CAPITOLO 1
I MUSCOLI
I muscoli sono gli organi più sviluppati del corpo, tanto che rappresentano la metà del nostro peso
corporeo. Essi agiscono sia nel lavoro fisico dell’organismo che in quello intellettuale: infatti in
azioni come lo scrivere, parlare o leggere viene impiegato l’apparato muscolare. I muscoli
permettono il movimento agendo sulle articolazioni scheletriche e modificando la loro posizione
nello spazio. I muscoli sono legati alle ossa tramite i tendini o fasci di tessuto connettivo e in
corrispondenza delle articolazioni essi operano secondo azioni opposte: infatti nel momento in cui
un muscolo si contrae (ossia si accorcia) un altro muscolo si estende (ossia si allunga) e questa loro
relazione viene definita “antagonistica”. La conseguenza di tutto ciò è che nel momento in cui si
realizza un’azione coordinata un gruppo di motoneuroni viene eccitato, mentre un altro viene
inibito. Tale rapporto è determinato dal fatto che i muscoli esercitano una forza unidirezionale (nel
senso che possono solo tirare e non spingere) e, per questo motivo, i movimenti pluridirezionali si
realizzano sono se c’è un rapporto antagonista tra muscoli diversi.
Per quanto riguarda la relazione tra arti e muscolo è importante sottolineare che in prossimità delle
articolazioni ci sono 2 muscoli: uno estensore e uno flessore; la contrazione del primo provoca il
raddrizzamento dell’arto mentre, in risposta alla contrazione del muscolo flessore, l’arto si flette.
La contrazione muscolare può essere di 2 tipi: isometrica e isotonica. Poiché il prefisso iso indica
uguale, per contrazione isometrica si intende un tipo di contrazione in cui non si verifica nessuna
variazione nella lunghezza del muscolo; per contrazione isotonica si intende un tipo di contrazione
in cui non si verifica nessuna variazione nella tensione del muscolo. Inoltre la contrazione
isometrica si ha in attività come il mantenimento della postura; quella isotonica si ha nelle attività
relative al movimento, come il camminare. Infine importante evidenziare che una contrazione
isotonica viene sempre preceduta da una contrazione isometrica in quanto si può avere un
accorciamento del muscolo solo quando la tensione prodotta è maggiore di quella opposto.
Anche se da un punto di vista fisiologico si distinguono 3 tipi di muscolatura, in riferimento a
questo discorso è opportuno soffermarsi sui muscoli striati. Il funzionamento dei muscoli striati
scheletrici è controllato da fibre efferenti somatiche e la loro attivazione dipende dall’impulso
nervoso che attraversa le fibre dei nervi motori, raggiunge il muscolo e lo attiva. I muscoli striati,
poi, possono essere di due tipi: veloci e lenti. I muscoli veloci sono impiegati nei movimenti rapidi,
come i movimenti oculari, e si contraggono in un tempo che va dai 10 ai 40 millesimi di secondo.
Essi, di solito, sono rossi a causa dell’alta concentrazione di mioglobina (utile per immagazzinare
ossigeno). I muscoli lenti si contraggono in un tempo pari a 100 millesimi di secondo, sono bianche
e sono impiegati in attività come l’adattamento della postura.
STRUTTURA DEL MUSCOLO E CONTRAZIONE
Il muscolo è composto da un insieme di fasci di fibre muscolari; ogni fibra contiene miofibrille e
ogni miofibrilla è formata da due mio filamenti: l’actina e la miosina, i quali si sovrappongono
l’una sull’altra. I mio filamenti di actina sono più sottili, quelli di miosina sono più grossi e sono
dotati di protuberanze a forma di peduncoli che creano un contatto con l’actina nel momento della
contrazione. Infatti nel momento in cui un impulso nervoso innesca il potenziale d’azione nelle
cellule muscolari ( che coincide con un aumento degli ioni calcio) questi ioni si legano alle
molecole di troponina (che insieme ai filamenti di tropo miosina coprono – quando il muscolo è
rilassata- i siti di legame tra l’actina e la miosina) che si modificano. Tali molecole modificate
spingono verso l’interno dei siti la tropo miosina lasciando scoperti i siti di legami e permettendo ai
peduncoli della miosina di legarsi all’actina, di ruotare e spingere tale filamento proteico in avanti.
Man mano che l’actina avanza il peduncolo della miosina si piega sino a tornare alla sua posizione
iniziale da dove ricomincia a spingere in avanti l’actina, dando luogo alla contrazione del muscolo
mediante un processo chiamato modello di scorrimento dei filamenti.
Per quanto riguarda il rapporto tra muscolo e impulso nervoso è fondamentale notare che all’interno
delle fibre muscolari vi è una zona chimicamente sensibile: la placca terminale. Quando un
motoneurone, collegato alla placca terminale, scarica viene prodotta acetilcolina attraverso la quale
la fibra muscolare si depolarizza e si genera l’impulso elettrico che si propaga verso le estremità del
muscolo; in risposta a tale impulso il muscolo si contrae.
Un motoneurone può innervare può innervare più fibre muscolari e l’insieme di fibre muscolari
innervate da un singolo motoneurone viene definito unità motrice. Generalmente i muscoli che
controllano i movimenti fini (come il movimento delle dita delle mani) sono formate da fibre
muscolari che appartengono a unità motrici piccole.
Per effettuare dei movimenti rapidi e articolati, il sistema nervoso centrale deve possedere una serie
di informazioni sia sui muscoli che sulla posizione degli arti ai quali essi sono legati. Il sistema
nervoso riceve tali informazioni da due recettori sensoriali:
- i fusi muscolari, che rilevano la variazione della lunghezza del muscolo sia durante la
contrazione che durante lo stiramento;
- gli organi di Golgi, che – invece- rilevano lo stato di tensione del muscolo.
Il fuso muscolare è costituito da un insieme di fibre muscolari più sottili e più corte delle fibre
ordinarie; inoltre sono riunite insieme e contenute in una capsula di tessuto connettivo che da vita
ad una struttura a forma di fuso. Le fibre muscolari si distinguono in: fibre muscolari intrafusali,
le quali formano il fuso muscolare; e le fibre muscolari extrafusali, che sono contenute nel
muscolo. Il fuso muscolare è importante perché trasmette le informazioni dallo stato del muscolo
attraverso le vie sensoriali afferenti che si avvolgono intorno alle fibre muscolari intrafusali e,
fuoriuscendo dalla capsula di tessuto connettivo, raggiungono il midollo spinale. Inoltre quando il
muscolo viene striato, cioè si allunga, anche il fuso muscolare si stria, provocando un aumento della
frequenza di scarica della fibra sensoriale afferente; quando il muscolo si contrae, cioè si accorcia,
diminuisce la tensione all’interno del fuso e diminuisce la frequenza di scarica della fibra sensoriale
afferente. Da ciò si evince che il fuso muscolare è il recettore direttamente coinvolto nel riflesso di
stiramento che viene anche definito riflesso fusale.
L’importanza che i recettori sensoriali dei muscoli ricoprono nell’esecuzione del movimento è stata
messa in luce, molti anni fa, dai lavori di Sherrington il quale dimostrò che l’isolamento dei
recettori muscolari causa delle paralisi nonostante il mantenimento delle connessioni dai
motoneuroni ai muscoli. In questo modo è stato dimostrato che tali recettori trasmettono le
informazioni sullo stato dei muscoli ai centri motori del midollo spinale, della corteccia cerebrale e
del cervelletto e che, in assenza di queste informazioni, è impossibile inviare qualsiasi comando
motorio al muscolo.
Infine va detto che i sistemi motori devono controllare sia i muscoli collegati all’articolazione
coinvolta nel movimento, sia gli altri muscoli che agiscono su altre articolazioni. Un esempio
relativo alla complessità del controllo messo in atto dai sistemi motori si riferisce all’azione che
deve essere esercitata sui muscoli antagonisti: infatti nel momento in cui bisogna compiere
un’azione non è sufficiente controllare solo i muscoli agonisti, ma anche quelli antagonisti e in
quest’ultimo caso tale controllo non avviene in maniera fissa perché mentre in alcuni casi questi
devono essere solo rilasciati, in altri casi (come i movimenti veloci) essi devono essere contratti
nell’ultima parte del movimento.
MOVIMENTO E GRADI DI LIBERTA’
Un aspetto importante inerente il controllo dei sistemi motori riguarda il problema dei gradi di
libertà (ossia del numero di possibilità che si hanno per compiere uno stesso movimento). Ad
esempio se vogliamo raggiungere la penna posta sul tavolo di fronte a noi possiamo seguire
numerose traiettorie, anche perché in un movimento semplice come questo vengono impiegate
numerose articolazioni: quella della spalla, del gomito e del braccio. Di conseguenza è possibile
raggiungere la penna compensando tra loro gli angoli di apertura delle tre articolazioni oppure si
possono mantenere fisse le articolazioni del gomito e del polso e raggiungere la penna con un ampia
rotazione della spalla o si può mantenere fissa l’articolazione del gomito e raggiungere la penna
mediante un’ampia flessione del gomito e del polso. Questo esempio dimostra che per ogni
movimento esiste un altissimo numero di gradi di libertà.
Tutto ciò è stato dimostrato sia in fisiologia, grazie agli studi di Bernstein, sia nei collegi dell’800
dove gli educatori obbligavano frequentemente gli allievi ad usare le posate sorreggendo un libro
sotto le spalle. Berstein invece ha ipotizzato che per ridurre i gradi di libertà che intervengono
nell’esecuzione di un movimento, il sistema motorio agisce compattando dei gradi di libertà
appartenenti ai gruppi di muscoli coinvolti nello stesso movimento.
ORGANIZZAZIONE GERARCHICA DEI SISTEMI MOTORI
Il movimento viene effettuato tramite una contrazione indotta nel muscolo da impulsi nervosi, i
quali sono prodotti dai motoneuroni. Tuttavia questa è solo la tappa finale di un processo che viene
pianificato, regolato e controllato da tre sistemi distinti: il sistema spinale, il sistema tronco
encefalico e il sistema corticale, che si interconnettono tra loro nel generare il movimento. Infine
oltre a questi tre sistemi una grossa importanza, nella regolazione dell’attività motoria, è rivestita
dai gangli della base e dal cervelletto.
CONTROLLO MOTORIO A LIVELLO SPINALE
Il midollo spinale è contenuto all’interno del canale midollare della colonna vertebrale e si collega
alla periferia mediante i nervi motori e i nervi sensoriali. In corrispondenza della giunzione tra i vari
corpi vertebrali due tipi di nervi fuoriescono dalle radici posteriori (o dorsali) e dalle radici anteriori
(o ventrali). Attraverso le prime arrivano al midollo spinale le informazioni sensoriali ed è per
questo che sono dette anche radici-sensitive; mentre le seconde sono impegnate per trasmettere
degli impulsi ai muscoli ed è per questo che vengono definite anche radici-motorie. Nel momento in
cui si attiva un muscolo il fuso muscolare riceve un impulso che viene rilevato dalle radici
posteriori e, da qui, giunge nella sostanza grigia presente nell’encefalo. Nella sostanza grigia viene
attivato il motoneurone che trasmette l’impulso al muscolo, che così si contrae. Mediante
l’innervazione reciproca- invece- gli impulsi che hanno inizio nel fuso neuromuscolare non arrivano
solo al motoneurone che innerva lo stesso muscolo estensore, ma anche ad un interneurone che
inibisce il motoneurone del muscolo flessore antagonista.
All’inizio dell’800 due studiosi: Bell e Magendie scoprirono che c’è una distinzione tra le vie
sensoriali e le vie motorie, le quali hanno la caratteristica di essere indipendenti. In particolar modo
Magendie ha dimostrato che in seguito della sezione delle radici posteriori lombo-sacrali il cane
perdeva la sensibilità dell’arto posteriore corrispondente, ma non la motilità. In seguito alla sezione
delle radici anteriori ventrali – invece- la zampa diventava completamente paralitica ma non
perdeva la sensibilità.
Dall’analisi di tutto ciò si evince che il midollo spinale è la sede dei circuiti responsabili delle
risposte motorie più automatizzate e stereotipate e, in più, rappresenta il livello gerarchico più basso
dell’organizzazione degli schemi motori che è costituita: dal midollo spinale, dal tronco
dell’encefalo, dalla corteccia motoria e dall’area premotoria. Da un punto di vista neurofisiologico
l’organizzazione degli schemi motori è stata definita gerarchica perché le strutture
filogeneticamente più recenti non si sono formate attraverso la riorganizzazione delle strutture già
esistenti, ma in seguito ad una sovrapposizione di sistemi di azione e di controllo più efficienti e più
sofisticati, stabilendo quindi una gerarchia tra sistemi motori più antiche e quelli più recenti.
Tuttavia il funzionamento dei sistemi motori gerarchicamente inferiori mantiene la capacità di
operare autonomamente, ossia di controllare elementari atti motori senza l’intervento delle strutture
cerebrali più elevate. L’autonomia del sistema motorio spinale è stata dimostrata con esperimenti
sugli animali, tra i quali i più famosi sono stati: l’animale spinale e l’animale decerebrato.
Nell’animale spinale è stata effettuata una sezione chirurgica ad un qualsiasi livello della colonna
vertebrale in modo che il modello spinale risulti separato dall’encefalo. La logica sottostante è che
l’eventuale attività motoria residua nella muscolatura controllata dai neuroni midollari che si
trovano al di sotto della lesione non può essere comandata dai centri motori superiori, ma solo sai
circuiti motori che si trovano nella parte del midollo spinale che si trova al di sotto della sezione
chirurgica.
Nell’animale decerebrato è stata effettuata una sezione a livello del tronco dell’encefalo, e in
particolar modo tra i collicoli superiori e i collicoli inferiori; in questo secondo caso la finalità
dell’intervento è lo studio dell’attività motoria in assenza del controllo volontario corticale e
dell’azione inibitoria dei nuclei della base. In questa condizione permangono attività motorie
semplici, come i riflessi e una generale coordinazione locomotoria, ma il quadro è dominato da uno
stato spastico dei muscoli antigravitari dando luogo alla rigidità da cerebrazione .
L’attività motoria spinale può realizzarsi seguendo 2 vie diverse: una monosinaptica, in cui il
segnale sensoriale in entrata fa sinapsi direttamente sul motoneurone; una multisinaptica in cui il
segnale sensoriale in entrata giunge al motoneurone dopo una lunga catena di sinapsi interneurali.
Come in qualsiasi altro sistema nervoso centrale coinvolto nell’attività motoria, il sistema motorio
del midollo spinale può operare in maniera adeguata soltanto se riceve informazioni afferenti e, in
questo caso, le informazioni afferenti (che porta, che conduce) sensitive e le efferenze motorie che
sfociano nell’attività muscolare risulta particolarmente stretta perché i recettori muscolari sono
direttamente collegati con i motoneuroni.
I movimenti riflessi sono comportamenti che fanno parte della struttura stessa del sistema nervoso
centrale e che vengono messi in atto dai neuroni situati nella parte filogenetica più antica. Tuttavia
esistono anche riflessi acquisiti, i quali coinvolgono i livelli più elevati della gerarchia dei sistemi
motori e vengono appresi per permettere all’organismo di rispondere più velocemente e in maniera
più adeguata alle richieste ambientali.
CONTROLLO MOTORIO A LIVELLO DEL TRONCO DELL’ENCEFALO
Il tronco dell’encefalo è il secondo elemento nell’organizzazione gerarchica dei sistemi motori e
rappresenta la sede dei circuiti neurali deputati al controllo dei movimenti oculari, dell’equilibrio e
di altri movimenti semplici. Per quanto riguarda l’attività motoria la funzione principale del tronco
dell’encefalo è il controllo della motilità di sostegno che può avvenire grazie alle informazioni che
provengono dall’organo dell’equilibrio. Notando che la postura e l’equilibrio vengono mantenuti
senza nessun intervento cosciente è possibile affermare che i centri motori tronco encefalici sono
sede di attività motorie riflesse e che a questo livello dell’organizzazione motoria, gruppi di neuroni
formano dei specifici nuclei finalizzati al controllo di movimenti stereotipati o non coscienti. Un
esempio di nuclei specifici sono i nuclei vestibolari i quali controllano il mantenimento
dell’equilibrio.
Il tronco dell’encefalo si divide in: midollo allungato, che si collega (in direzione caudale) al
midollo spinale; ponte e mesencefalo, che (in direzione rostrale) si collega al diencefalo. Inoltre si
può affermare che i più importanti centri motori tronco encefalici sono 3:
- il nucleo rosso;
- il nucleo vestibolare laterale;
- alcuni settori della formazione reticolari.
Per individuare la funzionalità motoria legata alle strutture tronco encefaliche (che creano numerose
interconnessioni tra loro) sono stati fatti degli esperimenti sui gatti; esperimenti in cui sono state
messe a confronto la postura e l’attività motoria in seguito alle sezioni chirurgiche effettuate a
diversi livelli del tronco encefalico.
Nell’animale decerebrato si osserva che, dopo aver sezionato il tronco dell’encefalo a livello del
tentorio del cervelletto (tentorio= struttura anatomica che separa il cervelletto dai lobi occipitali), si
manifesta un immediato aumento del tono della muscolatura estensoria e, di conseguenza, l’animale
tiene le 4 zampe completamente estese e la testa ripiegata verso il dorso. Questa postura, definita
rigidità da decerebrazione, è la conseguenza dell’effetto facilitante esercitato dal nucleo vestibolare
(che non viene controbilanciato dagli effetti antagonisti e inibenti esercitati dal nucleo rosso o da
altri centri motori superiori) sui motoneuroni estensori.
Nell’animale mesencefalico la sezione del tronco dell’encefalo viene fatta in posizione più rostrale
(ossia più anteriore) rispetto alla precedente, in modo che anche il mesencefalo ( oltre che il ponte e
il cervelletto) possa rimanere legato ai centri spinali inferiori. La condizione posturale e l’attività
motoria del gatto mesencefalico è decisamente migliore rispetto a quella dell’animale decerebrato
dal quale si distingue per due motivi: prima di tutto l’animale mesencefalico non presenta una
rigidità muscolare pari a quella dell’animale decerebrato; in secondo luogo l’animale mesencefalico
è in grado di regolare il proprio tono muscolare.
Da ciò si evince che se anche in entrambe gli animali sono interrotte le vie provenienti dai centri
motori superiori, le condizioni del gatto mesencefalico sono migliori grazie all’azione dei centri
motori del mesencefalo, tra i quali molto importante sembra essere il nucleo rosso.
CONTROLLO MOTORIO A LIVELLO CORTICALE
La corteccia cerebrale rappresenta il livello gerarchicamente più elevato nei sistemi di controllo
motorio e le vie nervose che collegano la corteccia ai motoneuroni del livello spinale sono
numerose e articolate. Nella corteccia cerebrale di tutti i mammiferi esiste una zona in cui una
stimolazione elettrica provoca movimenti nel lato opposto del corpo. Una prima distinzione che si
può fare tra le attività motorie integrate a livello spinale e tronco encefalico e quelle integrate a
livello corticale è che le prime avvengono a livello subcosciente, mentre le seconde sono – in gran
parte – movimenti volontari. Le aree della corteccia cerebrale più interessate al movimento sono 2:
- la corteccia motoria o area 4 di Broadmann;
- la corteccia premotoria o area 6 di Broadmann.
La corteccia motoria o area 4 di Broadmann o corteccia piramidale (perché composta da un’alta
concentrazione di cellule piramidali robuste) si trova davanti alla scissura di Rolando e si suddivide
in diverse sottoaree in relazione ai diversi gruppi somatici a cui sono collegate. La rappresentazione
dell’insieme delle aree specifiche forma l’immagine dell’homunculus di Woolsey e dei suoi
colleghi (ossia di un uomo che mantiene le proporzioni dell’area della corteccia deputate al suo
controllo), in cui non c’è un rapporto proporzionale tra la grandezza dell’area e la grandezza del
muscolo, bensì un rapporto diretto tra la raffinatezza del movimento che il muscolo è in grado di
compiere e l’ampiezza dell’area corticale (Esempio: l’area corticale che controlla i muscoli della
gamba è meno estesa di quella che controlla i muscoli delle dita, del volto, della bocca o della
lingua). Infine è importante sottolineare che la corteccia motoria rappresenta l’area corticale in cui
avviene la conversione dei progetti di movimento in comandi motori i quali rendono possibile la
realizzazione dei progetti stessi.
L’area 6 di Broadmann o corteccia associativa o area premotoria è la seconda area corticale
implicata nel controllo dell’attività motoria ed p situata anteriormente alla corteccia motoria. Questa
corteccia associativa è responsabile della progettazione del movimento, dell’identificazione dei
bersagli nello spazio e della scelta del decorso temporale dell’azione motoria e – a differenza
dell’area motoria primaria- la sua stimolazione genera movimenti più complessi. Pertanto mentre la
corteccia piramidale è responsabile di movimenti semplici e privi di scopo, la corteccia associativa
è responsabile del controllo di movimenti coordinati i quali richiedono l’attivazione simultanea di
più masse muscolari. Inoltre quest’ultima corteccia dispone di connessioni sottocorticali con la
corteccia motoria e con le aree talamiche contigue e, in più, è collegata al talamo e ai nuclei della
base. Di conseguenza il controllo dei movimenti complessi è il risultato dell’attività congiunta di
strutture corticali e sottocorticali.
Un’altra differenza che c’è tra area 4 e area 6 di Broadmann è visibile nei deficit provocati da
lesioni nel cervello: infatti la lesione o l’asportazione di una parte dell’area 4 provoca la paralisi dei
muscoli che vi sono rappresentati, anche se l’animale è ancora in grado di compiere dei movimenti
grossolani. Quindi la lesione non provoca l’impossibilità di contrarre la muscolatura, ma viene
meno la capacità di eseguire volontariamente i movimenti raffinati. Infine con una lesione o
l’asportazione dell’area 4 i movimenti involontari e posturali restano inalterati. Grazie a questi
esperimenti si è potuto confermare empiricamente che: l’area 4 è deputata ai movimenti volontari
fini, mentre l’area 6 ai movimenti involontari e posturali.
Come qualsiasi organo di controllo anche la corteccia motoria necessita di una serie di informazioni
per poter operare adeguatamente; informazioni che le vengono convogliate da diverse vie afferenti:
- le fibre che provengono dall’altro emisfero cerebrale e che connettono aree motorie
corrispondenti;
-
le fibre sottocorticali provenienti dalle aree corticali somatosenistive che si trovano dietro
all’area motoria primaria e dalle aree visive e uditive;
- i fasci, provenienti dai nuclei ventrolaterali e ventroanteriori del talamo.
Le vie efferenti che dalla corteccia trasmettono informazioni ai centri motori inferiori possono
essere di due tipi: le vie piramidali o corticospinali, responsabili della mobilità del tronco e degli
arti; le vie extrapiramidali le quali trasmettono i segnali motori al midollo spinale e terminano
nella parte anteriore della sostanza grigia. Infine va sottolineato che la via piramidale porta la
muscolatura verso un ipertono mentre la via extrapiramidale porta la muscolatura verso l’ipotono.
CONTROLLO MOTORIO E GANGLI DELLA BASE
I gangli o nuclei della base fanno parte del sistema motorio extrapiramidale e formano
un’importante connessione sottocorticale tra la corteccia motoria e quella associativa. I principali
gangli della base sono: il nucleo caudato; il putamen (che insieme al nucleo caudato forma il corpo
striato); il globus pallidus; la sub stantia nigra e il nucleo subtalamico. Le vie afferenti ed efferenti
collegate ai gangli della base sono numerose: tra le vie afferenti quelle principali provengono dalla
corteccia associativa, dalla corteccia motoria e dai nuclei del talamo ed esse si connettono con il
corpo striato. Le principali vie efferenti – invece- partono dal globus pallidus per poi giungere nel
talamo; altre vie efferenti partono dal corpo striato e raggiungono la sub stantia nigra e il globus
pallidus.
Il ruolo svolto dai gangli della base risulta essere molto importante in quanto questi organi svolgono
funzioni motorie di altissimo livello e, addirittura, vicarianti le funzioni svolte dalla corteccia
cerebrale. A queste conclusioni si è giunti mediante una serie di esperimenti condotti sia sugli
animali (e in particolare sui gatti) che sugli uomini. Per quanto riguarda gli studi condotti sugli
uomini essi hanno messo in evidenza che i danni corticali compromettono molti movimenti ( e in
particolare quelli fini) ma non la possibilità di compiere movimenti automatici, di camminare e di
mantenere l’equilibrio. La distruzione del nucleo caudato – invece- provoca la paralisi di tutto
l’emisoma opposto al lato della lesione (facendo eccezione per i riflessi spinali o tronco encefalici).
I gangli della base operano a stretto contatto sia con la corteccia cerebrale sia con il cervelletto, ma
nonostante ciò le funzioni svolte da alcuni dei nuclei descritti possono essere parzialmente isolate.
Ad esempio il nucleo caudato e il putamen sono i responsabili del’avvio e della regolazione dei
movimenti grossolani intenzionali; il globus pallidus provvede al tono muscolare necessario per
eseguire i movimenti intenzionali ( sia quelli provenienti dalla corteccia motoria; sia quelli avviati
dalla corteccia; sia quelli avviati dal corpo striato). Questa funzione è molto importante soprattutto
per i movimenti fini in quanto qualsiasi movimento fine richiede un aggiustamento precedente della
posizione delle varie parti del corpo. Delle lesioni al globus pallidus impediscono l’aggiustamento
di queste parti del corpo e, di conseguenza, l’esecuzione di movimenti fini. Infine le cellule nervose
del putamen dimostrano un’attività ridotta nell’esecuzione di movimenti rapidi; pertanto ciò indica
che tali strutture vengono coinvolte nella programmazione e nel controllo di movimenti lenti.
CONTROLLO MOTORIO E CERVELLETTO
Il cervelletto è una struttura nervosa molto antica (probabilmente la prima che si è specializzata
nella coordinazione motoria) che interviene solo in relazione alle attività che sono state iniziate a
livello spinale, tronco encefalico e corticale e che regola la coordinazione motoria. A differenza
della corteccia motoria la stimolazione elettrica della corteccia del cervelletto non provoca nessuna
contrazione muscolare ed è per questo motivo che per molti anni quest’organo non è stato preso
molto in considerazione. Infatti molto recentemente la funzione svolta dal cervelletto è stata molto
rivalutata in quanto una serie di studi hanno dimostrato che questa struttura cerebrale regola il
tempo delle attività motorie veloci e – in generale- di tutte quelle attività che richiedono una rapidità
di esecuzione. In più ulteriori studi hanno messo in evidenza che nelle attività rapide è
fondamentale la sincronizzazione dei singoli movimenti che compongono l’azione e il cervelletto è
la struttura anatomica che è maggiormente responsabile della componente temporale del
movimento. Da un punto di vista anatomico il cervelletto si distingue in tre lobi:
il lobo flocculo nodulare, che è la parte più antica ed è particolarmente deputato al controllo
dell’equilibrio;
il lobo anteriore e il lobo posteriore, il quale è il più sviluppato e forma 2 protuberanze dette
emisferi cerebellari, i quali sono i punti di arrivo di un gran numero di vie nervose.
Il ruolo principale del cervelletto è quello di confrontare lo stato attuale del muscolo e dell’arto
coinvolto nel movimento con la situazione che deriva dall’attivazione del sistema motorio. Se le
due condizioni sono diverse il cervelletto si attiva per trasmettere le correzioni al sistema motorio
che ha il compito di incrementare, inibire o diminuire i livelli di attivazione dei muscoli. Per poter
inviare al sistema motorio i segnali correttivi del movimento durante la sua esecuzione, il
cervelletto deve ricevere un feedback sullo stato del muscolo in un tempo molto veloce ed è per
questo che è necessario un sistema afferente molto rapido. Oltre ad un rapido sistema afferente il
cervelletto deve essere dotato anche di un ottimo sistema efferente per poter trasmettere le
correzioni al sistema motorio. Le vie efferenti del cervelletto coincidono con 3 circuiti: il primo è
legato all’attività motoria volontaria; il secondo è coinvolto nel controllo dell’equilibrio e della
postura; il terzo ha il compito di coordinare le altre due vie efferenti.
Anche se grazie a numerosi studi si è giunti a conoscere e descrivere come i circuiti neurali
trasmettono gli impulsi ai motoneuroni, ciò non risulta sufficiente per capire come il pensiero possa
trasformarsi in un impulso capace di attivare cellule nervose che danno il via al movimento.
Nonostante ciò la scienza non si è persa nel completo pessimismo: infatti molto importanti sono
stati due esperimenti.
1) se viene chiesto di eseguire un movimento dopo la presentazione – in successione- di due
stimoli, immediatamente prima dell’emissione della risposta si registra una lenta onda
negativa nella corteccia cerebrale. Questa onda è stata denominata potenziale di aspettativa
in quanto è un potenziale associato all’attesa del secondo stimolo la cui comparsa è
preannunciata dallo stimolo che lo precede.
2) Se ad un partecipante ad un esperimento viene chiesto di compiere un movimento semplice
ad intervalli temporali irregolari e scelti autonomamente, prima del movimento si registra su
tutta la superficie della corteccia cerebrale un’onda negativa che aumenta lentamente.
Quest’onda è stata definita potenziale di preparazione ed è stato notato che essa precede il
momento in cui la corteccia motoria invia i comandi di attivazione ai muscoli scheletrici. Da
ciò è possibile ammettere: primo, che il potenziale di preparazione può essere inteso come il
correlato neurale della volontà di compiere un movimento; secondo, che se l’onda si
sviluppa su tutto il cervello significa che la realizzazione di un’azione volontaria richiede la
collaborazione di più (se non tutte) le aree della corteccia cerebrale.
CAPITOLO II
LE CLASSI DI MOVIMENTO
Una distinzione specifica dei vari movimenti non può essere realizzata in quanto il numero dei
movimenti è pari al numero dei ricercatori che si occupano di comportamento motorio. Infatti, in
seguito ad una distinzione generale, è possibile distinguere 5 classi di movimenti:
- i movimenti discreti: essi sono quei movimenti in cui può essere individuato con precisione
sia l’inizio che la fine e degli esempi sono: il calciare, portare un oggetto alla bocca, dare
uno schiaffo. Due caratteristiche principali di questi movimenti sono: 1) la velocità, la quale
è quasi sempre maggiore della velocità osservata nei movimenti continui; 2) l’importanza
dell’aspetto cognitivo rispetto all’aspetto motorio. Quest’ultimo punto può essere chiarito
meglio con un esempio: se ad un addetto di una torre di controllo si dice di premere un
pulsante verde nel momento in cui riceve un dato segnale e un pulsante rosso nel momento
in cui riceve un segnale d’emergenza, l’impegno maggiore dell’addetto è quello di riuscire a
discriminare i due segnali e selezionare il pulsante corretto, mentre è poco importante come
preme il pulsante o con quale dito lo pigia.
- I movimenti continui: essi sono quelli in cui non è possibile individuare esattamente il
momento d’inizio e quello della fine e, in questo caso, il tempo di esecuzione è più lungo di
quello impiegato nei movimenti discreti. Esempi di questi movimenti sono: la corsa, il nuoto
- I movimenti seriali: essi possono essere definiti come una somma di più movimenti discreti
legati tra loro. In questo caso anche se può essere individuato il momento d’inizio e il
momento della fine, il tempo d’esecuzione può essere anche molto lungo in quanto è il
risultato della concatenazione di più movimenti discreti. Esempi di questi movimenti sono:
la preparazione del caffè, allacciarsi le scarpe, cucire a macchina…
I movimenti si distinguono, poi, in movimenti aperti e chiusi in base alla classificazione delle abilità
motorie proposta da Poulton. Tuttavia questa classificazione più che riguardare i movimenti in sé, fa
riferimento al contesto in cui i movimenti vengono messi in atto.
- I movimenti aperti sono quelli che si realizzano in un contesto che presenta un alto numero di
variabili che non possono essere controllate. Tipici esempi di movimenti aperti si hanno in tutte
quelle attività sportive in cui l’atleta è opposto ad un avversario e, di conseguenza, egli si ritrova
nella condizione in cui nulla può essere programmato in anticipo perché la sua esecuzione deve
adattarsi ai movimenti dell’avversario. Ne deriva che il successo o meno nei movimenti aperti
dipende in massima parte dalla capacità e dalla velocità di adattamento all’ambiente esterno, ossia
dal repertorio di programmi motori posseduti e dalla capacità di modificare in tempi brevi i valori
delle variabili di movimento specificate all’interno del programma stesso.
- I movimenti chiusi sono quelli che si realizzano in un ambiente stabile, cioè in un ambiente in cui
le variabili sono costanti e controllabili. Nell’ambito delle attività sportive i movimenti chiusi si
hanno nel bowling, nelle gare di ginnastica e in tutte quelle attività in cui le variabili esterne sono
fisse e, di conseguenza, possono essere previste e controllate. Data la prevedibilità ambientale, il
requisito fondamentale per eseguire un movimento in modo adeguato coincide con la corretta
programmazione dell’azione; mentre l’insuccesso può essere dovuto o alla scelta di un programma
motorio non idoneo allo scopo che vogliamo raggiungere, o alla scelta di un programma motorio
corretto ma all’interno del quale ci sono valori errati.
METODI DI MISURAZIONE
I metodi impiegati per la misurazione dei movimenti si distinguono in due gruppi: 1) da un lato ci
sono quei metodi che si propongono di osservare e descrivere le caratteristiche intrinseche al
movimento; 2) dall’altro ci sono quei metodi che misurano l’effetto che il movimento produce,
ossia le conseguenze dell’azione messa in atto. I metodi di misurazione appartenenti al primo
gruppo derivano dalla cinematica, una branca della meccanica che studia le proprietà del moto
indipendentemente dalle cause che lo producono. Applicata al controllo motorio la cinematica si
occupa delle diverse posizioni che il corpo o alcuni segmenti corporei possono assumere nello
spazio.
METODI DI MISURAZIONE DELLE CARATTERISTICHE DEL MOVIMENTO
I metodi di misurazione legati alle caratteristiche del movimento sono particolarmente due: la
registrazione cinematica e la registrazione elettromiografica.
La registrazione cinematica è un metodo usato per rilevare le diverse posizioni spaziali che
compongono la traiettoria di un movimento e le successive posizioni occupate dai segmenti
corporei durante il movimento. Per la rilevazione dello spazio occupato dall’arto si possono
utilizzare varie tecniche, come la ripresa cinematografica la quale consiste nel compiere delle
osservazioni molto dettagliate su una specifica parte del corpo per verificare le modificazioni
spaziali x unità di tempo; in questo modo si riesce a ricostruire la traiettoria seguita e i tempi
impiegati per ogni segmento della traiettoria. Un’altra tecnica simile è quella dei leds, i quali
vengono applicati in varie parti del corpo e forniscono la successione degli spostamenti eseguiti
dall’arto osservato e la completa traiettoria percorsa durante il movimento. Con questo metodo
possono essere misurate anche altre variabili come: la velocità e l’accelerazione nei vari momenti
d’esecuzione dei movimenti.
La registrazione elettromiografica è un metodo che parte dal presupposto che ogni movimento
comporta attività muscolare la quale può essere rilevata, amplificata e misurata. Ne consegue che i
movimenti possono essere suddivisi in base al tipo di attività muscolare necessaria per la loro
esecuzione. Questa tecnica è importante per tre motivi. 1) oltre ad individuare quali muscoli sono
impiegati in un dato movimento essa indica la forza che il muscolo ha prodotto per eseguire un
movimento; 2) la registrazione dell’attività muscolare permette di individuare la successione e la
durata di attivazione e inibizione dei muscoli agonisti e antagonisti implicati nel movimento; 3)
infine la misurazione elettromiografica è importante perché è l’indice più preciso riguardo al
momento d’inizio del movimento.
Confrontando la misura elettromiografica con il tempo di reazione si nota che il momento della
prima contrazione muscolare (tempo di reazione motoria) precede di un tempo abbastanza lungo la
reazione motoria o tempo di reazione, il quale è rilevabile al momento della risposta motoria
osservabile. Invece la misura dell’attività elettrica del muscolo può essere rilevata nel momento in
cui c’è la prima contrazione muscolare, ossia quando il movimento è già innescato ma non è
osservabile.
MISURAZIONE DELL’AMPIEZZA DEL MOVIMENTO
Alcuni metodi di misurazione del movimento si propongono di rilevare gli effetti che esso provoca
sull’ambiente esterno, e in questo caso l’esecuzione del movimento viene misurato lungo 3
parametri principali: l’ampiezza, il tempo impiegato e l’errore commesso.
AMPIEZZA: L’ampiezza del movimento è il più macroscopico dei parametri presi in
considerazione per misurare il risultato dell’attività motoria e degli esempi sono: l’altezza
dell’asticella nel salto in alto o la distanza che deve essere percorsa dal braccio per prendere un
libro riposto su una libreria. Anche se questo parametro è molto importante esso non è stato studiato
in maniera estesa e approfondita dagli scienziati in quanto affrontare lo studio del movimento sotto
questo punto di vista è difficile perché bisogna prendere in considerazione una serie di variabili
difficilmente separabili tra loro e, di conseguenza, diventa complicato saper individuare quella
responsabile della prestazione. Tuttavia è sbagliato ritenere l’ampiezza del movimento una misura
troppo generale e grossolana: infatti tale considerazione si basa sull’idea secondo la quale per
migliorare la prestazione è sufficiente migliorare la potenza muscolare della prestazione stessa. È,
invece evidente, che si può ottenere un miglioramento della prestazione anche attraverso
meccanismi cognitivi.
Anche se nel corso della storia gli scienziati non si sono impegnati a studiare il parametro
dell’ampiezza, un eccezione è stata fatta da Bachman, il quale ha ideato un compito motorio in cui
venivano testate le capacità di equilibro e di coordinazione motoria. I soggetti sottoposti a questo
studio dovevano salire una scala a pioli sfalsati e non appoggiata alla parete sino a quando erano in
grado di a mantenere l’equilibrio; in quel momento veniva misurata l’ampiezza del movimento
effettuato sino a quel punto, ossia sino al piolo raggiunto. La scala di Bachman può essere vista
come un buon esempio di incremento di incremento dell’ampiezza del movimento e, in più, ha
confermato che il miglioramento dell’ampiezza è il risultato di un progressivo apprendimento della
coordinazione e dell’equilibrio e non di un miglioramento della potenza muscolare.
MISURAZIONE DEL TEMPO DI MOVIMENTO E DEL TEMPO DI REAZIONE
Un altro modo per testare la maggiore destrezza nell’esecuzione di un movimento è quello di
misurare il tempo impiegato ad eseguirlo o tempo di movimento. Infatti oltre all’ampiezza, una
variabile che può differenziare due prestazioni motorie è proprio il tempo impiegato per la loro
esecuzione. Se prendiamo in considerazione la scala di Bachman, misurando il tempo che un
soggetto impiega per raggiungere il terzo piolo si ottiene una stima del tempo necessario per
eseguire quel movimento.
Un altro metodo per studiare la velocità del movimento è quello di misurare il numero delle volte in
cui il movimento viene ripetuto nel corso di un’unità di tempo stabilita: ad esempio quante volte si
riesce a battere le mani in 20 secondi. In questo caso se si divide il tempo totale (20 sec) per il
numero delle volte in cui le mani sono entrate in contatto, si ottiene il tempo medio di movimento di
ogni singola battuta. Evidentemente, a parità di altre condizioni, il tempo di movimento sarà
funzione dell’ampiezza del movimento stesso in quanto il tempo impiegato dalle mani x venire in
contatto sarà più lento quanto maggiore sarà la distanza tra le due mani.
Il tempo di reazione, a differenza del tempo di movimento, non risente dell’ampiezza del
movimento e si identifica con il tempo necessario per decidere di eseguire un dato movimento. Più
specificamente, il tempo di reazione misura l’intervallo che va dalla presentazione della
stimolazione sensoriale (input) alla prima reazione osservabile del movimento stesso (output).
Esempio: se ad un soggetto viene chiesto di spostare una leva verso dx in risposta ad una luce rossa
e verso sx in risposta ad una luce verde, per una distanza di 10 cm, il tempo di reazione sarà
l’intervallo di tempo che va dalla presentazione della luce alla prima variazione della posizione
della leva; mentre il tempo di movimento sarà quello che intercorre tra il tempo di reazione (ossia
dal primo mutamento della leva) e il momento in cui il movimento della leva è stato completato.
È importante sottolineare che il tempo di reazione è composto da due fasi: la prima fase è quella
centrale-cognitiva, durante la quale hanno luogo i processi di elaborazione e di codifica
dell’informazione sensoriale in entrata sino allo stadio di selezione della risposta da effettuare. La
seconda fase è quella periferico-motoria, durante la quale si realizza l’attività muscolare dalla prima
contrazione registrabile con l’elettromiografo sino al primo mutamento osservabile esternamente
(ossia sino all’inizio del movimento). Da ciò possiamo dedurre che il tempo totale dell’esecuzione
di un movimento è caratterizzato da diversi stadi: 1) tempo di reazione premotorio, che coincide
con l’intervallo di tempo che va dalla presentazione dello stimolo al primo segnale elettromiografo
registrabile dall’elettrodo posto sul muscolo impiegato nel movimento; 2) tempo di reazione
motorio, il quale coincide con l’intervallo che va dal primo mutamento rilevabile del muscolo
all’inizio del movimento; 3) il tempo di reazione, con il quale si intende l’intervallo di tempo che
intercorre tra la presentazione dello stimolo e l’inizio della risposta motoria; 4) e, infine, il tempo di
movimento che indica l’intervallo tra l’inizio del movimento e il suo completamento.
In generale, il presupposto dalla quale si parte nella misurazione temporale dell’attività motoria è
che quanto più elementari sono i processi cognitivi coinvolti nell’elaborazione dello stimolo, tanto
più veloci sono i tempi di reazione del soggetto. Allo stesso modo, tanto più semplice è il
movimento di risposta richiesto, tanto più rapido è il tempo della sua esecuzione.
Mentre sembra ovvio che due movimenti diversi richiedono tempi di esecuzione diversi, lo sembra
meno che in alcune condizioni il tipo di movimento può influenzare il tempo di reazione. Su questo
ultimo aspetto si è soffermato Klapp, che con un suo studio ha messo in evidenza che dei
movimenti difficili possono provocare un rallentamento nel tempo di reazione; e ciò accade
particolarmente nel momento in cui tale movimento viene programmato in anticipo. Inoltre la
programmazione dipende dall’ampiezza e dalla precisione del movimento stesso ed è per questo che
nel caso di un movimento ampio e per il quale è richiesta un’ampia precisione, non è possibile
compiere una perfetta programmazione in anticipo perché la correttezza del movimento si basa sul
feedback visivo che permette degli aggiustamenti continui durante l’esecuzione. Invece, dei
movimenti che vengono eseguiti in tempi veloci non permettono di elaborare un feedback visivo ed
è per questo che devono essere programmati in anticipi. Dall’analisi di ciò si evince che Klapp ha
ipotizzato che i movimenti ad ampiezza e precisione elevata non provocano un rallentamento del
tempo di reazione; mentre i movimenti molto veloci generano un rallentamento del tempo di
reazione. Per affermare questa sua ipotesi Klapp ha realizzato un esperimento i cui risultati hanno
messo in evidenza che: 1) per i movimenti molto veloci tutti i parametri devono essere specificati e
programmati in anticipo perché durante l’esecuzione del movimento non c’è tempo per effettuare
una qualsiasi correzione. 2) per quanto riguarda la programmazione, tanto maggiore è la precisione
richiesta, tanto più accurato dovrà essere il programma e maggiore il tempo necessario alla sua
costruzione. Inoltre siccome il programma deve essere completato prima dell’inizio del movimento,
il tempo della sua preparazione rientra nel tempo di reazione ed è per questo che i programmi
motori più complessi richiedono tempi di reazione più lunghi. 3) per i movimenti lenti – invece- la
traiettoria può essere guidata dal feedback visivo e anche gli errori possono essere corretti durante
l’esecuzione del movimento stesso. Di conseguenza, in questo caso, non risulta necessaria la
costruzione di un programma motorio.
Infine ci sono alcuni studiosi i quali pensano che il tempo di reazione e il tempo di movimento
dipendono anche da fattori inerenti l’organismo di chi effettua la prestazione. Un lavoro molto
particolare è stato quello di Anson, il quale ha affermato che l’effettore corporeo con il quale si
effettua il movimento sia irrilevante per il tempo di reazione. E un discorso simile vale anche per
l’età, la quale non sembra incidere in modo significativo sui tempi di reazione. Una posizione
diversa è stata presa dalla Hodgkings, la quale ha condotto degli studi su soggetti diversi di età
compresa tra i 6 e gli 83 anni e ha dimostrato che una riduzione dei tempi di reazione e di
movimento si registra nel periodo che va dai 6 ai 20 anni; mentre dopo i 30 anni si osserva una
regolare tendenza al rallentamento di entrambe i parametri.
METODI DI MISURAZIONE DELL’ERRORE DI MOVIMENTO
Un altro modo per misurare l’abilità e la destrezza nell’esecuzione di un movimento è quello che
misura gli errori commessi. Ogni movimento affinchè possa essere considerato corretto deve essere
accurato, cioè deve essere eseguito secondo precisi parametri spazio-temporali. Se, durante
l’esecuzione del movimento, si esce fuori dai calori di tolleranza ammessi si ha l’errore e il mancato
raggiungimento dello scopo previsto. I principali metodi di misurazione dell’errore sono quattro:
1) il metodo dell’errore costante; 2) il metodo dell’errore variabile; 3) il metodo della variabilità
totale; 4) il metodo dell’errore assoluto.
L’errore costante è uno dei metodi che permette di valutare l’accuratezza del movimento
misurando l’errore medio che viene commesso durante ripetute esecuzioni. Tuttavia anche se esso
fornisce un’accurata misura della prestazione ottenuta nell’esecuzione del movimento, non è in
grado di fornire una misura attendibile della distribuzione dei risultati nelle diverse prove. Questo
aspetto viene definito disuguaglianza delle risposte e mentre qui viene ignorato, nel metodo
dell’errore variabile viene preso in considerazione.
L’errore variabile misura la variabilità relativa alla media delle prove effettuate, ed è per questo
che viene riconosciuto come indice della disuguaglianza. Inoltre, siccome questo metodo tiene
conto della variabilità delle risposte, il suo valore sarà tanto alto quanto maggiore è la variabilità;
tanto minore quanto più le risposte risulteranno omogenee. Nonostante la sua grande efficienza,
anche questo metodo di misurazione ha una pecca: non tiene conto della distanza che c’è tra ogni
singola prova e la prestazione corretta; parametro che – invece- viene presa in considerazione dal
metodo dell’errore costante che, però, ignora la variabilità delle prove.
La variabilità totale è un metodo che si ottiene dalla combinazione dell’errore variabile e
dell’errore costante ed essa viene considerata la misura più affidabile dell’errore di movimento.
Molto spesso il valore della variabilità totale e quello dell’errore variabile sono simili, ma nel caso
in cui i dati sono molto distanti dalla prestazione corretta (anche se sono omogenei) i due metodi
forniscono risultati diversi.
Infine, l’ultimo metodo di misurazione dell’errore, è quello dell’errore assoluto, il quale è
composto da elementi che hanno lo stesso significato di quelli dei metodi precedenti ed è molto
simile a quello della variabilità totale perché entrambe si basano sulla differenza tra la prova
effettuata e la prova corretta. Nonostante il metodo dell’errore assoluto sia quello più usato in
letteratura sull’errore di movimento, Schutz e Roy hanno messo in luce alcune riserve relative alla
sua correttezza. Questi autori, a tal proposito, hanno sostenuto che nella formula dell’errore assoluto
l’errore costante e l’errore variabile si combinano in modo complesso e, di conseguenza, può essere
difficile riconoscere l’influenza apportata dai due fattori. Mentre nella formula della variabilità
totale viene effettuata una semplice somma dei due aspetti dell’errore di movimento e quindi la
combinazione tra errore costante ed errore variabile è più chiara.
