrionale (Embryonic Stem cells, ES) che derivano dalla massa cellulare interna della blastocisti. Queste cellule sono totipotenti, cioè in grado di differenziarsi in cellule di tutti i tessuti dell’embrione. Le cellule ES una volta prelevate da embrioni preimpianto allo stadio di blastocisti vengono mantenute in coltura in presenza di op- 6 J.W. GORDON - F.H. RUDDLE, «Integration and stable germ line transmission of genes injected into mouse pronuclei», in Science 214 (1981), 1244-1246. 7 M.B. NOTTLE - K.A. HASKARD - P.J. VERMA - Z.T. DU - C.G. GRUPEN - S.M. MCILFATRICK - R.J. ASHMAN - S.J. HARRISON - H. BARLOW - P.L. WIGLEY - I.G. LYONS - P.J. COWAN - R.J. CRAWFORD - P.L. TOLSTOSHEV - M.J. PEARSE - A.J. ROBINS - A.J. D’APICE, «Effect of DNA concentration on transgenesis rates in mice and pigs», in Transgenic Res. 10/6 (2001), 523-531. 8 R.J.WALL, «Pronuclear microinjection», in Cloning Stem Cells 3/2 (2001), 209220. 330 Marialuisa Lavitrano portuni fattori di crescita e di fibroblasti, che ne impediscono il differenziamento, e sono in grado di crescere in vitro in modo indefinito per molte generazioni, producendo un numero illimitato di cellule identiche, ognuna delle quali, come detto, ha la capacità di differenziarsi in vari tipi di tessuti. Nel genoma di queste cellule in coltura è possibile introdurre DNA esogeno mediante trasfezione; successivamente le cellule trasformate possono essere selezionate mediante l’impiego di opportuni marcatori9. Le cellule ES ricombinanti vengono poi introdotte nel blastocele di un embrione ricevente allo stadio di blastocisti, dove si inseriscono nella massa cellulare interna mescolandosi con le altre cellule. Questo porta alla formazione di un embrione chimerico comprendente cellule di origine diversa. Per verificare che il transgene sia integrato stabilmente nella linea germinale è necessario incrociare l’animale transgenico con animali wild type, ottenendo una prima progenie (F1) che sarà eterozigote per la modificazione genetica. Per ottenere l’omozigosità è quindi necessario incrociare tra loro due esemplari eterozigoti della progenie F1. Le cellule ES sono anche particolarmente adatte ad effettuare la ricombinazione omologa, ovvero la sostituzione mirata di un segmento di genoma endogeno con un segmento omologo di DNA esogeno10. Questo tipo di trasferimento genico è affetto però da diversi svantaggi: i) la tecnica risulta piuttosto invasiva, dal momento che è prevista la manipolazione dell’embrione; ii) l’efficienza è bassa e dipende dalla specie che viene trattata; iii) le cellule ES potrebbero moltiplicarsi in modo spontaneo e incontrollato, causando l’insorgenza di tumori. Trasferimento Nucleare La tecnologia del trasferimento nucleare prevede il trasferimento di un nucleo proveniente da una cellula donatrice somatica in un oocita precedentemente “enucleato” al fine di generare cloni di animali aventi il medesimo genotipo. I nuclei delle cellule animali conservano, infatti, l’informazione genetica necessaria per l’intero programma di sviluppo di un organismo e possono essere opportunamente riprogrammati dal citoplasma dell’ovocita. La capacità di riprogrammazione del nucleo è comunque maggiore quanto più precoce è lo stadio di sviluppo della cellula dalla quale viene isolato. 9 M.R. CAPECCHI, «Altering the genome by homologous recombination», in Science 244 (1989), 1288-1292. 10 M.R. CAPECCHI, «Gene targeting in mice: functional analysis of the mammalian genome for the twenty-first century», in Nat Rev Genet. 6/6 (2005), 507-512. OGM animali e xenotrapianti 331 La famosa pecora Dolly è stato il primo mammifero clonato utilizzando nuclei ottenuti da tessuto adulto differenziato11. L’introduzione del nucleo donatore avviene mediante fusione tra l’uovo e la cellula donatrice. Dopo un breve periodo in coltura, circa 5-6 giorni, gli embrioni vengono trasferiti in madri pseudogravide dove completano il loro sviluppo. Questa tecnica consente di effettuare prima del trasferimento nucleare una selezione delle cellule trasfettate, per individuare quelle in cui vi sia un alto livello di espressione del transgene d’interesse. Le difficoltà tecniche di questa metodica garantiscono alla clonazione riproduttiva probabilità di successo decisamente basse: sono necessari centinaia di tentativi per ottenere un trasferimento nucleare efficace, la maggior parte della progenie transgenica muore nel corso della gravidanza oppure subito dopo la nascita, inoltre gli individui nati spesso mostrano malformazioni12. Vettori Lentivirali Uno dei metodi più promettenti per la modificazione genetica di animali è rappresentato dall’uso dei lentivirus replicazione difettivi13. I vettori lentivirali sono realizzati mediante opportuna delezione dei geni chiave coinvolti nella replicazione del virus e del genoma virale. La produzione delle particelle virali è consentita solo mediante l’introduzione del DNA virale in cellule, ingegnerizzate mediante trasfezione per esprimere i geni mancanti, destinate al packaging. Per ragioni di sicurezza, per ridurre il rischio di eventi di ricombinazione che potrebbero originare virus replicazionecompetenti nelle cellule destinate al packaging, ogni gene mancante viene introdotto con un differente costrutto14. 11 I. WILMUT - A.E. SCHNIEKE - J. MCWHIR - A.J. KIND - K.H. CAMPBELL, «Viable offspring derived from fetal and adult mammalian cells», in Nature 385 (1997), 810-813. 12 I. WILMUT, «Are there any normal cloned mammals?», in Nat Med. 8/3 (2002), 215-216. 13 C. LOIS - E.J. HONG - S. PEASE - E.J. BROWN - D. BALTIMORE, «Germline transmission and tissue-specific expression of transgenes delivered by lentiviral vectors», in Science 295 (2002), 868-872; A. PFEIFER - M. IKAWA - Y. DYN - I.M. VERMA, «Transgenesis by lentiviral vectors: lack of gene silencing in mammalian embryonic stem cells and preimplantation embryos», in Proc. Natl Acad. Sci. USA. 99 (2002), 2140-2145. 14 A.C. LOGAN - C. LUTZKO - D.B. KOHN, «Advances in lentiviral vector design for gene-modification of hematopoetic stem cells», in Curr. Opin. Biotechnol. 13 (2002), 429-436. 332 Marialuisa Lavitrano I promotori forti del vettore virale sono resi trascrizionalmente silenti, quindi non in grado di attivare geni endogeni vicini al sito di integrazione. Questo è reso possibile introducendo mutazioni nella sequenza deputata al controllo della trascrizione del genoma virale per generare un selfinactivating virus (SIN). Un aspetto di questo vettore è la semplicità del suo rilascio, per cui non sono richiesti particolari equipaggiamenti: i vettori lentivirali possono essere rilasciati mediante iniezione nello spazio perivitellino dell’uovo fecondato o, dopo rimozione della zona pellucida, semplicemente incubando oociti nudi in una soluzione contenente particelle virali. I lentivirus sono in grado di integrarsi sia in cellule in attiva replicazione che quiescenti: in seguito a trasfezione con questa metodica è possibile ottenere una percentuale tra l’80% e il 100% di esemplari transgenici15. Sperm Mediated Gene Transfer Lo Sperm Mediated Gene Transfer (SMGT) consente di ottenere animali geneticamente modificati sfruttando la naturale capacità degli spermatozoi di legare ed internalizzare molecole di DNA esogeno e trasferirle nell’ovocita durante la fertilizzazione16. La microiniezione di DNA nel pronucleo come detto è attualmente il metodo più diffuso per la transgenesi ma richiede equipaggiamenti sofisticati e costosi e abilità particolare da parte nell’operatore nell’uso del micromanipolatore. La tecnologia, per quanto applicata con successo nei topi, è meno efficiente in altre specie. SMGT è invece una tecnica semplice e poco costosa che rappresenta una valida alternativa per quelle specie animali in cui la microiniezione è poco efficiente. Con la metodica SMGT sono stati prodotti con elevata efficienza animali transgenici di numerose specie, dagli echinodermi ai mammiferi e tra questi, roditori, suini e bovini17. 15 A. PFEIFER, «Lentiviral transgenesis», in Transgenic Res. 13/6 (2004), 513-522. M. LAVITRANO - M. BUSNELLI - M.G. CERRITO - R. GIOVANNONI - S. MANZINI - A. VARGIOLU, «Sperm-mediated gene transfer», in Reprod Fertil Dev. 18/1-2 (2006), 19-23. 17 M. LAVITRANO - A. CAMAIONI - V.M. FAZIO - S. DOLCI - M.G. FARACE et al., «Sperm cells as vectors for introducing foreign DNA into eggs—genetic transformation of mice», in Cell 57 (1989), 717-723; S. SPERANDIO - V. LULLI - M.L. BACCI - M. FORNI - B. MAIONE et al., «Sperm-mediated DNA transfer in bovine and swine species», in Anim Biotechnol. 7 (1996), 59-77; M. LAVITRANO - M.L. BACCI - M. FORNI - D. LAZZARESCHI - C. DI STEFANO - D. FIORETTI - P. GIANCOTTI G. MARFÈ - L. PUCCI - L. RENZI - H. WANG - A. STOPPACCIARO - G. STASSI - M. SARGIACOMO - P. SINIBALDI - V. TURCHI - R. GIOVANNONI - G. DELLA CASA - E. 16 OGM animali e xenotrapianti 333 Trapianti e Xenotrapianti Il trapianto come nuova branca della medicina nasce, tra fantasia e realtà, tra mitologia e storia, nel III secolo d.C con i due santi medici, Cosma e Damiano, che sostituirono la gamba del loro fedele sacrestano andata in cancrena con quella di un moro etiope deceduto sul campo di battaglia. La leggenda cristiana, più che essere un vero e proprio punto di partenza per la medicina trapiantistica, risultò essere uno stimolo per i giovani medici che si apprestavano a diventare chirurghi; infatti, a partire dall’epoca medievale e fino al 1800, furono effettuati numerosi tentativi di trapianti sebbene alquanto empirici18. Al di là dei miracoli o delle leggende, la storia scientifica dei trapianti inizia nel XX secolo con due studi fondamentali che sono alla base della possibilità di attecchimento e sopravvivenza di un trapianto: Alexis Carrel nel 1902 riuscì a trovare una tecnica che consentisse la sutura dei vasi sanguigni e negli anni ’40 Peter Medawar, tentando il trapianto d’innesti cutanei su gravi ustionati dei bombardamenti di Londra durante la Seconda Guerra Mondiale, studiò la compatibilità biologica tra ricevente e donatore e dimostrò l’origine immunologica dell’incompatibilità19. Dal momento dell’inizio della cosiddetta era “moderna”, la tecnica chirurgica ha avuto un’incredibile evoluzione e notevoli sono stati i progressi sulla comprensione delle basi molecolari e dei meccanismi coinvolti nel rigetto che hanno portato allo sviluppo di farmaci immunosoppressivi, cosicché negli ultimi anni, il numero di trapianti di differenti organi ha registrato un notevole aumento, coronato da un successo sempre maggiore. Tuttavia, il fattore condizionante l’ulteriore diffusione di questa tecnologia chirurgica è costituito dalla ridotta disponibilità di organi da cadavere, insufficienti per i sempre più numerosi pazienti in lista di attesa, fattore questo che limita drammaticamente il numero dei malati che possono essere trattati. Una possibile alternativa è costituita dallo xenotrapianto, cioè dall’utilizzazione di cellule, tessuti e organi prelevati da animali. Il vantaggio dello xenotrapianto sarebbe enorme per chi avesse bisogno di un trapianto da SEREN - G. ROSSI, «Efficient production by sperm-mediated gene transfer of human decay accelerating factor (hDAF) transgenic pigs for xenotransplantation», in Proc Natl Acad Sci USA. 99/22 (2002), 14230-14235. 18 J.Y. DESCHAMPS - FA. ROUX - P. SAI - E. GOUIN, «History of xenotransplantation», in Xenotransplantation 12 (2005), 91-109. 19 R.M. SADE, «Transplantation at 100 years: Alexis Carrel – pioneer surgeon», in Ann Thorac Surg. 80/6 (2005), 2415-2418; G. MOLLER, «Sir Peter Medawar, 19151987», in Immunol Rev. 100 (1987), 9-10. 334 Marialuisa Lavitrano eseguirsi in tempi brevissimi; gli organi necessari, infatti, sarebbero immediatamente disponibili, in quantità illimitata e l’intervento chirurgico potrebbe essere eseguito non appena diagnosticata la patologia. Lo xenotrapianto, però, è un tipo d’intervento molto complesso, i cui limiti e rischi obbligano alla cautela e ad approfondite ricerche prima di passare alla fase clinica che oggi non è consentita. I principali problemi sono relativi al rigetto, alla fisiologia degli organi e al rischio infettivo20. Lo xenotrapianto fa la sua comparsa nella storia della medicina nel 1902 quando un rene di maiale fu utilizzato per curare una grave insufficienza renale di una giovane donna. Negli anni ’60, invece, furono scelti, per la vicinanza filogenetica con l’uomo, gli scimpanzè come donatori di rene, cuore o fegato. Il risultato più eclatante fu ottenuto da Reemtsma con la sopravvivenza per nove mesi di uno xenotrapianto di rene. Successivamente, essendo divenuti gli scimpanzè una specie a rischio di estinzione, sono stati realizzati xenotrapianti con babbuini come donatori di cuore, nel 1984 a Loma Linda, e di fegato, nel 1992 e nel 1993 a Pittsburgh. Questi pazienti sopravvissero però da pochi giorni a poche settimane. L’utilizzazione dei primati comportava, però, numerosi svantaggi quali difficoltà di stabulazione e di riproduzione in cattività, possibile trasmissione di malattie, e costo elevato21. Oggi è opinione unanime degli scienziati di considerare i maiali quali migliori candidati come fonte di organi per il trapianto nell’uomo, poiché hanno organi simili a quelli umani per struttura anatomica e dimensione, nonché per caratteristiche fisiologiche e metaboliche, sono animali di minore rilevanza emotiva e di cui è già accettato il sacrificio a scopo alimentare, sono anche facili da allevare e possono essere allevati in condizioni di sterilità (germ-free) o quanto meno di gnotobiosi, in modo da ridurre drasticamente il rischio di contrarre e trasmettere al ricevente infezioni batteriche, micotiche o virali. D’altra parte i maiali convivono da molti anni con l’uomo senza trasmettergli particolari agenti patogeni. Inoltre, i maiali possono essere modificati geneticamente, così da generare individui transgenici. È proprio attraverso l’ingegneria genetica che si sta tentando di rendere gli animali biologicamente compatibili, come donatori d’organi, con gli esseri umani. È necessario superare la barriera del rigetto che non può essere trattato e risolto con le terapie farmacologiche che si usano nell’allotrapianto, cioè nel trapianto di tessuti-organi da uomo ad uomo. Il rigetto iperacuto avviene in pochi minuti provocando trombosi, necrosi e 20 E. COZZI - E. ANCONA, «Xenotransplantation – where do we stand?», in J Nephrol. 16/Suppl 7 (2003), S16-21. 21 J.Y. DESCHAMPS - F.A. ROUX - P. SAI - E. GOUIN, «History of xenotransplantation», in Xenotransplantation 12 (2005), 91–109. OGM animali e xenotrapianti 335 quindi distruzione immediata dell’organo; il rigetto acuto vascolare avviene entro una settimana dal trapianto qualora sia superato il rigetto iperacuto. Le problematiche di natura fisio-patologica non sono meno importanti: infatti, l’organo di maiale, per quanto molto compatibile per anatomia e per fisiologia con l’organo umano, non supplisce completamente alla funzione22. Negli ultimi anni sono state prodotte numerose linee di maiali transgenici che contengono il gene umano DAF che codifica per una delle molecole inibitrici del sistema del complemento, principale responsabile del rigetto nello xenotrapianto23. La proteina umana DAF nei maiali transgenici è presente in tutte le cellule degli organi “nobili”, eleggibili per il trapianto, come fegato, cuore, rene e polmone e li protegge dal rigetto iperacuto che insorge non appena l’organo di animale è perfuso con sangue umano24. Risultati molto incoraggianti sono stati ottenuti utilizzando linee di maiali contenenti una modifica genetica che determina l’assenza su tutte le cellule del principale antigene responsabile della reazione di rigetto (maiali alfa-gal knock out)25. Tuttavia il tempo di sopravvivenza degli orga- 22 M. CASCALHO - J.L. PLATT, «Xenotransplantation and other means of organ replacement», in Nat Rev Immunol. ½ (2001), 154-160. 23 M. LAVITRANO - M.L. BACCI - M. FORNI - D. LAZZARESCHI - C. DI STEFANO - D. FIORETTI - P. GIANCOTTI - G.MARFÈ - L. PUCCI - L. RENZI - H. WANG - A. STOPPACCIARO - G. STASSI - M. SARGIACOMO - P. SINIBALDI - V. TURCHI - R. GIOVANNONI - G. DELLA CASA - E. SEREN - G. ROSSI, «Efficient production by sperm-mediated gene transfer of human decay accelerating factor (hDAF) transgenic pigs for xenotransplantation», in Proc Natl Acad Sci USA. 99/22 (2002), 14230-14235; RT. SMOLENSKI - M. FORNI - M. MACCHERINI - M.L. BACCI - E.M. SLOMINSKA - H. WANG - P. FORNASARI - R. GIOVANNONI - F. SIMEONE - A. ZANNONI - G. FRATI - K. SUZUKI - M.H. YACOUB - M. LAVITRANO, «Reduction of hyperacute rejection and protection of metabolism and function in hearts of human decay accelerating factor (hDAF)-expressing pigs», in Cardiovasc Res. 73/1 (2007), 143152. 24 D. LIU - T. KOBAYASHI - A. ONISHI - T. FURUSAWA - M. IWAMOTO - S. SUZUKI - Y. MIWA - T. NAGASAKA - S. MARUYAMA - K. KADOMATSU - K. UCHIDA - A. NAKAO, «Relation between human decay-accelerating factor (hDAF) expression in pig cells and inhibition of human serum anti-pig cytotoxicity: value of highly expressed hDAF for xenotransplantation», in Xenotransplantation 14/1 (2007), 6773. 25 C.J. PHELPS - C. KOIKE - T.D. VAUGHT - J. BOONE - K.D. WELLS - S.-H. CHEN S. BALL - S.M. SPECHT - I.A. POLEJAEVA - J.A. MONAHAN - P.M. JOBST - S.B. SHARMA - A.E. LAMBORN - A.S. GARST - M. MOORE - A.J. DEMETRIS - W.A. RUDERT - R. BOTTINO - S. BERTERA - M. TRUCCO - T.E. STARZL - Y. DAI - D.L. AYARES, «Production of a1,3-Galactosyltransferase-Deficient Pigs», in Science 299 (2003), 411-414. 336 Marialuisa Lavitrano ni degli animali geneticamente modificati, xenotrapiantati in primati non umani, va da pochi giorni ad alcuni mesi e non è ancora paragonabile a quello di organi umani trapiantati nell’uomo26. In realtà c’è ancora molta strada per giungere ad una completa compatibilità. Oggi si pensa che sia necessario aggiungere circa 10-15 geni umani al DNA del maiale. Sarà mai possibile? Gli scienziati pensano di sì. Lo xenotrapianto è oggi più vicino alla realtà clinica anche per il contributo del nostro gruppo (oltre venti ricercatori del Dipartimento di Scienze Chirurgiche dell’Università di Milano-Bicocca, dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia del MiPAF e del Dipartimento di Fisiologia Veterinaria dell’Università di Bologna): geni umani possono essere trasportati da spermatozoi di maiale e trasferiti nell’uovo al momento della fecondazione in modo molto efficiente producendo maiali geneticamente modificati27. Dieci geni coinvolti nel rigetto sono attualmente allo studio per poter consentire la produzione di maiali multitransgenici i cui organi potrebbero, un giorno, essere trapiantati in riceventi umani consentendo di tenere in vita un paziente che ha subito un trapianto senza evocare alcuna risposta immunitaria e quindi senza bisogno di ricorrere a massicce somministrazioni di farmaci antirigetto. Oggi dunque ciò che potrebbe sembrare fantascienza è considerato un’opzione terapeutica possibile. Tuttavia lo xenotrapianto solleva questioni che richiedono considerazioni di natura teologica, antropologica, psicologica ed etica, nonché l’esame di problematiche legali e di questioni procedurali. Lo xenotrapianto, nonostante i recenti e molto promettenti 26 K. KUWAKI - Y.L. TSENG - F.J. - DOR - A. SHIMIZU - S.L. HOUSER - T.M. SANDERSON - C.J. LANCOS D.D. PRABHARASUTH - J. CHENG - K. MORAN - Y. HISASHI - N. MUELLER - K. YAMADA - J.L. GREENSTEIN - R.J. HAWLEY - C. PATIENCE - M. AWWAD - J.A. FISHMAN - S.C. ROBSON - H.J. SCHUURMAN - D.H. SACHS - D.K. COOPER, «Heart transplantation in baboons using alpha1,3-galactosyltransferase gene-knockout pigs as donors: initial experience». in Nat Med. 11/1 (2005), 2931; K. YAMADA - K. YAZAWA - A. SHIMIZU - T. IWANAGA - Y. HISASHI - M. NUHN P. O’MALLEY - S. NOBORI - P.A. VAGEFI - C. PATIENCE - J. FISHMAN - D.K. COOPER - R.J. HAWLEY - J. GREENSTEIN - H.J. SCHUURMAN - M. AWWAD - M. SYKES - D.H. SACHS, «Marked prolongation of porcine renal xenograft survival in baboons through the use of alpha1,3-galactosyltransferase gene-knockout donors and the cotransplantation of vascularized thymic tissue», in Nat Med. 11/1 (2005), 3234. 27 N.L. WEBSTER - M. FORNI - M.L. BACCI - R. GIOVANNONI - R. RAZZINI - P. FANTINATI - A. ZANNONI - L. FUSETTI - L. DALPRÀ - M.R. BIANCO - M. PAPA - E. SEREN - M.S. SANDRIN - I.F. MCKENZIE - M. LAVITRANO, «Multi-transgenic pigs expressing three fluorescent proteins produced with high efficiency by sperm mediated gene transfer». in Mol Reprod Dev. 72/1 (2005), 68-76. OGM animali e xenotrapianti 337 progressi raggiunti nell’ultimo decennio dalla ricerca scientifica, infatti, ha ancora una serie di problematiche irrisolte, primo tra tutti il rischio di trasmissione di agenti infettivi (virus, e, tra questi, soprattutto i retrovirus), dall’animale al paziente che riceve uno xenotrapianto, che, anche se altamente improbabile, non può essere escluso. Questo rischio avrebbe come conseguenza che un paziente che ricevesse oggi uno xenotrapianto, sarebbe da tenere sotto stretto controllo per un tempo lunghissimo; inoltre, verrebbero fortemente limitati e posti sotto restrizione i contatti del paziente con altre persone, allo scopo di minimizzare i rischi di trasmissione dell’eventuale agente patogeno alla popolazione. Importanti sono, inoltre, considerazioni di ordine etico relative all’utilizzo ed al sacrificio degli animali per salvare vite umane. Attualmente vi sono organi nazionali (Consigli Nazionali di Bioetica di molti paesi dell’Unione Europea, del Canada e dell’Australia, la FDA negli Stati Uniti) e sovranazionali (Consiglio d’Europa, Organizzazione Mondiale della Sanità, OECD) che hanno elaborato documenti per la definizione di linee guida comuni per stabilire se e in quali condizioni si potrà iniziare la sperimentazione clinica degli xenotrapianti. Anche la Pontificia Accademia per la Vita ha elaborato un documento («La prospettiva degli xenotrapianti. Aspetti scientifici e considerazioni etiche», LEV, Città del Vaticano 2001) in cui le considerazioni di tipo antropologico-religioso affiancano quelle di ordine etico-scientifico. La strada scelta dagli scienziati per fornire credibilità agli xenotrapianti agli occhi del mondo scientifico, etico e giuridico consiste nella prevenzione dei rischi attraverso una loro precisa analisi, valutazione e amministrazione. Le procedure dovranno garantire che l’analisi, la valutazione e l’amministrazione dei rischi siano trasparenti. Queste saranno, perciò, documentate e comunicate ai futuri pazienti, ma dovranno anche essere rese disponibili per le eventuali parti interessate. Giovanna Morelli Gradi Brevettare la vita Introduzione Gli sviluppi delle scienze moderne, con le conseguenti implicazioni sul piano filosofico, etico e socio-politico riguardanti, in particolare, le cosiddette scienze della vita, hanno innescato una polemica, spesso di carattere ideologico, che tende a lasciare da parte o ad ignorare l’intervento di Dio Creatore da ogni conoscenza della realtà1. Le diverse specializzazioni in campo biomedico, ottenute dalle moderne biotecnologie, rendono frammentario il sapere che perde l’originaria unità propria delle scienze umanistiche le quali, oggi, hanno maggior difficoltà ad esprimersi, in particolare quando si propongono di investigare sull’identità dell’uomo e sui meccanismi che ne condizionano la condotta. Nell’epoca odierna si impongono sempre più le scienze positive (fisiologia, biologia, neurofisiologia) che, permettendo un’indagine approfondita sul “mistero della vita”, fanno intravedere miracolosi successi dai quali far derivare il superamento dei limiti propri della natura umana. Scomparsa recentemente (14 Ottobre 2008), era esperta in Diritto Industriale per il Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie, Roma e Dirigente dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM). 1 Il teologo Tanzella-Nitti invita a non censurare la Creazione, sostenendo che la Chiesa non demonizza la modernità. Constata che la dottrina della Creazione sembra oggi dimenticata dal pensiero filosofico e oscurata dalla società secolarizzata e afferma che «L’evoluzione delle specie può considerarsi un fatto. I lati oscuri riguardano le cause: selezione naturale e trasmissione ereditaria di una mutazione genetica casuale (come vogliono Darwin e i darwinisti), oppure potenzialità organiche che si attuano nei viventi e adattamento all’ambiente?». E poi: «Che cosa guida l’evoluzione, il cieco gioco del caso oppure un finalismo? Domande cui la scienza non sembra poter rispondere ma solo la filosofia. Chi può dire che ciò che ai nostri occhi appare puro gioco d’azzardo non segua lo scopo nascosto di colui che possiede tutte le regole del gioco, cioè del Creatore?», in Avvenire “Agorà” (17 giugno 2005). 340 Giovanna Morelli Gradi Altrettanto affascinante è il progresso che si sta verificando in astrofisica2, anche per il perfezionamento tecnologico della strumentazione scientifica, nello studio dell’universo e dei rapporti che intercorrono tra pianeti e sistemi. Serve, a mio avviso, un approccio interdisciplinare che possa offrire validi parametri entro i quali fare una riflessione a tutto campo, in particolare, sul tema delle scienze della vita nelle differenti branche in cui si sta confrontando la ricerca (utilizzo delle cellule staminali embrionali, clonazione, trapianto d’organi, tecniche di eutanasia). Non sono pochi gli scienziati moderni, spesso premi Nobel, che, nel dedicarsi a tali studi, si sono posti domande sul senso ultimo del Creato: Chi sono? Da dove vengo e dove vado? Perché la presenza del male? Cosa ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti di Israele, ma compaiono anche nei Veda, non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze, come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Budda; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle, come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che, da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza 3. 2 In una recente intervista l’astrofisico Massimo Cappi della sezione di Bologna dell’Istituto nazionale di astrofisica ha documentato come «la materia cosmica precipiti con movimenti a spirale sempre più rapidi poco prima di essere risucchiata e inghiottita dal buco nero arroventandosi ed emettendo una colossale quantità di raggi X», anche se il buco nero non possa essere “visto” in senso letterale; esso infatti è una regione dello spazio di densità così alta da attrarre e catturare non solo la materia che le passa accanto, ma anche la luce. Lo scienziato, nel dichiarare che i risultati finora ottenuti dalla ricerca sui buchi neri hanno confermato, nelle sue previsioni più importanti, la relatività generale di Einstein, ha soggiunto che, approfondendo la nostra conoscenza sui buchi neri, potremo scoprire nuovi scenari e comprendere tutta la struttura del cosmo. Ci si è domandato allora verso quali traguardi vada la ricerca astrofisica: la risposta è che «l’uomo vuole saperne molto di più sull’origine del cosmo e sulle leggi fondamentali dell’universo che spiegano, ad esempio, l’esistenza dei buchi neri». (cf. missioni ESA che cerca di scoprire altri pianeti simili alla Terra). L’intervista si conclude con un pensiero dell’astrofisico che dà la misura della posta in gioco: «[…] quando si cerca di conoscere i processi di formazione della vita e dell’universo, quando ci si chiede che cosa c’è dietro le leggi della fisica, con questi perchè si viene automaticamente in contatto con la filosofia e con la teologia», in Avvenire “Agorà” (23 luglio 2005). 3 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Fides et Ratio, Introduzione. Brevettare la vita 341 Le biotecnologie e l’evoluzione La scoperta della doppia elica dell’acido desossiribonucleico (DNA) avvenuta nel 1953 ad opera di Watson e Crick ha portato allo sviluppo della biologia molecolare ed alla nascita della moderna “biotecnologia” che ha affinato i suoi metodi di indagine sulla “materia vivente”, a partire dalla struttura della cellula e dei cromosomi del suo nucleo. Ciò ha reso possibile approfondire lo studio delle proteine e delle molecole di DNA consentendo il confronto di una stessa proteina in organismi differenti, così da rilevare come, nel corso dell’evoluzione, si siano verificate un certo numero di differenze, di solito sotto forma di sostituzioni o, talvolta, di rimozione o addizione di amminoacidi4. Il numero di proteine sulle quali è possibile affrontare studi di evoluzione molecolare non è molto alto e comprende proteine quali fibrinopeptidi, insulina, ribonucleasi, immunoglobulina (a catena leggera), citocromo ed emoglobina. Le ultime due proteine sono le più studiate: nel caso dell’emoglobina, è possibile ricostruire una vera e propria storia evolutiva della molecola proteica che la compone, la globina. Da una proteina ancestrale, circa 900 milioni di anni fa, si sono formate una molecola di emoglobina (per il trasporto di O2) e una di mioglobina (per l’immagazzinamento di O2). Lo studio dell’evoluzione molecolare è stato affrontato anche a livello del DNA stesso. È possibile misurare la distanza evolutiva tra specie diverse, studiando l’omologia delle sequenze dei loro DNA o l’uguaglianza di specifici geni. Sfruttando tecniche di riassociazione di sequenze di DNA diversi sottoposti a denaturazione termica, oppure analizzando in modo diretto le sequenze di limitati tratti di DNA, si è pervenuti a una conclusione inaspettata: metà dei cambiamenti nelle basi del DNA che codificano il messaggio genetico sono silenti, vale a dire danno origine a proteine con sequenze amminoacidiche inalterate. Ciò è spiegabile con la nota “degenerazione” del codice genetico5 che permette a più triplette di basi 4 Per esempio, lo studio degli amminoacidi nelle molecole del citocromo delle diverse piante e animali mostra che essi sono tanto più grandi quanto più gli alberi genealogici, basati sull’anatomia comparata, indicano la distanza tra gli organismi esaminati. 