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edda

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ANTONIO SPINOSA
EDDA
UNA TRAGEDIA
ITALIANA
TEATRO DELLA CRUDELTA'.
I fascisti la chiamavano Eccellenza, ma non era che la figlia di Mussolini e la moglie di Ciano. Non aveva
incarichi ufficiali e non indossava che l'uniforme di crocerossina. Disponeva tuttavia d'un immenso
potere che usava solo in parte, disordinatamente, secondo un umore bizzarro e capriccioso. Era
interessata al potere in quanto le serviva per muoversi e agire in piena libertà… personale, non come
strumento di dominio.
La sua passione era il poker, la cosa di cui aveva maggior bisogno era l'alcol. Il gioco e l'alcol la
inducevano a preferire la vita di clan e a tenersi lontana dalle masse di cui, a differenza del padre,non
coglieva il magnetismo.
Amava e stimava più il padre del marito. Mentre ravvisava in Benito un grande uomo politico, vedeva in
Galeazzo una persona debole, incapace di assolvere il ruolo che la sorte gli aveva così fortunosamente
affidato. Lei e il padre si rimproveravano di aver sbagliato con Galeazzo i loro conti.
Il carattere di Galeazzo era venato di vanità, quello di Edda di estrosità. Essi erano però accomunati nelle
esplosioni di ira, nella propensione alle apocalittiche scenate.
Lui era naturalmente fatuo, lei tendenzialmente tragica.
Come tali non avrebbero mai dovuto scegliersi, ma li aveva fatti incontrare il destino e non poterono
nemmeno tentare di opporglisi per la mollezza dell'uno e l'impetuosità dell'altra.
Galeazzo sarebbe stato più consono a una politica di ordinaria amministrazione, pur nella dittatura. E
difatti, al momento delle grandi scelte si scopre per ciò che era, un uomo incerto e dubbioso sebbene
finisse con l'accodarsi al gruppo di chi aveva deciso di abbattere Mussolini per sganciare l'Italia dal carro
nazista e risparmiarle inutili lutti in una guerra già perduta.
Il menage familiare dei Ciano era tipico d'una coppia aperta, padroni entrambi dei loro episodi
sentimentali, delle loro amicizie, dei loro interessi sempre divergenti. Essi erano praticamente separati, e
l'amore che in realtà intimamente li legava si svelava ai loro animi nell'atto finale. Ne furono essi stessi
sorpresi e travolti. Edda aveva vissuto una strana e spensierata vacanza fino a quando non fu chiamata ad
affrontare la prova suprema. Si trova al centro d'un dramma immane che si mostrava con i contorni
d'una storia familiare, ma che in realtà andava tanto oltre da assurgere a tragedia italiana. In lei esplose
la natura pi— intima del suo animo a lei stessa sconosciuta, quella d'una femmina tragica portata all'urlo
e all'invettiva. Se storicamente la sua parte fu di comprimaria, proprio perché‚ Edda era soltanto figlia del
duce e moglie di un ministro, la sua atroce vicenda umana entrava direttamente nella storia della
nazione.
La scena era quella di un teatro della crudeltà… in cui trionfavano le forze del male rappresentate dalla
miseria morale di un padre che cedeva alla ragione d'uno Stato fantasma e che sacrificava il marito della
figlia alla volontà d'una potenza straniera ormai stremata e alla rabbia d'un pugno di disperati senza
futuro. Rivolgevano al marito di Edda l'accusa di tradimento e rovesciavano la realtà dei fatti
poiché‚ erano loro, Mussolini e Hitler a tradire. E Galeazzo si comportava da patriota.
Il duce calpestava l'amore della figlia, un amore straordinario; il Fuhrer spregiava la devozione infinita
d'una donna che ne aveva fatto una divinità per ingegno e forza. Era stata tradita da tutti, dagli uomini e
dalle idee in cui credeva.
Edda condusse una strenua lotta per salvare dalla fucilazione il marito, il padre dei suoi figli. Ne uscì
sconfitta.
Chi voleva la morte di Galeazzo - traditore o pretesto di vendetta? soggiaceva a logiche perverse che non
lasciavano spazio ai sentimenti umani. Vittima di una storia crudele, lei, come un'eroina di antiche
tragedie, non aveva altra scelta per sfuggire al patimento della vita: o fingersi pazza o considerarsi morta.
PROLOGO.
La zingara.
Su un povero materasso di foglie di granturco, a Forlì, il primo settembre del 1910 alle tre del mattino,
una giovane ragazzona romagnola, Rachele Guidi, mise alla luce una bambina. Erano trascorsi otto mesi e
mezzo dal giorno della sua unione con un conterraneo un po' ribaldo, Benito Mussolini, e si poteva perciò
essere certi che il concepimento fosse avvenuto nella vicina Carpena, presso San Martino in Strada,
durante la fuga cui erano ricorsi per mettere di fronte al fatto compiuto i genitori che si opponevano a
quel legame. Benito assisteva al parto ma, nonostante la sua spavalderia di uomo rotto a tutto, non
resistette alle urla strazianti della donna. E svenne.
Alla neonata furono imposti i nomi di Edda, Rosa, Edvige. Al primo di questi tre nomi lui pensava da
tempo, con la certezza che gli sarebbe nata una femmina. Rosa era il nome della madre, Edvige quello
della sorella minore. Per Edda aveva invece affondato le mani nell'armamentario teatrale che gli era caro.
Da frequentatore di teatri, una sera a Milano aveva assistito alla recita di un drammone ibseniano, Hedda
Gabler, e si era invaghito dell'insolito nome che ben si addiceva alla dama che aveva visto muoversi sulla
scena con tragica freddezza e sprezzante alterigia. Per di più, sotto le volte e gli stucchi dorati della
Galleria milanese ancora si favoleggiava sull'interpretazione che di Hedda aveva offerto molti anni prima
Eleonora Duse. Ma lui, animato da snobismo intellettuale aggiungeva che quel nome strano e duro gli era
stato ispirato dalla lettura degli Eroi di Carlyle e degli antichi Carmi mitologici nei quali si narrano le
meravigliose imprese di principi scandinavi.
Prima di Edda, Benito aveva avuto altri due figli. Erano figli naturali di cui si sapeva ben poco essendo lui
uno sconosciuto. Il primo di loro, che ebbe il nome di Candido, gli era nato nel 1908 dalla relazione con
una friulana bionda e robusta, Gigia Nigris, nei mesi in cui fu maestro elementare a Tolmezzo. Un altro
maschio glielo aveva dato a Trento l'anno successivo una giovane militante socialista, Fernanda Oss
Facchinelli. Ma il bambino era morto presto, e anche il rapporto con la donna, minata dalla tubercolosi, si
era rapidamente concluso.
Rachele e Benito costituivano una coppia irregolare. Pertanto la piccola Edda venne sì iscritta all'anagrafe
di Forlì come figlia di lui, ma si tacque il nome della madre. La cosa si riseppe subito. Fra gli avversari
politici di Benito, soprattutto fra i seguaci del deputato repubblicano della zona, Giuseppe Gaudenzi, si
diceva che Edda era stata denunciata come figlia di madre ignota per nascondere l'identità della vera
madre. Allora, di chi era figlia? Alcuni giuravano che Benito l'avesse avuta da un'agitatrice russa ebrea,
molto intelligente, ma non bella sebbene si chiamasse Angelica, Angelica Balabanoff, conosciuta in
Svizzera, a Ginevra; altri invece parlavano di una Eleonora H., una bellissima profuga polacca,
studentessa in medicina, anche lei incontrata e amata in Svizzera. Mussolini, il Benitouchka di allora, la
ricordava con nostalgia nel suo diario: A Ginevra le mie relazioni con Eleonora H. divennero più amicali.
L'amicizia divenne quindi amore. Era un donna coltissima, di origine polacca, sposata in Russia. Studiava
medicina. Ho passato con lei indimenticabili serate.
A confondere ulteriormente le acque era sempre lui che raccontava ai compagni socialisti di aver avuto
Edda da una ragazza inglese, una certa Gibson incontrata come le altre in Svizzera, e di averla imposta a
Rachele la quale,amandolo svisceratamente, si era adattata ad accoglierla presso di s‚ e a crescerla come
figlia.
Parlando però con Rachele, lui si mostrava indispettito per la ridda delle voci che circolavano sulla
nascita della piccola, e doveva intervenire la sua stessa compagna a tranquillizzarlo: Lasciali dire! Non
ricordi di essere svenuto la mattina in cui misi al mondo Edda?. Allora Benito, di rimando, fra grandi
risate diceva:
La Balabanoff, poi! Se mi trovassi in una foresta, e lei fosse l'unica donna, preferirei accoppiarmi con una
scimmia. Ha perfino le gambe storte.
Naturalmente Edda non fu neppure battezzata, ma un avversario del giovane agitatore socialista,
facendosi forte della sua autorità di impiegato al Comune, mise in giro la diceria secondo cui in realtà
Mussolini era venuto meno ai suoi sbandierati principi di miscredente e aveva sottoposto la figlia al
sacramento del battesimo.
Benito reagì istantaneamente a quel tentativo di screditarlo con tanta falsità davanti ai compagni di
Forlì. Quindi, raggiunto in municipio l'imprudente e impudente impiegato, lo indusse con due cazzottoni,
sferratigli in pubblico, a rimangiarsi le sue fandonie. I conterranei romagnoli dicevano che quel Mussolini
era proprio un esaltato, e lo chiamavano 'e matt. Lui se la rideva teorizzando sulla pazzia: Ho sempre
sputacchiato il buon senso. I greci ritenevano la pazzia d'origine divina, e le rivoluzioni sono le rivincite
della follia sul buon senso". L'irruenza di Benito si placava davanti alla bambina.
Edda lo rendeva mansueto, ma anche ansioso, e bastava un nonnulla perchè‚ egli temesse chissà quali
sciagure per lei. Nei primi giorni di vita, quando la piccola dormiva nel lettone in mezzo ai genitori,
Benito quasi non si muoveva per l'intera notte temendo, nel voltarsi, di soffocarla sotto la sua mole. Ben
presto decise perciò di comperare una culla per mettere la figlioletta al sicuro. Volle fare egli stesso
l'acquisto, sicchè‚ nelle vie di Forlì si assistette al curioso spettacolo di un agitatore politico che, pur
avendo sempre mostrato di disdegnare le faccende domestiche, marciava ora baldanzoso verso casa con
una grossa culla di vimini sulle spalle, incurante dei compaesani che gli davano la baia. Pagò la culla
quindici lire, pari al compenso che Cesare Battisti gli spediva da Trento per ogni puntata sulle avventure
erotiche del cardinale Carlo Emanuele Madruzzo e dell'amante Claudia Particella. Quelle avventure
apparivano sul giornale il Popolo che Battisti dirigeva. Mussolini allungava a dismisura il romanzo, denso
di vicende lussuriose, che andava scrivendo, e sollecitava la riluttante Rachele a suggerirgli lo spunto di
sempre nuovi episodi piccanti.
Istintivamente Edda la sera prendeva sonno attorcigliandosi a un dito una treccina di capelli. Il padre
cercava di distoglierla da quel vezzo, senza riuscirvi. Spazientito, una volta ricorse a un rimedio estremo,
e con un paio di sforbiciate le tagliò di netto i capelli. Priva della treccia, la piccola per più sere non riuscì
a chiudere occhio.
E frignava in continuazione, tanto che Benito rimedio alla ciocca tagliata appendendo alla culla una
barbuta pannocchia di granturco.
Altre volte, quando Edda tardava ad addormentarsi, lui afferrava il violino e strimpellava alcune note a
mo' di ninnananna, ma con raro successo. Avveniva anche che rincasando a notte alta, e trovando la
figlioletta già addormentata, attaccasse a suonare, con la strana idea che ciò potesse allietarla nel sonno.
La piccola si svegliava e stava ad ascoltare imbambolata, ma poi, non appena lui smetteva il concertino,
cominciava a urlare a perdifiato pretendendo che il padre riprendesse la musica. Benito ormai stanco del
violino soffiava sulla candela per fare buio nella stanza con la speranza che Edda si quietasse. Ma
nell'oscurità la piccola tornava a strillare, e allora bisognava riaccendere la luce. Una notte si andò avanti
per qualche ora con questa manfrina, fino a quando il padre, fuori di sè, si mise a lanciare contro la culla
della figlioletta ogni oggetto a portata di mano, cuscini, libri, giornali e scarpe.
Il 1910 era cominciato con un suicidio. La contessina Vera, giovanissima nipote del generale Ugo Brusati,
primo aiutante di campo di re Vittorio Emanuele terzo, si era misteriosamente tolta la vita con un colpo
di rivoltella al cuore. A Roma, luogo in cui il 3 gennaio del 1910 si era verificato il fatto, e a Milano, città
d'origine dei Brusati, il bel mondo dei nobili cui la suicida apparteneva era percorso da moti di stupore.
Nei saloni del Quirinale e fra gli alti gradi militari si univa allo stupore la disperazione per un gesto
incomprensibile compiuto da una bionda fanciulla assai bella e di vivida intelligenza che a guardarla
appariva come baciata dalla fortuna. Tutti si stringevano attorno al padre della ragazza, anche egli
generale, e al fratello, un tenente d'artiglieria di belle speranze. Qualche minuto prima di premere il
grilletto dell'arma, Vera aveva scritto su un foglietto poche e scarne parole per il padre: Perdonami, sono
tanto infelice.
Alla costernazione degli strati alti della società si contrapponeva la cinica soddisfazione di taluni seguaci
delle ideologie socialiste e repubblicane, i quali, nutrendosi di rancori anti-monarchici, non si
commuovevano neppure davanti al suicidio d'una giovinetta diciottenne. Ai loro occhi Vera aveva il torto,
come dicevano i più fanatici, di appartenere ai Brusati, una famiglia di monarchici servitori di monarchi.
Qua e là nei circoli socialisti quel suicidio offriva lo spunto per lunghe discussioni sulla vitalità della
monarchia in Italia, un'istituzione che non si era riusciti ad abbattere nemmeno con il regicidio di dieci
anni prima.
A Forlì, durante le riunioni redazionali d'un modesto settimanale socialista di quattro paginette, ma
ampollosamente intitolato La Lotta di Classe, si svolgevano su quei temi discussioni quanto mai vivaci a
opera di Mussolini, agitatore politico alle prime armi ma già fra i più ardenti e maneschi. Egli aveva
ventisette anni, ed era un povero maestro elementare cui la Federazione forlivese aveva affidato la
direzione del giornale.
In Italia la condizione dei maestri e della scuola era misera. Spesso le aule non erano che vere e proprie
stalle; l'analfabetismo colpiva la metà della popolazione, con punte del novanta per cento in alcune
regioni del Mezzogiorno come la Basilicata.
La scuola era odiata dai ceti conservatori, tanto che a Palermo si arrivava a indicare nei maestri i nemici
della pace sociale. A Roma i socialisti di Ivanoe Bonomi e i repubblicani di Ubaldo Comandini replicavano
vivacemente attribuendo ai clericali la responsabilità della profonda arretratezza culturale del paese.
Mussolini rilanciava una famosa sparata di Victor Hugo, il quale aveva detto: In ogni villaggio c'é una
fiamma, il maestro, e c'é un individuo che cerca di spegnerla, il prete. Quindi apriva un' inchiesta sulle
pagine della Lotta di Classe e si chiedeva: Che cosa si legge in questa città? Qual'é il pascolo intellettuale
dei forlivesi?.
Si rispondeva, scoraggiato, di aver appurato che a Forlì non c'erano veri librai; essi sarebbero stati inoltre
costretti a mangiare giallo se avessero dovuto limitarsi a vendere soltanto libri. Dovevano smerciare di
tutto: Sono un po' cartolai, un po' profumieri. Le loro botteghe somigliano ai bazar.
In città si vendevano appena due o tre copie di riviste importanti, come la Voce, Marzocco, la Giovane
Italia, mentre la Domenica del Corriere" arrivava a duecento copie e l'Amore Illustrato superava le
duecentocinquanta. La Biblioteca comunale non disponeva che di qualche centinaia di romanzi, sudici di
dentro e di fuori.
Che dire, poi, dei sodalizi politici? Un giorno, scriveva Mussolini, entro in una società repubblicana e vedo
che sotto il ritratto di Mazzini, l'anima mistica per eccellenza, si gioca alla morra; un altro giorno entro in
un circolo socialista e trovo sotto l'effigie di Marx i miei cari compagni che s'indemoniano per una
briscola mal giocata.
Eppure nelle sezioni dei partiti si discuteva, e spesso proprio per merito suo. In quelle settimane i
dibattiti che prendevano spunto dal colpo di pistola della Brusati e dalle sorti della monarchia
s'intrecciarono con la notizia della morte di Andrea Costa, il più amato in Italia dei socialisti rivoluzionari.
L'antico sovversivo, seguace di Bakunin, era adorato dai conterranei. A Imola, sua città natale, lo
chiamavano familiarmente il romagnolino. L'opposizione da lui condotta contro le guerre coloniali aveva
infiammato le masse proletarie, e ora ne piangevano la scomparsa. In quei giorni di lutto i compagni
romagnoli ricordavano che proprio Ugo Brusati, lo zio di Vera, era stato implicato in una delle più
tragiche avventure coloniali del paese. Quattordici anni prima, nella battaglia di Adua, il suo reggimento
era stato annientato dalle truppe abissine, ed egli era fortunosamente riuscito a salvarsi dalla carneficina
insieme ad altri commilitoni. I socialisti inscenavano nelle strade manifestazioni di protesta contro il
governo. In coro cantavano con rabbia: O Baldissera, / non ti fidar di quella gente nera! / O Menelicche, /
le palle son di piombo e non pasticche!.
Mussolini lamentava che al dolore di Imola per la morte di Costa corrispondesse l'indifferenza di Forlì.
Se ne adontava, e scriveva che i forlivesi si rimbecillivano all'infinitofra balli (eppure lui diceva di essere
un provetto ballerino),manifestazioni sportive (eppure lui si gloriava dei suoi muscoli) e la lettura
dell'Amore Illustrato. Quindi sbottava: Io propongo che si cambi lo stemma cittadino. Al posto dell'aquila
si metta un grande specchio e un imbecille ben pettinato che vi si rimira grattando una chitarra, (eppure
lui suonava il violino e s' impomatava i capelli).
Teneva un diario nel quale, pochi giorni dopo la morte della giovane Vera, scrisse, in data 17 gennaio, di
aver fatto la sua scelta amorosa. Stanco di amare tante donne diverse, si era finalmente unito, pur senza
vincoli ufficiali, n‚ civili, n‚ religiosi, con Rachele Guidi, una bionda contadinella di diciassette anni dagli
occhi turchini che egli descriveva freddi ma conturbanti. A lei invece apparivano fosforescenti, enormi e
profondi, i neri occhi del suo uomo che la fissava mentre si accaniva a torturare un povero violino.
Vezzosamente, Benito la chiamava Rachiletta o anche Chiletta. La corteggiava da tempo, e in giro si
sussurrava che la bela burdela fosse il frutto d'una relazione che Alessandro, il padre di lui, intratteneva
da anni con Annina Guidi, una vedova assai vigorosa con la quale però aveva preso a convivere
pubblicamente alla morte della moglie Rosa, quando aveva lasciato la forgia e l'incudine a Dovia, in quel
di Predappio, per trasferirsi a Forlì.
Insieme alla nuova compagna, l'ancor giovanile Alessandro, cambiando mestiere ma non le idee che
oscillavano tra anarchia e socialismo, aveva aperto un'osteria in un angolo della città presso la ferrovia,
in una strada chiamata Giove Tonante. Sulla porta del locale aveva affisso un'insegna con la scritta Al
Bersagliere, sebbene gli avventori fossero soprattutto degli anarchici, rissosi e bestemmiatori anche per
effetto del sangiovese, il sangue della Romagna, di cui fra una briscola e l'altra erano irrefrenabili
bevitori. La politica era il loro pane quotidiano, sicchè‚ sacramentando proclamavano che anche quella
cosa della donna doveva avere il sapore della politica.
Alessandro e Annina, ognuno per sue proprie ragioni, avevano osteggiato l'unione di Benito con Rachele.
Ma una sera il giovane trascinato dall'ira aveva preso una pistola e, agitandola al cospetto dell'intera
famiglia convocata nella fumosa e maleodorante cucina dell'osteria, aveva gridato: Se non mi date
Chiletta, qui ci sono due colpi. Uno per lei, uno per me!. L'argomento si era rivelato convincente, e ora
tutti si mostrarono lieti di quell'amore. La minaccia di omicidio-suicidio aveva avuto tragiche movenze da
scena teatrale, e del resto egli aveva recitato la sua parte dopo aver assistito quella sera, insieme con
Rachele nel teatro cittadino, alla rappresentazione della Cena delle beffe di Sem Benelli.
Nel diario, Mussolini forniva scarne notizie sul suo faux-menage, come egli definiva l'unione con Chiletta.
Prendemmo scriveva un appartamento ammobiliato, interno, in via Merenda numero uno, e ivi abbiamo
passato la nostra breve luna di miele. L'appartamento era di una camera e cucina, si trovava in fondo a un
corridoio buio e umido all'ultimo piano d'un desolato quanto cadente caseggiato. La padrona di casa era
una contessa che
si lamentava di loro, esclamando:Che pezzenti! Che pezzenti!. Non possedevano che quattro lenzuola,
quattro piatti e sei posate, roba sottratta ai genitori nel giorno in cui avevano deciso di starsene da soli.
Lei, timorosa, talvolta lo chiamava ancora professore - aveva insegnato un po' di francese! - e gli dava del
voi. La vita a Forlì non si discostava dai binari d'una tranquilla esistenza di provincia se non per i tumulti
di piazza e di osteria inscenati ora dai socialisti ora dai repubblicani, ora dagli uni e dagli altri in lotta tra
loro.
Mussolini si era rifugiato in quella cittadina per tirare un sospiro di sollievo dopo aver vagabondato in
terra svizzera da un cantone all'altro, subendo alla fine un'espulsione a causa del suo rivoluzionarismo
anticlericale. Era stato scacciato sfrattato" come aveva scritto Cesare Battisti sul suo giornale - anche dal
Trentino austro-ungarico per aver detto che il confine italiano non correva ad Ala, ma al Brennero. Era
tornato in Italia in vagone cellulare, e il viaggio gli aveva ispirato alcune paginette in cui raccontava come
si diventi vagabondi. Ora però pensava di fuggire al più presto anche da Forlì che considerava infestata
da mercanti e da maiali.
Dopo i duri mesi trascorsi in Svizzera, poteva alfine godere di un'esistenza meno fosca. Curava persino il
suo abbigliamento, cosa che non aveva mai fatto prima. Portava un abito simile a una finanziera e una
larga cravatta nera su un colletto bianco inamidato. Aveva abbandonato il mantellone nero, che gli
conferiva un aspetto messianico, e anche la vecchia zimarra che lo faceva somigliare a un Danton
redivivo. Li aveva sostituiti con un impermeabile grigio, in realtà un po' striminzito. Era sempre ben
sbarbato, e ogni mattina con un paio di forbicine spuntava i baffi appena accennati. Aveva cancellato il
ricordo dei non lontani giorni della Svizzera quando i compagni, impietositi dai suoi abiti sdruciti, gli
avevano regalato un vestito nuovo e lui lo aveva rifiutato, esclamando con sdegno: Non voglio
mascherarmi da borghese!. Ora invece reclamava che anche Rachele si vestisse più elegantemente.
Una mattina le stracciò di dosso un abitino che la faceva somigliare a una servente d'osteria, e in cambio
le donò una camicetta di... mussolina che ne metteva ulteriormente in mostra il seno già di per
sé‚ prorompente.
Molto aveva penato per sottrarla al padre Alessandro e ad Annina che pretendevano di tenersela come
sguattera in cucina e fra i tavoli del locale. Nemmeno Rachele agli inizi voleva unirsi a quel giovanotto
spiritato, ma poi si era lasciata convincere perché‚ lui le diceva che l'avrebbe sottratta all'osteria e alle
manate dei clienti avvinazzati. Gelosissimo della sua ragazzuola, Benito la costringeva spesso a starsene
in casa, e si metteva in sua vece a servire il vino. Di facile scilinguagnolo, le prometteva grandi cose: Ti
farò regina, e un giorno tutti a Forlì s'inchineranno al tuo passaggio¯. Alle promesse faceva seguire le
minacce. Agitando la pistola, urlava:
Ti uccido e mi uccido, se non mi accetti!. La ragazza finì col cedere e coll'innamorarsene, sicchè‚ la gente
diceva: La sè cota de su om. Tanto cotta che aveva accettato di fuggire segretamente con lui nella vicina
Carpena, ancor prima di dare l'annuncio di essere fatti l'uno per l'altra.
Nelle prime settimane della loro unione, ogni sera Benito leggeva alla compagna le puntate di quel
romanzo storico che egli scriveva e spediva, via via, a Battisti. ogni romanzo era impregnato di
anticlericalismo, cosa che del resto appariva fin dal titolo, Claudia Particella, L'amante del Cardinale. Egli
stesso lo definiva un ignobile romanzaccio … sensation, appetito dalle sartine e dai commessi di negozio
all'ombra del castello del Buonconsiglio. Poiché‚ lo scritto riscuoteva un grande successo, come gli
comunicava Battisti, ribatteva con tono di sufficienza che ciò non deponeva a favore della mentalità di chi
leggeva le appendici dei giornali.
Il suo giudizio era fondato, come si poteva constatare scorrendo alcuni brani del romanzo che aveva per
scenario il principato vescovile di Trento nel sedicesimo secolo.
Claudia, scriveva Mussolini, chinò melanconicamente il capo e si avvicinò a Emanuele. La barca oscillò.
Il cardinale le prese le mani e se le strinse al seno. Era la debolezza della carne che acuiva i desideri di
fecondi amori terreni nell'animo di questo ultimo rampollo di una stirpe di principi? O non piuttosto la
volontà di avere un erede a cui tramandare il nome, il potere, la gloria? La voce di Emanuele si levava
nell'impeto della passione che lo divorava. Riprese i remi e a forti colpi si spinse verso il castello.
"Ferma!" aveva implorato Claudia. "Godiamo ancora di questa solitudine ineffabile".
Scorrendo queste righe, Rachele lo scongiurava di non includerla nella vicenda. Non perché‚ disdegnasse
di apparire in quelle pagine anche se di riflesso - era infatti sufficientemente ambiziosa da gradire, in
altre condizioni, una simile glorio , ma perchè‚ essendo timorata di Dio,intendeva star lontana da
operazioni blasfeme. Lui non se ne diede per inteso e la rappresentò, chiamandola esplicitamente
Rachele, nei panni d'una bionda dama di compagnia dell'amante del cardinale. Fra i comprimari della
narrazione inserì se stesso nelle sembianze d'un appassionato rivoluzionario cui diede il nome di don
Benizio. Il prete era anche un individuo peccaminoso, e costituiva una punta del triangolo erotico
formato da lui, dal principe-vescovo e dalla sua amante Claudia.
Mussolini rappresentava così la fanciulla e il prete nella loro intimità:La donna dalle nudità lungamente
agognate, quali appaiono nei furori di un erotismo coartato, ai forzati della castità, la donna bella e
impudica che domani gli avrebbe gettato le braccia al collo, Claudia dagli occhi neri come quelli del
diavolo, dagli omeri rotondi, dai capelli odorosi, dalla bocca paradisiaca, dalla pelle bianca e tenera,
Claudia la cortigiana turbò il sonno di don Benizio, coll'incubo dei desideri insoddisfatti, colla speranza di
carezze ignorate, di voluttà ineffabili sino all'esaurimento, sino all'esasperazione. La carne di questo
prete fremeva; come fremeva un dio silvano nel mirare la ninfa nuda che si specchi nell'acqua di un
ruscello limpido e silenzioso.
Come scrittore Mussolini, che rifaceva il verso a Dumas padre, osava confrontarsi in quei giorni sia con
Guido da Verona, del quale era appena uscito Colei che non si deve amare, un libro di gusto liberty che
incantava giovani sartine e signore; sia con Grazia Deledda, che pubblicava a puntate sulle pagine d'una
rivista patinata Il nostro padrone, un romanzo ambientato nella segregata Sardegna; sia con Gabriele
d'Annunzio che aveva dato alle stampe Forse che sì forse che no, un'opera ambigua e voluttuosa eppure
eroica in cui si narravano le imprese aviatorie di Paolo Tarsis, il protagonista superuomo, una meta cui
Benito mirava.
Dal momento della nascita di Edda, la giovane coppia visse per altri tre mesi in via Merenda. Poi si
trasferì in via Cesare Albicini, in un appartamento un po' più grande nel quale fu accolta anche l'Annina,
che era rimasta sola alla morte di Alessandro avvenuta all'improvviso per un colpo al cuore. L'Annina
aveva dovuto rinunciare all'osteria, e ormai pesava sul bilancio assai gramo della coppia.
La miseria faceva sentire il suo morso. Raramente a mezzogiorno la carne seguiva al piatto di minestra,
mentre la cena spesso consisteva in cavoli e radicchi con un'avara spruzzatina di olio e aceto. Con pasti
così frugali non riuscivano a saziare il loro giovane appetito. In tanta indigenza chiamavano Edda la figlia
della povertà, ma si dicevano egualmente felici.
Benito in politica era sempre più estremista e fustigava quanto mai i socialisti riformisti. Già nell'ottobre
di quell'anno intervenendo al congresso di Milano li aveva accusati di aver trasformato il partito
socialista in una fallimentare ditta commerciale. Con la nomina a corrispondente da Forlì dell'Avanti!, le
condizioni economiche della famigliola migliorarono. Traslocò da via Albicini in un appartamento meno
indecente di piazza Venti Settembre dove non stette a lungo essendo stato incarcerato. Dovette scontare
cinque mesi di detenzione per aver fomentato uno sciopero generale contro la spedizione militare in
Libia voluta da Giolitti. Durante il processo si era mostrato Sprezzante con i giudici. Li aveva affrontati
esclamando: Io vi dico, signori del tribunale, che se mi assolverete mi farete piacere, perché‚ mi
restituirete al mio lavoro. Aveva taciuto per un momento, quindi aveva ripreso a dire: Ma se mi
condannerete mi farete onore perché‚ voi vi trovate in presenza non di un malfattore, di un delinquente
volgare, ma di un assertore di idee, di un agitatore di coscienze, di un milite di una fede che s'impone al
vostro rispetto, perchè‚ reca in s‚ i presentimenti dell'avvenire e la forza grande della verità!.
Nelle carceri di Forlì era stato rinchiuso anche un altro agitatore, il repubblicano Pietro Nenni, insieme al
quale Benito, concordando con i repubblicani almeno su un tema quello dell'opposizione alle follie
espansionistiche in terra libica aveva organizzato la protesta popolare e indotto i manifestanti ad
abbattere le linee telegrafiche e a ostruire i binari della ferrovia per impedire la partenza dei soldati.
Rachele portava le arance al compagno incarcerato e a Nenni che divideva la cella con lui. I due
trascorrevano molte ore della giornata a giocare a carte o a leggere Sorel. Erano ammaliati dalla fiducia
che il rivoluzionario francese riponeva nella violenza proletaria. Rachele non poteva offrire ai carcerati
che le arance essendo rimasta senza un soldo. Al momento dell'arresto, le guardie carcerarie avevano
sequestrato a Benito l'intero suo pecunio, pari a centottanta lire; a Rachele in ambasce ne diedero
soltanto una piccola parte, non più di dieci lire.
La giovane arzdora si recava frequentemente a trovare il compagno in carcere, e talvolta si univa a lei
Carmen, la moglie dell'agitatore repubblicano. Carmen, che era in attesa d'un figlio, si mostrava
affettuosa con la piccola Edda appena trotterellante.
Nel gennaio dell'anno successivo, i due rivoluzionari furono trasferiti a Bologna nel carcere di San
Giovanni in Monte. Fu Rachele a visitarli per prima nella nuova prigione che negli anni addietro era stata
un convento. Aveva portato con s‚ la figlia, sicché‚ nel parlatorio si trovarono intorno a un tavolone
Mussolini, Nenni, Rachele, Edda e un secondino. Nenni chiedeva notizie della sua figlioletta, Giuliana, nata
da pochi giorni; intanto accarezzava Edda che aveva preso sulle ginocchia. A un certo punto la bambina
gli fece la pipì sui luridi pantaloni a righe da carcerato. All'istante l'inondazione fece di lui lo zio Pietro.
Via via, nelle visite successive Edda fu l'ignara portatrice di biglietti con messaggi e articoli che il padre e
lo zio Pietro le nascondevano nei vestitini. Con questo stratagemma piuttosto ingenuo eludevano la
vigilanza degli agenti di custodia e riuscivano a comunicare con i compagni che all'esterno erano ansiosi
di ricevere da loro ordini e direttive.
Al termine dei cinque mesi di prigionia Benito potè‚ tornare a casa. Che cosa mi riserba l'avvenire?,
scriveva nel diario. Sull'Avanti! apparvero alcune righe in cui si annunciava festosamente che i compagni
si erano recati nella sua modesta abitazione dove lo avevano visto felice in seno all'adorata famigliola.
Egli riprese subito la direzione della Lotta di Classe che nel frattempo era stata affidata a Francesco
Ciccotti. Rivolse i primi strali contro i riformisti alla Bissolati e alla Bonomi - tafani democratici" ed emuli
dei Cretinetti dei cinematografi paesani - rei di aver salito le scale del Quirinale e di essersi congratulati
fra mille salamelecchi con re Vittorio Emanuele che era scampato alle rivoltellate d'un anarchico, il
muratore romano Antonio D'Alba.
In pieno luglio si svolse a Reggio Emilia un nuovo congresso socialista. Mussolini raggiunse la tribuna tra
gli applausi dei delegati che affollavano il teatro Ludovico Ariosto. Urlando chiese: Chi é il re?. E un
cittadino inutile, per definizione!, rispose. Quindi aggiunse che gli attentati erano gli infortuni del
mestiere di sovrano.
Si capì immediatamente che il congresso l'avrebbero vinto lui e la frazione degli estremisti rivoluzionari.
Un giornaletto socialista scriveva che i rivoluzionari forlivesi avevano finalmente un duce, amato e
rispettato, un uomo dal carattere incorruttibile. In quella stessa assise si votò l'espulsione dei Bonomi,
dei Bissolati, dei Cabrini, proprio come Benito proponeva. Non si era ancora potuto ghigliottinare il re?
Ebbene, i rivoluzionari si accontentavano di ghigliottinare, cioè di espellere dal partito, i tremebondi e
patetici riformisti.
La vittoria in seno all'assise emiliana valse a Benito l'ingresso nella direzione nazionale del partito,
mentre già si parlava di affidargli la guida dell'Avanti!¯. Rachele lo spronava a cercarsi un lavoro meno
aleatorio della politica. Gli diceva di approfittare dei diplomi di maestro elementare e di insegnante di
francese per dare sicurezza alla famiglia. Doveva farlo se, come diceva lui stesso, davvero amava Edda più
dei suoi occhi. Così lo incalzava Rachele.
Volendo quietarla, egli si risolse a prendere carta e penna e a scrivere al sindaco di Crespellano, un
paesino in provincia di Bologna, inviandogli una domanda per concorrere al posto di insegnante vacante
nelle scuole elementari¯ di quel comune. Non mancava tuttavia di ripeterle il suo odio per le professioni
borghesi, in quanto livellavano gli uomini e ne esasperavano gli egoismi, mentre lui era un amante del
rischio.
La piccola Edda si rivelava una bambina irrequieta, ma ferma di carattere. Era causa di vive apprensioni
in famiglia. Un giorno si mise a correre all'impazzata nel cortile di casa volendo offrire una noce a una
coetanea. Nella corsa, inciampò. Cadde distesa a terra e si slogò un braccio.
Pur tra dolori lancinanti, continuava a protendere il braccio verso la compagna stringendo in pugno la
noce che non avrebbe mollato per nulla al mondo. La madre cercava di tenerla a freno, anche con qualche
scapaccione. Il padre era invece più longanime e gliele perdonava tutte.
Talvolta Edda, minacciata dalla madre con la scopa, si nascondeva sotto il letto e non si muoveva di là se
non al ritorno del padre. Rachele non si limitava a minacciarla e,difatti, quando le capitava a tiro la
bastonava di santa ragione.
Benito si era dunque chiesto: Che cosa mi riserba l'avvenire?. La sua famigliola si trattenne a Forlì per
altri quattro mesi, poi si trasferì a Milano in seguito alla sua nomina a direttore dell'Avanti!. In verità lui
avrebbe preferito che Rachele e l'Edda fossero rimaste in Romagna, ma un bel giorno se le vide arrivare
all'improvviso, stufe di starsene relegate in solitudine. Benito non aveva che ventinove anni, e tutti gli
riconoscevano, amici e nemici, il merito di essere riuscito a farsi strada in breve tempo. La sua popolarità
si era estesa fin nel Sud d'Italia, come apparve chiaro dal successo d'un viaggio in terra pugliese. Già al
congresso di Reggio Emilia le lodi più sperticate gli erano pervenute da un foglio sindacalista di Napoli,
La Propaganda¯, sul quale la sua eloquenza era definita tagliente come una lama e aborrente da ogni
volgarità. Il giornale scriveva che nella sua parola, talvolta precipitosa, talvolta rallentata, si avvertiva un
fremito di sincerità, e soprattutto di bontà. Quindi proseguiva: Dalla tribuna drappeggiata di rosso, la
figura di questo giovane pallido, pensoso, con due occhi ardenti, con una fiamma di bontà sparsa sul viso,
il quale accompagnava le parole col gesto nervoso, concitato - emerse sullo sfondo del teatro,
comunicando ai presenti il tormento del suo pensiero.
A metà novembre, i Mussolini presero alloggio in un immenso caseggiato popolare al numero 19 di via
Castelmorrone, alla periferia della città, dopo una breve sosta di assestamento in una pensioncina nei
pressi di via San Damiano, a pochi passi dall'Avanti!. Erano ancora in condizioni economiche tanto
precarie da non disporre neppure della modesta somma di denaro necessaria al trasporto dei mobili, per
cui dovettero venderli, salvando il violino, un monumentale leggio e un paio di casse zeppe di giornali, di
riviste, come Les Cahiers de la Quinzaine, di opuscoli e di libri tra i quali figuravano opere di Nietzsche,
Stirner, Goethe, Schiller, e anche di Cervantes, autori che egli definiva le dolomiti del pensiero.
Era arrivato a Milano con il cruccio di aver lasciato a Forlì sia il suo maestro di musica, Archimede
Montanelli, sia il loggione del teatro Comunale da dove assisteva alla rappresentazione dei grandi
melodrammi musicali.
L'abitazione che avevano preso in affitto consisteva in due stanze disadorne e una piccola cucina.
Avevano portato con loro a Milano anche l'Annina, e stavano davvero stretti in quattro. Disponevano
d'una toletta, priva di vasca da bagno. Quando Rachele voleva lavarsi per bene, doveva recarsi ai bagni
pubblici. Quella era una buona occasione per dare una bella strigliata a Edda che tendenzialmente
preferiva lo stato brado. Nemmeno lui sentiva la mancanza d'una vasca: al mattino si sciacquava
sommariamente in tutta fretta e si precipitava fuori di casa, senza dare neppure un colpo di pettine ai
capelli, ispidi e ricciuti. L'appartamento si trovava all'ultimo piano d'un casermone. Di lì cominciava
l'aperta campagna, una brulla distesa di terreni incolti, null'altro che ricettacoli di immondizie, percorsi
da fetide forre a ridosso del terrapieno della ferrovia, dove di tanto in tanto si rinveniva il cadavere di
qualche disgraziato morto di fame o per ferali aggressioni. L'edificio si suddivideva in tre nuclei separati
che si aprivano in un vasto cortile comune lastricato di pietra. Quel cortile non bastava alla piccola Edda
che per i suoi giochi si avventurava in scorribande nei prati circostanti. Cresceva selvaggiamente tra i
ragazzi e le ragazze della zona. A sera rincasava coi capelli popolati di pidocchi. La madre doveva
passarla al pettine fitto e issarla sul ripiano del lavandino della cucina per cercare di ripulirla, prima di
metterla a letto.
Gli inquilini del casermone appartenevano a un mondo di gente misera e balzana. La proprietaria, una
certa signora Agosti anche essa proveniente da Forlì come i Mussolini, era un po' tocca. Era anzi una
donna pericolosa, avendo ucciso il marito. Si diceva che lo avesse eliminato per gelosia. In realtà non si
sapeva nulla di preciso sulle ragioni del delitto. Un altro inquilino aveva invece ammazzato la moglie;
l'aveva tagliata a pezzi e spedita lontano in un baule. Edda era molto amica della figlia di questo inquilino,
una biondina di nome Maria, così come era affezionata a un ragazzetto, Guido, il cui padre aveva per anni
minacciato di gettarsi nel vuoto da una finestra di casa fino a quando una sera non si lasciò cadere
davvero. Edda accorse nel cortile e poté vederlo sfracellato al suolo mentre esalava l'ultimo respiro.
In quell'immenso caravanserraglio vivevano anche un'abile faiseuse d'anges, più richiesta delle levatrici,
un vecchio conte decaduto, una ragazza che continuamente si faceva il segno della croce e infine una
prostituta, un po' sbiadita, dalla quale la piccola era profondamente attratta.
Divenuta Edda un po' più grandicella, Berlito la trascinava con sè‚ al caffè in Galleria e perfino ai comizi.
Talvolta la portava al giornale, un po' spaurita, con gli occhi sbarrati che sembravano più neri e tondi.
A lui, mentre correggeva le bozze di stampa ancora umide, piaceva vederla giocherellare sotto i tavoli
della redazione. La Balabanoff esclamava, sapendo di mentire: Com'è bella la piccola Edda!.
Incrociandola, la bambina fuggiva; la scambiava per una strega. La Balabanoff, che Benito aveva voluto
nella carica di vice caporedattore fidandosi di lei per l'identità delle idee e per essere fortunosamente
sfuggiti entrambi a un attentato dei repubblicani forlivesi, raccontava ai compagni, con una punta di
veleno come si conveniva a una strega, la prima visita che Rachele e Edda avevano fatto all'Avanti!:
Accompagnavano Benito una donna dimessa, umile e silenziosa, e una bambina denutrita, con un vestito
trasparente, bagnato dalla pioggia che veniva a dirotto. "E la mia compagna Rachele, e mia figlia" disse
presentandole. Lo spettacolo di quei due esseri suscitò in me pietà e collera per Mussolini.
Nel giugno del '14 i socialisti vincevano a Milano le elezioni amministrative, e Benito diventava
consigliere comunale. In quei giorni uno studente irredentista serbo, Gavrilo Princip, assassinò a
Sarajevo con una pistola Browning l'odiato arciduca d'Austria, Francesco Ferdinando, e la moglie
morganatica, arciduchessa Sofia. L'uccisione dell'erede al trono asburgico innescò la miccia d'un conflitto
che doveva assumere proporzioni mondiali. Fu la piccola occasione d'una guerra orrenda. Tutti erano
convinti che l'Austria avrebbe ingoiato la Serbia in un sol boccone. Infatti Vienna colse il destro per
aggredirla, e lo fece senza informare l'Italia, sua partner nella Triplice alleanza, accanto alla Germania.
Già questo particolare, al di là della clausola che obbligava all'intervento soltanto in caso di aggressione a
opera di due potenze, legittimava l'Italia a dichiararsi neutrale, tanto più che si era coscienti
dell'impreparazione militare e delle deficienze economiche del paese nel quale peraltro spirava un forte
vento pacifista.
Sulle prime anche Mussolini aveva fatto professione di neutralismo, ma poi era tormentosamente passato
dalla parte di coloro che con prepotenza chiedevano l'ingresso dell'Italia in guerra. I soldati tedeschi
avevano aggredito il Belgio, lo avevano invaso per puntare su Parigi e il conflitto si era esteso con
straordinaria rapidità all'Europa intera.
Da interventista, egli fu costretto a lasciare la direzione dell'Avanti!, essendo il partito socialista in
maggioranza favorevole alla neutralità.
Le condizioni economiche della sua famiglia erano peggiorate. Rachele continuava a chiedergli: Come
faremo adesso? Ti avessero almeno dato la liquidazione da direttore! Anche lui era pervaso di
pessimismo. Siamo tornati, diceva, nella stessa miseria di Forlì. Non ho più il giornale, sono senza un
soldo. Abbiamo Edda ancora piccola e prevedo che l'avvenire sarà duro.
Poterono però risollevarsi abbastanza rapidamente in coincidenza con l'uscita d'un nuovo giornale, Il
Popolo d'Italia, che egli fondò grazie al contributo finanziario della Francia la quale, attraverso il
Deuxième Bureau, spargeva oro a piene mani per ingrossare dovunque le file degli interventisti. Il primo
numero del giornale apparve il 14 novembre. Rachele e la madre Annina, trascinando con loro la piccola
Edda, fecero il giro di molte edicole per sollecitare i giornalai a esporre in maniera più visibile il nuovo
foglio. Lui fu bollato come traditore, e le urla degli avversari risuonarono fin sotto le finestre di casa sua il
giorno in cui venne espulso dal partito. Senza perdersi d'animo Mussolini replicava gridando che quei
cetrioli di neutralisti avevano una paura matta delle baionette e che comunque la neutralità era da
imbecilli.
L'Italia entrava in guerra. Mussolini con animo lieto depose la penna per imbracciare il fucile, come egli
enfaticamente andava dicendo. Per la famiglia a Milano ricominciarono le privazioni, anche perché
l'amministrazione del Popolo d'Italia tardava sempre a corrispondere il mensile che doveva versare a
Rachele secondo gli ordini di Benito. Lei si vendicava ficcando le pagine di quel giornale nella stufa
appallottolate per ricavarne un po' di calore, poiché non aveva i soldi per comprare il carbone.
Appallottolava fogli su fogli e gioiva nel maltrattare rudemente gli articoli di certi intellettualoni come
Prezzolini e Papini. Ogni giorno protestava vivacemente, anche se invano, con l'amministratore del
giornale, Manlio Morgagni, il quale per farsi perdonare regalava qualche giocattolino alla piccola Edda.
Al fronte, Benito cercava di dimenticare la domestica tribù milanese, ma non gli era possibile, così come
non gli riusciva ad allontanare da s‚ un'altra donna, una ragazza trentina. Da quella donna aveva avuto
segretamente da qualche mese un figlio cui era stato imposto il suo stesso nome, Benito, oltre a quello di
Albino. La ragazza, conosciuta durante la sua permanenza a Trento, si chiamava Irene Dalser, e il bimbo
era venuto alla luce mentre lui era in guerra. Irene non aveva più avuto notizie dell'amante che pure,
partendo per il fronte, le aveva promesso di sposarla. Lei sapeva di Rachele, ma Rachele non sapeva di lei,
fino a quando Irene, dal temperamento impetuoso e tragico, non decise di piombare in via Castelmorrone
per affrontare la rivale. Durante l'irruzione trascinò nella rumorosa scenata anche la piccola Edda cui
rivolse a bruciapelo una strana domanda, nell'indicarne la madre: Tuo padre ama davvero questa donna?
Sempre più insistentemente Irene diceva di essere la Signora Mussolini. In molti credevano che fosse lei,
non Rachele, la legittima moglie di Benito. Il direttore dell'ospedale militare di Treviglio, ritenendola tale,
comunicò alla Dalser, e non a Rachele, che il bersagliere Mussolini Benito era colà degente dal 9
dicembre, ammalato di paratifo. Irene raggiunse l'amante il giorno 18, con in braccio il loro figlioletto di
poco più d'un mese. Mussolini mantenne la calma, e non diede che assicurazioni generiche. Vedi, la
guerra continua, le disse, ma stai tranquilla. Sapeva di non potersi sbilanciare oltre, per il semplice fatto
che soltanto due giorni prima aveva sposato civilmente Rachele proprio lì a Treviglio, in una stanza del
palazzetto comunale. Rachele, con Edda, si era sobbarcata a un viaggio terribile ed estenuante su un
carro bestiame che di continuo faceva lunghe soste senza apparenti ragioni.
Il matrimonio lo aveva preteso lei, ancora ferita dall'irruzione della Dalser in via Castelmorrone. Anzi, in
preda alla disperazione per quella piazzata, aveva addirittura tentato il suicidio salvandosi per miracolo.
Benito non aveva potuto sottrarsi alle nozze anche perché Rachele, non meno innamorata della Dalser,
diceva di essere in attesa di un secondo figlio, senza che l'affermazione rispondesse a verità. Il breve rito
nuziale si era svolto quasi in segreto, esclusivamente alla presenza di due testimoni e della piccola Edda,
alquanto frastornata.
Rachele, che ancora soffriva delle conseguenze del tentato suicidio e che sembrava l'ombra di se stessa, si
recò con la figlia sul Lago Maggiore, a Luino, ospite di amici, ma dovette rapidamente tornare a Milano
poiché il marito, e non era trascorsa neppure una settimana dalle nozze, già si trovava in licenza nella
capitale lombarda che a lui appariva fiera e patriottica". Rachele non aveva tratto alcun beneficio dalla
vacanza troppo breve. Pesava trentotto chili appena. Chi ci guadagnò qualcosa fu Edda che ebbe in regalo
da Morgagni una bambola adocchiata nella vetrina di un lussuoso negozio di giocattoli. Benito si
trattenne in convalescenza nella sua casa di via Castelmorrone per circa un mese, fino a tutto il gennaio
dell'anno nuovo. L'inverno era assai rigido, e i Mussolini erano intirizziti per l'eccezionale freddo di
quella stagione, aggravato dalla mancanza di carbone. In quei giorni si abbatté su Milano un
bombardamento aereo che impressionò enormemente Rachele, l'Annina e la piccola Edda.
Tre velivoli austriaci, che Benito chiamò briganti aerei, erano sopraggiunti a bassa quota sul cielo della
città e, al termine di una breve evoluzione, avevano sganciato numerose bombe lasciando sul terreno una
decina di morti e più di cento feriti. I milanesi potevano soltanto consolarsi alle notizie delle ben più
disastrose incursioni che i dirigibili del conte Zeppelin operavano su Londra.
IDA DALSER ( Sopramonte 20/08/1880
Venezia 03/12/1937)
con il figlio BENITO ALBINO
(Milano 11/11/1915 –
Mombello di Limbiate 26/08/1942 )
riconosciuto da Mussolini il 11/01/1916.
Ancora una volta egli non poté sfuggire nella capitale lombarda agli attacchi della Dalser. La donna riuscì
a trascinarlo davanti a un notaio, Vittorio Buffoli, e a fargli sottoscrivere una dichiarazione in cui si
riconosceva padre naturale del piccolo Benito Albino. Né gli fu possibile trascurare la legittima signora
Mussolini. Ora Rachele, col certificato di matrimonio nel cassetto della madia, chiedeva il pieno rispetto
dei suoi diritti. Soltanto una nuova partenza per il fronte lo liberò dall'assedio delle due signore.
I redattori del Popolo d'Italia¯ gli rivolsero un caldo saluto. Il nostro direttore scrivevano, ci ha lasciato in
custodia il patrimonio del suo pensiero e del suo affetto fraterno; alle gazzette che lo diffamano egli ha
lasciato il suo disprezzo più sorridente. Ben poco lasciava a Irene e a Chiletta, le quali non poterono fare
altro che rimanere indifferenti alla notizia della sua promozione a caporale, una promozione che gli
veniva conferita nelle trincee del Monte Rombon per l'alto spirito bersaglieresco e per la serenità
d'animo di cui aveva fatto sfoggio.
Quando Benito ottenne una nuova licenza, gli era già nato da due mesi il secondo figlio cui aveva imposto,
senza ascoltare Rachele, il nome di Vittorio come auspicio di vittoria contro gli odiati austro-ungarici.
Lo chiamò anche Alessandro in onore del padre. Ora hai due figli, gli disse un commilitone, cerca di
esporti meno. Ma lui di rimando rispose: Proprio perché ho degli eredi posso morire più tranquillamente.
Sono continuato.
Edda immediatamente mostrò tutta la sua ostilità al neonato che le apparve come un vecchietto grinzoso
e arrossato, con gli occhi da cinese e le dita violacee, mentre i genitori ne decantavano la bellezza. Ne era
gelosa temendo che il padre ora avrebbe potuto trascurarla per amore del figlio maschio. Questo suo
sentimento apparve chiaro in famiglia fin dal mattino in cui le portarono via un galletto al quale era
fortemente affezionata. Lo aveva avuto in dono dalla nonna Annina, e lei, trattandolo come un compagno
di giochi, lo portava a ruspare nei campi. Lo teneva per una cordicella legata a una zampetta, mentre
coglieva un po' di cicoria per la cena, a piedi scalzi e con indosso una misera e sdrucita veste. Quando gli
tirarono il collo per preparare una tazza di brodo necessaria a Rachele che tardava a riprendersi dagli
sfinimenti del parto, la piccola si sentì tradita. La madre le appariva come una spietata matrigna e il
fratellino come un pericoloso nemico.
Lei diventava sempre più capricciosa e molesta. Pretendeva di succhiare il latte dal seno della madre, per
non essere da meno del piccolo Vittorio, e tendeva tranelli a tutti. Non risparmiò neppure la nonna che un
giorno ruzzolò a terra avendole sfilato di sotto lo sgabello sul quale stava per sedersi con il bambino tra
le braccia. Veniva altresì attizzata nell'ostilità per Vittorio dalle istigazioni della nonna: Ora non sei più la
dispotica figlia unica!, le urlava l'Annina Non le hai più tutte vinte, Hai finito di comandare a bacchetta tuo
padre, Sei finalmente scesa d'uno scalino, La festa è finita, erano, queste, le invettive della nonna.
In odio a Vittorio, l'intruso, Edda si era incaponita a volersi unire a una tribù di zingari che aveva piantato
le tende in un prato vicino, a ridosso della scarpata ferroviaria.
Era incantata dai carri di quelle genti straordinarie case on le ruote, dai costumi pittoreschi, dal colore
della pelle, dai cerchietti d'oro alle orecchie, dai racconti delle storie di nomadi alla ricerca perenne di
terre nuove e di esperienze inverosimili. Ascoltava ammaliata la musica che si sprigionava da un violino e
da un clarinetto di due zingari, un giovane e una ragazzetta che poteva avere la sua età. Un'altra zingara
leggeva la mano ai passanti. Cominciò a sognare anche per s‚ un'esistenza avventurosa sicchè il
falansterio di via Castelmorrone le appariva ancor più grigio, triste, misero e insopportabilmente
immobile.
Non ce la faceva più a starsene seduta in casa, come le imponeva Rachele, a fare sciarpe di lana per i
soldati in guerra sognare l'impossibile, le diceva la madre.
Le diceva anche di non credere ai racconti di quegli zingari i quali non avevano che lo scopo di rapirla.
Lei però non si lasciava impressionare, tanto che Rachele, disperata, una mattina le urlò: E va bene, se
vuoi andartene, vattene pure! Vattene e non farti più vedere! Sei proprio una zingara!.
Edda si precipitò nel prato con la ferma intenzione di unirsi agli zingari coi quali aveva ormai stretto
amicizia, ma non trovò che un mucchietto di cenere ancora calda, unico residuo di un accampamento
misteriosamente scomparso, come era misteriosamente apparso. Ebbe l'impressione di essere stata
ingannata anche da quelle persone tanto amate.
Nel tornare sconsolata a casa, fu investita dalla bicicletta del garzone di un fornaio. Nell'incidente riportò
una larga ferita a un sopracciglio. Il sangue le colava copioso sul volto, e lei, ancora distesa a terra, non
dava segni di vita. Non perché avesse perso i sensi, ma soltanto per rispettare la consegna del padre:
quella di non piangere e di non lamentarsi mai. Ma quando, condotta alla presenza di un medico, lo sentì
confabulare con la madre e la nonna sulla necessità di suturare la ferita, fu improvvisamente assalita da
una paura irresistibile. Cominciò a dimenarsi all'impazzata, e con un calcio colpì il dottore al mento,
provocandogli una ferita più profonda della sua.
Nelle lettere che Rachele scriveva al marito in guerra, non poteva non dirgli delle bravate della piccola
selvaggia. Anche dal fronte il padre cercava di quietarla: le inviava lunghe lettere parlandole come a una
donna amata.
La madre gliele sillabava perché lei imparasse in tal modo a leggere. Infatti Benito non voleva che la figlia
andasse a scuola. Diceva che ci avrebbe pensato lui a istruirla, di ritorno dal lugubre Carso, da quel
pantano di fango rossiccio", dopo aver rotto le ossa agli austriaci. Rachele, che sapeva disubbidirgli, fece
di testa sua e iscrisse Edda alla prima elementare, in una scuola di via Palermo, nelle vicinanze di casa.
Tra le pagine delle lettere del padre, la bambina trovava fiorellini e anche stelle alpine che certamente
Benito non aveva colto sulle rocciose balze carsiche, ma piuttosto sui monti della Carnia.
Quando e come poteva, Mussolini non demordeva dall'attività sessuale, come imponevano i canti dei
bersaglieri. Dalle trincee si levavano stornelli densi di nostalgia per le donne lontane: All'osteria numero
uno.../ Dammela ben, biondina / dammela ben / biondaaaa. O piccanti canzoni d'amore: Le ragazzette
belle / L'amor non lo san fare. / Noialtri bersaglieri / Glielo faremo fare. / Glielo faremo fare, / Glielo
farem sentire, / E in capo a nove mesi / Le vedrem partorire. A ridosso d'una di quelle trincee sul Carso,
prigioni di melma, come lui le chiamava, Mussolini cadde ferito durante un'esercitazione a fuoco per
l'esplosione del suo mortaio. Il portafoglio, il ruolino con i nomi dei militari appartenenti al suo plotone e
soprattutto il cuoio d'un quadernetto in cui annotava a matita i pensierini che via via trascriveva nelle
lettere per Edda, gli salvarono la vita. Alcune schegge si erano infatti fermate proprio all'altezza del
cuore, urtando contro quegli oggetti.
Nelle sue carni penetrarono quarantatre schegge. Una di esse colpì la mano destra e quando poté
riprendere la penna, scrisse alla moglie per rassicurarla: Le mie ferite sono leggere e spero di guarire
molto presto. Non appena mi saranno estratte tutte le schegge sarò mandato altrove e spero di venire a
Milano. Sii tranquilla, fiduciosa e forte. Il Popolo d'Italia indirizzò al bersagliere ferito un commosso
saluto che Rachele lesse con orgoglio a Edda: Noi vorremmo che le grandi folle italiche che ascoltarono la
parola del Duce sentissero il fremito che ci pervade, comprendessero tutta la bellezza che è nel suo
sangue puro sgocciolato sul Carso.
Come lui aveva previsto poté presto tornare nella capitale lombarda, dove fu ricoverato nell'ospedale
territoriale di via Arena, assistito quotidianamente dalla moglie che i camerati definivano tenera e vigile
infermiera. In estate, sorreggendosi sulle grucce, sarà di nuovo al tavolo di lavoro al giornale, nel covo di
via Paolo da Cannobio, nei pressi del Duomo, in una stanza lurida e non più grande d'uno sgabuzzino,
davanti a una tazza di latte, a uno scaffale zeppo di bombe a mano e a ingombranti montagne di vecchi
giornali. Sullo scrittoio fungevano da fermacarte due rivoltelle, un pugnale e tre bombe Sipe, accanto alle
sigarette che egli abbandonava sconsiderata mente accese. Non più battaglie sul Carso, ma battaglie
d'inchiostri furono le sue. Cercava di comunicare il proprio entusiasmo ai redattori un po' sfaticati e fece
affiggere un cartello con la scritta: I signori redattori sono pregati di non andarsene prima di esser
venuti.
Come già faceva all'Avanti!, Benito spesso portava con s‚ la figlioletta al Popolo d'Italia. La bambina si
divertiva più fra i rumorosi macchinari della tipografia e tra i tavolini in disordine della redazione che
non a teatro dove il padre la conduceva, usufruendo dell'ingresso stampa gratuito. Le piaceva più
guardare il padre che non gli attori sul palcoscenico, perché lui, se sapeva applaudire entusiasticamente,
sapeva anche fischiare con particolare violenza, servendosi magari di una chiave. Una sera si tolse una
scarpa e la scaraventò sul palco schivando per poco un attore al quale gridava: Sei un cane rognoso!
Per Edda sia la prosa, sia le opere liriche alla Scala, erano un tormento. Era costretta a starsene
inchiodata alla poltrona, rabbrividendo agli strilli dei tenori e dei soprani. No‚ gli stucchi dorati dei teatri
potevano competere ai suoi occhi con il fascino delle anguste e luride stanze del giornale. Soltanto una
sera si entusiasmò a teatro. Fu durante una rappresentazione del Ballo Excelsior, quando pensò che da
grande avrebbe fatto la danzatrice. Ballava ore intere sulle punte, rivelava un innato senso del ritmo e già
si immaginava in tutù sulla scena tra gli applausi del pubblico.
Voleva andare a scuola di ballo, ma il padre la contrastava dicendo che il mestiere di ballerina conduceva
diritto al bordello. Lui pensava che nelle scuole di ballo si esaltasse oltre misura la femminilità delle
ragazze, mentre la sua inconscia aspirazione era di accentuare in Edda le nascoste doti di mascolinità che
il suo carattere aveva già rivelato. Per lo stesso motivo le imponeva di portare i capelli assai corti, alla
maschietta, come lui diceva. Intendeva darle un'educazione di virile fortezza d'animo, e una volta la
obbligò a tener stretta nelle mani una guizzante rana per insegnarle a vincere il ribrezzo e la paura.
Perchè‚ imparasse a dominare i nervi, la costrinse in un'altra occasione a salire nuovamente su una
carrozza, il cui cavallo si era imbizzarrito. Le ordinava di non piangere mai, neppure nelle condizioni più
disperate. Anche la madre le diceva che avrebbero in ogni modo contrastato quella sua capricciosa
passione per la danza. Appariva chiaro come i genitori, benché socialisti, rivoluzionari e scombinati,
nutrissero in realtà sentimenti piccolo borghesi. Rachele diceva che una fanciulla doveva arrivare vergine
al matrimonio; Benito aggiungeva che una moglie doveva stare a casa, fare figli e portare le corna.
Niente ballo, dunque. Le gridavano che meglio avrebbe fatto a dedicarsi allo studio del violino, e per
volere del padre le fu imposta una insegnante della Scala, Edvige Fiscina Tretti, la quale cominciò a
tormentarla per ore e ore senza grande costrutto. Le lezioni costavano dieci lire a seduta, e lui ne
affrontava volentieri la spesa. Scriveva al suo vecchio maestro di musica forlivese Montanelli per dirgli
che, di tanto in tanto, riprendeva in mano l'adorabile strumento e suonava insieme alla figlia uno studio
di Dancla o un esercizio di Liszt.
Le truppe italiane nell'ottobre del '17 subirono dalle forze coalizzate austro-ungariche e tedesche al
comando del generale von Below una dura sconfitta in uno dei furibondi scontri che si susseguivano sul
fronte dell'Alto Isonzo.
Fu la rotta di Caporetto. Il disastro militare, che portò all'invasione delle terre venete, appariva come
qualcosa di irreparabile, soprattutto in considerazione dello sconforto che invadeva gli animi dei soldati
di Cadorna. La propaganda pacifista, unitamente all'incomprensione dei comandanti di capire l'indole dei
combattenti italiani, aveva raggiunto i suoi effetti. I soldati, e non meno le popolazioni civili, erano
profondamente demoralizzati. Milano appariva silenziosa e incupita, fra restrizioni alimentari e assoluta
mancanza di carbone o di legna da ardere per affrontare i primi freddi d'una stagione che si
preannunciava molto rigida. Benito rincasava sempre più scuro in volto, senza salutare i suoi. La figlia
invece reagiva alle notizie della tragica ritirata intonando Il Piave sulla cui riva l'esercito si era attestato,
mentre i tedeschi distavano soltanto una trentina di chilometri da Venezia. E lei cantava: Il Piave
comandò: "Indietro va straniero!".
La ragazza soffriva ancora d'invidia per il fratellino Vittorio quando Rachele mise al mondo un altro
maschio, anche lui figlio dei tempi di guerra, che nacque il 22 aprile del '18. Benito, seguendo l'esempio di
papà Alessandro che sceglieva nomi programmatici di battaglie ideologiche, volle chiamarlo Bruno in
onore di Giordano Bruno come simbolo della lotta all'intolleranza papale e vessillo del laicismo
risorgimentale di cui si gloriava di essere paladino. Sul suo giornale, non pubblicava infatti nulla che
riguardasse le manifestazioni ecclesiastiche, n‚ mancava di polemizzare aspramente con le esortazioni
alla pace provenienti da Benedetto quindicesimo da lui chiamato Sua Santità Pilato quindicesimo
riprovandone gli atteggiamenti di neutralità. Definiva gli ammonimenti pontifici un grido nefando, un
gravissimo atto di sabotaggio nei confronti della ”guerra di difesa", che l'Italia stava combattendo con
sfortuna ma con eroismo. Così come, in nome d'un radicale antiparlamentarismo, decise di non
pubblicare più nemmeno le cronache delle sedute della Camera dei deputati che egli chiamava
spregiativamente il Camerone. Era tanto forte la sua rabbia nei confronti del papa, da considerarlo il
maggiore responsabile della disfatta oscura e infame di Caporetto ancor più di quanto non lo fossero i
socialisti di Claudio Treves.
I milanesi soffrivano di restrizioni alimentari sempre più pesanti, e Benito scriveva alla sorella minore
Edvige che abitava a Premilcuore, un paesino della Romagna. Le chiedeva un po' di zucchero per la
puerpera Rachele. Le spediva in cambio qualche soldo, così come faceva con la famiglia del fratello
Arnaldo il quale aveva voluto, anch'esso tardivamente, presentarsi a sua volta alle armi. Col trascorrere
del tempo, il falansterio di via Castelmorrone era diventato per Edda, ora grandicella, lo scenario dei suoi
primi e innocenti ardori amorosi. Una bella, anche se attempata coinquilina, aveva fama di possedere doti
medianiche. Mussolini fingeva di crederle, ma solo per immergersi, nel buio della stanza, accanto alla
compiacente medium. Mostrava maggior interesse per i piedini della gentildonna, da lui nascostamente
stuzzicati, che non per le traballanti gambe del tavolino delle sedute spiritiche.
Non si acconsentì della medium e rivolse l'attenzione anche alla sua figliola ventenne, col pretesto di
darle lezioni di matematica. Rachele s'ingelosì, protestò, urlò. Graffiò il marito e tutto finì sul nascere.
La giovane figlia della medium aveva un fratello di qualche anno più grande di Edda. Fra Edda e questo ra
gazzo nacque una simpatia che ben presto li portò a sbaciucchiarsi al buio delle cantine. Lui le dichiarava
un amore travolgente. Quando sarò grande ti sposerò! Le diceva. E poi, portandosi solennemente una
mano al cuore, soggiungeva:Te lo giuro!. Le faceva piccoli regali, un puntaspilli di lana colorata, una noce,
una liquirizia.
Benito s'ingelosì e ordinò alla figlia di non incontrarsi mai più con quel malevolo individuo. Il ragazzo
continuava egualmente a inviarle regalini a distanza, attraverso un paio di cordicelle tese a mo' di filovia
fra le finestre delle loro case. La ragazza li accettava contravvenendo così all'ordine del padre per quanto
ne fosse affascinata e soggiogata. Lei ravvisava nel padre un eroe favoloso. Lo sapeva al centro di storie
avvincenti, lo vedeva uscire di casa con la camicia priva di una manica pronto a battersi a duello e poi
rincasare graffiato ma trionfante. Ravvisava in lui un uomo di eccezionale valore, mentre nella madre e
nella nonna non scorgeva che mediocrità e piattezza.
Per il padre, lei era più cara della pupilla dei suoi occhi.
Alla rotta di Caporetto era seguita la vittoria sull'Austria-Ungheria che condusse alla sconfitta della
Germania, al crollo degli Asburgo e degli Hohenzollern e alla fine della guerra. La gloria italiana si
chiamava Vittorio Veneto, e il generale tedesco Ludendorff disse che in quella sconosciuta località veneta
l'Austria non aveva perduto una battaglia, ma la guerra e se stessa, trascinando la Germania nella propria
rovina. I soldati italiani entravano a Trento e sbarcavano a Trieste dove si recava anche Mussolini.
Egli inneggiava al sole latino che rendeva bionde le messi sulle quali il nemico intendeva stendere la
mano rapace.
Pur nel trambusto del reducismo dilagante carico di problemi, riuscì a trasferire la famiglia dall'ormai
insopportabile periferia di via Castelmorrone in una zona centrale della città, borghese e pretensiosa.
La domestica tribù prese alloggio al n. 38 di Foro Buonaparte in un confortevole appartamento all'ultimo
piano, fiera del cammino compiuto in pochi anni nella gerarchia sociale.
Come sempre l'appartamento era all'ultimo piano perchè‚ lui non voleva sentir stropiccìo di piedi sulla
testa. L'edificio era quanto mai decoroso. L'ampio scalone era adornato da una solenne ringhiera, e sul
corrimano si lasciavano scivolare come furie i rampolli degli inquilini, non esclusa Edda, più
scavezzacollo di ogni altro ragazzo.
Giocava a pallone, unica donna in una schiera di giovanotti che talvolta mandavano in frantumi i vetri
delle finestre del palazzo fra le proteste degli inquilini e le scarpate della portinaia.
Alle migliorate condizioni economiche non corrispondeva nei Mussolini una vita più tranquilla, non in
famiglia, non‚ nell'arengo politico. Rachele, mentre ancora allattava Bruno, si ammalò di spagnola e si
salvò dalla morte per caso, come per caso si salvò anche il piccolo, colpito da difterite. Edda si
confermava invece inattaccabile da ogni male crescendo robusta, fra irrequietezze e inquietudini.
Cominciava ad apprezzare le rappresentazioni teatrali. Il Dal Verme era a due passi da casa.
La tribù mussoliniana vi si recava frequentemente, ma Edda, che ancora faceva capricci, rifiutò una sera
di assistere a un secondo spettacolo della star di quei tempi, Nella Regini, a lei fortemente antipatica, se
non altro perché la scultorea soubrette fasciata di lamé appariva incantevole agli occhi del padre. Ne era
gelosa. Diceva: Già faccio indigestione di radicchi. Non voglio farne anche d'una donna dalle stupide
gambe.
Quasi fosse un maschietto, accorreva con maggiore entusiasmo all'Arena, dove si svolgevano incontri di
boxe di primaria importanza sportiva. Particolarmente impresso le rimase il match in cui Erminio Spalla
abbatté per knock out il pugile inglese Costant Barrick. Lo spettacolo preferito era quello dei fuochi
artificiali, e non se ne perdeva uno. Ma ricordava con nostalgia anche i cantastorie di via Castelmorrone.
Era ancora vivo nella sua memoria uno di quei cantori, un omone con barba, cilindro e una lunga
bacchetta di legno in mano, che raccontava in versi una straziante vicenda di odio, amore e sangue.
Severo in viso, indicava con la bacchetta i cartelloni variopinti in cui erano raffigurati gli episodi violenti
o patetici della narrazione, mentre una bambina suonava uno sfiatato organetto a bottoni per far
risaltare i gesti e le parole dell'uomo che poi era suo padre.
Non importa essere in molti, esclamò Mussolini la mattina del 23 marzo '19 al momento della fondazione
dei Fasci italiani di combattimento. Nel proporsi come salvatore della patria aveva quel giorno intorno a
s‚, in una sala di piazza San Sepolcro nella vecchia Milano, poco più di cento persone fra arditi,
interventisti rivoluzionari ed esponenti di associazioni antisocialiste, armati di manganelli, scudisci,
pugnali e bombe a mano. La sala risuonava degli alalà dannunziani. Siamo noi, con i nostri Fasci, che
abbiamo diritto alla successione nella guida del paese perché fummo noi che lo spingemmo alla guerra e
lo conducemmo alla vittoria, disse. Quindi si proclamò repubblicano e al tempo stesso imperialista, con
un occhio rivolto ai suoi massimi finanziatori, l'Ansaldo e l'Ilva.
Parlava a scatti, nervosamente. L'imperialismo aggiunse: è il fondamento della vita per ogni popolo che
tende a espandersi economicamente e spiritualmente. Ciò che distingue gli imperialismi sono i mezzi.
Ora i mezzi che noi sceglieremo non saranno mai mezzi di penetrazione barbarica, come quelli adottati
dai tedeschi. Seguì un intervento di Filippo Tommaso Marinetti che Mussolini definiva il maestro dei
futuristi italiani. Scherzosamente lo rappresentava in quattro versetti: Marinetti è quella cosa /
Futurismo più cazzotto, / Dieci più, bel giovanotto, / Taratà zumzum zumzum¯.
Alle elezioni politiche del novembre successivo i Fasci non riuscirono a presentarsi che nel solo collegio
di Milano. In Italia per la prima volta le consultazioni popolari si svolgevano con il sistema proporzionale,
e Mussolini aveva tentato di dar vita a un blocco interventista. Essendo abortito questo suo progetto,
aveva ripiegato su una lista fascista nella circoscrizione milanese. La lista, che pur comprendeva insieme
a lui personaggi di spicco come Marinetti e Toscanini, non portò a Montecitorio neppure un deputato.
I diretti avversari di Mussolini, cioè i socialisti del Psi, conquistarono invece 156 seggi, così come i
popolari, nelle liste di un nuovo partito fondato da don Luigi Sturzo, ne presero 100. Sembrava la fine, e
lui per più giorni non fece nemmeno ritorno a casa. Nessuno in famiglia sapeva dove fosse.
La disastrosa sconfitta elettorale apriva una crisi organizzativa sia del fascismo nascente sia del Popolo
d'Italia, per cui Mussolini già meditava di mollare ogni cosa.
I socialisti, lorda leninista, come lui li chiamava, sfilarono festanti e salmodianti sotto le finestre del
Popolo d'Italia e sotto quelle di casa sua al grido di Bandiera rossa, la trionferà¯. Recavano a spalla una
bara con la scritta: Qui giace Mussolini. La scena, debolmente illuminata dalle torce dei manifestanti in
processione, aveva qualcosa di spettrale nella penombra della sera. Rachele e Edda furono invase da un
tremito irresistibile a quello spettacolo che avevano creduto vero.
Poi i manifestanti gettarono la cassa mortuaria nelle acque del Naviglio insieme a grandi foto che
effigiavano d'Annunzio e Marinetti, mentre l'indomani appariva sull'Avanti!¯ uno stelloncino listato a
lutto:Un cadavere in condizioni di avanzata putrefazione è stato ripescato stamane nel Naviglio.
Pare si tratti di Benito Mussolini.
L'episodio colpì enormemente Edda che si svegliava di soprassalto in piena notte sognando un vero
funerale del padre. Nitti, che era presidente del Consiglio, ordinò di arrestare Mussolini, ma presto lo
rimise in libertà perché ormai non faceva più paura. Sul Corriere della Sera Albertini lo definiva un
rudere, e lui stesso si sentiva irreparabilmente sconfitto.
I suoi familiari erano ancora in pericolo, tanto che Rachele portava i figli in soffitta per metterli al riparo
dalle temute irruzioni dei sovversivi. Aveva nascosto tre bombe Sipe su un armadio, pronta a lanciarle
sugli assalitori, e si era perfino munita di una pistola che di giorno teneva nella borsetta e di notte sotto il
cuscino. In Foro Buonaparte transitavano gruppi di manifestanti che poi si radunavano all'Arena per
ascoltare i comizi dei loro capi. C'era chi cantava versetti indecenti: Con la testa di Mussolini / ci faremo
un orinale / per farci piscià dentro / la guardia municipale. Quando passavano i rossi, la portinaia del n.
38 si affrettava a sbarrare il portone in difesa della famigliola Mussolini, mentre a sua volta Rachele
chiudeva le persiane di casa. Mamma, che succede, ci bruciano il palazzo?
chiedeva Vittorio impaurito. Sta zitto rispondeva Edda aspramente, se no ti fanno la pelle!
Mussolini è uscito fuori strada anche in politica, esclamavano gongolando i suoi avversari. Così dicendo
si richiamavano all'incidente automobilistico che gli era capitato un mese prima delle elezioni quando,
per la velocità eccessiva, aveva travolto con la macchina le sbarre di un passaggio a livello della ferrovia
presso Faenza.
Lui, grazie alla sua blindatura¯ cranica, aveva riportato appena qualche graffio, mentre l'auto trainata da
un paio di buoi, fu affidata per le riparazioni a un meccanico della città.
Rachele, vendo il giornale! diceva alla moglie. Torno a fare il muratore. Potrei anche fare il pilota di aerei.
E buona notte ai suonatori!¯ Poi riuscì ad assorbire psicologicamente la sconfitta elettorale e a superare
anche le difficoltà che erano insorte all'interno del movimento fascista e che avevano messo in forse la
sua preminenza di Duce. Le stesse condizioni economiche della famiglia mostrarono un sensibile
miglioramento. Lui ora indossava abiti scuri su camicie bianche dal colletto duro e cravatte a farfalla.
Pur avendo imparato a vestirsi meglio di quanto non facesse a Forlì, ancora spiccavano le ghette bianche
sulle scarpe gialle. Rachele portava vesti strette in vita, ampie gonne scampanate e stivaletti alti di gusto
ottocentesco con lunga abbottonatura.
Lui aveva comprato la prima automobile, a quattro posti con strapuntini: una Bianchi Torpedo di seconda
mano, comunemente detta Bianchina. Ben presto la sostituì con un'Alfa Romeo rossa a quattro cilindri,
sportiva, una duemilanovecento. Se era bel tempo, nelle mattinate domenicali portava a spasso sulle
strade dei laghi la domestica tribù, con Rachele che gli stava vicino e i tre figli seduti trionfanti ma litigiosi
sul sedile posteriore. La sera, lui, la moglie e l'Edda si recavano al teatro Fossati dove trionfavano le
operette. Fra tutte le rappresentazioni Rachele preferiva quel gran pasticche della Duchessa del Bal
Tabarin di Carlo Lombardo e volle vederlo per tre volte consecutive, provocando le bizze della figlia.
D'Annunzio occupava Fiume alla testa d'un pugno di animosi granatieri nel settembre del '19, senza che
Mussolini gli offrisse qualcosa di più d'un generico sostegno. Il Vate se ne adontò e lui replicava
rimproverandolo di non aver chiarito gli obiettivi politici dell'impresa fiumana. In realtà d'Annunzio si
proponeva di sollevare l'Italia con una marcia che dalla Città olocausta raggiungesse Trieste come prima
tappa, per poi puntare su Roma. Benito pensava invece che, in caso d'una marcia su Roma, dovesse
capeggiarla lui. Intanto, per bloccare l'iniziativa gabrieldannunziana, sosteneva l'opportunità di rinviare
l'insurrezione alla primavera del '21 poiché i fascisti ancora non disponevano delle forze necessarie a
scatenarla. In prospettiva suggeriva alcuni obiettivi della loro azione: dichiarare la decadenza della
monarchia e deportare su un'isola remota la famiglia reale pur senza sottoporla a brutalità; sciogliere la
Camera e il Senato; abolire le province e le regioni per rinnovare lo Stato. Egli considerava la macchina
statale ipertrofica e vulnerabile avendo assunto un gran numero di funzioni d'indole economica: lo Stato
faceva il postino, il tabacchino, il ferroviere, il panettiere, l'assicuratore, il navigatore, il caffettiere, il
biscottiere, il bagnino, tutto con risultati disastrosi.
L'Italia viveva in un clima di guerriglia civile. Da un lato la rivoluzione sovietica esercitava sul
proletariato un fascino irresistibile, tale da creare nelle coscienze dei lavoratori l'attesa messianica d'un
immediato rinnovamento sociale; dall'altro lato il movimento fascista rafforzava la sua influenza e
rintuzzava violentemente le rivendicazioni operaie. Alle scorribande delle sinistre si contrapponevano le
incursioni degli squadristi guidati da ras maneschi - come Italo Balbo, Roberto Farinacci, Giuseppe
Caradonna - che con purghe all'olio di ricino e manganellate spadroneggiavano un po' dovunque.
Scalpitavano anche i capitalisti colpiti dalle nazionalizzazioni e dal crescente intervento dello Stato
nell'economia. Giolitti tornava dopo sei anni al potere, mentre si susseguivano le agitazioni, dagli scioperi
agrari nella Valle padana a quelli dei metallurgici in Piemonte che si estendevano in tutta la penisola.
Fu la grande industria a fornire il più importante bersaglio al movimento operaio che con intenti
rivoluzionari occupò le fabbriche per rispondere alla serrata degli industriali.
Da quell'occupazione i socialisti riportarono una clamorosa sconfitta in seguito alla tattica attendista
adottata dal vecchio Giolitti, il quale aveva evitato di impiegare la forza, certo che la protesta operaia si
sarebbe conclusa con un nulla di fatto nell'impossibilità per le guardie rosse di gestire a lungo le
fabbriche senza la competenza dei dirigenti e senza il denaro dei capitalisti. Ironicamente Mussolini
esclamava: "Chi ha ordinato di scatenare la rivoluzione in Italia? Il signor Uljanov?. Quella sconfitta, che
rivelava l'intrinseca debolezza del partito socialista, fu la matrice della scissione comunista di Livorno, a
opera del gruppo gramsciano di Ordine Nuovo. Essa diede altresì l'impulso a una maggiore espansione
del movimento fascista il quale soltanto due mesi dopo si produsse in una sanguinosa azione repressiva
contro i socialisti emiliani che avevano conquistato il comune di Bologna nelle elezioni amministrative.
Nel novembre del '20, con l'eccidio di palazzo d'Accursio si diede l'avvio in tutta la penisola a una vasta
reazione contro il cosiddetto socialismo russificato, cosicché‚ i fascisti avvertirono di godere d'un diffuso
sostegno dei ceti piccolo borghesi, degli agrari, degli industriali, dei conservatori e di chiunque temesse
espropriazioni di marca bolscevica.
Alla strage bolognese fece eco un altro sanguinoso scontro nelle vie di Ferrara. I fascisti vollero anche qui
sfidare i loro potenti avversari che prevalevano in tutti i comuni della zona e, davanti al Castello estense,
aggredirono un corteo di contadini e di operai inneggianti a Lenin.
Accolti a colpi di moschetto dalle guardie rosse appostate tra i merli del castello, lasciarono sul terreno
tre morti e numerosi feriti. Scontri - con rivoltellate, fucilate e lanci di bombe a mano - si verificarono a
Vercelli, La Spezia, Trieste, Reggio Emilia, Firenze, Cerignola, Reggio Calabria. Nonostante le perdite, i
fascisti traevano incoraggiamento da quelle azioni, dicevano di dar prova di temerità e di capacità
organizzativa.
Mussolini riacquistava fiducia. Chiunque gli avesse cantato la messa funebre, diceva, doveva ricredersi:
lui non avrebbe dato tregua ai socialisti se non smettevano di parlare di comunismo, di dittatura, di
Russia, di leninismo e di altre simili orribili cose. Aggiungeva che qualche passo avanti si era già
compiuto dal 1919 al 20, dai giorni in cui l'enorme fantoccio bolscevico copriva con la sua ombra l'Italia e
nessuno osava fiatare.
Edda era ormai grandicella, ma portava ancora i capelli corti. Frequentava con profitto la prima
ginnasiale al Parini, come appariva dalla pagella dell'anno scolastico 1921/22. Aveva riportato in italiano
7 allo scritto e 7 all'orale, in latino 8 e 7, in storia 8, in geografia 7, in francese 8, in matematica 7 e 7, in
educazione fisica 10. In condotta aveva preso un 8, a dimostrazione di quanto la ragazza fosse esuberante
anche sui banchi della scuola. Chiedeva al padre di non trascinarla soltanto a teatro o al Biffi in Galleria;
almeno una volta voleva salire sul suo aereo. Voleva provare l'emozione del volo e guardare Milano
dall'alto. Ma Benito, pur portandola sovente con s‚ fin sul campo d'aviazione, la lasciava a terra. E ciò la
indispettiva.
Lui prendeva lezioni di pilotaggio ad Arcore a bordo di un piccolo velivolo con doppio comando, un
Aviatik. Aveva per istruttore un asso dell'aviazione, Cesare Redaelli, il quale lo avrebbe voluto sul campo
con maggiore frequenza. Mussolini si scusava e attribuiva le sue assenze agli impegni politici. Sono stato
un po' pelandrone, gli diceva, ma mi rifarò presto volando tutti i giorni.
Approvo che lei mi suoni lo svegliarino.
Una mattina di marzo, egli era al comando dell'Aviatik quando all'improvviso vennero a mancare i battiti
del motore. L'apparecchio cadde verticalmente da una quarantina di metri d'altezza fracassandosi fuori
del campo di Arcore. Entrambi gli occupanti riportarono alcune ferite al volto. Mussolini, oltre a rischiare
di perdere un occhio, ricevette un duro colpo a una gamba, proprio quella che durante la guerra era stata
dilaniata dall'esplosione di un mortaio e che ancora conteneva nelle carni tre piccole schegge metalliche.
Rachele accorse con Edda all'ospedale, ma accanto al letto del marito trovò un'altra donna, elegante e
austera, con un largo cappello, certamente un'intellettuale, di cui non aveva mai sentito parlare.
Era Margherita Sarfatti, una delle amanti di lui. Rachele, scorgendola, capì immediatamente ogni cosa.
Ebbe una vampata di rossore in viso, e d'impeto urlò al marito fedifrago: Ben ti sta!. L'esclamazione si
doveva anche al fatto che durante la notte era stata assalita da un incubo, quasi da un presentimento.
Aveva sognato che lui precipitava al suolo con l'aereo in fiamme.
Profondamente impressionata lo aveva scongiurato di non volare quella mattina. Per tranquillizzarla
Benito, uscendo di casa, aveva lasciato sulla sedia il giubbotto di pelle da aviatore, ma poi si era
egualmente recato all'appuntamento con l'istruttore sul campo di Arcore.
Si pensl che l'incidente aviatorio fosse opera di sabotatori. Il sospetto cadde sui legionari dannunziani
irritati dall'indifferenza di Mussolini per l'impresa fiumana. Del resto Redaelli scoprì che era stato
manomesso il sistema di raffreddamento dell'Aviatik. Non si escludeva nemmeno che gli autori
dell'attentato potessero celarsi fra gli anarchici in quei tempi particolarmente attivi. Il 23 marzo, secondo
anniversario della fondazione dei fasci, essi perpetrarono una strage al teatro Diana di Milano per
protestare contro l'arresto del loro leader Errico Malatesta. La bomba esplose durante la
rappresentazione d'una celebre operetta di Lehr, Mazurka blu, che richiamava grandi folle di spettatori.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno un giovane anarchico, il venticinquenne Biagio Masi proveniente
da Piombino, fu sorpreso da Rachele aggirarsi nei dintorni di casa, in Foro Buonaparte. Allarmata lo
affrontò a viso aperto, e il giovane le disse che cercava lavoro e che sperava di ottenerlo dal marito.
Fu indirizzato alla redazione del Popolo d'Italia, dove Benito era tornato da un paio di giorni, essendo
rimasto inchiodato a letto per le ferite riportate nell'incidente aviatorio. Il Masi gli rivelò personalmente
la vera ragione della sua presenza a Milano. Gli anarchici di Piombino lo avevano incaricato di ucciderlo,
e a questo scopo gli avevano messo in mano una Beretta calibro 7,65 e quattordici proiettili.
Mentre riemergeva la Dalser con nuove pretese per sé‚ e per il figlio Benito Albino, carino e vivace che
ormai aveva cinque anni, Mussolini si sentiva attratto da un'altra donna, non meno giovane e bella
dell'austroungarica. La sua nuova passione era Angela Curti, comparsa una sera nella redazione del
Popolo d'Italia, che si era trasferita dall'angusto e misero covo di via Paolo da Cannobio nella più
accogliente sede di via Lovanio, con poltrone e tappeti. Lui gridava che le poltrone, i tappeti e le pantofole
erano la rovina degli uomini poiché li impigrivano e li imborghesivano. Angela quella sera era
accompagnata dal padre, un vecchio militante socialista di nome Giacomo Cucciati. La giovane donna
chiedeva a Mussolini di intercedere in favore di suo marito Bruno che era stato incarcerato per ragioni
politiche. Da quella visita nacque tra loro un'intensa relazione.
La Dalser non sapeva nulla della nuova storia intrapresa dal fedìfrago amante, e ancora non si dava pace
di essere stata abbandonata per Rachele. Lui diceva a Rachele, la quale a sua volta era all'oscuro della
novità riguardante Angela, che l'austroungarica non era che una squilibrata, una ricattatrice, anzi una
criminale. Le mostrò una lettera che stava scrivendo a un compagno di Trento, Cesare Berti, per pregarlo,
avendone il potere, di cacciare in galera la Dalser, perché quella era la sua naturale destinazione.
Continuava tuttavia a passarle un sussidio di duecento lire al mese, e se ne lamentava.
Il figlio della medium di via Castelmorrone era ormai soltanto uno sbiadito ricordo per Edda.
Gli subentrava un giovane che proveniva da Fiume e che era stato accolto in casa Mussolini, come allora
facevano le famiglie dei nazionalisti volendo mostrarsi solidali con gli esuli. Lo chiamavano il Fiumano.
Era un giovane ardito, o meglio un po' bislacco. Accorreva ovunque si menassero le mani, tanto che
spesso rincasava lacero e contuso. Edda lo considerava un eroe e, ormai dodicenne, se ne sentiva attratta.
Lui, dichiarandosene innamorato, le diceva che presto si sarebbe arruolato in marina, che sarebbe
diventato capitano di vascello e che l'avrebbe rapita con un sommergibile risalendo i navigli milanesi.
La ragazza rideva ed esclamava: Fiumano, sei pazzo!, ma egualmente si lasciava andare a un bacio, a una
carezza.
Da Foro Buonaparte tutte le mattine Edda si recava a scuola in via Fatebenefratelli, al ginnasio Parini.
Sedeva all'ultimo banco, accanto a una ragazza che divenne la sua più cara amica. Si chiamava Amelia
Perrone. Era una biondina dagli occhi celesti che subiva il suo fascino, al punto di accettare supinamente
l'iscrizione alla sezione fascista femminile del ginnasio, così come la giovane camerata le imponeva.
In realtà erano soltanto due le iscritte a quella sezione, fondata da Edda, cioè lei stessa e l'arrendevole
Amelia. Le compagne di classe reagirono alla nascita della sezione fascista, per quanto fantomatica, e
fondarono una non meno evanescente lega del buon senso che si ispirava al partito popolare.
Quelle iniziative, fossero o no fantomatiche ed evanescenti, non impedivano che le aderenti all'uno e
all'altro gruppetto si accapigliassero in continuazione. Presto la sezione fascista femminile del Parini poté
contare su due nuove iscritte, le studentesse Anna Scaglia e Armida Tencabba.
Vive erano le difficoltà del paese in pieno dopoguerra e profondo era il disagio morale delle popolazioni.
Ugo Ojetti cercava di rappresentare la situazione nel romanzo Mio figlio ferroviere, ma la crisi andava
oltre il bozzettismo d'una scorrevole narrazione. L'Italia stentava a convertire l'economia di guerra in
economia di pace, e in ragione di ciò la disoccupazione si aggravava al punto che i senza lavoro
ammontavano ormai a seicentomila unità. La legislatura che aveva avuto inizio nel '19 fu brevissima e
non durò che fino all'aprile del '21. Con le nuove elezioni Mussolini entrò alfine nell'aula di Montecitorio
alla testa d'un nutrito drappello di trentacinque deputati fascisti, mentre i socialisti ne perdevano
trentaquattro. Per la prima volta apparivano sulla scena parlamentare i comunisti che, nati da pochi mesi
a Livorno, conquistarono sedici seggi. I popolari salirono da cento a centosette.
Le elezioni, che si erano svolte con molto anticipo sulla scadenza naturale, le aveva volute Giolitti il quale
nutriva la speranza di danneggiare socialisti e popolari a vantaggio delle forze liberaldemocratiche.
Aveva perciò sostenuto Mussolini i cui seguaci erano stati accolti nelle liste di un Blocco nazionale,
accanto ai liberali di destra che avevano accettato di veder trionfare un fascio littorio nel loro simbolo
elettorale. Il vecchio statista piemontese dovette constatare di aver fatto male i conti perché Mussolini,
non appena entrato alla Camera, prese le distanze dal Blocco nazionale, e personalmente da lui che aveva
creduto di potersene servire. Disse subito che non avrebbe mai fatto da "attaccapanni¯ a nessuno, meno
che mai a re Vittorio Emanuele e allo stesso Giolitti, definendone lacrimevole la politica. Anzi nel suo
primo discorso, rovesciando le sue originarie posizioni, cercò di avvicinarsi proprio ai popolari ("Non
sono anticlericale!) e soprattutto ai socialisti ("Rispetto il movimento operaio!), dalle cui file era stato
espulso sette anni prima. Prese perfino le distanze dai metodi squadristici, e disse che per lui la violenza
non era n‚ un sistema n‚ un estetismo, ma una dura necessità alla quale era stato costretto dalla virulenza
della lotta politica.
Mussolini ostentava dunque la volontà di collaborare sia con i popolari sia con i socialisti ai quali propose
un patto di pacificazione ("Siamo disposti a disarmare, se voi disarmerete!). Il suo partito si presentava
però diviso tanto che gliene sfuggiva di mano il controllo a causa dell'atteggiamento dei ras più accesi che
credevano ancora e soltanto nelle ragioni del manganello, del pugnale, dell'olio di ricino. Per far sbollire
gli animi, lui dovette fingere di lasciare le cariche direttive. Ironizzava sull'appellativo di duce che gli
avevano attribuito, ed esclamava: Io sono un "duce" per modo di dire. Sfumava il suo progetto di favorire
una coalizione tra fascisti, popolari e socialisti, che rappresentavano le tre maggiori forze politiche del
momento. Tuttavia il movimento dei fasci, sorto poco più di due anni prima in piazza San Sepolcro,
assumeva una struttura ben più articolata che prendeva il nome di Partito nazionale fascista.
A tre anni dalla fine del conflitto, il 1922 si apriva all'insegna di gravi crisi interne e internazionali.
Pesanti erano gli effetti della siccità che colpiva l'intera penisola. Inarrestabile era il crollo della Banca
italiana di sconto nelle cui voragini veniva inghiottito il denaro di duecentomila piccoli risparmiatori, in
buona parte meridionali. Fallimentare si rivelava la conferenza indetta a Cannes fra i vincitori della
guerra mondiale per tentare la revisione del trattato di Versailles, che strozzava la Germania, e per aprire
un nuovo capitolo nella ricostruzione economica europea. I tedeschi, gli odiati boches, erano sottoposti a
ogni sorta di umiliazioni. La situazione fu riassunta un giorno sulle pagine di Simplicissimus in cui
appariva un contadino prussiano che esclamava: Mi lasceranno almeno questa vanga!.
Mussolini, a Cannes in veste di inviato del Popolo d'Italia, si attardava a dissentire sulla scelta della sede.
Mi domando, scriveva, se queste stazioni climatiche con tanta gloria di luce, di sole, di mare e di verde
siano le più indicate per affrontare con la necessaria gravità spirituale i problemi formidabili del riassetto
europeo.
Cadeva il debole governo presieduto da Bonomi, e ciò consentiva a Mussolini di mettere a punto una
politica che convogliasse verso il suo partito nuove adesioni, non soltanto fra gli agrari e i piccolo
borghesi imbevuti di grandezze imperialistiche, ma anche fra i contadini e i proletari scontenti dello Stato
parassita, del capitalismo egoista, dei socialisti inconcludenti. Interminabile, macchinosa e
cinematografica, fu la crisi per il varo d'un nuovo governo, la più lunga dal 1870. Le istituzioni
democratiche erano allo stremo, a sessant'anni dall'unità d'Italia. Mussolini già cantava il De profundis
alla democrazia, dal suo banco all'estrema destra nell'aula di Montecitorio. Se la democrazia, diceva, non
è capace di darsi un'organizzazione storica nel nostro paese, in un paese, signori, come il nostro fin
troppo democratico, vuol dire che in Italia la democrazia non ha più niente da dire e da fare.
Tramontarono le candidature di De Nicola e di Orlando. Non riuscì nell'intento di formare un governo
neppure Giolitti in seguito a un veto di don Sturzo, portavoce occulto del Vaticano. A tamponare la
situazione emerse il nome di Luigi Facta che riuscì dove gli altri erano falliti.
Tuttavia Facta non si mostrava capace di opporsi alle nuove ondate della violenza squadrista. Agli occhi
di Gaetano Salvemini, il nuovo presidente del Consiglio era un uomo politico di quart'ordine col cervello
d'una gallina.
Aveva il nuovo governo la percezione di trovarsi sull'orlo dell'abisso? Anna Kuliscioff era indotta ad
amari presagi dalla nuova violenza sistematica dei fascisti. Essi costituiscono, diceva, un vero esercito
militarizzato, disciplinato, pieno di ardore. Non mi meraviglierei se fra non molto s'impadronissero del
potere. I fascisti avevano infatti messo a punto la loro organizzazione paramilitare istituendo squadre,
centurie, coorti, legioni, indicando ruoli e comandanti sul retorico modello dell'antica Roma.
Si avvertiva nell'aria la minaccia d'una insurrezione armata con l'intento, dicevano i fascisti, di restaurare
l'autorità dello Stato. Per raggiungere tale obiettivo, Mussolini già preannunciava una marcia su Roma.
Se il governo sarà intelligente, proclamava, ci darà il potere pacificamente; se non lo sarà, lo prenderemo
con la forza calando sulla capitale. Per dimostrare che faceva sul serio convocò una grande adunata
preparatoria a Napoli. Dal palcoscenico del teatro San Carlo definì quella città la metropoli del
Mezzogiorno, la regina del Mediterraneo e una grande riserva di salvezza della nazione. Nei giorni di
preparazione della marcia, fra i concentramenti di camicie nere sopraggiunte con treni e camion, due
squadre di arditi tutelavano a vista d'occhio i familiari di Mussolini nella loro casa di Milano. Al minimo
segno di pericolo, i militi appostati sui tetti mettevano sull'avviso le squadre di protezione intonando il
ritornello d'un loro canto guerresco: “ L'ardito è bello,/ l'ardito è forte,/ piace alle donne,/ paura non ha”.
In tanta agitazione, Benito ostentava una calma olimpica. Per celare alle autorità governative e agli
avversari i suoi reali movimenti, la sera del 28 ottobre uscì tranquillamente di casa. In compagnia di Edda
e di Rachele assistette da un palco del Manzoni alle prime battute del Cigno di Molnr. Molti binocoli degli
spettatori si appuntavano su di lui, invece che sul palcoscenico. In platea sedeva anche Margherita
Sarfatti cui aveva dato appuntamento con la scusa di doverle parlare della rivista Gerarchia a lei affidata
e che poi salutò con un cenno della mano mentre celatamente lasciava il teatro. Allontanandosi, disse
sottovoce alla moglie: Siamo pronti!. Da quel momento, per tutta la notte e per tutto il giorno seguente fu
introvabile.
La mattina del 29 apparve un suo articolo sul Popolo d'Italia con le condizioni per risolvere la crisi, che
consistevano nel rifiuto di partecipare ai ministeri di altri: “Il Govemo deve essere nettamente fascista. Il
fascismo vuole il potere e lo avrà!”. Essendo sempre irreperibile, qualcuno pensava persino che
l'avessero arrestato, come misura cautelare perché ormai il pericolo di un'azione violenta si era fatto
concreto, nonostante la sua tranquilla apparizione al teatro Manzoni. Tanto grande era l'agitazione in
famiglia che Edda e Vittorio quel giorno non andarono a scuola. E' Casa Reale che parla¯, diceva una voce
al telefono; ma neppure Rachele, che rispondeva dall'apparecchio dell'abitazione di Foro Buonaparte,
sapeva dove fosse il marito. Lo cercava il generale Cittadini per comunicargli che il re desiderava
consultarlo sulla situazione politica.
Uno dei quadrumviri, ai quali era affidata la conduzione militare della marcia, aveva particolari legami
con gli ambienti del Quirinale. Da lui il duce seppe che Vittorio Emanuele intendeva affidargli l'incarico di
formare il nuovo governo. Sospettoso e dubbioso, Mussolini temeva di cadere in un tranello: avrebbero
potuto arrestarlo, non appena fosse riapparso in circolazione. Fece perciò sapere che non gli bastava una
chiamata verbale. Il sovrano allora diede ordine a Cittadini di inviargli un telegramma che diceva: Sua
Maestà il Re, mi incarica di pregarLa di recarsi a Roma desiderando conferire con Lei. Ossequi.
Incoraggiato, Mussolini dichiarò insufficiente anche quella comunicazione scritta, in quanto non
prevedeva che una semplice consultazione. Il telegramma rimase inevaso.
Sul retro della minuta Cittadini annotava laconicamente, a penna: Non ha risposto. Per muoversi da
Milano, prima ancora di abboccarsi col re, Mussolini pretendeva il conferimento formale dell'incarico, un
fatto senza precedenti nella storia politico-parlamentare della nazione.
Vittorio Emanuele si arrese, dopo aver ascoltato le opinioni dei leader liberaldemocratici, favorevoli alla
costituzionalizzazione del fascismo, e dei capi militari che non credevano nella fedeltà dell'esercito da
contrapporre agli squadristi. Quindi ordinò al generale Cittadini di inviare al duce del fascismo un
secondo telegramma sulla base delle sue richieste. E il generale così gli scrisse: Sua Maestà il Re La prega
di recarsi subito a Roma desiderando offrirLe l'incarico di formare il nuovo Ministero. Ossequi.
La comunicazione gli pervenne alle 12,55 del 29, quando egli aveva telefonato frettolosamente alla
moglie perchè gli preparasse una valigia con un po' di biancheria e un abito scuro.
Stava vincendo, ma ancora temeva sorprese. Partì in treno letto alla volta di Roma quella stessa sera alle
8,30. Tra le braccia recava un gran fascio di fiori, dono di un'ammiratrice che alla stazione gli si era fatta
incontro tra la folla festante. Stava vincendo pur essendosi limitato a minacciare la marcia su Roma,
senza attuarla. Il mondo politico, economico e militare del paese gli aveva ceduto il potere ravvisando nel
fascismo una forza capace di preservare l'Italia dal pericolo del bolscevismo. E lui, presentando il suo
governo di coalizione nell'aula di Montecitorio, poté impunemente permettersi di ingiuriare il regime
parlamentare, come premessa di una svolta che, lungi dall'avviare un processo di normalizzazione dello
squadrismo, poneva le basi d'un potere dittatoriale.
Mussolini, presidente del Consiglio, lasciava la domestica tribù a Milano e si trasferiva nella capitale dove
prendeva alloggio prima all'albergo Savoia, poi al Grand Hotel. Cercò subito di stabilire contatti con il
Vaticano, e con questo obiettivo, fin dall'inizio del '23, ebbe incontri riservati in territorio neutro con il
cardinale Gasparri, segretario di Stato della Santa Sede, col quale discusse dell'esigenza di risolvere
finalmente l'annosa questione romana.
Considerava estremamente utile all'immagine del regime ottenere il sostegno delle gerarchie vaticane, e
volle subito dare una dimostrazione di buona volontà, immettendo i propri figli nel regno della Chiesa.
In aprile, ad appena cinque mesi dalla sua ascesa al potere, Edda, Vittorio e Bruno ricevettero in
contemporanea il sacramento del battesimo. La ragazza aveva già tredici anni, Vittorio sette e Bruno
cinque.
L'idea di Edda era di indossare quel giorno una camicetta bianca con gonna nera plissettata, l'uniforme di
alcune sue compagne più grandi che avevano fatto le squadriste e marciato su Roma, con tanto di
scudiscio in mano.
Ma non se ne fece nulla. Il rito fu celebrato privatamente nella loro abitazione milanese da un parente
prete, don Colombo Bondanini, fratello della moglie di Arnaldo.
Dondolandosi sulle gambe, il duce commentò la scena con un pizzico d'ironia e di cinismo. Il cardinal
Gasparri sarà alfine contento! Il cardinale ebbe altri motivi di soddisfazione poiché, sempre in quello
stesso mese di aprile, il governo varò la riforma scolastica di Giovanni Gentile che, stabilendo fra l'altro
l'autonomia delle università, rese possibile l'istituzione dell'Università cattolica del Sacro Cuore.
Inoltre era già riapparso il crocifisso nelle aule scolastiche e in quelle giudiziarie.
Installatosi a Roma, raramente Mussolini tornava a Milano, e comunque le sue visite nella città lombarda
erano molto brevi. Aveva disposto che la sua stanza di lavoro fosse non nella sua abitazione, ma all'Hotel
Milan. Nei momenti di riposo, s'incontrava più volentieri con Margherita, l'intellettuale, che con Rachele,
la contadina. Alla moglie aveva però cominciato a inviare un assegno mensile, quasi a sancire una
separazione di fatto. All'assegno aggiungeva altri soldi, perché lei potesse disporre di un'automobile e
d'uno chauffeur.
"Civis romanus sum" diceva, e a Roma, stanco di vivere in albergo, prese in affitto un appartamento al
centro della città, nell'angusta e silenziosa via Rasella, a pochi passi da palazzo Chigi, dove aveva stabilito
i suoi nuovi uffici di rappresentanza. Ma già dal Natale dell'anno precedente pensava di trasferirsi in una
sede più scenografica, a palazzo Venezia, come aveva confidato alla moglie. Aveva altresì abolito la
tradizionale carica di presidente del Consiglio per assumere quella di capo del Governo che gli appariva
più confacente al suo ruolo di uomo forte. Anche l'appartamento di via Rasella si trovava all'ultimo piano,
per la sua consueta avversione ad avere gente che gli camminasse sulla testa. Sua governante era una
donna umbra, Cesira Carrocci, consigliatagli dalla Sarfatti, e che Rachele per questo semplice fatto odiava.
Conoscendone la fedeltà, d'Annunzio l'aveva soprannominata Suor Salutevole, e difatti Cesira era
governante, cameriera e cuoca.
Mussolini indossava abiti borghesi, ma metteva tutti in guardia esclamando: Non crediate che sotto
questa redingote non ci sia più la camicia nera dello squadrista! Il 19 marzo del '23 scrisse nel suo diario:
“Anno primo della nuova era”. Così cominciava l'epoca fascista. Durerà un secolo annunciava. Nel luglio
festeggiava i suoi quarant'anni in seno alla famiglia che si trovava in una cittadina ligure, a Levanto, dove
Rachele aveva preso in affitto una piccola villa a pochi metri dal mare per trascorrervi le vacanze.
A Levanto, Edda fu vittima d'uno spavento, il più grave della sua giovinezza, il giorno in cui un aereo
precipitò nei pressi della stazione. Lei sapeva che il padre sarebbe arrivato in volo proprio a quell'ora e,
quando vide l'aereo perdere quota e precipitare, credette di aver perduto la persona che le era più cara al
mondo. Poche settimane prima, il padre le aveva detto alcune parole che le erano sembrate stupende:
Bisogna essere capaci di gettare la vita come si getta un fiore. Adesso però quelle parole avevano perso il
loro fascino, le risuonavano dolorose all'orecchio. Urlante e in lacrime, accorse sul luogo del disastro, e
non si placò che al momento in cui vide estrarre dalla carcassa del velivolo un corpo, un cadavere, che
non era quello del padre.
Mussolini già avviava una riforma della legge elettorale che sostituisse con un sistema maggioritario la
rappresentanza proporzionale dei partiti alla Camera per assicurare al suo governo, ormai epurato dei
cattolici, una larga base parlamentare che gli consentisse di agire indisturbato. La riforma maggioritaria,
chiamata legge Acerbo dal nome del coordinatore, equivalse al suicidio dei partiti democratici i quali,
incapaci di cogliere l'ambiguità della politica mussoliniana, gli consegnarono una nuova e più grande
fetta di potere.
Nell'aprile del '24, ad appena diciassette mesi dalla marcia su Roma, Mussolini si presentò alle nuove
elezioni con quella legge e con un listone che comprendeva fascisti e filofascisti. Vinse raccogliendo il
sessantasei per cento ai danni di chi era rimasto a contrastarlo fra i cattolici popolari, i liberali, i
repubblicani e contro i socialisti e i comunisti. Eppure aveva detto ai suoi che non si sarebbe scaldato
troppo per quei ludi cartacei. Parlò come un Cesare redivivo nella sala del teatro Augusteo, il luogo dove
era stato sepolto il primo imperatore romano. E dalla Francia gli giunse una stoccata: Non è che un
Cesare da carnevale!
Durante la campagna elettorale, aveva lasciato l'Hotel Milan per insediare il quartier generale nel palazzo
della prefettura, in corso Monforte. Non tornava a casa neppure di notte. Sosteneva che gli era più
comodo non allontanarsi dalla prefettura, dovendo seguire la situazione da vicino minuto per minuto.
E aggiungeva: Dormo in prefettura perché a casa i bambini fanno troppo chiasso. In realtà si rifugiava
nell'abitazione della Sarfatti che proprio in quelle settimane aveva perduto il marito. Irritatissima,
Rachele fece fagotto e se ne andò con i figli a Forlì. In tal maniera eviterò di commettere qualche grossa
sciocchezza, diceva.
Nella nuova Camera eletta con le consultazioni del '24 si erse il riformista Giacomo Matteotti, il Marat del
Polesine, a denunciare intimidazioni e violenze fasciste commesse a suon di manganello, purghe e
devastazioni. Anche da Piero Gobetti, fondatore di Rivoluzione liberale, provenivano pesanti accuse.
Intanto Matteotti si accingeva a rivelare brogli elettorali tanto gravi da infirmare la validità delle
consultazioni. Avrebbe pure parlato dei finanziamenti occulti che Mussolini aveva ricevuto da una grande
compagnia petrolifera straniera per ottenere l'autorizzazione ad attuare sondaggi sul territorio italiano.
Ma lo misero a tacere trucidandolo. Le sue spoglie furono rinvenute nella boscaglia della Quartarella, a
nord di Roma. Il delitto scosse il regime che si salvò per l'abilità di Mussolini e la debolezza dei partiti
all'opposizione estremamente frammentati, un'opposizione che non valeva le ossa d'un granatiere della
Pomerania, come disse Mussolini plagiando Bismarck. Di suo aggiunse qualcosa di più pesante
affermando che dell'opposizione avrebbe fatto strame per gli accampamenti delle camicie nere. In quella
tragica vicenda si era retoricamente ispirato a un detto (Vivere pericolosamente!), e così facendo
ricorreva a un nuovo plagio, si appropriava di un'espressione di Nietzsche, mentre sui muri della capitale
appariva un manifesto che riproduceva il suo volto intriso di sangue.
Si arrivò al 3 gennaio del '25 che fu chiamato il diciotto brumaio di Benito Mussolini. Il Duce aveva
riconquistato il controllo della situazione, e ormai poteva assumersi pubblicamente nell'aula di
Montecitorio la responsabilità politica, morale, storica del delitto Matteotti e dare l'avvio
all'instaurazione della dittatura. Qualche settimana più tardi già diceva che le masse profonde del popolo
italiano gioivano per il ritorno alla maniera forte; rilevava come apparissero con chiarezza il volto e
l'anima della gente che nelle trincee aveva appreso a coniugare il verbo sacro di tutte le religioni:
obbedire! Nasceva insomma il fascismo, quello vero.
I rapporti fra i coniugi Mussolini tendevano al peggio. La moglie non si mosse da Milano neppure nei
giorni in cui egli venne colpito da una grave crisi di ulcera duodenale, con vomiti di sangue. Ad assisterlo
c'era la fedele Cesira che si improvvisò infermiera oltre che guardiana della dieta del padrone. E anche
questo fatto non piaceva a Rachele. La crisi del loro menage era ormai di pubblico dominio. A Milano tutti
ne parlavano sotto le volte dorate della Galleria, tanto che un giorno Rachele diede con stizza un nuovo
addio alla città e si ritirò a Carpena fra mucche e galline. Mi considera una contadina? Ebbene, faccio la
contadina! Altro che donna Rachele!, andava ripetendo, sempre più indispettita. Ora che il marito aveva
maggiori disponibilità finanziarie, potè restaurare un suo malandato cascinale colonico attorniato da un
podere, e si adoperò per fare di quel podere un'azienda agricola e del cascinale una villa, sicché il luogo fu
chiamato villa Carpena, dalla denominazione della zona. Il Popolo d'Italia dava una versione edulcorata
del trasferimento. In poche righe scriveva: Realizzando un suo antico desiderio, Donna Rachele
Mussolini, consorte del Presidente del Consiglio, ieri ha lasciato l'appartamento di Foro Buonaparte per
stabilirsi a Predappio. La Signora con i bambini sono partiti in automobile. L'appartamento milanese Š
stato ieri stesso completamente sgombrato dai mobili.
Edda si trovava a suo agio fra i campi, lontana anche dai giornalisti che ora si occupavano di lei con
maggiore insistenza. Le sembrava di essere tornata ai tempi di via Castelmorrone. Correva, saltava, si
arrampicava sugli alberi a gambe nude, come un maschio e con maggiore agilità dei coetanei. Il
capobanda era lei. La chiamavano Sandokan, a somiglianza dell'eroe di Salgari, lo scrittore preferito.
Le amichette portavano le calze lunghe, e lei se ne prendeva gioco. Mentre mostrava le gambe graffiate e
piene di lividi, esclamava: Quanto siete sceme. Già vi credete donne!.
Nella solitudine di villa Carpena, anzi più che mai in quel volontario esilio, Rachele soffriva all'idea che la
Sarfatti ancora attraesse intensamente il marito. Il cognato Arnaldo e la moglie Augusta erano dalla sua
parte. Fu proprio Arnaldo a rappresentare al fratello la drammaticità della situazione, tanto che riuscì a
fargli capire come fosse necessario troncare la relazione sentimentale con Margherita. A questa rottura,
gli diceva Arnaldo, doveva seguire un riavvicinamento a Rachele e la regolarizzazione della loro unione
con un matrimonio religioso, essendo mutate molte cose nel decennio che era trascorso dal giorno delle
improvvisate nozze civili.
Si arrivò effettivamente alla rottura tra Benito e la Sarfatti, per cui l'esule di villa Carpena pensò di
tornare stabilmente a Milano, pur senza rinunciare a fare la spola fra la campagna e la città. Lei e i figli, di
nuovo nella capitale lombarda, abitarono prima in via Legnano e poi in via Mario Pagano. Avevano anche
una nuova automobile, una stupenda Itala 65, che faceva gola a Edda la quale già a dieci anni aveva
guidato di soppiatto una macchina fino in piazza del Duomo. Nell'appartamento di via Mario Pagano
disponevano di ben sei stanze, e Rachele si sentiva quanto mai sola in tanto spazio, avendo perduto la
madre. Le visite del marito non si infittirono nonostante il riavvicinamento. Per fortuna di Rachele in via
Massena, nei pressi di casa, abitavano il cognato con la moglie, una donna mite e soccorrevole.
Arnaldo continuava a premere perché Benito sposasse Rachele anche con rito religioso. In previsione di
questo augurabile evento, fu deciso di impartire nell'estate del '25 la prima comunione e la cresima ai tre
ragazzi, Edda, Vittorio e Bruno. Edda indossava un abito lungo bianco, tipico di quelle cerimonie. Il rito fu
celebrato questa volta non da un semplice prete, come era avvenuto per il battesimo, ma da un solenne
cardinale, l'eminentissimo Vincenzo Vannutelli, che aveva definito Mussolini il restauratore delle gloriose
tradizioni religiose e civili della nazione. Per la cerimonia si scelse un luogo mistico, la cappella d'una
villa a Camaldoli, fra i boschi della francescana La Verna.
Mussolini guidava il paese in rappresentanza d'un partito che si proclamava difensore dei valori della
tradizione, e non poteva perciò starsene lontano dalla Chiesa.
Ma, con il discorso del 3 gennaio, aveva cominciato ad abbattere le garanzie costituzionali e a mostrare
senza mascheramenti il vero volto del dittatore. Soppresse i giornali d'opposizione rilevando che alla
stampa sarebbe stata restituita la libertà se avesse mostrato di meritarla.
L'obiettivo era di fascistizzare i giornali, e per prima cosa ottenne l'estromissione dal Corriere della Sera
dei fratelli Albertini, nemici del regime, per affidare il giornale a Ugo Ojetti. Istituì la polizia segreta e il
tribunale speciale per la difesa dello Stato (fascista), ristabilì la pena di morte, sciolse i partiti non fascisti
argomentando che ne bastava uno solo come organo del regime e aggiungendo che si comportava così in
quanto il principio di libertà mutava con i tempi. Gli era più che mai necessario il riconoscimento delle
sfere ecclesiastiche, e con questo obiettivo sacrificava qualcosa dei suoi principi al giudizio delle masse.
Finì col dar retta al fratello che ancora lo spingeva a regolarizzare l'unione con Rachele mediante il
matrimonio religioso. La sposò, non senza rimpiangere la bella ebrea dagli occhi azzurri".
L'appartamento di via Pagano fece da sfondo alla cerimonia celebrata da un sacerdote amico di famiglia,
monsignor Magnaghi, rettore di San Pietro in Sala. Nella marcia di avvicinamento alle gerarchie vaticane,
Mussolini decise perfino di far costruire nel suo borgo natale di Dovia una chiesa parrocchiale che venne
dedicata a sant'Antonio. Naturalmente ben più numerose sorgevano le Case del fascio lungo l'intera
penisola, mentre il partito già contava ottocentomila iscritti.
Il nuovo clima in cui viveva la famiglia imponeva a Edda una ben diversa condotta. Il padre volle
assoggettare a un'educazione aristocratica la piccola selvaggia la quale dalla sera alla mattina,
nell'ottobre del '25, si trovò iscritta al Regio istituto femminile della Santissima Annunziata, il più
elegante d'Italia. Fu una sorpresa anche per la direttrice del collegio, Maria Patrizi. Difatti Mussolini
aveva chiesto l'iscrizione della figlia con un improvviso quanto scarno telegramma inviato il 23 ottobre al
prefetto di Firenze.
Fissi un posto per mia figlia quindicenne nel Collegio di Poggio Imperiale per il corrente anno 1925/26 e
mi dia conferma alla Prefettura di Milano. La conferma gli pervenne già l'indomani, sebbene Edda avesse
superato l'età massima di dodici anni stabilita dal regolamento per l'ammissione delle alunne e si fosse
trascurato il richiesto parere preventivo del medico dell'istituto. Il prefetto scriveva: Pregiomi assicurare
Vostra Eccellenza di avere fissato un posto per Sua figlia nel Collegio di Poggio Imperiale che l'attende.
Corsi sono incominciati giorno 15 corrente. Ossequi, Prefetto Regard. L'alto funzionario ricevette da
Mussolini un nuovo telegramma: Voglia pregare intendente economo collegio Santissima Annunziata
provvedere a preparare corredo necessario mia figlia Edda salvo completarlo per la parte per cui
occorrono misure al suo arrivo. Prego farmi pervenire conto per tramite Vostra Signoria..
In quella scuola di grande prestigio, che sorgeva al Poggio Imperiale di Firenze, le più eccelse casate
d'Europa inviavano le figlie perché vi apprendessero le regole del più nobile comportamento.
Fra le ospiti più recenti e illustri si ricordava Maria Jos‚ del Belgio, destinata a sposare il principe
ereditario Umberto di Savoia. Per Edda fu un duro colpo trovarsi immersa all'improvviso nella solenne
immensità d'una stupenda villa medicea. I saloni dorati, tappezzati di sete cinesi, la intimorivano. La
prima sera si chiese se sarebbe riuscita a dormire in un letto sormontato da un baldacchino ducale. Alla
vigilia del suo ingresso nell'istituto si era recata con la madre in alcuni luoghi celebri della citt°, come il
Ponte Vecchio dove fu particolarmente attratta dalle vetrine delle botteghe di orafi. Durante i suoi viaggi
aveva sempre amato girovagare nelle vie delle città. E ora la indisponeva l'idea di dover vivere
prigioniera in un noioso istituto per signorine.
Le collegiali di Poggio Imperiale potevano stringere fra loro relazioni utili per l'avvenire, e questo era in
realtà il ruolo occulto di quell'ambita ed esclusiva istituzione. Ma Edda non riusciva a conquistare
l'ambiente che a malapena la sopportava. Lei reagiva con un provocatorio atteggiamento di sfida allo
snobismo delle compagne, al cospetto della figlia d'un parvenu. A Mussolini sfuggiva la realtà della
situazione. Scrivendo alla direttrice tramite il prefetto di Firenze, le chiedeva infatti di trattare Edda alla
stessa, stessissima stregua di tutte le altre convittrici.
Le forniva pure delucidazioni sulla cultura della figlia: I suoi studi precedenti sono ginnasio sino alla
quarta, un po' di piano, un po' di violino. Può riprendere la quinta ginnasio e iniziare lo studio
dell'inglese. Era un ordine!
Naturalmente il problema non consisteva nel trattare Edda alla pari e di non favorirla. Erano infatti le
altre ragazze, orgogliose delle loro ascendenze, a trattarla con alterigia e sufficienza. La vita in collegio
era caratterizzata dal conformismo, che si riscontrava persino nell'uniforme delle allieve, una veste grigia
appena ravvivata da una bianca gorgiera inamidata, mentre Edda avrebbe ancora preferito indossare
abiti che fossero poco più d'uno straccetto e camminare a piedi nudi. N‚ si esimeva dal lasciarsi talvolta
andare a qualche moccolo in romagnolo. C'era un gran divario tra la scuola dell'Annunziata e la vita che
aveva condotto in famiglia. In collegio tutto era formale, stereotipato e noioso; a casa tutto era caotico,
improvvisato e avventuroso. Tra le pareti domestiche aveva direttamente vissuto l'eco della guerra civile,
aveva tremato per l'assassinio di Matteotti che stava per travolgere il padre e si era appassionata alle
storie delle amanti e dei duelli di lui. Inoltre a scuola non traeva alcun profitto dallo studio delle lingue
straniere, il francese e l'inglese, di altre materie, essendo incapace di concentrare costantemente
l'attenzione su qualcosa di preciso.
Come non mai, in estate, gustò sulle spiagge di Cattolica le vacanze, finalmente lontana dal maniero di
Poggio Imperiale. Il suo era un carattere ribelle, ma anche generoso.
Difatti una mattina d'agosto strappò alle onde dell'Adriatico una giovane amica che senza il suo
intervento sarebbe morta annegata. Per questo atto di coraggio le diedero una medaglia d'argento. Se ne
commosse il padre come si arguiva da una lettera che si affrettò a scriverle: Carissima Eddina, uso questa
carta perfettamente ufficiale perchè‚ debbo farti una comunicazione ufficiale. Ti rimetto, cioè, gli attestati
e la medaglia "Carnegie" per il tuo salvataggio, meglio, per il salvataggio da te operato nelle acque di
Cattolica. Ci doveva essere una cerimonia alquanto solenne, ma conoscendo il tuo temperamento, ho
abbreviato la procedura. Conserva questo documento e questa medaglia fra i ricordi più cari della tua
vita. Io ti abbraccio, con tanti affettuosissimi baci, tuo papà. Mussolini. Edda gli rispose ripetendo il motto
che credeva coniato dal padre: Vivere pericolosamente!¯. Si comportava come lui voleva che fossero gli
italiani e le italiane del fascismo: mostrare coraggio, intrepidezza e amore del rischio.
Il duce aveva ricevuto dal ministro degli Interni Federzoni la notizia del gesto compiuto dalla figlia: Sono
lieto comunicarti che con unanime deliberazione odierna Consiglio di amministrazione della Fondazione
Carnegie ha concesso medaglia argento alla signorina Edda Mussolini per atto valore compiuto nelle
acque di Cattolica giorno 4 agosto 1925 con seguente motivazione: "Il 4 agosto 1925 in Cattolica
signorina Edda Mussolini mentre prendeva bagno insieme con altra signorina accortasi che quest'ultima
per la violenza del mare agitato da improvviso vento trovava difficoltà a raggiungere la riva, animata dai
più nobili sentimenti di altruismo con generoso impulso sfidando ogni pericolo correva in di lei soccorso
ed afferratala riusciva a portarla in salvo malgrado la sua giovane età". Felicitazioni cordialissime.
Il sindaco e il segretario del fascio di Cattolica inviarono un telegramma a Mussolini: Medaglia argento
Carnegie concessa Vostra vivace ardita figlia Edda est nuova conferma grandezza cuore di Vostra razza
stop Popolo di Cattolica che ha assistito ammirato nobile atto coraggio commosso partecipa a Vostra
soddisfazione di padre stop.
In molti scrissero all'ardimentosa ragazza. Un capitano di marina, Alfredo Vetter da Vallelunga Pola, che
aveva a sua volta salvato una persona e ottenuto una medaglia d'argento, le espresse la più viva
ammirazione con fiero orgoglio di avere come compagna e come collega di medaglia al valore di Marina il
migliore fiore del Sesso Gentile, che dagli ammaestramenti preziosi della Sua nobile stirpe aveva saputo
dimostrare il non comune coraggio di operare un salvamento. Il capitano concludeva la lettera scrivendo:
E per Edda Mussolini Eia Eia Alalà. Devotissimi ossequi.
A lei non interessava tanto la medaglia quanto la libertà di lasciare il collegio, quel maledetto posto che
non riusciva a sopportare così come le era indigesta la direttrice, una vecchia strega parruccona. Ne parlò
con fermezza ai genitori, ai quali rivelò perfino di aver in animo di fuggire da quelle mura. Mussolini si
convinse che l'ambiente rarefatto dell'istituto non si addiceva all'indole tempestosa della figlia.
Così al termine dell'estate lei potè tornarsene al liceo Parini di Milano, invece di riprendere la strada della
dorata prigione di Firenze. Benito e Rachele avevano avuto un'avvisaglia di quei propositi di fuga, quando
un giorno Edda non era rientrata in collegio. In un telegramma del paziente prefetto di Firenze si leggeva:
Figlia Sua Eccellenza Primo Ministro Signorina Edda non ha ancora raggiunto istituto Santissima
Annunziata, cui direttrice manca di comunicazioni al riguardo, n‚ risulta trovarsi in questa città.
Il 1926 fu definito da Mussolini l'anno napoleonico della rivoluzione fascista, mentre usciva una sua
agiografica biografia, Dux, a opera della Sarfatti. Per Rachele quel libro fu un nuovo colpo al cuore, anche
perché il marito nella prefazione non evitava di far risaltare l'amicizia e la comunità del lavoro e delle
idee che lo legavano alla scrittrice. Nell'aprile di quell'anno egli scampò per puro caso a un attentato. Ai
piedi della scalinata del Campidoglio si era appostata un'aristocratica signora angloirlandese, una
cinquantenne di religione protestante, Violet Gibson, più demente che visionaria, già ricoverata in
manicomio. L'attentatrice aspettava che il duce uscisse dal palazzo dei Conservatori al termine d'una
manifestazione pubblica e, non appena se lo vide a poco meno d'un metro di distanza, fece fuoco contro
di lui impugnando una più stola che aveva tenuto nascosta sotto un foglio. Ma non lo ferì che di striscio al
naso.
I giornali dilatarono le manifestazioni di cordoglio che seguirono all'attentato, mentre lui sfoggiava sul
naso un enorme cerotto bianco per coprire la piccola scalfittura.
Tanto che all'estero parlavano dell'episodio come di una nuova commedia inscenata per poter aggravare
le misure liberticide. Un giornale di Basilea scriveva: Si è fatto tirare da una vecchia donna una pallottola
di pisello sul naso per inventare un nuovo attentato. Egli si mostrò dovunque, anche in Tripolitania, con
quel cerotto sul naso. Tornato in Italia andò perfino a trovare Edda in collegio, ed era la prima volta che vi
si recava. Il giorno dell'insano criminoso tentativo¯, Edda riceveva una visita rassicurante del prefetto di
Firenze, mentre il padre le inviava un telegramma: Stai tranquilla. Fra qualche giorno solo due punti
ricorderanno il fatterello. Mandami un bel radio prima che io giunga a Tripoli. Indirizza Regia Nave
Cavour. Tanti baci affettuosi da tuo papà Benito Mussolini.
In settembre egli subì un secondo attentato, nel piazzale di Porta Pia a Roma, per mano di un giovane
anarchico individualista di Carrara, Gino Lucetti, che gli lanciò una bomba. Senza colpire il bersaglio.
Qualche settimana più tardi, a fine ottobre, mancò l'obiettivo un altro attentatore, questa volta nelle vie
di Bologna. In quei giorni gravava nell'aria un certo presentimento luttuoso. Camillo Ridolfi, il maestro di
scherma di Mussolini, temeva qualche colpo di mano, ed esternò a Rachele questa sua preoccupazione.
Quando poi, al pranzo in prefettura, Rachele e Edda si accorsero di essere a tavola in tredici, i timori di un
nuovo attentato crebbero. Lo stesso Mussolini, appreso quel particolare, esclamò: Tredici donne a tavola.
Segno di malaugurio!
La polizia era all'erta, ma non riuscì a evitare il crimine.
Difatti, nel pomeriggio del 31 ottobre, un ragazzo appena sedicenne, Anteo Zamboni, esplose un colpo di
pistola contro Mussolini che transitava nelle vie del centro cittadino in piedi su un'automobile scoperta.
Il duce fu sfiorato dal proiettile che gli bruciacchiò la fascia verde dell'ordine mauriziano e la giacca
dell'uniforme di caporale d'onore della milizia. Rachele e Edda si trovavano su una macchina del seguito.
Seppero contenere l'emozione, sebbene fossero sopraffatte dall'immagine della folla e dei militi di scorta
che si gettavano selvaggiamente sull'attentatore e lo massacravano con quattordici pugnalate. Sul
momento, in tanta confusione, Mussolini non si accorse neppure di essere stato toccato dal proiettile
oltre gli indumenti all'altezza del cuore. Vittorio si era stretto a Edda. Ricordava i tre attentati di
quell'anno, e anche il tentativo compiuto l'anno prima da Tito Zaniboni. L'ex deputato socialista aveva
progettato di sopprimere Mussolini sparandogli un colpo di fucile dalla finestra d'un albergo che si
trovava a un cinquantina di metri da palazzo Chigi. Vittorio confidò a Edda: Assai difficilmente papà
morirà nel suo letto.
In seguito agli scarsi successi scolastici, Edda non rimase a lungo sui banchi del Parini. La svogliatezza,
l'irrequietezza erano tanto forti da disarmare i genitori, i quali la ritirarono dagli studi. Di tanto in tanto
Benito invitava Rachele a trascorrere qualche giorno nella sua casa romana, e fu in una di quelle visite
che concepirono il loro quarto figlio. Il duce aveva deciso di chiamarlo Romano qualora fosse stato un
maschio, per rendere omaggio alla latinità della mitologia fascista, e dispose che nascesse in Romagna,
per l'affetto che li legava alla terra d'origine.
Mentre lui preparava il quinto anniversario della marcia su Roma, la moglie - che ormai era
universalmente chiamata donna Rachele - si trasferì a metà settembre con gli altri figli a Carpena, in
attesa del lieto evento. Nacque un maschio, secondo le aspettative. A differenza degli altri loro ragazzi, lo
fecero battezzare subito. Celebrante fu il parroco di Carpena, don Aristide Culmanelli. Ciò avveniva non
soltanto perché Mussolini era diventato un uomo d'ordine, ma soprattutto perché erano in pieno
svolgimento, sebbene in segretezza, le trattative per la conciliazione fra lo Stato italiano e la Chiesa
cattolica dopo oltre mezzo secolo di contrasti.
Le schermaglie amorose di Edda, ormai diciassettenne, cominciarono a preoccupare i genitori poich‚ si
facevano serie e compromettenti. Lei non era bellissima, in compenso mostrava sempre più una forte
personalità. Nell'insieme si poteva dire che la figlia del duce fosse una ragazza avvenente.
Ostentava un atteggiamento sicuro, anzi spavaldo, cioè mussoliniano. Guardava gli uomini negli occhi, e
mai abbassava i propri, magnetici, simili a quelli del padre. S'interessò a lei una giornalista straniera, la
contessa Hetta Treuberg, inviata a Riccione dal Prager Tageblatt. Scrisse che Edda, se non avesse avuto
un'espressione velata di profonda tristezza e se gli occhi del duce non avessero conferito al suo viso
qualcosa di demoniaco, sarebbe potuta essere scambiata per una damigella dell'aristocrazia inglese.
Edda fu tra le prime ragazze italiane a guidare l'automobile - casco, occhialoni, spolverino - e a indossare
i pantaloni come facevano Isa Pola e Lyda Borelli. Andava in bicicletta nelle strade pianeggianti della
Romagna come un'arrotina impazzita, con le gonne svolazzanti e le gambe scoperte, ignara delle
proibizioni che il fisiologo dell'amore Paolo Mantegazza imponeva alle figlie di Eva; al mare indossava i
primi costumi succinti, ben oltre i cartelloni di Dudovich, mentre tutte le altre ancora coprivano le
caviglie. I genitori le consentivano ogni cosa, tacevano per giorni e giorni, e poi bruscamente tiravano le
briglie arrivando a vietarle di darsi un po' di rossetto alle labbra. Il padre non voleva neppure che
fumasse. Un giorno le inviò una copia del Piccolo di Trieste che recava un articolo intitolato Per le donne
che fumano. La nicotina imbruttisce e guasta la salute. E aggiunse una lettera: Cara Edda, ti mando questo
articolo che mi farai il piacere di leggere con tutta la necessaria attenzione. Io confermo - per esperienza
personale - quanto vi è detto.
Il mio catarro intestinale, con annesse ulcere duodenali e simili accidenti, Š dovuto anche alle sigarette
innumerevoli fumate durante la guerra. Tutto si paga nella vita! E ti abbraccio, tuo papà Mussolini.
In un'altra occasione, inviandole alcune foto, sempre a proposito di sigarette le scriveva: Carissima
Eddina, insieme con queste foto c'erano delle sigarette che ho - interpretando certamente il tuo pensiero
regalate ai miei più vicini funzionari. Ti abbraccio Mussolini.
Il Duce trasferiva i suoi uffici di capo del Governo da palazzo Chigi a palazzo Venezia, un fosco castello di
stampo medievale nel cuore della città. Dal balcone centrale del palazzo egli poteva spingere lo sguardo
oltre piazza Venezia verso un piccolo slargo intitolato alla Madonna di Loreto. Non meno cupo dell'antico
palazzo era un corpo di militi che egli volle a sua personale difesa e che chiamò i Moschettieri del Duce¯.
Erano armati di lampeggianti pugnali e indossavano austere uniformi nere. Aveva lasciato
l'appartamento di via Rasella, ormai troppo angusto e niente affatto rappresentativo per il suo ruolo di
padrone d'Italia. Lui è il nostro padrone scriveva Leo Longanesi, che già coniava lo slogan Benito
Mussolini ha sempre ragione, affidandolo a un librettino che aveva intitolato Vademecum del perfetto
fascista. Il padrone aveva scelto come residenza privata un sontuoso e massiccio edificio in stile
neoclassico immerso in un parco sulla via Nomentana, oltre Porta Pia. Lui, bersagliere, ricordava sempre
che di lì erano passati i bersaglieri di Cadorna nel settembre del 1870. Aveva ottenuto in fitto l'edificio a
tempo indeterminato dal principe Giovanni Torlonia, che ne era il proprietario, per un canone simbolico
di pochi spiccioli. Fra i palmizi e gli obelischi di villa Torlonia, egli aveva la misura di quanta strada
avesse fatto dai giorni in cui assisteva il padre alla forgia nell'officina di fabbro ferraio. Villa Torlonia
appariva come una vera e propria reggia e poteva essere considerata una sorta di contro-Quirinale, a
testimonianza dei contrasti che frequentemente esplodevano fra lui e Vittorio Emanuele terzo.
Donna Rachele viveva ancora fra Milano e Carpena.
Meditava da tempo di trasferirsi nella capitale, ma lui la teneva lontana con scuse inverosimili. Lei più
non tollerava che il marito conducesse nella cornice sfarzosa di villa Torlonia la bella vita dello scapolo,
passando da un'amante all'altra, fossero occasionali, durature o cicliche. Decise quindi di muovere alla
conquista di Roma, ma il trasloco si realizzò soltanto nel novembre del '29, dopo il Concordato con la
Chiesa e la nascita della loro ultima figlia, cui Mussolini aveva imposto il nome della nonna materna, Anna
Maria. In previsione dell'evento, donna Rachele aveva lasciato ancora una volta Milano e raggiunto
Carpena, luogo ideale per partorire.
Villa Torlonia
Dovettero trascorrere altri due mesi prima che la famiglia si trasferisse nella capitale e che Rachele
potesse dichiarare conclusa la sua personale marcia su Roma. Sebbene riuniti sotto lo stesso tetto dopo
una separazione di anni, i coniugi continuarono a vivere in due diversi appartamenti anche nella nuova
abitazione. Erano felici i ragazzi che speravano di poter finalmente vedere il padre ogni giorno, di stargli
vicino e di parlargli. Ma erano preoccupati per il ripetersi delle voci secondo cui alcuni antifascisti in
esilio stavano progettando di avventarsi con un aereo sulla villa e bombardarla. Il più timoroso appariva
Bruno, mentre Edda se la rideva. In villa, tra la servitù e gli agenti addetti alla sicurezza della famiglia
Mussolini, si faceva un gran parlare non soltanto dei pericoli incombenti, ma anche delle avventure e
disavventure sentimentali del Capo. I ragazzi non prestavano molta attenzione a quelle voci; Vittorio e
Bruno erano ancora molto giovani, e soltanto Edda tendeva le orecchie al racconto di storie scabrose e
alle frequenti scenate di gelosia della madre.
La ragazza aveva diciannove anni ed era fonte di preoccupazione per i genitori. In casa la chiamavano,
anche se amorevolmente e con indulgenza, la cavallina matta. Era bizzarra e sventata, capace d'indicibili
colpi di testa. La zia Edvige si spazientiva, non sopportava la strana ed esuberante indole di Edda, sempre
pronta a innamorarsi ora di questo ora di quel giovanotto. Mussolini aveva ordinato che la polizia
vigilasse sugli incontri e sulle amicizie della figlia turbolenta. Sulla scena sentimentale di Edda era già
apparso qualcosa di serio oltre gli innamoramenti infantili, le innocenti propensioni per il figlio della
medium di via Castelmorrone e per il giovane Fiumano non meglio identificato.
Nel dicembre del '28 era emerso un amore durante un suo viaggio attraverso i templi e le città dell'India
mistica e misteriosa. Edda aveva affrontato malvolentieri quella escursione poiché il padre l'aveva
costretta a interrompere una piacevole vacanza in Tripolitania, proprio perchè non perdesse il piroscafo
che partiva per l'Asia. La ragazza avrebbe voluto trattenersi più a lungo in Africa, una terra che la
entusiasmava. Lo stesso Mussolini, compiacendosene, ne aveva scritto al governatore della colonia
italiana, De Bono. E De Bono lo pregava, a nome di Edda, di accoglierne il desiderio. Ma non ci fu nulla da
fare. Alessandro Chiavolini telegrafava al governatore: Spiacemi comunicare che Sua Eccellenza Capo
Governo non consente ulteriore permanenza Tripoli della Signorina Edda alla quale prego comunicare
seguente telegramma: virgolette Necessario tornare sabato perché già prenotato un posto per imminente
crociera nelle Indie che durerà tre mesi et partirà da Trieste il 6 dicembre saluti affettuosi Mussolini
virgolette¯. Durante la visita in Tripolitania, Edda riusciva a eclissarsi e a staccare i contatti con il padre.
Allora lui faceva telegrafare da Chiavolini a De Bono: Sua Eccellenza Capo Governo desidera notizie
signorina Edda stop Cordialità. Lei si rifaceva viva laconicamente: In gita nel deserto. Edda.
Il duce si occupava minuziosamente di ogni suo movimento. Aveva perfino disposto la prenotazione sul
piroscafo Siracusa diretto in Tripolitania, di tre cabine attigue per signorina Edda Mussolini et cameriera
Pia Ricci et maresciallo di scorta Dottarelli Achille. Aveva sì acconsentito che la cameriera e il maresciallo
alloggiassero in cabine lusso per evidenti ragioni sicurezza, ma dovevano consumare i pasti alla mensa di
seconda classe.
Non meno pesantemente si era comportato in occasione d'un viaggio della figlia in Valle d'Aosta, tanto da
prescriverle gli itinerari da percorrere: Niente gite in auto oltre la Valle d'Aosta stop. Ti permetto nuova
ascensione sulle Aiguille Noire stop. Domenica torna a Roma Stop.
Lunedì riposo quindi Forlì stop. Mese agosto andrai mare stop. Affettuosamente tuo papà.
La crociera, organizzata dalla Lega Navale, gliel'aveva imposta lui affinchè si esercitasse con la pratica
nella lingua inglese, visto che non aveva tratto giovamento dai corsi della Santissima Annunziata.
La motonave Tevere del Lloyd Triestino aveva appena preso il largo quando la ragazza ricevette un
cablogramma: Studia durante il viaggio l'inglese perché è la lingua indiana per eccellenza stop
Affettuosamente Mussolini. Lei si attenne alla disposizione, dimostrando di sapersela cavare abbastanza
bene. Difatti qualche giorno più tardi le fu recapitato un secondo cablogramma: Ho saputo che all'infuori
di tre o quattro, tutti i "croceristi" non capivano un accidente e non erano minimamente preparati stop.
Ho anche saputo però che tu hai salvato brillantemente la situazione e tenuto alto il prestigio dell'Italia
Fascista stop. Di ciò ti sono grato anche come Capo del Governo stop. Ti abbraccio affettuosamente
Mussolini.
Sulla nave viaggiava un inviato del Corriere della Sera", Arnaldo Fraccaroli, che tracciò di lei un
lusinghiero profilo. Scriveva che questa fanciulla sveltissima, agile, guizzante, dall'alta figurina flessuosa
armonizzata con adolescente grazia, ha nel chiaro viso una espressione di dolcezza nella quale balenano
rapide mosse di curiosità, con una candida aria di presa in giro pacata, un che di giocatrice di scherma
pronta alla parata e all'offesa. Il giornalista non riuscì a evitare un riferimento al duce, e scrisse che Edda
ha negli occhi la luce del suo formidabile padre; questa fanciulla compie ogni giorno, con fresca
semplicità, una fatica che sarebbe tremenda e pericolosa per qualunque altro: porta il gran nome con
disinvoltura.
Poi aggiunse un ritrattino di se stesso raffigurandosi al fianco della ragazza: Un giorno io m'ero messo a
scrivere in una tranquilla saletta del bar, che dava con le sue finestre sul ponte di poppa. Di colpo mi vedo
piombar vicino qualche cosa di alitante. Un attimo, e mi trovo lei seduta accanto. Con un salto aveva
scavalcato la finestra, sicura e precisa. Fare tutto il giro del ponte sarebbe stato troppo lungo e noioso.
Ma tutto questo senza ostentazione, così semplicemente. Poi, chiedendo scusa con una occhiata, si mise a
scorrere le cartelle che avevo scritto, e alla fine mi guardò come per dire: "Tutto qui?". Ahimè, sì, tutto lì.
"E non è meglio allora andar a prendere un po' d'aria anche se il piroscafo saltella?" E mi convinse ad
andar a respirare la salsedine del mare arrabbiato, al ritmo del suo passo elastico.
Si era aggiunto al gruppo che attorniava Edda il già settantenne poeta Cesare Pascarella il quale
raccontava la sua fuga dal seminario di Frascati, l'amicizia con d'Annunzio e le vicende dei giornali di fine
secolo ai quali aveva collaborato, come Capitan Fracassa, e Don Chisciotte. Recitava a memoria Er
fattaccio e larghi brani della Scoperta de l'America. Diceva di voler scrivere ora, sempre in romanesco, un
po' di sonetti sulla scoperta dell'India.
Raccontava come sulla porta d'una rivendita di sali e tabacchi in Ciociaria avesse letto questa iscrizione:
Sali e t'abbacchi. Tutti ridevano cogliendo nella battuta un malizioso riferimento al prima e al dopo
nell'atto sessuale nell'uomo.
In navigazione Edda, oltre a esercitarsi nell'inglese, leggeva un libro sull'India che le aveva regalato il
padre perchè apprendesse qualcosa su quella terra prima di mettervi piede. Ma con maggiore assiduità
frequentava la piscina della nave tuffandosi e rituffandosi più volte al giorno. India e Indiani era il titolo
del volume. Ne era autore un professore di sanscrito, Carlo Formichi, il quale, come le scriveva Mussolini,
conosceva l'India meglio degli indiani. Arrivati all'isola di Ceylon il libro fu definitivamente cacciato in
una valigia e del tutto dimenticato. Ormai lei non aveva occhi che per un bel ragazzo, Sundaram.
Il giovane, arrivato da Benares con l'intento di conoscerla, era un leader dei nazionalisti indiani, seguace
di Gandhi e ammiratore di Mussolini. L'incontro si era verificato allo spirare dell'anno tra le rovine di
Anuradhapura, l'antica capitale dell'isola, famosa per l'albero sacro di Buddha. Edda, distesa sulla
spiaggia accanto a Sundaram, respirava il clima fiabesco e tragico che aveva suggerito a Bizet Les
pècheurs de perles, quando Leila intona un canto melodioso per tener lontane le tempeste. Non si
separava mai dal giovane, il quale era affascinante come poeta e come uomo. Le dedicava versi
appassionati che lei ascoltava in religioso silenzio. E quelli erano gli unici momenti in cui taceva.
Durante il viaggio aveva ricevuto innumerevoli messaggi telegrafici del padre che si congratulava per le
calorose accoglienze che le tributavano ovunque sull'isola.
Edda ricambiò felicitandosi di un suo discorso, ma il Duce le scrisse dicendole che non sapeva a quale
discorso si riferisse. Era curioso di saperlo.
Prima dell'esotico Sundaram, e dopo lo strampalato Fiumano, Edda aveva colto un amoroso frutto più
casareccio, un giovane capostazione di Cattolica che incontrava assiduamente sulla spiaggia di Riccione e
in altri luoghi più segreti. Al padre, che da Roma la teneva sotto uno stretto controllo mediante i tentacoli
della polizia, quella storia non piaceva e, senza pronunciar parola, fece trasferire dalla sera alla mattina in
Sicilia il povero ferroviere che aveva deragliato dai suoi binari. Nè gli piacevano altre storie di cui aveva
puntuali notizie dai rapporti delle più varie questure. Ovviamente a lei non sfuggiva di essere sempre
controllata e di avere qualche poliziotto in borghese alle calcagna, ma più del timore del padre poteva in
Edda il desiderio di vivere.
Nell'estate del '29, il duce ricevette dalla questura di Milano i rapporti su due episodi. Il primo riguardava
un certo Marino Vairani fu Angelo e il secondo un Emilio Isotta di Cesare. Il Vairani era descritto come un
giovane di dubbia condotta morale senza professione n‚ occupazione; frequentava compagnie non
moralmente sane; era amante dei divertimenti e dedito alle donne; viveva a carico della madre che
possedeva una discreta sostanza in parte già intaccata da lui¯; infine si fregiava abusivamente dei titoli
nobiliari di conte e di marchese e del titolo professionale di ingegnere. Il giovane Isotta appariva più
raccomandabile, meno disperato socialmente e moralmente, ma purtroppo suo padre, titolare della
fabbrica di automobili Isotta Fraschini era caduto in rovina per dissesti finanziari. Il giovane, serio e
distinto e di buona condotta politica, era impiegato produttore presso un garage meccanico
automobilistico.
Appreso tutto ciò Mussolini diede al segretario Chiavolini l'ordine di telegrafare al prefetto di Forlì
perchè prendesse provvedimenti nei confronti dei due giovani.
E' pervenuta a Sua Eccellenza, il Capo del Governo, - si leggeva nel dispaccio telegrafico - notizia che a
Riccione signorina Edda sarebbe assiduamente avvicinata da certi Isotta Emilio e Vairani Marino,
entrambi di Milano. Sua Eccellenza desidera che autorità controlli tali informazioni e in conseguenza
inviti discretamente almeno il Vairani ad astenersi dal frequentare la signorina Edda e se è il caso ad
allontanarsi da Riccione.
Mussolini fece di più ordinando al segretario di aprire tutte le lettere che Edda riceveva numerose.
La ragazza non sapeva che l'ordine proveniva dal padre e quindi se la prendeva con Chiavolini, il quale
non trovò altro di meglio da fare che scrivere alla governante dei Mussolini. Le ricordava come qualche
giorno prima la signorina Edda lo avesse accusato di essersi assunto l'arbitrio di aprire la sua
corrispondenza. Edda aveva usato, precisava Chiavolini, un tono piuttosto aspro; gli aveva chiesto, in
modo perentorio, di non impicciarsi più della sua corrispondenza.
Chiavolini, che non voleva essere ingiustamente maltrattato, sollecitava la collaborazione della
governante: Le sarò grato se vorrà far conoscere alla Signorina Edda che riprendendo ad esaminare la
sua corrispondenza io non commetto un arbitrio, e tanto meno una indelicatezza che sarebbe
diversamente - riprovevole e imperdonabile.
Dalla questura di Parma il duce fu informato sugli incontri della figlia con Muzio Corradi di Aristodemo,
ventottenne, nato a Noceto. Il corteggiatore era il rampollo di un ricco industriale, ma i suoi rapporti con
la famiglia erano pessimi per la sua tendenza alla dissipazione e alla megalomania. Il Corradi vantava alte
conoscenze, faceva uso di cocaina e aveva dovuto trascorrere alcune settimane in una casa di salute;
soprattutto si sospettava che fosse ammalato di sifilide. Alle informazioni su tale girandola di spasimanti
si aggiunsero le notizie su un certo Pacifici, un giovane venticinquenne possidente in S. Polo dei Cavalieri
nei pressi di Roma, segnalato come individuo di cattiva condotta. L'informatore scriveva di lui: Il Pacifici
si è permesso in pubblico, alla mia presenza, a quella del proprietario dell'albergo San Silvestro, dove
attualmente alloggia, e di altra gente lì presente, dire che: è stato a Riccione dove albergava in una stanza
attigua a quella della signorina Edda Mussolini, che ogni giorno andava con Lei in automobile e a ballare
tutte le sere e che la signorina ha per lui una profonda simpatia essendo egli (a suo dire) il più elegante
della spiaggia. Finì col dire: che nelle deliziose escursioni in macchina e nelle serate lunari in mezzo a
infinita poesia ed incanto loro due sentirono di amarsi.
La zia Edvige ritenne che finalmente bisognava intervenire in maniera più concreta, non soltanto con le
misure di polizia, se si voleva porre fine al carosello di civettamenti cui Edda si dedicava con tanta
passione. Quel suo comportamento creava problemi morali e politici alla famiglia e al regime, sebbene le
sue avventure sentimentali fossero note soltanto a una ristretta cerchia di persone. Bisognava passare
dagli amoretti clandestini a un fidanzato ufficiale.
Ci voleva insomma un matrimonio. Del resto la zia aveva gusto nel combinare sponsali. Con l'obiettivo
delle nozze,Edvige favorì abilmente un incontro fra l'irrequieta nipote e un giovane di sua conoscenza di
nobile prosapia forlivese, Pier Francesco Orsi Mangelli.
L'abboccamento si rivelò tanto fruttuoso da condurre i ragazzi al fidanzamento. Pier Francesco era il
figlio, ventisettenne, d'un industriale di Forlì, nobile e facoltoso. Inizialmente egli non stava nella pelle
per la gioia di avere al fianco una donna così bella e così in vista, ma quando arrivò al giorno del
fidanzamento, il suo stato d'animo era già mutato avendo saputo di altri sfarfallii della ragazza.
Anche Edda aveva appreso qualcosa di spiacevole su di lui, sicché durante la cerimonia ufficiale della
promessa di matrimonio, che avvenne davanti a pochi intimi nella cornice romantica di villa d'Este, essi
mantennero un contegno freddo e distaccato. Egualmente partirono per un cosiddetto viaggio di piacere
in Spagna, scortati dai genitori di lui i quali dovettero subire le intemperanze che l'improbabile nuora
inscenava allo scopo di scoraggiarli. Beveva, fumava, affrontava temi scabrosi, diceva che non avrebbe
mai messo al mondo un figlio per conservare la sua taille giovanile.
Pier Francesco aveva saputo d'un giovane ebreo – figlio d'un colonnello dell'esercito, ma senza arte
n‚ parte – che ronzava intorno alla sua ragazza, senza esserne scacciato.
Anzi lei, approfittando del fatto che il fidanzato si trovava all'estero, a Liegi, per ragioni di studio, aveva
reso più intensa la nuova relazione clandestina. La notizia non poteva non arrivare alle orecchie del duce,
e poi gliene parlò Edda annunciandogli la decisione di sposare il giovane ebreo. Un ebreo! Mussolini si
affrettò a inviarle una brusca lettera con la proibizione assoluta di compiere un così folle gesto.
Quindi si rivolse a Edvige: L'Edda deve seriamente riflettere prima di arrivare ad un passo che se fosse
compiuto riempirebbe di clamore il mondo, senza contare che il novanta per cento dei matrimoni misti
non sono fortunati. Io ne ho molti esempi notevoli sotto gli occhi.
Chiedeva l'intervento di Edvige per non toccare certe questioni personalmente con la moglie.
Tu hai visto, scriveva ancora nella lettera alla sorella, che i miei collo qui su taluni argomenti con Rachele
sono particolarmente difficili. Amo evitarli. Ti invito ad andare a Riccione con qualcuno dei tuoi bambini
e così potrai un poco seguire da vicino la situazione ed informarmi. Alle spese farò fronte io.
Non tardare ad andarci. Concluse la missiva in tono manzoniano: Andando a Riccione tu persuaderai a
poco a poco la Rachele e l'Edda che io non intendo conoscere quella famiglia e che un matrimonio del
genere, vero e proprio scandalo coll'aggravante dell'infelicità, non può farsi e non si farà. Ti abbraccio,
tuo fratello Benito.
Mentre Edvige cercava di svolgere la missione con cautela, Rachele aggredì la figlia con furibonde
scenate. Intervenne anche lo zio Arnaldo, il quale parlamentò con i genitori del ragazzo sostenendo che
non si poteva andare contro la volontà del duce, perchè, razzismo o non razzismo, bisognava fare i conti
con i fatti. I genitori del ragazzo condividevano l'avversione per i matrimoni misti e dicevano che il loro
figlio avrebbe certamente sposato un'ebrea e non una cattolica. Ma Edda si intestardiva e continuava a
vedere l'innamorato e infatti ai primi di settembre Mussolini apprese da un rapporto della prefettura di
Forlì che la figlia e il noto giovane si erano incontrati segretamente.
L'informativa era piuttosto particolareggiata: Nel pomeriggio del 7 settembre, la Pia, cameriera della
Signorina Edda, ordinò allo chauffeur - che, com'è noto, è un sottufficiale di P.S. della Regia Questura di
Milano - di preparare l'automobile, annunciando - contrariamente a quanto di solito avviene - ad alta
voce e con ostentazione, che la Signorina doveva recarsi a Cesenatico. Alle ore 14,20 la macchina partì
guidata dalla ripetuta Signorina e con a bordo lo chauffeur.
Dopo questa circostanziata premessa l'informativa arrivava al dunque: La meta del viaggio fu però
Bologna, ove nei pressi della Chiesa di San Luca - qualche chilometro distante dall'abitato - la Signorina
incontrò il noto giovane, col quale s'intrattenne piuttosto lungamente.
Il padre le fece una telefonata di fuoco. La misura è colma, le disse e da oggi in poi non userai più
l'automobile per i tuoi capricci. Edda, che non poteva fare a meno della macchina, rinunciò all'ebreo.
Si riavvicinò a Pier Francesco che intanto era tornato dal suo viaggio all'estero. Ma che cosa aveva
appreso Edda di tanto grave sul conto del giovane da rendere funereo il giorno del loro fidanzamento?
In verità ben poco oltre ad aver scoperto che Pier Francesco era un ragazzo noioso e pignolo, e la cosa era
assolutamente insopportabile per una cavallina matta come lei. Edda aveva voluto vedere il fratello mino
re di Pier Francesco. Durante l'incontro gli aveva domandato a bruciapelo: Suo fratello porta il pigiama o
la camicia da notte?¯. Il pigiama¯ fu la risposta. Beve? No.
Ahi, ahi! Fuma?¯ Molto poco.¯ Fa dello sport? Quanto a questo sì.
Edda seppe anche che Pier Francesco era un buon nuotatore, ma che a ogni suo tuffo il fratello doveva
trovarsi in acqua per dirgli con esattezza com'era andato il lancio: se aveva tenuto le braccia ben tese e
perfettamente in linea con il corpo; se aveva o no piegato le gambe, e se aveva tenuto la bocca aperta o
chiusa. Lei inorridì a questo racconto. Mio Dio, disse, non voglio essere condannata a precedere mio
marito in acqua tutte le volte che farà il bagno, per potergli comunicare com'è andato il tuffo.
Non potrei mai vivere con un uomo animato da tanta pignoleria!¯ Per non deludere del tutto i genitori,
Edda pensò di sposare il fratellino di Pier Francesco, quel bel ragazzo simpatico e disinvolto che aveva di
fronte. Ma egli non era il primogenito, e per nessuna ragione al mondo gli avrebbero consentito di
scavalcare quel musone di Pier Francesco.
Forse la vicenda amorosa fra Edda e Pier Francesco si sarebbe egualmente conclusa con le nozze, se il
giovane non avesse compiuto una imperdonabile sbadataggine.
Durante una cena a villa Torlonia chiese con imprudenza al futuro suocero a quanto ammontasse la dote
della promessa sposa. Il duce sgranò tanto di occhi per lo stupore e l'indignazione. Mia figlia non avrà una
dote¯, gridò, come non l'ebbe la madre. Quindi scacciò il giovanotto ingiungendogli di non farsi mai più
incontrare sulla sua strada. Minacciò poi di farlo arrestare quando gli dissero che continuava ad aggirarsi
attorno a villa Torlonia per attirare l'attenzione di Edda, per supplicare misericordia e pietà. Inoltre
Mussolini impose alla figlia di far capire a quel ragazzo, ma per lettera, che tra loro tutto era finito.
Parte seconda.
CORO.
La contessa.
Alla stregua di Edvige, Benito pensava che soltanto con un marito si sarebbe forse potuto domare
l'indocile Edda.
Diede perciò al fratello l'ordine di occuparsene. Per puro caso un deputato siciliano, molto addentro nei
segreti recessi del bel mondo romano, segnalò ad Arnaldo la figura di un baldo giovanotto ventiseienne,
un diplomatico alle prime armi, ma assai promettente. Si chiamava Gian Galeazzo Ciano ed era figlio di
Costanzo, di quel baffuto fascista toscano della prima ora, ammiraglio e ministro delle Comunicazioni,
fedele seguace di Mussolini. Di umili origini si era riscattato con eroiche imprese marinare. Arnaldo parlò
del giovane a Benito il quale lo ascoltò con interesse perché, impregnato di spirito populista, era
affascinato dall'idea che l'eventuale sposo della figlia fosse il nipote d'un venditore ambulante di
saponette. Tale era stato il padre di Costanzo.
I coniugi Mussolini cercavano per la cavallina matta un buon partito fra la nuova aristocrazia delle armi e
della politica, in particolare fra l'aristocrazia formatasi con il fascismo. Il candidato alla mano di Edda
doveva appartenere sì a un ceto molto elevato, ma nello stesso tempo non si poteva far credere che la
scelta fosse suggerita da ragioni di ascesa sociale. Fino a quel momento erano stati scartati tutti i giovani
virgulti della nobiltà romana, non esclusi gli esponenti di Casa reale. A proposito di un possibile
matrimonio con un principe di Casa Savoia, già qualche anno prima, nel '26, il New York World aveva
dato per certa la notizia del fidanzamento fra Edda e il principe ereditario Umberto. Un altro giornale
americano, l'Evening Bulletin di Filadelfia aveva scritto che Mussolini voleva che Edda diventasse una
sposa reale e che era perciò favorevole all'unione con Umberto.
La scelta di Galeazzo rientrò subito nei piani dei coniugi Mussolini. Il padre Costanzo era stato un
coraggioso marinaio, eroe di Cortellazzo e, accanto a d'Annunzio, anche eroe della beffa di Buccari.
Grazie alle sue gesta aveva ricevuto dal re il titolo di conte, per s‚ e per i figli. La fedeltà politica di
Costanzo al fascismo era fuori discussione, ampiamente confermata nei giorni bui del delitto Matteotti,
quando fu tra i più intransigenti nel reclamare per gli oppositori straordinarie misure repressive.
In un documento segreto Mussolini lo aveva addirittura designato come suo successore in caso di morte
improvvisa, proprio nei giorni in cui l'anarchico Zamboni aveva cercato di ucciderlo. Solida era la
situazione patrimoniale dei Ciano, peraltro arricchiti dalla proprietà del Telegrafo, il giornale di Livorno,
la città in cui risiedevano. Se da un lato la famiglia Ciano appariva potente, prepotente e danarosa,
dall'altro lato Galeazzo dava di s‚ l'immagine di un giovanotto molle, distinto ma screanzato, intelligente
ma incolto, e anche perdigiorno per le frequentazioni del caffè Aragno, il ritrovo sul corso Umberto.
Mentre Benito e Arnaldo rimuginavano su tali questioni, per pura coincidenza avveniva che Edda
partecipasse con Maria Ciano, sorella di Galeazzo, a un ricevimento presso una comune amica, l'italobrasiliana Resy Medici, proprio in onore del giovane diplomatico che dalla Cina tornava in Italia per
assumere un nuovo incarico. Maria presentò il conte Galeazzo alla figlia del duce. Edda gli disse: So che lei
è molto intelligente. Lui non seppe rispondere che con un sorriso imbarazzato. Poi tacquero, ma quando
cominciarono le danze, ballarono uniti per tutta la sera. Come in una fiaba, si capì subito che i due si
piacevano. Si lasciarono all'alba con la promessa di rivedersi al più presto.
Il calendario segnava la data del 27 gennaio 1930, e non erano trascorsi che dieci giorni dalla rottura del
fidanzamento di Edda con Pier Francesco. Ma la ragazza già covava un'altra delle sue idee.
Infatti per l'indomani lei aveva pensato di fuggirsene con un tale Kiko che aveva subito il suo fascino
selvaggio. Nel gioco amoroso lei era la seduttrice e non certo la sedotta. Il suo nuovo ragazzo, che in
realtà si chiamava Federico, possedeva un battello, con cui pensavano di raggiungere nottetempo le coste
iugoslave. L'incontro con Galeazzo mandò in fumo l'avventuroso progetto. Lei stessa, però, si chiedeva se
sarebbe fuggita davvero qualora non avesse conosciuto il giovane
diplomatico o se non avrebbe mai compiuto un così irresponsabile colpo di testa per non deludere il
padre che l'adorava.
Edda e Galeazzo s'incontrarono di nuovo tre giorni dopo col pretesto di andare al cinematografo.
Sedettero in platea, ma le scene di Ombre bianche, il film di Robert J. Flaherty sulla Polinesia che si
rappresentava nella sala, li lasciarono indifferenti. Edda era innervosita dalla presenza d'un poliziotto in
borghese, a lei ben noto, che si era piazzato alle loro spalle. Di punto in bianco Galeazzo le disse: Lo sai,
Edda, che ti amo? Mi vuoi sposare?. E perché no?, fu la sua risposta alquanto formale e distaccata, quasi
che non avesse ricevuto una proposta di matrimonio, ma un semplice invito a cena. Neppure lui aveva
brillato in originalità e in passionalità nel dichiarare così repentinamente il suo amore. E perché no? Edda
aveva pronunciato quelle poche parole con un tono di voce che sorprese terribilmente il suo compagno.
Era la voce di Mussolini: profonda e robusta, proprio quella del duce.
All'inizio l'imberbe Galeazzo aveva nutrito ambizioni letterarie Frequentava giornalisti e pittori,
trascorreva intere serate in un'osteria di via Sicilia o nella terza saletta del caffè Aragno con Emilio
Cecchi, Orio Vergani, Amerigo Bartoli, Augusto Camerini, Ercole Patti giovanissimo e spaesato. Grazie alle
relazioni paterne, ebbe accesso al Nuovo Paese, alla Tribuna di Roma e a uno dei più intransigenti
periodici del regime, l'Impero¯ di Mario Carli ed Emilio Settimelli. Si occupava di critica teatrale e
scriveva racconti. Non ancora diciannovenne si era messo temerariamente a scrivere commedie,
producendone un paio, Felicità di Amleto e Er fonno d'oro. In quattro atti la prima, in un solo atto la
seconda.
La Felicità di Amleto, interpretata da Lamberto Picasso, Giovanna Scotto e Francesco Coop, fu
rappresentata nel '23 al teatro Argentina per l'interessamento d'un impresario teatrale antifascista,
Remigio Paone. Non riscosse il benché minimo successo. Ci fu sì qualche applauso, ma si disse che
l'autore aveva riempito la platea di amici. Tomaso Smith su Epoca giudicò la commedia una sfilza di
luoghi comuni. Adriano Tilgher sul Mondo - pur essendo stato messo alla berlina nel dramma con tratti
caricaturali - fu meno severo. Non poté tuttavia esimersi dall'osservare che l'autore aveva fatto ricorso a
mezzucci da vecchio teatro romantico. Anton Giulio Bragaglia era stato molto chiaro con Ciano: Ah Galeà,
questa tua commedia è una puzzonata. Non raccoglierai fischi, ma pernacchie.
L'altra commediola, Er fonno d'oro, rappresentata l'anno successivo al teatro Quirino, ebbe
un'accoglienza migliore, più per merito dell'interpretazione di Ettore Petrolini che per il valore del testo.
In essa Ciano raccontava le vicende d'un vecchio antiquario romano che su una tela aveva scoperto un
fondo d'oro dell'epoca di Cimabue e si era illuso di poterne ricavare una gran fortuna.
Com'era facile immaginare, gli amori giovanili di Galeazzo sorgevano e tramontavano negli ambienti
delle lettere e delle arti. Dopo aver avuto un flirt con la figlia dello scrittore alla moda Lucio d'Ambra, si
innamorò follemente dell'attrice teatrale Mimy Aylmer, avendola in condominio con il principe ereditario
Umberto. E la cosa gli provocava irrefrenabili crisi di gelosia. Il padre avrebbe voluto fare di lui un
avvocato, ma poi, con l'idea di assecondarlo nella sconfinata vanità, lo sospinse verso un concorso che gli
aprì la carriera diplomatica. Fu subito viceconsole a Rio de Janeiro, da cui venne trasferito per
indisciplina a Buenos Aires come secondo segretario d'ambasciata, fra un amoretto e l'altro. In Argentina
stava per venire alle mani con un collega dell'ambasciata tedesca, rivelando in tal maniera una forte
ostilità per i boches. Dava ragione al padre che li aveva duramente combattuti durante la grande guerra.
In lui covava ancora la nostalgia del teatro, mentre nella carriera del diplomatico ravvisava soltanto la
dolcezza di vivere. Non aveva in grande considerazione gli ambasciatori, tanto che in Argentina, un po' da
scapestrato, si divertiva a fare le corna alle spalle del rappresentante italiano, durante le sue visite agli
emigrati. Tuttavia nel '27 era già nella città di Marco Polo, a Pechino, come segretario di legazione e si
trovò alle dipendenze d'un diplomatico sorridente, il ministro plenipotenziario Daniele Varì.
Aveva per colleghi Filippo Anfuso, l'olivastro, e Massimo Magistrati che su di lui scrisse all'impronta una
mordace terzina: Ciano di Cortellazzo / bella la rima in ano / meglio quella in azzo.
Galeazzo era dunque tornato a Roma nel dicembre del 1929. Aveva trascorso un'esistenza felice in Cina, e
al momento del richiamo esclamò: Devo rientrare in Italia. Per me è finita!. Sapeva che a Roma lo
attendeva l'incarico di addetto all'ambasciata italiana presso la Santa Sede, appena istituita in forza del
Concordato. Ma non poteva immaginare che in casa di Resy Medici si sarebbe verificato un evento fatale,
l'incontro con la figlia del Duce.
Edda diede la notizia al padre ancor prima che alla madre: Papà, gli disse, poco fa mi sono fidanzata con
Galeazzo Ciano, il figlio del tuo amico Costanzo. E raccontò a Resy come si era svolta la scena.
Si trovavano a villa Torlonia. Il padre, che in quel momento si stava infilando i pantaloni, la guardò per un
momento e poi, ancora in mutande, corse verso la moglie gridando: Rachele! Rachele!
Ci siamo. Edda si è fidanzata. Questa è la volta buona!
Rachele disse: Davvero? e nulla più, irritata per la rottura con Pier Francesco. Erano accorsi anche i
fratelli che a loro volta non mostrarono eccessivo entusiasmo ravvisando nella sorella una ragazza che
faceva vedere i sorci verdi a tutti e che non si sarebbe sistemata mai.
Edda scrisse un biglietto di poche righe a Galeazzo, che aveva cominciato a chiamare con lo strano
soprannome di Gallo, per comunicargli l'assenso del duce: Caro Gallo, ho affrontato mio padre che, per un
mucchio di bellissime considerazioni sul tuo conto, è stato felicissimo della nostra decisione¯. Lei sapeva
molto su quel ragazzone, della sua passione per le donne e della inclinazione che le donne avevano per
lui. Sapeva che in intimità le sue spasimanti lo chiamavano vezzosamente Buby o Ciccy, ed ecco perché lei
volle chiamarlo Gallo, anche per definire implicitamente galline quelle che frequentavano la sua non
troppo segreta garconnière.
Il 15 febbraio, alle tre del pomeriggio, Gian Galeazzo si recò a villa Torlonia per chiedere a Mussolini la
mano di Edda. Era vestito di grigio scuro, portava guanti color panna, ed era soprattutto impacciato nei
movimenti. Ammesso nello studio del futuro suocero, aveva dimenticato le raccomandazioni della madre,
Carolina, una distinta e ben educata signora della borghesia livornese. Non sapeva che cosa fare dei
guanti, non sapeva che cosa dire. Rimaneva in piedi davanti al tavolo di Mussolini il quale aveva la testa
china su alcune carte che doveva consultare proprio in quel momento sotto chissà quale urgenza di Stato.
Dopo un lungo silenzio, il duce alzò gli occhi sul pretendente come se si fosse accorto di lui per caso
soltanto in quel momento.
Galeazzo, sempre in piedi, pronunciò poche parole. Benito, sempre seduto, annuiva sporgendo il mento.
Poi chiamò a gran voce Rachele e la figlia, che in ansia, sebbene non paventassero sorprese, attendevano
fuori della porta, e le ammise nella sala. Disse che quel giovane, lì presente, gli aveva chiesto in sposa
Edda e che egli non aveva nulla da obiettare. Galeazzo ringraziò e tutti si abbracciarono.
Ma Rachele, pur lieta, volle dire qualcosa.
Dovete sapere¯, disse al giovane conte, che mia figlia non sa nemmeno rifarsi il letto. Non sa fare niente.
La casa è come se non esistesse per lei. Non sa cuocersi un uovo.
Quanto al carattere, è meglio non parlarne.
Al termine della cerimonia, Mussolini tornò a curvarsi sulle sue carte, Rachele raggiunse il pollaio che si
era fatto costruire in un angolo del parco, insieme a un forno per cuocervi il pane. Il principe Torlonia,
che era pur sempre il proprietario della villa, si era offeso a morte per quello sconcio, ma Rachele non se
ne preoccupava minimamente. A lei interessava più il pollaio, il forno e l'orto che l'interno della casa così
esteriormente solenne. Galeazzo si sorprese per la modestia dei mobili e per la mancanza di gusto con cui
i Mussolini avevano arredato le stanze. Nello studio, c'era alla parete una orribile caricatura del duce, un
profilo ritagliato su cartoncino nero.
I fidanzati, scendendo le scale, si diedero il primo bacio.
Gallo trasse dalla tasca un cerchietto e lo infilò al dito della ragazza. Qualche giorno più tardi Edda
ricambiò il dono facendogli pervenire un anello in una busta gialla tramite un agente di pubblica
sicurezza. Indubbiamente non manchi di originalità¯, le disse il giovane piuttosto stupito. La notizia del
fidanzamento fu resa pubblica con una cerimonia intima¯, come scrivevano i giornali. E quindi senza lo
sfarzo che aveva caratterizzato il fidanzamento con Pier Francesco a villa d'Este. Mussolini decise di
affrettare le nozze. La loro imminenza lo rendeva inquieto, riaffioravano in lui antichi sentimenti di
gelosia che sembravano essersi assopiti, assorbito com'era dalle cure di governo.
Una sera Galeazzo aveva portato Edda a ballare in un locale notturno della capitale, la Bomboniera, dove
si recava da ragazzo, e l'indomani mattina fu sorprendentemente chiamato a rapporto dal futuro suocero
che lo accusava con asprezza di aver attentato con quella uscita alla onorabilità della figlia.
Il vostro gesto", gli gridò, è deplorevole e inqualificabile! Cercate di non ripeterlo più! Da quel momento,
Edda e Galeazzo s'incontravano al Golf dell'Acquasanta, dove potevano anche appartarsi negli
avvallamenti tra la via Appia e i ruderi dell'acquedotto romano. La Bomboniera era un club rispettabile,
ma Mussolini in ogni locale notturno vedeva un luogo di perdizione. Aveva dei tabarins la stessa opinione
d'un parroco di campagna. Tuttavia egli nutriva un'ottima opinione di Galeazzo. Ne parlò con una delle
sue donne più amate, Angela Curti; lo definiva un buon ragazzo di straordinaria intelligenza: Farà strada.
Intendiamoci, non per me. Per merito suo
La notizia del fidanzamento fece il giro del mondo. A una giornalista dell'Evening News che la chiamava
al telefono da Londra, la promessa sposa volle per prima cosa precisare la sua età.
Comunicate ai vostri lettori, le disse, tutta la mia gioia. Ma sono preoccupata perché molti giornali hanno
scritto che ho venticinque anni. Non è vero. Ne ho soltanto diciannove e vi sarò grata se vorrete
rettificare la notizia. In una foto pubblicata dall'Herald Tribune appariva un po' bruttina, con in testa uno
strano cappellino da collegiale. Uno sconosciuto, un antifascista emigrato all'estero, inviò al padre il
ritaglio del giornale, allegandovi un bigliettino in cui sgrammaticamente diceva:” Egregio Mussolino, Tu
non ai vergogna di mandare per il mondo simili vergogne? Se vuole far sapere le sue bravure la tua nobile
figlia fa però che non si faccia fotografare che disonora le donne italiane tutte con la sua bruttezza e con
la figura della sua aristocrazia. Non vedi che la sua bruttezza e la sua goffagine si vede da tutti i pori.
Poverina in 28 anni non a ancora fatto il callo a portare il cappello”.
Si sapeva che lei passava da un uomo all'altro, e in un'altra lettera anonima si prendeva aspramente di
mira proprio la sua leggerezza negli amori: Non sembra nemmeno una cocotte, bensì come si dice a
Firenze una vera "maiala". Circolava una facezia i cui protagonisti erano Mussolini, Edda e Galeazzo, i
quali, giunti al centro di Roma, si salutano. Mussolini dice: Io faccio il Corso e vado verso il Popolo.
Edda dice: Io faccio la Scrofa. E Galeazzo: Io faccio il Babbuino. Chi raccontava la storiella aggiungeva
maliziosamente: Per chi non lo sapesse, il Corso, piazza del Popolo, via della Scrofa e via del Babbuino i
luoghi dove Benito, la figlia e il genero si dirigevano - appartengono alla topografia della capitale. E bene
specificarlo, altrimenti chissà che cosa la gente potrebbe pensare.
Naturalmente ben diverso era il tono dei giornali italiani protesi a esaltare la giovane coppia e a creare
intorno ad essa un'aura fiabesca, come del resto avevano fatto qualche mese prima, in gennaio, per gli
sponsali fra il principe Umberto e Maria José, principessa del Belgio, eredi al trono d'Italia. Il Popolo di
Roma scriveva che gli italiani avevano accolto con profonda commozione l'annuncio della promessa di
nozze scambiata tra Edda Mussolini e il conte Galeazzo Ciano di Cortellazzo; la leggiadra creatura, fiore
fragrante di giovinezza, può essere additata come un esempio di quella sana moralità, di quella cosciente
virtù, di quella grazia accostante che è una delle più pure caratteristiche di nostra gente; due occhi pieni
di luce, un sorriso aperto, una soave femminilità senza falsi languori, ma fiera e consapevole dei doveri
della donna dell'Italia Fascista, ecco tratteggiato alla lesta il profilo dell'avvenente fanciulla che andrà
sposa al figliuolo di Costanzo Ciano. Costanzo Ciano, proseguiva il giornale, silenzioso e infaticabile
collaboratore del Duce che ha dato il meglio del suo talento, della sua operosità e del suo coraggio per il
bene della Patria in pace e in guerra, può dirsi soddisfatto del premio che corona le sue nobili e austere
fatiche".
Il fidanzamento era un'occasione propizia perché la propaganda del regime potesse indicare in Edda un
modello di donna fascista, capace di conservare gli antichi caratteri della femminilità pur rendendosi
moderna. Lei adottava una moda disinvolta, portava i capelli alla garconne, frequentava piscine e campi
da tennis, andava a cavallo, pilotava automobili, ma non si mascolinizzava, non assumeva le sembianze
della donna sterile e androgina tipica della civiltà occidentale decadente¯. Le sue foto
di ragazza sportiva apparivano su tutti i giornali. Un settimanale di Venezia pubblicò in copertina una sua
immagine a cavallo, in tenuta da cavallerizza, con bombetta, frustino e stivali. Sul tavolo di Mussolini
arrivò quel foglio sul quale qualcuno aveva scritto, con mano incerta e in un italiano approssimativo,
alcune frasi ingiuriose. Le prime erano rivolte a Mussolini: Caro Duce, ti piacerebbe a provare il dolore
che ti uccidesse uno dei tuoi figli come ai fatto tu facendo uccidere Matteoti? Mi piacerebbe vederti. Le
altre frasi erano indirizzate a Edda: Va ramengo ti e la vacca di tua madre e quel farabutto assassino e
mangia milioni di tuo padre che ci lascia morire di fame senza lavoro. Arriverà l'ora anca per voi.
Mussolini diceva che il fascismo aveva reso le donne italiane più belle, più agguerrite anche grazie alle
pratiche sportive di massa. Del resto Edda, già nei prati della Santissima Annunziata, si era esercitata al
tiro con l'arco. Per una decisione del Gran consiglio del fascismo, l'attività sportiva femminile veniva però
contenuta in limiti ben precisi al fine di non distogliere la donna dalla sua missione natura le e
fondamentale, quella della maternità. Maria Luisa Astaldi scriveva che il Fascismo, preoccupandosi di
tutelare e proteggere la donna madre, la incoraggiava soltanto a quei lavori che non ne pregiudicavano la
fecondità né la distoglievano dal nucleo familiare, perché fosse donna fattrice come una cavalla e, al
meglio, angelo del focolare.
L'attività sportiva della donna doveva svolgersi nell'ambito dei fasci femminili che da movimento politico
erano stati trasformati in organizzazione di massa con compiti sociali. Le donne ritenevano che,
indossando una divisa e partecipando al diffuso clima militaristico dell'epoca, avrebbero potuto
accelerare il processo della loro emancipazione nella società. In realtà le cose cambiavano assai poco in
quanto la forte disoccupazione maschile rallentava il loro ingresso nelle fabbriche. Anche quando
trovavano un lavoro in banca, nelle ferrovie, nei pubblici esercizi esse continuavano a subire una grave
emarginazione per il semplice fatto di appartenere al sesso debole. Il regime inquadrava le donne nelle
sue legioni non tanto per offrir loro un ruolo attivo, quanto per estendere l'area del consenso. Le donne
scambiavano quei progressi apparenti per reali conquiste sociali. Il fatto di essere presenti, in divisa, alle
adunate oceaniche di piazza Venezia, veniva da loro interpretato come un successo, soltanto perché
erano affiancate ai reparti maschili anche essi schierati sotto il balcone dal quale appariva Mussolini. Ma
era tutta una finzione, non una effettiva parità fra i sessi.
Le donne potevano prodursi nelle attività sportive così come faceva l'uomo, purché rispettassero certe
regole e i limiti che si dicevano connessi alla loro natura. Ad esempio Mussolini non le voleva aviatrici e
per prima la figlia si atteneva all'ordine, pur ardendo dal desiderio di pilotare un aereo. Nell'Italia
fascista¯, diceva il duce in piena battaglia demografica e con accenti antifemministi, la cosa più fascista
che le donne possano compiere è quella di pilotare molti figli, il che non impedisce che esse volino per
necessità o diporto, ma il pilotaggio è un'altra cosa, molto seria, che dev'essere lasciata agli uomini i quali
in Italia, finora almeno, non mancano.
Edda affrontò le nozze con piglio sportivo, sebbene sembrava che potessero chiudere la fase spensierata
delle avventure e dei capricci sentimentali. In preparazione degli sponsali si scelsero i testimoni: per la
sposa, Arnaldo Mussolini e il principe don Giovanni Torlonia; per lo sposo, il ministro degli Esteri, Dino
Grandi, e l'ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, conte De Vecchi di Val Cismon, suoi superiori. Si
susseguirono manifestazioni e incontri d'ogni genere. Edda e Galeazzo, accompagnati da Mussolini e
consorte, si recarono a villa Savoia per rendere omaggio al re e alla regina dalle cui mani ricevettero in
dono una spilla d'oro con pietre preziose.
Con un po' di tirchieria, il padre scrisse a matita sul rovescio del cartoncino d'una vecchia partecipazione
il testo dell'annuncio della cerimonia nuziale, che quindi mandò alle stampe. Sul vecchio cartoncino, col
quale la duchessa della Vittoria Diaz aveva invitato alle nozze della figlia Anna con l'avvocato Mauro
Salzano, il duce non fece altro che sostituire nomi e date. Scrisse: Donna Rachele e Benito Mussolini
hanno l'onore d'invitare ad assistere al matrimonio della figlia Edda con il Conte Galeazzo Ciano.
Ma poi modificò la dicitura, e sui cartoncini definitivi si leggeva più semplicemente: Benito e Rachele
Mussolini hanno l'onore d'invitare.... In quei giorni si festeggiava con particolare solennità la ricorrenza
del Natale di Roma.
Ii Duce partecipava alle adunanze giovanili di piazza di Siena a villa Umberto; inaugurava i nuovi scavi di
Ostia antica ed esprimeva piena soddisfazione per l'abbattimento delle vecchie casupole che soffocavano
il tempio imperiale di Vesta.
Il ricevimento pubblico che precedette gli imenei ebbe luogo a villa Torlonia nel pomeriggio del 23 aprile,
anno ottavo dell'era fascista. Negli albi pretorii di Roma, Milano e Livorno erano già apparse le
pubblicazioni di matrimonio riguardanti i due giovani. Sposo: Ciano Galeazzo, di anni 27 compiuti, celibe,
nato a Livorno il 18 marzo 1903, di condizione possidente, residente a Livorno, figlio di Costanzo di anni
52, Ministro di Stato, residente a Roma, e di Pini Carolina, possidente, residente a Roma. Sposa: Edda
Mussolini, di anni 19, nubile, nata a Forlì il primo settembre 1910, possidente, residente a Roma in via
Nomentana n. 50, figlia di Benito di anni 46, Capo del Governo, residente a Roma, e di Guidi Rachele,
possidente, residente a Roma.
A villa Torlonia ogni cosa si svolse secondo le linee protocollari di troppo fastose cerimonie, tipiche di
gente arrivata di fresco. Fiori in quantità erano sparsi nei saloni della villa. Il Corriere della Sera scriveva
che i giardini di Roma si erano spogliati per mandare le loro rose, le loro azalee, i loro gigli, i loro lillà alla
figlia del Duce. Per non parlare delle chiome di capelvenere. Il parco era invaso da una folla rumorosa di
oltre cinquecento invitati. Non c'era posto per tutti ai tavolini disseminati qua e là, colmi di pasticcini da
tè. Erano stati acquistati cinquanta chilogrammi di cioccolatini fantasia italiana della Perugina,
cinquecento sacchetti di caramelle assortite della Unica e seimilacinquecento chilogrammi di mandorle
speciali bianche. Furono distribuite cinquecentonovanta bomboniere in argento o in pelle rettangolari,
ovali o tonde, contenenti confetti finissimi e arricchite dalle iniziali argentee degli sposi.
Tra gli ospiti di spicco, il nunzio apostolico Borgongini Duca fu accolto al tavolo di Mussolini, accanto alla
giovane coppia che il prelato benediceva in nome di papa Ratti.
Ma la sua tunica purpurea spegneva l'abito di chiffon rosa imprim‚ di Edda. Erano presenti quarantasette
eccellenze d'ogni rango. Gli ambasciatori, come scriveva la Neue Zurcher Zeitung¯, si inchinavano davanti
alla semplice Donna Rachele per baciarle la mano¯; eguale comportamento di ossequio osservavano i
ministri e i più illustri esponenti dell'aristocrazia italiana, i duchi Sforza Cesarini, i marchesi Guglielmi Di
Vulci, i conti Gaddi Pepoli, il marchese Incisa, i principi Vannutelli, i baroni Blanc, i conti Macchi Cellere, il
principe Chigi Albani, i marchesi Misciattelli, e quindi una schiera infinita di senatori, deputati, alti
gerarchi del regime, ammiragli, generali, ambasciatori d'ogni paese e perfino dell'Unione Sovietica.
Fra i giornalisti spiccavano Curzio Malaparte, Ermanno Amicucci, Telesio Interlandi, Virginio Gayda, Aldo
Borelli, Rino Alessi, Gaetano Polverelli. Numerose erano le nobildonne incipriate e avvolte in vaporose
pellicce. I signori erano in tight e cilindro. Nessuno aveva orecchie per le musiche che, in segno di devoto
omaggio, venivano eseguite dal Quartetto d'archi della Reale accademia filarmonica romana. Ed erano
ovviamente musiche di Boccherini, Beethoven, Haydn e Dvorak. I professori - Oscar Zuccarini, primo
violino; Francesco Montelli, secondo violino; Aldo Perini, viola; Tito Rosati, violoncello - sconsolati, ma
imperterriti, continuavano a suonare.
Si temeva che si fossero infiltrate nel parco alcune persone non invitate, ma in realtà tutto era tenuto
sotto controllo, personalità, giornalisti, fotografi e camerieri. Le fotografie e gli articoli destinati alla
stampa furono severamente vagliati da Mussolini, il quale volle vedere il materiale prima di autorizzarne
la pubblicazione. Strigliò aspramente un fotografo famoso, Attilio Badoli, che lo aveva ritratto in un
atteggiamento di grande nervosismo, e forse di gelosia, mentre da un angolo del giardino sogguardava
Edda al braccio di Galeazzo.
Per l'esposizione dei regali, giunti da ogni parte, si adottò una rigida graduatoria. Davanti a tutti c'era il
dono di Pio undicesimo il quale aveva inviato un rosario d'oro e malachite. Il rosario divenne sui giornali
un rasoio d'oro, a causa d'un refuso d'agenzia. Quindi c'era la spilla d'oro dei sovrani. Seguivano un pizzo
di Burano offerto dal Senato; un raffinato servizio da thè, dono della Camera dei deputati; una magnifica
broche del P.n.f; un braccialetto di rubini del governatore di Roma. Il duca d'Aosta, il comandante della
Terza armata, aveva inviato due grandi leoni di bronzo a simboleggiare la fiera tempra degli illustri Padri
degli sposi¯. D'Annunzio, come sempre immaginifico, aveva offerto un fastoso mantello di velluto dipinto
a mano e una veste giapponese; n‚ aveva mancato di scrivere un'affettuosa lettera a Edda. Il duce aveva
donato un'antica tovaglia di raro pizzo; personalmente aveva dato alla figlia una perla orientale ricevuta
da una principessa russa. Nel consegnargliela, mentre gli si approfondiva la ruga verticale della fronte, le
aveva detto bruscamente, come ingelosito dalle nozze: Ho questo coso per te.
In massa gli italiani avrebbero voluto regalare qualcosa alla giovane coppia. Mussolini ne aveva però
frenato l'impeto con una circolare ai prefetti del regno. In essa il duce diceva: Può darsi che sorgano
iniziative per offrire doni a mia figlia in occasione sue nozze come era stato ventilato a Roma e a Milano
stop. L'ho impedito stop. Est mio desiderio che nessun dono di qualsiasi specie venga offerto
stop. Al caso si deve tempestivamente dissuadere chicchessia - privati, gruppi, enti¯. Un produttore di
spumante, che voleva offrire tre casse di moscato perché la signorina Edda brindasse alla sua felicità, fu
addirittura diffidato dal farlo. Mussolini accettò tuttavia l'omaggio della principessa di Ganci, cui spedì un
telegramma tramite il prefetto di Palermo: Vostro vino squisito est stato bevuto da Edda et Galeazzo ed io
vi sono profondamente grato del dono et del pensiero.
Fra i regali si annoverava una composizione poetica di padre Timoteo Chimenti, segretario generale dei
camaldolesi, ispirata alla nobile novella sposa nel ricordo del battesimo ricevuto a Camaldoli: Fra mille e
mille abeti vellutati,/ Fra verdi variopinti praticelli,/ Fra ruscelletti freschi, - inargentati,/ Fra il dolce
gorgheggiare degli augelli,/ Qui all'Ermo Santo foste ristorati/ Degli Angeli col pane, Edda e fratelli,/ Da
me Maggiore; e poscia confermati/ Foste dal Cardinale Vannutelli./ Come quel dì più bello di tua vita,/
Edda gentile, ti rivedo ancora/ Tutta raggiante - candido vestita./ Bella tu sei come sorgente aurora,/
Sposa novella, oh si…ti gradita/ La celeste memoria di quell'ora.
Un vecchio capitano dei bersaglieri, dallo straordinario nome di Lohengrin Giraud, inviò a Mussolini da
Verona una lettera nella quale gli esprimeva l'augurio che dalla forte e gentile unione¯ fra Edda e
Galeazzo traessero origine uomini pari a lui per tempra e ingegno, in grado di dare sempre maggiori
fortune all'Italia, al Fascismo e alla Famiglia Mussolini¯. Il direttore della banda musicale della milizia,
maestro Rito Selvaggi, aveva festeggiato le nozze componendo un'Ave Maria per voce, con
l'accompagnamento di un quintetto d'archi.
Il ricevimento fu lungo e faticoso, tanto che a sera donna Rachele, togliendosi le scarpe, disse agli altri
figli: Ragazzi, quando vi sposerete voi non faremo tante storie, che con quella di oggi ne ho avuto
abbastanza¯. Gli sponsali si celebrarono il mattino seguente, 24 aprile, e non erano trascorsi che tre mesi
dal giorno del primo incontro fra quei due ragazzi. Alle undici, Edda e Galeazzo entrarono acclamati nella
chiesa di San Giuseppe sulla via Nomentana, a pochi passi da villa Torlonia. Era stato prescelto quel
tempio in quanto parrocchia della famiglia Mussolini, e dopo che si era scartata la basilica di San Carlo al
Corso. n duce avrebbe voluto che la cerimonia religiosa si fosse svolta all'interno della villa che conteneva
vari edifici, compresa una palazzina chiamata La Civetta, dove si era ritirato il principe Torlonia. Aveva
rivolto per iscritto un quesito al segretario Chiavolini: Siamo sicuri che a Villa Torlonia non esista una
cappella in cui si possa celebrare?
Gli sposi arrivarono in automobile sulla soglia della chiesa, sebbene il tratto di strada da percorrere fosse
brevissimo. Il corteo nuziale era formato da sei grandi Fiat 525. Nella prima vettura avevano preso posto
Edda e il padre, nella seconda Galeazzo e la madre Carolina, nella terza donna Rachele e Costanzo Ciano.
Poi seguivano i testimoni e infine chiudeva il corteo l'auto con i fratelli di lei, Vittorio e Bruno, e con la
sorella di lui, Maria. Per entrare in chiesa gli sposi dovettero passare sotto un arco di sinistri pugnali che i
moschettieri del duce, funerei nelle uniformi di nero orbace, sguainavano in loro onore. A rendere meno
fosca la scena, che pur doveva essere festosa, c'erano alcuni giovanissimi contadini romagnoli, maschi e
femmine, arrivati fin lì in variopinti costumi a salutare con un balletto l'amata conterranea.
Edda si mostrava spavalda in un lucente abito di raso bianco. Era seguita da due piccoli paggi che le
sorreggevano il lungo strascico. Una ghirlanda di perle e di fiori d'arancio le cingeva la fronte.
Aveva affannosamente provato e riprovato per più giorni l'abito nuziale, e alla vigilia della cerimonia
aveva posato per un fotografo dell'Illustrazione Italiana¯ che intendeva pubblicare in copertina una sua
inedita immagine da sposa. Sulle pagine patinate della rivista apparve un deliziato commento.
"Chi non sia passato per Roma in questi giorni, non può aver l'idea di quel che sia una festa nuziale
romana quando vi si mescoli Aprile con la grazia burrascosa dei suoi capelli e l'azzurro tenero dei suoi
occhi. Per immaginare il quadro smagliante di queste liete nozze, dovreste immaginare gli scenari d'una
grande villa romana sub divo, cioè sotto il sole aprilante, giovanile d'impeto e di splendori. Nessuna
fotografia, nessuna cinematografia della "Luce" potrà mai darvi un'eco di questa giovinezza dell'aria e del
sole in una Roma nuziale. Qual era il significato che s'intendeva dare a quelle nozze? La risposta veniva
dalla stessa Illustrazione¯: I giovani sposi, nella loro garbata vivacità, diventavano naturalmente ai nostri
occhi il simbolo d'una giovinezza nuova, nata per il sole e per la rettitudine. Edda e Galeazzo erano
dunque rappresentati come gli esponenti d'una generazione di nuovi fascisti.
Il rito religioso fu officiato da don Giovenale Pascucci, dell'Ordine dei canonici lateranensi. La vostra
famiglia, disse il sacerdote ai novelli sposi, dovrà essere il prototipo della famiglia cristiana ed italica,
famiglia di quella stirpe che conosce tutti gli ardimenti, tutte le glorie che s'ingemmano ininterrotte, tutti
i fulgori.¯ E fu applaudito. L'organo della chiesa - alla tastiera il professor Germani dell'Augusteo insieme al quartetto d'archi che si era prodotto il giorno prima nei giardini della Villa e al quartetto
vocale della Filarmonica con i professori Domenico Mancini, Eugenio Travaglia, Augusto Dos Santos e
Filippo Risoldi, contribuirono con canti e suoni a rendere pi— intensa la solennità del momento.
Al termine della cerimonia, all'uscita dalla chiesa, gli sposi tagliarono i bianchi nastri di seta che due
contadinelle romagnole tendevano sorridenti al loro passaggio. E gioiosa era Edda.
Il corteo delle automobili si diresse verso la basilica di San Pietro dove il conte e la contessa Ciano in
ginocchio, seguendo un'antica e devota tradizione, baciarono il piede bronzeo della statua dedicata al
primo papa della cristianità. S'inginocchiò anche Mussolini - non era l'uomo del Concordato? - fra gli
applausi della folla. Per i coniugi non ci fu tuttavia un'udienza pontificia, pur essendo Galeazzo un attachè
dell'ambasciata italiana presso la Santa Sede. Seguiti sempre dal corteo delle automobili, gli sposi
tornarono a villa Torlonia. La giovane contessa, sotto il colonnato ionico dell'edificio centrale, al
momento di rientrare in casa, levò con dolcezza il braccio per salutare romanamente gli amici che si
attardavano nel parco.
Con quelle nozze Galeazzo, da figlio di papà, diventava genero di Mussolini. Già in quegli stessi giorni la
Neue Zurcher Zeitung rilevava che non gli sarebbe stato difficile far carriera. Essere genero del duce¯,
scriveva il giornale svizzero, corrisponde alla storica condizione di "cugino del re", e forse più.
Un settimanale francese, usando un linguaggio più crudo, osservava maliziosamente: Galeazzo ha
attaccato il cappello al chiodo.
Per entrambe le manifestazioni, il ricevimento e la cerimonia nuziale, furono predisposte le più severe e
scrupolose misure di ordine e di sicurezza. Vennero mobilitati quattrocentoundici carabinieri in divisa,
trecentosessantasei agenti di pubblica sicurezza anche essi in divisa, trenta agenti di pubblica sicurezza a
cavallo, quattordici carabinieri e quattordici agenti di pubblica sicurezza in alta uniforme, ottocentoventi
militi in divisa, cinquecentosettantadue agenti di pubblica sicurezza in borghese, dieci agenti di pubblica
sicurezza vestiti in abito scuro per compiti particolari. A capo del servizio di polizia furono preposti
cinque funzionari con tight e cilindro, i cavalieri Iannelli e Longhi e i dottori Della Valle, Di Fiore e
Imparato. Altri due funzionari indossavano parimenti tight e cilindro, il cavalier Chiaramonte e il signor
Scarpetta.
L'area interessata alle manifestazioni fu suddivisa in dieci zone. Si attuarono prelievi anagrafici per
tracciare una mappa di chiunque alloggiasse negli stabili con vista su villa Torlonia e sulla chiesa di San
Giuseppe. Si disposero, con ogni avvedutezza e con la massima riservatezza - come prescrivevano le
disposizioni emanate dalla questura di Roma - i necessari piantonamenti. Si prescrisse altresì che tutti gli
uffici di P.S. della Capitale dessero il maggior impulso ai noti servizi di prevenzione, anche per avere
pronta contezza della eventuale presenza in città di elementi malintenzionati o sospetti, al fine di poter
adottare prontamente in loro confronto, i provvedimenti del caso¯. Accuratissime furono le visite ad
alberghi, locande, affittacamere e in altri luoghi ove si dava alloggio per mercede. Si esercitò
particolarissima vigilanza sui sovversivi, squilibrati di mente e persone notoriamente avverse al Regime,
per seguirne gli atteggiamenti e le mosse ed avere così immediata contezza di loro intendimenti,
meritevoli di richiamare l'attenzione delle Autorità di P.S.
Alla stessa stregua, alcuni pattuglioni notturni funzionarono con ogni diligenza e sagacia, perlustrando
accortamente i vari quartieri della città e sorvegliando tutti gli ambienti ove si sarebbero potuti annidare
elementi malintenzionati o sospetti, allo scopo di rastrellare coloro che avessero meritato di essere
ragionevolmente fermati per misure di P.S. . In complesso nulla fu tralasciato perché qualsiasi insidia,
ovunque ordita, venisse prontamente scoperta ed energicamente sventata, al pari di qualsiasi
manifestazione contraria al Regime.
Tre automobili erano già pronte davanti all'edificio centrale della villa. La neo-contessa Ciano aveva
mutato l'abito bianco con un abbigliamento sportivo grigio, ripreso dai figurini di Jardin des modes.
Si mise al volante di un'Alfa Romeo color latte, con accanto il marito che non amava guidare.
Accese il motore e si allontanò d'un balzo. La seguivano altre due macchine, una con gli agenti della
scorta, l'altra con la cameriera Pia Ricci e i bagagli. Al momento della partenza vide il padre impallidire.
Il duce ebbe un attimo d'esitazione. Dopo di che saltò su un'automobile trascinando con sè Rachele, che
non capiva che cosa stesse succedendo. Quindi si pose all'inseguimento degli sposi sorpassando le
macchine della scorta e della cameriera. Che cosa lo sospingeva a tanto? Il dolore per il distacco
dall'amata figlia? Un morboso rigurgito di gelosia? Edda, spazientita e irritata, bloccò dopo una ventina di
chilometri la corsa, e gli gridò: Fin dove vuoi arrivare, papà? Sei ridicolo e mangi soltanto polvere!
Stavo già per tornare indietro, le rispose lui in un balbettio, certo però di un fatto: a villa Torlonia, senza il
tempestoso Sandokan, tutto sarebbe stato triste e sconsolato.
Gli sposi avevano scelto Capri per trascorrervi la luna di miele. Arrivarono a Napoli a tarda sera. Nel
porto li attendeva un Mas col quale raggiunsero l'isola quando era già notte. Tuttavia una gran folla li
accolse sul molo trionfalmente, con fanfare e bandiere. Salirono in Piazzetta con un'auto del podestà; poi,
sempre applauditi e festeggiati, proseguirono a piedi fino all'Hotel Quisisana dove alloggiarono in un
appartamento di quattro camere - contrassegnate dai numeri 319, 320, 321, 322 - con vista sulla Marina
piccola. Lei trovò sul tavolo in un vassoio d'argento un telegramma che era partito da Roma con
precedenza assoluta: Contessa Edda Ciano, Hotel Quisisana Capri.
Sarei felice se il primo saluto che ti giunge a Capri fosse il mio Stop Tuo papà Mussolini.
Era effettivamente il primo. Gli sposi vollero che la cena fosse servita nel loro appartamento. Ma Edda,
che non aveva toccato cibo per l'emozione, si chiuse nel bagno. Minacciava il marito di gettarsi dai
Faraglioni qualora le si fosse avvicinato. Lui divertito ribatteva: Dovrai prima spiegarmi come farai ad
arrampicarti in cima a quegli scogli¯. Questo bastò a disperdere il nervosismo che si era accumulato in
quelle stanze.
I conti di Cortellazzo trascorsero alcuni giorni in piena tranquillità sull'isola felice. Evitavano il più
possibile di farsi vedere in giro e, soprattutto la sera, continuavano a mangiare nel loro appartamento.
I giornalisti e i fotografi ne spiavano ogni mossa, ma con circospezione, dato l'imperante clima politico.
Il Daily Mail pubblicò una foto in cui gli sposi, vestiti alla marinara, apparivano in piedi e abbracciati su
una barchetta all'imboccatura della Grotta Azzurra, sotto lo sguardo protettivo del barcaiolo. Un ignoto
inviò al duce il ritaglio del giornale con una scritta a macchina: Il nocchiero non sarà Caronte/ ma son
ridicoli tutti e tre.
La polizia segreta vigilava sulla celebre coppia e inviava dispacci urgenti a palazzo Venezia. Le Autorità
Capresi, si leggeva in una nota, hanno saputo prevenire il desiderio degli sposi di non essere disturbati
nella serenità della loro luna di miele e si sono limitate a far loro pervenire degli omaggi floreali a mezzo
di balilla e di piccole italiane in divisa. Gli sposi non poterono però esimersi dal presenziare alla
cerimonia della quarta Leva fascista che si svolgeva in quei giorni sull'isola. E ciò per dare un esempio di
fedeltà al regime. Non ricevettero invece un console della milizia, Gaetano Lemetre, che si era presentato
alla portineria dell'albergo recando un vaso d'argento con fiori e chiedendo di essere ammesso ad
ossequiarli devotamente. Fu la cameriera di Edda a ringraziarlo del dono e a comunicargli che la contessa
non desiderava incontrare nessuno. Il console si dolse pubblicamente di questo trattamento, e sull'isola
si accese una disputa fra chi commentava con favore la ritrosia della contessa e chi, ma erano assai pochi
in realtà, la accusava di sconfinata alterigia.
I Ciano fecero un'eccezione per l'accademico d'Italia Filippo Marinetti. Si trovava da diversi giorni
sull'isola che pure, nella predicazione futurista, avrebbe voluto veder scomparire dalla superficie delle
acque. La considerava il luogo dei suicidi e dei debosciati; la paragonava alla pizza napoletana che
rendeva gli italiani, egli diceva, pacifisti e rinunciatari¯. Al momento di ripartire, i Ciano non poterono
però sottrarsi ai festeggiamenti di commiato della Pro Capri. Per non sbagliare, l'alto commissario di
Napoli, prima di invitarli alle manifestazioni, chiese il permesso e relative istruzioni alla segreteria del
duce. Si poterono così svolgere alla presenza dell'illustre e scontrosa coppia, in procinto di salpare, uno
spettacolino di balletti nei saloni del Quisisana e rumorose danze popolari nelle vie che all'imbrunire
vennero illuminate a giorno.
Nel 1930 il regime, già consolidato, incideva profondamente sui costumi e sui comportamenti dei singoli
e delle masse. Si aboliva la festa civile del 20 settembre che celebrava la presa di Porta Pia, per sostituirla
con l'11 febbraio, giorno dei trattati lateranensi; si istituiva il libro di Stato nelle scuole elementari. E
proprio mentre Mussolini sosteneva che la questione meridionale era in via di soluzione, un terremoto
sconvolse un'ampia zona dell'appennino napoletano, il Vulture, ripresentandone impietosamente le
antiche e mai sanate piaghe.
Galeazzo tenne per non molti mesi l'ufficio di addetto all'ambasciata italiana presso la Santa Sede, alle
dipendenze del quadrumviro Cesare Maria De Vecchi. Quindi ripartì per la Cina, questa volta con Edda.
Era felice di tornarvi poiché adorava quella terra in cui aveva vissuto liberamente senza alcuna remora,
mentre in Vaticano, come egli stesso diceva, era stato costretto a vivere in santità, cioè all'opposto di
quanto era avvenuto a Shanghai e a Pechino. Forse era davvero vissuto in santità, ma, a sentire De Vecchi,
non aveva offerto in quell'incarico una gran prova di s‚ come diplomatico e neppure come lavoratore.
Il quadrumviro lo giudicava vanitoso, pettegolo, iconoclasta e disinvoltamente scansafatiche.
Una mattina, in occasione della benedizione dei locali dell'ambasciata, Galeazzo aveva issato sul suo
tavolo un cartello con la scritta: Vade retro Domine, scandalizzando il cappellano benedicente. E si
scusava dicendo di voler scherzare un po'. Ma quando in ambasciata si seppe del fidanzamento del
giovane diplomatico con la figlia del duce, il quadrumviro cominciò a mostrarsi più prudente nei giudizi.
Un prelato dell'ambasciata, monsignor Pellizzolo, gli disse- Lei, conte, ha trovato un'assicurazione sulla
vita¯. Nei giorni in cui la notizia del suo fidanzamento non si era ancora diffusa, Ciano, incontrando in un
grande albergo di Roma una sua antica amante, Mimy Aylmer, le aveva detto: Sto per passare a giuste
nozze e sarà un matrimonio che farà chiasso. Diamine, sposerai la figlia del re? Quasi, quasi à., rispose
Galeazzo, sorridendo e senza sbilanciarsi oltre.
Prima di lasciare Roma, gli sposi furono ricevuti da papa Ratti in Vaticano, nella biblioteca privata. Edda
indossava un lungo abito nero, e portava sulla testa un velo trattenuto a soggolo da una splendente fibbia
di brillanti. Ma ancor più lampeggianti apparivano i suoi occhi.
All'atto del congedo il pontefice offrì ai coniugi due volumetti in pergamena, l'Imitazione di Cristo, in
edizioni diverse ed egualmente preziose.
L'11 settembre del 1930, i Ciano s'imbarcarono a Brindisi sulla motonave Tevere, la stessa nave con la
quale Edda, ancora signorina, aveva raggiunto la favolosa India, e ora era diretta verso lidi non meno
leggendari. Sulla banchina del porto erano a salutarli donna Rachele e i genitori di lui, Costanzo e
Carolina, insieme ad altri amici carissimi.
Mancava il duce. Aveva detto che impegni di governo lo trattenevano a Roma, ma Rachele sapeva bene
che in realtà aveva voluto evitare di staccarsi ancora una volta dalla figlia che ormai, con le nozze,
considerava perduta per sempre al suo affetto esclusivo e incombente.
Al momento degli addii risultò più che mai chiaro a chi restava sul molo quanto fossero diversi tra loro i
giovani sposi. Edda se ne stava immobile e severa sul ponte della nave, gli zigomi alti, le mandibole
prominenti, mentre Galeazzo non aveva tregua nel salutare tutti con larghi e ripetuti gesti un po'
femminili, nel lanciare baci a dritta e a manca. Fin da bambina lei non si era mai lasciata andare in
smancerie e aveva sempre cercato di trattenere il pianto o le manifestazioni di gioia. Lui invece si
commuoveva facilmente. Non poteva veder partire il padre, anche per brevi viaggi, senza sciogliersi in
lacrime; talvolta si gettava a terra invaso dalla disperazione.
La nave non si era ancora staccata dal molo quando Edda prese per un braccio il marito, esclamando in
tono brusco: Va bene, ora basta! Vogliamo andare a mangiare! La Cina non è poi così lontana.
E lasciò tutti di stucco sulla banchina, amici e parenti, mentre si allontanavano, lei con provocatoria
baldanza in un abito bianco, ossuta, i capelli al vento; lui imbrillantinato, grassoccio, e con l'andatura
molle per una deformazione dei piedi. Piedi piatti! Gli gridavano, da ragazzo, i compagni di scuola.
La nave si staccò dal molo e, in quello stesso istante, la sposa ricevette via radio un dispaccio con gli
auguri più affettuosi di papà Mussolini. Qualche giorno più tardi le arrivava un secondo dispaccio.
Il padre le ricordava come anche in Cina fosse suo dovere mantenersi fedele ai canoni mussoliniani;
quindi le comunicava che in quel breve lasso di tempo non si erano verificate grandi novità: lo zio
Arnaldo si trovava in Romagna e lui faceva i bagni di mare come se niente "fudesse". Edda si meravigliò
della civetteria linguistica del padre che usava quel termine in voga tra i giovani romagnoli volendo dire
come se niente fosse.
La navigazione aveva avuto un avvio tranquillo e sul ponte i viaggiatori si attardavano a discutere sui più
svariati argomenti. Si parlò anche di un film sovietico, La corazzata Potiomkin, di cui avevano scritto
alcuni giornali rilevando la drammaticità della sequenza in cui si vede una carrozzina che precipita lungo
una scala, a Odessa, fra scrosci di fucileria, e decantando la maestria del giovanissimo inscenatore
Eisenstein. Ma a mano a mano che il piroscafo s'inoltrava nei climi caldi, la temperatura a bordo divenne
tanto insopportabile da tappare la bocca a tutti. Di notte nelle cabine si poteva ottenere un qualche
refrigerio tenendo spalancati gli oblò. Avrebbe voluti aprirli anche Deda, come il marito aveva cominciato
a chiamarla, ma Galeazzo freddoloso, che fin da bambino aveva sempre dormito con le finestre sprangate
e sotto una montagna di coperte, glielo proibiva. Vennero a diverbio, e non trovarono altra soluzione
oltre quella di continuare il viaggio in due cabine separate. Galeazzo, giornalista mancato, si consolava
leggendo un libro di memorie, Questo mestieraccio, di Paolo Monelli e un saggio paradossale di Curzio
Malaparte, Intelligenza di Lenin. Di giorno Deda appariva sul ponte in uno di quei costumi da bagno schiena completamente scoperta - che l'attrice Claire Howard andava pubblicizzando.
Esattamente a un mese dalla partenza erano in prossimità di Shanghai. Edda ricevette un nuovo
telegramma del padre: Mentre state per toccare la meta ed entrare nel gran mondo cinese, vi ricordo
insieme con Vittorio e Bruno, Vito e Arnaldo presenti a Villa Torlonia stop Per il resto nessuna novità
stop Abbracci affettuosi Mussolini.
Edda rispondeva sollecitamente: Vi ringraziamo et ricambiamo a tutti voi affettuoso pensiero stop
Giungeremo domattina Shanghai et telegraferò mie prime impressioni stop Baci Edda¯. Non appena
furono approdati, egli inviò un altro dispaccio, per compiacersi dell'ottimo viaggio e per impartire nuovi
consigli-ordini alla figlia ormai lontana: Mi piace molto di saperti immersa nel mare magno della umanità
gialla stop Attendo le tue prime impressioni stop Tieni un diario può essere interessante stop Mussolini.
Galeazzo arrivava in Cina con l'incarico di console generale avendo bruciato sul traguardo numerosi altri
concorrenti meno fortunati, come gli amici e colleghi Filippo Anfuso e Antonio Venturini. Il Venturini era
rimasto in Cina senza progredire nella carriera e ora lo vedeva tornare nelle vesti di suo diretto
superiore, poichè l'effetto Edda aveva già prodotto i primi miracolosi risultati.
Shanghai appariva come un immenso e brulicante agglomerato metropolita - con tutta quella gente dal
camminare leggero - in cui gli elementi di un antico mondo chiuso in se stesso si fondevano con le più
moderne espressioni d'una società americanizzata. Quella città, che già conosceva il conforto dell'aria
condizionata e l'allegria delle insegne luminose sul lungomare, il famoso Bund, e che appariva agli occhi
degli occidentali come un paradiso terrestre - fu per Deda una droga. S'inebriava al contatto di quella
immensa Venezia cinese moltiplicata da un pullulare di isole sul fiume Huangpu, lei che proveniva da una
Roma provinciale, più simile a un paesone di campagna che a una capitale. A Shanghai la società brillante
di europei e di americani, diplomatici e gente d'affari, si crogiolava in un lusso sfrenato, trascorreva
intere notti immersa nel gioco del poker, senza trascurare i giochi d'amore. Edda si lasciava trascinare
nel vortice d'una vita che la estasiava e che lei giudicava più libera e liberale di quella europea. Univa alla
passione per il tavolo verde il piacere di bere, preferendo fra gli alcolici il gin. Tutta intera esplodeva la
sua joie de vivre.
Lontana dall'occhiuto controllo di Mussolini, che tuttavia ancora gravava sugli sposi con raffiche
inesauribili di dispacci telegrafici, Edda avvertì di essere alfine se stessa. Migliaia e migliaia di chilometri
separavano i Ciano da Roma, sicché non vivevano più esclusivamente nella condizione di figlia e di
genero del duce. Non potevano però sfuggire completamente al riflesso di Roma, e ciò risultava utile al
loro immagine e al lavoro. La lontananza dall'Italia li aveva messi in condizione di fare sfoggio di una
certa autonomia dalle proprie famiglie oltre che dal regime. Nei caffè di Roma era rimbalzata da Shanghai
una storiella. Si diceva che Galeazzo, a dimostrazione della voglia di indipendenza, avesse assoldato
alcuni portatori di risciò ai quali ogni mattina, entrando negli uffici del consolato, gridava: Saluto al Duce!.
E gli ignari cinesi, secondo i suoi ammaestramenti, rispondevano con uno scurrile suono delle labbra cui
univano un non meno osceno gesto del braccio. Il tutto per deridere il suocero, ma con furbizia livornese,
impunemente, grazie alla lontananza. Quella fronda a distanza, se di fronda si trattava e non soltanto di
goliardia a buon prezzo, poteva trovare origine negli anni in cui, ancora infarinato di socialismo,
bisticciava con il padre che giudicava schiavo di Mussolini. Diceva di Costanzo: Quel bischero si è messo a
fare il fascista!, divertendo i più maturi colleghi del Mondo di Giovanni Amendola dove muoveva i primi
passi di critico teatrale.
In Cina era al potere dal '28 il generale Chiang Kaishek, un esponente dell'ala moderata del forte partito
nazionalista, il Kuornintang, o Partito della gente. Proprio a Shanghai, massimo centro industriale e
roccaforte dei comunisti, il generale, impadronendo6i della città, aveva ottenuto con le sue truppe una
delle più importanti vittorie che lo aveva condotto in quello stesso anno alla presidenza della repubblica.
Si fronteggiavano due governi, uno con sede a Pechino, l'altro a Canton. Entrambi erano ben decisi a
battersi fino all'ultimo sangue, l'uno in difesa d'una vecchia visione tradizionalista delle cose, l'altro in
nome d'un totale rinnovamento del paese in chiave nazionalista e antimperialista.
Il Kuomintang e i comunisti sostenevano il governo rivoluzionario di Canton contro il governo legale di
Pechino, peraltro riconosciuto dalle potenze occidentali, e agivano sulla base di un programma che si
proponeva di raggiungere l'indipendenza nazionale dell'intera Cina, di fondare un regime democratico e
quindi di attuare una rivoluzione sociale. Si erano altresì trovati uniti nella lotta ai governatori militari
delle province, i cosiddetti signori della guerra, che usufruivano dell'appoggio giapponese in quanto
Tokio, insistendo nei progetti di espansione in Cina, contrastava la formazione d'un forte potere statale.
Il generale Chiang Kai-shek, che già aveva preso le distanze dai comunisti, accentuò questa sua politica in
seguito alla conquista di Shanghai. Quindi espugnò Pechino, e i comunisti non ebbero altra via di scampo
oltre quella di rifugiarsi a sud del paese, nella provincia del Kiangsi, mentre tra loro emergeva la figura di
un intellettuale di origini contadine, quella di Mao Tse-tung.
Il lavoro di console generale lasciava molto tempo libero a Galeazzo, il quale tuttavia, più durante le cene
e le riunioni al club che non negli uffici del consolato, tesseva le sue trame di diplomatico. Per ingannare
il tempo e ancora preso dalle spire del giornalismo scriveva qualche articolo sulla Cina che un giornale di
Firenze pubblicava tacendo l'illustre firma. I Ciano aprirono la loro casa agli intellettuali, ai giornalisti,
alle più alte personalità cinesi e ai rappresentanti esteri, inglesi, francesi, tedeschi, olandesi, americani,
quasi tutti piuttosto avanti negli anni. Deda e Gallo, giovanissimi com'erano, furono scherzosamente
denominati quelli del Kinderheim, del giardino d'infanzia
La loro residenza era bella e massiccia, ma degradata.
Edda ne parlava in un telegramma al padre: Giardino et casa buoni, ma arredamento scadentissimo.
Le stanze erano polverose, i mobili sgangherati. In cucina c'erano poche e vecchie stoviglie, quattro
pentole e due mestoli di smalto rotti. Un enorme letto di ferro, con materassi di crine, era sormontato da
un baldacchino che a Deda ricordava le processioni del Corpus Domini cui aveva assistito da bambina
nelle strade della Romagna. Galeazzo, che aveva la passione per l'arredamento, si rimboccò le maniche e
si diede un gran da fare per ammobiliare con una certa eleganza la loro nuova casa.
Lei trascorreva gran parte delle giornate con le mogli dei diplomatici. Galeazzo si cimentava inutilmente
nello studio della lingua cinese oppure, vincendo a stento la pigrizia, nello sport dell'equitazione in cui
però la moglie lo distanziava di molto. Le ambasciatrici offrivano ai Ciano raffinati parties, mentre la
contessa ricambiava con le specialità della cucina italiana. Edda aveva fatto venire da Roma un cuoco
italiano, pur servendosi anche di cuochi cinesi. Il cuoco italiano e quelli cinesi, arrotondavano il già lauto
salario, facendo la cresta - sgueeze - sugli acquisti dei cibi. Edda una volta si accorse che in una settimana
i suoi cuochi avevano consumato, o meglio dichiarato di aver acquistato, ben settantacinque uova. Ma lei
e Galeazzo non ne avevano mangiato che tre o quattro. Edda ne chiese ragione a Jean, lo chef, il quale
senza scomporsi le spiegò il busillis. Era arrivata da Livorno una cartolina in cui si raffigurava il Palace
Hotel della città, e il personale di cucina, avendo creduto che quel favoloso edificio appartenesse ai
padroni di casa, aveva deciso di imporre loro, col falso acquisto delle settantacinque uova, un congruo
sovrapprezzo, in considerazione dell'enorme ricchezza che il palazzo testimoniava.
Edda faceva leva sulle cene eleganti - buoni cibi, ottimi vini, affascinanti signore - per esaltare l'immagine
dell'Italia all'estero. In cantina collezionava vino e champagne di marca. La politica estera di suo padre
tendeva ad accrescere il prestigio di Roma e a presentare l'Italia non più come l'Italietta d'una volta, ma
come una nazione grintosa. Il duce aveva annunciato che il programma della marina militare prevedeva il
varo di ventinove navi, e i Ciano a Shanghai dovevano fare da megafono ai suoi discorsi per contribuire
all'edificazione del mito fascista. Edda raccoglieva per il marito, in una cartellina, i discorsi del padre,
soprattutto quelli militaristi, che poi Galeazzo doveva propagandare. Il duce a Milano aveva parlato di
riarmo italiano accelerato, ironizzando sulle proteste delle oche pacifondaie d'Europa. Mai si era visto,
aveva detto, spettacolo più lampante di umana ipocrisia. Tutti si armavano, soltanto gli italiani dovevano
starsene con le mani in mano? Parrebbe che solo in Italia ci siano degli aeroplani, perché altrove
evidentemente non ci sono che degli innocenti aquiloni di carta velina; solo in Italia esistono dei cannoni,
perché altrove ci sono soltanto delle canne da passeggio; solo in Italia ci sono delle caserme, mentre
altrove ci sarebbero soltanto degli ameni luoghi di svago e di raccoglimento; solo l'Italia ebbe la
tracotanza di possedere una marina da guerra, mentre le altre nazioni avrebbero soltanto delle navi da
pesca e da diporto.
La buona tavola servì a Galeazzo per attrarre nella sua sfera un giornalista inglese con sede a Shanghai,
un certo Woodhead, fiero nemico dell'Italia. Lo inviteremo a cena da noi, e lo tratteremo con tutti i
riguardi, disse Galeazzo con una strizzatina d'occhio alla moglie. Furono servite con rara cortesia vivande
prelibate, annaffiate dai più celebrati vini italiani di cui il giornalista conosceva ogni più riposta qualità.
Deda fu smagliante, al punto da superare se stessa, e Woodhead si alzò dalla tavola trasformato in
ammiratore della contessa e in estimatore dell'Italia. Disse perfino di apprezzare i giudizi positivi che
Churchill dava di Mussolini.
Con la galanteria che gli era ormai diventata consueta nei confronti di Edda, Woodhead parlava e
scriveva di lei come della prima signora di Shanghai. E lo fece anche in un momento drammatico, nei
giorni in cui la guerra cino-giapponese infuriava alla periferia della città, fra imboscate sanguinose,
sparatorie, esplosioni, incendi e un risuonare di grida strazianti delle vittime. Il governo di Chiang
Kaishek non riusciva a contenere l'avanzata dei nipponici, n‚ lo desiderava oltre misura preferendo la
sconfitta di Mao Tse-tung. I giapponesi erano armati fino ai denti, mentre i soldati cinesi non avevano che
armi scadenti, uniformi lacere e scarpe di pezza. La città sarebbe potuta capitolare da un giorno all'altro,
per cui le famiglie dei diplomatici esteri se ne allontanarono per trasferirsi in luoghi più sicuri.
Edda invece volle restare. Nella sua decisione concorrevano amore per il rischio, una sventatezza
giovanile e un innato senso teatrale: un tratto, questo, dello spirito del padre da lei pienamente ereditato.
E in quel frangente Woodhead poté esclamare: La prima signora di Shanghai non lascia la città!.
Un foglio locale in lingua inglese pubblicò questa definizione sotto una grande foto dell'ardimentosa
contessa italiana. Deda non soltanto non si allontanò da Shanghai, ma volle più volte recarsi sul terreno
degli scontri per assistere impavida ai combattimenti, ammirando l'efficienza delle truppe giapponesi e
commiserando i poveri soldati cinesi.
Edda fu l'iniziatrice di importanti cene protese a facilitare Galeazzo nel compito di incrementare i
rapporti commerciali fra Italia e Cina. I margini di manovra per gli italiani apparivano assai ristretti, in
quanto i commerci erano dominati da inglesi, francesi, americani, i quali, a differenza del governo di
Roma, godevano in Asia d'un grande prestigio politico. Edda mostrava particolare attenzione per un
ragguardevole personaggio, Chang Hsueh-liang, il governatore delle regioni di Pechino e di Jehol, oltre
che della Manciuria, cioè dei territori economicamente e strategicamente più importanti della Cina.
Chang era chiamato il giovane maresciallo e veniva considerato l'uomo forte della Cina, secondo solo a
Chiang Kai-shek.
Edda lo aveva conosciuto in piena guerra cino-giapponese nel corso di una colazione che era stata indetta
a Pechino per accogliere i componenti di una commissione della Società delle nazioni. Ventiduenne e
attraente, Deda gli sedeva di fronte, e il giovane maresciallo, sogguardandola, si lisciava i baffi alla
mongola affascinato dall'avvenenza fisica e dalla spigliatezza della conversazione di cui la contessa faceva
sfoggio. Forse ignaro, forse incurante dell'etica severa o ipocrita che caratterizzava presso gli occidentali
le relazioni tra i sessi, non seppe contenersi, e alla fine le si offrì come cavalier servente per farle da
cicerone nel Palazzo d'Inverno e nell'intera Pechino.
La contessa aveva già in mente un piano in sintonia col suo gusto per i flirts e con un'istintiva civetteria.
Accettò l'invito e per molti giorni fu vista al braccio del giovane maresciallo nei luoghi più celebrati della
città. Spesso Chang era loro ospite a cena, accolto con infinita cortesia intorno a una tavola imbandita
come non mai, fra pietanze sopraffine, vino rosso di Toscana e champagne di grandi marche francesi.
Deda sapeva che il suo corteggiatore doveva trattare l'acquisto di uno stock di aerei per conto
dell'aviazione cinese, e una sera lanciò l'amo. Maresciallo, gli disse, so che la vostra aviazione ha bisogno
di nuovi aeroplani per fronteggiare l'aggressione giapponese. Potreste acquistarne alcuni di
fabbricazione italiana.
Ve li garantisco come i migliori del mondo. Ne ordinerò tre" rispose il maresciallo senza farsi pregare
oltre. Galeazzo pensò che il maresciallo l'indomani si sarebbe dimenticato della promessa. Ma dovette
ricredersi perché Chang nel giro di pochi giorni ordinò effettivamente all'industria aeronautica italiana i
tre aerei di cui aveva parlato con Edda. Galeazzo le fece i complimenti più vivi per il bel colpo che stupì
tutti e mise a terra i concorrenti. I rappresentanti della Francia e degli Stati Uniti, che stavano trattando
lo stesso affare, rimasero infatti con un palmo di naso. Erano stati battuti sulla dirittura d'arrivo da una
bella donna, ma cavallerescamente non mancarono di rendere omaggio al suo fascino.
Lo champagne provocava uno strano effetto in Galeazzo.
Con le sue bollicine esso era come una macchina del tempo che lo riportava a qualche anno addietro, al
'27, al momento del suo primo incarico in Cina, appena ventiquattrenne. Erano i giorni in cui a Shanghai e
a Pechino frequentava intimamente una trentunenne signora americana Bassie Wallis Warfield, implicata
nei servizi segreti, moglie infelice d'un conterraneo, Winfield Spencer, che era al comando d'una
cannoniera Usa nel porto di Hong Kong e poi di Shanghai. Questo Spencer era un alcolizzato che
brutalizzava sadicamente la giovane Wallis, una donna attraente sebbene non di grande bellezza, vivace e
stravagante, dai gusti raffinati, un po' intristita dalla condotta folle del marito. Ogni volta che Galeazzo
portava al le labbra un bicchiere di champagne ancora ricordava gli occhi azzurri dell'americana - il blu
Wallis, si diceva nell'ambiente - e una frase che lei ripeteva spesso: Bere champagne per farsi coraggio e
vino rosso per resistere.
Wallis, che era tornata per un certo tempo in America, aveva alla fine accettato di ricongiungersi al
marito in Asia credendolo sinceramente rinsavito, ma ancora una volta si trovò a competere con un
individuo più violento e più abominevole che mai. Il comandante Spencer aveva aggiunto nuovi capitoli
alle sue nefandezze, tanto da costringerla, in compagnia di altri ufficiali della stessa risma, a seguirlo nelle
sue scorribande tra i divani delle fumerie d'oppio, dei lussuosi bordelli chiamati Barche del fiore o Case
del canto dove si poteva assistere a danze sensuali e ascoltare canzoni erotiche.
Tra i colleghi di Galeazzo si diceva che il suo incontro con Wallis fosse avvenuto proprio in una di quelle
Case canore dove, soltanto a guardare, si imparava a far bene l'amore. A quell'incontro ne seguirono altri,
non casuali, e fra gli amici si commentava la loro conturbante love story arricchita dall'ammirazione di
Wallis per Mussolini. Si diceva anche che lei avesse magnetizzato Galeazzo al punto tale da rendergli
indifferente ogni altra donna, lui che si vantava di cogliere fior da fiore e che rivelava la tendenza a
comportarsi come un satrapo orientale. Wallis aveva già operato un'altra conquista totale fra gli italiani
in Cina, un bell'ufficiale di marina, Alberto Da Zara, un po' dannunziano, anche egli addetto all'ambasciata
d'Italia.
Più tardi, Wallis essendo riuscita a divorziare da Spencer si era ancora una volta sposata con un
connazionale, Ernest Aldrich Simpson, un ebreo titolare di un'impresa di trasporti marittimi. E con lui si
era trasferita a Londra. I colleghi di Galeazzo ora apprendevano che Wallis Simpson era entrata nelle
grazie del principe di Galles, Edward, l'erede al trono d'Inghilterra. Ciò contribuiva ottimamente a
completare il quadro delle loro maliziose insinuazioni sia sulle eccezionali capacità amatorie della
signora - che la pratica degli amplessi orientali aveva reso perfette - sia sulle fortune di Galeazzo in
amore e in politica. Proseguendo nelle malevoli allusioni, quei colleghi dicevano che la storia d'amore fra
il diplomatico italiano e l'attraente signora americana si era complicata con una gravidanza che tuttavia
Wallis non volle portare a compimento per non compromettere la possibilità di ottenere il divorzio dal
marito. Soggiungevano che in seguito a quell'aborto Wallis era diventata sterile.
Non soltanto tra pranzi e pranzetti più o meno conditi d'erotismo trascorrevano le serate cinesi degli
stranieri altolocati, ma anche tra partite a poker che si protraevano fino all'alba. Edda si appassionava al
nuovo sport attratta dal fascino dell'azzardo. Quando perdeva riaffiorava in lei, intorno al tavolo verde, il
tratto nascosto della sua personalità, quello plebeo e popolaresco. Sbottava in imprecazioni non sempre
sussurrate fra i denti, e se le vincite erano irrisorie afferrava il piatto¯ e se lo rovesciava addosso
esclamando: Ca c'est pour les domestiques!.
Diceva che il gioco le serviva per vincere la noia. Per vincere l'uggia di un soggiorno a Pei Tai-ho rimase
inchiodata al tavolo verde per un'intera notte. La perdita fu catastrofica. Lei non aveva più un soldo e non
sapeva come affrontare la situazione. Ma non aveva un marito?, si chiese. E a lui ricorse inviandogli a
Shanghai un telegramma che in realtà sapeva un po' di commedia: Sono disperata. Ho perso quattromila
dollari messicani a poker. Mi ucciderò. Galeazzo non si fece ingannare e, pur assicurandole l'invio della
forte somma, tenne nella risposta un tono scanzonato: Ti ho spedito quattromila dollari. Le bambine non
giocano a poker e soprattutto non si uccidono. Non si fanno queste cose.
Nell'ottobre del '31 Edda, a diciassette mesi dalle nozze, diede alla luce il suo primo figlio, Fabrizio. E un
maschio, signora contessa!, esclamò lietamente l'ostetrico mostrandole un bambino biondo e cicciottello.
Lei, di rimando: Meno male che s'è deciso a venir fuori. Non ce la facevo più. Quando aveva avuto la
certezza di essere incinta, ne scrisse al padre il quale le aveva inviato un telegramma con precedenza
assoluta: Ricevo oggi la bella attesa notizia che mi riempie di gioia e mi dà una viva emozione stop Da ora
innanzi penserò con più viva intensità a te. Già a metà settembre le scriveva: Attendiamo di giorni in
giorni con ansia tranquilla il fausto evento stop Anche quando non ti telegrafo penso spesso a te.
E ancora: La mamma est andata per quattro giorni a Carpena per raccogliere quanto ti occorrerà nel
prossimo evento credo anche la culla.
L'annuncio della nascita gli fu telegrafato immediatamente da Galeazzo: Evento est stato veramente
lietissimo. Il parto si è presentato tanto felice che dottore ha disposto avvenisse in casa anziché in clinica.
Edda come sempre ha dato prova di coraggio bellissimo. Bambino nato ore 13. Un robusto maschio che fa
sentire sulla voce con prepotenza et insistenza. Edda riposa tranquillamente et sta felice et orgogliosa
sua maternità. Romanticamente Mussolini le telegrafava: Stamani mentre inauguravo prima bella
Esposizione Arte Coloniale et mio pensiero errava verso paesi esotici ed orientali, mi giunse annunzio
felicissimo evento stop Ti mando i miei più affettuosi abbracci, le mie felicitazioni e gli auguri al pupo
tante cose a Galeazzo.
Nel comunicare la notizia alla moglie, Benito esclamò: Diventiamo vecchi, Rachele, siamo ormai nonni!,
ma non aveva che quarantotto anni. Era non meno preoccupato dal punto di vista pubblico per la sua
nuova condizione, tanto da disporre che i giornali non parlassero mai di nonno Benito. Avevano l'ordine
di presentarlo come il princeps juventutis poiché i fascisti, e più che mai il loro capo, dovevano avere
sempre vent'anni. Galeazzo, per dovere di ospitalità e per convenienza diplomatica, assegnò al neonato
un padrino cinese, Chang Su-lin, un autorevole esponente anticomunista amico di Chiang Kai-shek.
Mussolini scriveva alla figlia: Tutti i giornali hanno dato l'annunzio nascita pupo con parole gentili stop
Anche il Re et la Regina mi hanno telegrafato stop Abbraccioti Mussolini. Il Popolo di Roma scriveva: E
con infinita e sincera affettuosità che l'Italia fascista saluta il lieto evento nella casa di Edda e di Galeazzo
Ciano e prende viva parte alla loro pura gioia. Al conte Galeazzo Ciano di Cortellazzo, che così
degnamente rappresenta l'Italia in Cina, alla sua eletta Consorte e alla gentile creatura, nelle cui vene
scorre il sangue di due forti Famiglie, giunga nella lieta e fausta circostanza la eco dell'intima e sentita
gioia di tutto un popolo.
I Ciano avevano scelto per il bambino il nome di Fabrizio senza parlarne con il duce, e anche questa
doveva essere una prova della loro raggiunta indipendenza. Era un nome con la zeta, una caratteristica
dei maschi di casa Ciano: Costanzo, Galeazzo, e ora Fabrizio. Mussolini, come fece sapere in un
telegramma, avrebbe preferito che il bambino si fosse chiamato Guido o Giorgio, in quanto gli
sembravano due nomi semplici e forti. Per prendere tempo Galeazzo gli rispondeva: Nome non ancora
deciso ma pare Fabrizio. Il duce voleva dimostrare di essere sempre lui a comandare, anche a migliaia di
chilometri di distanza. Intendeva riaffermare una continuità nelle generazioni, quasi che il neonato
dovesse essere un Mussolini e non un Ciano.
Non la spuntò poiché i Ciano ruppero gli indugi e scelsero il nome di Fabrizio. Allora Mussolini ebbe un
colpo d'ala, e disse che accettava Fabrizio purché fosse scritto con due b¯. Spiegava le ragioni di ciò in un
nuovo telegramma: Sì, ma con due b affinché si ricordi che è nipote di un fabbro ferraio.
Fece poi diffondere questo telegramma dai giornali volendo solleticare gli istinti populisti degli italiani ed
esaltare i cromosomi di Predappio rispetto a quelli di Cortellazzo. Non la spuntò neppure sulla doppia b,
e non gli rimase che accettare la scelta di Fabrizio: E un bel nome che suona benissimo col cognome.
Quindi inviò al piccolo la tessera di Balilla. Galeazzo, ancor più di Edda, si era fatto tanto ardito sul
terreno dell'indipendenza da imporre al figlio per secondo nome quello di Costanzo e soltanto per terzo
quello di Benito. Tuttavia Fabrizio venne ben presto chiamato Ciccino.
Mussolini finì con accettare anche quel nomignolo familiare: La mamma ti manda una piccola somma
perché tu possa fare un regalo a Ciccino, anche perché ho capito che Ciccino è degno di noi tutti.
Rachele le inviava qualcosa di più d'una piccola somma, anche cinquemila lire ogni volta, attraverso
l'Istituto italiano di credito marittimo.
Il bambino, trascorso un periodo di nervosismo, aveva preso a dormire placidamente, tanto placidamente
che i genitori se ne preoccuparono. Non piangeva più e teneva la testolina ripiegata sul petto.
Chiamarono un medico, il quale scoprì la ragione di tutto quel sonno: la balia, per non sentirlo urlare, gli
propinava insieme al latte una pozione d'oppio.
Il duce si rendeva conto che la distanza sconfinata giocava a suo sfavore nei rapporti con la figlia, e
cercava di recuperare un ruolo con l'uso continuo del telegrafo. Per rendere più rapidi i tempi di
trasmissione chiese a Marconi di instaurare un ponte radio fra Roma e Shanghai. I telegrammi erano
sempre diretti alla figlia, il conte era citato di sfuggita in coda ai testi all'atto dei saluti, ma comunque il
vero protagonista era sempre lui, il duce. Via via le dava notizie della famiglia e degli eventi più vari, la
rassicurava sulla salute di Rachele: La mamma sta meglio e se si decidesse ad andare in alta montagna
come le viene raccomandato dalla unanimità dei medici guarirebbe più presto¯.
Le parlava del giornale fondato da Vittorio, La Penna dei ragazzi, che nel dicembre del '30 era già al
secondo numero e che riscuoteva un successo folle. Nel preannunciarle l'invio di ritagli interessantissimi
del giornalino, gioiva per il fatto che se n'era occupata tutta la stampa nazionale e anche estera.
Poi scriveva: Oggi 7 Xbre siamo andati alla classica partita Roma-Lazio stop Enorme pubblico tutto a
favore della Roma risultato uno a uno nel campo della Roma al Testaccio stop Io come al solito tiro la
carretta colla quale ti abbraccio ricordami a Galeazzo stop Mandaci un album colle vedute di Shangai
Mussolini. Le dava altre notizie di sport: La nazionale italiana ha battuto clamorosamente la nazionale
francese a Bologna con cinque a zero dico zero stop Noi abbiamo seguito alla radio la partita e abbiamo
fatto un tifo notevole¯. E qualche settimana dopo: Finalmente Italia ha battuto Austria nella odierna
partita con punteggio tre a uno stop Però arbitro non ha riconosciuto un punto stop Grande entusiasmo¯.
Non le parlava soltanto di calcio, ma pure di pugilato che Edda seguiva con passione. Novità nessuna
eccetto arrivo Carnera a Roma che combatterà - pare - con Paolino stop Sarà interessante abbraccioti.
Tornava a battere sul tasto che gli era caro, quello di un Mussolini gran lavoratore, e ripeteva: Io tiro il
birroccio come al solito.
Difatti da Milano, città del fascio primogenito e città del lavoro, gli era pervenuto il titolo di Primo
Lavoratore d'Italia e da d'Annunzio la definizione di faticone nazionale.
Agli inizi del gennaio '31 le rivolgeva una preghiera, parlandole di Rachele: La mamma va meglio e se tu
Edda le ordinerai tassativamente di andare a Merano la convalescenza sarà rapidissima stop Io non le
dirò nulla per non ottenere un effetto tassativamente contrario. Rachele accettò sia i consigli sia gli
ordini, e Mussolini scriveva alla figlia: La mamma si è finalmente decisa a partire per l'Alto Adige dove
guarirà del tutto¯. Dai telegrammi Deda apprendeva anche che Tampussino [Romano] era delizioso, che
Anna Maria era molto carina, che La Penna dei ragazzi andava a gonfie vele con 200 abbonati finora e ben
1500 copie settimanali, che Vittorio era diventato un ragazzo molto serio da quando era direttore e
fondatore di un giornale stampato¯.
L'inverno era aspro dal punto di vista economico¯, ma stava per finire e la situazione migliorava.
Tempo morale discreto, commentava Mussolini. Anche a villa Torlonia le cose andavano nel complesso
bene¯. Bruno e Vittorio studiavano molto ed erano cambiati da quando lui, come scriveva alla figlia, si
faceva mandare dal preside della scuola un rapporto quotidiano sulla loro condotta e profitto. Era certo
della loro promozione e ironizzava sul fatto che sarebbero voluti andare a trovare la sorella in Cina, come
se niente fosse.
All'improvviso, la Penna dei ragazzi¯ subiva una sospensione: Sono a darti nostre novelle stop Vittorio e
Bruno sono passati, con una buona votazione ragione per cui hanno sospeso "La Penna dei ragazzi" e
saranno premiati con un fuoribordo da impiegare a Riccione stop Manda il nome da dare al fuoribordo
stop Io avevo proposto Fiammifero stop Credo che verso fine mese tutti andranno in Romagna e poi a
Riccione stop La mamma già sta facendo i bauli stop Sono caduto da cavallo e ne ho avuto per giorni 15 di
rottura di scatole¯.
Definiva eccezionale la maturità fisica e morale dei figli, eccezionale il loro comportamento, sia che si
trattasse di scorrerie con i motoscafi - Vittorio e Bruno sono a Riccione dove furoreggiano col fuoribordo
- o di imprese automobilistiche e di flirts estivi: Vittorio qua e là flirteggia, per tutto il resto all quiet,
come era all quiet on the italian-vatican front. Ricorreva l'anniversario della conciliazione fra la Chiesa
cattolica e lo Stato italiano da lui sottoscritta accanto al cardinale Gasparri, e in quell'occasione le
scriveva: Stamani Sua Santità mi ha chiesto tue notizie e si è molto interessato di voi stop Mandagli un
telegramma di ringraziamento. Anche questo era un modo di comunicare alla figlia il senso della sua
presenza. Edda lo tranquillizzava: Ho telegrafato per ringraziare Sua Santità, e gli inviava copia del
telegramma: Da Pechino ore 17,58 per Eminentissimo Cardinale Pacelli Città del Vaticano stop Mio Padre
mi ha informato benevolo interessamento di Sua Santità nei miei riguardi stop Prego Vostra Eminenza
far pervenire al Santo Padre espressioni mio animo grato stop Ossequi Edda Ciano Mussolini.
L'Italia continua ad essere un'oasi di tranquillità fra tutto il mondo in tempesta; la nostra piccola Europa
è sempre in movimento dal Manzanarre al Reno, le scriveva il padre, mentre esaltava i progetti dei figli:
Vittorio e Bruno stanno preparando un raid automobilistico su Balilla fra Tripoli-Mogadiscio
attraversando Egitto, Abissinia, Somalia stop Vittorio andrà munito di macchina fotografica e medita di
scrivere un libro sull'Africa vista da un ragazzo stop Io lavoro come sempre, con una parentesi di mare a
Castelporziano stop Salutami Galeazzo, baciami Fabrizio e ricevi tanti pensieri affettuosi da tutti noi
Mussolini.
Quindi riaffiorava il protagonista, il duce: Mi duole che non abbiate potuto sentire il mio speech inglese
del capodanno stop Mi sentirete però nel Foxfilm e quando avrete visto il mio cinespeech telegrafate.
Non mancava di lamentarsi perché da Shanghai non riceveva risposta ai suoi dispacci: Mi piacerebbe di
sapere magari con un telegramma di una sola parola se i miei telegrammi vi arrivano. Galeazzo un giorno
aveva scritto alla suocera, e il duce commentava: Mi sono sentito persino commosso agli elogi che tuo
marito fa di te a Rachele stop Bene, approvo stop Brava, tieni alta quella volontà che è prerogativa
mussoliniana.
Edda in una delle sue rare lettere al padre aveva azzardato alcune considerazioni di carattere politico.
Egli le telegrafò immediatamente giudicando molto sagge quelle osservazioni ed esprimendole piena
soddisfazione: Non avrei mai creduto che Edda sarebbe diventata così brava e attenta e me ne
compiaccio vivissimamente stop Di tutto ciò che scrivi terrò grande conto stop Ho preso nota delle tue
osservazioni stop Ho ricevuto seta cinese.
Che cosa gli aveva scritto Edda? Gli aveva espresso la sensazione che il fascismo stesse facendo dell'Italia
una caserma, e che, dovendosi attribuire la colpa di ciò al nuovo segretario del partito Achille Starace,
pregava il padre di non dare troppo spago a quel rozzo ras di Gallipoli. Diceva: Forse i sergenti sono
necessari, ma io non li amo.
Lei aveva nutrito l'aspirazione di vedere il marito, e non Starace, alla segreteria del partito, sebbene
questa eventuale destinazione riuscisse sgradita a Galeazzo. Probabilmente non avrebbe avuto neppure
la stoffa, in quanto su quella poltrona si erano avvicendati personaggi che avevano menato le mani per
imporre il fascismo al paese, mentre Gallo, che apparteneva alla seconda generazione fascista, aveva
nutrito ambizioni artistiche.
Mussolini non trascurava di celebrare le ricorrenze che riguardavano la figlia prediletta. Il primo
settembre Edda aveva compiuto ventun anni, e lui le aveva telegrafato: Ti ricordo con moltissimo affetto
in questo primo settembre che ti vide nascere in una povera casa di Forlì, e fu una festa e una
grandissima gioia. Le spediva sue fotografie con tenere dediche, sebbene firmate col cognome: A Edda,
con affetto da suo papà Mussolini¯. Una delle foto lo raffigurava in divisa di caporale d'onore della milizia
mentre passava in rassegna cinquantamila avanguardisti in uno degli annuali campi Dux.
Edda gli inviava alcune foto di Ciccino, e lui subito rispondeva: Ho ricevuto belle foto del pupo.
Poi aggiungeva: Giornali inglesi hanno pubblicato tue fotografie mentre visiti la grande muraglia stop
Deve essere interessante e mi piacerebbe conoscere le tue impressioni stop I ragazzi studiano e
passeranno stop Ho sentito al telefono la voce di Galeazzo ma non ho potuto distinguere le parole.
Sperava in un miglioramento delle comunicazioni, e alla figlia annunciava: Presto funzionerà una linea
aerea Berlino-Nankino con volo della durata di appena quattro giorni stop Questo varrà ad avvicinarci
almeno dal punto di vista postale. Con corriere diplomatico via mare le faceva pervenire periodicamente
pacchi di cartoncini e di buste con impresso lo stemma nobiliare dei Ciano. Le inviava anche qualche libro
e, fra gli altri, gliene spedì uno di Achille Campanile, In campagna è un'altra cosa. Le scrisse: Ti divertirai,
Mussolini.
In Cina Edda e Galeazzo seppero dare l'immagine di due piccioncini innamorati. Tubano in
continuazione¯, dicevano di loro gli amici. Ma non mancavano attriti e litigi, nei quali lui si rivelava
violento e manesco sotto una parvenza di uomo molle e fiacco, mentre lei si mostrava mansueta e
sottomessa sebbene presentasse un'idea esteriore di donna indocile e ribelle. Edda diceva che il marito in
casa faceva sempre valere la sua autorità e che lei non lo contrastava mai, per evitare le sue esplosioni di
collera. Lei si riteneva sottomessa a Gallo molto più di quanto non lo fosse Chiletta a Benito.
Galeazzo, che era già stato promosso da console a inviato straordinario e ministro plenipotenziario,
tornava a Shanghai da un viaggio a Pechino, quando fu colpito da un attacco d'asma. Le sue cattive
condizioni di salute erano aggravate dal fatto che aveva cominciato a soffrire di un'affezione all'orecchio
che richiese un paio d' interventi chirurgici. Ne portava una cicatrice a sinistra, sotto l'orecchio e accanto
alla mascella. Talvolta, sentendosi soffocare, era costretto a tenere la bocca aperta per un paio di minuti,
offrendo uno spettacolo assai buffo. Un giorno a tavola venne in mente a Edda di imitarne il forzato
sbadiglio, senza cattiveria, un po' da sbarazzina, così per gioco.
A lui saltò la mosca al naso, poiché vide riflessa nella scimmiottatura la sua mollezza. Senza pronunciar
verbo prese un portacenere e lo scagliò contro la moglie, mancandola per puro caso. Lei ne ebbe paura
perché quel gesto rivelava come non mai l'aspetto collerico del carattere del marito e ricordava come da
ragazzo avesse scagliato contro un compagno, col quale era venuto a diverbio, una grossa scheggia di
granata che si trovava sulla scrivania del padre.
La Cina appariva a Edda come un alveo naturale e, se avesse potuto, non se ne sarebbe mai più
allontanata. Il padre invece la voleva nuovamente in Italia, non potendo più reggere alla lontananza.
Quindi cominciò a progettare un ritorno dei Ciano in patria. Sulle prime i suoi erano sondaggi discreti, da
buon padre; poi parlò da capo del Governo, che si rivolgeva a Galeazzo come un incaricato d'affari alla
scadenza della missione all'estero. Già nel settembre del '32 rivelava alla figlia che stava per richiamarli:
Ho intenzione di farvi ritornare in primavera e resterete a Roma in attesa di destinazione stop Dopo 30 e
più mesi di Cina un po' di riposo vi farà bene stop Sono lieto che l'estero abbia aumentato la temperatura
del tuo fascismo stop Est unica cosa potente e originale del secolo attuale stop Un abbraccio a te, un bacio
a Ciccino e tante cose a Galeazzo, non dimenticare di datare le tue lettere.
Un altro personaggio con le stimmate del dittatore si affacciava sulla scena europea. Era Adolf Hitler.
La notizia della sua nomina a cancelliere tedesco aveva fortemente e positivamente impressionato Edda,
la quale aveva esclamato: E' qualcosa di straordinario!¯. Lo ammirava perché veniva dal popolo come il
padre. Giudicava degna di grande considerazione l'opera di un uomo che per un decennio, dal momento
del Putsch di Monaco, aveva combattuto in Germania con l'obiettivo di abbattere la repubblica di
Weimar. Aveva sì fatto perno su atteggiamenti esibizionistici, grandiose scenografie, violente
predicazioni demagogiche; aveva sì sfruttato sia la rabbia delle masse per il trattato capestro di Versailles
sia la grave crisi economica che prostrava il paese, ma lo aveva fatto per il trionfo del nazionalsocialismo.
Era riuscito nel suo intento così come suo padre dieci anni prima aveva trionfato in Italia per un ideale
cui Hitler mostrava di ispirarsi. E difatti egli si dichiarava apertamente allievo di Mussolini.
Entrambi intendevano modificare gli equilibri delle nazioni in Europa, in nome d'una revisione politica
antiliberaldemocratica dei trattati e delle alleanze. Ma il fare minaccioso di Hitler preoccupava Mussolini.
Di questa preoccupazione si faceva interprete Galeazzo che non condivideva l'entusiasmo della moglie.
Così alla notizia
dell'ascesa di Hitler si era messo le mani nei capelli esclamando: Mio Dio, è una catastrofe!.
Si avvicinava il giorno del ritorno dei Ciano in patria.
Edda era fuori di sè, furente di dover lasciare un paese pieno di fascino, e ancor più furente perché, pur
non essendosi ancora abituata al primo figlio, già ne aspettava un secondo. Messo al mondo Ciccino si era
ripromessa di non averne altri, e ora vedeva sconvolti i suoi piani. Alla malora la politica demografica di
Mussolini! Ricordava come il padre le parlasse dell'espandersi delle razze gialle e nere, e come di fronte a
tale fenomeno fosse dovere dei bianchi il proliferare senza posa per non scomparire dalla faccia della
terra. Non ti sembra ridicola le diceva la predicazione di quel Malthus il quale, nonostante le sue
catastrofiche previsioni, mise al mondo ben quattordici figli?
Sono i soi-disant intellettuali a non voler figli!
Edda ebbe però un attimo di terrore alla notizia che ancora una volta avevano tentato di assassinare il
duce il giorno in cui inaugurava sul Gianicolo il monumento equestre ad Anita Garibaldi. Dovette
tranquillizzarla lui stesso sdrammatizzando l'episodio: Hanno arrestato in tempo utile il solito
reazionario che voleva commettere la sciocchezza di lanciare il solito paio di bombe al mio passaggio in
occasione delle celebrazioni di Anita stop Niente di fatto tutto normale stop Ti telegrafo nel caso che ti
giungessero deformate novelle¯.
Grande era il trambusto dei preparativi per il loro ritorno in patria tra festini, abbracci e lacrime.
Da lontano il padre seguiva anche questi aspetti del tutto insignificanti della vita di Edda: So che il
banchetto di commiato sarà imponente stop Molto bene per Italia e per voi¯. Non sapeva però che Chang
Hsueh-liang, quel giovane maresciallo cinese intimo amico della figlia, aveva offerto ai partenti uno
strano ricevimento. Chang li accolse per la cena d'addio nella sua camera da letto, imbottito d'oppio e
avendo al fianco sia la moglie legittima sia una giovanissima amante. Edda si chiedeva ammirata chi mai
in Europa avrebbe potuto indire una simile cena. Il trambusto degli ultimi giorni in Cina non aveva
lasciato molto spazio alle riflessioni dei Ciano, e soltanto a bordo del piroscafo che li riportava in Italia
furono invasi da un'incontenibile tristezza. Sbarcarono a Brindisi alla fine del giugno '33, dopo aver
trascorso fra Shanghai e Pechino due anni e otto mesi.
Roma apparve ben misera cosa al loro sguardo e ben poco rinnovata, in contrasto con quanto Mussolini
aveva scritto alla figlia: Qui in Italia si lavora abbastanza e quando tornerai Roma, che ha già superato il
milione di abitanti, ti apparirà del tutto nuova o quasi. Nonostante la sensazione riduttiva dei Ciano, la
città era al centro dell'enfasi urbanistica del regime e attirava gente da ogni luogo d'Italia come una
possente calamita, tra sventramenti, stemmi retorici, aquile littorie, edifici pubblici monumentali
improntati a un'antica immaginaria idea di Caput mundi. Altre città subivano un processo di
romanizzazione. Comparivano scalinate, colonne, archi, porticati giganteschi in scenografie
magniloquenti. E ancora statue grandiose accanto a mura decorate, affrescate e mosaicate dal genio
allegorico di Sironi, Fontana, De Chirico; dovunque emergeva l'esaltazione mussoliniana con le torri
squadrate del fascio, le nevrotiche mostre della rivoluzione, i busti eroici del Duce, Dux, il suo profilo
maschio che compariva fin sul parabrezza dei tram, come un'immagine sacra.
A Roma, la stessa nuova arteria, cui era stata attribuita la denominazione di via dell'Impero nella
ricorrenza del Decennale del fascismo al potere, non impressionò oltre misura i Ciano, i quali avevano
ancora negli occhi l'immensità della Cina. L'arteria consentiva di scorgere il Colosseo da piazza Venezia
che nella retorica del regime era diventata l'umbilicus novae Urbis. La collina della Velia, la verruca¯
come l'avevano spregiativamente chiamata i giornalisti e che si addossava alla basilica di Massenzio, era
stata rasa al suolo disperdendo giardini e storiche costruzioni. Mussolini aveva detto che tutto il
pittoresco sudicio era stato affidato a S.M. il piccone perché lo abbattesse in nome della decenza,
dell'igiene e del nuovo volto di Roma. Usava di persona il piccone asserendo che finalmente Roma aveva
una strada adatta alle grandi parate militari che fino a quel momento si erano dovute tenere in periferia o
in campagna. Via dell'Impero, gli faceva eco Vincenzo Cardarelli, potrebbe anche chiamarsi via del
Consenso.
Era davvero cambiata Roma?, si chiedevano Deda e Gallo, anche davanti al bianco obelisco del Foro
Mussolini. Lei se ne uscì con una battuta: Gli obelischi sono un simbolo fallico delle dittature. Sempre in
posizione eretta!. Se non era cambiata Roma stava certamente cambiando l'Europa, soprattutto sotto la
spinta acceleratrice di Hitler. I Ciano non avevano ancora una propria casa a Roma ed erano ospiti del
vecchio Costanzo, con qualche tensione perché Deda non sopportava la suocera, la contessa Carolina, cui
aveva subito appioppato l'epiteto di bertuccia.
Comunque essi erano tornati soddisfatti del lavoro svolto in Cina e si aspettavano un immediato
riconoscimento politico e non soltanto di routine diplomatica. Già li rodeva l'ambizione di entrare nella
macchina politica del regime. Mussolini però aveva preannunciato al genero che in patria avrebbe dovuto
attendere qualche tempo prima di ottenere un nuovo incarico. I giorni si trascinavano con un Galeazzo
depresso e travagliato. L'impazienza ti consuma, gli diceva la moglie. Egli si aggirava nervosamente per
casa, lamentandosi: Mio Dio, come sono stufo! Cosa faccio tutto il santo giorno? Niente, e invece potrei
fare tante cose! Che rabbia!¯. Aveva i nervi a fior di pelle; anche Edda scalpitava proprio come una
cavallina matta. Andò dal padre e gli disse a bruciapelo: Stammi a sentire. Fa pure quello che vuoi,
mandalo dove ti pare, ma dagli un lavoro. Non ce la facciamo più a starcene con le mani in mano.
Non era proprio vero che Galeazzo trascorresse giornate vuote. Nello stesso mese del loro arrivo, fu
difatti inviato a Londra con un incarico ufficiale e una missione riservata. Ufficialmente doveva
partecipare ai lavori d'una conferenza economica internazionale, riservatamente doveva prendere
contatto con il ministro delle Finanze cinese Soong Tse-wen, che aveva conosciuto a Pechino, per favorire
la conclusione d'un importante accordo finanziario fra l'Italia e la Cina.
Edda a Roma si era trovata a dover incrociare le armi con il padre che voleva riprendere su di lei il pieno
sopravvento d'una volta, di quando l'aveva vicina, ed esercitare tutta intera un'autorità venata
d'insondabili sentimenti. Lei si ribellava. Aveva sperato di trovare un alleato nel marito, ma si era
sbagliata. Galeazzo non pensava che alla sua carriera. Vanesio, amava soltanto se stesso. Non coglieva le
crisi psicologiche della moglie, per cui si preoccupava più del duce che di lei. Lo accecavano narcisismo e
superficialità, e non sapeva quanto fosse prigioniero del suocero che gli appariva come il modello da
imitare. Immaginava di esserne il delfino naturale, mentre Edda, irritata, diceva che Galeazzo per darsi un
tono d'importanza scimmiottava Mussolini sia nel modo di parlare sia negli atteggiamenti.
Il duce, nella ricerca di un nuovo incarico per il genero, decise di nominarlo capo del suo Ufficio stampa
personale, memore della passione giornalistica che in Galeazzo non si era mai del tutto sopita.
Lo distaccò quindi dal ministero degli Esteri e lo trasferì alle dipendenze della presidenza del Consiglio.
In tal maniera dimostrava ancora una volta alla figlia e al genero che la loro fortuna stava tutta nelle sue
mani, nel senso che Galeazzo per far carriera doveva passare sotto le sue forche caudine. All'Ufficio
stampa era affidato il compito di propagandare le idee e le imprese del fascismo, e soprattutto di
consolidare il mito del duce sia attraverso una continua pressione su giornali e riviste - anche con l'invio
di articoli già confezionati e di foto di Mussolini a lui gradite- sia mediante la corresponsione di sussidi
più o meno lauti a giornali e giornalisti, oltre che a scrittori. Questo lavoro soddisfaceva enormemente
Galeazzo che, da toscano, lo svolgeva con lo spirito d'un antico e munifico principe rinascimentale.
Del resto in Cina aveva affinato le sue naturali doti di grande charmeur sostenute dalla vanità di piacere a
una platea sempre più numerosa. Come affascinatore provava lo stesso gusto dell'autore di teatro nei
tempi della prima giovinezza.
Intorno a lui e a Edda si formò una corte di gente pronta a tutto, anche se poi, nel tentativo di mettersi in
pace con la coscienza, molti di quei beneficiati si rifacevano diffondendo a piene mani malignità e
pettegolezzi sul loro conto, moglie e marito. La barzellettistica del regime aveva nuova materia.
Al cospetto delle disavventure di Galeazzo, perfino Starace, bersaglio preferito di ogni facezia, sbiadiva
miseramente. Circolò subito una battuta: Sai che differenza passa fra la Sardegna e Ciano?... La Sardegna
ha la Grazia Deledda e Ciano la Disgrazia dell'Edda!. Una disgrazia che traeva origine soprattutto dai
molti amori attribuiti alla giovane contessa. Correvano altre facezie più spietate: Fra due diplomatici il
discorso cadde su Galeazzo. Uno di essi esclamò: "A proposito di Galeazzo, quell'uomo non è proprio
capace di fare nulla!". "Non è vero, il cornuto lo fa benissimo." "Ma che dici! Anche in questo lo aiuta la
moglie!". Oppure: Un gerarca muore e va all'inferno. Capita in una bolgia in cui i dannati ruotano
continuamente su se stessi. Chiede a Minosse: "Chi sono questi?". "Sono gli adulteri!" Il gerarca alza lo
sguardo e vede qualcosa girare vorticosamente.
"Ma all'inferno ci sono i ventilatori?" "Macchè. Quella è la contessa Edda Ciano!"
All'incostanza della moglie, lui reagiva moltiplicando i suoi amori. Edda non se ne preoccupava e
chiamava piccoli flirts le infedeltà di Galeazzo. Gallo può divertirsi come vuole. Per me la cosa non ha
alcuna importanza, confidava alle amiche, riconoscendogli perfino il buon gusto" di scegliersi donne
belle. Gallo invece soffriva per la condotta della moglie. