AMLETO O ECUBA
PRESENTAZIONE: IL TRAUMA DELL’INDECISIONE (a cura di Carlo Galli)
Il teorico del decisionismo, nell’affrontare in Amleto la figura emblematica dell’indecisione, si
cimenta in problematiche e in polemiche il cui peso e la cui pregnanza si lasciano cogliere sia
nell’Excursus II che nel Post Scriptum.
In «Amleto o Ecuba» Schmitt interseca il problema dello Stato (il dissolversi dell’ordine tardomedioevale ed il difficile affermarsi del nuovo nomos) al moderno ordinamento giuridico e spaziale
della terra e del mare. L’analisi del modo in cui quest’epoca (inizi del Seicento) si auto-comprende
e si auto-rappresenta in Inghilterra veicola questioni quali il rapporto rappresentazione/realtà, i
nessi cultura/politica, arte/storia, gioco/serietà, che Schmitt sviluppa attraversando la strada di
Benjamin e confrontandosi con la grande discussione tedesca attorno all’essenza del tragico. Così
il tema del rapporto realtà/politica e forma della rappresentazione in questa sede viene formulato
da un’ottica differente, cioè a partire dalle acquisizioni della stagione aperta del nomos della Terra.
L’opera d’arte è per Schmitt un’immediatezza, un unicum; Amleto parla da sé (o meglio tace) e
parlando di sé, parla (anzi tace) dell’immediatezza e dell’unicità di una situazione storica
contingente. Schmitt giunge alla constatazione che in Amleto la parola drammatica si inceppa e
viene meno di fronte a qualcosa che non riesce a dire: il poeta si trova dinanzi ad un quid ineffabile,
un eccesso che non può essere raccontato. Questo scacco dell’espressione, questa distanza dal
discorso, è la fonte dell’incomprensibilità del dramma.
Ulteriore elemento: non si capisce mai perché si lasci aperta la questione della colpevolezza della
regina Gertrude, e soprattutto non si potrà render conto di ciò che Schmitt definisce
«amletizzazione dell’eroe», cioè della trasformazione dell’eroe di un dramma di vendetta in un
intellettuale malinconico e dubbioso, incapace di azione.
Che Shakespeare non abbia potuto o voluto trattare il tema della colpevolezza o dell’innocenza di
Gertrude è un fatto che per lui nasconde, e insieme rivela, in negativo, il nesso tra la madre di
Amleto e Maria Stuarda, regina di Scozia, anch’essa al centro di violente discussioni in relazione
alla sua implicazione nella morte del marito.
Sebbene si tratti di un dramma di vendetta, Amleto non è la tipica figura del vendicatore: che
Shakespeare non abbia potuto fare di Amlet il tipico eroe sicuro di sé e della propria missione di
vendetta nasconde e rivela, ancora una volta in negativo, il nesso fra Amleto e la figura storica
coeva di Giacomo I, il difensore del diritto divino dei re, condannato a veder crollare la propria
concezione del mondo e a vedere trasformata la propria origine e il proprio potere regio in un
fantasma.
Nell’autonomia del dramma e dei suoi personaggi fa irruzione una problematicità umana e politica
che scaturisce da una storia contemporanea contingente, e dunque trascendente rispetto al
dramma stesso e alla sua logica interna: l’irruzione ha effetti sulla struttura dell’opera, ma non ne
determina l’esistenza come «dramma»; la parola drammatica non riesce ad esprimere
direttamente la durezza specifica della realtà storica che le sta di fronte («the rest is silence»,
afferma Amleto morente). Il tabù è tale appunto perché il dato esterno non è dicibile né
rappresentabile. Il rapporto tra realtà esterna e testo è autonomo: il loro unico rapporto è, da un
lato, l’irruzione, dall’altro la cicatrice, il segno di questa, cioè in questo caso l’amletizzazione
dell’eroe, inspiegabile dall’interno del dramma.
Alla chiave interpretativa teologico-politica, si aggiunge la grande dicotomia di terra e mare,
nonché quella tra terre europee ed extra-europee. Schmitt avverte insomma che la nascita degli
Stati europei è determinata da un elemento non statuale, né statualizzabile, che consiste nel
passaggio dell’Inghilterra a una forma di potere non orientata alla terraferma, come è lo Stato, ma
marittima e imperiale. L’ordine mondiale moderno, il moderno nomos della terra è l’equilibrio fra
la presa del mare inglese e la presa della terra degli stati europei; il nome di questo nomos moderlo
è lo Jus Publicum Europaeum, europeo e statuale, ma garantito da elementi non europei né statuali;
la sua origine è una catastrofe epocale – le guerre di religione e, in parallelo, il passaggio
dell’Inghilterra all’esistenza marittima. Il grande evento storico in cui si trova coinvolto
Shakespeare e che determina il destino degli Stuart è dunque questo: il formarsi del moderno
nomos della terra, cioè la nascita dello Stato attraverso le guerre di religione e attraverso
l’opposizione di terra e mare.