5 Il “codice genetico” fa corrispondere un segnale a ognuna delle 64 possibili combinazioni dei quattro nucleotidi presi tre a tre (triplette). Ciascuno dei venti amminoacidi naturali è codificato da una o più triplette di nucleotidi allineate lungo una molecola di RNA, detto messaggero in quanto portatore del messaggio genetico; l’eccesso di triplette per tutti gli amminoacidi tranne che per il triptofano, rappresenta la cosiddetta “degenerazione” del codice. Delle possibili sessantaquattro triplette solo tre non codificano per nessun amminoacido: sono le 342 Giovanna Morelli Gradi di codificare per lo stesso amminoacido. Si è perciò propensi a considerare il DNA come il primo “bersaglio” dell’evoluzione e, di conseguenza, la deriva genetica come una delle maggiori forze evolutive: essa stabilizza mutazioni puntiformi apparse casualmente nel DNA. Queste, sommando la loro azione alle possibilità di duplicazione, traslocazione e ricombinazione degli acidi nucleici, contribuiscono ad assicurare la continuità evolutiva del DNA6. In questo contesto le proprietà particolari delle proteine sono solo un aspetto del processo cumulativo dei cambiamenti mutazionali: le sostitu- cosiddette triplette “non-senso” o di terminazione. Il meccanismo cellulare di traduzione si arresta in corrispondenza di una di queste tre triplette. Il codice genetico non tollera né interruzioni né sovrapposizioni di triplette. Alla tripletta (o codone) di inizio fanno seguito tutte le triplette che costituiscono il messaggio genetico sino a che non si incontra una o più triplette di stop o terminazione. Questo non significa che un dato segmento di DNA possa codificare per una sola proteina: diverse fasi di lettura della sequenza del suo unico trascritto (RNA messaggero) permettono di ottenere tutti e tre i possibili prodotti di traduzione: uno spostamento della fase di lettura di quattro unità ripristina la fase iniziale, di due la seconda e così via. Esistono rari casi in cui entrambe le catene del DNA vengono trascritte in RNA messaggeri: nel fago di Escherichia coli chiamato G4, questa iper-utilizzazione dell’informazione genetica porta alla comparsa di cinque delle sei possibili proteine in corrispondenza di un certo segmento di DNA. Il codice genetico è universale in quanto vale per i microbi come per i mammiferi: a questo “dogma” sono state di recente scoperte eccezioni. Nei mitocondri del lievito e dell’uomo la tripletta UGA non codifica per un segnale di stop, ma per l’amminoacido triptofano, e la tripletta AUA codifica per la metionina e non per l’isoleucina. 6 Il DNA è stato definito come l’arbitro finale dell’identità umana e trova una miriade di applicazioni nelle moderne indagini fornendo prove inequivocabili delle origini dell’uomo. La maggior parte degli studi di antropologia molecolare si è concentrata su due cromosomi unici che vengono ereditati in maniera altamente complementare. Il DNA, del quale abbiamo le maggiori informazioni è quello di un minuscolo cromosoma circolare (appena 16.000 basi) localizzato nei mitocondri (centro dei processi energetici cellulari). Poiché lo spermatozoo (cellula germinale maschile) non apporta mitocondri durante l’evento della fecondazione, essi derivano in tutti gli organismi esclusivamente dalla madre, di conseguenza il DNA mitocondriale fornisce un documento incontaminato della linea di discendenza materna, non essendo soggetto alle mescolanze del materiale genetico durante il processo di meiosi nella coniugazione delle due cellule germinali maschile e femminile. Confrontando il numero di cambiamenti nelle sequenze di DNA, gli antropologi molecolari possono stabilire la vicinanza tra due campioni e la data approssimativa nella quale si sono diversificati. Il secondo cromosoma che si presta a questi studi è il cromosoma Y, di discendenza paterna che si presta ad integrare gli studi del DNA mitocondriale (cf. Studi di D. Page del Brevettare la vita 343 zioni amminoacidiche, sia quelle che influiscono sulla funzione delle proteine, sia quelle che non hanno alcuna influenza, possono, occasionalmente, diventare adattative e venire così fissate in proteine con nuove proprietà funzionali; in ogni caso, esse rimangono nel DNA dove assicurano la variabilità necessaria perché possa perpetuarsi nel tempo. L’informazione contenuta nei geni è stata oggetto di molti studi, grazie ai quali ora si conosce il suo significato preciso: portare alla formazione di un prodotto che, per la maggior parte dei geni, è una proteina, molecola costituita di “amminoacidi”. Un gene può determinare la formazione di più di una proteina, perciò, essendoci nel genoma umano circa 30.000 geni, essi tutti insieme possono portare alla formazione di oltre 100.000 proteine. Questo può spiegare il notevole numero di differenti attività che il corpo umano può esercitare, sia fisiche, sia mentali7. Biotecnologie moderne Si intende per moderne biotecnologie: «l’insieme delle tecniche che utilizzano organismi viventi o loro parti, per realizzare o modificare prodotti, per migliorare le caratteristiche di piante o animali, per sviluppare microorganismi od organismi destinati ad usi specifici» 8. In altri termini, le biotecnologie moderne comprendono «tutte quelle tecniche che utilizzano o causano mutamenti organici in materiale biologico […], in microorganismi, piante o animali […]»9. In effetti, si parla di moderne biotecnologie in quanto anticamente, fin dall’epoca dei Romani, sono sempre esistite “biotecnologie”, che potremmo definire “tradizionali”, per produrre il vino e la birra nonché i formaggi tramite processi di fermentazione enzimatica. A partire dallo studio della biologia molecolare, è stato dunque possibile mettere a punto nuove tecniche per la lettura dei messaggi genetici, vale a dire per l’identificazione delle sequenze di nucleotidi portati dal gene e Whitehead Institute e di B. Lahn dell’University of Chicago che hanno tracciato l’incredibile “viaggio” evolutivo del cromosoma Y nei 300 milioni di anni trascorsi). 7 R. DULBECCO, La mappa della vita; l’interpretazione del codice genetico: una rivoluzione scientifica al servizio dell’umanità, Sperling&Kupfer, Milano 2001. 8 Definizione dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale “OMPI”, il massimo organismo internazionale responsabile dei diritti di proprietà intellettuale. 9 Relazione alla prima Proposta di direttiva CEE sulla “Protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche”, par. 16. 344 Giovanna Morelli Gradi per il sequenziamento genico10. La conoscenza della struttura del DNA ha spiegato, non solo, come l’informazione genetica sia trasmessa fedelmente da una generazione alla successiva, ma anche la sua variabilità. Ereditarietà e variabilità derivano da caratteristiche inerenti alle proprietà biochimiche del DNA. L’espressione genica è il primo momento di quel processo che porta la potenzialità insita nell’informazione genetica depositata nel genoma a manifestarsi nelle forme e funzioni caratteristiche di ogni organismo vivente. Negli Stati Uniti, la ricerca sui geni ha preso l’avvio con il “Progetto Genoma Umano” con il coinvolgimento di diversi istituti di ricerca pubblici e privati e dei maggiori genetisti del mondo, operazione colossale, del valore di tre miliardi di dollari, che doveva terminare nel 2005, ma che si è conclusa nel 2000, con molto anticipo, consentendo l’identificazione di massima del genoma umano11. Protezione giuridica della “materia vivente” tramite brevetto, problemi giuridici ed etici In Europa, già dagli inizi del “Progetto Genoma Umano”12, il legislatore 10 G. MORELLI GRADI, «Proprietà intellettuale, diritti dell’agricoltore, brevetti», in Biotecnologie agroalimentari, industriali, ambientali, problemi e prospettive, Accademia Nazionale delle Scienze – Rendiconti, Memorie di Scienze fisiche e naturali, 2001, 119, 433-446. 11 Nel febbraio 1996 venne organizzato, alle Bermude, il primo International Strategy Meeting on Human Genome Sequencing da cui nacque l’“Intesa delle Bermude”. L’accordo, accettato da tutti i ricercatori degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia, della Germania e del Giappone, stabiliva che tutte le informazioni sul genoma umano dovessero essere messe a disposizione di chiunque fosse interessato e diventare di dominio pubblico, al fine di incoraggiare la ricerca e lo sviluppo di tale fondamentale molecola e farne beneficiare la società. Nell’anno in corso, dichiarato anno della genetica, è stato poi evidenziato interamente il genoma umano, individuando i geni di origine materna e quelli di origine paterna. 12 Il brevetto è un titolo giuridico che conferisce un diritto di esclusiva in un particolare settore tecnologico: riconoscere protezione giuridica brevettale ad un’invenzione significa, dunque, preservarla da eventuali imitazioni o contraffazioni. In particolare, se il brevetto ha per oggetto un prodotto, il titolare ha il diritto di «vietare a terzi, salvo suo consenso, di produrre, usare, mettere in commercio, vendere o importare a tali fini il prodotto in questione», ma, sempre e solo relativamente agli usi rivendicati nella domanda di brevetto ed a quelli ad essi equivalenti. Se, invece, il brevetto riguarda un procedimento, il suo titolare si vede riconosciuto il diritto di vietare a terzi, salva la sua autorizzazione, «di applicare quel procedimento, o di usare, mettere in commercio, vendere o importare a tali fini, il prodotto direttamente ottenuto con il procedimento in questione», il tutto, ri- Brevettare la vita 345 comunitario aveva messo a punto una prima proposta di direttiva sulla protezione giuridica delle invenzioni13 e, presso il Parlamento europeo, era stato posto il problema di valutare con estrema cautela la possibilità di brevettare “materiale vivente” ed, in particolare, le sequenze geniche, in considerazione di due problemi che tale tipo di brevetti pone. Uno di carattere giuridico, in quanto per i principi del diritto industriale le scoperte non sono brevettabili e il secondo di carattere etico che riguarda più strettamente l’oggetto da brevettare come costituente di ogni vivente. Chiunque scopre una proprietà nuova di un “materiale” presente in natura fa una semplice scoperta che non è brevettabile 14. Se, poi, questa sostanza può essere convenientemente caratterizzata nella sua struttura tramite il procedimento che ha permesso il suo ottenimento e, se essa è nuova, nel senso che la sua esistenza non era conosciuta precedentemente, essa può ugualmente essere brevettabile in quanto tale; una rivendicazione che definisce un nuovo uso di un composto noto basato su proprietà sconosciute può essere anch’esso brevettabile, perché l’attribuzione del nuovo effetto tecnico attinente al nuovo uso ha i requisiti tecnici dell’invenzione. L’evoluzione normativa europea, con la messa a punto e l’approvazione di una seconda proposta di direttiva sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, divenuta direttiva 98/44/CE del 30 luglio stretto agli usi indicati nella domanda di brevetto. Si può dire che il brevetto costituisca una sorta di premio che lo Stato concede a chi abbia fatto un’invenzione; esso è visto come un “contratto” tra l’inventore, che si vede riconoscere un diritto esclusivo di uso del trovato, e la collettività che vede aumentare il suo bagaglio di conoscenze tecniche fruibili. Cf. G. FLORIDIA, «Invenzioni Biotecnologiche e Novità Vegetali», Relazione al Convegno “Biotecnologie in medicina ed in agricoltura” organizzato dal Ministero dell'Industria, dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’Associazione Delta, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Roma, 19-20 marzo 2001. 13 “Proposta di direttiva sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche” (COM 88- 496 def.). 14 Il risultato di una ricerca scientifica riguardante un nuovo processo, un nuovo prodotto o un nuovo uso di prodotto può essere protetto, dal punto di vista giuridico, come brevetto d’invenzione per un periodo massimo di venti anni dal deposito della relativa descrizione. Tre sono i requisiti indispensabili perché al ricercatore possa essere riconosciuta, dall’autorità deputata al rilascio del titolo, la protezione brevettuale: l’invenzione deve essere nuova, possedere attività inventiva ed essere suscettibile di applicazione industriale (art. 12, 1° comma del RD 1127/39 – legge nazionale invenzioni, ora art. 45 D. lvo n. 30/2005) Tali principi sono comuni a tutto il diritto industriale, sia in ambito europeo che extra-europeo (Convenzione di Unione di Parigi, Trattato di Washington, Convenzione sul Brevetto europeo). 346 Giovanna Morelli Gradi 1998 (recepita in Italia con la Legge n. 78/2006), ha avuto notevole influenza nei riguardi dello stesso Ufficio brevetti statunitense che ha ritenuto utile pubblicare, subito dopo l’approvazione della direttiva europea, apposite “Linee guida” sulla protezione giuridica delle sequenze geniche. Tali disposizioni, nulla innovando rispetto alla normativa americana, tengono conto degli aspetti restrittivi e dello speciale contenuto etico del testo comunitario15. La disciplina giuridica di tutela delle invenzioni era nata e, successivamente, aveva trovato applicazione nel campo delle invenzioni “inanimate” e non poteva prevedere che, soprattutto dopo la scoperta del DNA, si sarebbe giunti a brevettare composti costituiti da “materia vivente” 16. Per questo, non è stato semplice adattare la “vecchia” normativa ai nuovi aspetti delle biotecnologie, che agiscono sul vivente e non più su prodotti o processi inanimati. Sulla base di queste nuove regole, si delineeranno gli scenari economici futuri e verranno canalizzati gli investimenti17. Per analizzare con chiarezza l’argomento, si rende necessario inquadrare storicamente la protezione brevettuale in Europa e nel Mondo dalle origini ai nostri giorni. L’evoluzione storica della protezione giuridica del brevetto Anticamente i brevetti costituivano un “favore concesso dal sovrano” (Litterae Patens) e permettevano al titolare di esercitare alcune attività commerciali in esclusiva18. 15 USPTO Gene Patent Guidelines (January 5, 2001) «[...] to show “utility”, an applicant had to prove that the discovery had credible and specific use […] Now the patent filer must also show that use is what is known as a “substantial use” […] a specific use must also accompany the application». 16 Cf. G. CAFORIO, «Il macrorganismo biotecnologico come invenzione brevettabile», in Atti del Convegno su “La protezione giuridica nel settore delle biotecnologie”, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie, Alessandria (18 maggio 1991). 17 Secondo i dati forniti da ASSOBIOTEC, in occasione dell’indagine conoscitiva condotta dalla Commissione Agricola della Camera dei Deputati nel 1997 e derivanti da un’inchiesta condotta su 700 imprese operanti in Europa (Sussex University, 1997), l’80% di queste considerano tra i fattori prioritari, per decidere investimenti industriali in biotecnologia, come verrà definita “la protezione della proprietà intellettuale” e questo è secondo solo alla “dimensione e flessibilità del mercato” e nettamente più importante rispetto ad altri quali “l’atteggiamento dei consumatori” e “la disponibilità di capitali di rischio”. 18 Cf. H. MAST, «The relationship between Plant Variety Protection and Patent protection in the light of developments in biotechnology», in Plant Variety Protec- Brevettare la vita 347 Venezia è spesso citata come il luogo di nascita della prima legislazione brevettuale (1474) che stabiliva il diritto dell’inventore ad ottenere un privilegio e ad avere garantita la protezione della Serenissima per il risultato dei propri sforzi creativi; è sorprendente notare come questa legge, di più di 500 anni fa, contenga già tutti i principi delle leggi brevettuali moderne: l’affermazione del necessario requisito di novità dell’invenzione, la definizione del contenuto dell’esclusiva, la determinazione dei limiti temporali e territoriali del privilegio concesso, il deposito della domanda presso un organo amministrativo19. Dopo Venezia in Italia, anche altri paesi hanno seguito il suo esempio: in Inghilterra, con gli Statuti dei Monopoli, promulgati nel 1623/1624; negli U.S.A. già nella Costituzione del 1787 si ritrova il concetto di protezione delle invenzioni mediante brevetto «per promuovere il progresso delle scienze»; in Francia, la sua istituzione si ebbe con la Rivoluzione (1791), mentre in Germania, la Legge Imperiale sui Brevetti è del 187720. L’istituto del brevetto per invenzione, come oggi lo conosciamo, risale in pratica agli ultimi due secoli. Non si può negare, che i principi base delle varie legislazioni nazionali in questa materia, anche di quelle recentemente “attualizzate”, sono ancora determinate in larga misura dallo stato della scienza e della tecnologia al momento della prima rivoluzione industriale21 ed è, con molta fatica, che si sta cercando di modificarle, per dare spazio anche alle invenzioni più recenti, armonizzandole tra loro, per renderle più coerenti. L’inizio di una cooperazione internazionale, per quel che riguarda la protezione brevettuale, si è realizzato con l’Unione Internazionale per la Protezione della proprietà intellettuale, detta Convenzione d’Unione di Parigi del 20 marzo 1883 (riveduta a Stoccolma il 14 luglio 1967) ed è rimasta, per circa ottant’anni, la sola base della protezione internazionale delle invenzioni. Essa può essere sintetizzata in tre aspetti fondamentali: tion (UPOV), Geneva, 1987. 19 Uno dei beneficiari di questa legge fu Galileo Galilei per un innovativo sistema di pompaggio delle acque e irrigazione dei campi; la domanda fu presentata nel dicembre 1593, presa in esame e concessa nel settembre dell’anno successivo con tanto di attestato. 20 Cf. Proprietà industriale, 1999, in http://www.gate.it/products/propind/ Cap1.html. 21 Con la Rivoluzione Industriale si assiste ad un mutamento sostanziale dell’assetto economico, che da una struttura prevalentemente agricola e artigianale passa ad una produzione di serie e di massa. L’introduzione di sistemi meccanici nel processo lavorativo e lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecniche, provocano un’alterazione decisiva nella struttura imprenditoriale e, conseguentemente, anche degli strumenti concorrenziali utilizzati nel mercato economico. 348 Giovanna Morelli Gradi a. Stabilisce alcuni principi generali comuni di protezione della proprietà industriale; b. Assicura ai cittadini di ciascun Paese dell’Unione parità di trattamento con i cittadini di ogni altro Paese dell’Unione stessa; c. Attribuisce un diritto di priorità a favore di chi abbia depositato una domanda di brevetto in uno degli Stati dell’Unione, affinché possa provvedere al deposito di un’analoga domanda di brevetto anche negli altri Stati con effetto, per quanto attiene alla novità dell’invenzione, dalla data del primo deposito22. I requisiti indispensabili, per ottenere un brevetto d’invenzione, sono: a. Novità: definita come tutto ciò che non è compreso nello stato della tecnica anteriore; b. Attività inventiva (o originalità, o non ovvietà): si considera frutto di attività inventiva ciò che, per un esperto della materia, non discende in modo evidente dallo stato anteriore della tecnica, in altri termini, non deve essere ovvio; c. Descrizione sufficiente: con riferimento al contenuto della descrizione che illustri esaurientemente il contenuto dell’invenzione, in modo che un esperto del settore sia in grado di riprodurre l’invenzione stessa; d. Industrialità (o riproducibilità): l’oggetto dell’invenzione deve poter essere riprodotto, deve poter essere realizzato ex novo, tale e quale, per un numero illimitato di volte. Per quanto, poi, riguarda il brevetto biotecnologico, soprattutto, per la protezione dei prodotti del mondo vegetale, va rilevato che, oltre alla difficoltà di adattare ad organismi viventi e autoreplicanti una legislazione nata nel settore meccanico, con riferimento ad oggetti ben determinati, non si desiderava favorire lo sviluppo di monopoli in relazione a prodotti legati prevalentemente all’approvvigionamento agricolo. Per questo motivo, negli U.S.A., primo paese che, nel 1930, regolò questa materia con il Plant Patent Act (PPA), le piante proteggibili mediante questa legge erano 22 Inizialmente gli Stati contraenti (oltre 130) definirono il campo di applicazione della Convenzione in modo da includervi anche una parte delle invenzioni biotecnologiche: la Conferenza del 1883 stabilisce chiaramente che il termine proprietà industriale deve essere inteso nel senso più largo «comprendendo non solo i prodotti dell’industria in senso stretto, ma anche i prodotti dell’agricoltura e i prodotti minerari commercializzati». Brevettare la vita 349 solo quelle a propagazione vegetativa con esclusione dei tuberi (es. patata) e quindi, in sostanza, di tutte quelle relative alla produzione di alimenti. Negli altri Stati, invece, prima del 1960, la protezione delle nuove varietà vegetali era esclusa oppure, in alcuni come l’Italia, il Belgio, la Francia e la Germania, si ricadeva sotto la tutela del brevetto industriale, con tutti i problemi da esso derivanti. Storia dei primi brevetti sulla materia vivente Negli Stati Uniti, nel 1930, è stato concesso un brevetto speciale per le piante asessuate. In Europa, in Germania, i primi brevetti concessi hanno riguardato processi di fermentazione ad opera di microorganismi (antibiotici). Tuttavia, è il 1969, l’anno in cui, dopo la Decisione della Corte Suprema Federale nel ricorso detto del “piccione rosso” (rote taube), prende il via storicamente la protezione tramite brevetto in ogni campo della materia vivente; vengono anche rilasciati brevetti per alcuni processi di colture agricole. Il 14 luglio 1989, la divisione d’esame dell’Ufficio europeo dei brevetti ha respinto, la brevettazione di un topo transgenico (onco-mouse) depositato dall’Università di Harvard che, negli Stati Uniti aveva già ottenuto la privativa, invocando il principio dell’esclusione dalla brevettabilità delle razze animali, in applicazione dell’art. 53b della Convenzione Brevetto Europeo (CBE). La Camera dei ricorsi, invece, stimando che l’esclusione dalla brevettabilità non potesse essere estesa all’animale in quanto tale, ma dovesse essere interpretata restrittivamente, rinviava nuovamente la domanda alla divisione d’esame che, risolvendo il problema senza utilizzare i canoni noti, ammetteva la brevettazione del prodotto transgenico. In Italia, il primo brevetto riguardante un “mammifero transgenico” è stato concesso dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi il 3 dicembre 199623, in applicazione dell’art. 13 del R.D. 1127/34 (esclusione dalla brevettazione di invenzioni per contrasto con l’ordine pubblico e il buon costume) dopo parere della Commissione dei ricorsi, Organo di magistratura speciale, competente, in sede consultiva, ad assistere l’Ufficio Brevetti anche in questioni interpretative della legislazione brevettuale. Successivamente ne sono stati concessi altri due, nell’anno successivo. La bioetica e il brevetto 23 Cf. G. MORELLI GRADI, «A three-day International Conference ‘Protecting Pharmaceutical and Biotechnological Inventions’», Italian Patent Office, Trieste, (13-15 ottobre 1997), EC-EPO-Phare/RIPP Programme. Giovanna Morelli Gradi 350 Dopo i recenti progressi in campo biologico, si può affermare che, oggigiorno, la bioetica24 è una vera e propria disciplina che si occupa di studiare gli aspetti etici della vita ed a tale materia occorre far ricorso, anche nell’applicazione della legislazione brevettuale, che porta alla creazione di monopoli sulla materia vivente. In Europa, al momento in cui la Commissione Europea ha iniziato a predisporre una legislazione riguardante le cosiddette scienze della vita che studiano la materia vivente, è stato creato il Gruppo europeo d’etica, scienze e nuove tecnologie25 con lo scopo di «guidare il cammino delle istanze europee, in particolare la dignità umana, [nel rispetto] del principio del consenso informato, della giustizia e del benessere (miglioramento e protezione della salute), della libertà della ricerca come pure del rispetto del “principio di proporzionalità” tra i mezzi utilizzati per la ricerca e gli scopi da conseguire». In Italia, per occuparsi dei riflessi bioetici della legislazione, è stato creato, presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) al fine di - orientare gli strumenti legislativi ed amministrativi volti a definire i criteri da utilizzare nella pratica medica e biologica per tutelare i diritti umani ed evitare gli abusi; garantire una corretta informazione dell’opinione pubblica sugli aspetti problematici e sulle implicazioni dei trattamenti terapeutici, delle tecniche diagnostiche e dei progressi delle scienze biomediche. Già prima dell’approvazione della direttiva 98/44/CE, sulla protezione delle invenzioni biotecnologiche, il Comitato aveva espresso, in un Rapporto26, il suo parere in merito alla brevettabilità degli organismi viventi, oggetto della prima direttiva sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche27. Si legge nel Rapporto che: «in questa prima proposta, l’enfasi sull’interesse economico della brevettazione di tali particolarissi- 24 La bioetica viene generalmente definita come «Scienza che studia la condotta umana nell’ambito delle scienze della vita, coniugando le conoscenze biologiche con quelle dei valori umani» (DEVOTO-OLI, Dizionario della lingua italiana). 25 Cf. Documento intitolato Adozione di un parere sugli aspetti etici della ricerca sulle cellule staminali umane e loro utilizzazione, 14 novembre 2000. 26 Cf. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Rapporto sulla brevettabilità degli organismi viventi, 19 novembre 1993. 27 Cf. nota 13. Brevettare la vita 351 me “invenzioni” non era equilibrata dalla contemporanea individuazione dei limiti entro cui la brevettazione del vivente avrebbe potuto trovare la sua collocazione più articolata e quindi più stabile». Successivamente, le istituzioni europee hanno però accolto questo stesso principio, fatto proprio dalla proposta modificata della direttiva, predisponendone una nuova versione che accoglieva ben 66 emendamenti votati dal Parlamento europeo che coniugava l’interesse per la brevettabilità di queste nuove materie ad alto contenuto tecnologico ai principi etici28. Il problema dell’impatto etico che può avere un’applicazione delle biotecnologie nell’ambito delle scienze della vita riguarda il caso, per esempio, di un brevetto che prevede l’isolamento e la coltura di cellule staminali da embrioni umani e da tessuti adulti e la loro modificazione genetica. Tale brevetto è stato rilasciato dall’Ufficio europeo dei brevetti di Monaco29 all’Università di Edimburgo30 e contro di esso è stata predisposta una procedura di opposizione da parte del Governo italiano31 volta a far limitare il contenuto della descrizione alle sole cellule animali. Anche il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB)32 ha ribadito le proprie riserve sulla brevettabilità degli esseri viventi e sulla sperimentazione sull’embrione umano nonché la ferma opposizione contro ogni forma di clonazione e di brevettabilità dell’essere umano. L’orientamento espresso dal CNB è coerente con quanto previsto dalla normativa adottata in sede europea e internazionale – alla cui stesura il CNB ha anche collaborato –, e precisamente: 1. Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la biomedicina del Consiglio d’Europa (firmata ad Oviedo il 4 aprile del 1997), che prevede, all’art. 18, il divieto di costituire embrioni umani ai fini di ricerca, ed all’art. 21, l’interdizione di trarre profitto dal corpo umano; 28 Seconda proposta di direttiva sulla Protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, approvata come Direttiva 98/44/CE. 29 European Patent Office (EPO) che ha il compito di esame e concessione delle domande di brevetto europee e applica la Convenzione Brevetti Europea entrata in vigore nel 1973. 30 Brevetto EPO 695351 dal titolo: Isolamento, selezione e propagazione di cellule staminali trangeniche animali (in inglese “animals” comprende non soltanto gli animali ma anche l’uomo). 31 La scrivente era all’epoca responsabile della Divisione d’esame brevetti farmaceutici e biotecnologici presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi ed ha curato la messa a punto della procedura per conto dell’Amministrazione Italiana. 32 Cf. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Dichiarazione sulla possibilità di brevettare cellule di origine embrionale umana, 25 febbraio 2000. 352 Giovanna Morelli Gradi 2. Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani (adottata dalla Conferenza generale dell’UNESCO l’11 novembre 1997) che definisce il genoma umano, in senso simbolico, “patrimonio comune dell’umanità” e che, all’art. 11, prevede che «le pratiche che sono contrarie alla dignità umana, quali clonazione di esseri umani a fini di riproduzione, non devono essere permesse»; 3. Protocollo sulla Clonazione Umana, anch’esso del Consiglio d’Europa (firmato a Parigi il 12 gennaio1998), recante l’interdizione della clonazione degli esseri umani. Se si esamina la legislazione brevettuale esistente in Italia, all’art. 50 del Testo unico in materia brevettuale33 – che detta alcuni principi di carattere “etico” –, ci si imbatte nella nozione di esclusione dalla brevettazione per «contrarietà all’ordine pubblico e buon costume». L’ordine pubblico e il buon costume, corrispondono, in particolare, a principi etici o morali riconosciuti in ogni Stato membro la cui osservanza, data la portata potenziale delle invenzioni in questo settore ed il loro nesso intrinseco con la materia vivente, è indispensabile soprattutto in materia di biotecnologia. Detto principio che risale, come già ricordato, alla Convenzione internazionale sui principi di diritto industriale, la Convenzione di Unione di Parigi del 1883, ha sempre posto un limite di natura etica agli atti legislativi brevettuali. Tuttavia, a partire dagli anni ’80, si è sentita la necessità di precisazioni circa i contenuti di una norma enunciata in termini generici, proprio in considerazione dei tumultuosi sviluppi delle scienze biologiche. Nella direttiva 98/44/CE, pertanto, è stato inserito un elenco, non esaustivo, di tipologie di invenzioni di cui non è consentita la brevettazione per evitare che l’incentivo economico derivante dal loro sfruttamento commerciale costituisse un volano ad ingiustificati monopoli. La legislazione brevettuale comunitaria, così completata, una volta recepita nell’ordinamento di ciascuno Stato membro, impone il rispetto di tali principi di massima e può, anche, essere completata, prevedendo, all’occorrenza, casi aggiuntivi di divieto alla brevettazione. Ciò malgrado, esistono, in ambito europeo, ulteriori tentativi di responsabili istituzionali che vorrebbero “forzare” l’interpretazione di alcuni articoli della direttiva in questione, al fine di consentire, per esempio, la brevettazione di procedimenti di clonazione di cellule staminali di embrioni umani “a scopo terapeutico”34. Su questo particolare tema, è emblematica la diaspora che ha visto due gruppi di pensiero contrapposti al 33 Decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, Codice della proprietà industriale, a norma dell’articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273. Brevettare la vita 353 momento in cui, approvata dal nostro Parlamento la legge 40/2004 sulla Procreazione Medicalmente Assistita, si è voluto dare risalto, tramite tale legge, all’aspetto della ricerca sulle cellule staminali embrionali. L’altro elemento che ha suscitato diversi problemi in sede di applicazione pratica, oltre che di confronto teorico, è l’individuazione di ciò che rappresenta una scoperta, di per sé non brevettabile, rispetto a ciò che viene comunemente considerata un’invenzione, quindi suscettibile di protezione brevettuale perché in possesso dei tre requisiti classici per l’ottenimento di un’invenzione (novità, attività inventiva e applicazione industriale)35. Ultimo argomento che vorrei richiamare riguarda gli aspetti di contenuto etico-sociale inerenti alla tutela dei diritti delle popolazioni indigene del sud del mondo e la salvaguardia del loro patrimonio biologico. Si vuole qui accennare ad un’altra legislazione internazionale, la Convenzione sulla Biodiversità conclusa a Rio de Janeiro il 5 giugno del 1992, secondo cui viene riconosciuta: la stretta e tradizionale dipendenza di molte comunità indigene e locali dalle risorse biologiche sulle quali sono fondate le loro tradizioni, nonché l’opportunità di ripartire in maniera equa i benefici derivanti dall’uso di conoscenze, innovazioni e prassi tradizionali attinenti alla conservazione della diversità biologica ed all’uso durevole dei suoi componenti». Secondo tale convenzione, inoltre, si è consapevoli che «la conservazione e l’uso durevole della diversità biologica sono della massima importanza per far fronte alle esigenze alimentari e sanitarie della popolazione mondiale in continuo aumento, per il qual fine è essenziale, sia il poter avere accesso alle risorse genetiche ed alla tecnologia, sia la loro ripartizione36. 34 Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio: Sviluppi e implicazioni del diritto dei brevetti nel campo della biotecnologia e dell’ingegneria genetica. COM(2002)545 def. del 7.10.2002 par. 5.2.2, p. 26; Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio: Sviluppi e implicazioni del diritto dei brevetti nel campo della biotecnologia e dell’ingegneria genetica. COM(2005)312 def. del 14.07.05 par. 3.1.3, p. 16. 35 Per una disamina più esauriente dei termini “scoperta/invenzione” in relazione alla materia brevettuale si rinvia al paragrafo 3. 36 Da tempo, si discute della reale portata e fondatezza del rischio di distruzione delle risorse genetiche esistenti sul pianeta, in quanto, un monitoraggio più accurato della biodiversità agevolerebbe la conservazione del germoplasma anche attraverso un “pronto intervento” su quegli elementi biologici in via di estinzione. Nel 2004, anche l’Italia ha ratificato il Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura; è stato anche creato, con sede a Roma, un istituto internazionale (International Plant Genetic Resources Institute) che si occupa, attraverso la gestione di una “banca della biodiversità”, di migliorare la conservazione e l’uso della diversità genetica al fine di garantire il benessere delle generazioni 354 Giovanna Morelli Gradi Il brevetto biotecnologico Il rapido sviluppo delle biotecnologie ha costituito e costituisce tuttora una sfida alla normativa sulle privative industriali, settore che attribuisce, in regime di monopolio, la protezione temporanea di 20 anni a prodotti e processi innovativi della ricerca tecnologica provenienti dall’ingegneria genetica. Come già accennato, la disciplina di tutela delle invenzioni in Europa, infatti, è nata originariamente (in Italia nel 1939) per la protezione giuridica di prodotti e di processi di settori tecnologici, come la meccanica, la fisica, ecc., costituiti, cioè, di “materia inanimata”; successivamente, dopo la protezione dei prodotti della chimica organica e inorganica, si è aperta quella ai prodotti della chimica farmaceutica, costituiti anch’essi da sostanze stabili e oggettivamente predefinite. Nessuno, nel 1978, anno in cui è stata varata la normativa europea, la Convenzione sul Brevetto Europeo (CBE)37, poteva prevedere che, in un prossimo futuro, si sarebbe giunti ad ottenere dei “trovati”, composti di materia vivente, cui conferire protezione giuridica brevettuale. È facile comprendere, pertanto, la necessità e l’urgenza di adattare le “vecchie” normative, per far fronte, in primo luogo, alla competizione dei prodotti innovativi provenienti dagli Stati Uniti e dal Giappone che, in base al regime brevettuale esistente, entravano nel mercato europeo. Ciò, tuttavia, doveva avvenire in maniera da non stravolgere eccessivamente l’esistente impianto legislativo, per aprirlo anche ai nuovi promettenti orizzonti dei prodotti biotecnologici, senza creare monopoli di ampiezza tale da incidere sulla proprietà di più soggetti privati. Nel varare la prima normativa specifica per questo settore, la direttiva 98/44/CE sulla Protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, la Commissione Europea, in qualità di legislatore comunitario, sollecitato anche dalle altre principali istituzioni (Parlamento e Consiglio europei), ha avvertito la necessità di stabilire regole più stringenti, per alcuni prodotti particolarmente delicati della materia vivente, come le sequenze geniche. I risultati della ricerca biotecnologica trovano applicazione oggi prevalentemente in tre campi: presenti e future utilizzando le metodiche delle moderne biotecnologie. 37 Nel 1978, tramite la Convenzione sul Brevetto europeo (CBE), l’Ufficio Europeo Brevetti (EPO) con sede a Monaco, iniziava l’esame e la concessione dei primi brevetti europei in maniera unificata; nel 1999, esso ha adeguato alcune norme eticamente sensibili (art. 52 e 53) di tale obsoleta legislazione ai principi della nuova direttiva europea con l’intento di renderle più chiare e precise. Brevettare la vita 355 1. per la produzione di sostanze destinate all’industria chimico-farmaceutica (per terapia e diagnostica); 2. per l’industria agricola (nuove specie resistenti ai parassiti, a condizioni ambientali avverse e migliorate dal punto di vista della produttività di alcuni costituenti); 3. per l’industria alimentare (nuovi alimenti). Nell’immediato futuro, il loro contributo sarà sempre più finalizzato alla protezione dell’ambiente e, al trattamento e decontaminazione dei rifiuti. Si ricorda, a questo proposito, che la Commissione Europea ha pubblicato38 diversi programmi per incrementare la ricerca e lo sviluppo delle materie attinenti alle “Scienze della vita e delle biotecnologie” (attualmente è in vigore il VII Programma che destina ingenti risorse economiche alla ricerca nel campo delle biotecnologie). La direttiva 98/44/CE Prima dell’approvazione della direttiva 98/44/CE, la principale lacuna del sistema brevettuale consisteva nella mancanza di un preciso orientamento legislativo sui seguenti argomenti: - 38 individuazione di criteri più precisi per stabilire la brevettabilità di sostanze viventi (limite tra scoperta e invenzione)39; effetti sull’esclusione dalla brevettabilità di varietà vegetali o razze animali nei riguardi della possibilità di brevettare microrganismi, insiemi vegetali o piante diverse da varietà vegetali40 e animali o loro parti; Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni, COM(2002), 27. 39 Come fanno notare G. GHIDINI e S. HASSAN in Biotecnologie novità vegetali e brevetti del 1990, si esclude la brevettabilità delle scoperte perché, se così non fosse, si conferirebbe un’esclusiva di portata enorme che potrebbe tradursi in una barriera sia alla concorrenza, sia al progresso tecnico essendo la scoperta potenzialmente sfruttabile in una molteplicità di campi. L’invenzione, al contrario, essendo per sua natura la soluzione di un problema tecnico specifico, ha un ambito di applicazione che, per quanto vasto, non può eccedere determinati limiti. Cf. anche G. FLORIDIA, «Scoperte ed invenzioni biotecnologiche alla luce della direttiva 98/44/CE», Ambiente Risorse Salute 70, novembre/dicembre 1999. 40 Varietà vegetale è definita come l’unità tassonomica più bassa nel mondo vegetale in cui le caratteristiche ereditate dai progenitori sono geneticamente immo- Giovanna Morelli Gradi 356 - portata della tutela brevettuale delle sostanze autoreplicanti sulle generazioni successive (esaurimento del diritto)41. La direttiva 98/44/CE sulla “Protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche” rappresenta, per la Comunità europea, un passo decisivo verso la brevettabilità di nuovi settori della ricerca scientifica allo scopo di: armonizzare le legislazioni dei diversi Paesi della Comunità; garantire titoli di protezione molto ampi per favorire il rientro dei notevoli capitali impegnati nella ricerca (Programmi quadro comunitari); evitare per gli Stati membri, il rischio di essere in condizioni di inferiorità economica rispetto agli sviluppi di Paesi concorrenti come USA e Giappone, nei quali la protezione brevettuale in questi settori è molto forte. Essa è composta da 18 articoli e 56 “consideranda” (che rappresentano il preambolo della direttiva e che costituiscono un valido aiuto nell’interpretazione degli articoli stessi) ed è stata messa a punto nell’ottica di non stravolgere la normativa brevettuale esistente. In particolare viene espressamente esclusa la brevettazione: - del «corpo umano e dei suoi elementi allo stato naturale» (art. 5)42; dificabili. Nella direttiva si parla di taxon botanico intendendo per tale nel mondo vegetale (e analogamente in quello animale), l’ultimo gradino della scala di classificazione biologica; nella varietà vegetale (e per analogia, nella razza animale), il patrimonio genetico (genoma) rimane “fissato” stabilmente e non è più modificabile; nella direttiva si parla di varietà vegetale determinata dall’intero genoma, cf. anche “considerando” 30 della direttiva e par. 44 della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 9 ottobre 2001 (memoria dell’Avvocato generale del 14 giugno 2001) nel ricorso (C-377/98) del Regno dei Paesi Bassi, del Belgio e dell’Italia contro la Commissione, il Consiglio ed il Parlamento europei promosso per ottenere l’annullamento della direttiva 98/44/CE. 41 Una volta effettuata una modifica genetica con l’introduzione di un gene estraneo alla cellula, sia essa vegetale o animale (procedimento biotecnologico brevettabile) tale caratteristica viene ereditata dalla progenie (figli delle successive generazioni). Pertanto finché sarà riconoscibile il gene estraneo introdotto con il procedimento di ingegneria genetica, deve poter essere riconosciuto il diritto di privativa attribuito al brevetto che protegge detto procedimento e il prodotto da cui deriva. Brevettare la vita - - 357 di «nuove varietà vegetali o razze animali e dei processi essenzialmente biologici di ottenimento di vegetali e di animali» (art. 4); delle «invenzioni contrarie all’ordine pubblico e al buon costume» (art. 6), nel rispetto dell’art. 53 della Convenzione sul brevetto europeo (CBE), ripresa dalle corrispondenti norme delle leggi nazionali degli Stati Membri aderenti a detta Convenzione; «dei procedimenti di clonazione riproduttiva umana, di modifica dell’identità genetica germinale dell’essere umano, nonché l’utilizzo di embrioni umani a fini industriali e commerciali e di processi di modificazione dell’identità genetica degli animali, senza utilità medica sostanziale per l’uomo». Mentre, è consentito proteggere, oltre i procedimenti microbiologici: - «le invenzioni aventi per oggetto piante o animali, se l’eseguibilità tecnica dell’invenzione non è limitata ad una determinata varietà vegetale o razza animale»; «elementi isolati del corpo umano, o diversamente prodotti, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene», purché «l’applicazione industriale di tale sequenza» sia «concretamente indicata». Sono anche garantiti: - 42 i diritti degli agricoltori cui è consentito riseminare le sementi e utilizzare gli animali da riproduzione, coperti da brevetto, nella propria azienda (art. 11); il diritto del costitutore di varietà vegetali di ottenere una licenza obbligatoria, quando intenda utilizzare una pianta brevettata per costituire una varietà (art.12); Tale esclusione rispetta l’art. 21 (Capitolo VII) della Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano relativamente alle applicazioni della biologia e della medicina - Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina di Oviedo del 4 aprile 1997; cf. anche il “Parere n. 3 del 1 ottobre 1993” del Gruppo dei Consiglieri per la bioetica della Commissione CEE cui fa riferimento l’art. 7 della direttiva 98/44/CE. Giovanna Morelli Gradi 358 - è fatto inoltre obbligo, alla Commissione, di «pubblicare un rapporto al Parlamento e al Consiglio sulla fase di adeguamento delle legislazioni nazionali alla direttiva» (art. 16). La Comunità Europea, dando vita a quest’atto comunitario, si propone di contemperare i benefici derivanti dalla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche e le fondamentali esigenze di tutela della persona umana. Sicuramente, rappresenta un punto d’incontro tra la necessità di sostenere, attraverso lo strumento del brevetto, la ricerca di base e applicata in settori tecnologici d’avanguardia, nonché gli interessi economici e tecnologici legati al recente sviluppo delle biotecnologie e la salvaguardia delle esigenze di natura etica e morale necessarie in questo settore43. Le radici delle scienze moderne e il loro influsso sul pensiero occidentale Contrariamente a quanto generalmente si crede, le radici della scienza e delle tecnologie moderne risalgono al contesto culturale e sociale del medio e tardo Medioevo, periodo storico in cui sono stati valorizzati l’oggetto e il metodo delle scienze naturali e in cui sono state poste le basi della moderna filosofia e teologia. L’acquisizione del sistema decimale e la relativa scrittura dei numeri, di origine indiana44, è arrivato in Europa attraverso la mediazione islamica, ma è stato diffuso dai mercanti italiani e dai contabili dei monasteri. È in quest’epoca che ha avuto origine l’universalità e l’apertura verso il sapere, per merito di alcune illuminate figure spesso appartenenti alla Chiesa, come Alberto Magno, Ruggero Bacone, John Peckam, Nicola di 43 Nel 14 febbraio 2002, presso il CNR, si è svolta una seconda manifestazione (che ha fatto seguito allo stralcio della norma dall’AC 2031 da parte del Governo Berlusconi), promossa dai ricercatori italiani per sollecitare il Governo a promuovere ed aiutare la ricerca con questo strumento normativo (atteso anche dalle imprese di settore), ad un anno dalla prima assemblea dei 2.500 di San Macuto che ha visto in prima fila premi Nobel come la Levi Montalcini e Dulbecco. 44 Il cambiamento del sistema di numerazione è stato il punto di svolta fondamentale per lo sviluppo delle scienze matematiche e fisiche. Brevettare la vita 359 Oresme e Nicola Cusano45. Alberto Magno ha rivalutato l’opera di Aristotele, giunta nell’Occidente latino tramite i filosofi arabi e giudei46. Se l’Europa deve alla Grecia la sua razionalità con lo sviluppo del pensiero critico, si deve al messaggio di Gesù Cristo la conoscenza del Dio di Abramo, divenuto il Dio delle popolazioni europee. Determinante è stata anche l’opera dei grandi ordini monastici che non hanno mai cessato di custodire il “sapere”, permettendone la conservazione e la ri-diffusione nell’Europa devastata dalle invasioni barbariche, Europa che è quindi debitrice alla Chiesa delle sue radici giudaico-cristiane oltre che di quelle greco-latine. Le più recenti, enormi, sfide etiche ed ecologiche che lo stesso sviluppo della ricerca fondamentale pone oggi alla fisica, alla biologia e alla neurofisiologia non fanno che acuire il bisogno impellente di una filosofia adeguata alla realtà del pensiero contemporaneo, all’oggetto scientifico della sua ricerca e alle conseguenze antropologiche e sociali che esso implica. Tutti i successivi rapporti tra scienza e filosofia sono stati contrassegnati dal dibattito attorno al 1610 tra Galileo e Bellarmino47, approfondendo un fossato tra le due discipline. Per lo scienziato, la scienza ci svela aspetti reali del mondo: «il primo pretendeva di avere scoperto il linguaggio con cui Dio aveva scritto nel libro della natura, mentre il secondo gli suggeriva di essere più prudente, di parlare per “ipotesi”, consapevole di costruire un modello perfettibile più che di decifrare una volta per tutte il codice segreto della natura»; per il filosofo la scienza sembra essere l’unico linguaggio abilitato a descrivere il mondo, rendendo irrilevante ogni descrizione alternativa48. La rivoluzione scientifica e teologica dei secoli XIX e XX ha dato ragione al Cardinale Bellarmino e a Galileo Galilei 45 Alberto Magno (1205-1280) filosofo e teologo tedesco, santo e dottore della Chiesa; Ruggero Bacone (1214-1294) soprannominato Doctor Mirabilis, filosofo e scienziato inglese; dopo essere entrato nell’ordine francescano, si dedicò al commento dell’opera di Aristotele e, poi, successivamente a studi scientifici (Communia mathematica et Liber communium naturalium); John Peckam (1225-1292) frate minore e teologo inglese; subì l’influenza di Bonaventura; Nicola d’Oresme (13251382) filosofo e matematico francese della tarda scolastica, vescovo di Lisieux; Nicola Cusano (1401-1464) filosofo e teologo tedesco, cardinale e vescovo di Bressanone, partecipò al Concilio di Basilea e di Firenze (1434). 46 Aristotele nel campo della filosofia e Agostino nella teologia: sono questi i principali maestri ai quali Alberto si richiama e in base ai quali traccia la distinzione tra filosofia e teologia. 47 Una lucida analisi delle implicazioni sul piano della filosofia della scienza e dei suoi rapporti con la religione è contenuta nel primo dei tre saggi riportati in KARL R. POPPER, Scienza e filosofia, Giulio Einaudi Editori, 1969 (traduzione italiana) dedicato appunto al rapporto tra le ragioni di Galileo e Bellarmino. 360 Giovanna Morelli Gradi che, su opposti fronti, si trovarono uniti nella lotta e nella sconfitta, in nome di principi consolidati nella stessa tradizione autentica aristotelica e scolastica, contro l’aristotelismo integralista dei filosofi naturali e dei teologi dell’epoca. Storicamente spetta, infatti, a Bellarmino l’aver proposto nel 1615, ad un padre carmelitano di Napoli – che aveva scritto un volumetto in cui cercava di conciliare le teorie copernicane con le affermazioni della Bibbia – e allo stesso Galilei, all’epoca del suo famoso viaggio a Roma per scongiurare la Chiesa a non prendere posizioni ufficiali contro il copernicanesimo, di trattare il medesimo solo come ipoteticamente e non apoditticamente vero49. Nel gennaio 2004, è stato pubblicato50 il pensiero di due maestri contemporanei, il filosofo laico e razionalista, Habermas e l’allora eminente cardinale Ratzinger, ora papa Benedetto XVI, che si sono incontrati presso l’Accademia cattolica di Monaco di Baviera sul tema del rapporto tra religione e Stato liberale alla luce degli ultimi avvenimenti del dopo 11 settembre 2001. Ambedue concordano sull’idea che ragione e fede debbano dare luogo ad un dialogo; ciascuna per la sua parte si ponga come limite all’altra, al fine di un controllo scambievole che tenga a freno gli “eccessi” e di un’azione di forze complementari. L’analisi degli autori, parte dall’esaminare i recenti processi storici che hanno coinvolto l’umanità: la nascita di una società globale e, per quanto riguarda la scienza, lo sviluppo delle possibilità di intervento dell’uomo sulla vita stessa dell’essere umano che gli dà «il potere di creare e di distruggere». «La questione fondamentale», dice Ratzinger, «è quale sia ora eticamente il bene, e perché lo si debba mettere in pratica»; ciò per la necessità di dare una «legittimazione giuridica al potere» e delle regole condivisibili alla società. Egli afferma che: la scienza come tale non può produrre un’etica e […] che una rinnovata consapevolezza etica non si realizza …dai dibattiti scientifici. D’altra parte è anche innegabile che il fondamentale cambiamento della concezione del mondo e dell’essere umano, risultato delle crescenti conoscenze scientifiche, abbia svolto un ruolo essenziale nella distruzione delle antiche certezze morali. Egli non nega che la scienza abbia in tutto questo una sua precisa responsabilità, ma – e qui mi sembra che si possa cogliere una nota interessante – anche la filosofia ha una responsabilità nell’ac- 48 Cf. Presentazione e Introduzione di G. BASTI, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, PDUL Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992. 49 G. BASTI, «Questione galileiana» in Filosofia della natura e della scienza, vol. I, PUL, Roma 2006, 11. 50 J. HABERMAS - J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, Marsilio Editori, Venezia 2005. Brevettare la vita 361 compagnare criticamente lo sviluppo delle singole scienze e nell’esaminare criticamente conclusioni affrettate e finte certezze su cosa sia l’essere umano, da dove venga e perché esista. Da qui la necessità di un controllo scambievole tra scienza e filosofia, e di una compartecipazione fruttuosa, anche se dialettica, che serva da guida alla politica e al potere per un “uso assennato” della legge. Affiora allora il dubbio se anche la ragione, ossia l’intelletto umano, non abbia necessità di limiti. Egli, nel richiamarsi al “diritto naturale” – che nella società moderna è visto come un diritto razionale –, sostiene che queste forme di diritto sono dell’uomo e per l’uomo come soggetto di diritti. Nel definire, quindi, «patrimonio di elementi normativi» il contenuto delle differenti dichiarazioni dei diritti umani, le carte dei diritti universali, caratteristiche dell’età moderna, individua in esse «quei valori che sono tali per se stessi, che provengono dalla natura umana e perciò sono inattaccabili per tutti coloro che possiedono questa natura». Noi non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. (dall’omelia di Papa Benedetto XVI in occasione del suo insediamento) Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia* Nuovi comportamenti a rischio: videogiochi e casinò virtuali Doppio click: per entrare nel problema Cresce ininterrottamente il numero dei navigatori. In seguito a questo trend, aumenta anche quello di coloro che giocano in Internet. In varie modalità e in forme sempre più suggestive e coinvolgenti. Constatando un continuo ampliamento dell’offerta in questo campo, si fa presto a capire che quello ludico è un settore della Rete che tira o, meglio, che attira. Anzi, che ha sempre attirato. Non a caso, proprio il gioco è stato uno dei fattori trainanti lo sviluppo iniziale di Internet. E a tutt’oggi costituisce uno dei suoi principali punti di forza. Ma anche uno dei più critici punti debolezza. Non tanto di Internet in sé, quanto delle conseguenze derivate e derivabili da un suo utilizzo smodato e incontrollato. In altre parole, va preso atto che sono tantissimi gli internauti affetti da forme di cyberdipendenza da gioco, ma va pure enfatizzato che il pericolo di contrarre questo tipo di malattia è sempre in agguato. Sia verso chi giocatore lo è già, sia rispetto a chi potrebbe diventarlo. Da queste prime battute, si intuisce quanto tale questione sia delicata e complessa. Sono molteplici le dimensioni analitiche che si dipartono da essa; così come sono di diversa natura e strettamente intrecciate le relative problematiche: psichiche, mediche, familiari, sociali, mediatiche, culturali, etiche, bioetiche e quant’altro. Pertanto, andrebbe esclusa una sua osservazione in un’unica prospettiva disciplinare. * Vincenzo Comodo, Docente di Sociologia, Facoltà di Bioetica, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. Docente di Sociologia della Vita Consacrata, Istituto di Teologia della Vita Consacrata “Claretianum” - PUL, Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, Roma. Loredana La Riccia, educatrice e docente di Teologia presso il Centro di Formazione “Leadership e Vita Consacrata” di Albano Laziale (RM) 364 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia Al fine di far fronte a tale complessità e in linea con i propositi introduttivi di questo contributo, vanno chiariti i “termini” della questione. In queste pagine, si tratteranno i rischi a cui si trova esposto un gamer on line, cioè un navigatore che gioca in Internet, in un sito web. Quindi, va esclusa l’esperienza del giocatore off line, vale a dire quella vivibile da chi gioca con la Play Station tradizionale, con la Xbox o usando il PC, il notebook o qualsiasi altra tecnologia connettibile senza essere entrato in Rete. Per tale trattazione, sono stati considerati gli effetti nocivi già prodotti e, dunque, potenzialmente riproducibili, in seguito all’adozione di comportamenti pericolosi da parte di soggetti a rischio. A questo proposito, per evitare di interpretare la questione in senso androcentrico e generazionale, va immediatamente fatta una precisazione. Considerando la flotta dei netsurfers, si rileva che non navigano soltanto uomini, ma anche donne. Di tutte le età – chiaramente con differenti rappresentanze, date la giovinezza anagrafica di Internet e la sua relativa pervasività sulle generazioni. Queste potrebbero sembrare delle rilevazioni ovvie, ma la loro presunta ovvietà viene meno quando si scopre che tra i cyberdipendenti da gioco vi sono sia rappresentanti del gentil sesso, sia navigatori di ogni età. Tale scoperta creerebbe un certo stupore[!], a causa di certi luoghi comuni e di alcuni stereotipi – storicamente motivati e variabilmente diffusi –, quali il pensare che la fruizione femminile dei videogames sia nettamente inferiore rispetto a quella maschile, che i casinò e il gioco d’azzardo siano prevalentemente roba da uomini di una certa età o di signore eleganti e facoltose. Questa è una verità parziale, bisognevole di un “aggiornamento”. Attualmente, le cose non stanno più così. L’universo del gioco è cambiato: si è fatto telematico; è sempre più interattivo, si è globalizzato. Non esiste soltanto nel mondo reale, ma “si trova” anche in quello virtuale di Internet. Per giocare con un videogame vi entra anche gente adulta e non sono solo screenagers; e una puntata su una roulette digitale può farla chiunque, da ogni angolo della terra, a qualsiasi ora. Nello stesso tempo e nello stesso spazio, però, chiunque può essere vittima della cyberdipendenza da gioco. Con conseguenze devastanti. Drammatiche, nella peggiore delle ipotesi. Ma, soprattutto, vere e non fittizie. Ecco perché va decisamente rimarcata la realtà di Internet1. Essa è, sì, anche definibile come un ambiente virtuale – in cui si va e, in qualche modo si esiste2 –, ma non sfugga affatto che i suoi effetti sono reali. Eccome. 1 Cf. V. COMODO - G.F. POLI, Cliccate e vi sarà @perto. Spunti per la missione della Chiesa in Internet, Effatà, Cantalupa (TO) 20032, 22-26. 2 Cf. G. ROMANO, «Cattolici in Rete: il punto sulla qualità», in UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI, Internet: un nuovo forum per proclamare il Vangelo, Sussidio pastorale, Paoline, Milano 2002, 44-45. Nuovi comportamenti a rischio 365 Trattando i videogames – in generale – e poi i casinò on line – nello specifico –, porremo enfasi proprio sulla dimensione realistica della Rete. In particolar modo, illustrando una tipologia degli “effetti collaterali” della cyberdipendenza da gioco. Una “videata” sulla IAD Si dice che “il gioco è bello quando dura poco”. Questo detto non vale unicamente nel meatspace3, ma anche, anzi, soprattutto in Internet. Qui è iperattivo il mercato del gioco. Giornalmente, fioccano le offerte e le segnalazioni di novità. Abbondano le possibilità di giocare. Tuttavia, oltre a queste, v’è pure la possibilità che il giocare sul Web assuma una conformazione patologica. In altre parole, è possibile che il bisogno di giocare si faccia sempre più invasivo e incontrollabile, a tal punto da diventarne dipendenti. A questo punto va fatta una precisazione: questa che va definita come cyberdipendenza da gioco è solo una delle forme di dipendenza da Internet. Ve ne sono altre, variabilmente perniciose e non meno importanti. Tra quelle più diffuse, vanno citate quella cybersessuale, quella cyber-relazionale e il sovraccarico cognitivo. Pur nella loro particolarità, esse costituiscono delle specifiche categorie di quella che da Ivan Goldberg ha denominato IAD (Internet Addiction Disorder)4. È più che opportuno considerare che la IAD sconvolge fortemente l’esistenza del cyberdipendente. Uno sconvolgimento che si manifesta sul piano psicologico, nella vita sociale, a livello fisico, nell’ambito familiare, nel contesto lavorativo o scolastico, dal punto di vista finanziario. 3 Per meatspace si intende il mondo reale, “esterno” a Internet. È interessante presentare le due fasi che generalmente portano alla patologia vera e propria, che, successivamente, si sviluppa in una delle sue “versioni” particolari: - la fase tossicofilica: caratterizzata dall’incremento delle ore di collegamento, con conseguente perdita di ore di sonno, controlli ripetuti di e-mail e siti preferiti, elevata frequenza di chat e gruppi di discussione, idee e fantasie ricorrenti su Internet, quando si è off line si può accusare malessere generale; - la fase tossicomaniaca: con collegamenti estremamente prolungati, al punto da compromettere la propria vita socio-affettiva, relazionale e lavorativa o di studio. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a K. YOUNG, Caught in the Net, John Wiley and Sons, New York 1998. 4 366 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia Pur brevemente, è conveniente passare in rassegna queste aree problematiche, allo scopo di indicare i principali fattori di rischio, per poi esaminarli, più da vicino, in rapporto ai videogames e ai casinò on line. Problemi sul piano psicologico Il cyberdipendente vive in funzione di Internet. Non riesce più a farne a meno. Ha bisogno della sua massiccia dose quotidiana di connessione, senza la quale scivola in una crisi d’astinenza. E anche quando è disconnesso, resta continuamente agganciato5. Per lui, tutto ciò che non riguarda la Rete perde di senso. Si spiega, così, l’adozione di comportamenti di tipo ossessivo e compulsivo. Pur non riferita unicamente a Internet, ma a tutte le tecnologie info-telematiche, inoltre, va segnalata quella condizione involontaria di trance, determinante un’alterazione dello stato di coscienza, di depersonalizzazione e di perdita dell’abituale senso di identità personale, surrogabile con un’identità alternativa, causata dalla cosiddetta trance dissociativa da videoterminale. Chiaramente, i danni per la salute psichica sono molto seri. Problemi nella vita sociale Gravi ripercussioni si verificano anche nell’ambito dei rapporti sociali propri del mondo reale, da distinguere da quelli intrecciabili e coltivabili nel cyberspazio: non sono la stessa cosa. La grande quantità di tempo trascorsa in Rete, infatti, provoca una significativa riduzione della vita di relazione al di fuori di Internet. Come ovvia conseguenza, il cyberdipendente si autoemargina. Si isola. Tende a rompere i ponti con il mondo esterno, costruendo dei collegamenti sempre più forti con il Web. È “portato” a respingere ogni dinamica di socializzazione e di vita sociale naturale, privilegiando quelle di tipo digitale. Problemi a livello fisico In questo senso, è la lunghezza delle connessioni ad incidere fortemente. Più tempo si passa davanti al monitor, maggiori sono le possibilità di essere vittima di alcuni disturbi. Tra quelli più riscontrabili, si indicano: 5 Cf. M. GRIFFITHS, «Psychology of computer use: XLII. Some comments on ‘Addictive use of the Internet’ by Young», in Psychological Reports 80 (1997), 8182. Nuovi comportamenti a rischio 367 - disturbi del sonno, causati dal restare in Internet, per moltissimo tempo, fino a tarda notte, alterando, così, il normale ciclo di sonno-veglia; eccessiva stanchezza, causata dalla diminuzione delle ore di riposo; indebolimento del sistema immunitario, anch’esso conseguenza dell’irregolarità del sonno; irregolarità dei pasti: il soggetto, a volte, si dimentica o salta volontariamente i pasti, pur di tornare immediatamente in Internet o di non abbandonarla; scarsa cura del corpo e carenza di allenamento, dovuta alla canalizzazione prioritaria delle proprie attenzioni alla Rete; mal di schiena, sintomo della vita sedentaria e conseguenza di eventuali posture scorrette; sindrome del tunnel carpale, dovuta particolarmente alla posizione del braccio per tenere il mouse; mal di testa e stanchezza degli occhi. Inoltre, non mancano casi di epilessia, la cui causa è stata imputata all’uso prolungato di videogames. Problemi nell’ambito familiare Sono numerose le ricerche che attestano come l’abuso di Internet interferisca nella vita relazionale6. Per un rapporto di proporzionalità inversa, aumentando il tempo trascorso on line, diminuisce quello da dedicare alla famiglia. Le ricadute di questa interferenza di Internet deteriorano i rapporti all’interno del nucleo familiare, ma anche al suo esterno. Problemi nel contesto lavorativo o scolastico L’uso sregolato di Internet incide molto negativamente sia nel contesto lavorativo, sia in quello scolastico. In seguito alla diminuzione del riposo, il cyberdipendente diventa un’inerme preda della stanchezza e dall’appannamento mentale. La scarsa concentrazione e la carenza di energie provocano un declino del rendimento, che determina prestazioni di bassa qualità o addirittura può portare al licenziamento o all’abbandono del lavoro. 6 Cf. K.S. YOUNG, «Psychology of computer use: XL. Addictive use of the Internet: a case that breaks the stereotype», in Psychological Reports 79 (1996), 899-902; V. BRENNER, «Psychology of computer use: XLVII. Parameters of Internet use, abuse and Addiction: the first 90 days of the Internet usage survey», in Psychological Reports 80 (1997), 879-882. 368 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia Problemi di ordine finanziario Questi si presentano soprattutto nei casi in cui il soggetto dipendente dalla Rete partecipa ad aste, commercio on line e gioco d’azzardo virtuale. Un altro uso distorto che può influire sulle proprie finanze è rappresentato dalla fruizione di servizi di tipo pornografico. Fatta questa panoramica sulle classi problematiche e sulle relative conseguenze dovute a un uso distorto della Rete, riprendiamo in primo piano la cyberdipendenza da gioco, con l’obiettivo di inquadrare le origini di questo particolare disturbo. A rigor di logica, è il caso, allora, di domandarsi perché si gioca in Internet. Le ragioni possono essere molte. Effettivamente, si può giocare per divertirsi, per passare il tempo, facendo fronte alla noia, non sapendo come riempire alcuni momenti della giornata; per scappare da una difficile realtà, lavorativa, familiare, sociale, finanziaria ecc.; per collezionare nuove esperienze e provare altre emozioni; per hobby; per seguire una moda globalizzante; per competere, con altri giocatori, a distanza; per vincere, soldi o premi di varia natura. Tirando le prime somme di questa analisi, tutte queste – ed altre – motivazioni se non fossero adeguatamente controllate e prudentemente vissute, spingerebbero velocemente un gamer verso correnti comportamentali pericolosissime. Invisibili e vorticose. Che lo porterebbero inesorabilmente ad essere risucchiato nei gorghi della cyberdipendenza. Cyberdipendenza da videogames È possibile giocare in una miriade di siti. Non soltanto in quelli esclusivamente preposti, ma anche in tanti altri. Si pensi, ad esempio, al portale di un provider: c’è sempre un canale dedicato ai videogames, con il rispettivo link conducente ad essi. Cliccando sopra, si verrà indirizzati in un’area web farcita di giochi suddivisi per categorie: action, arcade, erotici, sportivi, picchiaduro, di ruolo, di riflessione, da tavolo, racing e quant’altro. Ve ne sono di molti generi; così come vi sono più opzioni per giocare. Da soli o insieme. Rispettivamente, in modalità singleplayer e multiplayer. Dunque, si può competere con altri giocatori o semplicemente con il software del gioco on line: lanciando il guanto di sfida a chi, in quel momento, si trova nella stanza digitale allestita per il gioco in particolare; misurando la propria abilità sulla base dei punteggi totalizzati da altri e pubblicati sul sito. In entrambe le circostanze, si può essere spinti dalla voglia di vincere un cybertorneo, dal desiderio di detenere il record, dalla necessità di dimostrare la propria abilità. Nuovi comportamenti a rischio 369 Tali pulsioni fanno trillare un campanello d’allarme. Questi bisogni, infatti, potrebbero farsi sempre più forti e intensi, fino a dominare completamente l’individuo. In una siffatta condizione, egli vivrebbe solo in ragione del primeggiare. Farebbe di tutto, pur di raggiungere risultati eccellenti. Ovviamente, questo richiede un allenamento costante, un perfezionamento delle tattiche e una conoscenza dei trucchi per battere i concorrenti – ricercati in appositi blogs e communities, in prevalenza. Altrettanto ovviamente, tale preparazione richiede tantissimo tempo, sottratto ai vari impegni e doveri del mondo reale, ma pure a se stessi. Imboccando questa via, sarebbe abbastanza facile “perdere” il contatto con la realtà vera, a tal punto da prendere decisioni fuori dal normale e da assumere comportamenti deviati, come il trascurare la propria persona e la salute, la famiglia e i rapporti sociali, come il licenziarsi, addirittura! E, senza esagerare, ma sulla base di un puro realismo, non sono da escludere epiloghi drammatici. Questi comportamenti sono riscontrabili nella storia di Lee, ventottenne, sudcoreano. Appassionato di Starcraft, un videogame di strategia militare, cominciò una partita on line il 3 agosto del 2005, in un cybercafè di Taegu. Dopo circa cinquanta ore di gioco, interrotte unicamente per recarsi in bagno e per concedersi brevi pause, senza dormire e senza mangiare, muore. Come ha riportato il quotidiano Joong Ang Ilbo, la sua morte è stata causata dagli effetti di questa interminabile partita. Ma, aggiungiamo, anche dall’irresistibile bisogno di giocare in Internet. Tant’è che, da poco, si era licenziato per dedicare più tempo a questa “attività”. Pur trattandosi di una vicenda singolare, non mancano casi analoghi, altrettanto funesti. Pertanto, riconsiderando l’espansione incessante di questo settore internettiano, non va assolutamente scartata l’ipotesi che episodi simili possano ancora verificarsi. Per lo stesso ordine di ragioni, va rimarcato che non è di secondaria importanza il pericolo che il giocare on line, pur non sortendo conseguenze tragiche, può seriamente ferire il giocatore, in modo tale che tali segni possono essere manifestati al termine della seduta di gioco. Su questo punto ferve il dibattito. Non mancano tesi contrastanti. Si pensi, ad esempio, alla corrente di coloro i quali asseriscono che i videogames ambientati in uno scenario violento inducano ad assumere comportamenti aggressivi; così come non manca chi sostiene la tesi diametralmente opposta. Si pensi pure a chi ammette che i giocatori distinguano nettamente la realtà dalla finzione del gioco; e altrettanto naturalmente c’è chi non concorda. Sta di fatto, però, che non mancano casi in cui il videogames sia stato traslato nel mondo reale. Si consideri l’episodio che ha visto protagonisti due bambini negli USA. Questi, dopo essersi appostati nei pressi di un’autostrada, hanno cominciato a sparare ai passanti, uccidendo un quarantenne e ferendo 370 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia gravemente una diciannovenne. Al momento dell’arresto, i due hanno confessato di essersi ispirati a Grand Theft Auto, oggetto di critiche roventissime. La finzione del gioco è diventata realtà. Restando nella modalità di gioco multiplayer, delle attenzioni sui generis vanno riservate ad una delle evoluzioni più attraenti dei MUD7: i MMORPG8 (Massive Multiplayer Online Role Playing Game). In sostanza, si tratta di giochi di ruolo on line, a cui possono partecipare migliaia di giocatori. Questi, secondo gusti personali, costruiscono la loro identità digitale e vivono nel mondo virtuale del gioco, che può essere ambientato, ad esempio, in uno scenario storico, fantasy, horror, fantascientifico, umoristico, erotico, thriller e quant’altro. In questi mondi virtuali, il giocatore si cala nel contesto specifico, indossando i panni del proprio avatar. Può affrontare da solo mostri o altri personaggi comandati da altri giocatori. Però può combattere anche in gruppo, in quanto parte di un clan o di una gilda, contro una fazione nemica. Si coinvolgono, così, centinaia e centinaia di persone – che interagiscono anche attraverso comunità virtuali 7 I MUD (Multi User Dungeon) sono dei giochi di ruolo on line, interattivi e gestiti da un computer. «Gli utenti interagiscono non solo con il software ma anche fra di loro, costruendo un passo dopo l’altro (e una scelta dopo l’altra) una complessa avventura collettiva. I MUD di solito sono costituiti da un susseguirsi di ambienti diversi: dopo aver letto la descrizione del luogo e ponderato il da farsi, ogni partecipante può scegliere di muoversi da un ambiente all’altro […]. L’interattività del gioco non si limita agli spostamenti: quasi sempre gli utenti possono raccogliere e usare oggetti, combattere con altri giocatori o con personaggi controllati dal computer, acquisire poteri particolari, dialogare fra loro, discutere strategie comuni, allearsi […]. Le possibili interazioni sia con il programma, sia con altri partecipanti al gioco sono insomma numerosissime. Normalmente i giocatori che si trovano nello stesso ambiente si possono ‘vedere’ (sempre che non siano stati usati incantesimi o filtri capaci di rendere invisibili!) e possono scambiarsi dei messaggi». (cf. M. CALVO - F. CIOTTI - G. RONCAGLIA - M.A. ZELA, Internet 2004, Laterza, Roma-Bari 2003, 257-258). 8 Tra quelli maggiormente conosciuti, non si può non dedicare almeno una citazione a Second life, teatro globale di una seconda vita vissuta da circa dieci milioni di iscritti (dato aggiornato a ottobre 2007). Onde evitare di ingigantire eccessivamente il fenomeno o creare smisurato stupore, va detto che non tutti sono utenti attivi, cioè vivono quotidianamente in questa realtà. Tuttavia, è molto opportuno sottolineare che Second life non costituisce un semplice “gioco”, in quanto rappresenta un vero e proprio fenomeno socio-economico-culturale ad estensione mondiale, sviluppato su una base ludica. Qui, infatti, non sono presenti unicamente singoli giocatori, con nomi autentici e di fantasia, ma anche vere aziende, vere istituzioni, vere organizzazioni, veri politici in una loro versione digitale, con obiettivi comunicativi ben definiti. Non mancano anche concrete possibilità di fare business, ottenendo guadagni reali e non virtuali. Nuovi comportamenti a rischio 371 appositamente create. L’intento è quello di far crescere di livello il proprio personaggio o il team d’appartenenza, così da essere più forti per raggiungere i vari obiettivi del gioco. Alla luce di questa sommaria descrizione dei MMORPG, vanno fatte alcune osservazioni sui rischi che si nascondono in essi e sui comportamenti dannosi derivati dal loro abuso. Oltre a quelli già indicati, vista l’enorme esperienza sociale vivibile al loro interno, come pure nelle rispettive communities, si ripropone la questione delle ripercussioni che la socialità virtuale potrebbe provocare nella vita reale. Anche in proposito non c’è uniformità di vedute. Per quel che concerne specificamente gli effetti della comunicazione mediata da computer, i sostenitori dell’approccio RSC (Reduced Social Cues o degli indicatori sociali limitati) hanno rimarcato la poca incidenza di questo tipo di comunicazione. Argomentano tale posizione sulla base del fatto che queste relazioni sono computer aided, cioè risultano scarsamente caratterizzati da aspetti sociali, in particolare da norme. «La “deprivazione” delle informazioni sociali determina un’“equazione delle differenze di status”, e ciò comporta che tali relazioni risultano instabili, le identità sono fittizie, l’interazione è scarsa, anzi, distorta» 9. Di parere inverso sono gli assertori del SIDE (Social Identity De-Individuation) e del SIP (Social Information Processing). Questi studiosi hanno dimostrato che il contesto in cui si verificano le comunicazioni mediate dal computer generano effetti ambivalenti, ossia possono determinare comportamenti sia asociali, sia ipersociali10. La questione dei comportamenti mediati, però, non andrebbe esplorata in un unico verso, bensì in un senso bidirezionale. In altre parole, è giusto anche domandarsi se i “cattivi” comportamenti adottati nel mondo reale si attuino anche nei giochi di ruolo on line. La risposta non sarebbe negativa, constatando, ad esempio, l’esistenza del cosiddetto flaming – o “infiammarsi” delle interazioni – ossia lo scambio “acceso” di insulti o di volgarità. Pur virtualmente, si può andare oltre le parole e arrivare alla mani. E ancora oltre: compiendo delle azioni che nella realtà dei vivi costituiscono gravissimi reati. A titolo sintomatico, si riporta uno “stupro virtuale” avvenuto giocando a LambaMoo – stigmatizzato dalla grande maggioranza dei partecipanti all’interazione e ovvio motivo dell’espulsione di questo cyberstupratore11. Un episodio, questo, che fa pensare, che 9 Cf. S. MARTELLI, «Comunicare ‘glocalmente’», in P. AROLDI – B. SCIFO (eds.), Internet e l’esperienza religiosa in rete, Vita e pensiero, Milano 2002, 53. 10 Cf. L. PACCAGNELLA, La comunicazione al computer, Il Mulino, Bologna 2000, 32. 11 Cf. J. DIBBEL, «Uno stupro nel cyberspazio: in che modo un clown maligno, uno spirito ‘briccone’ haitiano, due maghi e uno scambio di insulti hanno trasformato un database in una società», in M. STEFIK (ed.), Internet Dreams. 372 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia mette in moto altri pensieri: i comportamenti usati nel gioco rivelerebbero disturbi psichici? Disagi sociali? Dietro avatar di questa risma potrebbero esserci soggetti predisposti a compiere gesti del genere? Per il momento, non possiamo che limitarci a presentare la questione, meritevole di un ulteriore approfondimento. Allora, continuando a cavalcare l’onda delle eventuali ripercussioni, è anche il caso di interrogarsi se qualsiasi forma di violenza praticata in un MUD o in uno dei suoi derivati possa avere delle risonanze nella realtà reale. In attesa di risposte, è opportuno rammentare che anche i giochi di ruolo on line possono cagionare cyberdipendenza. Più o meno grave. Con esiti drammatici. Come è avvenuto per Shawn Woolley. In seguito al suicidio di questo ragazzo statunitense, di ventuno anni, la madre Elizabeth, ha sporto denuncia nei confronti della Sony Online Entertainment, convinta che a spingere il figlio a compiere questo assurdo gesto siano stati gli eventi accaduti durante l’ultima partita a Ever Quest. Shawn non riusciva a fare a meno di giocare. Solo in sporadiche occasioni, sua madre Elizabeth, è riuscita a portarlo in una residenza protetta, per farlo partecipare a un gruppo di terapia per casi come questo. Gli erano state diagnosticate depressione e personalità schizoide. Si trattava, infatti, di una normale reazione a un trauma, che in termini tecnici viene definito “elaborazione dell’evento stressante”, e che con il tempo si affievolisce. Per Shawn non è stato così. Si è allontanato dalla residenza, ha preso una casa in affitto, per giocare. Quando si è ucciso, sparandosi un colpo di pistola nel giorno del Ringraziamento, il ragazzo aveva abbandonato il lavoro da una settimana. E da una settimana stava giocando ininterrottamente a Ever Quest. Il suo cadavere è stato ritrovato dalla madre, circondato da un’infinità di biglietti di appunti, tutti riguardanti il gioco12. “All’ombra” dei suicidi di Lee e di Woolley e in considerazione delle conseguenze causate o causabili dal giocare on line, più che accusare o assolvere i videogames, riteniamo opportuno valutare la realtà de facto. La cyberdipendenza da gioco esiste ed è variabilmente deleteria. In teoria, i videogames non dovrebbero far male. In pratica, però, potrebbero generare danni. Archetipi, miti e metafore, UTET, Torino 1997, 284-304. 12 Cf. STANLEY - A. MILLER II, «Death of a game addict. Ill Hudson man took own life after long hours on Web», in Milwaukee Journal Sentinel, (31 marzo 2002); cf. «Addicted: suicide over Everquest? Was he obsessed?», 18 ottobre 2002, in www.cbsnews.com/stories/2002/10/17/48hours/main525965.shtml; cf. R. CIOFI – D. GRAZIANO, Giochi pericolosi? Perché i giovani passano ore tra videogiochi on line e comunità virtuali, Franco Angeli, Milano 2003. Nuovi comportamenti a rischio 373 Scegliendo di battere un percorso d’analisi realistico e pragmatico, è il caso di trovare delle efficaci soluzioni, per affrontare un problema che c’è. Sarebbe sciocco nasconderlo dietro un paravento di carta velina. Non si spiegherebbe, allora, il perché alcuni giochi di ruolo vengano sconsigliati ai minori di quattordici anni, in quanto i temi trattati e le ambientazioni sono ritenuti “forti”, a differenza di altri per cui non vi sono limiti d’età13. È pur certo che, nell’affrontarlo, bisogna tener conto che cause ed effetti non sono isolabili e distinguibili, poiché si mescolano e si confondono. Ed è, questo, un fattore di ulteriore complessità. Ma è questa stessa complessità a costituire lo sprone per alzare la guardia – pur nella consapevolezza che l’inevitabile accade sempre. Allora, che fare? Ciò che in parte già si fa in alcuni casinò virtuali (come vedremo meglio più avanti), ossia avvertire – esplicitamente e visibilmente – il giocatore di quali sono le conseguenze derivabili dagli usi smodati del gioco on line. Pur non sciogliendo il nodo problematico, chi eroga questo tipo di servizio assumerebbe un comportamento eticamente corretto – quanto meno. Se poi un videogamer decidesse di abusare del gioco, si porrebbe in una situazione simile a quella del fumatore, sul cui pacchetto di sigarette è scritto che il fumo nuoce gravemente alla salute. Così dicendo, non si propone affatto di abbandonare il videogamer a se stesso e al suo destino, ma si “richiamano alle armi” altre responsabilità istituzionali e sociali – in senso lato –, come quelle già schierate sul fronte del tabagismo. È vero che il tabagismo è diverso dalla cyberdipendenza da gioco. È altrettanto vero, però, che in entrambi i casi è “in gioco” la vita. E con la vita non si gioca. Né con la propria, né con quella altrui. Giocare per vincere soldi, nei casinò on line Quella dei casinò on line è una categoria di siti il cui successo è in continua ascesa: aumenta il loro numero e con esso quello dei gamers. È un autentico fenomeno ad “espansione” e ad “interesse” globale che solleva querelle economiche e legali, ma pone di fronte anche a problemi sociali e patologici. Dinanzi a tali rotte analitiche, per evitare di arenarci nelle controversie giuridiche, prenderemo il largo verso gli effetti “rovinosi” causabili sia dall’abuso sia dalla fuorviante interpretazione del gambling in Internet, 13 A questo proposito, si pensi anche ad un insieme di sigle riportate su alcune copertine dei videogames in commercio, indicanti a chi è adatto il gioco, come, ad esempio, EC (early childood) a AO (adults only), passando per E (everyone). 374 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia senza trascurare affatto la dimensione economica. Anzi, proprio questa costituisce il punto di partenza del nostro viaggio esplicativo. Allora, sciogliamo le gomene, leviamo le ancore e partiamo. Volendo spiegare il successo dei casinò virtuali, non si può fare a meno di riportare che in essi si offre una possibilità di vincere soldi. A differenza dei videogames, dunque, in palio non c’è un record da stabilire o da difendere o un premio da aggiudicarsi, ma l’occasione di intascare una tangibile somma di danaro. Comodamente. Da casa. Senza recarsi nei sacri luoghi della vincita. Risparmiando persino tempo e danaro. Questa allettante possibilità è a portata di mano o, meglio, di mouse. È offerta a ogni surfer. Indistintamente. Senza ipocrisie, la lusinga della vincita fa gola un po’ a tutti e alimenta il desiderio di ottenerla, soprattutto quando viene finemente stuzzicata. Sono molte le strategie per attirare gli internauti. Molto ammalianti e convincenti. Oltre ai bonus – omaggio donato ai new gamers –, si percorrono altre vie comunicative ormai collaudatissime, quali lo spamming, i popups, i banners. Ma si applicano anche efficaci sinergie tra i casinò virtuali e i siti di altra natura (anche i providers). E proprio nelle acque internettiane nuotano le tantissime sirene della dea bendata che, intonando alcune suadenti arie della fortuna da tentare, persuadono sempre più naviganti ad entrare in un cybercasinò. Costoro, spinti pure dalla possibilità di spendere il già citato bonus, una volta entrati, possono prendere posto ad uno dei tavoli verdi, per fare qualche mano a poker, a baccarat, a chemin de fer o a un altro gioco di carte, possono azionare una cyberslotmachine, possono giocare a una roulette digitale o a qualsiasi altro gioco presente in casinò reale. Ma poniamoci una domanda: se il cybernauta non conoscesse le regole dei giochi oppure se non si sentisse adeguatamente preparato a giocare, come potrebbe curare la sua preparazione, come potrebbe allontanare la sua titubanza e sconfiggere la sua insicurezza? Niente paura: questi dubbi non tarderebbero a dissolversi. Generalmente, i casinò on line permettono di giocare anche senza soldi, proprio per consentire all’internauta di familiarizzare con il gioco, per affinare la propria abilità e per instaurare un rapporto di fiducia con il cliente. E “solo” quando egli si sentirà pronto, potrà giocare delle vere partite, con soldi sonanti, seppur digitalizzati nella sua carta di credito. A questo punto, è naturale fare un “salto” all’indietro e ritrovarsi di fronte all’ostacolo della IAD. Sulla base di quanto già detto in merito, è assolutamente legittimo pensare che, in un casinò virtuale, il giocare può dar luogo a delle gravissime forme di cyberdipendenza. Molto diverse da quelle prodotte da un videogame. Nel caso in analisi, infatti, il gioco può farsi d’azzardo. E, in seguito ad un aggravamento della dipendenza, il gioco d’azzardo può farsi patologi- Nuovi comportamenti a rischio 375 co. In questa circostanza, agli effetti nefasti cagionati dalla cyberdipendenza da un videogioco o da un MUD, si aggiungerebbero quelli tipici del gioco d’azzardo patologico14. Tra quelli più ricorrenti, si riportano lo spasmodico e ansioso desiderio di vincere, l’indomito tentativo di recuperare le perdite accumulate, il febbrile incremento della frequenza delle giocate e, logicamente, lo scorrere “fuggente” del tempo passato attaccati al monitor. In una siffatta condizione, il soggetto è schiavizzato dal gioco. Ne è invasato. Il giocare è al centro della sua esistenza. Domina i suoi pensieri e governa il suo vivere. Un ulteriore fattore di rischio è rappresentato dalla “virtualità” del danaro, intesa chiaramente nell’accezione digitale della parola. In altri termini, non avendo un contatto tattile, materiale, oggettivo con i soldi – o con le fiches o i gettoni che siano –, ma visivo, elettronico, telematico con le cifre della propria carta di credito, al gamer potrebbe sfuggire la percezione vera del denaro medesimo. Insomma, potrebbe puntare molto più di quanto di vorrebbe, senza accorgersi della reale entità della puntata e, quasi sempre, della perdita. 14 Se il soggetto presenta almeno cinque di questi sintomi, viene diagnosticato un quadro di gioco d’azzardo patologico: 1. È eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo (per esempio, il soggetto è continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a valutare o pianificare la prossima impresa di gioco, a escogitare i modi per procurarsi denaro con cui giocare). 2. Ha bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato. 3. Ha ripetutamente tentato di ridurre, controllare o interrompere il gioco d’azzardo, ma senza successo. 4. È irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo. 5. Gioca d’azzardo per sfuggire problemi o per alleviare un umore disforico (per esempio, sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione). 6. Dopo aver perso al gioco, spesso torna un altro giorno per giocare ancora (rincorrendo le proprie perdite). 7. Mente ai membri della propria famiglia, al terapeuta, o ad altri per occultare l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo. 8. Ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo. 9. Ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro, oppure opportunità scolastiche o di carriera per il gioco d’azzardo. 10. Fa affidamento sugli altri per reperire il denaro per alleviare una situazione economica disperata causata dal gioco – una “operazione di salvataggio”. Cf. AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION, DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano 2003. 376 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia Inoltre, per comprendere l’altissima pericolosità del giocare d’azzardo on line, è piuttosto scontato immaginare quali conseguenze possano determinarsi e riversarsi a livello personale, sociale, familiare e finanziario. Non mancano i casi in cui, prese dal gioco, alcune mamme hanno dimenticato i figli a scuola o, addirittura, che essi sono stati a loro sottratti per la dipendenza dal poker on line15. Ce ne sono altri in cui si è perso il lavoro o ci si è licenziati, per dedicarsi full time a questa nuova attività. Quello di Lee Ann Smith è uno di questi. Ha lasciato un lavoro in banca da 18 mila sterline l’anno, per vivere delle 4.500 sterline che ogni settimana riesce a vincere giocando a poker su Internet. Sostiene di aver guadagnato 150 mila sterline in cinque anni, ma ammette anche di aver visto famiglie ridotte sul lastrico16. Come si evince da queste storie, tale fenomeno non investe soltanto gli uomini, ma anche le donne. Pertanto, anche sulla scorta di una serie di dati e ricerche, si faccia posto all’idea che il gioco d’azzardo on line non è una pratica di e per soli uomini. Disposti e disposte a tutto, pur di giocare. Anche a vendere la propria casa, ad indebitarsi fino al collo. E, per giunta, non si scartino le ipotesi che, nei casi patologici estremi, ci si possa rivolgere ad usurai e a gente di malaffare oppure che si possano commettere furti, rapine o altri reati legati al patrimonio. E non si escluda nemmeno che la propria situazione, dopo essere sfuggita definitivamente di mano, possa precipitare, fino a raggiungere esiti funesti. Il fardello dei debiti e i sensi di colpa potrebbero rivelarsi talmente insopportabili da indurre a farla finita. L’ipotesi del suicidio, dunque, non è affatto “azzardata”. È una soluzione liberatoria già adottata da molti, purtroppo. È una tragica via percorribile anche da chi ha beccato questo morbo on line. Perciò, non si commetta il gravissimo errore di considerare Internet un banale mezzo di comunicazione. Internet non è solo un medium, ma molto più. È un ambiente sociale e culturale17, i cui effetti sono reali. Drammatici, qualora si volesse fuggire da una pesante e insostenibile condizione debitoria realizzata sul Web. Allora sì che comparirebbe la scritta Game Over: il gioco sarebbe veramente terminato. Restando in tema di errori da evitare, si faccia anche molta attenzione a non lasciarsi condizionare dall’interpretazione pubblicizzata dei casinò on line come forma di entertainment. Va, comunque, riconosciuto che costitui- 15 S. N., «Gran Bretagna, tra le donne spopola il poker on line», 22 settembre 2004, in www.rai.it e reperibile all’indirizzo http://www.rai.it/news/articolonews/0,9217,88203,00.html. 16 Ibid. 17 Cf. V. COMODO, Cons@crati on line. Rotte per la navigazione dei religiosi in Internet, Àncora, Milano 2006, 16-19. Nuovi comportamenti a rischio 377 scono dei luoghi e degli strumenti di svago e di intrattenimento, a patto che il senso attribuito al gamer sia propriamente questo. Tuttavia, spostandoci dal piano ideale a quello reale, non si può non riscontrare che la stragrande maggioranza dei giocatori vi entra per vincere e non semplicemente per intrattenersi; così come non si può non ammettere quanto sia facile scivolare nel baratro della cyberdipendenza da gambling. La spada di Damocle del gioco d’azzardo patologico pende sul capo di ogni giocatore. E in molte circostanze il crine di cavallo si spezza. Ecco, quindi, venire a galla il tema delle precauzioni da prendere, in tutta la sua importanza e delicatezza. Che fare, allora, per evitare di essere contagiati dai virus del gioco d’azzardo patologico on line? Sono disponibili degli antidoti? Quali vaccini virtuali somministrarsi e somministrare? Quest’ultimo interrogativo crea l’assist per esaminare tale urgenza nell’ottica della responsabilità: non solo del gamer, ma anche dei casinò on the Net, così come pure delle istituzioni. Il giocatore, infatti, dovrebbe adottare comportamenti guardinghi, quali, ad esempio, lo stabilire il tempo del gioco e le somme giocabili, annotando vincite e perdite; ma anche informando alcune persone di fiducia di questo suo “divertimento”. Questi accorgimenti – e non solo questi – aiuterebbero a tenere ad una certa distanza di sicurezza spiacevoli situazioni. Per quanto concerne i casinò on line, va riportato che alcuni, come quelli aderenti alla Gambling Federation, offrono la possibilità di fissare gli importi da giocare, impostando: il limite massimo che si vuole scommettere entro un arco di tempo prestabilito; l’ammontare massimo delle perdite che si è disposti a subire in un tempo definito; stabilire la durata massima di ciascuna sessione di gioco; escludersi dal gioco per un periodo determinato o indeterminato. Purtroppo, quello dell’autolimitazione non è un servizio erogato da tutti i casinò in Rete. In moltissimi altri, lo spinoso problema della cyberdipendenza da gambling e tutte le annesse ripercussioni non è minimamente vagliato. A dimostrazione di ciò, basta “vedere” come la questione “sicurezza”, ben visibile nella home page, riguarda unicamente le transazioni dei pagamenti, il trattamento dei dati personali, la riservatezza, le garanzie per la carta di credito. Delle conseguenze derivabili dall’abuso nemmeno una parola. A questo punto entrano in ballo le istituzioni. Esse dovrebbero/potrebbero fare molto di più sul piano delle politiche di prevenzione e di informazione, non limitandosi ad oscurare i siti illegali smascherati, vietando ai providers nazionali di consentire l’accesso. Ma chiusi questi se ne aprirebbero altri. Anzi, gli stessi potrebbero riproporsi sotto nuove spoglie, con una grafica più affascinante e una denominazione inedita. Ponendoci nella scia di queste dinamiche internettiane e considerando il carattere free del Web, riteniamo che, fino a quando non ci sarà un diritto 378 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia internazionale sulla materia della Rete – e “a breve” non ci sarà –, il problema primario del gambling on line sarà quello della prevenzione dei danni causabili dal gioco. In proposito, è interessante riportare alcune posizioni dell’European Betting Association. Partendo dal presupposto che il gambling on line non può avere confini e che la globalizzazione di questo mercato è pienamente in itinere, non ha molto senso una decisione come quella di escludere il settore dei giochi dalla direttiva sui servizi, esattamente come appare assurdo pretendere di imporre delle politiche protezionistiche da regime di monopolio, adducendo motivazioni legate alla protezione del consumatore, la prevenzione del crimine e la lotta al fenomeno del riciclaggio di denaro sporco. Al contrario queste posizioni favoriscono lo sviluppo di mercati paralleli. Se il consumatore non ha la possibilità di accedere a servizi e prodotti competitivi all’interno del suo mercato, potrebbe cercare di farlo altrove. Il rischio maggiore è che l’utente non è nelle condizioni di distinguere tra operatori europei che possono dimostrare la loro politica commerciale attenta alle responsabilità sociali e quelli che offrono servizi simili off-shore. Didier Dewyn, segretario generale, ha dichiarato che se il Parlamento Europeo volesse davvero risolvere il problema del gambling, dovrebbe porsi domande su quali nazioni hanno introdotto limiti d’età sul gioco d’azzardo, quanto spendono gli Stati che applicano il monopolio ogni anno per promuovere e pubblicizzate i loro giochi e quanto per prevenire i danni del gioco18. Ovviamente, ribadiamo che tale misura vale anche per gli operatori privati. Prendendo al balzo queste dichiarazioni dell’EBA, va fatta un’importantissima precisazione: il gambling on line non riguarda unicamente i casinò virtuali, bensì tutte quelle versioni di gioco internettiano attraverso cui è possibile vincere denaro. Perciò, sono da includere anche i siti del Bingo e quelli delle scommesse. Proprio quest’ultima opzione del gambling, sta velocemente diffondendosi e sta contemporaneamente assumendo la specifica conformazione del betting, cioè lo scommettere on line. Un fenomeno in via di enorme sviluppo, sul quale stanno investendo ingenti capitali in pubblicità. Basti pensare che, a riprova dei cospicui profitti intravisti in questo innovativo segmento di mercato, dal luglio 2006, per quattro anni, sulla maglia del Milan, comparirà la scritta Bwin, azienda leader nel “campo”. Un’operazione 18 G. LORENZO, «Gli operatori del gambling on line sono contrari alle direttive della commissione europea», 28 novembre 2005, in www.casinodigitale.com, nell’area Articoli, visitabile previa registrazione. Nuovi comportamenti a rischio 379 che frutterà alla squadra rossonera un introito di dieci milioni di euro all’anno, più bonus collegati ai risultati, per un massimo del 50% in più19. Rimanendo nella “sfera” delle cifre e delle previsioni, vi sono altri aspetti meritevoli di grande considerazione. In primis, l’avvenuta industrializzazione del gambling on line, dimostrabile dalla quotazione in borsa delle più solide società del settore. In secundis, la grande espansione del settore, prevista anche dalla Christiansen Capital Advisors – organizzazione molto apprezzata, per le sue analisi precise ed imparziali sulla materia. In un rapporto reso noto nello scorso gennaio, emerge che per il 2010, circa il solo gioco d’azzardo on line, si genererà un volume d’affari di circa venticinquemila miliardi di dollari20. Infine, l’evoluzione tecnologica consentirà di attivare ulteriori servizi nell’area del mobile gaming, come quelli già attivati dalla Quicksilver, che ha “aperto” un casinò fatto su misura per i telefoni cellulari. “On the move” è il nome di questo servizio che permette di giocare alla roulette e al blackjack21. Di fronte a tali riscontri e profezie, è palese quanto il gambling via Web costituisca un autentico business. E, in quanto affare e in relazione all’anima libera e liberista della Rete, è piuttosto naturale che inneschi dinamiche concorrenziali e competitive – peraltro, destinate ad assumere forme gradatamente più aggressive e suadenti, con l’ingresso di altri operatori. Tutto sommato, è il danaro – oggetto e desiderio del gioco – a dettare le regole di un’attività dominata dalla logica del profitto. Allora, non sorprenda più di tanto quanto sia già molto fiorente questa edition interattiva del mercato del gioco; e non meravigli nemmeno che questo gioco può farsi d’azzardo e assumere delle espressioni patologiche. Ciò che, invece, dovrebbe colpire è la timida o occultata attenzione prestata alle pericolosissime conseguenze cagionate dalla cyberdipendenza da gambling. Applicando una virtuale legge del contrappasso rispetto a chi “ricalca” prevalentemente le dimensioni affaristiche dei casinò on line, si pone enfasi sull’occorrenza di una continua strategia informativa circa la gravità di un problema che, in seguito al perfezionamento del digitale e alla propagazione di Internet, potrebbe colpire molta più gente di quanto s’imma- 19 S. N., «Il Milan cambia l’Opel con Betandwin», 4 maggio 2006, in www.casinodigitale.com. 20 S. N., «Nuovo rapporto di Christiansen Capital Advisors per il gaming on line», notizia del 27 gennaio 2006, pubblicata sul sito Casinodigitale.com e reperibile all’indirizzo http://www.casinodigitale.com. 21 M. R., «Casinò online: Londra, casinò sui telefoni cellulari», 20 luglio 2005, in www.Agicos.it e reperibile, previa registrazione, all’indirizzo http://www.agicos.it/articoli/articolo.asp?lingua=1&articolo=8888. 380 Vincenzo Comodo - Loredana La Riccia gini; di un problema che è sociale e non solamente soggettivo, familiare o riduttivamente tecnologico. Alcune conclusioni Non si passi per apocalittici22, se sul giocare in Internet sono stati accentuati i principali fattori di rischio e gli effetti nocivi più ricorrenti. Detto ciò, non si passi nemmeno per integrati. Il fatto stesso di aver trattato l’argomento ponendo enfasi sulle conseguenze negative attesta quanto non si esalti pomposamente e maestosamente l’esperienza ludica in Rete. Si passi, invece, per prudenzialisti. L’aver dipinto un quadro tutt’altro che positivo della questione non significhi, dunque, non vedere anche degli aspetti potenzialmente positivi. I videogames on line e pure – anche se in misura di gran lunga inferiore – i casinò virtuali possono essere considerati come opportunità di svago e di divertimento, a patto e condizione che si stabiliscano dei limiti nel giocare, che si sia al corrente della “pendente” possibilità di ammalarsi di cyberdipendenza o, ancor peggio, di essere affetti dal morbo del gioco d’azzardo patologico, che si conoscano i rischi a cui il gamer si trova esposto. Perciò, l’uso regolato e responsabile del giocare on line s’impone come la combinazione più saggia per vivere l’esperienza del gioco sul Web. Seguendo la scia prodotta da queste affermazioni, ci preme fare un’ulteriore puntualizzazione, riferita unicamente ai videogames. In forza delle loro potenzialità comunicative, non vanno istintivamente demonizzati. Essi, infatti, sono dei mezzi e degli strumenti di comunicazione interattiva (peraltro), attraverso i quali inviare anche messaggi, trasmettere valori, veicolare conoscenza, convogliare informazioni, sensibilizzare l’opinione pubblica e molto altro ancora. Tant’è che, in varie elaborazioni, vengono utilizzati a scopo educativo. Ad esempio, si consideri il successo di Food and Force23, il primo videogioco umanitario che spiega ai più giovani il problema della fame nel mondo e cosa fare per combatterla. Questa ini- 22 Quelle degli apocalittici e degli integrati sono le due “storiche” e fortemente contrapposte categorie che hanno caratterizzato il dibattito sul ruolo e sugli effetti dei media. I primi mettono in evidenza le conseguenze negative, i secondi, al contrario, quelle positive. Dunque, rispettivamente si distinguono per una tensione critica e per uno slancio celebrativo. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a U. ECO, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964. 23 È scaricabile gratuitamente all’indirizzo http://www.food-force.com (in inglese) o da http://www.food-force.rai.it (in italiano). Nuovi comportamenti a rischio 381 ziativa ha riscosso un grandissimo successo. Il gioco, infatti, ha totalizzato quasi quattro milioni di giocatori nel mondo, in quasi 200 paesi. Tuttavia, benché i propositi siano civilmente ed umanamente edificanti e nobili, i limiti per il buon uso valgono ugualmente anche per questo genere di videogames. Quella del memento semper è una buona regola e una sana abitudine. A onor del vero, quella educativa non è l’unica finalità “inseribile” nei videogiochi. Ve ne sono altre che comprovano la coniugabilità tra il giocare e il comunicare. Tra quelle in via di sviluppo, va indicata anche quella pubblicitaria. È in corso di diffusione la “tecnica” di reclamizzare un prodotto mediante un videogame on line creato all’uopo, mettendo in palio premi, quali lo stesso prodotto pubblicizzato o altri realizzati dalla medesima azienda produttrice. Sempre ad esempio, si riporta un’originale trovata della Siemens24: “Un affare di famiglia”. Si tratta di un web game multiplayer, pensato per far conoscere i prodotti dell’azienda. Registrandosi, il giocatore deve costruire la sua identità virtuale scegliendo il ruolo in cui giocare: padre, madre, figlia o figlio. Ogni personaggio è in possesso di doti e caratteristiche personali, da usare per il raggiungimento di un obiettivo. Il gioco prevede che vengano compiute delle azioni in vari contesti e situazioni, dove bisogna usare e interagire mediante oggetti Siemens, come l’aprire un forno nello scenario domestico ed anche lo sfidare gli avversari sulle conoscenze acquisite sui prodotti. Al temine della partita, viene attribuito uno score che definisce la graduatoria della famiglia e dei singoli componenti. Tra i premi in palio, ovviamente di marca Siemens, sono stati messi lampade, cellulari e piccoli elettrodomestici. In coda a queste battute conclusive, non si può non rivolgere un “pensiero” all’incalzante progresso nel campo del mobile gaming e alle offerte di gioco on line (casinò inclusi) che aumenteranno con il perfezionamento della telefonia mobile e della tecnologia wireless. “Prepariamoci”, dunque, a “ricevere” questo tipo di proposte anche sui cellulari e sui personal media. Proposte che saranno “inviate” a tutti i fruitori di tecnologia on line. Pertanto, non solo adulti o giovani, ma anche meno giovani e bambini. E non solo uomini, ma anche donne. Onde evitare che si propaghino epidemie da cyberdipendenza da gioco, infine, non si può fare a meno di segnalare la necessità di lanciare un’azione preventiva di media education, che prepari tutti a vivere, più che a convivere, con la tecnologia: l’homo technologicus non è virtuale ma reale. “Scommettiamo”? 24 L’iniziativa è durata dal 27 marzo al 18 giugno 2006. Vittorfranco Pisano Bio-terrorismo Terrorismo: il contesto attuale Il terrorismo biologico o bio-terrorismo, termine entrato a far parte del linguaggio comune ed anche di quello specialistico, non va confuso con le matrici e, tanto meno, con i fini delle numerose aggregazioni di varia natura che praticano il terrorismo contemporaneo1. Il bio-terrorismo è semplicemente uno strumento a disposizione di tali aggregazioni. Per delimitare i caratteri e l’effettiva o potenziale pericolosità di questo strumento è preliminarmente opportuno inquadrare il fenomeno terroristico nel suo insieme. Nel contesto contemporaneo, il terrorismo costituisce una manifestazione di violenza criminale a fini politici, politico-religiosi o politico-sociali esercitata attraverso strutture e modalità clandestine da aggregazioni non statali con o senza l’appoggio di uno Stato sostenitore. Ne deriva che quattro elementi fondamentali differenziano il terrorismo da altri fenomeni con i quali spesso tende ad essere confuso. La violenza criminale distingue il terrorismo dall’esercizio legittimo della forza da parte degli organi di polizia o delle forze armate. Ai terroristi non può essere attribuito lo status di combattenti in quanto essi non rispettano le norme del diritto internazionale di guerra ed il terrorismo stesso non è giuridicamente assimilabile allo stato di belligeranza. In definitiva, l’atto terroristico costituisce reato a causa del suo intrinseco carattere illecito (omicidio, sequestro di persona, danneggiamento doloso di beni, ecc.) e non trova alcuna giustificazione nell’impegno ideologico o negli obiettivi politici di coloro che lo commettono. Consulente e Docente, Terrorismo e Conflittualità Non Convenzionale, Link Campus University of Malta (Roma). Revisore, Programma di Assistenza AntiTerrorismo, Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. 1 Per una disamina comparativistica dei loro fini, strutture e modus operandi, cf. V. PISANO - A. PICCIRILLI, Aggregazioni Terroristiche Contemporanee: Europee, Mediorientali, Nordafricane, Adnkronos Libri, Roma 2005. 384 Vittorfranco Pisano Il fine politico, politico-religioso o politico-sociale distingue, a sua volta, il terrorismo dalla delinquenza comune e dalla criminalità organizzata. I terroristi perseguono fini sostanzialmente politici, mentre i criminali comuni e le organizzazioni criminali perseguono altri fini, generalmente di natura economica. Nonostante la ricorrenza di attività di autofinanziamento da parte di gruppi terroristici (ad esempio, rapine e sequestri) e di rapporti collusivi tra criminalità organizzata e uomini politici, funzionari statali o imprenditori (ad esempio, favori elettorali e riciclaggio di denaro), queste attività sono puramente strumentali. I fini politici dei terroristi e quelli economico-imprenditoriali della criminalità organizzata rimangono invariati e distinti. Questa fondamentale dicotomia non viene intaccata neanche dalla constatazione che l’incidenza della criminalità organizzata può, come spesso avviene, minare l’autorità degli organi di governo ed interferire con l’ordinato svolgimento delle funzioni dello Stato. La clandestinità ulteriormente distingue il terrorismo dalla violenza politica ordinaria, le cui modalità si manifestano sempre alla luce del sole. Sono espressioni di violenza ordinaria – e quindi non di terrorismo – tanto gli scontri fisici tra avversari ideologici o etnici quanto i tumulti, a livello di piazza, d’ispirazione politica. Infine, l’azione da parte di aggregazioni non statali, a prescindere dall’appoggio che possano ricevere da Stati sostenitori, distingue il terrorismo dall’intimidazione e persecuzione che determinati regimi illiberali pongono in essere nei confronti di propri cittadini all’interno del Paese o all’estero. Da tempo, infatti, pur utilizzando in entrambi i casi il termine terrorismo, si distingue tra terrorismo non statale o dal basso e terrorismo di Stato o dall’alto. Il terrorismo contemporaneo agisce sia a livello interno sia a livello internazionale. Il terrorismo internazionale, fenomeno statisticamente meno frequente di quello interno, coinvolge i cittadini o il territorio di due o più Stati e spesso coincide con lo sconfinamento di lotte politiche riguardanti un’etnia, una o più comunità o uno scacchiere geopolitico. Gli atti terroristici interni o internazionali commessi con l’appoggio di Stati sostenitori assurgono ad un livello di gravità maggiore, poiché non investono solamente l’ordine pubblico interno, bensì la sicurezza nazionale dello Stato che li subisce. Va tuttavia tenuto presente che solo una piccola minoranza delle molteplici aggregazioni terroristiche intrattiene rapporti con Stati sostenitori. Sia interno sia internazionale, il terrorismo contemporaneo non sorge dal nulla, ma è influenzato da situazioni di luogo e di tempo. Fattori storici, politici, economici, sociali o religiosi – singolarmente oppure, come normalmente avviene, simultaneamente – concorrono alla nascita e crescita di uno o più gruppi terroristici con circoscritte o estese sfere d’azione. A loro volta, però, le circostanze predette sono sfruttate da un fattore do- Bio-terrorismo 385 minante costituito dalla presenza di una o più sottoculture radicali e/o rivoluzionarie. Gli ambienti radical-rivoluzionari, dai quali eventualmente scaturisce il terrorismo, si ispirano a varie fonti di pensiero politico intransigentemente e fanaticamente interpretato. Due di queste fonti sono di natura fortemente ideologica, sinistra e destra, ma sia l’una che l’altra sono caratterizzate da diverse sfumature. L’estremismo di sinistra si suddivide in marxista-leninista, anarchico, internazionalista o dedito a cause specifiche, fra cui i diritti umani, il pacifismo, i Paesi in Via di Sviluppo, l’ambiente, la fauna e l’anti-globalizzazione. Quello di destra abbraccia correnti neonaziste, nazionaliste o contro-separatiste. Una terza fonte è di natura etnonazionalista o etno-separatista, la cui tendenza ideologica può orientarsi sia a sinistra che a destra. Altra fonte, attualmente molto visibile e minacciosa, è poi quella politico-religiosa, anche denominata teocratica. Nella pratica, la visione politica di molti attivisti è spesso superficiale o nebulosa, il che incrementa la loro pericolosità2. Bio-terrorismo Il bio-terrorismo, quale strumento terroristico nell’accezione su delineata del fenomeno, comporta dunque l’impiego di ordigni che fanno parte di una categoria di armi oggi denominate armi di distruzione di massa e che includono, oltre a quelle biologiche, le armi nucleari, radiologiche e chimiche. Da qui l’espressione terrorismo nucleare, radiologico, biologico e chimico o terrorismo Nrbc3. Gli agenti biologici tramutabili in armi di distruzione di massa comprendono batteri, virus e tossine, tutte sostanze reperibili sul mercato, o direttamente in natura, e passibili di fecondazione con mezzi artigianali. Sorgono tuttavia problemi e incognite nel trasporto e nell’impiego, assieme alla necessità di disporre di attrezzature idonee e di personale competente per la preparazione dell’ordigno, preparazione comunque non priva di rischi. Al riguardo va notato che gli agenti biologici sono liquidi o solidi. I secondi sono notevolmente meno efficaci dei primi ma, in quanto più 2 La nozione del terrorismo su riportata è sinteticamente tratta da V. PISANO, Introduzione al Terrorismo Contemporaneo, Sallustiana, Roma, 19982; V. PISANO (a cura di), Conflitti Non Convenzionali nel Mondo Contemporaneo, Edizioni Rivista Marittima, Roma 2002. 3 Concetti e considerazioni riguardanti il bio-terrorismo riportati nel testo sono in parte tratti da V. PISANO, Il Neo-Terrorismo: Suoi Connotati e Conseguenti Strategie di Prevenzione e Contenimento, Centro Militare di Studi Strategici, Roma 1999. 386 Vittorfranco Pisano facilmente producibili con minore competenza tecnica, sono contemporaneamente più idonei all’utilizzo terroristico. Per converso, gli agenti liquidi comportano maggiori difficoltà di trasporto. Diverse considerazioni rendono il bio-terrorismo terrificante ed oggetto di particolare attenzione sia nella pubblicistica sia nei settori preposti alla sicurezza. La maggiore accessibilità alle sostanze biologiche rispetto agli agenti nucleari è psicologicamente incisiva. Influiscono nondimeno alcuni aspetti tecnici. I locali e i processi di produzione sono agevolmente occultabili (gli stessi germi sono invisibili); il bio-terrorista competente è potenzialmente in condizione di sviluppare gli ordigni desiderati in una fiala o provetta e produrli in massa con attrezzature farmaceutiche in commercio, avvalendosi di un piccolo laboratorio da lui stesso allestito; non è poi necessario che il prodotto finale contenga un numero tale di germi da incapacitare repentinamente una popolazione, ma solo un quantitativo sufficiente per infettare le vittime poiché il decorso naturale della malattia produrrà effetti nefasti4. Contrariamente all’ipotizzabile attentato nucleare, i cui effetti sarebbero visibilmente immediati, gli effetti dell’attentato biologico sono successivi. Va infine notato che con determinati agenti biologici possono essere presi di mira anche il bestiame e la produzione agricola. È sorto quindi un ulteriore neologismo, l’agro-terrorismo, i cui connotati economici sono rilevanti. Per raggiungere un risultato ottimale il bio-terrorista competente ricorre ad un calcolo che prende in considerazione sei fattori nella selezione di un determinato agente: (1) costo minimo e facile impiego; (2) possibilità d’impiego via aerosol, che costituisce il metodo di disseminazione potenzialmente più letale; (3) relativa capacità di sopravvivere alla luce solare e al calore; (4) capacità di causare malattie letali o disabilitanti; (5) contagio per contatto, poiché la maggior parte degli agenti biologici non sono contagiosi; e (6) assenza di cure mediche efficaci. In via di massima, una volta comparati gli agenti e compiuti i calcoli, si avvicinano alla somma delle caratteristiche ideali sopra elencate gli agenti biologici rispettivamente portatori di vaiolo, febbri emorragiche ed encefalite. Circostanze contingenti di varia natura, incluse la disponibilità delle specifiche sostanze, le modalità operative e l’ambiente, possono ovviamente comportare la scelta di agenti biologici di minore efficacia potenziale. Il costo inferiore di acquisto/produzione e la maggiore facilità d’impiego rispetto agli agenti nucleari, nonché l’effetto devastante paragonabile al terrorismo nucleare, ha indotto alcuni commentatori a denominare gli 4 Il periodo d’incubazione, dipendendo dalla malattia prodotta, può variare da zero a 60 giorni. Alcuni esempi: antrace da 1 a 6, vaiolo da 7 a 17, peste da 2 a 3, brucellosi da 5 a 60, colera da 0 a 5. Bio-terrorismo 387 agenti biologici l’arma dei poveri5. Una volta confezionata, ammesso che non si siano verificati impedimenti o “incidenti sul lavoro”, l’arma biologica deve superare uno scoglio cruciale, ossia la disseminazione dei germi. In assenza di strumenti necessari e condizioni atmosferiche idonee (praticamente ideali), i germi letali si poggeranno innocuamente sul terreno, saranno portati via dalla brezza o s’inaridiranno e periranno sotto l’effetto della luce del sole. La letalità dipende dunque dalla scelta dell’agente, dal metodo di disseminazione, dalle varianti atmosferiche e dal luogo d’impatto tra vittime e germi. Vanno quindi esaminate varie ipotesi con relativi rischi e limiti. Riserve idriche. Non sono normalmente sottoposte a servizi di sorveglianza ai fini della sicurezza. Tuttavia la clorazione e la filtrazione uccidono i germi. Nelle riserve di elevata capienza i germi si diluiscono automaticamente in concentrazioni innocue. Il rischio è quindi basso. Centri urbani. Veicoli muniti di spruzzatori occultati possono diffondere i germi senza che l’azione terroristica venga notata. Inoltre le strade sono affollate da persone, soprattutto pedoni, prive di equipaggiamento protettivo. Allo stesso tempo, però, gli aerosol efficaci ai fini del terrorismo biologico necessitano di germi sotto forma di polvere secca di difficile preparazione; brezze impreviste sparpagliano i germi scomponendone la concentrazione; e la luce diretta del sole uccide la maggior parte dei germi in meno di un’ora. Il rischio è considerato di livello moderato. Immobili, particolarmente uffici pubblici. Le finestre chiuse permettono la conservazione dei germi all’interno; le mura proteggono i germi dalla luce del sole; l’aria condizionata contribuisce alla circolazione dei germi all’interno dei locali; e gli edifici stessi sono normalmente occupati da molte persone. Per converso, anche in questo caso gli aerosol per essere efficaci necessitano di germi in polvere secca di difficile produzione e, inoltre, i filtri dei condizionatori d’aria sbarrano alcuni aerosol. Il rischio è comunque valutato di alto livello. Pacchi. Richiedono solo un piccolo quantitativo di germi. In ogni caso, i germi non possono penetrare la pelle integra né si prestano, sotto forma di polvere, a probabile inalazione. Il rischio in questo caso è largamente insignificante. 5 Anche gli agenti chimici rientrano, per le stesse considerazioni, nella categoria dell’arma dei poveri. Nel loro insieme, gli agenti chimici sono considerati i meno devastanti a fini terroristici in ambito Nrbc, ma allo stesso tempo i più facili e meno costosi da ottenere o produrre anche se sorgono difficoltà riguardanti sia la conservazione in condizioni di stabilità sia le possibilità di dispersione, che dipendono anche in questo caso in buona misura da fattori atmosferici. 388 Vittorfranco Pisano In considerazione di quanto precede, gli specialisti generalmente citano come potenziali metodi di disseminazione, e probabili bersagli primari, la contaminazione del cibo nei ristoranti e l’intossicazione del pubblico per via aerosol all’interno di una serie d’immobili particolarmente affollati quali i centri commerciali, i palazzi governativi o adibiti a servizi, gli stadi al chiuso e le stazioni sotterranee, o comunque coperte, per i trasporti di massa. Bio-terrorismo: i casi La casistica disponibile nel pubblico dominio è contemporaneamente rassicurante e allarmante. Secondo lo studio statistico più recente, approfondito e rigoroso in materia di bio-terrorismo, si sono verificati a livello mondiale, tra il 1960 e il 31 gennaio 1999, 121 episodi criminali aventi per oggetto agenti biologici. Di questi, 55 riflettono caratteri terroristici reali. Inoltre, mentre su 66 casi di criminalità comune o organizzata otto hanno causato 29 morti e 31 intossicati, solo uno dei 55 di natura terroristica ha causato vittime: 751 intossicati. Risulta altresì dalle statistiche raccolte che 50 dei 55 casi di bio-terrorismo costituiscono falsi allarmi dolosi, i quali hanno raggiunto una vetta senza precedenti nel 19986. Sebbene entrambi contengano elementi a cavallo tra il terrorismo in senso stretto e tendenze più propriamente settarie, è istruttiva una breve disamina dei due casi – composti da più episodi – maggiormente significativi in materia di bio-terrorismo. Il primo risale al 1984 per opera di una setta pseudoreligiosa fondata nel 1974 da Bhagwan Rajneesh − già lettore di filosofia nell’Università di Jabalpur (India) − come un’ashram o comunità a Pune, sita a sud-est di Bombay. Il fondatore patrocinava una peculiare forma di meditazione caratterizzata da nudità, sesso libero ed emissione di suoni chiassosi. L’ashram era visitata da molti occidentali di formazione hippie. Nel 1981, per evadere il fisco indiano, Rajneesh si trasferì nello Stato americano dell’Oregon, dove fondò un’altra ashram, denominata Rajneeshpuram, che con il decorso del tempo reclutò 6000 seguaci affiancati da decine di migliaia di visitatori a pagamento nei periodi di festival. Nel 1984, dopo che Rajneeshpuram era assurta a municipio, i discepoli del fondatore tentarono d’in- 6 Statistiche tratte da J.B. TUCKER, Historical Trends Related to Bioterrorism: An Empirical Analysis, Monterey Institute of International Studies, Monterey, California 1999. Questo studio segue un approccio analiticamente e, conseguentemente, statisticamente riduttivo in quanto, contrariamente ad altre opere o fonti, esclude dalla casistica casi non sufficientemente documentati. Bio-terrorismo 389 fluire in modo fraudolento sulle elezioni locali importando 3000 senzatetto muniti di falsi documenti d’identità e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Contemporaneamente, la setta intraprese attività ostili nei confronti dei suoi oppositori a livello di contea, battaglia che culminò con l’avvelenamento, a base di salmonella, di 751 persone in quattro ristoranti di The Dulles, sede del governo locale, come prova generale per l’avvelenamento, mai avvenuto, dell’intero impianto idrico. Rajneesh fu condannato e deportato in India l’anno successivo, dove morì di AIDS nel 1980. La setta, ridenominata Osho e sotto la guida di un canadese, era ancora attiva nel 1996, con una ventina di centri nel mondo dediti a corsi distensivi per dirigenti industriali. I corsi fruttavano milioni di dollari annui. Oltre al fondatore, altri esponenti della setta hanno subito condanne penali. Il secondo episodio riguarda la setta pseudoreligiosa giapponese Aum Shinrikyo o Verità Suprema. Notoria per l’aggressione chimica del 1995 nella metropolitana di Tokyo, essa aveva in precedenza sperimentato il terrorismo biologico. Fondata nel 1987 dal semicieco Shoko Asahara, al secolo Chizuo Matsumoto, la setta si era stabilita a Kamiku-Isshiki, zona remota alle falde del Monte Fuji, 60 miglia a nord della capitale nipponica, e quindi idonea per la riservatezza. Essa prosperava grazie al patrimonio devolutole dagli adepti ed alle proprie attività imprenditoriali lecite ed illecite altamente lucrose, godeva di particolari benefici fiscali in quanto stranamente riconosciuta come ente religioso e rispecchiava le seguenti caratteristiche: mescolanze fideistiche indù e buddiste; elementi tratti dall’occulto; visioni apocalittiche; enfasi sullo yoga; sentimenti anti-sociali; pratiche fisiche estenuanti e controllo della mente degli adepti; rinuncia, con qualche eccezione, ai legami con i nuclei familiari; e violenze palesi nei confronti di membri non sufficientemente sottomessi e clandestine nei confronti di avversari o investigatori. Sono, infatti, lapalissiani i nessi tra le opere sulla psiche, sulla meditazione e sull’escatologia pubblicate dal fondatore e le dinamiche della setta. Asahara, ossessionato dal potere e dalla ricchezza e nel pieno esercizio carismatico della sua autorità religiosa, profetica e dittatoriale sulla setta, si era circondato di coadiutori muniti di competenze tecniche/scientifiche o attribuzioni politiche/amministrative e preposti a ministeri come se si trattasse di uno Stato sovrano. Nel 1990 fallì ingloriosamente la candidatura del capo e dei suoi ministri al parlamento nipponico, fallimento da Asahara attribuito ad una congiura nei confronti di Aum Shinrikyo. Questo insieme di peculiarità della setta − e dei suoi responsabili, alcuni dei quali possedevano la necessaria preparazione accademica e perizia professionale – l’avevano indotta alla produzione e sperimentazione di sostanze biologiche e chimiche, oltre ad un simile interesse non coronato da successo nel settore nucleare. Tuttavia il passaggio dall’attività di laboratorio all’attentato con agenti biologici si è dimostrato inconcludente in ognuno dei tre tentativi effettuati. Nell’apri- 390 Vittorfranco Pisano le 1990 Aum Shinrikyo tentò di disseminare un quantitativo di botulino attorno al Parlamento utilizzando lo scappamento di un’autovettura come mezzo di dispersione; ai primi di giugno del 1993, in occasione del matrimonio dell’erede al Trono, tentò di portare scompiglio nel centro della Capitale disperdendo nuovamente la stessa tossina da un’autovettura appositamente equipaggiata; e, a fine mese, tentò nel corso di quattro giorni consecutivi di disseminare antrace nella città di Tokyo, avvalendosi di un congegno spray allestito su di un palazzo di proprietà della setta stessa. Gli esperti attribuiscono il fallimento di questi attentati a problemi di dispersione degli agenti biologici, nonostante la disponibilità di scienziati e di risorse finanziarie ammontanti a circa un milione di dollari. Ulteriori episodi rilevanti e più strettamente collegati al terrorismo in senso stretto si sono verificati negli Stati Uniti, ove il fenomeno bio-terroristico (e Nrbc in generale) è seguito con particolare attenzione. Nel 1995, quattro membri del Patriots Council o Consiglio dei Patrioti, congrega anti-federalista e anti-tributaria, furono arrestati a Minneapolis, nello Stato del Minnesota, per associazione a delinquere finalizzata all’uccisione di agenti federali con sostanze tossiche. Nel 1997, sconosciuti negatori dell’olocausto rivendicarono l’invio alla sede nazionale di Washington dell’associazione ebraica B’nai B’rith di un piatto con l’etichetta “antrace” contenente un batterio innocuo somigliante all’antrace, che rese comunque necessari l’isolamento del palazzo, la decontaminazione e la quarantena. Nel 1998, tre rappresentanti del gruppo secessionista Republic of Texas minacciarono, ad Olmito, di commettere attentati con sostanze biologiche contro agenti federali e statali. Ancora nel 1998, alcune cliniche specializzate nell’aborto ricevettero ad Indianapolis, nello Stato dell’Indiana, una serie di lettere i cui mittenti sostenevano di averle impregnate di antrace. Tuttora irrisolti, seppure le indagini siano orientate soprattutto verso l’estrema destra, rimangono una serie di casi riguardanti l’invio di lettere contaminate d’antrace che tra il 4 ottobre e il 21 novembre 2001 hanno causato cinque decessi e 18 intossicazioni a Washington e negli Stati di New York, Florida, Connecticut e New Jersey. Alcune di esse erano destinate al parlamento federale ed ai mezzi d’informazione. Ulteriori episodi analoghi, intesi a colpire il Senato federale e la Casa Bianca presidenziale ma fortunatamente senza conseguenze dannose per le persone, si sono verificati nel febbraio del 2004. Bio-terrorismo 391 Considerazioni conclusive Dalla disamina del fenomeno terroristico ed in particolare del bio-terrorismo si possono trarre diverse osservazioni, considerazioni e conclusioni, ancorché provvisorie. - Il terrorismo si avvale tradizionalmente di armi da fuoco, principalmente pistole e mitragliette, e di esplosivi convenzionali, tutti strumenti di provata affidabilità. A tutt’oggi i singoli attentati che causano un numero considerevole di vittime – oltre il centinaio – rappresentano in effetti un’eccezione nel contesto delle migliaia d’incidenti terroristici di natura internazionale ufficialmente registrati nel mondo dal 1968 ad oggi7. - Per la quasi totalità delle aggregazioni terroristiche di destra o sinistra, nonché di quelle di stampo etnico, l’impiego di ordigni biologici, o comunque Nrbc, risulterebbe sproporzionato, poiché il fine ultimo che si propongono è la realizzazione di un radicale mutamento politico anche se con metodi violenti, i quali non prevedono però un annientamento di natura apocalittica. Va parimenti osservato che il modus operandi terroristico rispecchia normalmente una serie di singoli attentati di valenza mediata rispetto al fine ultimo. È infine opportuno notare che il terrorismo Nrbc, date le caratteristiche dei rispettivi strumenti, può arrecare danni tanto ai nemici quanto agli amici degli attentatori ed a loro stessi e rivelarsi quindi controproducente. - Quelle aggregazioni – e in particolar modo i loro capi − che si sono maggiormente avvicinate ad atti preparatori o effettivi di bio-terrorismo o di terrorismo Nrbc sono composte da (1) fanatici pseudoreligiosi segnatamente non privi d’interessi terreni tanto di natura economica quanto miranti a soddisfare il proprio ego; (2) personaggi imbevuti d’ideologie riguardanti un’asserita supremazia etnica o razziale; o (3) elementi dediti al radicalismo politico-religioso più fanatico e sfrenato. Per quanto riguarda la terza categoria fa stato la persona di Osama bin Laden e l’organizzazione/rete al-Qaida (ovvero La Base) a lui legata. Infatti, Osama bin Laden ha dichiarato che il possesso e l’impiego delle armi di distruzione di massa è un dovere religioso. - Nonostante le incognite insite nella preparazione ed esecuzione di attentati con agenti biologici o con l’intera gamma Nrbc (ossia i su indicati problemi di acquisizione/produzione, conservazione/stoccag- 7 Statistiche tratte dalle pubblicazioni annuali e periodiche dello U.S. Department of State in materia di terrorismo. Come su indicato, gli attentati internazionali coinvolgono cittadini o territorio di due o più Stati e sono meno frequenti di quelli interni, ma più facilmente quantificabili. 392 - - - - Vittorfranco Pisano gio, trasporto ed effettiva utilizzazione) e la consequenziale incertezza del risultato degli attentati stessi, il fattore imitativo è spesso presente in ambito terroristico. Il bio-terrorismo e più in generale il terrorismo Nrbc, da vari analisti qualificato come superterrorismo, megaterrorismo, iperterrorismo o terrorismo stragista è costellato da molte ipotesi e da pochi fatti concreti. Mentre non risultano atti tentati o compiuti di terrorismo nucleare e radiologico, la casistica rispecchia allo stesso tempo l’esiguità degli attentati con strumenti biologici e chimici rispetto al numero dei tentativi di produrre tali ordigni o di entrarne in possesso e al numero dei falsi allarmi dolosi. È comunque sufficiente la semplice minaccia bio-terroristica, per la cui attuazione basta che un’aggregazione possegga rudimentali sostanze, affinché scattino costose misure di prevenzione. Preoccupano contemporaneamente i falsi allarmi di natura dolosa che provocano sia il panico generalizzato, con gravi conseguenze per l’ordine pubblico, sia l’interruzione dell’ordinato svolgimento di processi industriali e commerciali, con grave nocumento all’economia nazionale. Fonte di cauto ottimismo è l’improbabilità che potenziali utenti terroristici vengano forniti di ordigni biologici o comunque Nrbc da Stati sostenitori. Da un lato, queste armi, data la loro particolarità e pericolosità, sono gelosamente custodite dagli Stati che ne dispongono. Dall’altro lato, il rapporto tra Stato sostenitore e aggregazione terroristica sostenuta è labile e precario in quanto i fini del sostenitore e del sostenuto non collimano nella loro totalità. Va altresì considerata la Convenzione sulle Armi Biologiche del 1972 − originariamente sottoscritta da 118 Stati ed entrata in vigore nel 1975 − che ne proibisce non solo l’impiego, ma anche lo sviluppo, produzione, stoccaggio, acquisto o trasferimento in quantitativi non giustificabili per scopi pacifici. Sono evidenti le conseguenze che sorgerebbero qualora una tale fornitura venisse ricondotta ad uno Stato firmatario non in regola con gli impegni della Convenzione. Infine, non va dimenticato che lo sviluppo tecnologico è in condizione di permettere attentati di notevole e crescente letalità senza che gli attentatori si avvalgano del ricorso, per sua natura precario, ad armi biologiche o Nrbc. Gli stessi attentati coordinati dell’11 settembre 2001 ai danni delle Torri Gemelle di New York e del Pentagono di Washington, momento culmine del terrorismo contemporaneo, hanno causato distruzione di massa con il semplice ricorso ad armi improprie – quattro aerei di linea sequestrati – piuttosto che ad armi di distruzione di massa. Pasquale Bellotti Sport e bioetica: il potenziamento farmacologico e tecnologico dell’atleta Non dovrebbe esservi ormai alcun dubbio sulla liceità dell’accostamento di sport e di bioetica e lo stesso accostamento non dovrebbe più essere oggetto di meraviglia, sia in coloro che lo darebbero per scontato, sia in coloro che non riescono, invece, a coglierne la necessità e l’ineluttabilità. Poiché la bioetica chiama in gioco – pretendendo di giudicarli e di assoggettarli ad una regola – i comportamenti umani che influenzano la vita, in specie biologica ma non solo, di altri individui, cioè di altre persone, lo sport viene chiamato in causa subito e direttamente, nella valutazione dei comportamenti della gran parte dei suoi addetti ai lavori, dal momento che la concretizzazione dello sport è rappresentata, da una parte, dalla competizione, e dall’altra, dall’allenamento motorio per il miglioramento di sé, che si esprime poi nella specifica prestazione, nelle cosiddette specialità sportive1. L’allenamento proprio questo significa: l’azione concreta e continuativa di uomini (gli allenatori e gli istruttori, ma non soltanto), che propongono l’esercizio fisico organizzato ad altri soggetti (giovanissimi, giovani, adulti, maschi, femmine, sani e con patologie croniche, normodotati e disabili, ecc.), ciascuno portatore di sue proprie inconfondibili ed incancellabili caratteristiche psichiche e fisiche. Tali caratteristiche, così uniche e peculiarmente legate ad una particolare persona, da non essere rinvenibili mai più, nel passato, nel presente e nel futuro dell’umani- Medico Specialista in Medicina dello Sport, già Direttore, Scuola dello Sport, CONI Servizi. Docente di Etica e Bioetica dello Sport, Scuola Universitaria Interfacoltà di Scienze Motorie di Torino. 1 Cf. per questo, tra i molti contributi disponibili in letteratura, M. ATTALI (ed.), Le sport et ses valeurs, La Dispute/Snédit, Parigi 2004; P. BELLOTTI, «Educare allo sport: perché?», in Nuntium (Pontificia Università Lateranense) 1/22 (2004), 5461; P. YONNET, Huit leçons sur le sport, Editions Gallimard, Paris 2004 ; G. VIGARELLO (ed.), L’esprit sportif aujourd’hui – Des valeurs en conflit, Encyclopaedia Universalis France S.A., 2004 ; B. VILLARD, «Refaire des hommes», in Amicale des Entraineurs Français d’Athletisme 33,1971; 34 e 35, 1972. 394 Pasquale Bellotti tà, sono offerte ed affidate alla competenza dell’allenatore (e, nello sport cosiddetto di alto livello, anche di un’intera squadra di esperti che supportano la preparazione dell’atleta), perché egli operi per esaltarle senza stravolgerle, per ottimizzarle senza far perdere loro l’“umanità” e la “naturalità” (in questo caso, si badi bene, non la naturalezza, che è anch’essa un fatto importante!) che le contraddistinguono. In cosa consiste l’esaltazione e l’ottimizzazione delle capacità motorie di un organismo? Sostanzialmente, nell’esplorare il loro livello in ciascun organismo e nel saggiarne il limite ed i margini di espressibilità e di attualizzazione nella competizione. Non certamente nel superare i limiti imposti dalla natura di ciascun soggetto a quel soggetto, né di forzare il miglioramento della prestazione, attraverso un rischio non calcolato, attraverso il continuativo ricorso ad un azzardo, che mette in pericolo l’incolumità e la vita dei soggetti ed il ricorso addirittura alla tecnologia e alla scienza in genere per andare più in là, sempre oltre. Oltre i limiti. Come vorrebbe, in fondo, il citius, altius e fortius che è emblema della pratica sportiva olimpica e che, certamente, nella volontà di chi lo ideò2 stava a significare ben altro, rappresentando l’invito ad impegnarsi al massimo e basta, senza l’obbligo della vittoria e della supremazia: impegnarsi solo per superarsi e provare ad essere, oggi, migliori di ieri. È questa la grande lezione che può venire dallo sport e che introduce alle “cose serie” della vita, in ciò aiutando i giovani in formazione e in divenire3. La realtà che è sotto gli occhi di tutti è però diversa: lo sport è ben lontano dal manifestarsi come gioco motorio orientato verso la competizione, come vorrebbero gli esperti, da raccomandare per i numerosi benefici che può apportare alla vita delle persone ed ai rapporti e alle relazioni tra le stesse. Lo sport, oggi, si manifesta anche come un fenomeno di cui aver paura e da temere: non fa bene alla gente, può invece far male, anche molto male e addirittura far morire. Ed essere scandalo, dunque fenomeno che non può attirare, ma può piuttosto respingere e che sovente viene colto in maniera fuorviante e morbosa, proprio per le caratteristiche scandalose di cui oggi spesso s’ammanta: la frode e la disumanità. È perciò fuor di dubbio, visto il momento che lo sport sta attraversando e considerato il travaglio che lo porterà, inevitabilmente ed anzi sempre 2 Padre H.L. Didon e Pierre Fredy de Coubertin. Cf. per questo P. BELLOTTI, «Appunti per una Teoria dello Sport (ovvero vecchi Appunti per una nuova Teoria dello Sport)», in Scuolainforma 38 (1999), 5-9; P. BELLOTTI, «Lo sport fa bene? Vantaggi e svantaggi della pratica motoria e sportiva sulla salute nelle diverse età e situazioni», Quadro teorico di riferimento, in V. CUPELLI - S. ORIOLI (a cura di), Atti del 6° Congresso Nazionale di Medicina dello Sport: Conoscere lo Sport (Firenze, 4-6 maggio 2000), C.E.S.I., Roma 2000. 3 Sport e bioetica 395 di più, verso lidi e frontiere che ben poco avranno di “sportivo” e certamente niente di “umano”, che non si debba rinunciare né ad un’estrema sincerità e schiettezza espositiva, né ad un atteggiamento di fondo che punti a raccogliere adesioni di un cartello di persone (non per forza di cose scienziati, non per forza di cose allenatori) interessate (ma vi è da domandarsi, in realtà, se oggi ve ne siano realmente) a fare qualcosa per salvare la pratica dello sport, dall’unico versante che conta, sia ben chiaro, per lo Sport in questione: il versante per il quale si giustifica l’esistenza dello sport stesso e nel quale si esauriscono tutti i suoi contenuti e tutti i suoi valori, biologici e psicologici: il versante dell’allenamento sportivo. Lo sport è allenamento, diremo chiaramente e semplicemente, perché non si equivochi nel seguito: tutto il resto è sovrastruttura, è secondario, a volte voluttuario, a volte “pruderie”: infatti, spesso può essere omesso senza conseguenze, non di rado è del tutto dannoso ed omettendolo se ne riportano – alla causa dello sport – solo vantaggi. Occorre, dunque, preliminarmente, mettere sul tappeto il fatto che lo sport è cosa ben diversa – forse – dalla concezione che i molti sedicenti esperti ritengono, ciascuno per la sua parte, di padroneggiare: esso non nasce per essere affare o essere preda di sponsor, non nasce per essere osservato e descritto nei mille differenti laboratori scientifici che la scienza mette a disposizione, non nasce per fare spettacolo a tutti i costi, non nasce per superare limiti. Nasce per restare entro i limiti, imposti dal suo essere un fatto umano, solo spiegabile con la sua natura di gioco motorio entro il quale si esercita e si realizza l’agonismo che è nel praticante in quanto uomo4. Lo sport è un fatto umano, ben lontano dal mostro di disumanità che sovente appare oggi, un fenomeno che si fonda sulle regole dell’Olimpismo e sulla Carta Olimpica che le custodisce. E non si venga a dire – provocatoriamente – che, però, nemmeno il CIO sembra aderirvi, perché anche di questo fatto in molti dovrebbero provare vergogna, poiché chiama in gioco responsabilità di strutture deputate ed istituzioni collegate. Lo Sport e buona parte dei suoi adepti e dei suoi interessati avvocati difensori sono tutti fuori dalla Carta Olimpica, che è il documento primo della pratica sportiva, cui occorrerebbe, iniziandosi allo sport, da atleti, da allenatori, da medici, da dirigenti, da altri studiosi del fenomeno sport, mandare a memoria e ripetere, poi, ogni giorno come una preghiera. Lo sport è come una vera religione e l’olimpismo è la sua fede5. 4 Cf. J. HUIZINGA, Homo Ludens, I Gabbiani, Il Saggiatore, Verona, 1967, trattatello senza età e troppo poco letto dagli addetti ai lavori. Chi si occupa di movimento e di sport non può fare a meno di conoscere a menadito e di citare spesso questa opera basilare di Huizinga. 396 Pasquale Bellotti Ma quanti di coloro che sono nello sport conoscono la Carta Olimpica6, quanti sanno almeno che esiste, quanti la hanno letta e, per quelli che l’avessero fatto, quanti vi aderiscono e pensano davvero che sia la cosa fondamentale, fondante, imprescindibile, per avviare un qualsiasi discorso intorno allo sport? O qualcuno pensa che si tratta solo di parole? La Carta Olimpica è il primo unico discorso da fare sullo sport: tutto il resto può solo venire dopo, perché solo dopo può avere dignità e senso nello sport. La Carta Olimpica, può far piacere saperlo a chi non lo sapesse, è organizzata in cinque lunghi capitoli (il movimento olimpico, il CIO, le federazioni internazionali, i comitati olimpici nazionali, i Giochi Olimpici), ma nessuno di essi interessa in questa sede. In questa sede, interessa osservare che il provvido estensore della Carta volle anticipare l’intero contenuto, con due sole pagine di “Principi Fondamentali”, 9 principi, ritenuti essenziali e, come detto, fondanti per l’intero movimento sportivo mondiale. Basta leggere quelle due pagine e riconoscersi o meno in esse: riconoscendovisi, si fa la scelta dello sport come stile di vita, filosofia di vita e valore per l’individuo; ignorandole, si fa la scelta dello spettacolo, del fenomeno da baraccone, del disinteresse per l’uomo che c’è nel giovane che cresce e nell’adulto che mira a stracciare, superandosi, i misteri del suo essere biologico e psicologico. Proprio in tal guisa e senza questa fondamentale credenziale professionale, senza questo ineludibile lasciapassare, molti hanno scelto di allenare (ed è stato loro, dunque, lasciato fare) senza porsi il problema di cosa significhi allenare e del fine e degli obiettivi da raggiungere, molti (ed è stato anche a loro, dunque, lasciato fare) di curare ciò che non è da curare, molti di aiutare ciò che non può consentire aiuti, molti di dirigere per il proprio tornaconto, molti di cercare quello che non serve di trovare e di dimenticare di osservare meglio quello che è sotto i propri occhi. Tutto, sempre in totale libertà e senza la pregiudiziale dell’intima adesione ad una fede. Molto spesso in buona fede, non abbiamo difficoltà ad ammettere. Ma ciò non impedisce di bollare come inutili, pericolosi e perniciosi moltissimi atti e comportamenti, da sempre, fino ad oggi. E sapete perché, secondo noi? Proprio perché, oltre alla competenza specifica e specialistica, occorre la patente di idoneo allo sport, patente che si può dare solo a chi incondizionatamente accetta il principio che nello sport si manifesta l’etica del rispetto per l’uomo, unica forma di etica concepibile per la mente umana, come vole- 5 Un interessante contributo, ancorché datato è quello di D. SANSONE, Greek Athletics and The Genesis of Sport, University of California Press, Berkeley 1988. 6 Cf. in proposito CIO, Comitato Internazionale Olimpico, Carta Olimpica del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), aggiornamento al settembre 1997, Losanna 1997. Sport e bioetica 397 va – dovremmo sempre ricordarci, poiché è storia ed è vitale per riconoscerci umani – Albert Schweitzer: il rispetto per l’uomo e per la vita che, applicato allo sport, significa sempre rispetto per quanto di umano c’è in un uomo che si supera con le sue sole forze. Non abbiamo la patente, per guidare il mondo dello sport. Abbiamo studiato tutto, ed abbiamo specialisti per tutto, addirittura per l’inutile, ma non abbiamo fatto e fatto fare a nessuno, mai, l’esame di etica e quello di bioetica. Non ci è stato chiesto di sottoscrivere l’impegno olimpico di fare tutto lealmente. Così siamo stati tutti battitori liberi, nella terra di nessuno, senza poter fare e dover fare l’obbligatoria scelta del campo, di cui diremo tra un po’. Dell’etica e della bioetica dello sport che non abbiamo e di cui sentiamo la mancanza, questo il possibile “titolo” ed anche l’estrema sintesi di quanto abbiamo finora osservato. Primo punto. Ma eccoci subito al secondo che, per contrappunto, chiameremo Della scienza che non abbiamo7. Non si spaventino gli scienziati, non i veri, non i sedicenti; non i ricercatori, gli uomini del laboratorio, quelli del laboratorio scesi in campo e quelli del campo rinchiusisi a chiave nel laboratorio. Non ci riferiamo soltanto a loro, quando parliamo della scienza che non abbiamo. Ci riferiamo, intanto, agli allenatori, che una loro disciplina scientifica hanno nelle mani, ma – come ciechi – pare che non la vedano e hanno così pensato di doverla mutuare altrove (così almeno essi credono). Hanno il decisivo vantaggio di avere dalla loro la prassi, la pratica, che è stata scienza per eccellenza, specie nel metodo (osservo l’atleta e ne “spio” la tipica motricità, ne progetto un possibile futuro di sviluppo motorio, sperimento e verifico, traccio la tendenza del cammino che mi sarà – forse – utile nel seguito). Ma la prassi, che certo non è tutto (ma intanto è moltissimo), non bastava all’allenatore, vergognoso del fatto di non essere un dottore (ma da qualche anno, può essere anche dottore in scienze del movimento e dello sport), un professore, un ricercatore nel senso classico (ma anche più riduttivo) del termine e certo di non avere strumenti sofisticati per misurare, per cercare, per calcolare, per indurre e per dedurre. Li aveva, invece, e – pur avendoli – li chiese allo scienziato, che non aspettava altro che di dare una mano e si è poi preso quasi tutto il corpo (certamente qualcuno anche l’anima), parlando dalla cattedra universitaria, dalle riviste (che non dovrebbero mai diventare i luoghi de- 7 Cf. anche P. BELLOTTI, «La ricerca medico-biologica applicata allo sport», in Recenti Progressi in Medicina dello Sport 85/2 (febbraio 1994), 2-4; P. BELLOTTI, «Ruolo dello Scienza e della Tecnologia nello Sport», in Scuolainforma 35 (1998), 5-6; M. KENT, The Oxford Dictionary of Sports Science and Medicine, (edizione italiana a cura di P. BELLOTTI, Il Pensioro Scientifico, Editore, Roma 1996); E ENRILE, Dizionario degli Sport, Edizioni Paoline, Roma 1977. 