CONSIDERAZIONI GENERALI SUI METODI DI MISURAZIONE DELL’ERRORE
Dall’analisi di quanto detto sin’ora le principali componenti dell’errore sono due. 1) la misura dello
scostamento tra la prestazione eseguita e la prestazione corretta; 2) la misura della variabilità tra le
varie prestazioni eseguite.
Se da un lato non si può affermare che una componente di errore può essere più importante di
un’altra, da un punto di vista applicativo- invece- è importante individuare quali delle due misure
(errore costante ed errore variabile) è la più utile nella valutazione dell’errore nell’esecuzione di un
dato movimento. Se due atleti di tiro con l’arco raggiungono lo stesso risultato, misurato con il
metodo della variabilità totale, e bisogna selezionarne uno, è meglio scegliere il primo, che ha
un’alta variabilità tra le prove e un errore costante; o il secondo, che fornisce risposte omogenee tra
loro ma con un alto errore costante? La scelta dovrebbe ricadere sul secondo atleta in quanto nel
miglioramento della prestazione l’omogeneità delle prestazioni è più importante della costanza
dell’errore. Infatti mentre al primo atleta manca la coordinazione percettivo-motoria necessaria per
il compito, il secondo atleta possiede il corretto programma di movimento che deve essere solo
tarato per migliorare la prestazione. Infine una serie di studi sull’apprendimento hanno dimostrato
che mentre il miglioramento dell’errore costante viene ottenuto fin dalle prime prove, quello
dell’errore variabile si ottiene dopo un lunghissimo allenamento ( e spesso non viene ridotto in
maniera significativa).
CAPITOLO III
CONTROLLO MOTORIO A CIRCUITO CHIUSO
Con l’espressione “controllo motorio” si indica, da un lato (volendo utilizzare una definizione di
Schmidt) l’area di ricerca che si occupa dello studio di aspetti fisiologici, fisici e psicologici del
movimento; dall’altro indica lo studio della posture e dell’equilibrio, e in particolare l’indagine che
la mente e il corpo svolgono per governarli. Nella max parte dei casi la postura e il movimento sono
determinati e guidati dall’effetto concomitante di feedback periferici e programmi motori centrali.
Pertanto l’attività motoria viene continuamente controllata e corretta grazie al confronto tra
pianificazione centrale e percezione sensoriale periferica.
Per quanto riguarda il ruolo che il controllo motorio esercita sull’esecuzione del movimento, non
esiste nessun tipo di divergenza; mentre una serie di problemi cominciano a nascere nel momento in
cui si cerca di spiegare il modo in cui tale controllo viene esercitato. Su quest’ultimo punto sono
nate una serie di opinioni che, ancora oggi, risultano essere divergenti ma una delle ipotesi che ha
avuto maggiore spessore nel corso della storia è quella che afferma che esistono dei modelli di
funzionamento (e cioè mediante i quali il sistema nervoso centrale organizza, produce e controlla il
movimento) che si distinguono in due categorie: il modello a circuito chiuso e il modello a
circuito aperto.
Il controllo motorio a circuito chiuso o teoria del controllo periferico si basa sulle informazioni
sensoriali che dalla periferia vengono trasmesse al sistema centrale, il quale trae – da questi
feedback- delle informazioni utili x verificare se il movimento viene compiuto in modo corretto. Se,
eventualmente, non è così il sistema nervoso centrale effettua delle correzioni sul movimento in
corso. L’atto di nascita del modello a circuito chiuso può essere fatto risalire al lavoro di Mott e
Sherrington, i quali dimostrarono il ruolo determinante che le sensazioni muscolari e cutanee
ricoprivano per la corretta esecuzione del movimento di un arto di una scimmia.
Il controllo motorio a circuito aperto o teoria del controllo centrale sostiene che il feedback
periferico non nessuna influenza sulla corretta esecuzione del movimento in quanto il sistema è
capace di specificare tutte le informazioni necessarie all’esecuzione del movimento in un
programma. Ciò significa che una volta avviato il programma il movimento è in grado di essere
portato a termine senza l’intervento di informazioni provenienti dai centri periferici. Questo
modello è stato ideato, per la prima volta, da Lashley il quale verificò la presenza di movimenti
corretti anche in totale assenza di feedback periferici.
IL CONTROLLO MOTORIO A CIRCUITO CHIUSO
La teoria del controllo periferico del movimento si basa si un principio fondamentale: il feedback,
in quanto il controllo dei movimenti sensoriali avviene (secondo questo modello) grazie ai feedback
inviati dai recettori periferici che permettono all’organismo di rilevare gli errori commessi e
correggerli. Il circuito che si viene a formare tra: azione da compiere, rilevamento del primo
movimento effettuato, relativo feedback retroattivo, confronto tra movimento pianificato e
movimento eseguito, conseguente modificazione dell’azione, da luogo al circuito chiuso i cui
componenti possono essere isolati e il quale necessita dell’informazione periferica relativa al livello
di prestazione raggiunta. Questa informazione viene poi confrontata con lo scopo iniziale, la parte
esecutiva rileva eventuali errori e, se questi ci sono, invia i comandi di correzione alla parte
effettrice la cui preparazione darà luogo al feedback e così via secondo uno schema a circuito
chiuso. ESEMPIO: Se vogliamo muovere la mano da un punto A ad un punto B, il sistema motorio
(parte esecutiva) inizia il movimento inviando i comandi ai muscoli interessati ( che coincidono con
la parte effettrice). L’attività dei muscoli da luogo ad un feedback, che informa la parte esecutiva
sul movimento che si sta attuando; la parte esecutiva analizza il feedback e, in caso di discrepanza
tra il movimento voluto e quello attuato, verifica l’errore e modifica i comandi inviati ai muscoli.
Pertanto il feedback può essere definito come un’informazione sensoriale relativa al risultato
dell’atto motorio; ma nonostante ciò esistono diverse informazioni che, anche se non si riferiscono
strettamente all’atto motorio, possono assumere grande importanza x il controllo del movimento. I
recettori che rilevano e trasmettono queste informazioni sono: i propriocettori, i quali inviano al
sistema informazioni relative alla posizione del corpo e dei singoli arti nello spazio. Esempi di
propriocettori sono i fusi muscolari e gli organi tendinei del Golgi; gli esterocettori, che forniscono
informazioni relative agli oggetti che si muovono o che vengono a trovarsi nelle immediate
vicinanze del corpo. Esempi di esterocettori sono: i recettori della pelle, dell’occhio, dell’orecchio,
le papille gustative. L’insieme delle informazioni provenienti dai propriocettori e dagli esterocettori,
che il sistema nervoso centrale è in grado di raccogliere e integrare, permette al soggetto di avere
consapevolezza della posizione delle proprie parti del corpo rispetto allo spazio, dei movimenti che
gli arti stanno compiendo e della posizione del corpo in relazione agli oggetti dell’ambiente
circostante. Tuttavia le percezioni che dalla periferia raggiungono il centro, non forniscono solo
informazioni inerenti alla posizione del proprio corpo rispetto agli oggetti dell’ambiente esterno, ma
anche la posizione degli arti rispetto a noi stessi.
Come già abbiamo detto, il sistema a circuito chiuso si basa sul feedback relativo al movimento che
si sta eseguendo e per ottenere tale feedback è necessario l’intervento dei recettori propriocettivi ed
esterocettrici di cui l’organismo dispone. Ma se la funzione del feedback è quella di correggere il
movimento durante la sua esecuzione, ne deriva che questo tipo di controllo è utile solo per quelle
attività motorie che richiedono un tempo di esecuzione relativamente lungo o, comunque,
sufficientemente lungo da permettere al feedback di raggiungere il sistema nervoso centrale prima
che il movimento sia portato a termine. Un buon esempio può essere la guida dell’auto. Dall’analisi
di questa costatazione si evince che per tutti i movimenti veloci la modalità di controllo a circuito
chiuso si dimostra inadeguata perché il feedback non sembra in grado di trasmettere l’informazione
al sistema centrale prima che l’azione sia completata. Nonostante questa posizione sia accettata
dalla maggior parte degli autori è importante sottolineare che non può essere accettata in maniera
univoca, in quanto ci sono stati una serie di esperimenti e studi che hanno dimostrato che questo
sistema di controllo a circuito chiuso risulta efficiente anche in alcune azioni motorie veloci.
LA TEORIA DI ADAMS
Una delle teorie più importanti, legata al modello al circuito chiuso, è quella di Adams la cui
posizione è di particolare interesse perché è quella che più spesso è stata presa come termine di
paragone da posizioni discordanti o alternative ed è anche quella maggiormente supportata da
evidenze empiriche. La teoria a circuito chiuso di Adams nasce come risposta alle posizioni dei
comportamentisti, i quali riducevano il comportamento ad un rapporto di causa-effetto tra lo stimolo
e la risposta. La teoria di Adams – invece- tiene conto delle elaborazioni che hanno luogo tra il
momento della presentazione dello stimolo e l’emissione della risposta e considera il soggetto che
deve apprendere un dato movimento come una parte attiva e non come parte passiva, in grado di
rilevare e correggere l’errore. La teoria (che si basa sulla rilevazione e sulla correzione dell’errore)
prevede la presenza di un meccanismo che indica la correttezza del movimento che si vuole
effettuare; in secondo luogo è necessaria l’informazione relativa ai risultati del movimento che si sta
eseguendo, in modo che questa possa essere confrontata con il movimento che si vuole eseguire. Il
meccanismo che indica il movimento corretto viene definito, da Adams, traccia percettiva la quale
rappresenta un’immagine del movimento che viene messa continuamente a confronto con i
feedback provenienti dalla periferia durante l’esecuzione dell’atto motorio. Se la traccia percettiva e
il feedback coincidono, non ci sono errori; se – invece- questi due elementi non coincidono il
sistema corregge il movimento fino a farlo coincidere con la traccia percettiva. Da ciò è possibile
dedurre che la traccia percettiva è un magazzino in cui specificare le conseguenze sensoriali che il
movimento, per essere corretto, deve aver ottenuto.
Un altro concetto di fondamentale importanza nella teoria di Adams è quello della traccia
mnestica, in cui è contenuta la rappresentazione del movimento che si vuole eseguire. Inoltre il suo
livello di dettaglio migliora con la pratica (ossia con la ripetizione del movimento) perché ad ogni
ripetizione le conseguenze sensoriali vengono implementate e così, attraverso la traccia percettiva,
la traccia mnestica si arricchisce di dettagli che permettono al movimento in essa contenuto di
essere rappresentato ad un livello migliore. Il ruolo della traccia mnestica, nella teoria di Adams, è
quello di selezionare e iniziare la risposta motoria. In sintesi, si può affermare che il sistema di
controllo a circuito chiuso si basa su due elementi:
1) la presenza di un sistema periferico in grado di rilevare l’esecuzione del movimento e trasmettere
i parametri a livello centrale; 2) un tipo di rappresentazione interna del movimento in modo da
confrontare le informazioni provenienti dalla periferia con quelle presenti nel programma motorio e
correggere eventuali errori.
Infine si può dire che il controllo effettuato mediante il modello a circuito chiuso è un controllo
autoregolante e che i parametri relativi alla prestazione desiderata, anche se sono determinati a
livello centrale, sono continuamente sottoposti ad aggiustamenti e modificazioni in conseguenza del
feedback. Pertanto il feedback è un elemento fondamentale in questo tipo di sistema di controllo e,
per questo motivo, molti studi sono stati condotti sull’importanza di esso nel controllo del
movimento. I paradigmi sperimentali più spesso impiegati sono : 1) la misura delle prestazioni
motorie in assenza di feedback; 2) lo studio dell’apprendimento motorio in condizioni in cui il
feedback era manipolato artificialmente.
Una serie di esperimenti all’interno dei quali il feedback non era chiaro hanno messo in evidenza
che se il compito di questo è quello di mandare al sistema nervoso centrale delle informazioni
relative all’esecuzione del movimento, ne consegue che la conoscenza di dei risultati parziali è un
altro presupposto fondamentale della teoria del controllo a circuito chiuso. Per confermare questo
aspetto sono stati condotti una serie di studi (soprattutto da Newell), i quali hanno riconfermato
(empiricamente) che la conoscenza dei risultati è un presupposto fondamentale. Tuttavia Adams
prevede alcune eccezioni per questo principio, affermando che la conoscenza dei risultati è
necessaria nei primi stadi di apprendimento motorio, mentre può essere trascurata negli ultimi stadi.
Ancora, per confermare questo dato, Newell ha fatto un altro esperimento incui 6 gruppi di persone
erano chiamati a svolgere 77 prove. Ai primi 5 gruppi vennero fatti conoscere i risultati solo di
alcune prove; al sesto gruppo i risultati di tutte e 77 le prove. L’esperimento mise in luce che:
quando la conoscenza del risultato viene negata al soggetto nelle prime fasi dell’apprendimento, la
prestazione peggiora; quando invece il soggetto viene privato della conoscenza dei risultati in una
fase avanzata dell’apprendimento, la prestazione non subisce nessun calo. In accordo alla teoria di
Adams, questi risultati sono stati interpretati come l’effetto di un progressivo consolidamento della
traccia percettiva, il quale rende influente l’informazione relativa all’andamento dei risultati. Questo
aspetto è strettamente legato all’apprendimento motorio, il quale rappresenta uno dei punti cruciali
della teoria di Adams. Infatti l’esperimento dimostra che nel momento in cui un movimento viene
ripetuto numerose volte, si verificherà una coincidenza tra i feedback relativi ai livelli parziali della
prestazione e la traccia percettiva (ossia i feedback teorici del movimento corretto). Dato che il
consolidamento della traccia percettiva si riflette in una traccia mnestica sempre più dettagliata, il
movimento rappresentato nella traccia mnestica sarà sempre più simile a quello desiderato, sino a
raggiungere un livello di correttezza tale da non essere corretto dai feedback periferici. Di
conseguenza le informazioni riguardo al risultato sono trascurabile e solo in questo caso si può
parlare di apprendimento motorio. Tuttavia Adams ritiene che questo aspetto non va mai
interpretato in maniera rigida, in quanto anche un movimento appreso può essere esercitato in modo
errato e non raggiungere lo scopo previsto. Perciò è più giusto affermare che il feedback svolge
sempre una funzione di controllo, che –però-entra in gioco solo quando la differenza tra
l’informazione proveniente dalla periferia (riferita al movimento in esecuzione) e la traccia
percettiva supera una certa soglia.
CONTROLLO MOTORIO A CIRCUITO APERTO
Oltre al controllo motorio a circuito chiuso c’è anche il controllo motorio a circuito aperto, il
quale si differenzia dal primo perché non si basa sul feedback, ma in esso il movimento viene
effettuato o in assenza totale di feedback o in presenza di un feedback che, però, non svolge nessuna
funzione di controllo durante l’esecuzione dell’atto motorio. Un primo modello di controllo motorio
a circuito aperto in cui il feedback è presente ma non svolge nessuna funzione correttiva è quello
ipotizzato da James, il quale è stato definito “ipotesi delle risposte a catena”.
L’idea di James può essere riassunta in 3 punti:
- quando si effettua un movimento (in cui inizio è provocato da uno stimolo interno o esterno
all’organismo) questo si accompagna alla contrazione di un muscolo o di un gruppo di
muscoli;
- la contrazione dà luogo ad un’informazione sensoriale che i recettori muscolari trasformano
in un segnale (feedback), il quale funge da stimolo per un nuovo movimento;
- la contrazione necessaria a produrre il nuovo movimento dà luogo ad un nuovo feedback che
fa scattare il movimento successivo e così via.
Da ciò si evince che l’organizzazione del movimento in base alle risposte a catena prevede che il
feedback sia in grado di dare il via al successivo movimento, sino a che non si giunge alla completa
esecuzione dell’azione; ed è per questo che l’ipotesi delle risposte a catena può essere
un’interessante spiegazione per quelle azioni costruite da concatenazioni di singoli movimenti
(come allacciarsi le scarpe). In questo modo appare chiaro che mentre nel modello di controllo a
circuito chiuso il sistema esecutivo prende atto dall’eventuale errore, mettendo a confronto il
movimento che si sta effettuando e quello richiesto e correggendo la prestazione in atto in caso di
errore; nell’ipotesi delle risposte a catena il feedback esercita una funzione diversa: esso non viene
impiegato come correttore del movimento in atto, ma come avviatore del movimento successivo.
MODALITA’ DI CONTROLLO IN RELAZIONE AL TIPO DI MOVIMENTO
Una modalità di controllo ancora più probabile è quella secondo la quale l’intero movimento sia
completamente rappresentato e programmato ai livelli più alti del sistema nervoso centrale e, dopo
essere stato attivato, sia in grado di arrivare a compimento senza l’intervento di nessun tipo di
feedback. In questo caso la funzione del feedback sarebbe quella di correggere eventuali errori del
movimento successivo; mentre il vero perno di tutto il sistema è rappresentato dal programma
motorio, il quale può essere compreso dopo aver fatto un confronto tra sistema di controllo a
circuito chiuso e quello a circuito aperto. Una prima distinzione che si fa tra i due sistemi di
controllo è che quello a circuito chiuso sembra essere la spiegazione più idonea per i movimenti più
complessi e di lunga durata; mentre quello a circuito aperto sembra essere la spiegazione più idonea
per i movimenti veloci. Tale differenza, che fa riferimento alla velocità di esecuzione del
movimento, si basa sul tempo necessario alla trasmissione del feedback. Se, per esempio, si prende
in considerazione un movimento veloce, come l’estensione del gomito, l’esame elettromiografico
rileverà una serie alternata di attivazioni-inibizioni del muscolo agonista e di quello antagonista sino
alla completa esecuzione del movimento. In questa condizione è naturale chiedersi in che modo il
sistema motorio può sincronizzare l’attivazione e l’inibizione dei muscoli agonisti e antagonisti in
assenza di feedback. Un concetto legato a questo problema è quello dei gradi di libertà: a tal
proposito è importante citare Bernstein, il quale teorizzò che se per ogni movimento possibile i
livelli più alti del sistema nervoso dovessero specificare sia i tempi di attivazione-inibizione dei
muscoli agonisti e antagonisti, sia la loro corretta coordinazione, si verificherebbe un forte
allungamento dei tempi di risposta. A questo punto Bernstein (con altri due studiosi) ha ipotizzato la
presenza di una struttura di coordinamento mediante la quale i vari gradi di libertà verrebbero
condensati dal sistema motorio. Ciò comporterebbe che i vari muscoli che intervengono nel
movimento di un’articolazione e le diverse articolazioni che intervengono in un movimento più
complesso verrebbero raggruppate e trattate come una singola unità e, di conseguenza, la funzione
svolta dalla struttura di coordinamento è quella di coordinare le varie articolazioni coinvolte in un
movimento in modo che la variazione di un’articolazione può essere bilanciata da una variazione di
senso opposto di altre articolazioni e dar vita ad un movimento che – in questo modo- viene
controllato nella sua completezza.
FFEDBACK O PROGRAMMA MOTORIO?
Nel sistema di controllo a circuito chiuso, l’elemento fondamentale è rappresentato dal feedback;
nel sistema di controllo a circuito aperto, l’elemento fondamentale è rappresentato dal programma
motorio, il quale rappresenta un’alternativa all’ipotesi del feedback solo per quei processi che
avvengono durante l’esecuzione del movimento in quanto l’importanza del feedback, relativa alla
modifica e alla correzione del movimento dopo la sua esecuzione, non viene mai messa in
discussione. Lo schema fondamentale del sistema di funzionamento del movimento mediante il
programma motorio è quello ideato da Keele e da Summers, il quale mette in luce che: nel momento
in cui l’organismo viene stimolato da un input interno o esterno, ciò provoca il bisogno di eseguire
un certo movimento; tale volontà di esecuzione si traduce nell’attivazione delle aree cerebrali (dove
hanno sede i programmi motori) e attraverso la corteccia motoria e le vie motorie efferenti, il
comando di movimento viene inviato ai muscoli. Il movimento provocato dai muscoli provoca vari
segnali di feedback (che possono essere propriocettivi o esterocettivi), i quali nel momento in cui
arrivano in un centro di confronto, vengono comparati con i feedback previsti dal programma
motorio; se i feedback non coincidono con quelli attesi, ciò significa che il movimento non è stato
eseguito correttamente ed è per questo che bisogna correggere il programma di movimento o
selezionarne uno completamente nuovo.
Dopo aver analizzato le ipotesi relative ai due sistemi di controllo: quello chiuso e quello aperto, e
possibile affermare definitivamente che nel primo la presenza del feedback è necessaria in quanto
senza di esso mancherebbe l’esecuzione stessa del movimento. Nel secondo, invece, il feedback
viene impiegato solo per la correzione del movimento successivo: pertanto l’esecuzione del
movimento si realizza anche in assenza di feedback.
CONFERME AL PROGRAMMA MOTORIO: STUDI SUGLI ANIMALI
Per confermare le ipotesi legate al sistema di controllo a circuito aperto sono stati condotti una serie
di studi (sia sugli animali che sugli uomini) che – se pur in contrasto tra loro- hanno fornito
numerose indicazioni a favore dell’ipotesi della presenza di un programma motorio.
Gli animali rappresentano un terreno di studio molto favorevole per verificare quanto il feedback
influenzi l’esecuzione del movimento, ed è per questo che sono stati condotti diversi esperimenti i
quali hanno confermato l’esistenza di un programma motorio.
ESPERIMENTO DELLE SCIMMIE: Taumb e Berman hanno reciso le vie sensoriali afferenti ad
un arto ad una scimmia, in modo da impedire il normale feedback cinestesico ed osservare i
successivi movimenti dell’arto stesso. Generalmente, dopo la lesione, la scimmia non utilizzava
l’arto né per muoversi né per svolgere altre attività; ma se le veniva immobilizzato anche l’altro
arto, dopo alcuni giorni la scimmia ricominciava ad utilizzare l’arto privo di feedback e continuava
ad utilizzarlo anche quando l’altro veniva liberato. Da questo esperimento, ed altri simili, gli autori
conclusero che, siccome le scimmie erano in grado di eseguire tutti i movimenti anche in assenza di
feedback, era lecito sostenere che il movimento è guidato e controllato da un programma motorio
centrale. Tuttavia è importante sottolineare che ciò vale soprattutto per le attività manipolatorie e
meno per le attività legate alla deambulazione, in quanto questa viene integrata – per gran parte- a
livello spinale.
ESPERIMENTO DEL GATTO : Un altro esperimento molto importante è stato quello di
Fentress, il quale analizzò il “grooming” del gatto, ossia quel comportamento innato che è
costituito da tutti i movimenti di pulizia dell’animale. Lo studioso osservò il gatto durante il
grooming e individuò una tipica catena di movimenti che esso eseguiva con la zampa; allora imputò
la zampa all’animale (in quanto essa rappresentava l’organo che generava il feedback) e notò che –
nonostante tutto- il gatto continuava a compiere quella stessa catena di movimenti anche in assenza
di feedback. Dall’analisi di ciò Fentress confermò la centralità del programma motorio.
ESPERIMENTO SUGLI UCCELLI: Lo studioso Nottebohm ha studiato l’apprendimento del
canto degli uccelli perché oltre ad essere una forma di linguaggio, si basa su una complicata attività
motoria sottostante. Questo studioso dimostrò che se si preleva un uccello dal nido pochi giorni
dopo la nascita e lo si alleva, nel momento in cui gli organi del canto maturano, il canto dell’uccello
allevato in isolamento sarà più rozzo e carente rispetto a quello dei suoi coetanei. Se –però- questo
uccello viene messo a contatto con uccelli adulti, il suo canto migliorerà sino a raggiungere livelli
normali. Con questo esperimento Nottebohm ha dimostrato che gli uccelli, per poter sviluppare una
capacità di canto normale, hanno bisogno di stare con gli uccelli più adulti in da modificare e
incrementare la propria prestazione attraverso il confronto.
Se poi l’uccello, dopo essere stato esposto al canto dell’adulto - ancor prima di riuscire a cantareviene reso sordo, la sua capacità canora sarà compromessa per sempre. Se – però- l’uccello viene
reso sordo dopo aver imparato a cantare, la capacità canora resta inalterata per almeno un anno dalla
lesione. Con questo suo esperimento Nottebhom ha messo in evidenza che se il programma motorio
non si è formato, la prestazione non può realizzarsi senza le presenza del feedback; se – invece- il
programma motorio si è formato la prestazione può andare avanti anche in totale assenza di
feedback. Inoltre gli esperimenti di questo studioso hanno messo in luce un altro aspetto rilevante:
l’importanza del feedback per la formazione del programma motorio.
Infine un importante lavoro, condotto da Taumb e Berman sulle scimmie, ha dimostrato come il
controllo del movimento sia centrale. In questo esperimento gli animali sono stati deafferentati x un
lato del corpo, in modo da privare l’arto superiore di qualsiasi afferenza o feedback sensoriale. Il
risultato è stato che l’animale usava l’altro arto superiore, trascinando passivamente quello
lesionato. Allora lo studioso ha immobilizzato anche l’altro arto e, a questo punto, l’animale ha
ripreso ad utilizzare entrambe gli arti per svolgere tutte le attività che per lei sono vitali. Questo
esperimento ha dimostrato che i feedback sensoriali non sono indispensabili per il movimento,
anche se nel caso in cui un solo arto è lesionato l’animale tende ad utilizzare quello che mantiene la
ricezione dei feedback; e che il controllo centrale del movimento può essere mantenuto grazie ad
una rappresentazione mentale dei pattern d’azione che rende il feedback non necessario.
CONFERME AL PROGRAMMA MOTORIO: STUDI SUGLI UOMINI
Per quanto riguarda gli studi condotti sugli uomini, un primo lavoro è stato quello di Lashley: ad un
paziente (colpito da un arma da fuoco) che aveva subito l’interruzione delle vie sensoriali afferenti
agli arti inferiori, Lashley chiese di muovere le gambe fino ad assumere determinate posizioni del
ginocchio. Nella prova veniva escluso anche il feedback esterocettivo, ossia il controllo visivo della
posizione delle gambe; e i risultati dimostrarono che il paziente era capace di eseguire il movimento
in modo corretto, al pari di un soggetto di controllo. La conclusione alla quale si giunse è stata
quella che il feedback propriocettivo dell’arto impegnato nel movimento non è necessario per
l’esecuzione dell’atto motorio.
Un atro autore molto importante è stato Rothwell che, con i suoi colleghi, ha studiato soggetti
umani che – colpiti da gravi neuropatie- si trovavano in condizioni simili alle scimmie deafferentate
di Taumb e Berman. Questi soggetti non conservano né la percezione della posizione nello spazio,
né la sensazione tattile, ma nonostante questo mantengono la capacità di effettuare movimenti
complessi. Il risultato di tale esperimento dimostra che i movimenti sono generati a livello centrale ,
senza l’intervento di feedback; ma è importante sottolineare che l’esperimento non dimostra la
totale inutilità del feedback in quanto dimostra che nei movimenti che coinvolgono più
articolazioni, la precisione diminuisce in maniera evidente se manca il feedback.
Circa 50 anni fa, Henry e Rogers crearono una condizione sperimentale in grado di mettere in luce
la presenza o meno del programma motorio. Essi partirono da un presupposto preciso: il tempo di
caricamento del programma motorio, e – in riferimento a ciò- ipotizzarono che se un movimento è
guidato da uno specifico programma motorio, dei movimenti più complessi sono guidati da
programmi motori più complessi i quali dovranno essere selezionati e caricati prima di iniziare il
movimento. Da ciò si può dedurre che la selezione e il caricamento di programmi motori più
complessi richieda un tempo maggiore e quindi, partendo da questa ipotesi, Henry e Rogers hanno
dimostrato che il tempo di reazione ( intervallo che intercorre tra la presenza dello stimolo e l’inizio
del movimento) di un movimento aumenta con l’aumentare della complessità di esso.
Per confermare questa loro costatazione, i due studiosi hanno fatto un esperimento in cui dei
soggetti erano chiamati a svolgere un atto motorio dopo la comparsa di uno stimolo. Nella prima
condizione l’atto motorio richiesto era abbastanza semplice, nella seconda un po’ più complesso,
nella terza ancora più complesso. Il risultato fu che mano a mano che aumentava la complessità del
movimento, aumentava anche il tempo di reazione, mettendo – così- in evidenza che il ritardo era
dovuto o all’incremento del tempo di programmazione del movimento richiesto, o all’incremento
del tempo necessario al caricamento di un programma.
Anche Klapp, Anderson e Berrian hanno condotto un esperimento che, basandosi sulla relazione tra
la complessità del programma motorio e del tempo di coordinamento, ha confermato l’ipotesi
secondo la quale l’aumento della complessità del movimento e l’aumento del tempo di reazione
sono direttamente proporzionali. Un obiezione a questi risultati potrebbe essere quella che mette in
luce che la differenza nei tempi non è dovuta ai tempi di caricamento dei diverdsi programmi
motori, ma al maggior tempo necessario per la percezione e l’elaborazione di uno stimolo visivo più
complesso. Per rispondere a questo tipo di critica, gli autori sottoposero i soggetti ad un secondo
compito in cui lo stimolo era rappresentato dalla figura di un oggetto o di un animale e i soggetti
dovevano dire il nome di quell’oggetto o di quell’animale. Il risultato di questo esperimento non
fece altro che confermare quello del compito precedente ed è per questo che gli autori conclusero
che l’attività motoria implicata nella verbalizzazione di parole non è guidata dal feedback, ma da un
programma motorio e il tempo di caricamento del programma è funzione della sua complessità.
L’ipotesi della presenza di un programma motorio è stata testata anche in un lavoro di Keele e
Posner, i quali hanno misurato l’effetto del feedback su movimenti effettuati a diverse velocità. In
questo caso il compito dei soggetti era quello di spostare la mano da un punto A ad un punto B in
tempi prestabiliti dallo sperimentatore. Dopo un lungo addestramento i soggetti imparavano ad
eseguire i movimenti nei tempi richiesti e, una volta che i tempi di movimento furono correttamente
appresi, occasionalmente veniva spenta la luce durante l’esecuzione dell’atto motorio in modo da
impedire il feedback su di esso. Il risultato di questo esperimento ha messo in evidenza che la
probabilità di errori – causati dall’assenza del feedback visivo- era maggiore nei movimenti
effettuati in un tempo superiore ai 250 millesimi di secondo; mentre al di sotto di questo tempo, la
presenza o l’assenza del feedback non influiva sulla correttezza della risposta. Dall’analisi di questo
esperimento e di altri simili si può concludere che: mentre per i movimenti lenti il tipo di controllo
esercitato può avvenire mediante un modello a circuito chiuso; per i movimenti veloci è opportuno
un modello di controllo a circuito aperto, dotato di un programma motorio preparato in anticipo.
STRUTTURA GERARCHICA E CONTENUTO DEL PROGRAMMA MOTORIO
Da questi diversi esperimenti (condotti sia sugli animali che sugli uomini) è stato possibile
verificare che una gran parte dei movimenti sono guidati dal programma motorio. Ma in relazione a
ciò nasce spontanea una domanda: in che modo le singole caratteristiche del movimento sono
specificate all’interno del programma motorio? Per rispondere a tale quesito è opportuno definire,
dapprima, cosa si intende per programma motorio. Molti autori hanno definito quest’accezione in
base alle loro idee, ma – in generale- x programma motorio si intende una rappresentazione astratta
della sequenza di un’azione. Inoltre si è ritenuto importante stabilire- su di un livello più specifico-
quali informazioni sono contenute all’interno del programma e come esso sia organizzato. A tal
proposito, numerosi studi hanno cercato di dimostrare che nel programma motorio non ci sono
informazioni relative ai muscoli implicati nel movimento, bensì delle informazioni che si
riferiscono a valori di variabili più generali come: la velocità, la forza e l’ampiezza del movimento.
Da ciò si può dedurre che i muscoli e gli arti impiegati in un dato movimento vengono specificati
solo in uno stadio successivo del programma. Dato che le info relative ai muscoli si trovano su di un
livello gerarchicamente basso, ne consegue che programmi motori relativi a muscoli effettori
diversi possono condividere tutti i livelli più alti del programma motorio. Per questo motivo gli
studi che si sono occupati dell’organizzazione gerarchica del programma motorio hanno affermato
che: se esso è rappresentato centralmente e in esso sono contenute le informazioni relative agli
aspetti più generali del movimento, allora è possibile pensare che non esistono tanti programmi
quanti sono i movimenti possibili, ma movimenti simili fanno capo allo stesso programma motorio,
differenziandosi solo x quanto riguarda i muscoli impegnati. Questa ipotesi è stata confermata
dall’esperimento di Raibert il quale chiese ad un soggetto di scrivere una frase prima con la mano
dx su un foglio; poi con la mano dx su una lavagna; poi con la mano sx su un foglio; poi la penna fu
tenuta nella bocca e, infine, con il piede destro. Il risultato fu che la calligrafia, nelle 5 condizioni,
era simile e ciò è stato importante perché da un lato ha dimostrato che esiste un programma motorio
per la scrittura e- dall’altro- ha confermato l’organizzazione gerarchica del programma. Infatti la
straordinaria somiglianza della calligrafia si baserebbe – secondo l’autore- sull’unicità del
programma motorio impiegato il quale varierebbe solo nelle zone periferiche.
Una seconda ipotesi che si può formulare relativamente all’organizzazione gerarchica del
programma motoria è quella secondo la quale un dato movimento è dato e guidato dallo stesso
programma motorio, anche nel caso in cui si cambia l’arto effettore. Se ciò è vero, ne consegue che,
quando il movimento viene svolto da un arto diverso deve trasferirsi, dal vecchio al nuovo
programma, oltre ai comandi relativi ai muscoli anche eventuali modifiche del programma stesso.
Uno studioso che ha cercato di sostenere tale ipotesi è stato Rosenbaum, il quale ha dato vita ad un
esperimento in cui chiese ad un gruppo di soggetti di girare una manovella x 30 sec; ad un secondo
gruppo di spostarla avanti e indietro sempre in 30 sec. La prestazione fu misurata in numero di
movimenti svolti nel tempo concesso per la prova, la quale ha provocato nei soggetti un
affaticamento (non solo muscolare, ma anche mentale). Nella seconda parte dell’esperimento ad un
gruppo è stato chiesto di ripetere il movimento precedente; ad un altro gruppo è stato chiesto di
eseguire un movimento diverso e il risultato ha messo in evidenza che la prestazione peggiore si è
registrata quando il movimento da effettuare nella seconda parte dell’esperimento era analogo a
quello svolto nella prima parte. Secondo Rosenbaum, il fatto che nella condizione in cui deve essere
ripetuto il movimento si ottiene una prestazione peggiore rispetto a quando i due movimenti
differiscono è una indiretta conferma dell’esistenza del programma motorio e della sua
organizzazione gerarchica. Inoltre se il trasferimento di uno stesso movimento da un arto all’altro
richiede un costo più elevato rispetto al trasferimento di movimenti diversi, ciò significa che nel
primo caso è lo stesso programma che deve essere impiegato nelle 2 condizioni e quindi la
stanchezza accumulata nella prima parte viene trasferita nella seconda condizione sperimentale.
Benché la conclusione alla quale è giunto Rosenbaum rappresenta un passo avanti verso la
comprensione dell’organizzazione gerarchica del programma motorio, non si può dire che mancano
delle parti oscure relative – in particolar modo- al concetto di affaticamento. Innanzitutto bisogna
chiarire che il termine affaticamento non fa riferimento solo all’aspetto muscolare del movimento,
ma anche alla sua rappresentazione astratta; in secondo luogo sarebbe opportuno spiegare come
l’affaticamento viene rappresentato all’interno del programma motorio e come l’esecuzione del
movimento risentirebbe di questa rappresentazione.
Tutti gli esperimenti fin qui citati hanno messo in evidenza che nel momento in cui viene attuato un
controllo del movimento a circuito aperto, l’esecuzione del movimento avviene anche in assenza di
feedback. Tuttavia, per eseguire un movimento corretto in assenza di feedback occorre che
l’organismo si crei una rappresentazione mentale del movimento in cui sono rappresentati due
parametri particolarmente: 1) la distanza; 2) la posizione finale. A tal proposito è importante
prendere in considerazione l’esperimento di Bizzi e colleghi, durante il quale ai soggetti veniva
mostrata una luce – che dopo si spegneva- e, dopo, gli veniva chiesto di raggiungere la posizione in
cui era stata rappresentata la luce. Le modalità attraverso le quali i soggetti giungevano a compiere
il movimento correttamente (dopo diverse prove) coincidevano con la costruzione di una
rappresentazione mentale o del movimento desiderato basato sulla distanza, o della posizione finale
basata sulla posizione spaziale di arrivo del movimento, che è quella più probabile secondo gli
sperimentatori.
Un altro studio è stato effettuato su delle scimmie deafferentate le quali sono state sottoposte ad un
compito di “pointing” (indicazione) durante il quale hanno applicato all’arto che non riceveva il
feedback una forza contraria , in modo da mantenerlo – per alcuni secondi- nella posizione iniziale.
Il dubbio era se l’animale riusciva a portare l’arto nella posizione corretta; il risultato fu favorevole
e con ciò è stato dimostrato che la rappresentazione dei comandi d’azione che sottostanno ad un
movimento può essere visto come il passaggio dalla posizione di partenza alla posizione di arrivo
del movimento.
CAPITOLO V
APPRENDIMENTO MOTORIO
Molto spesso si fa confusione tra controllo motorio, sviluppo motorio e apprendimento motorio in
quanto i confini di queste aree sono molto sfumati e le competenze di ognuno dei 3 settori si
sovrappongono agli altri due.
Per controllo motorio si intende lo studio dei substrati neurofisiologici del sistema motorio;
per sviluppo motorio si intende lo studio delle abilità motorie del bambino (con particolare
riferimento allo sviluppo filogenetico - o evolutivo- dei movimenti);
per apprendimento motorio si intende lo studio delle modalità di acquisizione di nuove abilità da
parte di soggetti adulti.
STADI DI APPRENDIMENTO DELLE ABILITA’ MOTORIE
Prima di capire cosa si vuole intendere parlando di apprendimento motorio, è importante chiarire –
prima- cosa si intende per abilità motoria. A tal proposito si può fare riferimento alla definizione di
Bennet, il quale ha affermato che ci si trova in presenza di un’abilità motoria quando il movimento
raggiunge un livello elevato nelle caratteristiche di economicità (ossia minor sforzo) e velocità.
Molti anni dopo tale definizione è stata confermata empiricamente da una serie di studiosi: Kamon
e Gormley hanno messo in evidenza come durante l’esecuzione di un esercizio ginnico la durata
dell’attivazione di vari muscoli di ginnasti esperti risultava inferiore a quella degli stessi muscoli di
soggetti principianti. Per quanto riguarda la velocità, importante è stato il lavoro di Crossman
durante il quale fu messa in relazione la velocità di esecuzione di un compito motorio con la durata
del periodo di pratica effettuata per quel compito. Con un esperimento – condotto in una fabbrica di
sigari- Crossman ha dimostrato che il miglioramento della prestazione può continuare anche dopo
periodi di pratica estremamente prolungati.
Un altro grande studioso è stato Fitts, il quale ha affermato che è possibile distinguere 3 fasi
dell’apprendimento motorio: la fase cognitiva, la fase associativa e la fase di automazione. Nella
fase cognitiva vengono prese le decisioni che permettono i primi tentativi di esecuzione del
movimento. Tali decisioni sono facilitate dalla verbalizzazione del movimento che si sta compiendo
e dalle strategie adottate per compierlo. Nella fase associativa i vari movimenti che compongono la
prestazione vengono condensati in un’unica azione e nell’ultima fase ha luogo l’automazione dei
processi cognitivi sottostanti l’attività motoria in modo che il sistema di controllo operi in modo
molto ridotto. L’automazione dei processi raggiunta nella terza fase è testimoniata anche dalla
difficoltà dei soggetti a verbalizzare le operazioni che vengono svolte durante la prestazione. Ciò
accade perché le risorse attentive hanno una capacità limitata, pertanto nel momento in cui un
movimento viene automatizzato tali risorse vengono impiegate in attività diverse, che si svolgono
parallelamente a quella automatizzata.
FASE COGNITIVA
Nella fase cognitiva viene messo in atto il modo più diretto per insegnare un’attività motoria a chi
ne è completamente all’oscuro; tale modo è quello di dare una dimostrazione pratica dell’attività
stessa, ossia mimare il movimento. Infatti, nelle prime fasi di apprendimento motorio è molto
difficile insegnare il movimento attraverso le parole, ed è per questo che i movimenti vengono
mostrati e mimati, in modo da dare al soggetto di percepirli e memorizzarli. In questo caso si parla
di apprendimento per imitazione. Per quanto riguarda la percezione del movimento non ci sono
particolari problemi; per quanto riguarda la memorizzazione del movimento è importante
sottolineare che x memorizzare l’attività motoria che deve essere appresa, il soggetto deve
individuare e sottolineare le caratteristiche cruciali del movimento osservato. Quest’ultimo aspetto è
legato al livello di conoscenza motoria posseduto da chi deve apprendere, il quale deve essere preso
in considerazione da chi imita, in modo da modulare la rappresentazione secondo diversi gradi di
specificità. Tuttavia, mimare il gesto che deve essere appreso non è l’unico modo per trasferire
un’abilità motoria ad un soggetto, il quale nelle prime fasi di apprendimento è costretto ad
impiegare molte risorse attentive per imparare un’azione motoria, i cui diversi movimenti devono
essere isolati e memorizzati singolarmente.
Newell ha affermato che i compiti motori che hanno nel suono la loro caratteristica principale
possono essere appresi più velocemente se chi li deve apprendere viene sottoposto all’ascolto del
suono prodotto dal movimento numerose volte.
Un’ulteriore modalità di apprendimento è quella del movimento guidato: il braccio, la gamba o il
corpo di chi deve apprendere è guidato passivamente dall’insegnante durante l’esecuzione del
movimento. Tale tecnica viene impiegata nel campo dello sport (come il tennis), ma nonostante
tutto fornisce risultati modesti, forse a causa della passività a cui il soggetto è costretto. Infatti
durante l’esecuzione autonoma il soggetto compie una serie di errori che funzionano da feedback
per il miglioramento della prestazione; mentre durante l’esecuzione del movimento guidata il
soggetto non compie errori e, di conseguenza, vengono a mancare quei feedback che possono
condurre ad un miglioramento della prestazione
FASE ASSOCIATIVA
La fase associativa è uno dei momenti più importanti dell’apprendimento motorio in quanto è
proprio in questo momento che avviene la fusione di ogni singolo movimento in un unico insieme
che costituisce l’abilità motoria. Il principio della fusione delle singole parti costituenti l’attività
motoria è in relazione con il problema del trasferimento delle capacità apprese da un movimento ad
un altro. Per poter condensare e rendere più veloci due o più movimenti bisognerebbe trasferire le
variabili (già apprese) del primo movimento al secondo; tuttavia il trasferimento di tali variabili
deve fare i conti con l’organizzazione gerarchica del controllo motorio, secondo la quale al livello
più basso ci sono le variabili specifiche (come i muscoli implicati nel movimento), al livello più alto
c’è una rappresentazione del movimento che prescinde dallo specifico arto o dai particolari gruppi
di muscoli impiegati nel movimento. Questi livelli si differenziano ulteriormente e nettamente per
quanto riguarda la possibilità di trasferimento delle abilità motorie apprese: infatti mentre il
trasferimento dei parametri contenuti ai livelli più bassi è nullo, la più generale rappresentazione
dell’azione contenuta ai livelli più alti può essere trasferita tranquillamente ad altre azioni simili. Un
esempio che può chiarire questo punto è quello della guida dell’automobile: se chiediamo ad un
soggetto di frenare con il piede sinistro, egli effettuerà un movimento corretto in alcune parti (ossia
nell’azione di pressione) e molto approssimativo e impreciso in altri (la frenata sarà o troppo
immediata o troppo ritardata). Da ciò si deduce che ad un livello più alto e più generale è
rappresentata la finalità dell’azione, che è centralizzata e comune ad entrambe gli arti; su ad un
livello più basso e più specifico non è possibile trasferire un’azione da un arto all’altro. Pertanto si
può concludere che la fase associativa è contraddistinta da un processo di compattamento delle
attività motorie. Tale compattamento avviene mediante il trasferimento di abilità contenute in
movimenti già appresi ad altri movimenti che non sono stati appresi e appartengono a classi
generali di azioni comuni.
FASE DI AUTOMATIZZAZIONE
Il problema dell’apprendimento di abilità motorie può essere messo in relazione alla
categorizzazione di Poulton, il quale distinse i movimenti in aperti e chiusi. I movimenti chiusi sono
quelli messi in atto in un ambiente stabile, ossia in un ambiente dove le variabili sono costanti e
prevedibili; i movimenti aperti sono quelli messi in atto in un ambiente che presenta dei fattori che
possono cambiare continuamente e che quindi non sono prevedibili. Anche nell’ambito
dell’apprendimento motorio i movimenti seguono tale distinzione: infatti un movimento si definisce
aperto nel momento in cui durante la sua esecuzione il soggetto non è in grado di predirne
l’andamento e il valore delle variabili presenti; mentre un movimento si definisce chiuso quando
l’autore del movimento è capace di effettuarlo (dopo un periodo di pratica) in un ambiente per lui
prevedibile e controllabile. Il passaggio dal movimento aperto a quello chiuso rappresenta il
processo di automazione del movimento, ossia la possibilità di effettuarlo in maniera automatica
concentrando le risorse attentive su altre attività. Una dimostrazione del passaggio dal movimento
aperto al movimento chiuso coincide con l’esperimento di Lang in cui c’erano due gruppi di
soggetti posti davanti allo schermo di un Pc il cui compito era quello di muovere una leva che
attivava un cursore nello schermo. Il compito consisteva nel raggiungere con il cursore uno stimolo
visivo che si spostava o in direzione orizzontale o in direzione verticale. Per un gruppo la traettoria
seguita dallo stimolo variava in maniera casuale e, quindi, nulla era prevedibile; per l’altro gruppo
la variazione avveniva solo lungo la dimensione orizzontale, attorno la quale lo stimolo seguiva una
traiettoria ciclica che si ripeteva ogni due secondi. Il risultato di quest’esperimento dimostrò che il
primo gruppo, nonostante le numerose prove, non raggiunse nessun miglioramento nella
prestazione; mentre la prestazione del secondo gruppo migliorò in relazione alla dimensione
orizzontale, in quanto questo dato era prevedibile; mentre per la direzione verticale non ci fu nessun
miglioramento in entrambe i gruppi. Tuttavia i due gruppi si differenziarono anche per la
dimensione verticale perché - anche se nessuno dei due gruppi presentò un miglioramento nella
prestazione legata a questa traiettoria- il secondo gruppo riuscì a raggiungere dei risultati migliori
rispetto al primo anche sotto questo punto di vista. Ciò si è verificato perché automatizzando il
movimento legato alla traiettorie orizzontale, tutti i soggetti hanno impiegato la maggior parte delle
loro risorse attentive sul movimento legato alla traiettoria verticale., con un conseguente
miglioramento delle risposte anche sotto questo punto di vista.