[…] Attraverso il dramma nel dramma non si realizza il massimo di artificio, ma si apre la via
dell’irruzione del massimo di realtà. Quando Amleto guarda l’attore piangente per Ecuba, piange
per il proprio padre e per la propria madre; Amleto è insomma posto di fronte alla tragica serietà
della propria sorte da due rappresentazioni: una finta ed una vera. Entrambe lo scuotono e al tempo
stesso lo paralizzano. Il cuore dell’argomentazione schmittiana è che «non è pensabile che
Shakespeare, in Amleto, avesse come unica intenzione di fare del suo Amleto un’Ecuba, di farci
piangere su Amleto come l’attore piange sulla regina di Troia. Nell’ipotesi di Schmitt, Amleto è
scosso e amletizzato non in quanto personaggio teatrale (nel senso come se fosse, per i lettori,
l’analogo di Ecuba), ma in quanto attraverso Amleto Shakespeare lascia che nel dramma irrompa
Giacomo I, l’attardato difensore del diritto divino del re, incapace di raccapezzarsi nel nuovo mondo
post-tradizionale.
Nell’indecisione di Amleto-personaggio fa quindi irruzione l’indecisione di Giacomo I, che genera
l’indecisione di Amleto, altrimenti incomprensibile, e che la spiega. È il trauma di quella indecisione
storico-politica, è lo smarrimento del filo della storia, dell’orizzonte del mondo, da parte degli
Stuart, ciò che spiega l’indecisione e la strana malinconia di Amleto, l’eroe della vendetta che
invece di agire gira a vuoto.
Insomma come Shakespeare nella meta-rappresentazione rivela un non-detto, così Schmitt a sua
volta svela nell’indecisione di Amleto un non-detto: l’incapacità di Giacomo I Stuart di decidersi per
la modernità (in questo caso per la conversione dell’Inghilterra alla politica moderna in modalità
marittima), ovvero di assumere la decisione necessaria perché l’Inghilterra uscisse dalla catastrofe
dell’ordine tradizionale. Sono questa catastrofe e questa incapacità di decisione a irrompere
dall’esterno nel personaggio di Amleto, rendendolo un mito vivente che parla oscuramente a tutta
la modernità, anche a quella classica.
«Amleto o Ecuba» si inserisce (per accenni e in forma non sistematica) nel pensiero schmittiano
come l’evidenza dello scarto tra realtà e rappresentazione, della loro connessione di principio,
ovvero con l’evidenza della contingenza e della sua necessità che epocalizza, ovvero sospende, il
ritmo e il senso del logos.
Il realismo schmittiano propri qui si conferma iscrivibile a pieno titolo nel pensiero negativo, cioè
all’interno dell’assunto di una sconnessione di principio fra la parola e il mondo e alla sfiducia
nell’inafferrabilità della cosa da parte della parola; il genio drammatico distingue ciò che è
rappresentabile da ciò che non lo è: appunto, il tragico.
Vi è una fonte del tragico in un momento determinato e contingente della storia (la frattura
catastrofica epocale del ri-orientamento del nomos della Terra). Inchiodato in questa frattura
storico politica, Giacomo-Amleto è la cifra immediata, il mito vivente, non raccontato,
dell’impotenza del potere tradizionale e della non ancora avvenuta liberazione (la decisione) del
nuovo potere moderno: il tragico è la sua inaction, il suo non agire.
L’insistenza schmittiana sul rapporto immediato, non dialettalizzabile, di gioco e serietà, è una
cosciente polemica contro Schiller, la cui «bella parvenza» sviluppava il concetto espresso da Kant
nella «Critica del Giudizio» di una finalità senza fine e di una legalità senza legge e si concludeva
con il progetto di un’educazione estetica dell’uomo che, nello stato estetico, realizzava
l’«indifferenza per la realtà» e che appunto poteva avere come emblema l’espressione del prologo
del «Wallenstein» citata da Schmitt: «seria è la vita, serena è l’arte». Dimensione del gioco: non
essendo – per Benjamin – la catarsi possibile nella tragedia moderna, la soluzione è l’ironia (la
giocosità). Per Schiller la serenità dell’arte consiste nel suo separarsi dalla dimensione storica («la
giurisdizione della scena comincia quando termina quella del reale»; per Schmitt questo è un tabù
cui tutta la dimensione estetica moderna è asservita.
Ma per Schmitt i passaggi di Hölderlin, Hegel […] pongono l’anima bella schilleriana alle forche
caudine dell’infinita lacerazione dell’epoca (la rivoluzione francese e il mondo borghese che ne è
nato), tentava di affermarsi come libertà dalla necessità. Schmitt riconosce un tragitto che
conclude la propria tensione etico-politica soggettiva nell’estetica nietzschiana, cioè nella
dissoluzione dello stesso soggetto e della sua rappresentabilità; ad una prospettiva post-tragica,
alla visione del «gioco del mondo con se stesso» a cui il singolo risponde col «sì» a un destino di
gioco; l’immediatezza che caratterizza la concezione del tragico di Schmitt è l’esito del pensiero
negativo e leggero di Nietzsche; in Schmitt, portatore di un’immediatezza pesante, il tragico è un
nucleo di realtà concreto e determinato storicamente nella sua unicità, e non ha quindi nascita né
sostanza: per esso si può parlare solamente di Ursprung, di scaturigine, cioè dell’emergere di una
frattura epocale. Il tragico, come si configura in «Amleto o Ecuba», è strutturalmente affine al
politico.
Benjamin, «Il dramma barocco tedesco», distinguo tra la classica Tragödie (la cui fonte è il mito) ed
il moderno Trauerspiel (gioco drammatico, triste, luttuoso, la cui fonte è la storia); quest’ultimo è
presieduto da una concezione ciclica del tempo (concezione cristiana, tempo messianico, storia
come panorama di catastrofi e rovine). Benjamin elogia Schmitt per il suo metodo e anche per il
fatto che ha saputo leggere nella catastrofe la norma della storia, segnata da un’irrimediabile
discontinuità (dall’irruzione, nell’universo metaforico, dell’elemento del politico).
Per Schmitt la serietà tragica non è la deiezione creaturale, ma un preciso rivolgimento epocale, ed
è altrettanto evidente che la componente della Trauer, del lutto, risulta quindi modificata: il lutto è
politico. La distinzione schmittiana fra il dramma in Germania e il dramma in Inghilterra è un
esplicito rinvio alla teoria del nomos, ad una re-interpretazione della storia che differisce
radicalmente da quella di Benjamin. Infine, la separazione schmittiana tra gioco e serietà è la
testimonianza dello sforzo di prendere sul serio la storia senza conferirle un telos extra-storico, né
cristiano, né messianico. Per Schmitt il tragico moderno inerisce sì alla storia, ma alla dimensione
catastrofica di questa è il risultato di fratture politiche reali.
È impossibile non intravedere un riferimento all’Huzinga di «Homo ludens»; lo storico olandese
teorizzò difatti un rapporto inscindibile fra gioco e serietà; nella dimensione ludica, secondo H.,
converge il desiderio di libertà dalla vita, l’impulso agonale e l’impulso rituale/culturale; la vera
contrapposizione è tra gioco e morale.
Per Schmitt, invece, la serietà, il dato primario, la tragicità, che irrompe nel gioco è il tempo del
nomos, proprio perché il nomos stesso contiene in sé la frattura originaria, poiché il nomos è
rivolgimento, ri-orientamento, non tempo/spazio disteso e lineare, sì invece tragico nel suo
originarsi.
Shakespeare accoglie il senso del tempo, accettando la presenza negativa dell’evento tragico; solo
la distruzione amletica della soggettività p esempio e insieme verità profonda della crisi che inerisce
alla modernità compiuta.
Ma nessuna delle definizioni precedenti […] di gioco può dire l’origine del Moderno, che è invece
detta dal silenzio e dall’indecisione di Amleto in quanto mito «vivente», in quanto è la figura in cui
si è fissata, dall’esterno, la cicatrice della dolorosa «frattura che ha segnato il destino d’Europa».
Nell’arte di Shakespeare attraversata dalla durezza del reale, c’è ancora qualcosa di non
compiutamente moderno che può dire la verità sul moderno; Amleto non è il ritorno del rimosso,
ma la muta testimonianza di quella perdita, è il lato oscuro dell’indecisione romantica: questa, col
suo linguaggio soggettivo, pretende di esprimere – senza riuscirci – quella lacerazione che Amleto,
col suo silenzio, indica. Schmitt si vuole presentare come terza via fra il materialismo dialettico e la
«bella apparenza» dell’arte per l’arte, cioè fra le due metà della Germania divisa e incerta; vuole
sconfiggere la tesi a-storica dell’auto-rappresentazione perfetta, della modernità come metafora
assoluta e autosufficiente > compenetrazione da parte della teoria dell’irruzione,
dell’immediatezza, dell’origine contingente. Leggere questo grumo oscuro, che dall’esterno entra
nel dramma, lo sospende e lo inquieta, è l’ermeneutica peculiare di Schmitt: l’opposto di quella di
Gadamer; se Gadamer parla di irruzione del dramma nel tempo, Schmitt parla di irruzione del
tempo nel dramma (EINBRUCH). La rappresentazione perde il proprio centro perché ha il proprio
centro fuori di sé (ossia nella storia).
L’eccentricità di Amleto esprime la verità profonda, e le aporie, del rapporto fra la nostra civiltà
europea e l’idea di un ordine. In «Amleto o Ecuba» l’esterno, l’origine, il tempo, che fa irruzione nel
logos schmittiano e le dà una forma e un senso è la Germania divisa; un esterno che è, dunque, per
lui, soprattutto sconfitta e lacerazione. L’indecisione di Amleto/Giacomo è quella della Germania
perduta (dal suo punto di vista, naturalmente; dal nostro era una Germania che nella sua divisione
era almeno ancorata all’Europa e sottratta alle barbarie).
Amleto è dunque per Schmitt anche uno specchio, lo specchio della sua indecisione.
In un’aggiunta a margine (a penna) nel dattiloscritto «Che cosa ho fatto?» si legge che «l’intero
mondo occidentale è diventato Amleto»; dunque il trauma dell’indecisione non è letteratura, ma
un evento esistenziale.
CAP. I: IL TABÙ DELLA REGINA
Ad un figlio come Amleto il dramma presenta solamente due possibilità: essere Oreste (matricidio
e omicidio dell’amante della madre) oppure l’Amleth di Saxo Grammaticus (eroe della saga nordica
che vendica il padre alleandosi con la madre ed uccidendo l’assassino).
Amleto non prende nessuna delle due direzioni. Parla di «incestuoso letto coniugale» e sembra
alludere ad un adulterio commesso dalla regina con l’omicida già da prima della morte del marito.
Dover Wilson dedica alla questione un intero capitolo del suo libro, sostenendo che l’adulterio della
regina è dato per scontato. Nella meta-rappresentazione (La trappola per topi) la regina dice «io
uccido mio marito per la seconda volta, quando il mio secondo marito nel letto mi bacia»: forse la
risposta sta qui? O forse nello scontro notturno tra Amleto e sua madre, quando Amleto crede di
aver ucciso il re e si accorge che invece si trattava di Polonio: «una sanguinosa azione, quasi tanto
cattiva, mia buona madre, come uccidere un re e sposarne il fratello».
La donna viene inoltre esclusa dal nucleo drammatico della vendetta dalle stesse parole dello
spettro.
Insomma, Shakespeare pare essere posto di fronte ad un tabù che lo costringe a porre tra parentesi
la questione della colpa o dell’innocenza della madre, anche se tale questione costituisce, sul piano
morale e drammatico, il cuore del dramma di vendetta.
Non si potrà di certo sostenere che l’autore di Amleto abbia eluso il punto cruciale per delicatezza
o per un generico senso di cortesia verso le donne, dato che Gertrude non viene assolutamente
risparmiata dalle offese verbali di Amleto. Ma allora perché la questione viene elusa? Perché, ancor
più sorprendentemente, non se ne rende esplicita l’incolpevolezza?*
Che non vengano chiaramente espresse né la colpa né l’innocenza dimostra che sussiste un timore
concreto, un riservo che è un vero e proprio tabù.
Schmitt è in grado di indicare questo tabù nella sua piena concretezza: esso ha a che fare con la
regina di Scozia, Maria Stuarda. Suo marito, Lord Darnley, il padre di Giacomo, fu atrocemente
assassinato dal conte di Bothwell nel febbraio del 1566. Nel maggio dello stesso anno ella lo
sposava, ad appena tre mesi dal delitto. I nemici della regina, soprattutto la Scozia protestante,
l’Inghilterra e tutti i partigiani della regina Elisabetta, erano convinti che proprio Maria Stuarda
fosse stata l’istigatrice dell’omicidio.
Il tabù trova la sua esatta spiegazione nelle circostanze di tempo e di luogo in cui l’«Amleto» di
Shakespeare fu concepito e rappresentato per la prima volta.