398 Pasquale Bellotti dicati di iniziati che discettano appunto da iniziati con altri iniziati, e che si cercano e si trovano in convegni e congressi, grandi e piccoli, dappertutto nel mondo, dimenticando che è solo un piccolo paese, solo un’unica provincia, non altro, che ha bisogno del frutto del loro ingegno ed impegno, frutto concreto da spendere nella pratica quotidiana del training). Ecco, parlare dall’altezza del cumulo delle nozioni che si posseggono, dall’alto della scienza, della comoda sicurezza dello scienziato che sa (o, diciamo, crede di sapere)! L’allenatore si è fatto – così – espropriare da una terra che è sua, non può che essere sua, gli compete, una terra in cui conta per 90 il rapporto di lui con l’atleta e 10 tutto il resto. Bene, si dica dove questo è oggi nello sport. Si dica se non è vero che all’allenatore è stato tolto tutto, dandogli in cambio – come specchietti – delle quasi inutili nozioni. Quasi tutto quello che serve a fare e a fare bene l’allenamento sportivo si trova nella pratica e nell’esperienza. Quello che servirebbe è capire meglio il perché dei fenomeni che si osservano e che apparentemente non hanno una plausibile spiegazione. Perché la pratica del training – lo si abbia pure per certo – contraddice spesso la teoria. Quello che non serve è, dunque, dare fondamento a teorie senza senso, a strutture di pensiero che nella prassi dell’allenamento non si vedono mai. Tutto questo molti degli allenatori hanno lasciato fare e sono, proprio per questo, colpevoli. Ma gli scienziati certamente desideravano dare una mano agli allenatori praticanti, quelli della pratica, cioè, che è cosa riduttiva, che ha bisogno (ma chi lo ha detto e chi lo dice?) di teorie per essere suffragata, validata, accettata, avere dignità di scienza e dimora nei circoli scientifici, nelle riviste specializzate e magari in qualche consorteria. Ma i ricercatori illuminati (non ci azzardiamo a tentare una valutazione numerica, certamente ve ne sono, come ve ne sono di non illuminati), che avessero voluto dare un contributo, cioè aiutare la scienza dell’allenamento a fare passi in avanti e a capire solo un poco di più di quella così complessa macchina che è l’uomo che si esercita (d’altra parte, mi dico, cosa ci starebbero a fare, quelli che vi entrano nello sport, se non questo, visto che nel sistema sportivo conta quasi soltanto il rapporto allenatoreatleta?), avrebbero dovuto immediatamente fare all’allenatore due domande: la prima, semplice, cosa ti serve? E forse questi avrebbe potuto rispondere: no, guarda che non mi serve questo, mi serve – invece – di capire quest’altra cosa, per favore. La seconda: ma mi spieghi cosa è l’allenamento? Non sarebbe stata né peregrina né sbagliata né fuori tempo e fuori luogo la domanda; avrebbe – al contrario – colto proprio nel segno, perché – guardate – cosa è l’allenamento lo si sapeva meglio una volta, e lo sapeva solo l’allenatore. Ora, neanche lui. Ma nemmeno nessuno scienziato, con nessuna delle sue ricerche e dei suoi libri e dei suoi articoli. Ma nemmeno nessun preteso metodologo dell’allenamento, con i suoi Sport e bioetica 399 assurdi teorici e falsi libri di teoria dell’allenamento, falsi perché pieni di falsi e perché copiati da dove era meglio non copiare. L’allenamento è oggi quasi all’anno zero (nel senso che è tornato all’anno zero, poiché, certamente, non sempre vi è stato). Né è difficile comprenderne il perché, le cause. E, perciò, siamo ben lontani dal possedere un insieme ragionevole, articolato e congruo di conoscenze concrete che aiutino realmente la prassi dello sport e su quelle che “abbiamo” occorre fare un’attenta cernita: quali realmente utili (ve ne sono pochissime), quali fuorvianti (in realtà, diverse), quali inutili (ebbene, tante), quali pericolose (credete, la maggior parte), quali certamente dannose (ve ne sono, eccome se ve ne sono!). Perché gli scienziati non aiutano a spiegare perché non v’è una plausibile spiegazione al fenomeno dell’adattamento, che interpreti e guidi la pratica? E perché tutta la bioenergetica di questo mondo non spiega la pratica di campo? Perché la cosiddetta periodizzazione del carico di lavoro fisico è solo un costrutto teorico senza riscontri significativi nella realtà; perché la forza appare, a chi sa guardare, sempre un problema di resistenza? Perché per fare bene la specializzazione in uno sport è meglio non fare la specializzazione? Perché spesso è la diminuzione, non la crescita del carico di lavoro (il complesso delle esercitazioni prescelte), nel tempo, a far progredire una prestazione? Perché si sia giunti all’assurdo e al clamoroso falso di differenziare gli esercizi tecnici da quelli vergognosamente definiti (con spregio della nostra lingua) condizionali, come si fa di solito? perché, perché, potremmo trattenerci per ore con mille perché, a cui non sapremmo, nessuno saprebbe, dare risposte compatibili con la pratica di campo. Che, però, si fa; e dà delle risposte ai perché; e consente di fare scelte regolari – anche se non certe – dinanzi ai mille bivi che la fallibilità di ogni tipo di conoscenza pone all’operare. Abbiamo, lo abbiamo già detto chiaramente, una teoria che non serve alla pratica dell’allenamento sportivo, perché non ne chiarisce le caratteristiche costitutive e non ne orienta il dipanarsi e lo sviluppo consequenziale. Alla teoria che, per colpa di mille inutili o quasi apporti, oggi, fa acqua, cosa si è dato? All’allenamento in estrema difficoltà a causa dei programmi dilatati, delle mille inutili competizioni, dell’obbligo di diventare bravi presto e spesso, cosa è stato offerto? Allenamento malato, crediamo sia stata questa la diagnosi fatta: dunque, curare con farmaci, potenziare con apporti esogeni, sostenere con sani e sicuri integratori 8. Alla 8 Si vedano, tra gli altri, i seguenti contributi: P. BELLOTTI - G. BENZI, Farmaci, allenamento e sport, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1990 (specie i capitoli 1 e 4); P. BELLOTTI, «Il doping: storia, sostanze, effetti, aspettative, danni. Quali discipline, quali personalità, quale morale», in Movimento 5/3 (1989), 165-167; P. 400 Pasquale Bellotti pratica di campo, in cerca di se stessa, cosa è stato proposto? Scorciatoie, dove – cercandosi – la prassi ha perduto se stessa, fino a snaturarsi, fino all’assurdo di moltiplicarsi all’infinito in migliaia di prassi senza fondamento. Invece della soluzione che c’era e che è nella bioetica che invoca il rispetto dell’uomo, con la quale ogni prassi si costituisce e si costruisce, con relativa facilità, con limiti e con ambiti perfettamente definibili9. Il nostro successivo passaggio si chiama di una chiara scelta di campo di cui avvertiamo la mancanza. Vi abbiamo accennato, più sopra, facendola dipendere dall’adesione o meno ai contenuti della Carta Olimpica, adesione che o ci sarebbe oppure sarebbe negata, e questo costituirebbe – almeno – chiarezza fatta. Precisiamo meglio, facendo l’esempio, che non possiamo non aspettarci, del doping che ci sta divorando. O non ci sta forse divorando? Infatti, non ci sta divorando. Ci ha quasi del tutto divorato10. La partita tra i fautori del doping, che sono un discreto numero, ed i nemici del doping (quelli veri e decisi sono pochissimi) si potrebbe giocare con relativa facilità e la possibilità di vittoria non sarebbe affatto esclusa, per chi combatte il doping, naturalmente. E sarebbe lotta non del tutto spiacevole, perché giocata fronte a fronte, tra avversari in pieno sole, non in ombra, conosciuti gli uni agli altri. Quello che ha reso impari la lotta, favorendo i sostenitori del doping e del potenziamento farmacologico in BELLOTTI - R. MASSACESI (a cura di), Io non rischio la salute!, CONI Scuola dello Sport, Roma 1998. 9 Cf. anche, tra i molti contributi disponibili, A. EDGAR, Ethics of Sports, in Encyclopedia of Applied Ethics, Vol. 4, Academic Press 1998, 207-223; J. HOBERMAN, Mortal Engines – The Science of Performance and the Dehumanization of Sport, The Free Press, New York, N.Y. 1992; S. LEONE - S. PRIVITERA (eds.), Nuovo Dizionario di Bioetica, Città Nuova ed Istituto Siciliano di Bioetica, EDB-ISB, Roma ed Acireale (CT) 2004; G. REDMOND (ed.), Sport and Politics, The 1984 Olympic Scientific Congress Proceedings, Vol. 7, Human Kinetics Publishers, Inc. Champaign, Illinois 1986; G. RUSSO (a cura di), Enciclopedia di Bioetica e Sessuologia, Editrice Elledici, Torino 2004. 10 P. BELLOTTI, «Sport e Doping», in Il Mondo dello Sport oggi. Campo d’impegno cristiano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006; P. BELLOTTI, «Sport e antidoping: un problema di cultura», in Atti del Convegno Scientifico Nazionale: Sport contro droghe. Le attività motorie e sportive al servizio per le prevenzione ed il recupero delle tossicodipendenze (Roma, 13.12.1997), CO.NA.P.E.F.S., Roma 1999; P. BELLOTTI G. CALDARONE, «Pratica sportiva e salute degli adolescenti: il problema del doping – Il ruolo del medico sportivo», in Rivista Italiana di Pediatria 25/suppl. 4, (agosto 1999), 26-28; D. BODIN - L. ROBENE - S. HEAS , Sports et violences in Europe, Editions du Conseil de l’Europe, Starsburgo 2004; CIO, Codice Medico, aggiornamento al gennaio 1998; CIO, Documento Finale del 100° Congresso CIO di Parigi, settembre 1994; R. CLARKE, Ron Clarde’s Running Book, Outback Press, Collingwood, Victoria (Australia) 1979. Sport e bioetica 401 genere, quello che ha reso improvvisamente non noti i volti di questi ultimi e, anzi, li ha confusi tra mille, è stata la folla di coloro che sotto rete (per restare nella metafora calcistica) si è accalcata e si accalca, stando un po’ di qua e un po’ di là, facendo chiasso, distraendo, disturbando il gioco. Una folla. E tutti a dire di essere contro il doping nello sport. Qualcuno ci sarà pure, in questa folla, che la lotta dice di volerla fare e la fa, di persona, facendo almeno “un qualcosa”. Ma gli altri, parlano, parlano, parlano soltanto, in buona e in mala fede, e disturbano, ahimè quanto disturbano più dei dopatori. Sono a milioni le parole spese inutilmente, parole senza senso, per dire di voler combattere il doping (salvo poi non farlo, salvo essere “consonanti” con i dopatori, salvo essere addirittura “infiltrati”). Ecco, questa è la chiara scelta di campo, che ci manca. Ci piace stare nel gioco, senza l’impegno di dichiararsi, starvi ma non scegliendo un campo in cui prendere posizione, prendere il proprio posto e, di conseguenza, responsabilmente, agire. Sarebbe il doping, senza un tale aiuto e, spesso, senza una simile connivenza, già sconfitto da parecchio. Ma, anche in questo, da molto tempo ormai abbiamo – mi pare – varcato ogni limite, superata ogni barriera e corriamo, corriamo senza freni e senza fari (lo fanno gli allenatori, lo fanno i ricercatori, lo fanno i dirigenti: quanta cecità!), verso “magnifiche sorti e progressive” del sistema sportivo mondiale. Ma nello sport di oggi, da quando lo si comincia a quando lo si dismette, non c’è più nulla che assomigli ad un percorso umano, di uomini in mezzo ad altri uomini. E siamo tutti e sempre ad un bivio: che forse non è quello, sacrosanto, già accennato, che la fallibilità della scienza ci mette davanti perennemente e che ci ricorda che, comunque, l’approdo di oggi è – comunque – incerto e quello di domani pure, anche se un po’ di meno. Il nostro problema è un altro: noi abbiamo del tutto smarrito la strada, un bivio, come un altro, non può risolvere il nostro smarrimento. Noi dobbiamo ritrovare la strada e rientrare nei limiti, anche se forse – allo stato attuale – davvero improbabile: difficile ed improponibile ad un sistema e ad una scienza che, sovente, a testa bassa, si dirigono verso mete non richieste (dall’oggetto del proprio agire e del proprio interesse speculativo) e che non costituiscono punti fermi, stabili, solo un apparente superamento di limiti biologici. Intanto, dovremmo provare con una seria riflessione sul limite più importante che non deve essere mai superato, per primo dalla scienza: limite che è imposto all’uomo dall’io morale che egli ha dentro di sé. L’iobioetico non può non portare il vero addetto ai lavori del mondo dello sport a fare le seguenti considerazioni, sull’aiuto mirato che ci aspetta da parte della medicina e della biologia. 1. Il dialogo. È necessario un atteggiamento favorente il dialogo tra la ricerca e la pratica. La scienza non deve perdere di rigore, ma deve saper 402 Pasquale Bellotti accettare, umilmente, il confronto con le concrete necessità del training. Agli addetti ai lavori dell’allenamento sportivo non sfugge l’importanza ed il significato della ricerca di base, né la serietà né l’altezza del compito affidato a chi ricerca, anche chiuso in impenetrabili laboratori; ma agli stessi ugualmente non sfugge di doversi confrontare con il presente che incombe, che richiede di conoscere subito di più per operare meglio e che, in mancanza di un supporto scientifico dello scienziato costringe, per esempio, l’allenatore, ad assumere i contorni, attraverso il “provando e riprovando”, il trial and error, la sperimentazione pratica di modelli teorici di allenamento e la verifica concreta dell’ipotesi iniziale. Nel passato, credo non lo si debba mai dimenticare, la ricerca utile per lo sport è stata assai spesso ricerca di campo, non ricerca di laboratorio ed i contributi di quest’ultima, quando presenti, qualche volta addirittura fuorvianti e dannosi: la qualità fisica resistenza aerobica andrebbe sviluppata con carichi di lavoro di grande volume e di scarsissima intensità; la crescita della prestazione è sempre funzione della crescita nel tempo dei parametri del carico di lavoro fisico; la donna può allenarsi come e quanto l’uomo; l’allenamento sportivo deve iniziare precocemente per essere il più efficace possibile; e così via di seguito. Maggior dialogo e maggior umiltà, sforzandosi – tra l’altro – prima di comprendere e poi di cambiare il gergo dell’allenamento sportivo, gioverebbe molto, non soltanto a quest’ultimo. 2. L’utilità, cioè la utilizzabilità. Significa orientare la strategia della ricerca applicata allo sport verso le esigenze dello sport, soprattutto consistenti nel perfezionamento dei modelli di prestazione delle differenti specialità e, di conseguenza, dei modelli di avviamento prima della formazione motoria di base, anche se mirata, poi all’allenamento sportivo vero e proprio, in vista della grande prestazione. La ricerca scientifica deve far meglio comprendere il significato della somministrazione dei carichi di lavoro, gli effetti di quest’ultimo sull’organismo e le conseguenti risposte adattative dell’organismo stesso. La risoluzione oppure il tentativo di risoluzione di problemi specifici, volta per volta affioranti, indipendentemente dall’utilità relativa per una o per molte o per tutte le specialità sportive, è del resto l’unico sistema per eliminare la tentazione della scorciatoia: non la lunga strada del progredire rigoroso nello sviluppo di un progetto razionale di allenamento, ma la mediazione di un farmaco o di un altro mezzo proibito, placebo incluso (che non è, per questo, meno dannoso), per arrivare prima e meglio. Entrambi illusioni. 3. I numeri. V’è un assoluto bisogno, per avere risultati che interpretino bene la realtà e non la coprano, che la ricerca nel campo dello sport del futuro sia sempre, non come avvenuto talvolta – anzi spesso – nel passato, basata su numeri adeguatamente grandi. È assurdo, fuorviante, sentire i ricercatori esprimere come leggi generali il risultato di poche anche ben Sport e bioetica 403 condotte, osservazioni. È grandissimo si sa, il rischio che è insito nelle generalizzazioni e nelle estrapolazioni, quando queste siano il risultato di un’operazione non basata sui rapporti tra molti e diversi dati omogenei, ma sulla presunta autorevolezza di chi espone e sul tono apodittico con il quale possono essere presentati i dati, ancorché risibili, frammentati, provvisori. 4. Razzismo nella ricerca? Mondi diversi sono quelli che si riferiscono alle varie età della vita, ai due sessi, alle razze, alla normalità e all’anormalità. La ricerca nello sport del futuro non dovrà solo basarsi sui maschi adulti bianchi e sani, da cui estrapolare dati, valori e informazioni valide per tutti; essa non potrà escludere nessuno e, invece, prudentemente e pazientemente ospitare nei laboratori i bambini delle classi iniziali di qualificazione, i rappresentanti della terza e quarta età, le donne, i portatori di handicap, uomini di razza diversa dalla bianca. Troppi risultati oggi disponibili risentono della confusione dovuta alle generalizzazioni esagerate e all’approccio non mirato e, perciò, non servono e, se vengono utilizzati per orientare e guidare la pratica, provocano più danni che altro. 5. Tecnologia che aiuti davvero. Ma davvero si può pensare che la tecnologia sia la panacea per arrivare all’alta prestazione, che sia irrinunciabile, sempre e comunque, il ricorso a qualcosa che a tutti i costi faccia crescere la prestazione? Magari una protesi in fibra di carbonio che consenta all’amputato di competere ad altissimo livello, ad un livello tale da far desiderare di competere con i normodotati, mentre non si è più normodotati?11 11 Cf. il caso Pistorius, di questi mesi, che ha messo in crisi l’intero sistema sport mondiale, per la novità e la stranezza della vicenda. Pistorius è un atleta sudafricano, amputato – per una malformazione – di entrambe le gambe. Una protesi appositamente ideata gli consente, però, di avere una vita normale quanto alla deambulazione e addirittura di competere ad alto livello, nelle corse veloci dell’atletica leggera, con un vantaggio – così sarebbe stato calcolato da una èquipe di scienziati a ciò incaricati dalla IAAF, la Federazione Internazionale di Atletica Leggera – del 30% circa sugli atleti normodotati ma, a questo punto, svantaggiati in partenza dalle protesi dell’atleta disabile. Pistorius, in realtà, può gareggiare, in apposite categorie di atleti. Il vantaggio che gli conferiscono le protesi mettono in difficoltà gli atleti normodotati ma senza protesi velocizzanti al posto delle gambe. È proprio necessario sfidare la propria natura, a tutti i costi e costi quel che costi, per poter partecipare ai giochi olimpici dei normodotati e non solo alle cosiddette Paraolimpiadi? Pistorius è la vittima di un complotto, oppure è scorretta la sua posizione che, strano a dirsi, mette in condizioni di evidente inferiorità (alla partenza di ogni gara) gli altri contendenti? In realtà, Pistorius non è una vittima. Le protesi che egli utilizza (e che possono essere considerate senz’altro, un vanto e una conquista della tecnologia) comportano, oltre al vantaggio biomeccanico della struttura metallica che presenta e dell’azione tecnica che consente), un risparmio assai consiste di fatica neuromuscolare: l’atleta sudafri- 404 Pasquale Bellotti Magari un attrezzo di gara, un veicolo speciale, che consenta all’atleta di raggiungere velocità più elevate di sempre, ma che metta maggiormente a repentaglio la propria incolumità. Tecnologia che non aiuta l’uomo, serve solo lo spettacolo e diventa, perciò, disumana. 6. Allenamento e non allenamento. Tra chi si dedica a tempo pieno all’allenamento sportivo e chi è, invece, sedentario esistono grandi differenze, che la ricerca scientifica è certamente bene in grado di esplorare e di dimostrare. Ma una grande differenza ugualmente esiste tra chi si allena molto e chi si allena poco o chi svolge un’occasionale, anche se continuativa, attività fisica. Molte delle ricerche del passato hanno preso in considerazione, definendoli come attivi o molto attivi o come atleti addirittura, soggetti che svolgevano 2-3 sedute settimanali di regolare attività fisica, con la conseguenza di attribuire, nei risultati, agli atleti in genere, le caratteristiche di chi atleta non è, con il solito grave danno, ai fini della reale comprensione dei problemi. Ancora, in questi casi, il dialogo e l’impegno a voler capire e voler aiutare realmente sono la garanzia che preserva dalla mistificazione e dall’approccio superficiale che, lungi dal portare almeno ad una comprensione solo parziale dei fenomeni, conduce – invece – allo stravolgimento della realtà e, così, all’errore. 7. Ricerca senza confini. Oceano da esplorare sia solcandolo sia inabissandovici. La ricerca è, per definizione, senza confini, senza limiti. Il limite è morale. Il limite – in profondità – è il doping. Il limite in ampiezza, per abbracciare più campi e più conoscenze, insomma più mondi, praticamente non esiste. E, per essere più “etica”, ammesso che sia plausibile esprimersi così, pur conservando la caratteristica di attività scientifica orientata verso la grande prestazione, la ricerca dovrà occuparsi delle capacità di prestazione di tutti i potenziali praticanti: anche quelli portatori di patologie più o meno gravi, anche quelli – bambini o adulti – guariti da grave malattia e che desiderano praticare lo sport, loro grande conquista di vita, possibilità attualmente non sancita e non regolamentata dalle leggi che sono per organismi sani e non per organismi “fuori di terapia”, come si dice. 8. La sfida comune. È quella che appartiene alla ricerca di laboratorio e a quella di campo, quando decidono di capire meglio l’allenamento dell’atleta e, creando le premesse per comprendere il singolo individuo, rendono possibile l’unico atto veramente importante nel training: il passaggio, raramente riuscito, dalla teoria generale all’individualizzazione pratica dei cano avverte molto di meno l’affaticamento assai marcato che la sua competizione comporta, con conseguente scadimento della prestazione, proprio nella parte posteriore delle gambe (dove si trovano i muscoli gemelli ed il soleo, moltissimo impegnati nei movimenti ciclici della corsa veloce). Sport e bioetica 405 carichi di lavoro, non risolventisi, questi ultimi, nella crescita indiscriminata negli anni, ma piuttosto in una loro peculiare ed irripetibile miscela, strutturazione, giustapposizione, insomma in una peculiare ed irripetibile organizzazione del lavoro fisico e delle pause da questo. La ricerca scientifica applicata alla prestazione sportiva può fornire un grande aiuto al problema più importante dello sport del futuro, per evitare che esso si trasformi, come sta avvenendo, da un fatto umano in un fatto disumano, richiedendo all’atleta di fare sempre di più. Il “di più” del futuro implicherà certamente, se si sarà capaci di approfondire il problema, un minor tempo di allenamento più efficacemente organizzato. Allenarsi di meno, per allenarsi di più ed avere più tempo per essere uomini ed essere, comunque, capaci, senza droghe, di valicare asticelle poste più in alto di prima12. 12 J. DE FINANCE, Etica Generale, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1997; UNESCO, Charte international de l’éducation physique et du sport, UNESCO, 1993. Franco Baccarini Bioetica e tecnologia nel cinema Cinema e tecnologia è un binomio che passa attraverso due punti: L’utilizzo delle tecnologie nel cinema (dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, dalla pellicola ai più moderni formati video, dal montaggio tradizionale a quello che si serve delle più sofisticate tecnologie informatiche) e le tematiche relative al mondo tecnologico nelle storie per il cinema. È quest’ultimo il punto che ci interessa approfondire, nell’ottica del tema “Bioetica al futuro. Tecnicizzare l’uomo o umanizzare la tecnica?”. Il rapporto fra cinema e tecnologia passa attraverso la considerazione dei due brevi punti che ho sopra rappresentato. Perfino il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca si è interessato a ciò in occasione di un vasto progetto di ricerca, finanziato dallo stesso Ministero, intrapreso da un gruppo di nove università italiane nel biennio 2003-04. Il progetto, del quale ho letto gli atti, ha seguito due direttrici: la prima “Tecnologie del cinema”, in cui si è voluto indagare l’incidenza della tecnologia nello sviluppo del cinema, non soltanto per quel che riguarda la graduale messa a punto di un linguaggio per immagini, ma anche per ciò che concerne la sua applicazione nel settore dell’esercizio cinematografico, laddove essa è stata ed è tuttora (ad esempio nel campo del suono stereofonico) finalizzata a migliorare costantemente le condizioni acustiche e visive di fruizione dei film. La seconda “Tecnologie nel cinema”, che interessa anche noi, ha avuto per obiettivo invece un’analisi dell’immaginario tecnologico nel cinema italiano: secondo quali modalità narrative ed iconografiche, nelle sue diverse epoche, il cinema ha rappresentato la tecnologia. Il che significa non pensare soltanto in termini di autoreferenzialità (il cinema che guarda se stesso, parlando di set, di attori, di registi) ma anche volgere l’attenzione ai modi con cui il cinema ha registrato l’impatto sul piano sociale di tutta una serie di oggetti tecnologici che hanno scandito l’affermazione della modernità: pensiamo, per fare solo un esempio, al ruolo e al significato dell’automobile o degli elettrodomestici nell’era del cosiddetto boom economico. Critico cinematografico e scrittore. 408 Franco Baccarini Per proseguire queste mie note di riflessione, riporto alcuni brevi stralci del lavoro della dott.ssa Antonella Testa, dell’Istituto di Fisica Generale Applicata dell’Università degli Studi di Milano, intitolato “Scienza, cinema e televisione: cosa ci ha offerto la produzione italiana di film e fiction nel Novecento?”. La dott.ssa Testa afferma che: In una società visualmente orientata come quella in cui viviamo non si può omettere di considerare il ruolo del film quale veicolo di diffusione dei contenuti di scienza e tecnologia, accanto a quello già largamente considerato di altre forme, quali riviste, musei o mostre. Non c’è dubbio, infatti, che larga parte della popolazione attinga anche al cinema ed alla televisione per la costruzione della propria visione della scienza e della sua pratica. Se a questo aggiungiamo che di norma la dimensione storica delle discipline scientifiche è fortemente a margine dei piani di studio di molte lauree scientifiche, ne deriva che, per molti, è addirittura possibile che le forme di apprendimento non legate al processo di istruzione formale siano l’unica fonte per strutturare il proprio bagaglio di scienza e della sua storia. La narrazione attraverso il film della scienza e della tecnologia, della loro pratica e della loro storia, risulta essere dunque un tema alquanto attraente per le implicazioni che ne possono derivare sulla pubblica percezione dei contenuti di scienza e tecnologia. Si potrebbe, dunque, pensare che scienza e cinema non abbiano avuto fecondi sodalizi, ma non è così. Fin da quando il cinema muoveva i suoi primi passi, la scienza era già ispiratrice di sceneggiatori, registi ed autori. Oltre al celeberrimo Voyage dans la Lune (1902), tra i più di 500 titoli che Georges Méliès realizzò, numerosi parlano di scienza. Non è un caso isolato: all’inizio del secolo tra i pionieri del cinema anche Segundo de Chomon in Spagna (Eclipse de sol, 1905) e Robert William Paul in Inghilterra (The motorist, 1905) guardano alla scienza come fonte di spunti per i loro lavori. Si tratta di titoli gradevoli, ma ovviamente piuttosto primitivi1. A questo punto, trovo utile far cenno ad una curiosità. Da alcuni anni una delle più note società di distribuzione di energia elettrica, l’Enel, cura una rassegna cinematografica, ovviamente trattando tematiche relative alla tecnologia. Alla proiezione dei films si accompagnano alcuni dibattiti. Per rifarmi ad un esempio relativo ad una delle più recenti edizioni della rassegna curata dall’Enel, ricordo di aver partecipato alla proiezione del film Apollo 13, e nel seguente dibattito il tema dominante è stato il rapporto tra l’uomo e la tecnologia, e come quest’ultima si possa combinare con la creatività tipica dell’essere umano. Il professor Vittorio Bo, presidente del Festival, ha ricordato come tecnologia e creatività possono, anzi devono, procedere in direzione parallela, mentre per il noto fotogra- 1 www.jekyll.sissa.it/jekyll_comm/commenti/commenti05_02.htm. Bioetica e tecnologia nel cinema 409 fo Oliviero Toscani la cosa non è così automatica e scontata. Quest’ultimo ha detto, a proposito delle tecnologie più attuali, che la migliore cosa da fare per sconfiggere ciò che non ci piace è studiarlo bene per sapere come neutralizzarlo. Sottolineando, inoltre, come egli non ricordi un film totalmente benevolo nei confronti della tecnologia, Toscani ha concluso ribadendo che la tecnologia non è creatività, ma il risultato dell’opera dell’uomo. Tecnologia, creatività e lavoro sono i nostri punti di forza, come ha ricordato Gianluca Comin (responsabile della comunicazione Enel); la diffusione della scienza è il sistema migliore per crearsi un’opinione indipendente, anche in ambito ambientale, e scacciare tanti luoghi comuni. Sull’importanza della ricerca e di come la tecnologia ci abbia ormai raggiunto nella quotidianità si è soffermato Maurizio Ferretti, docente di Chimica industriale all’Università di Genova. Se la scienza ha un merito, e lo ha, è stato quello di averci dato un metodo per interpretare il reale. Mentre Franco Malerba, che io ricordo come il primo astronauta italiano della storia, ha difeso con forza la tecnologia, ricordando come tutte le ipotesi catastrofiche formulate negli anni passati non si siano mai avverate. Anzi, la forza della scienza, secondo Malerba, è stata proprio quella di sapersi sempre correggere. Facendo seguito ad un mio lavoro di ricerca e di selezione, ho ritenuto di presentare una lista di films sui quali soffermarsi per le doverose riflessioni e gli approfondimenti sulle tematiche affrontate nel libro (progresso dell’uomo, intelligenza artificiale, tecnica al servizio della ricerca dell’immortalità e della felicità, tecnologie, biotecnologie, nanotecnologie, clonazione, manipolazioni genetiche, ecc.). Ecco l’elenco dei films da me proposti: Metropolis, Cyborg, Anno 2087, Blade Runner, Corto circuito, Cyborg, Apollo 13, Alien – La clonazione, Gattaca – La porta dell’universo, Generazione perfetta, Nirvana, Matrix, A.I. – Intelligenza Artificiale, The Final Cut, The Island. L’eventuale visione di queste pellicole – a cura di chi ci legge – può tornare utile per un ulteriore approfondimento di quanto fin qui riportato. Metropolis (Germania, 1927), di Fritz Lang, con Gustav Frohlich, Brigitte Helm, Alfred Abel. Un salto a ritroso di ben otto decenni, per menzionare una spettacolare intuizione del tedesco Lang, capostipite del rapporto tra cinema e tecnologia che qui affrontiamo. Questo film muto è uno dei capolavori assoluti della storia del cinema. La storia si svolge nel ventunesimo secolo. Nella tentacolare città di Metropolis, il proletariato vive e lavora sottoterra, ridotto ad una condizione subumana ed invitato alla calma ed alla rassegnazione da una mite donna, Maria. Uno scienziato, però, dopo che della ragazza si è innamorato il figlio dell’industriale che è a capo della città, costruisce un robot somigliante a Maria che do- 410 Franco Baccarini vrebbe dividere gli operai, ma che in realtà li spinge alla rivolta. Se, per taluni aspetti, il film è visionario e di difficile interpretazione (forse anche per gli autori, visto che è stato sceneggiato da Lang insieme con la moglie, autrice del romanzo da cui era tratto; e che i due, a fine film, si separano), appare di incredibile valore se si tiene conto del fatto che è stato girato tra il 1926 ed il 1927. Evidentemente è un film muto girato in bianco e nero, ma resta – a detta di tutti – un caposaldo del suo genere. Elementi chiave di riflessione: 1) il rapporto uomo-macchina ed i relativi problemi etici; 2) problematiche esistenziali e di identità, con particolare riguardo al presunto sfruttamento del lavoro dei ceti sociali più modesti. Cyborg, Anno 2087 (sottotitolo per il mercato italiano: Metà uomo, metà macchina… programmato per uccidere – USA, 1966), di Franklin Adreon, con Wendell Corey, Karen Steele, Michael Rennie. Questo film citato non è uno dei seguiti di Cyborg di 1989 di cui parlerò dopo, come il titolo potrebbe far pensare, ma addirittura si torna indietro al 1966. In questo datato film di Adreon, un agente del pianeta Cyborg deve necessariamente tornare indietro nel tempo dal 2087 al 1974, al fine di impedire ad uno scienziato di pubblicare il risultato di alcune sue ricerche relative alla telepatia. L’impresa, difficile sia da un punto di vista meramente tecnologico che da un punto di vista per così dire “spionistico”, vede una terza difficoltà per l’agente, in quanto egli è ritenuto un traditore da alcuni cyborgiani. Riuscito a non far rivelare le scoperte dello scienziato, per tornare nel proprio pianeta l’agente dovrà uccidere i cyborgiani cattivi aiutato da due uomini del pianeta Terra. Elementi chiave, in qualità di spunto di riflessione: 1) considerazioni etiche sulla tematica dell’Intelligenza Artificiale; 2) il rapporto uomo-macchina ed i relativi problemi etici; 3) il rapporto uomo-macchina e le relative implicazioni di violenza (rapporto “uomo-macchina” anche in relazione al rapporto “Bene-Male”). Blade Runner (USA, 1982), di Ridley Scott, con Harrison Ford, Sean Young, Daryl Hannah, Edward James Olmos, Rutger Hauer, Joanna Cassidy. Non mi piace la definizione di film-culto, per il dovuto rispetto che si deve alla parola culto, ma questo è uno di quei casi in cui universalmente l’opera è definita in tale modo. Il film è ambientato in una Los Angeles caotica, sovrappopolata e perennemente grigia. L’agente Deckard, dell’unità Blade Runner, viene richiamato in servizio perché si rende necessaria la sua capacità di rintracciare ed eliminare esemplari insubordinati di replicanti; per meglio intenderci, si tratta di far fuori, senza troppi scrupoli, quegli androidi che sono destinati al lavoro nelle colonie spaziali, ma che si ribellano a questa situazione. Alcuni di questi androidi – Roy Batty, Leon, Zora e Pris – hanno rag- Bioetica e tecnologia nel cinema 411 giunto il pianeta Terra al fine di infiltrarsi nelle industrie che li fabbricano. Questi androidi vengono costruiti in modo da sembrare del tutto identici agli esseri umani. Le differenze, oltre – ovviamente – al fatto che si tratta di prodotti di fabbrica e non di esseri naturali, risiedono nella limitata durata della loro vita e nell’impossibilità (almeno apparente) di provare alcun tipo di sentimento. Proprio sulla registrazione delle reazioni emotive si basa il test Voigt-Kampff, grazie al quale Deckard identifica in Rachel, collaboratrice dell’industriale, una replicante sperimentale, inconsapevole della propria vera natura. L’agente Deckard riesce a portarsi sulle tracce dei replicanti da eliminare, distruggendo per prima Zora. Ma non tutto è così facile, neanche per un poliziotto esperto in queste faccende come Deckard; tanto che Rachel lo salva dal pericolosissimo Leon, mentre Pris s’insedia nell’abitazione di un ricercatore al fine di convincerlo a portare lei e Batty dall’industriale. Ma l’incontro con l’industriale che li fabbrica non ha affatto un buon esito; Pris e Batty, due dei quattro replicanti insubordinati, vengono a conoscenza del fatto che non esiste alcuna maniera di prolungare la loro esistenza. Deckard li raggiunge nel loro nascondiglio e, dopo aver acciuffato Pris, affronta Batty in un duello spettacolare. Salvato in extremis dal suo stesso avversario, un attimo prima che questi muoia, Deckard recupera Rachel e fugge con lei lontano dalla città. Fusione di due generi cinematografici – c’è tanta fantascienza ma anche più di qualcosa di poliziesco – il film è liberamente tratto dal romanzo di Philip K. Dick Il cacciatore di androidi. La preventiva lettura del romanzo renderebbe più facilmente fruibile la visione del complesso film, anche se quest’ultimo si discosta per molti particolari dall’opera narrativa dalla quale è tratto. Il film risulta essere molto efficace nel descrivere una società multietnica e tratteggia efficacemente i personaggi. Questi ultimi, nel film come nel romanzo, risentono di quell’amarezza tipica di Philip K. Dick, e non solo del Dick di quest’opera; si pensi, rimanendo a Blade Runner, allo scienziato colpito da invecchiamento precoce che vive in una casa piena di giocattoli, così come ai replicanti afflitti da angosce esistenziali, fino alla fragile Rachel dalla vera identità sconosciuta. Tornando al solo film, estrapolato dal confronto con il romanzo di Dick, meritano una menzione per la loro straordinaria efficacia gli effetti speciali di Douglas Trumbull e la colonna sonora di Vangelis. Il mito di questo film ha fatto sì che a distanza di molti anni siano uscite altre due versioni: Blade Runner – Director’s Cut (1992) e Blade Runner – The Final Cut (2007), comprendenti tagli apportati al film del 1982. In verità, oltre all’aggiunta di parti precedentemente tagliate in fase di montaggio, già nella seconda versione c’è un finale diverso, meno ottimistico; spariscono la voce fuori campo del protagonista che accompagna lo spettatore nella 412 Franco Baccarini narrazione dei fatti e la ripresa aerea conclusiva che non era mai stata gradita dal regista, e che gli era stata imposta dal produttore. Ecco i consueti elementi di riflessione: 1) la riproduzione artificiale di esseri viventi (umani ed animali) e le relative implicazioni etiche; 2) le problematiche esistenziali e di identità, in relazione ad un futuro legato ad una sperimentazione che non si porrebbe limiti etici; 3) etica dell’ingegneria genetica: considerazioni sulla tendenza innaturale che l’uomo dimostra di avere nell’imitazione e nel controllo della Natura. Corto circuito (USA, 1986), di John Badham, con Steve Guttemberg, Ally Sheedy, Fisher Stevens. Un fulmine si abbatte sulla “Nova Robotica”, creatrice di uno straordinario robot, il numero 5. La scarica provoca un mutamento comportamentale, a causa del quale il robot fugge. Il suo inventore, Crosby, lo cerca ovunque, aiutato perfino dall’esercito. Il robot, intanto, si nasconde nell’abitazione di una ragazza ecologa; trattandosi di un prodotto molto sofisticato, riesce ad imparare tutto quello che c’è da imparare, compresa la gioia di vivere appieno la vita, come un essere umano. A questo punto, lotta disperatamente per non essere distrutto. Quando Crosby lo ritrova, il robot va a vivere nel Montana con il suo inventore e la compagna di questi. È del 1988 il seguito: Corto circuito 2, pellicola molto meno rilevante. Spunti di riflessione: 1) considerazioni etiche sulla tematica dell’Intelligenza Artificiale; 2) il desiderio di produrre robots che facciano ciò che l’uomo non vuole fare, e contestuale timore che gli stessi robots sfuggano al controllo dell’uomo che li ha creati, rivoltandoglisi contro, con tutti i pericoli e le paure connesse. Cyborg (USA, 1989), di Albert Pyun, con Jean-Claude Van Damme, Dayle Haddon, Deborah Richter, Vincent Klyn. Il film è ambientato in un ventunesimo secolo molto violento e senza più controllo. Van Damme interpreta il ruolo del protagonista, il quale intende vendicarsi dell’assassino della fidanzata. In gioco c’è anche la vita di una donna-cyborg tenuta in ostaggio dall’omicida. Ritmo, violenza, tensione. La regia non è certo originale, e lo script non è da meno. Troppa gratuita violenza, spettacolare quanto basta per accontentare il produttore al botteghino. Svariati i seguiti di questa pellicola, a cominciare dal secondo episodio del 1993. Spunti per le riflessioni opportune: 1) considerazioni etiche sulla tematica dell’Intelligenza Artificiale; 2) il rapporto uomo-macchina ed i relativi problemi etici; 3) il rapporto uomo-macchina e le relative implicazioni di violenza (rapporto “uomo-macchina” anche in relazione al rapporto “Bene-Male”). Bioetica e tecnologia nel cinema 413 Apollo 13 (USA, 1995), di Ron Howard, con Kevin Bacon, Ed Harris. Il film riporta abbastanza fedelmente la reale storia della navicella spaziale Apollo 13, che conquistò l’America, e non solo, nel 1970. La missione spaziale dell’Apollo 13, con destinazione la Luna, non segue l’iter prestabilito: l’esplosione del motore dei serbatoi dell’ossigeno e del motore principale trasforma il modulo lunare in una trappola spaziale. Nessuno capisce di cosa si tratti esattamente, almeno in un primo momento. Inizia l’interessamento mediatico verso la missione spaziale, abbastanza snobbata in un primo momento. La presenza di spirito degli astronauti a bordo e le capacità dei tecnici della NASA riescono, fortunatamente, ad avere il sopravvento sui gravi problemi della navicella. La tragedia viene evitata ed i tre astronauti rientrano sani e salvi. Suspense e buoni sentimenti, nella miglior tradizione del cinema statunitense. Nonostante gli sforzi produttivi (la consulenza degli esperti della NASA ed un budget assolutamente faraonico), il film non è mai del tutto convincente, tanto che le poche immagini in bianco e nero che si hanno della reale missione spaziale, superano di gran lunga quelle del film, in fatto di credibilità, non solo perché il vero – è evidente a tutti – non può che apparire più vero del falso, ma anche perché il falso è qui ricostruito abbastanza malamente, nonostante i tanti soldi impiegati. Elementi chiave di riflessione: 1) l’intelligenza umana che sopperisce alle mancanze tecniche di sofisticati congegni costruiti dall’uomo, ma sfuggiti al suo controllo; 2) l’etica dei ricchissimi investimenti di denaro che i Paesi più industrializzati del mondo operano non solo a fini di progresso scientifico, ma anche di mera espressione di potenza (pensare alle sfide, in campo astronautico, tra USA ed URSS nei decenni scorsi), mentre il sud del pianeta ha gravissimi problemi di fame e di assenza di farmaci di primaria necessità. Alien – La clonazione (USA, 1997), di Jean-Pierre Jeunet, con Sigourney Weaver, Winona Ryder. Narra della risurrezione (dopo un paio di secoli) della donna-astronauta Helen Ripley (la Weaver), grazie all’opera di scienziati che hanno recuperato tracce del suo DNA. Già in Alien 3 la donna incubava un alieno nel suo corpo. Proprio questa strana gravidanza suscita l’interesse dell’eccitato staff medico della base militare Auriga: una madre surrogata nel cui addome si annidi un mostro prolifico, per la gioia degli sperimentatori e naturalmente del mercato. L’alieno dovrà essere partorito artificialmente e poi svezzato sotto controllo. Ma Ripley (la numero 8, nel gergo di laboratorio) profetizza: la creatura regina non si lascerà addomesticare, spezzerà le catene e ucciderà tutti. Lo può dire perché Ripley è ormai più che umana: un’ibridazione biologica l’ha dotata di istinti predatori e qualità aliene e, viceversa, il mostro regina avverte un legame, persino un debito, 414 Franco Baccarini nei confronti di lei. Ripley empatizza con l’orrido: “la regina sta soffrendo”. Sulle tracce dell’esperimento nefando si mette Call, una bella androide, più compassionevole degli umani, testimone di antiche lotte antischiaviste, dotata di un corpo fluido ed energetico. Eloquente metafora dell’inesorabile némesi di una medicina presuntuosa e maschilista, che strumentalizza la natura e la donna, le emozioni materne e gli ecoequilibri ed imprigiona cavie umane dentro tubi criogeni, per venderli come contenitori biologici. Una volta generati, gli alieni sono inarrestabili, ne producono e ne custodiscono altri dentro i loro ventri, come lingue infernali. La devastazione morale, vero mostro situato nel cuore, è l’abdicazione alla tecnica. L’incipit del film si può leggere anche così: se la madre è oggetto di manipolazione e violenza, il figlio (la figlia) non può che odiare il mondo. Gli sceneggiatori si sono sforzati di proporre qualcosa di nuovo, ma l’unico motivo per il quale possiamo dedicare una certa attenzione a questo quarto episodio dell’infinita saga di Alien è la presenza della tematica legata alla clonazione, seppur trattata in maniera abbastanza scellerata. Resta, comunque, un film popolarissimo. Spunti per le riflessioni più opportune: 1) la riproduzione artificiale di esseri viventi (umani ed animali) e le relative implicazioni etiche; 2) le problematiche esistenziali e di identità, in relazione ad un futuro legato ad una sperimentazione che non si porrebbe limiti etici; 3) etica dell’ingegneria genetica: considerazioni sulla tendenza innaturale che l’uomo dimostra di avere nell’imitazione e nel controllo della Natura. Gattaca – La porta dell’universo (USA, 1997), di Andrew Niccol, con Ethan Hawke, Uma Thurman. I sorprendenti progressi scientifico-tecnologici permettono, in un tempo non lontano dal nostro, di scegliere la composizione genetica del bambino che si vuole avere. Guai, a questo punto, a concepire in modo naturale un bambino! Questi potrebbe essere non valido, così come accade a Vincent Freeman, etichettato in tale modo in quanto concepito naturalmente, e ritenuto pericolosamente vulnerabile alle emozioni ed agli imprevisti della vita. Insomma, per il mondo rappresentato in questo film, o ccorre essere sani, belli e perfetti per avere diritto a vivere. Vincent, intelligente e furbo (nonostante sia nato da concepimento naturale e non in laboratorio, sarebbe il caso di dire ironicamente verso chi ha pensato e scritto il film!), s’inventa di tutto per riuscire ad essere accettato dalla società e per non farsi scoprire così troppo umano. Riesce, anche barando, ad entrare a far parte di un gruppo scelto per esplorare galassie lontane. Trova anche l’amore, nella bella Irene. Bioetica e tecnologia nel cinema 415 Siamo in un mondo futuribile in cui si viene al mondo in provetta, programmando tutti i particolari in laboratorio, e non per amore. Si sente molto l’influenza delle tendenze New Age e Next Age, in voga alla fine degli Anni Novanta negli USA, giunte – poi – anche in Europa. Molte le discipline interessate dal film: genetica, eugenetica, sperimentazione, ecc. Il significato delle lettere del titolo, gattaca, sono le iniziali delle basi azotate del dna: guanina, adenina, timina, ecc.. Una citazione in apertura, è quella dello psichiatra Gaylin, cofondatore dell’Hastings Center, uno dei templi della bioetica USA: «Non solo credo che arriveremo a manipolare la Natura, ma anche che sia proprio questo che Madre Natura vuole da noi». Da una recensione improntata alla visione personalista (per fortuna!) leggo: «Purtroppo l’avidità morale e l’omologazione spopolano già ai nostri tempi, in cui la domanda sul bene si è convertita molto spesso nella richiesta del benessere e in cui le questioni di senso vengono derubricate in domande tecniche. Un certo tipo di acritica medicalizzazione della vita è la triste conseguenza di questa deriva». Spunti di riflessione: 1) l’aspirazione all’eternità (non vissuta, però, nel giusto contesto spirituale), al perfetto benessere psico-fisico, all’edonismo, al culto della bellezza; 2) etica dell’ingegneria genetica: considerazioni sulla tendenza innaturale che l’uomo dimostra di avere nell’imitazione e nel controllo della Natura; 3) problematiche etiche legate all’eugenetica. Generazione perfetta (USA/Australia, 1998), di David Nutter, con James Marsden, Katie Holmes. Un ragazzo si trasferisce in una cittadina di provincia. Si trova in una classica scuola divisa in gruppi di metallari, punk, ecc., oltre ad un insolito gruppo che va progressivamente dominando la scuola. Si tratta di ragazzi lobotomizzati da uno scienziato pazzo che cerca di intervenire anche sul nuovo arrivato. Leader di questa generazione perfetta è questo discutibilissimo scienziato, uno psichiatra e neurofarmacologo, il dottor Caldicott, apparentemente normale e gentile, ma in realtà angosciato dall’inguaribilità della follia. Quale ruolo hanno tecniche neurochirurgiche, condizionamenti sensoriali e sostanze biochimiche nell’indurre l’omologazione? Tra scene horror, vicende di bande e violenza di kubrikiana memoria, si narra il difficile itinerario dell’anticonformismo, verso una medicina umanamente matura. Sconcertante, ma potrebbe essere utile vederlo e parlarne. Da una dichiarazione del regista: «Il film sottolinea i rischi insiti nell’omologazione. Per molti versi oggi gli alieni sono gli adolescenti, perché i loro genitori non sanno come parlare con loro. Il gap generazionale è un fatto che non si può ignorare. Il film è da vedere come un incitamento alla comunicazione tra genitori e figli». Buone intenzioni, non vi è dubbio; resta molto difficile, però, vedere il film e pensare che dietro ci sia (solo) questo. Elementi di riflessione: 1) l’aspirazione al perfetto benessere psico-fisico, al- 416 Franco Baccarini l’edonismo, al culto della bellezza; 2) etica dell’ingegneria genetica: considerazioni sulla tendenza innaturale che l’uomo dimostra di avere nell’imitazione e nel controllo della Natura; 3) problematiche etiche legate all’eugenetica. Nirvana (Italia, 1997), di Gabriele Salvatores, con Christopher Lambert, Sergio Rubini, Stefania Rocca, Amanda Sandrelli, Diego Abatantuono, Emmanuelle Seigner. Tre giorni prima del Natale, la multinazionale Okosama Starr mette in commercio il suo ultimo gioco: Nirvana. Un virus sconvolge il programma, e Solo – il protagonista del gioco – scoprendo di esistere solo virtualmente chiede a Jimi – creatore di giochi per la Okosama Starr, nonché inventore di Nirvana – di liberarlo per poter vivere veramente. Jimi è molto triste e preoccupato, non solo per la situazione che si è creata e per la richiesta di Solo, ma anche – se non soprattutto – perché è stato appena lasciato dalla sua fidanzata, Lisa. Egli pensa che se riuscirà ad aiutare Solo riuscirà anche a riconquistare Lisa. Inizia un girotondo vorticoso di situazioni impensabili, che non è affatto facile da sintetizzare a beneficio di chi non ha visto il film, non particolarmente gradito al pubblico così come alla critica, forse perché troppo lontano dal Salvatores che si conosce e si apprezza, e che si è difeso adducendo la necessità per un regista italiano di non avere nessuna soggezione rispetto ai maestri americani, esperti nel genere. Comunque sia, quando si parla del binomio “cinema-tecnologia” è difficile non tenere conto di questa pellicola, uno dei rari casi italiani del genere. Per la cronaca, il film si conclude con Jimi che scopre che Lisa è morta, ed a questo punto cancella definitivamente il gioco Nirvana, annullando anche Solo e, in ultimo, se stesso. Elementi chiave: 1) considerazioni etiche sulla tematica dell’Intelligenza Artificiale; 2) il rapporto uomo-macchina ed i relativi problemi etici; 3) fuga dalla realtà: il videogioco che, come il computer (chat, ecc.), sostituisce la vita reale ed i rapporti umani autentici. Problemi psicologici ed etici a ciò correlati. Matrix (USA, 1999), di Larry ed Andy Wachowski, con Laurence Fishburne, Joe Pantoliano, Keanu Reeves, Carrie Ann Moss, Gloria Foster è un altro film di straordinario impatto sul pubblico. In questa pellicola sono rappresentate due realtà: una è l’esistenza che viviamo quotidianamente; l’altra è nascosta e inaccessibile per (quasi) tutti. Un mondo che sembra reale e che, invece, è solo un utile paravento per nascondere la vera realtà. Partendo da un tatuaggio visto sulla spalla di una ragazza, il giovane Neo comprende che quella che aveva sempre creduto, come gli altri, la realtà è solo un impulso elettrico fornito al cervello degli umani da una superiore intelligenza artificiale. A questo punto, Neo cerca in ogni Bioetica e tecnologia nel cinema 417 modo di scoprire la verità su Matrix, mondo virtuale elaborato al computer per tenere sotto stretto controllo le persone. Quando la Terra era riuscita a sopravvivere ad una catastrofe, l’uomo aveva avuto bisogno delle macchine per sopravvivere, ma queste hanno avuto il sopravvento sull’uomo, anche se per vivere hanno bisogno dell’uomo stesso. Per questo motivo le macchine continuano a dominare ma facendo credere all’uomo di essere libero e che tutto è come prima del rischio catastrofe. Un neurosimulatore ha assegnato una data fittizia al tempo. Solo Neo, aiutato dall’hacker Morpheus e dalla bella Trinity, è nelle condizioni di scoprire la verità, pur tra mille evidenti difficoltà e rischi serissimi. Trionfo commerciale per i fratelli Wachowski, al loro secondo film. Ma anche buoni riscontri di critica. Il pubblico si spacca in due, non tanto tra fanatici e critici della pellicola stessa, bensì tra coloro che sono esperti di informatica e non faticano affatto a comprendere tutti i passaggi della storia, e chi di computer non ne sa nulla, e pur restando affascinato dalle macchinazioni messe in piedi dai Wachowski, non capisce granché di tutto quel che accade sul grande schermo. Nonostante il grande successo ottenuto, trovo che il film abbia poca sostanza, cui si cerca di sopperire con abbondanti e spettacolari escamotages tecnologico-informatici. Lo sviluppo della trama, il sovrapporsi di realtà e fantasia e molteplici altri elementi, rimandano a dimensioni new-age tipiche nelle produzioni cinematografiche statunitensi di fine secolo scorso, e ad un’apertura alla trascendenza che non esclude il prevalere della materia sullo spirito. Da un punto di vista squisitamente filosofico-religioso, siamo di fronte ad un grande polpettone difficilmente inquadrabile e – ovviamente – per nulla condivisibile ma utile per talune riflessioni. Tra queste, segnalo: 1) considerazioni etiche sulla tematica dell’Intelligenza Artificiale; 2) il rapporto uomo-macchina ed i relativi problemi etici; 3) l’incoerenza di un frequente pensiero dell’uomo di oggi: fascino illimitato verso un presunto progresso tecnologico senza limiti etici, e – al contempo – forti timori per eventuali catastrofismi conseguenti a tutto ciò. A.I. – Intelligenza Artificiale (USA, 2001) di Steven Spielberg, con Haley Joel Osment, Jude Law, Frances O’Connor, Sam Robards, Jake Thomas, Daveigh Chase, Brendan Gleeson, William Hurt, Jack Angel. Ambientato in un futuro in cui i progressi tecnologici sono rapidissimi e l’umanità ha subìto autentici disastri dovuti allo scioglimento della calotta polare, il film ci narra una storia nella quale l’uomo è in grado di riprodurre esseri simili in tutto e per tutto agli umani. Si tratta di macchine, di robots, assai efficaci in ogni compito della vita, che possono soddisfare ogni necessità, al di fuori dell’amore. David, invece, è un robot-bambino che appartiene all’ultima generazione di robots; egli può anche amare. Egli viene affidato ad una coppia il cui figlio, affetto da un male apparen- 418 Franco Baccarini temente incurabile, è stato ibernato in attesa di una cura adeguata alla sua patologia. Una giovane coppia, che già convive con il dolore del proprio figlio ibernato, il quale – forse – non potrà mai più tornare ad una vita normale, si trova a dover fare i conti con l’arrivo in casa di un robot che gli somiglia e che lo rimpiazza. Se per l’uomo (come fare a chiamarlo padre?) non c’è problema, è la donna – Monica – a dover vincere forti resistenze che la inducono a non poter accettare questo arrivo innaturale. David, però, riesce a farsi benvolere da Monica. Ma tutto cambia quando giunge l’inattesa guarigione del figlio naturale. David dev’essere abbandonato in un bosco per liberarsene, ma anche per salvarlo dalla distruzione. Per lui inizia un lungo viaggio che ricorda un po’ troppo quello di Pinocchio allontanatosi da Geppetto, con tanto di Lucignolo del caso, che è il terribile Gigolo Joe. C’è perfino la Fata Turchina, alla quale David rivolge la richiesta di diventare un bambino come tutti gli altri, condizione ritenuta essenziale per essere finalmente amato. E questo accadrà, con uno stratagemma molto fantasioso, dopo ben 2000 anni, ritrovando per poche ore Monica, che finalmente lo ama come una madre sa amare un figlio. Il binomio Spielberg/Kubrick (il primo ha realizzato questo film al quale il secondo aveva pensato per molti anni, e che gli raccontò prima di morire) è di quelli da far tremare i polsi. A me, personalmente, li fa tremare in senso totalmente negativo. Per taluni, perfino cinefili importanti, rappresentano quanto di meglio il cinema abbia saputo offrire negli ultimi decenni. De gustibus… Il freddo razionalismo kubrickiano, unito alla nota melodrammatica tipica di Spielberg, ha dato vita ad un film tanto complesso quanto commerciale. Sorprende, però, il modo in cui Spielberg scrive la sua fiaba e la chiude con un finale lungo e tortuoso che non può non far discutere. Il lungo viaggio di David, il traguardo che egli s’impone, il suo pur breve raggiungimento, sono tutte tappe che il film ci fa vivere senza porsi il benché minimo interrogativo etico. Spielberg girò nel 2005 il seguito di questo film: A.I. – Intelligenza Artificiale – L’uomo che fuggì dal futuro, senza particolare successo di pubblico e di critica. In conclusione di questa scheda, come farò per tutte le altre pellicole, vi sottopongo quelle che ritengo essere le “frasi chiave” che ci possono guidare come spunto di riflessione: 1) considerazioni etiche sulla tematica dell’Intelligenza Artificiale; 2) difficoltà relazionali nell’uomo di oggi: tendenza, espressa in vari films (ma anche nella letteratura), al desiderio di produrre robots capaci di sentimenti. Perché l’uomo, oggigiorno, è giunto al punto di sognare un oggetto che gli somigli e che lo ami senza riserve? 3) Etica dell’ingegneria genetica: considerazioni sulla tendenza innaturale che l’uomo dimostra di avere nell’imitazione e nel controllo della Natura. Bioetica e tecnologia nel cinema 419 The Final Cut (Canada, 2004), di Omar Naim, con Robin Williams e Jim Caviezel. Il film narra di un futuro, non lontano, in cui sarà possibile – per chi possiede abbastanza denaro – farsi impiantare un chip nel cervello che registri tutto quanto accade nella vita. Si avrà così una banca dati di ricordi che potrà essere utilizzata per una video-memoria postuma. Visionaria la scena in cui la chiesa dove si celebra il funerale del ricco magnate, viene trasformata letteralmente in un cine-club, con parenti ed amici del defunto che guardano il film della sua vita, ridono, si commuovono, applaudono! Alan Hackman di mestiere fa il “montatore di ricordi”, ed è tra i più richiesti anche per la sua abilità nel lavorare sulle immagini, ritoccando la vita dei “clienti”. Un giorno, però, mentre lavora, affiora un suo ricordo dell’infanzia che gli ha segnato profondamente la vita e che aveva tentato di rimuovere. Convinto di aver provocato la morte di un suo compagno di giochi, Alan lo rivede da grande e cerca allora di capire cosa sia successo veramente quel giorno. Da quel momento ha inizio la ricerca della verità. Il ventiseienne regista americano Naim (di origine libanese) ha avuto una discreta idea, ma la sua inesperienza lo ha portato a non dare il meglio sulla tematica, rimanendo un po’ superficiale. The Final Cut è il film di esordio del regista, che coltivava questo progetto fin dai tempi del college. Un film che tocca temi come quello delle manipolazioni della memoria trascurando (candidamente o colpevolmente?) bioetica e neurologia. Il punto di partenza era stimolante. La registrazione delle vite degli individui riprese da loro stessi è un qualcosa che rende discretamente interessante una fantascienza che si fa coinvolgente per quei margini di realismo che tutto sommato possiede. La realizzazione delle situazioni proposte dal copione sembra, infatti, meno lontana di quanto si possa pensare in prima battuta. Relativamente alla realizzazione del film, va detto che Naim – con tutte le scusanti derivanti dal fatto che si tratta di un’opera prima – sembra tenere in mano qualcosa di più grande di lui. Essendo l’autore dell’idea, con tutti i meriti che ne derivano, sarebbe stato più prudente e vincente affidargli la sola stesura della sceneggiatura. Comunque sia, in considerazione del fatto che in queste pagine non ci interessano particolarmente gli elementi di regia, vediamo che – invece – relativamente alle tematiche proposte, emerge una denuncia di carattere etico sulla strumentalizzazione della vita e sulla mercificazione della morte. Chi crede nel libero arbitrio confida in un montatore universale – che può essere solamente Dio – che osserva idealmente tutto il film della nostra esistenza, senza però deciderne la sequenza e senza operare tagli e montaggi. Un archivio universale potrebbe somigliare all’idea tecnologica di un Dio che tutto osserva e tutto registra. Un Dio pronto a presentarci, durante il giudizio universale, il conto per il “film” della nostra vita. La 420 Franco Baccarini verità delle immagini che registrano l’interezza di un’esistenza è un qualcosa di schiacciante e disarmante anche per il più abile dei mistificatori; ma se tutto questo viene gestito dagli uomini e non da Dio, è chiaramente passibile di errore, di manipolazione, non solo per “meglio” commemorare i defunti, ma anche – se non soprattutto – di condizionare l’esistenza dei vivi. Ecco i punti sui quali intendo far riflettere: 1) il controllo ed il primato dell’uomo sulla vita; 2) l’uomo di oggi ed il culto di se stesso; 3) l’aspirazione all’eternità (non vissuta, però, nel giusto contesto spirituale). The Island (USA, 2005), di Michael Bay, con Scarlett Johansson ed Ewan McGregor. Una catastrofe ecologica ha distrutto il pianeta Terra; i sopravvissuti vivono in una sorta di grande riserva, sorvegliati e monitorati in tutte le loro azioni quotidiane. Ci troviamo intorno alla metà del XXI secolo. Due sopravvissuti, un uomo e una donna, in seguito a strani incubi di lui, avvertono l’esigenza di sapere che cosa ci sia fuori da quel luogo, non ricordandosi di averne mai conosciuti degli altri. Muovendosi di nascosto, tra mille controlli ed altrettanti pericoli, i due riescono ad essere scelti tra coloro che vengono inviati nell’isola, che sarebbe l’unico luogo rimasto incontaminato e – di conseguenza – il suo raggiungimento rappresenta il grande desiderio di tutti i sopravvissuti al disastro terreno. Ma una volta giunti nel mondo esterno, i due scoprono che non esiste nessuna isola incontaminata, che si tratta solamente di un grande e tragico bluff, che tutti coloro che li hanno preceduti nella “conquista” di un posto nell’isola non ci sono più, perché sono stati sacrificati per salvare delle persone che li hanno commissionati per avere dei “pezzi di ricambio” per qualunque evenienza medica o estetica. Insomma, ogni persona particolarmente agiata può permettersi di farsi costruire una sorta di clone che gli permetta di avere qualsiasi ricambio, potendo così contare su un qualcosa che potremmo definire un’assicurazione per la vita eterna in Terra! Pertanto, i due fuggitivi, scoprendo la verità, comprendono di non essere “tradizionalmente” umani, bensì prodotti di laboratorio. Tra mille peripezie, riescono a far scoprire l’incredibile traffico, e rimangono a vivere come esseri umani sulla Terra, scoprendo anche di amarsi. Il film segna il tentativo di Bay di sganciarsi, almeno sulla carta, dai copioni da basso quoziente intellettivo proposti fino a quel momento e sfiorare temi più complessi ed attuali, qual è quello della clonazione, chiave di volta di quest’avventura. Purtroppo, il tentativo non è riuscito del tutto. Pur offrendo molti spunti di riflessione, il film – un po’ come tutti quelli che trattano queste tematiche – si preoccupa più dell’azione, del ritmo e degli effetti speciali che non dei contenuti. Comunque sia, il copione offre diversi spunti su argo- Bioetica e tecnologia nel cinema 421 menti di attualità. Interrogativi delicatissimi s’impongono, non senza indurci delle preoccupazioni angoscianti. Quale strada prenderà la scienza nel futuro? Un futuro, peraltro, non così lontano. Ed inoltre, sarà in grado l’uomo di controllare il rapido progresso scientifico e tecnologico, oppure la concreta possibilità di modificare e costruire condurrà la genetica lungo strade antitetiche al rispetto dell’umanità e della sacralità della vita? Verso quali lidi si sta indirizzando la pratica della clonazione, che già oggi è causa di mille interrogativi e polemiche ogni qualvolta si ha notizia di esperimenti di dubbia