TEORIE DELL’APPRENDIMENTO MOTORIO
L’apprendimento motorio – nella sua assunzione più generale- può essere considerato la
conseguenza dell’acquisizione di una più corretta rappresentazione dell’azione, che può riferirsi sia
allo specifico movimento appreso sia ad una più generale classe di azioni a cui il movimento
appartiene. Nel primo caso il rapporto tra rappresentazione ed esecuzione dell’azione è di “uno ad
uno” e ad esso si lega la teoria di Adams; nel secondo caso tale rapporto è di “uno a molti” e ad esso
– invece- si lega la teoria di Schmidt.
TEORIA DI ADAMS
La teoria dell’apprendimento motorio a circuito chiuso di Adams prevede che l’atto motorio si basi
su due unità: la traccia mnestica, che seleziona e da avvio ad un movimento in seguito ad un atto di
volontà; la traccia percettiva, la quale controlla e modifica il movimento confrontando quello voluto
con quello effettuato. La traccia percettiva si forma mediante i feedback interni ed esterni del
movimento effettuato ed è x questo che Adams ritiene che nelle prime fasi dell’apprendimento
motorio la percezione del movimento rappresenta un feedback privilegiato per la costruzione della
traccia percettiva, ma con l’aumentare della pratica la traccia percettiva diventa un’immagine
motoria che si imprime nella nostra memoria.
L’ipotesi dell’esistenza di due strutture diverse nell’azione motoria è giustificata da 3 ragioni
teoriche: 1) prima di tutto la struttura che seleziona e da inizio al movimento non può essere la
stessa che controlla e confronta il movimento in atto, perché se così fosse si otterrebbe il paradosso
di un movimento che si confronta con se stesso. 2) in secondo luogo la traccia percettiva si basa sui
feedback provenienti dal movimento, i quali hanno luogo durante o dopo l’esecuzione del
movimento ed è per questo che essa non può essere responsabile dell’esecuzione del movimento
stesso. 3) in terzo luogo le due strutture sono responsabili di due diversi processi: la traccia
mnestica è deputata al ricordo-richiamo del movimento attraverso il quale permette di iniziare il
movimento; la traccia percettiva è deputata al riconoscimento del movimento in atto, dando luogo
ad un processo di riconoscimento e valutando la correttezza rispetto al movimento voluto.
Secondo Adams, l’apprendimento motorio avviene mediante due stadi successivi: lo stadio verbalemotorio e lo stadio motorio. Lo stadio verbale-motorio avviene nelle prime fasi
dell’apprendimento ed è caratterizzato da un controllo verbale cosciente e da un numero elevato di
errori. A questo stadio di apprendimento il soggetto non ha avuto un’esperienza sufficiente per
verificare le conseguenze del proprio movimento ed è per questo che deve basarsi sulla percezione
dei risultati della propria azione per decidere se questa è stata effettuata in modo corretto o meno.
Con l’aumento della pratica la conoscenza del risultato è sempre meno necessaria in quanto la
traccia percettiva può formarsi esclusivamente sui feedback di tipo cinestesico. Nello stadio
motorio la traccia percettiva si consolida e diviene una forma di rappresentazione interna del
movimento; essa è molto consistente e resistente al decadimento. A questo livello l’abilità motoria è
già appresa ed è per questo che la pratica comporta solo il miglioramento della prestazione. Un
esempio può essere considerato l’imparare a portare la bicicletta.
Come qualsiasi grande teoria, anche quella di Adams ha ricevuto numerose critiche, le quali si sono
concentrate su 2 punti particolarmente: 1) il rapporto tra la traccia mnestica e i movimenti in essa
contenuti; 2) il problema dell’esecuzione di movimenti mai effettuati in precedenza. Per quanto
riguarda il primo punto, risulta difficile ammettere l’esistenza di tante tracce mnestiche x quanti
sono i movimenti appresi, perché tale organizzazione comporterebbe una grande mole di lavoro sia
x l’immagazzinamento di ogni singolo movimento, sia per il suo recupero.
Per quanto riguarda il secondo punto la questione diventa più complessa in quanto se la traccia
mnestica è necessaria per iniziare un movimento, ed essa si è formata dopo una serie di ripetizioni
di quella stessa azione motoria, il processo descritto sembra seguire un criterio circolare di difficile
comprensione. A ciò si aggiunge il fatto che 2 movimenti non possono mai essere uguali, pertanto
la ripetizione di un gesto non è mai la copia esatta dell’atto motorio precedente e – di conseguenzail secondo è un movimento nuovo. Questo schema basato sul rapporto “uno ad uno” è stato
modificato da Schmidt, il quale ha proposto un modello di apprendimento motorio basato su un
rapporto di “uno a molti”.
TEORIA DI SCHMIDT
La teoria di Schmidt viene definita teoria dello schema ed essa è riuscita ad affermarsi in modo
così pregnante per 3 motivi fondamentali: 1) innanzitutto perché ha fornito delle risposte a quegli
interrogativi che la teoria di Adams aveva lasciato in sospeso; 2) in secondo luogo negli anni ’70
c’è stata una grande enfasi nei confronti delle teorie del controllo e dell’apprendimento motorio a
circuito aperto; 3) infine perché tale teoria fece un passo avanti sia rispetto al modello a circuito
chiuso, sia rispetto alle prime ipotesi sulla struttura del programma motorio appartenente al modello
di controllo motorio a circuito aperto.
Lo schema può essere descritto come una regola generale che rappresenta tutte le relazioni esistenti
tra le diverse variabili oggetto del movimento; e la più grande differenza che c’è tra la teoria dello
schema e quelle ad essa precedenti è che tale teoria è riuscita a rispondere a due problemi rimasti
irrisolti: quello dell’immagazzinamento e quello della novità (ossia dell’esecuzione di un nuovo
movimento). Un ipotesi che potrebbe fornire una spiegazione relativa all’immagazzinamento di
una grande quantità di movimenti è quella che sostiene la presenza di un processo generativo che
sia in grado di formare una regola che può essere applicata a tutti i movimenti simili e appartenenti
ad una stessa categoria. Pertanto lo schema sarebbe formato da un insieme di principi che fungono
da istruzione x la produzione di una serie di movimento. Secondo Schmidt la teoria dello schema si
basa su 4 tipi di informazioni motorie che il soggetto immagazzina durante l’esecuzione del
movimento: i parametri specifici, ossia i valori delle variabili intervenute; il risultato che si è
ottenuto a seguito del movimento; le conseguenze sensoriali e le condizioni di partenza. Secondo
la teoria, dopo che il movimento è stato completato, le varie informazioni relative ai 4 punti descritti
vengono registrate e la forza tra i vari elementi che compongono l’azione motoria aumenta ad ogni
ripetizione dello stesso movimento o di movimenti simili. In questo modo si forma lo schema, il
quale sarà più completo e articolato quanto maggiore è stata la variabilità nella fase di formazione.
Dopo che si è formato lo schema, le abilità motorie in esso contenuto possono essere trasferite a
movimenti nuovi, favorendo – in questo modo- il processo di apprendimento.
Oltre alle teorie di Adams e Schmid, molto importante è anche il pensiero di Kurt Meinel, il quale
individua 3 tappe che delineano il percorso dell’apprendimento motorio:
1) fase della coordinazione grezza, la quale caratterizza il primo approccio all’esecuzione di
un’abilità. In questa fase il movimento può avvenire grazie alla comprensione del compito
da parte dell’allievo che: raccoglie, attraverso l’apparato senso-percettivo, tutte le info
provenienti dall’esterno o dall’interno dell’organismo; si rappresenta mentalmente il
movimento e lo esegue sotto il controllo dell’attenzione. Per le prime volte l’esecuzione è
lenta, imprecisa, poco efficace ed evidenza una serie di caratteristiche, quali: ritmo esecutivo
inadeguato, carenza di timing o tempi di intervento imprecisi o errati, scarsa fluidità e
ampiezza, scarsa rapidità e precisione, frequenti tentativi e insuccessi.
2) Fase della coordinazione, la quale evidenzia il momento in cui l’abilità motoria è già a buon
livello. Infatti l’esecuzione appare più fluida e facilitata e il movimento si presenta
armonico, continuo, economico, efficace, parzialmente automatizzato e con timing precisi e
puntuali, inoltre scompaiono i movimenti associati (ossia quei movimenti che il sogg.
compie nelle prime fasi dell’apprendimento motorio), si raggiunge un buon grado di
automatizzazione, ma la variazione della situazione o la comparsa di fattori di disturbo
fanno ricomparire errori grossolani.
3) Fase della coordinazione fine. In questa fase il soggetto fa un ulteriore passo avanti per il
completo controllo del movimento e giunge alla completa e definitiva acquisizione di abilità
e competenze motorie. Questo stadio viene definito abilità di alto livello o disponibilità
variabile e il movimento si presenta automatizzato ed eseguito con facilità e disinvoltura;
adattabile a situazioni nuove; eseguibile anche in presenza di fattori di disturbo.
IMAGERY MOTORIA E SIMULAZIONE
Anche se queste teorie tradizionali hanno una grossa rilevanza, resta il fatto che alcuni elementi
restano poco sviluppati. In particolare, negli ultimi anni, per spiegare l’apprendimento motorio sono
stati sottolineati: l’importanza della “imagery motoria” e il ruolo del sistema di neuroni a specchio.
Per imagery motoria si intende uno stato dinamico in cui le rappresentazioni di un atto motorio sono
richiamate interamente nella memoria di lavoro, senza che questo porti ad un output motorio.
Pertanto la differenza che c’è tra l’immagine mentale e l’imagery motoria è che nel primo caso ci si
forma la rappresentazione mentale di un oggetto, di un individuo; nel secondo caso ci si forma la
rappresentazione mentale dell’esecuzione di un movimento. Inoltre l’imagery motoria non riguarda
solo il mondo che ci circonda, ma anche il sé e mentre prima si pensava che essa fa riferimento da
una rappresentazione consapevole ed esplicita, oggi si è costatato che essa comprende anche aspetti
impliciti e non consapevoli. Per dimostrare che esiste una differenza tra immagini mentali e
immagini mentali motorie sono stati fatti una serie di esperimenti, tra i quali ricordiamo quello di
Jeannerod e Franck che ha messo in evidenza l’esistenza di un processo di simulazione, ossia di una
forma di riproduzione interna e inconsapevole del movimento che i soggetti si creano. Oltre a
quest’esperimento ce ne sono stati molti altri in cui veniva chiesto ai soggetti di immaginare di
eseguire un movimento. I risultati di questi esperimenti hanno messo in luce che il tempo impiegato
per le azioni simulate è pari a quello impiegato per le azioni realmente eseguite; inoltre le azioni più
sono complesse, più tempo richiedono. Le basi neurali dei processi di imagery motoria vanno
ricercate nel sistema di neuroni a specchio, che nelle scimmie scaricano anche quando il compito
non richiede esplicitamente di compiere un’azione. Alcuni studi hanno dimostrato che la visione o
la denominazione di alcuni oggetti afferrabili attivano la corteccia premotoria anche quando non
deve essere eseguita nessuna azione e in letteratura la questione relativa alla misura in cui la
simulazione attivi la corteccia motoria primaria è molto dibattuta in quanto degli esami fatti con la
PET hanno dimostrato che la corteccia motoria primaria non si attiva in modo significativo durante
l’immaginazione; mentre degli studi condotti con la risonanza magnetica funzionale e con la TMS
hanno indicato il contrario, anche se il livello di attivazione corticale è più basso nei processi
immaginativi rispetto a quello che si ha durante l’effettiva esecuzione del movimento. Per quanto
riguarda le implicazioni che l’imagery motoria e i neuroni mirror hanno sull’apprendimento motorio
vediamo che la prima – insieme all’osservazione- rappresenta uno strumento utile a migliorare il
funzionamento del sistema motorio; il convolgimento del sistema dei neuroni specchio è supportato
da prove le quali dimostrano che l’osservazione porta alla formazione di memorie simili a quelle
che sottostanno ai cambiamenti, all’interno della rappresentazione motoria, indotti dal movimento
stesso.
In uno studio recente con la TMS è stato dimostrato che la corteccia motoria primaria:
- mette in luce attività legate al sistema dei neuroni specchio in risposta all’osservazione di un
movimento;
- è coinvolta nell’apprendimento motorio;
- influenza la formazione di memorie motorie, la quale costituisce un passo importante per
l’acquisizione di abilità motorie.
Infine bisogna sottolineare che una serie di esperimenti hanno dimostrato che sia l’osservare sia
l’immaginare di svolgere un movimento comporta dei miglioramenti nelle proprie capacità motorie
e- di conseguenza- favoriscono l’apprendimento motorio.
I FATTORI DELL’APPRENIDMENTO MOTORIO
L’apprendimento motorio è un processo che tende a far crescere i livelli di competenza (intellettiva,
motoria, sociale e comunicativa) di un soggetto, soprattutto grazie all’integrazione di 3 componenti:
l’allievo, l’insegnante e l’ambiente. L’allievo è la componente primaria e quella più importante in
quanto senza di lui le competenze dell’insegnante e la presenza di un ambiente favorevole possono
incidere ben poco sull’apprendimento motorio. Una delle caratteristiche più importanti che l’allievo
deve possedere è la motivazione ad apprendere, la quale aumenta volontariamente e
spontaneamente le capacità di attenzione e di concentrazione sul compito, le situazioni di
sopportazione della fatica e del superamento dell’errore. Il livello psicomotorio dell’allievo, ossia il
grado di capacità e di abilità motorie presenti nell’allievo, è un fattore determinante x
l’apprendimento durante il quale diventano fondamentali le ripetizioni del compito unite alla
consapevolezza degli errori commessi ed alla conoscenza degli interventi di correzione. Infine va
sottolineato che la ripetizione del movimento, sotto gli occhi attenti di un insegnante, è la metodica
più efficace per perfezionarlo prima di automatizzarlo. L’insegnante ha un compito molto
importante: quello di far crescere i propri allievi facilitando il loro processo di apprendimento. Per
far questo egli deve possedere delle conoscenze culturali non solo sul movimento, ma anche sull’età
evolutiva. Inoltre è indispensabile la conoscenza dell’allievo e della situazione di partenza, ossia la
ricerca sistematica e oggettiva del suo livello psicomotorio, ed è per questo che è necessario
prendere in considerazione le capacità (condizionali, coordinative, intellettive e sociocomunicative); le abilità; gli interessi e le motivazioni. L’ambiente in cui avviene l’apprendimento
deve essere attrezzato in modo da facilitare lo sviluppo di abilità motorie e deve essere accogliente
per chi apprende in quanto un allievo che si sente accettato e – nel contempo- si sente parte di un
gruppo può sbagliare, correggersi e apprendere con maggiore serenità. Inoltre è importante
evidenziare che la crescita sociale viene favorita da situazioni motorie di interazione con l’altro, le
quali possono portare l’allievo a conoscere e a collaborare con esso, ad avere fiducia e senso di
responsabilità nei suoi confronti, capirlo, accettarlo e aiutarlo.
METODOLOGIE DELL’APPRENDIMENTO MOTORIO: l’apprendimento motorio può
avvenire secondo diverse metodologie: per imitazione, per tentativi ed errori, per analisi e
comprensione del compito. Apprendimento per imitazione: questa modalità di apprendimento è
caratterizzato dalla spontaneità e della naturalezza e – in più- necessita della presenza di un modello
da imitare, il quale può essere l’insegnante, un adulto o un compagno. Essa è una modalità che si
adatta all’apprendimento di abilità globali o parziali, semplici, naturali e poco complesse e il
risultato che l’allievo ottiene è estremamente individualizzato e dipendente dal suo grado di
descrizione globale. Apprendimento per tentativi ed errori: l’aspetto principale di questa
metodica di apprendimento è la situazione-problema. Infatti al soggetto viene dato in problema
motorio da risolvere mediante una soluzione che per lui risulti appropriata. In questo tempo il tempo
di apprendimento è più lungo rispetto al primo perché bisogna dare al soggetto la possibilità di
trovare la soluzione più giusta; ma anche se è più lento esso è attivo e coinvolgente in quanto
presenta il vantaggio di far ragionare l’allievo sollecitandone l’aspetto intellettivo-intuitivo. Tale
metodica – infine- può essere distinta in 4 fasi: fase dell’esplorazione, fase dei tentativi e degli
errori, fase della scelta più efficace e automatizzazione della risposta migliore.
Analisi e comprensione del compito: in questa metodica di apprendimento l’insegnante è il vero
protagonista in quanto è lui a scegliere le strategie di comunicazione più idonee, tra le quali
ricordiamo: quella verbale, quella audio-visuale e quella espressivo-motoria. In questo caso
all’allievo viene chiesto – prima- di capire o eseguire un movimento e – dopo- di correggerlo sotto
l’attenzione vigile ed esperta dell’insegnante. Questa metodica può avvenire in 2 forme: quella
analitica, durante la quale l’abilità viene scomposta in parti e l’allievo impara dapprima
l’esecuzione corretta delle singole parti e, poi, le ricompone per automatizzare il gesto globale;
quella globale in cui le correzioni vengono apportate direttamente sull’esecuzione completa.
CAPITOLO VI
MOVIMENTO E IMITAZIONE
Il concetto di imitazione è stato ben chiarito da Tommasello, il quale ha esplicitato la differenza che
c’è tra emulazione e imitazione. Con il termine emulazione si intende il fatto che gli indvidui,
grazie all’osservazione di azioni, apprendono le proprietà degli oggetti (ossia dell’ambiente) senzanecessariamente – apprendere l’azione stessa. Con il termine imitazione si indica l’apprendimento
delle azione e del modo in cui svolgerle. In senso ancora più stretto l’imitazione può essere intesa
come la capacità di compiere azioni apprendendo il metodo necessario al loro svolgimento.
Attenendosi a questa seconda definizione, l’imitazione prevede diverse fasi: 19 osservare qualcuno
che compie un’azione o un movimento; 2) individuare un piano x agire; 3) implementare e
specificare il piano; 4) eseguire l’atto motorio o l’azione. Da ciò si evince che l’imitazione
coinvolge la visione, la pianificazione e il controllo motorio e il suo studio può vertere anche su
aspetti sociali e comunicativi.
IMITAZIONE NON INTENZIONALE-IMPLICITA: I NEURONI MIRROR
Il fenomeno dell’imitazione implicita è molto discusso in letteratura; infatti basti pensare all’effetto
camaleonte o all’effetto del contagio emozionale, nei quali si tende automaticamente e
involontariamente a imitare la mimica facciale, i gesti, la postura e il tono di voce dell’interlocutore.
Alcuni studi recenti hanno dimostrato che le basi neurali dell’imitazione motoria risiedono
nell’attivazione dei neuroni a specchio (o mirror neurons) i quali sono una classe particolare di
visuo-neuroni che sono coinvolti sia nell’imitazione non intenzionale-implicita, sia nella
spiegazione di essa. Questi neuroni specchio sono stati trovati nell’area F5 della corteccia motoria
dei macachi, accanto ai neuroni canonici, che scaricano alla comparsa di un oggetto. La
caratteristica principale dei neuroni mirror è che essi scaricano sia quando l’animale compie
un’azione sia quando vede di compiere un movimento da un suo simile o dall’uomo. Tuttavia questi
neuroni non scaricano se è presente solo l’effettore, se i movimenti non sono rivolti ad oggetti e
nemmeno in presenza del solo oggetto; essi scaricano solo se è visibile un’interazione tra l’effettore
e l’oggetto. Inoltre è stato anche scoperto che esistono neuroni specchio che rispondono solo ad
azioni identiche a quelle codificate dal punto di vista motorio e azioni che rispondono ad azioni
simile ma non identica.
Un’altra serie di studi recenti, condotti con macchine come la risonanza magnetica funzionale e la
TMS, hanno dimostrato che i neuroni mirror esistono anche nell’uomo e che osservare un’azione
porta ad attivare aree corticali che solitamente si attivano nel momento in cui avviene l’esecuzione
del movimento. Un altro problema che molti studiosi si sono posti è quello relativo al come noi
riusciamo ad imitare un’azione motoria in modo non-intenzionale; e su tale questioni sono nate
diverse ipotesi. La prima prevede che l’imitazione non-intenzionale implicita facilita lo sviluppo di
forme di imitazione esplicita, rendendo più facile la messa in atto di un comportamento imitativo il
quale è importante per aumentare la coesione tra i gruppi e l’empatia tra i soggetti.
Una seconda ipotesi lega l’imitazione implicita alla capacità di comprendere le azioni altrui. Di
questa ipotesi esistono due versioni: una più moderata e una più forte. Secondo la formula più
moderata, l’imitazione non intenzionale aiuterebbe a comprendere le azioni altrui attraverso un
processo di simulazione mentale interna, il quale implica che un meccanismo cognitivo può essere
utilizzato anche off-line, ricevendo informazioni dalla memoria piuttosto che dagli stimoli
ambientali. Inoltre la comprensione delle azioni altrui avviene – secondo tale ipotesi- quando
l’osservazione di azioni attiva un meccanismo di risonanza nel nostro sistema cognitivo.
Secondo la formula più forte l’imitazione non-intenzionale contribuisce a comprendere non solo ciò
che gli altri stanno facendo, ma anche le intenzioni e gli obiettivi che stanno dietro le azioni che
vediamo; inoltre sembra che tale forma di imitazione possa costituire la base per la formazione di
una teoria della mente che consente di comprendere gli stati mentali degli altri. In sintesi, secondo
questa formula, il cervello dell’osservatore riproduce interamente – attraverso un processo di
simulazione- non solo il pattern motorio ma anche gli effetti che l’azione comporta.
Una terza ipotesi connette l’imitazione non intenzionale allo sviluppo del linguaggio in quanto pare
che alcuni studi hanno dimostrato che l’area di Broca ( a cui è legata la funzione di comprensione
del linguaggio) sia la corrispondente dell’area F5 della scimmia, nella quale si trovano i neuroni
specchio. Una quarta ipotesi è stata formulata nel 2005 da Wilson e Knoblich, i quali interrogandosi
sul ruolo svolto dall’imitazione non intenzionale hanno dedotto che questo tipo di imitazione svolge
la funzione di aiutare a percepire il comportamento dei propri simili, funzionando come un sistema
che gli autori definiscono “emulazione percettiva”. Questo sistema registrerebbe in tempo reale il
comportamento di altri membri della propria specie e- in questo modo – avrebbe la funzione di
colmare lacune e informazioni ambigue, dando la possibilità al soggetto di reagire velocemente agli
stimoli. Questa ipotesi si differenzia dalla seconda, e in particolar modo dalla formula più forte di
quell’ipotesi, perché non verte sulla comprensione dell’azione, ma sulla percezione di essa. Più in
particolare, l’ipotesi di Wilson e di Knoblich si differenzia dalla seconda per due aspetti: 1)
l’imitazione non intenzionale viene concepita come una sorta di emulatore, che svolge una funzione
predittiva, ossia aiuta il processo percettivo mentre si svolge e ne anticipa gli effetti; 2) essa richiede
una rappresentazione del corpo umano che sia indipendente dal punto di vista dell’osservatore.
PRINCIPALI SPIEGAZIONI DEL COMPORTAMENTO IMITATIVO: LA TEORIA DEL
MATCHING DIRETTO
Le teorie che riguardano il comportamento imitativo si distinguono in due grandi classi: 1) le teorie
che postulano l’esistenza di un unico processo, le quali comprendono la teoria del matching diretto
e la teoria AIM; 2) le teorie duali, ossia quelle che postulano l’esistenza di due processi, come la
teoria dell’imitazione basata su scopi.
TEORIA DEL MATCHING DIRETTO
La teoria del matching diretto afferma che il sistema motorio si attiva – in modo diretto- nel
momento in cui il soggetto percepisce l’azione, pertanto la percezione del comportamento altrui
costituisce l’input dal quale partire per eseguire l’azione imitativa. Questa teoria è nata dall’idea che
esiste un codice comune tra l’azione percepita e quella da eseguire, e cioè tra percezione e azione, e
le basi neurali di essa si ritrovano negli studi sui neuroni specchio.
Secondo la teoria del matching diretto c’è un circuito neurale specializzato che è in grado di
connettere in modo diretto le azioni osservate con i comandi motori, inducendo il soggetto a
produrre azioni simili a quelle osservate. Detto in altre parole questa teoria propone l’idea che
l’osservazione di azioni attiva un meccanismo di risonanza o di simulazione mentale, che
costituisce la base cognitiva dell’imitazione. Un primo esempio di risonanza riguarda proprio i
comportamenti imitativi, ossia la tendenza automatica a ripetere i movimenti di altri soggetti. Ciò è
visibile soprattutto nei comportamenti imitativi dei neonati umani o di alcune specie di animali. Un
secondo meccanismo di risonanza consiste nell’attivazione di neuroni motori durante l’osservazione
di azioni motorie compiute da soggetti diversi da sé. Questo meccanismo – molto particolare- non si
traduce in forma esplicita di imitazione, ma resta implicito dando –probabilmente- la possibilità
all’individuo di capire i comportamenti altrui. Nel 1999 due studiosi hanno confermato la teoria del
matching diretto, secondo la quale l’imitazione si basa su un meccanismo che permette all’azione
osservata di essere “mappata” da un’azione prodotta internamente. Per verificare questa spiegazione
è stato fatto un esperimento in cui i partecipanti venivano sottoposti a condizioni di osservazione,
durante le quali i soggetti dovevano semplicemente osservare gli stimoli; e a condizioni di
osservazione-esecuzione durante le quali dovevano compiere un’azione motoria in risposta allo
stimolo presentato o imitare il movimento. I risultati dello studio, condotto con la risonanza
magnetica funzionale, hanno messo in luce che sia la corteccia frontale inferiore sx, sia la regione
rostrale del lobo parietale superiore dx si attivano registrando la risposta motoria,
indipendentemente da come questo movimento veniva evocato. La cosa interessante è che queste
aree si attivano specialmente durante l’imitazione, e cioè quando un soggetto esegue la stessa
azione che sta osservando e che viene compiuta da altri. Dall’analisi di tutto ciò è possibile –
quindi- affermare che tali risultati depongono a favore della teoria del matching, la quale prevede
che le aree neurali in cui ha luogo il matching contengono neuroni che scaricano in risposta a delle
azioni e neuroni che si attivano quando l’azione osservata coincide con quella eseguita.
TEORIA AIM
La teoria Aim prevede che già i neonati codificano le azioni con un sistema sovra modale (ossia
indipendente da una modalità specifica come quella percettiva o motoria) innato, il quale unifica
l’osservazione e l’esecuzione degli atti motori. Questa teoria è confermata dal fatto che i neonati di
pochissimi giorni sono già in grado di imitare movimenti manuali e facciali e Meltzoff, con i suoi
collaboratori, ha scoperto che essi sono capaci di imitare un modello anche in seguito, ossia anche
quando non hanno imitato l’azione di un modello mentre lo osservavano. Pertanto, prendendo in
considerazione tali esempi, è possibile dedurre che la capacità di imitare è innata.
Meltzoff e i suoi collaboratori sostengono che l’imitazione costituisce la base per la
rappresentazione del pensiero altrui, per l’empatia e per la comprensione dei sentimenti altrui e, in
aggiunta a ciò, hanno affermato che la formazione della teoria della mente avviene mediante 3 stadi.
In primo luogo, l’equivalenza tra gli stati propri e quelli altrui costituisce la base dalla quale partire
per la costruzione della teoria della mente. In secondo luogo i neonati imparano ad associare a
determinati comportamenti il loro stato d’animo interno e, infine, il terzo stadio coincide con quello
che da l’avvio allo sviluppo della teoria della mente: ossia la capacità di comprendere che i
comportamenti degli altri sono associati agli stessi stati mentali ai quali si associano quelli propri.
Inoltre, secondo i sostenitori di questa teoria, l’imitazione motoria gioco un ruolo chiave perché
costituisce l’anello mancante tra gli studi condotti sui neuroni mirror e quelli fatti sulla teoria della
mente.
Le tesi di Meltzoff e dei suoi collaboratori sono state oggetto di numerose critiche, sia sul piano
teorico che su quello empirico. Sul piano teorico, alcuni autori hanno criticato la teoria AIM perché
ritengono che non si può affermare con certezza che l’imitazione motoria aiuti a colmare la lacuna
che c’è tra gli studi sui neuroni specchio e quelli sulla teoria della mente. Heyes ha poi affermato
che Meltzoff e i suoi colleghi hanno proposto un ruolo troppo specifico dell’imitazione per lo
sviluppo della mente; mentre Jacob e Jeannerod sostengono che per valutare la tesi di Meltzoff e dei
suoi colleghi è opportuno chiarire- prima- cosa si intende per imitazione. Infatti se con il termine
imitazione si indica l’atto di copiare i movimenti e i comportamenti altrui, tale teoria non vale
perché i movimenti non sono copiabili. Se il termine imitazione include anche delle interpretazioni
creative, la situazione sarebbe diversa perché – in questo caso- anche gli stati d’animo interni
potrebbero essere copiati. Anche da un punto di vista empirico la teoria AIM non trova un grande
sostegno: infatti gli studi di Anisfeld hanno dimostrato che gli unici movimenti che i neonati
riescono ad imitare sono quelli di protrusione della lingua. Poi numerosi studi hanno messo in
dubbio che l’imitazione sia innata, mettendo- così- in evidenza che essa è una capacità che il
soggetto acquisisce con l’esperienza, e cioè osservando gli altri che eseguono un’azione. Anche se
tali esperimenti sembrano dimostrare che l’imitazione è frutto dell’esperienza, ancora non hanno
chiarito al 100% se l’automaticità del comportamento imitativo si sviluppa con il tempo, e quindi
viene appresa, o se sia innata. Infine, un altro limite della teoria AIM consiste con il fatto che le
evidenze non tengono conto che i comportamenti imitativi spesso non sono fedeli ai modelli
osservati, ma presentano delle variazioni; e che i bambini hanno una capacità di memoria diversa x
le azioni dotate di senso e quelle prive di senso.
TEORIA DELL’IMITAZIONE BASATA SU SCOPI
Prima di comprendere la teoria dell’imitazione basata su scopi è fondamentale introdurre una teoria
che non si limiti alla spiegazioni del comportamento imitativo, ma che fa riferimento anche al
rapporto che intercorre tra percezione e azione. Secondo le teorie tradizionali tra percezione e
azione c’è una certa differenza, mentre una serie di studi recenti hanno dimostrato che queste 2
attività non possono essere distinte e – addirittura- che l’una influenza l’altra. Una teoria che
sostiene quest’ultima testi è la teoria ideomotoria e la teoria del codice comune, la quale si sviluppa
partendo proprio da questa. La teoria ideomotoria parte dal principio che alla base dell’agire c’è
sempre uno scopo, un’intenzione, e cioè l’intenzione di modificare l’ambiente che ci circonda e gli
eventi presenti in esso. In pratica, secondo la teoria del codice comune i contenuti percettivi e le
intenzioni d’azione vengono generati all’interno di una stessa rappresentazione mentale ed è proprio
in questa prospettiva che gli stimoli che percepiamo possono essere intesi come eventi che hanno
luogo nell’ambiente e, nello stesso tempo, anche le azioni che compiamo rappresentano altri eventi
che hanno luogo nell’ambiente. Sulla base di questa teoria sono state formulate diverse predizioni
supportate da ricerche empiriche. Prima di tutto, dall’idea del codice comune deriva il principio
secondo il quale maggiore è la similarità che c’è tra le azioni che osserviamo e quelle che
possediamo nel nostro repertorio di azioni possibili, maggiore sarà la quantità di codici attivati. La
conseguenza di ciò è che noi tendiamo a riconoscere più facilmente le nostre azioni rispetto a quelle
degli altri in quanto la somiglianza tra gli eventi che percepiamo e quelli rappresentati è alta.
Pertanto quando noi osserviamo le nostre azioni, percepiamo azioni che eseguiremmo nello stesso
modo; mentre se osserviamo le azioni degli altri ciò non accade. Degli ulteriori studi basati sul
rapporto tra percezione e azione hanno – ancora- dimostrato che un soggetto è in grado di predire
meglio gli effetti futuri delle proprie azioni che quelli delle azioni altrui e ciò è molto importante
non solo da un punto di vista motorio, ma anche da una prospettiva psico-sociale in quanto
riconoscere se stessi come agenti, come causa di un’azione e come soggetti capaci di gestire e
prevedere gli effetti della propria azione è basilare per la formazione del sé e della propria identità.
Un altro ambito di studi, ossia quello legato alla teoria ideomotoria, si propone di capire come le
nostre azioni possono essere influenzate da quelle degli altri. La teoria ideomotoria parte dal
presupposto che le azioni altrui sono codificate nei termini degli eventi percettivi che essi
determinano; di conseguenza si registra un effetto di priming quando un essere umano osserva un
atto motorio congruente con il proprio repertorio di azioni motorie ed è per questo che maggiore è
la somiglianza tra i movimenti osservati e quelli percepiti, più rapidamente si riconoscono le azioni.
Ne consegue che nel momento in cui un soggetto osserva le azioni eseguite dagli altri si attivano le
strutture rappresentative che vengono messe in atto nel momento in cui si pianificano queste stesse
azioni. Inoltre l’imitazione è stata assimilata ad un caso di compatibilità stimolo-risposta, il quale
mette in evidenza che si producono risposte più veloci ad uno stimolo nel momento in cui stimolo e
risposta condividono dei tratti.
Un'altra teoria importante è la teoria duale e basata su scopi, la quale fa riferimento alla teoria del
codice comune. Con il termine “duale” si intende che un soggetto deve acquisire –prima di tuttoassociazioni bidirezionali che ci sono tra i movimenti e gli effetti da essi prodotti, in modo da
ottenere un’integrazione tra codici percettivi e codici motori. In seguito, se si decide di eseguire
l’azione si attivano i codici percettivi relativi all’obiettivo che si raggiunge con tale azione e
l’attivazione di tali codici provoca l’attivazione automatica dell’azione corrispondente. Questa
visione è in linea con la teoria basata su scopi, la quale è molto importante perché tiene conto anche
dei limiti cognitivi dovuti ad un carico eccessivo in memoria che spinge i bambini a non imitare in
modo passivo un’azione osservata, ma a decomporla e ricomporla secondo una gerarchia di scopi.
Da ciò si evince che i soggetti, nel momento dell’imitazione, non si limitano ad analizzare le azioni
nei loro aspetti fisici, ma si concentrano anche sugli scopi ad esse soggiacenti perché nel momento
in cui più scopi sono in competizione, l’individuo deve avere la possibilità di scegliere di
raggiungere quello più importante trascurando quello meno importante. Ciò è possibile perché gli
scopi sono ordinati gerarchicamente.
In base alla teoria basata su scopi l’imitazione non è un processo unitario, ma un processo che si
compone in due fasi: una di decomposizione e una di ricomposizione del pattern motorio in una
serie di costituenti. Questo modello a due vie e la teoria basata su scopi hanno trovato una conferma
negli studi di Tessari e Rumiati, le quali con un loro esperimento, in cui chiedevano ai partecipanti
di imitare azioni sensate e azioni prive di senso, hanno messo in luce che esistono due meccanismi
imitativi: una forma di imitazione diretta, utilizzata per le azioni nuove e prive di senso; una
forma di imitazione per cui si fa riferimento alla memoria a lungo termine, le quali non
vengono utilizzate in modo fisso, ma in relazione alla situazione che si sta vivendo e affrontando.
CAPITOLO VII
MOVIMENTO, OGGETTI E CONCETTI
Anche se apparentemente sembra non esserci un contatto tra concetti, oggetti e movimento, in realtà
non è così in quanto i concetti che ognuno di noi si forma sugli oggetti si basano su processi sensomotori e attivano, in modo automatico, un’informazione motoria. I concetti, secondo Murphy,
possono essere definiti come le unità minimali della nostra conoscenza ed essi sono dati dalle
informazioni che abbiamo in memoria in relazione alle categorie.
Nell’ambito della scienza cognitivi ci sono teorie che hanno posizioni diverse per quanto riguarda il
rapporto percezione-azione. Da un lato ci sono coloro che considerano la percezione e l’azione
come 2 attività separate tra loro e distinte dai processi cognitivi superiori come la cognizione e
l’organizzazione delle conoscenze. Dall’altro lato ci sono coloro i quali sostengono che tra azione e
percezione c’è una stretta interazione e che tra gli aspetti senso-motori e quelli cognitivi superiori
c’è una forte vicinanza. In accordo a queste posizioni sono stati proposti vari modelli i quali
sostengono che esiste un’interazione tra percezione, azione e conoscenza e che la cognizione non
può prescindere né dal corpo, né dalle esperienze senso-motorie ad esso associate.
In questo quadro sono stai proposti modelli che intendono i concetti come fondati sull’esperienza
senso-motoria e che non parlano di una rappresentazione motoria che ha un formato diverso da una
rappresentazione neurale, in questo senso i concetti consistono nella riattivazione del pattern di
attivazione neurale che si ha nel momento in cui si percepiscono i loro referenti o si interagisce con
essi. Ad esempio, il concetto di tazza consiste nella riattivazione del pattern neurale che si attiva
quando un soggetto ha un’esperienza con una tazza. Questi modelli, che enfatizzano il ruolo dei
processi motori nella formazione della nostra conoscenza, consentono di capire meglio qual è la
funzione dei concetti: quella di fornire un sostegno per facilitare l’interazione con gli oggetti e le
entità che circondano l’individuo. In questo senso si può dire che i concetti sono fondati sulla
percezione e sull’azione e –inoltre- incorporano informazione motoria. L’ipotesi che i concetti sono
fondati sull’azione è sostenuta da due punti di vista diversi, ma non incompatibili. Il primo punto
di vista (quello di Glenberg) sostiene che i concetti degli oggetti sono direttamente finalizzati
all’azione ed è per questo che vanno intesi come pattern di azione possibile. Il significato degli
oggetti è determinato dalle loro stesse proprietà ed è condizionato dalle restrizioni e dai vincoli
imposti dal nostro corpo o dalle esperienze precedenti avutesi con quel tipo di oggetto. Da ciò si
deduce che un oggetto come la tazza sono rappresentati –direttamente- in funzione dell’azione che
può essere compiuta con essi e da ciò ne consegue che i concetti incorporano e attivano
direttamente un’informazione motoria, la quale è importante perché induce un soggetto a rispondere
più velocemente ad uno stimolo. Infine è importante sottolineare che i concetti, in questa
prospettiva, sono fondati sull’azione e svolgono una funzione di supporto x l’azione stessa e, nello
stesso tempo, permettono al soggetto di riattingere alle esperienze passate con gli stessi oggetti o
con oggetti simili, facilitando – così- l’interazione con nuovi esmplari appartenenti alla stessa
categoria. Il secondo punto di vista (quello di Barsalou) mette in evidenza che i concetti sono
rappresentati tramite simboli percettivi, i quali rimandano direttamente alle esperienze sensomotorie con gli oggetti. Ad esempio, il concetto di tazza sarà dato dalla riattivazione di di tutte le
sue proprietà percettive, quali: il colore, la forma e l’orientamento; e in funzione della situazione in
cui un individuo si trova saranno selezionate le proprietà percettive utili x svolgere l’azione. Ad
esempio, se la tazza serve per nasconderci qualcosa sotto io andrò ad attivare delle proprietà
percettive diverse a quelle che attiverei se la tazza mi servisse per rompere una noce.
CONCETTI ASTRATTI E MOVIMENTO: IL TEMPO
L’esperienza del movimento e del muoversi nello spazio è molto importante per la comprensione di
concetti astratti come il tempo. Ciò è stato indicato da alcuni studi recenti, i cui risultati sostengono
le teorie “embolied” della conoscenza, secondo le quali i concetti astratti vengono compresi per
analogia a partire da esperienze dirette e concrete, da schemi immaginativi e motori. Questo è stato
dimostrato con alcuni studi condotti da diversi autori, nei quali si chiedeva ai soggetti di risponder
ad una domanda ambigua: l’incontro di mercoledì è stato spostato di 2 giorni. Quando si terrà? La
risposta non poteva essere una, ma dipendeva da come si concettualizza il tempo e dalla prospettiva
che si assume nel rapportarsi al tempo: chi pensa al proprio movimento nel tempo, cioè chi assume
una prospettiva ego-moving, tende a rispondere venerdì; chi – invece- pensa al movimento del
tempo verso di sé assume una prospettiva time-moving e risponderà lunedì. In condizioni normali i
partecipanti hanno uguale probabilità di adottare una delle due risposte; in condizioni sperimentali
meno. Infatti se viene richiesto di sedersi su una sedia a rotelle e muoversi verso un punto nello
spazio (prospettiva ego-moving) la max parte delle risposte sarà venerdì; se –invece- viene richiesto
di tirare una sedia verso di sé (prospettiva time-moving) la max parte delle risposte sarà lunedi.
Dall’analisi di questi risultati gli studiosi hanno dedotto che il nostro modo di concepire il tempo in
termini di movimento può essere determinato dall’attività che si sta svolgendo. Oltre a questo
esperimento ne sono stati svolti molti altri in contesti ecologici (come la fila in attesa di una
partenza o un viaggio in treno), i quali hanno dimostrato- ancora una volta- che il nostro sistema di
conoscenza temporale è costruito sulla base della nostra esperienza di movimento nello spazio.
Pertanto si può concludere che anche la nostra conoscenza astratta si fonda sull’esperienza.
CONCETTI DI OGGETTI E AFFORDANCES
Per mettere in luce la relazione che c’è tra processi percettivi e processi motori è stata rivalutata –
recentemente- la nozione di “affordance”: termine inglese che deriva dal verbo to affar (offrire) il
quale mette in evidenza che gli oggetti presenti nell’ambiente offrono delle indicazioni che ci
permettono di agire con essi, e cioè ci invitano a compiere determinati movimenti o azioni. Ad
esempio, la maniglia della porta ci invita ad essere impugnata, la porta ci suggerisce di essere spinta
o tirata per essere aperta. Nonostante ciò è importante sottolineare che le affrodances non sono
caratteristiche degli oggetti in sé, ma variano a seguito dell’interazione con il nostro sistema
percettivo, con il nostro corpo e con l’ambiente che ci circonda. Ad esempio, una fessura di un
distributore di bibite può rappresentare un affordance di inserimento di una moneta x un adulto che
consoce la funzione del distributore, mentre può rappresentare un affordance diverso x un bambino.
In letteratura ci sono alcuni autori i quali sostengono che le proprietà visive di un oggetto attivano
direttamente il sistema motorio senza passare attraverso la mediazione della conoscenza
concettuale, ossia senza riconoscere gli oggetti. Contro questa ipotesi ci sono altri studiosi che si
chiedono che se la visione degli oggetti attivasse direttamente l’informazione motoria, che ruolo
avrebbero i concetti? L’autore maggiormente convinto dell’assenza della mediazione concettuale è
Gibson, secondo il quale il nostro sistema visivo informa direttamente il sistema motorio, che
risponde automaticamente. La conseguenza di ciò è che nel momento in cui un soggetto interagisce
con gli oggetti che lo circondano non è necessario riconoscerli o essere consapevole di ciò che ha di
fronte. Tuttavia la posizione di Gibson non è stata completamente accettata in letteratura, in quanto
ad esso si sono opposti diversi studiosi i quali si sono chiesti che se la visione degli oggetti attiva
direttamente l’informazione motoria, che ruolo hanno i concetti? E, in più, come si potrebbe
continuare a pensare che i concetti rappresentano un supporto per l’interazione tra l’uomo e gli
oggetti presenti nell’ambiente?
VIA DEL WHAT E VIA DEL WHERE
Prima di soffermarsi su quelle posizioni che sostengono l’utilità e la centralità dei concetti è
importante far presenti- prima- gli studi fatti sull’elaborazione degli stimoli visivi, in riferimento
alla quale sono stati distinti due sistemi diversi: uno deputato al riconoscimento degli oggetti, l’altro
finalizzato alla loro specializzazione spaziale. In linea con questa prospettiva, più di 20 anni fa, due
studiosi hanno distinto due vie neurali che partivano dalla corteccia visiva primaria: 1) la via visiva
ventrale (comunemente riconosciuta come via del what) responsabile del riconoscimento degli
oggetti; 2) la via visiva dorsale (via del where) dedicata alla posizione degli oggetti nello spazio.
Intorno al 1995 altri due studiosi (Milner e Goodale) hanno rivisto tale distinzione e hanno
elaborato una teoria secondo la quale esistono 2 sistemi separati che analizzano le caratteristiche
visive degli oggetti per obiettivi distinti: la via ventrale (o via del what) deputata al riconoscimento
degli oggetti; la via dorsale (o via dell’how) che giunge le interazioni motorie con gli oggetti. Gli
studi di Milner e Goodale sono molto particolari perché questi due autori più che focalizzarsi sul
diverso tipo di informazione prodotta dai sistemi, si sono concentrati sul modo in cui l’informazione
viene trasformata in funzione dell’output e hanno affermato che: se la rappresentazione degli
oggetti deve essere stabile nel tempo è attiva la via ventrale; se la rappresentazione avviene in modo
immediato si attiva la via dorsale. Infine un’altra particolare distinzione è quella di Jeannerod, il
quale ha distinto la rappresentazione degli oggetti pragmatica da quella semantica perché la prima è
puramente motoria, la seconda è legata al significato.
DALLA PERCEZIONE ALL’AZIONE: UNA VIA DIRETTA O INDIRETTA?
Molti studiosi si sono chiesti come avviene il passaggio dalla percezione visiva all’azione e a tale
quesito si è risposto affermando che esistono due vie che portano dalla percezione all’azione. Esse
sono: la via diretta percezione-azione, mediata dal sistema dorsale; la via indiretta che passa –
prima- dal lobo temporale, presupponendo il riconoscimento degli oggetti e l’accesso
all’informazione concettuale; poi dal lobo parietale.
L’esistenza della via diretta percezione-azione sembra essere confermata oltre che da evidenze
comportamentali, anche da studi condotti sui pazienti; ma – nello stesso tempo- c’è una teoria la
quale dimostra che questa via diretta (non semantica) svolga funzioni limitate: a tal proposito alcune
prove recenti mettono in luce che questa via si attiva per oggetti nuovi o molto semplici, mentre per
gli oggetti complessi è l’accesso al sistema semantico che garantisce l’interazione tra essi e i
soggetti. In questo contesto è opportuno far riferimento ad un esperimento del 2001 di Creem e
Proffit in cui i partecipanti sono stati divisi in 3 gruppi: uno di controllo e due gruppi sperimentali, i
quali avevano tutti un compito principale: quello di afferrare e spostare oggetti impugnandoli con la
mano. Ai 2 gruppi sperimentali, oltre a questo compito, ne venne affidato un secondo: al primo
gruppo un compito di natura spaziale; al secondo un compito di natura semantica. Il risultato di
quest’esperimento è stato: che coloro che svolgevano il compito secondario di natura semantica
compromettevano la corretta esecuzione del compito primario, mentre coloro che svolgevano un
compito secondario di natura spaziale non presentarono nessuna differenza con il gruppo di
controllo, il quale ha effettuato il compito principale in modo appropriata. L’assenza di
peggioramento della performance del primo gruppo ha portato gli autori a pensare che mentre la
capacità di afferrare gli oggetti non implica necessariamente l’accesso al sistema semantico; la
capacità di interagire con essi in modo appropriato e tenendo conto della loro funzione lo
presuppone. Di conseguenza, per afferrare un oggetto in modo appropriato, un soggetto ha bisogno
sia di una rappresentazione che indichi dove afferrarlo sia di una rappresentazione che, basandosi
sulla comprensione dell’identità dell’oggetto, indichi come afferrarlo. Infine è possibile dire che
questi studi suggeriscono che l’indipendenza del sistema visuo-motorio è limitata e che c’è una
stretta relazione tra sistema visivo, motorio e semantico.
TECNICHE DI REGISTRAZIONE DELL’ATTIVITA’ CEREBRALE
Degli studi molto recenti effettuati con tecniche di scansione computerizzata e tecniche di
registrazione dell’attività cerebrale hanno messo in evidenza che la visione degli oggetti attiva
informazioni motorie. Tra questi studi molto importanti sono stati quelli di Martin e dei suoi
colleghi i quali, utilizzando la Pet, si sono proposti di verificare quali aree neurali si attivano
durante compiti di denominazione di utensili e di animali. I risultati di questi studi hanno messo in
evidenza che quando i soggetti devono denominare utensili si attivano l’area che – di solito- si
attiva in compiti di produzione di nomi e azioni e l’area che si attiva quando si immagina di
afferrare oggetti con la mano dominante. Altri studi importanti sono stati quelli di Chao e Martin
che, impiegando la risonanza magnetica funzionale, hanno dimostrato che la corteccia premotoria
sx si attiva nel momento in cui il soggetto vede immagini di utensili e non di animali, volti o case.
Una questione molto dibattuta in letteratura si riferisce alla specificità o meno di concettualizzare
gli oggetti, la quale può essere spiegata con una domanda: solo i concetti di utensili e di artefatti
attivano informazione motoria, o il legame tra i concetti e l’azione fa riferimento anche a concetti
generali? In risposta a tale questione è nata un’ipotesi secondo la quale l’attivazione di
un’informazione motoria è generata da concetti di oggetti manipolabili, indipendentemente dal fatto
che si tratti di artefatti o di oggetti naturali. Ciò è importante perché dimostra che le info – a livello
neurale- non sono codificate in funzione di categorie rigide, ma in funzione di quello che con gli
oggetti viene fatto. Quest’ipotesi è stata confermata da una serie di studi i quali hanno dimostrato
che l’informazione motoria si attiva quando un soggetto vede un oggetto manipolabile perché, in
questo caso, è come se egli simulasse mentalmente l’azione che si svolge con quell’oggetto.
INFORMAZIONE MOTORIA: con il termine informazione motoria si può intendere sia il modo
con cui interagiamo con gli oggetti, sia il modo in cui li usiamo x raggiungere degli scopi specifici.
Siccome non sempre c’è una corrispondenza tra sapere come interagire con un oggetto e sapere a
che cosa serve un oggetto e come va utilizzato, la letteratura suggerisce che la visione di un oggetto
attiva un’informazione relativa a come raggiungerlo e manipolarlo, ossia a come interagire con
esso; mentre l’informazione funzionale viene attivata solo nel momento in cui l’informazione
relativa alla forma e alla funzione evoca la stessa risposta motoria. La presenza di una doppia
dissociazione tra l’informazione relativa all’azione e a quella relativa alla funzione sembra essere
confermata anche da recenti studi neurofisiologici, i quali hanno messo in evidenza che il cervello
preferisce rispondere meglio all’informazione relativa al come manipolare gli oggetti, piuttosto che
a quella relativa alla loro funzione.
STUDI COMPORTAMENTALI
L’ipotesi secondo la quale la visione degli oggetti provoca l’attivazione del sistema motorio è stata
confermata da una serie di studi comportamentali, i quali hanno messo in luce l’influenza del modo
in cui un soggetto interagisce con gli oggetti e sul modo in cui li categorizza. Tra questi studi, molto
importanti sono quelli che hanno indagato la preferenza costante x la forma, ossia la tendenza ad
attribuire lo stesso nome ad oggetti che hanno una forma simile. Questo studio concorda con la
teoria di Biederman, secondo la quale gli oggetti sono riconosciuti in virtù delle parti che li
compongono, e cioè per la loro forma, e in seguito per le loro proprietà. La centralità della forma è,
poi, strettamente legata alla sua rilevanza per l’azione/interazione con gli oggetti; infatti uno studio
recente ha dimostrato che il modo in cui ci formiamo le categorie è influenzato dal tipo di azione
che compiamo con un determinato oggetto.
Infine, altri studi comportamentali hanno confermato e integrato le prove ottenute con le tecniche di
registrazione dell’attività cerebrale, le quali hanno dimostrato una sensibilità nei confronti della
distinzione che c’è tra oggetti manipolabili e oggetti non manipolabili, legata al fatto che i primi
attivano un’informazione motoria. Quest’ultimo punto è stato sottolineato dagli esperimenti di
Saffran e colleghi, i quali hanno trovato che con oggetti manipolabili si producono più verbi che
con oggetti non manipolabili.
STUDI CON PARADIGMI DI COMPATIBILITA’
La relazione tra percezione e azione è stata studiata anche con l’impiego di paradigmi di
compatibilità, e in questo settore, molto importanti sono stati gli studi di Tucker ed Ellis , i quali
con i loro esperimenti hanno messo in evidenza che la visione degli oggetti attiva e potenzia le
affordances ad essi associati. Questi due studiosi più che di affordances, hanno parlato di
microaffordaces, le quali si attivano automaticamente e indipendentemente dagli scopi e – nello
stesso tempo- attivano azioni specifiche per un dato tipo di oggetto. Ciò significa che la grandezza
di un oggetto non provoca un comportamento di afferra mento generale, ma un movimento di
afferra mento adatto a quel particolare tipo di oggetto. In un loro esperimento Ellis e Tucker hanno
chiesto ai partecipanti di classificare una serie di oggetti di forma e grandezza diversa in oggetti
naturali e artefatti; e il compito di questi soggetti era quello di fare pressione su un dispositivo
simile ad un joystick, pressione che poteva simulare una presa di forza o una presa di precisione. Il
risultato di tale esperimento ha dimostrato un effetto di compatibilità tra il tipo di presa e la
grandezza dell’oggetto, anche se quest’ultimo era collocato in uno spazio che non dava al soggetto
la possibilità di afferrarlo. Tale effetto suggerisce con chiarezza che vedere un oggetto porta ad
attivare un movimento e a simulare uno specifico tipo di prensione. Oltre a tali esperimenti sono
stati effettuati un’altra serie di studi i quali hanno dimostrato che le microaffordances non attivano
solo comportamenti di prensione, ma anche movimenti di raggiungimento, sollecitati dalla forma e
dall’orientamento degli oggetti. Ciò è stato dimostrato empiricamente da altri esperimenti condotti
da Ellis e Tucker i quali hanno messo in evidenza che la visione di un oggetto attiva il movimento
di raggiungimento e un lato di risposta.
STUDI CON PARADIGMI DI PRIMING
La relazione che intercorre tra sistema percettivo e sistema motorio è stata ulterioremente
confermata da studi che hanno impiegato il “priming” motorio-visivo, tra i quali molto importanti
sono stati quelli di Craighero e colleghi che hanno dimostrato che un compito di preparazione
motoria può favorire la rilevazione e la discriminazione di forme visive. In questo esperimento i
partecipanti dovevano afferrare una barra che poteva essere orientata in senso orario o antiorario .
prima di quest’azione veniva presentato - ai partecipanti – l’immagine di un oggetto orientato in
senso orario o antiorario e il loro compito era quello di afferrare la barra dopo la presentazione dello
stimolo. Il risultato di tale esperimento ha messo in luce che un effetto di compatibilità tra
l’orientamento dell’oggetto presentato visivamente e quello della barra da afferrare, a condizione
che l’oggetto avesse caratteristiche percettive simili a quelle della barra. Se così non era, nel senso
che l’oggetto presentato evocava un tipo di prensione diversa perché aveva caratteristiche differenti
dalla barra, l’effetto non compariva in quanto esso è generato dalle affordance estratte dall’oggetto
e non dal suo orientamento. Questa stretta relazione tra stimoli visivi e azioni motorie è stata
ulteriormente confermata da studi molto recenti e anche con l’impiego di un paradigma di priming
visuo-motorio. In quest’ultimo caso, veniva chiesto ai partecipanti di fissare un punto posto al
centro dello schermo di un pc e di afferrare uno o due oggetti con la mano dx nel momento in cui il
punto cambiava colore. Prima, simultaneamente o dopo il cambiamento di colore, appariva sullo
schermo la figura di un oggetto che poteva essere congruente o meno con quello da afferrare. Il
risultato di tale esperimento ha dimostrato che nel caso in cui c’era congruenza tra l’oggetto
presentato sullo schermo e quello reale, i tempi di risposta erano molto più veloci rispetto al caso di
incongruenza. Tuttavia è importante sottolineare che anche se questi studi sono molto importanti
perché hanno confermato l’esistenza di tale relazione, essi non hanno preso in considerazione un
problema molto sentito: quello relativo al fatto se lo stimolo visivo è sufficiente per estrarre una
risposta motoria. Infatti, a tal proposito, molti sostengono che uno stimolo visivo può dar vita ad
una risposta motoria, ma solo nel caso in cui c’è una preattivazione del sistema motorio o se
l’esperimento è preceduto da una preparazione motoria. Tra i diversi studi che sostengono tale
ipotesi è fondamentale ricordare quello di Bub, Masson e Bukach, dove ai partecipanti venivano
mostrate delle fotografie che rappresentavano mani con diverse posture, seguite da oggetti associati
a quella postura. Ad esempio, una mano raffigurata con una presa di precisione è seguita da un
oggetto che si afferra con quel tipo di presa o con una presa di tipo diverso; il compito dei
partecipanti è quello di scegliere tra l’una e l’altra presa in risposta al diverso colore dell’oggetto.
La congruenza tra postura raffigurata e caratteristiche dell’oggetto si manifesta solo quando si
utilizza un paradigma in cui un precedente segnale indica ai partecipanti se devono rispondere al
colore o all’oggetto. Con questo esperimento gli studiosi hanno messo in evidenza che la semplice
visione di un oggetto non attiva automaticamente la conoscenza gestuale-motoria. Un altro
esperimento molto importante è stato quello di Borghi, durante il quale si presentavano ai
partecipanti un presti molo, che coincideva con l’immagine di una mano la quale poteva assumere
una postura presa di forza o presa di precisione, o una postura a mano aperta. L’immagine della
mano era sempre seguita da quella di un oggetto e il compito dei partecipanti era quello di decidere
se l’oggetto che seguiva l’immagine della mano era un oggetto naturale o un artefatto; mentre se
veniva presentata la figura in cui la mano assumeva una posizione neutra essi non dovevano
rispondere allo stimolo. Dal risultato dell’esperimento non è emerso un effetto di congruenza tra la
postura della mano e l’oggetto raffigurato, dimostrando – in questo modo- che lo stimolo visivo non
evoca, in modo diretto e automatico, l’informazione motoria relativa alla prensione dell’oggetto.
L’effetto di congruenza tra la postura di precisione e oggetti piccoli – invece- si è presentato nel
momento in cui l’esperimento è stato preceduto da una fase di addestramento. Da ciò si può dedurre
che, in concomitanza con la presentazione dello stimolo visivo, è necessaria una fase di
preattivazione del sistema motorio per suscitare un effetto di congruenza.
Contro questi esperimenti ci sono stati gli studi di Vogt, Taylor e Hopkins i quali hanno dimostrato
che l’effetto del priming visivo sul comportamento motorio c’è; ma nonostante ciò i dubbi restano
in quanto non è chiaro se lo stimolo visivo da solo, ossia senza una preattivazione del sistema
motorio, sia in grado di estrarre dal soggetto comportamenti motori.
CAPITOLO 8
MOVIMENTO E COMPRENSIONE DEL LINGUAGGIO
Come i concetti, anche le parole (le quali mediano questi ultimi) si fondano sulla percezione e
sull’azione, nel senso che riattivano l’esperienza senso-motoria con gli oggetti a cui si riferiscono.
L’ipotesi secondo la quale i concetti mediati dalle parole rimandano all’interazione senso-motoria
con gli oggetti stessi è confermata da una serie di studi sperimentali; e ciò che vale per le parole,
vale anche per le frasi e i testi: quando comprendiamo una frase che ci rimanda ad un’azione o ad
un movimento, ci formiamo una simulazione interna di quell’azione o di quel movimento.
PAROLE E FIGURE: DUE DIVERSE VIE DELL’AZIONE
Per giungere all’azione è possibile percorrere due vie: una diretta dalla visione dell’azione (mediata
dal sistema dorsale); una indiretta visione-semantica-azione (mediata dal sistema ventrale). Secondo
la prima, se l’attivazione dell’informazione motoria è legata alle affordances, ossia alle proprietà
degli oggetti, gli effetti che si ottengono con le figure non dovrebbero presentarsi con le parole.
Secondo la seconda, le immagini attivano un’informazione motoria più velocemente rispetto alle
parole, il che non esclude che le parole possono attivare un’informazione motoria. Ciò è stato
dimostrato da una serie di studi, tra i quali ricordiamo: quello di Boronat e colleghi in cui i
partecipanti all’esperimento (sottoposti alla Frm) dovevano decidere, in risposta a coppie di figure o
di oggetti che denotavano oggetti, se si trattava di oggetti che possono essere manipolati nello stesso
modo o che svolgono una stessa funzione. I risultati di questo studio hanno messo in evidenza che
le aree di attivazione x gli stimoli verbali e quelli figurali erano molto simili: infatti x entrambe si
attivavano vaste regioni della corteccia frontale e prefrontale sx dorso e ventrolaterale, oltre al lobo
parietale inferiore sx, i quali sono tutti associati all’elaborazione senso-motoria.
L’ipotesi per cui anche le parole rimandano ai processi senso-motori ed attivano informazione
legata all’azione e l’ipotesi secondo la quale le figure attivano informazione motoria più
direttamente delle parole, sono confermate da uno studio comportamentale recente il quale si basava
sull’associazione di figure e parole che mandavano a oggetti manipolabili e non. Con questo studio
gli autori hanno notato che con le figure viene prodotta una percentuale di verbi più elevata che con
le parole; e che con le parole che rimandano ad oggetti manipolabili vengono prodotti più verbi
rispetto alle parole che rimandano ad oggetti non manipolabili.
Le parole attivano un’informazione multimodale, ossia relativa a diverse modalità sensoriali. Su
questo punto sono stati effettuati una serie di studi i quali hanno messo in evidenza che il passaggio
da una modalità sensoriale all’altra richiede dei costi al soggetto. In un esperimento, durante il quale
venivano presentate ai partecipanti 2 figure e il loro compito era quello di scegliere se la seconda
denotava una proprietà della prima, è stato dimostrato che x verificare una proprietà si è più lenti se
si è appena verificata una proprietà di modalità diversa; più veloci se si è verificata una proprietà di
modalità analoga a quella precedente. Ciò dimostra che cambiare modalità comporta un costo anche
con le parole. Facendo un’analisi di tutti questi studi compiuti si può dedurre che l’attivazione
automatica dell’informazione motoria non è dovuta solo all’azione delle affordances, ma anche
dall’influenza che ha l’informazione semantica. Infine si può dire che, in questo modo, vengono
confermate entrambe le ipotesi esposte in precedenza: sia quella secondo cui le figure attivano
informazione motoria in modo più veloce rispetto le parole; sia quella secondo la quale le parole
attivano direttamente un’informazione motoria.
NOMI E VERBI
Una vasta letteratura sulle basi neurali della conoscenza indaga i correlati neurali dei nomi e dei
verbi. Su tale questione ci sono dei punti di vista divergenti: infatti, da un lato ci sono una serie di
studiosi di neuropsicologia i quali hanno messo in luce che lesioni ad aree diverse provocano
l’incapacità di utilizzare l’una o l’altra categoria grammaticale. Dall’altro lato ci sono coloro che
hanno effettuato degli studi con tecniche di scansione cerebrale, i quali hanno messo in dubbio il
fatto che diverse aree neurali siano dedicate a diverse categorie grammaticali e hanno affermato he
le conoscenze concettuali sono distribuite in diverse aree neurali, ma non sono differenziate in
funzione della classe grammaticale.
Uno studio molto interessante è quello di Pulvermuller, Harle e Hummel, i quali sostengono
l’ipotesi secondo la quale le parole sono organizzate in reti che riflettono i loro referenti. Se così
fosse, nel momento in cui si pronuncia la parola “calciare” dovrebbero attivarsi, oltre che i neuroni
delle aree del linguaggio anche i neuroni coinvolti nella coordinazione del movimento del calciare.
Nell’esperimento condotto da questi studiosi veniva chiesto ai partecipanti di eseguire compiti di
decisione lessicale, ossia di decidere se le parole presentate appartenevano o meno alla loro lingua.
Dopo aver confrontato sia i tempi di reazione, sia il pattern (ossia modello regolare) di attivazione
corticale relativo ai verbi legati alle azioni, è stato messo in evidenza che le parti del corpo cui
questi verbi rimandavano erano riflesse nel pattern di attivazione corticale provocato da querste
parole. Tale risultato mette in luce che le sotto-categorie dei verbi di azioni eseguite con parti del
corpo diversi, sono distinte anche da un punto di vista neurofisiologico.
EFFETTI DI COMPATIBILITA’ CON LE PAROLE
Nel momento in cui un soggetto interagisce con un oggetto, le sue azioni dipendono solo dalle
caratteristiche visive dell’oggetto o anche dalla riattivazione di esperienze visuo-motorie avute
precedentemente con oggetti simili? Per dare una risposta a tale quesito sono state formulate 2
ipotesi: la prima secondo cui i risultati di studi con paradigmi di compatibilità si spiegano mediante
una via diretta, x cui l’informazione diretta viene attivata direttamente dagli stimoli visivi; la
seconda che fa ricorso ad una via indiretta, che prevede il coinvolgimento della memoria e delle
conoscenze a lungo termine. Una serie di studi recenti hanno dimostrato che nel momento in cui
bisogna riconoscere oggetti nuovi viene attivata la via dorsale; mentre nel momento in cui c’è
un’interazione con gli oggetti conosciuti viene attivata la via ventrale. Gli studi sull’elaborazione di
parole che rimandano ad oggetti hanno fornito un importante contributo x sciogliere la controversia
che esiste tra chi sostiene che effetti di compatibilità sono attribuibili all’attivazione del solo sistema
dorsale e chi – invece- sostiene che tali effetti sono spiegabili grazie alla mediazione del sistema
ventrale. Tali studi, infatti, hanno messo in evidenza che se gli effetti di compatibilità si
manifestano anche con le parole non è possibile escludere l’intervento del sistema ventrale e,
quindi, della MLT. Ciò è quello che ammettono Tucker ed Ellis, i quali – in un loro esperimentohanno trovato effetti di compatibilità tra la grandezza di un oggetto e il tipo di presa, pronunciando
solo parole che rimandano a quegli oggetti e senza utilizzare figure. Da ciò si è dedotto che la MLT
relativa ad associazioni tra oggetti e azioni sembra spiegare gli effetti di compatibilità, almeno per
la prensione. I risultati di Tucke ed Ellis sono importanti perché spiegano la presenza di effetti di
compatibilità per quello che riguarda la prensione; ma lasciano in sospeso la questione legata al
fatto se x le proprietà estrinseche, come l’orientamento degli oggetti, l’informazione motoria può
essere attivata in modo diretto e automatico o attraverso la mediazione della conoscenza a lungo
termine. Su questo punto si trova una risposta in uno studio recente (effettuato da Borghi e
colleghi), il quale dimostra che anche per l’orientamento degli oggetti, la MLT legata alle
interazioni tra oggetto e azione è fondamentale x spiegare l’effetto delle affordances.
Dall’analisi di tutte queste ricerche si può dedurre che sia x quanto riguarda la postura, sia per
quanto riguarda il raggiungimento, gli effetti di compatibilità sono spiegati da associazioni presenti nella MLT - tra gli oggetti e le azioni che, generalmente, si compiono con essi. Questo
conferma la teoria senso-motoria, secondo la quale i concetti non sono simboli arbitrari, ma
riattivano riattivano la varietà delle esperienze e di modalità con cui i concetti sono stati acquisiti; e
un discorso simile vale x le parole, il cui significato non è spiegabile in base a reti arbitrarie dio
associazioni con altre parole, ma rimanda ad un referente e all’esperienza senso-motoria con quel
referente. Pertanto la presenza di effetti di compatibilità non è dovuta al solo coinvolgimento del
sistema dorsale, ma anche del sistema ventrale. Tuttavia a questa affermazione se ne affianca una
alternativa (quella di Gentilucci) la quale mette in evidenza che nel sistema dorsale può avere luogo
una qualche forma di rappresentazione dell’oggetto, che codifica le modalità di interazione più
comuni. Qualunque delle due ipotesi sia corretta è importante sottolineare che questi effetti di
compatibilità trovano una spiegazione sulla base di associazioni visuo-motorie a lungo termine che
si instaurano tra gli oggetti e le azioni che vengono effettuate con essi. Ciò può avvenire attraverso
2 modalità: la prima, che coincide con l’ipotesi indessicale, le parole attivano info percettive e
visive sugli oggetti, le quali – a loro volta- attivano informazioni motorie. Secondo l’altra ipotesi le
parole attivano direttamente associazioni visuo-motorie. In conclusione si può dire che le parole
attivano informazioni motorie, anche se resta aperta la possibilità che gli effetti di compatibilità
prodotti dalle parole sono meno forti di quelli prodotti con le figure.
EFFETTI DI COMPATIBILITA’ E CINEMATICA
Gli studi descritti sino ad ora non hanno mai preso in considerazione la risposta motoria fornita dai
partecipanti ed è per questo che è importante far riferimento a degli studi recenti i quali si sono
proposti di indagare il rapporto che c’è tra il significato delle parole e le caratteristiche cinematiche
della risposta motoria. Più precisamente, lo scopo di questi studi era quello di analizzare in che
misura il significato delle parole influenza la cinematica relativa al raggiungimento o alla prensione
degli oggetti e in quale momento del movimento avviene tale influenza. In quest’ambito è
necessario far riferimento ad un esperimento di Gentilucci, il quale ha dimostrato che le parole
hanno un’influenza sul raggiungimento e la prensione di un oggetto e ha specificato che tale
influenza avviene soprattutto nelle fasi iniziali. Inoltre, in uno studio successivo, Gentilucci ha
dimostrato che i verbi influenzano il controllo dell’azione in modo più forte rispetto agli aggettivi.
Pertanto, compiendo un’analisi generale su questi studi, si deduce che essi provano che il significato
delle parole influenza il sistema motorio e precisano in quale fase dell’esecuzione del movimento si
ha l’influenza della semantica sull’attività motoria.
PAROLE CON VALENZA EMOTIVA E MOVIMENTO
Un’altra vasta gamma di ricerche hanno messo in evidenza che eseguire un movimento mentre si
apprende una parola può portarci a valutarla positivamente o negativamente. Tra questi esperimenti
importanti sono stati quelli di Caccioppo, Priester e Berntson, iu quali hanno dimostrato che gli
individui avevano un atteggiamento positivo nei confronti di ideogrammi cinesi a loro sconosciuti
se disponevano le braccia in una posizione che – di solito- indica accoglienza; e un atteggiamento
più negativo se estendevano le braccia eseguendo un movimento di allontanamento dal propriio
corpo. Gli effetti della flessione e dell’estensione delle braccia fungevano da stimoli per le parole
nuove o x le non parole, ma non erano efficaci per le parole familiari, in quanto queste erano già
connotate emotivamente sulla base di esperienze passate.
In un altro studio ai partecipanti venivano presentate parole con valenza positiva o negativa e il loro
compito era quello di determinare la valenza tirando, verso di sé, o allontanando una leva. Nel
momento in cui la parola e il gesto erano congruenti, i tempi di risposta erano più veloci; in caso
contrario i tempri di risposta erano più lenti. Lo stesso risultato si è ottenuto anche quando il
compito dei partecipanti non era quello di determinare la valenza della parola, ma solo nel
rispondere ad quando esse apparivano sullo schermo di un Pc. Un'altra serie di studi simili sono
stati effettuati nel tempo per dimostrare l’ipotesi iniziale: ossia che un movimento può influenzare
la valutazione (positiva o negativa) che un soggetto da ad una parola.
COMPRENSIONE DI FRASI E TEORIA DELLA SIMULAZIONE
La teoria della simulazione ha avuto successo negli ultimi anni, durante i quali ci si è resi conto che
molti processi fondati sulla simulazione sottostanno alla comprensione delle azioni, intenzioni ed
emozioni altrui e all’attribuzione ad altri stati. Quando si parla di linguaggio non si fa riferimento
alla simulazione in generale, ma ad una particolare accezione della nozione di simulazione: quella
applicata agli studi della comprensione del linguaggio. In accordo alla teoria della simulazione,
quando comprendiamo una frase riproduciamo mentalmente la situazione descritta; e cioè si
riattivano i pattern di attivazione neurale che si attivano durante la percezione e l’interazione con gli
oggetti descritti dalla frase. Ciò è stato dimostrato da un esperimento di Stanfield e Zwann, i quali
hanno presentato ai partecipanti delle frasi in cui l’immagine principale era un chiodo che poteva
assumere un orientamento verticale o orizzontale. In seguito, veniva presentata sullo schermo del Pc
l’immagine di un oggetto e il compito dei partecipanti era quello di decidere se l’oggetto
rappresentato era quello della frase. L’aspetto manipolato era l’orientamento degli item critici, i
quali non avrebbe dovuto avere nessuna influenza sui risultati. Invece alla fine dell’esperimento si è
notato che nel momento in cui l’orientamento dell’oggetto sia nella frase che nell’immagine
collimavano, i tempi di risposta erano più veloci rispetto a quando tali orientamenti non erano
uguali. Tale risultato suggerisce che c’è una stretta relazione tra informazione linguistica e
informazione percettivo-motoria e che la comprensione di una frase comporta la simulazione
mentale di come gli oggetti possono essere disposti, in modo da interagire meglio con essi.
Utilizzando un paradigma sperimentale simile a quest’ultimo, questi stessi studiosi hanno
dimostrato che noi non ci rappresentiamo solo l’orientamento degli oggetti, ma anche la loro forma.
Un ulteriore conferma alla teoria della simulazione è stata data dagli studi di Spivey e Geng, i quali
hanno registrato i movimenti oculari di partecipanti che, posti di fronte ad uno schermo bianco,
ascoltavano il racconto di una scena. Le scene erano costruite in modo da raggiungere una
direzionalità e i partecipanti tendevano a muovere gli occhi nella direzione che veniva descritta. La
cosa interessante è stata quella che tale fenomeno si è verificato anche quando i partecipanti
tenevano gli occhi chiusi, quando non sapevano che si stavano registrando i loro movimenti oculari
e quando non veniva chiesta loro di immaginare la situazione descritta. Ciò dimostra che i
movimenti oculare non sono azioni utili a raccogliere una serie di info, ma rappresentano il legame
tra le rappresentazioni interne e i loro referenti, i luoghi esterni, le entità esterne.
In questo settore una questione molto dibattuta è quella relativa a quali meccanismi entrano in gioco
nel momento in cui si comprende una frase, in quanto molti hanno ipotizzato che la comprensione
di una frase sul movimento scaturisce l’attivazione di quegli stessi neuroni deputati alla percezione
di un movimento. Tutto ciò sembra essere stato dimostrato da un esperimento di Kaschack, durante
il quale venivano presentate ai partecipanti delle frasi che dovevano essere giudicate sensate o
meno. Le frasi sensate seguivano una specifica direzione (di avvicinamento, di allontanamento, o un
movimento verso il basso, l’alto o di lato) e contemporaneamente ad esse venivano mostrati degli
stimoli che riproducevano un movimento nella stessa direzione o in quella opposta. Il risultato di
questo esperimento ha messo in evidenza che i tempi di risposta erano più lenti nel giudicare
sensata una frase quando c’era una concomitanza tra la direzione dell’immagine mostrata e quello
dello stimolo. Questo risultato ha messo in luce il fatto che nel simulare la frase vengono implicati
gli stessi neuroni coinvolti nel percepire il movimento in un data direzione; e ciò sembra entrare in
contraddizione con altri studi i quali hanno messo in evidenza che la lettura di frasi sul movimento
attiva il sistema motorio, facilitando la risposta piuttosto che creare un’interferenza. Una
spiegazione a ciò è stata data proproio da Kaschak, il quale ha affermato che quando una frase e lo
stimolo vengono presentati contemporaneamente, si ha unm’interferenza; se la frase viene
presentata prima dello stimolo si ha una facilitazione.
Un altro fattore che può determinare interferenza o facilitazione coincide con la facilità di integrare
gli stimoli nella simulazione creatasi leggendo la frase. In linea con questi risultati, un lavoro
importante è quello di Buccino e dei suoi colleghi, il quale mette in evidenza che la lettura di frasi
che descrivono azioni modula il sistema motorio. In questo caso gli autori hanno utilizzato uno
studio comportamentale associato ad uno studio in cui, tramite la Tms, si è registrata l’ampiezza dei
potenziali evocati muscolari. In questo esperimento i partecipanti dovevano ascoltare frasi di 3 tipi:
astratte, frasi relative ad azioni eseguite con i piedi e frasi relative ad azioni eseguite con le mani; il
loro compito era quello di fornire una risposta motoria (o con la mano o con il piede) nel momento
in cui ascoltavano una frase concreta, e di astenersi dal rispondere nel caso ascoltavano una frase
astratta. I risultati hanno dimostrato che ascoltare frasi relative ad azioni eseguite con le mani
provoca un calo dell’ampiezza dei potenziali evocati dei muscoli dei piedi; mentre ascoltare frasi
relative ad azioni eseguite con le mani provoca un calo dell’ampiezza dei potenziali evocati dei
muscoli delle mani. Inoltre i risultati dimostrano che risposte date con lo stesso effettore a cui fa
riferimento la frase sono più lente di quelle date con un effettore diverso. Alla fine si può dire che
questi studi hanno indicato che il significato delle frasi comporta una modulazione dell’attività del
sistema motorio e che questa modulazione è specifica, cioè differisce in funzione dell’effettore
coinvolto.
COMPRENSIONE DI FRASI E AFFORDANCES
La teoria della simulazione prevede che quando un soggetto comprende una frase relativa ad azioni
compiute con oggetti, si riattivano le affordances di quegli stessi oggetti. Secondo la teoria
indessicale ciò avviene perché le parole o le frasi rimandano agli oggetti, ai loro referenti o alle loro
rappresentazioni. Dagli oggetti derivano delle affordances, che possono essere diverse anche per un
solo stimolo, ed è per questo che si è giunti ad affermare che non sono le parole stesse a vincolare il
modo in cui le idee possono essere combinate; bensì le affordances degli oggetti a cui le parole
rimandano. Per dimostrare questo gli studiosi che hanno elaborato la teoria indessicale hanno fatto
un esperimento in cui i partecipanti dovevano valutare se le frasi presentate al pc erano sensate o
meno, premendo uno o l’altro tasto i quali erano associati a 2 oggetti che potevano completare la
frase anche se non erano collegati semanticamente all’oggetto che andavano a sostituire. Il risultato
di questo esperimento (pag.183) ha evidenziato che le frasi che rimandano ad azioni con degli
oggetti comportano una simulazione interna dell’azione descritta, la quale è vincolata dalle
caratteristiche percettive dell’oggetto cui rimanda. Un altro grande lavoro è stato quello di Borghi e
colleghi, in cui veniva chiesto ai partecipanti di giudicare se la parola che seguiva una frase
costituiva una parte dell’oggetto descritto nella frase. Il risultato di tale esperimento ha dimostrato
che le parti che attivano un’azione congruente all’azione descritta nella frase portano a tempi di
risposta più veloci, indipendentemente dall’associazione semantica tra la parola e la frase che la
precede. Tale risultato suggerisce che i concetti sono variabili, nel senso che vengono attivate
caratteristiche percettive diverse a seconda dell’azione che si compie e dell’obiettivo che si vuole
raggiungere; la conseguenza è che mentre per un dato tipo di azione, una parte può essere una
buona affordances, per un altro tipo di azione ciò non vale.
COMPRENSIONE DI FRASI E RISPOSTE MOTORIE
Mentre la comprensione delle frasi che descrivono azioni con oggetti porta a simulare internamente
l’azione descritta, la lettura di frasi relativa ad azioni, attiva direttamente un tipo di movimento. Ciò
è dimostrato dagli studi di Glenberg e Kaschak, i quali chiedevano ai partecipanti di valutare la
sensatezza o meno delle frasi e di rispondere si o no premendo un pulsante. Per premere il pulsante
essi dovevano allontanare o avvicinare la mano dal corpo e, confermando la teoria della
simulazione, sono stati trovati effetti di compatibilità tra azioni descritte e i movimenti dei
partecipanti. Tuttavia va sottolineato che quando una frase implicava un’azione che seguiva una
direzione opposta a quella del movimento i soggetti avevano difficoltà a fornire un giudizio di
esattezza; mentre era più facile rispondere se le due direzioni erano uguali. Lo stesso effetto di
compatibilità si verificava anche con le frasi astratte. Anche in uno studio molto simile a questo, in
cui si chiedeva ai partecipanti di valutare la sensatezza di coppie composte da verbo e nome, i
risultati hanno confermato la teoria della simulazione: leggere frasi che descrivono situazioni in cui
si afferrano oggetti, comporta una preattivazione dell’arto con cui gli oggetti vengono afferrati
generalmente.
COMPRENSIONE DI FRASI E MOVIMENTO DEGLI OGGETTI
Una serie di ricerche recenti hanno dimostrato che nel momento in cui leggiamo o comprendiamo
una frase legata ad un’azione simuliamo mentalmente quell’azione; pertanto la comprensione di
frasi attiva rappresentazioni visive dinamiche le quali sono molto importanti per le azioni che
bisogna compiere. Uno studio molto importante è quello di Zwann e dei suoi colleghi durante il
quale si chiedeva ai partecipanti di ascoltare frasi che descrivevano un movimento o di
avvicinamento di un oggetto. Dopo la presentazione della frase i partecipanti vedevano due
immagini dell’oggetto presente in essa in sequenza e, premendo un tasto, dovevano indicare se le
due figure rappresentavano lo stesso oggetto o meno. Nella prima delle immagini l’oggetto poteva
essere più piccolo rispetto alla seconda, suggerendo un movimento di avvicinamento; o più grande,
suggerendo un movimento di allontanamento. A conferma della teoria della simulazione si è trovato
un effetto di congruenza tra il tipo di frase presentata e la sequenza di presentazione, ma quando la
frase suggeriva un movimento di allontanamento, i tempi di reazione erano più veloci rispetto a
quando la frase suggeriva un movimento di allontanamento. E’ interessante notare che la teoria
della simulazione vale anche quando si prende in considerazione un movimento fittizzio; e a tal
proposito, importanti sono stati gli studi di Matlock durante i quali si leggeva, ai partecipanti, una
storia che descriveva un particolare scenario e, dopo, si presentavano frasi che potevano o meno
contenere verbi relativi al movimento fittizzio. l’autrice ha notato che il tipo di scenario
rappresentato influenzava l’elaborazione della frase che conteneva il verbo indicante il movimento
fittizzio. Inoltre nel momento in cui lo scenari era ricco di ostacoli, i tempi di risposta erano più
lenti rispetto al momento in cui lo scenario indicava una situazione priva di ostacoli. Questi risultati
sono giunti ad affermare la tesi di Langacker secondo la quale x formarsi un concetto occorre
assumere una prospettiva dalla quale partire, dalla quale si analizza la scena e si simula
mentalmente il movimento.
In uno studio successivo, in cui i partecipanti dovevano fare dei disegni che rappresentavano scene
descritte da verbi fittizzi o da verbi che non indicavano movimento, Matlock ha dimostrato che i
soggetti tendevano a disegnare figure più allungate con i verbi di movimento fittizzio e, in
particolare, con quelli che indicavano movimenti veloci piuttosto che con quelli che indicavano
movimenti lenti. Infine questo studioso ha messo in evidenza che i verbi fittizzi influenzano anche il
tipo di prospettica che si adotta nel pensare al tempo.
COMPRENSIONE DI FRASI E PROSPETTIVE RILEVANTI PER L’AZIONE
Le parole che rimandano ai concetti attivano un’informazione motoria anche un modo indiretto.
Infatti, tra le diverse caratteristiche percettive di un oggetto noi selezioniamo quelle che rimandano
ai referenti percepiti attraverso una data prospettiva che, generalmente, è quella canonica, la quale è
più rilevante per le azioni situate nei contesti. Tuttavia, oltre alla prospettiva canonica, la quale
permette di rimandare i concetti a referenti percepiti da vicino, frontalmente, dall’esterno e
visivamente; c’ anche la prospettiva dipendente dal contesto, che – in alcuni casi- può superare
quella canonica. In una serie di esperimenti Borghi e i suoi colleghi hanno cercato di capire se i
concetti rimandano a referenti rappresentati secondo diverse prospettive e se tali prospettive sono
quella canonica e quella dipendente dal contesto. I risultati di tale esperimento hanno dimostrato
che noi ci rappresentiamo i concetti secondo queste due prospettive in quanto tendiamo a
rappresentarci gli oggetti secondo la modalità visiva, ma siamo in grado di simulare anche
situazioni in cui l’oggetto si caratterizza per proprietà uditive.
Infine va sottolineato che le prospettive con cui gli oggetti sono percepiti possono essere modulate
dallo scenario rappresentato da una frase. Ciò è stato ulteriormente dimostrato da un esperimento di
Borghi e dei suoi colleghi, il cui risultato indica che nell’elaborare frasi ci raffiguriamo
mentalmente le situazioni in modo puntuale e selezioniamo informazioni rilevanti a partire da una
data prospettiva.
L’ATTIVITA’ SPORTIVA: MOVIMENTO E MEMORIA
La memoria di movimenti può essere considerata uno specifico settore all’interno degli studi sulla
memoria in generale e, in più, essa può essere vista come il punto di contatto tra due ambiti di
ricerca differenti: nel primo caso essa si connette con gli studi fatti sulla memoria di movimenti
semplici; nel secondo caso esiste un legame molto stretto tra il ricordo del movimento in attività
sportive e gli studi sulle modalità di memorizzazione utilizzate dagli esperti. Il fattore che
accomuna questi due settori è il livello di abilità/conoscenza che gli atleti professionisti possiedono
nei confronti della disciplina che praticano. Alcuni studi i quali hanno messo a confronto le
modalità di ricordo degli atleti professionisti con quelle di esperti in altri campi, hanno messo in
evidenza che i giocatori di tennis, hockey su prato e di pallacanestro impiegano strategie di
memorizzazione simili a quelle impiegate dai giocatori di scacchi. Dato che la caratteristica comune
a entrambe gli sport è quella della presenza di due squadre che si scontrano, alcuni autori
sostengono che il fattore che assimila il tipo di memorizzazione coincide sia la strategia di attacco o
difesa impiegata nella partita. Per rispondere a questo interrogativo, la memoria di movimenti è
stata studiata su attività sportive che non comportano la contrapposizione tra squadre. A tal
proposito, uno studio importante è stato quello di Deakin e Allard, i quali hanno messo a confronto
un gruppo di pattinatori su ghiaccio di prima categoria con un gruppo di pattinatori principianti. Il
loro compito era quello di ricordare ( sia verbalmente che con il corpo) dei movimenti relativi al
pattinaggio, dopo che questi erano stati presentati in modo corretto da professionisti. Il risultato di
questo esperimento ha messo in evidenza che i pattinatori esperti hanno fornito percentuali di
ricordo maggiori in entrambe le condizioni rispetto ai pattinatori non esperti. Tale risultato è stato
spiegato affermando che gli esperti riescono ad accedere più facilmente alla “memoria semantica”
in cui sono conservati i vari movimenti (relativi ad una disciplina sportiva) attraverso un codice di
tipo proposizionale.
Due studiosi, Bach e Tipper, hanno affermato che durante l’identificazione di persone tendiamo ad
utilizzare il sistema motorio in quanto associamo ad esse delle specifiche abilità motorie. Per
dimostrare ciò hanno fatto un esperimento in cui hanno presentato ai partecipanti le immagini di 4
atleti famosi: 2 giocatori di calcio e 2 tennisti, e – dopo- gli hanno chiesto di premere un tasto con la
mano o un pedale con il piede. I risultati di quest’esperimento hanno dimostrato che le risposte date
dai partecipanti erano più veloci nel momento in cui c’era congruenza tra l’immagine e l’azione;
mentre erano più lente in caso di incongruenza. Ciò ha confermato l’ipotesi secondo la quale la
visione di una persona che ha elevate capacità motorie influenza il sistema motorio e le azioni
dell’osservatore. Negli ultimi anni le caratteristiche dei giocatori o degli atleti esperti hanno
catturato l’attenzione di molti studiosi, i quali si sono concentrati su diversi aspetti: da un lato ci
sono coloro i quali sostengono che i grandi esperti possiedono abilità-domini specifiche; dall’altro
ci sono coloro che si sono soffermati sulle caratteristiche peculiari della memoria degli atleti e, a tal
proposito, è stato suggerito che praticando – nel tempo- una disciplina sportiva, gli atleti
acquisiscono automaticità nell’eseguire determinati pattern motori. Tuttavia è importante
sottolineare che tali abilità non sono relative ad un singolo dominio o ad una singola disciplina, ma
possono essere trasferiti da un ambito all’altro.
L’ATTIVITA’ SPORTIVA: RISORSE ATTENTIVE
Nell’uomo le risorse attentive disponibili sono limitate ed è per questo che nel momento in cui un
soggetto compie più di un compito nello stesso tempo, possono verificarsi fenomeni di interferenza.
Nell’ambito di attività agonistiche tali fenomeni possono essere provocate nel momento in cui
l’atleta comincia ad elaborare delle informazioni che stanno al di fuori del campo di gara o che,
comunque, non sono legate all’azione che sta svolgendo. Se ciò accade si verificherà un
decadimento qualitativo della prestazione e un conseguente danno dell’attività in corso. Il consiglio
che spesso viene dato agli atleti per evitare la presentazione di fenomeni di interferenza è quello di
mantenere o aumentare la concentrazione; e cioè di concentrare le proprie risorse attentive sul
compito rilevante in quel determinato momento e luogo. Tuttavia – per ottenere un effettivo
vantaggio dalla focalizzazione delle risorse sul compito- occorre prima individuare le parti del
compito stesso. Alcune caratteristiche del sistema attentivo dell’uomo sono state valutate in alcune
specifiche attività agonistiche, come la pallavolo e l’atletica.
Castiello e Umiltà hanno misurato lo sforzo attentivo richiesto nella pallavolo, partendo dal
presupposto che maggiori sono le risorse impiegate nell’esecuzione di un compito principale,
minori sono quelle disponibili per un compito secondario. Nell’esperimento i due studiosi hanno
preso in analisi il momento della ricezione e gli atleti sottoposti ad esso avevano un caschetto dal
quale gli è stato mandato un input sonoro in tre momenti della battuta, al quale essi dovevano
rispondere con un segnale vocale. Per verificare i risultati di tale esperimento sono stati misurati i
TR degli atleti sia nella condizione sperimentale (dove i compiti erano 2) sia nella condizione di
controllo, in cui essi erano chiamati a svolgere un solo compito. I risultati di questo studio hanno
messo in evidenza – prima di tutto- che i TR nella situazione di doppio compito rallentavano
rispetto alla condizione di controllo e, in secondo luogo, che lo sforzo attentivo si modifica nel
corso della prestazione per raggiungere la massima intensità nel momento in cui devono essere
selezionati i programmi relativi alla risposta (nel caso della pallavolo).
La stessa tecnica del doppio compito è stata adoperata anche nell’atletica e, in particolare, nelle gare
dei 100 metri piani e nei 100 ad ostacoli le quali rappresentano delle attività sportive in cui la
richiesta delle risorse non dipende dal comportamento dell’avversario, ma dalle difficoltà
dell’attività motoria. Dai risultati emersi dagli esperimenti condotti nell’ambito di tali sport si può
dedurre che la richiesta delle risorse attentive non è determinata solo dal comportamento
dell’avversario ma, in primo luogo, dal compito motorio in sé e che le richieste di risorse variano
durante la prestazione, aumentando nelle fasi iniziali e finali della corsa.
Una delle caratteristiche principali degli atleti di varie discipline è quella di essere in grado di
concentrarsi per lunghi periodi di tempo. Tale concentrazione può essere distolta da stimoli esterni
o interni: gli stimoli esterni sono, per esempio, il rumore di sottofondo, il pubblico; gli stimoli
interni sono la tendenza a pensare ad eventi passati o futuri, a pensare ad altre competizioni o a
prestare attenzione a troppi elementi contemporaneamente. Tuttavia nella focalizzazione
dell’attenzione esistono delle differenze individuali, ed è per questo che uno studioso – Mehrabian –
ha distinto gli atleti in screenser e non screenser. I screenser sono meno ansiosi, più capaci di
scansionare l’ambiente circostante e selezionare l’informazione di rilievo.
Per i giocatori di tennis la focalizzazione dell’attenzione può migliorare attraverso una serie di
strategie, come quella di imparare a concentrarsi sulla situazione presente e focalizzarsi sul compito
senza lasciarsi distrarre da riflessioni sul possibile esito della propria prestazione. Gli sport
all’aperto – invece- richiedono una particolare flessione nell’uso dell’attenzione perché gli stimoli
presenti nell’ambiente sono moltissimi e, inoltre, i giocatori di calcio, di rugby, di pallavolo e di box
devono avere un fuoco dell’attenzione più ampio in quanto devono rispondere contemporaneamente
a più stimoli. Infine, i giocatori di cricket devono possedere un fuoco dell’attenzione ristretto perché
in questo sport bisogna rispondere a pochi stimoli contemporaneamente.
Un altro modo per misurare le risorse attentive è quello di misurare la possibilità e il tempo
necessario all’orientamento dell’attenzione verso diverse posizioni spaziali. La capacità di spostare
l’attenzione da un punto all’altro è una caratteristica fondamentale in molti sport e, di conseguenza,
gli atleti esperti sono molto abili nell’effettuare questo tipo di processo. Per confermare questa
ipotesi una serie di autori hanno sottoposto 6 arcieri, 6 pugili, 6 atleti impegnati nelle gare del
pentathlon e un gruppo di controllo ad un esperimento di TR a stimoli visivi, presentati con il
paradigma di Posner. Il compito dei partecipanti era quello di indirizzare la propria attenzione verso
la posizione (indicata da una cifra o da un punto interrogativo) in cui sarebbe comparso lo stimolo e,
all’apparire di esso, premere il pulsante di risposta. Le condizioni sperimentali che si sono
presentate in questo compito furono 3: una neutra, quando lo stimolo era preceduto dal punto
interrogativo; una valida, quando lo stimolo era preceduto dalla cifra che indicava la posizione
corretta; una invalida, quando lo stimolo era preceduto dalla cifra che indicava la posizione non
corretta. Dal confronto tra le posizioni valide e quelle invalide è risultato che si possono ottenere il
beneficio o il costo temporale conseguenti alle diverse condizioni sperimentali. Inoltre i risultati di
questo esperimento hanno messo in evidenza che a differenza del gruppo di controllo, i tre gruppi di
atleti sembra non abbiano utilizzato l’informazione che precedeva lo stimolo per dare la risposta,
non ottenendo- così- né una facilitazione temporale della condizione valida né un corrispettivo
costo a seguito della condizione invalida. Questo dato è stato spiegato affermando che gli atleti
esperti hanno una maggiore flessibilità nello spostamento dell’attenzione o hanno la capacità di
mantenere tutto il campo visivo sotto il costante controllo dell’attenzione. Dato che questo secondo
tipo di attenzione porta ad un risparmio del numero di spostamenti attenzionali da un lato, ma ad un
generale ritardo delle risposte dall’altro, una serie di autori hanno affermato che i TR degli atleti
esperti non sono più veloci di quelli del gruppo di controllo.