Si tratta degli anni 1600-1603, a Londra; era il tempo in cui tutti si aspettavano la morte dell’anziana
regina Elisabetta in Inghilterra; ella non aveva ancora designato un successore legittimo.
Shakespeare, con la sua compagnia teatrale, faceva parte della cerchia politica del conte di
Southampton e del conte di Essex, fedeli sostenitori di Giacomo, figlio di Maria Stuarda, come
candidato alla successione regia; pertanto tale gruppo fu perseguitato politicamente e preso di
mira da Elisabetta II. Il conte di Southampton venne condannato a morte, ma non giustiziato,
mentre quello di Essex fu vittima della ferrea esecuzione della condanna; la compagnia di
Shakespeare, a causa di tali avvicendamenti, fu costretta ad abbandonare Londra e a recitare in
provincia. Non appena salì al trono nel 1603, Giacomo graziò il conte di Southampton;
Shakespeare, con altri attori, non solo poté nuovamente recitare alla corte, ma fu nominato valletto
di camera, prendendo il titolo di King’s man, e portò le insegne del Lord Chamberlain.
Il pubblico dell’«Amleto», così come, pare, tutta l’Inghilterra protestante e soprattutto
naturalmente Londra, era convinto della colpa di Maria Stuarda: ecco perché, in considerazione di
ciò e del tipo di pubblico, era impossibile supporre l’incolpevolezza della regina*. La questione della
colpa dovette quindi essere cautamente elusa, e l’andamento del dramma ne risultò confuso ed
impedito. Una realtà storica tremenda balena dunque attraverso le maschere ed i costumi dello
spettacolo teatrale (le due irruzioni, tabù, rispettivamente della regina e del vendicatore).
CAP. II: LA FIGURA DEL VENDICATORE
Il tabù della regina è una potente irruzione della realtà storica nell’«Amleto» di Shakespeare;
accanto a questo, anche la deviazione della figura del vendicatore, cioè il trasformarsi di Amleto in
un personaggio malinconico, oppresso dalle riflessioni. L’eroe del dramma di vendetta, il
vendicatore stesso, è così diventato problematico. Inattività di Amleto, peculiare, secondo
Aristotele, della figura del malinconico.
Ma il carattere di Amleto, secondo molti studiosi, non è rimasto sospeso per caso; tale aspetto di
sospensione costituisce l’aspetto specificamente geniale dell’opera. T.S. Eliot sostiene che questo
dramma è pieno di una materia che l’autore non ha potuto portare alla luce del giorno o fissare con
chiarezza, né rendere artisticamente senza residui. Potuto o voluto?
Il personaggio teatrale di Amleto, in ogni caso, non si esaurisce nella sua maschera;
deliberatamente o istintivamente sono stati introdotto nel dramma dati di fatto e immagini
dell’originaria situazione esterna, e dietro il personaggio di Amleto è rimasta fissata un’altra
immagine; gli spettatori dell’epoca la vedevano; non è un caso che quello di Amleto sia uno dei
drammi più popolari di Shakespeare; esso è stato ideato come un dramma di vendetta, ma Amleto
non è divenuto celebre sotto le vesti della figura del vendicatore, bensì come un eroe problematico,
dubbioso, insicuro della sua stessa missione di vendetta. Soltanto attraverso la problematizzazione
del vendicatore l’opera di Shakespeare è divenuta quel che oggi è per noi, cioè qualcosa di
completamente diverso da un dramma di vendetta nella sua forma tipica (dunque questa
diversità/allontanamento dal paradigma della figura del vendicatore ne costituisce l’originalità). La
vendetta viene originalmente trasformata in un problema etico e drammatico: l’eroe subisce una
torsione interna del proprio carattere e delle proprie motivazioni; potremmo designare questo
processo come «amletizzazione del vendicatore».
L’Amleth della saga nordica non ha bisogno che gli appaia alcuno spirito che lo inciti alla vendetta:
neppure per un attimo dubita di se stesso; seppur si finga pazzo, egli non si presenta come un
personaggio dubbioso, ma come un uomo d’azione pratico e determinato. La straordinaria
trasformazione del tipo del vendicatore, la torsione e la frattura nel carattere dell’eroe di un
dramma di vendetta, il brusco e sorprendente volgere ad una debolezza indotta da un eccesso di
riflessione, tutto ciò diventa comprensibile in primo luogo, a partire dalla situazione storica degli
anni 1600-1603, e dalla figura centrale del tempo, il re Giacomo.
Allusioni di Shakespeare al tempo storico (alla storia): quando nel IV atto si allude alle dune di
Ostenda, che nel 1601 erano state eroicamente difese dagli inglesi contro gli spagnoli (ma
l’allusione è fatta in modo così indiretto da risultare comprensibile soltanto al pubblico inglese del
tempo). È meno noto che nel I atto compaia l’incoronazione di Giacomo I (luglio 1603): nel suo
discorso Laerte giustifica il suo viaggio dalla Francia alla corte del re Claudio proprio con il dovere
di presenziare all’incoronazione di quest’ultimo. Tale passaggio compare in Q2 (l’in quarto del
1604/5), ma non in Q1 (1603). Nel III atto, in occasione del suo monologo «essere o non essere»,
Amleto annovera tra le ragioni del suicidio anche un regime tirannico, cosa che invece manca in Q2:
verso certi argomenti Giacomo era di udito fine e assai sensibile. Pare che le parole d’addio
pronunciate da Orazio alla morte di Amleto siano quelle del conte di Essex al patibolo prima della
sua esecuzione. Dover Wilson avanza che forse proprio il conte di Essex, con la sua malinconia e
con alcuni tratti del suo carattere, sia stato il modello di Amleto, se mai ce n’è stato uno. Argomento
di Schmitt del tema di Amleto come calco di Giacomo I, eccetto che per la morte (Essex), giusto
perché Giacomo fu uno dei pochi degli Stuart ad arrivare ai cinquant’anni e a morire di morte
naturale. Cionoostante, non si può comunque parlare di due amleti (Giacomo nella prima parte ed
Essex nella seconda); si dimostra piuttosto la superiorità dell’irruzione sul mero rispecchiamento,
anche se questo è presente ed operante. «Amleto» rimane nel complesso, nella sua impostazione,
un’opera di vendetta (rilevanza assoluta ad assassinio del padre e matrimonio della madre con
l’assassino > di conseguenza Giacomo/Amleto rimane il personaggio portante e la problematicità
della figura del vendicatore è del tutto originaria dalla coeva presenza di questo figlio di Maria
Stuarda. In Giacomo, un re incline ad interessi filosofici e teologici, si incarna la lacerazione di
un’epoca, di un secolo di scismi religiosi e di guerre civili confessionali; emerge qui in primo piano
la relazione fra tragedia e presente storico contemporaneo. Giacomo come figlio di un’infelice
dinastia (potere a solo un anno e mezzo, numerosi rapimenti, ricatti; madre cattolica, ma deve dare
il contentino ai protestanti per il trono d’Inghilterra); è un cosiddetto sovrano illuminato, scrittore e
polemista in un’epoca di controversie e dispute teologiche. Nel 1597 scrisse una «Demonologia»
(contrapposizione tra demonologia protestante e cattolica; ricordiamo che la natura dello spettro
è uno degli elementi che spinge Amleto nel baratro del dubbio e dello scetticismo circa la veridicità
delle parole del fantasma del padre > spinge Amleto al dubbio e all’inaction, alla paralisi decisionale
che costituisce l’elemento peculiare di questo dramma). Giacomo fu inoltre un acceso sostenitore
del diritto divino del re, da lui considerato come un diritto sacrale di sangue, attribuito
esclusivamente ai sovrani saliti al trono in seguito a successione legittima, non agli usurpatori. Le
teorie di Giacomo si accordavano quindi con il suo modo d’esistere: nella vita concreta ha
conosciuto gravi lacerazioni, ma la sua autocoscienza è rimasta integra.
Resta il fatto che la deviazione di Amleto dal modello tipico del vendicatore può essere spiegata
solo dalla coeva presenza storica del re Giacomo; ciò dimostra che in tempi di crisi religiosa il
mondo e la storia universale perdono le loro forme certe e viene così alla luce una problematicità
umana da cui, se ci si limita ad una trattazione puramente estetica, non è possibile di certo creare
l’eroe di un dramma di vendetta. L’effettualità storica è più forte di ogni estetica, più forte anche
del soggetto più geniale. Davanti agli occhi di Shakespeare sta un re che, nel suo destino e nel suo
carattere concreto, era egli stesso il prodotto della lacerazione della sua epoca. Shakespeare e la
sua congrega puntavano a lui come successore al trono: era la loro speranza in un momento di
catastrofe e di crisi.
CAP. III: LA FONTE DEL TRAGICO
Interrogazione di Schmitt sulla fonte del tragico. Shakespeare e il suo Amleto appartengono
sicuramente all’ambito degli storici della letteratura, mentre Maria Stuarda e Giacomo sono di
competenza dello storico politico. Pertanto, è difficile che Amleto e Giacomo possano incontrarsi:
il fossato che li separa è troppo profondo.
Critica alla scuola di pensiero tedesca, considerante l’opera d’arte come una creazione autonoma
ed in sé conchiusa, avulsa dalla realtà storica e sociologica, e da comprendersi soltanto a partire da
se stessa; per loro la fonte del tragico risiede nella libera e sovrana forza creativa del poeta.
La libertà creativa del poeta
In Germania il culto del genio è diventato un autentico credo della filosofia estetica tedesca, una
rocca della soggettività. L’artista stende la mano sulla materia, l’afferra e la trasferisce nel regno,
totalmente diverso, della bellezza, dove i problemi storici e sociologici diventano questioni
inopportune e di cattivo gusto (critica di Schmitt; sovranità e isolamento del genio rispetto alla
realtà socio-politica).
Diversità della dimensione del pubblico: per i drammi tedeschi è prevista la stesura, nonché la
successiva pubblicazione in libro. Per quanto riguarda l’epoca di Shakespeare, la dimensione del
pubblico consiste non in un pubblico di lettori, ma di spettatori che, non disponendo di una versione
scritta del dramma, arrivano quasi vergini di elementi ausiliari alla comprensione della vicenda
inscenata; questa dimensione pubblica è una forte limitazione alla libertà inventiva del poeta
drammatico, una limitazione da rispettare se si vuole che il pubblico segua l’azione del dramma; in
questo caso ciò che lo spettatore sa è un fattore essenziale del teatro. In questo caso torna utile il
detto di Jean Paul: «un carattere storico ben noto, ad esempio Socrate o Cesare […] dà per
presupposto il suo cognito. Un nome vale qui una molteplicità di situazioni». Le cose vanno
diversamente quando sotto un altro nome e tuttavia facilmente riconoscibile dagli spettatori, fa il
suo ingresso sulla scena un personaggio dell’attualità. Qui il trasparente incognito esalta la tensione
e la partecipazione del pubblico, che è a conoscenza della realtà. E proprio questo è il caso do
Amleto/Giacomo.
Il gioco e il tragico
Non soltanto l’opera teatrale nell’essere rappresentata, viene «giocata»; anche in se stessa l’opera
è gioco. In particolare le opere di Shakespeare sono veri e propri giochi drammatici teatrali. Il gioco
del dramma ha il suo ambito peculiare e si crea un suo proprio spazio, all’interno del quale regna
una discreta libertà, sia per quanto riguarda il materiale letterario, sia per quando concerne la
situazione che ha originato l’opera. Si formano così uno spazio ed un tempo specifici del dramma,
e ciò permette la finzione di un processo circolare, perfetto in sé e chiuso verso l’esterno.
Tuttavia è necessario separare il Trauerspiel dalla tragedia; almeno per quanto riguarda noi miseri
mortali, nel gioco c’è la negazione radicale del caso serio. Il tragico cessa là dove comincia il gioco,
anche se questo è un gioco che porta al pianto, anche se è un gioco triste per spettatori tristi, anche
se è un Trauerspiel profondamente coinvolgente. Il tragico è per sua essenza non-giocabile; in
Shakespeare, invece, persino nelle sue cosiddette tragedie, viene alla luce, appunto, un carattere
di gioco.
Il dramma nel dramma: Amleto o Ecuba
1600: il mondo intero divenne palcoscenico. L’uomo attivo di quest’epoca si sentiva posto su di un
podio davanti a degli spettatori, e considerava se stesso e la sua attività nella spettacolarità del suo
agire.
La teatralizzazione barocca della vita era, nell’Inghilterra elisabettiana di Shakespeare, ancora
elementare e priva di vincoli; non c’era un particolare contrasto tra il presente dell’opera
rappresentata e l’attualità vissuta del presente sociale. La società se ne stava anch’essa sul
palcoscenico: il gioco drammatico rappresentato sulla scena poteva dunque apparire, senza
particolari artifici, come un dramma vivente interno al dramma immediatamente presente della
vita reale. […]
Non è pensabile che Shakespeare, in Amleto, avesse come unica intenzione di fare del suo Amleto
un’Ecuba, di farci piangere su Amleto come l’attore piange sulla regina di Troia.
[…] Argomento del teatro nel teatro dell’atto III; soltanto un fortissimo nucleo di attualità sopporta
la doppia messa in scena di un teatro dentro il teatro; esso è pertanto una prova grandiosa ed
esemplare del fatto che un nocciolo di attualità e realtà storica presente – l’assassinio del padre di
Amleto/Giacomo e il matrimonio della madre con l’omicida – ha avuto la forza di esaltare il gioco
drammatico in quanto tale, senza distruggere il tragico.
L’«Amleto» non si risolve in un gioco senza residui; la sua unità di tempo, luogo e azione non è
conchiusa, e non dà luogo ad un processo autosufficiente; presenta due grandi varchi attraverso i
quali irrompe un tempo storico nel tempo ludico; sono realtà recepite e rispettare nel gioco del
dramma, che proprio intorno ad esse gira timidamente. Esse disturbano il carattere disinteressato
del puro gioco, e sono quindi un minus, da questo punto di vista.
Incompatibilità fra il tragico e la libera creazione
La vera tragedia, rispetto ad ogni altra forma artistica, possiede una qualità particolare; tale
plusvalore consiste nella realtà oggettiva dello stesso accadimento tragico, nel concatenamento
enigmatico e nell’intreccio indissolubile di uomini indiscutibilmente reali, immersi nel corso non
calcolabile di eventi indiscutibilmente reali.
Su ciò si basa la grave serietà, non passibile di congetture, dell’accadimento tragico; l’ineluttabile
realtà effettuale è la muta roccia contro la quale si infrange il gioco del dramma e si solleva
spumeggiando la marea dell’autentica tragicità. E qui sta un ultimo e invalicabile limite della libera
creatività poetica: un poeta può e deve inventare molte cose, ma non può inventarsi il nocciolo di
realtà che è proprio di un’azione tragico; il tragico ha in primo luogo origine da un dato di fatto, da
una realtà che è data come ineluttabilmente presente ed effettuale a tutti i partecipanti, sia al
poeta, sia all’attore, sia agli ascoltatori. Un destino inventato non è un destino, l’invenzione più
geniale in questo caso non serve a nulla. Il cuore dell’accadere tragico, l’origine stessa
dell’autenticità tragica, sono qualcosa di così ineluttabile che nessun mortale se li può
compiutamente immaginare, che nessun genio se li può inventare di sana pianta.
Quanto più perfette sono l’invenzione e il gioco drammatico e tanto più la tragicità viene distrutta.
Nel caso di una tragedia, quella comune dimensione pubblica che in ogni rappresentazione teatrale
abbraccia e riunisce il poeta, gli attori e gli spettatori non si fonda su regole di gioco e di spettacolo
unanimemente riconosciute, bensì sulla comune esperienza vivente di una realtà storica effettuale.
Nietzsche attribuisce la fonte dell’accadimento tragico allo spirito della musica, mentre
Wilamowitz al mito; ma in Wilamowitz il mito diventa una generica «materia», una hypotesis dalla
quale il poeta «crea». Cionondimeno la definizione resta corretta, poiché concepisce il mito come
parte di una leggenda eroica, quindi non soltanto come una fonte letteraria del poeta, ma come un
sapere collettivo che accomuna il poeta e gli ascoltatori, e cioè un brano di realtà storica.
[…] All’epoca di Shakespeare il dramma non era ancora il regno dell’innocenza degli uomini, non
era separato dalle loro attività nel presente storico. Il dramma era ancora barbarico ed elementare,
e non si vergognava né di atteggiamenti melodrammatici, né di grossolane buffonerie. Il dramma
shakespeariano senza dubbio è sempre esclusivamente un gioco teatrale, non ancora gravato dai
problemi filosofici o estetici; in esso irrompono due varchi attraverso cui la tragicità di un
avvenimento reale fa il suo ingresso nella dimensione ludica del dramma, trasformando così il
Trauerspiel in vera tragedia, e la realtà storica in mito.
Mentre la tragedia antica incontra il mito già formato e da quello trae creativamente l’avvenimento
tragico, nel caso di «Amleto» si è verificato l’esito insolito – e tuttavia tipicamente moderno – che
il poeta abbia dato origine ad un mito a partire dalla realtà immediatamente incontrata. Accadere
tragico e libera invenzione sono incompatibili tra loro e si escludono a vicenda.
L’ineguagliabile grandezza di Shakespeare sta nell’aver saputo cogliere ed estrapolare, nella
disordinata molteplicità dell’attualità politica quotidiana, proprio quell’immagine che era
suscettibile di essere elevata a forma di mito; così è nato il mito di Amleto: un Trauerspiel si è elevato
a tragedia, e in questa forma ha trasmesso ad epoche e generazioni posteriori la presenza vivente
di una figura mitica.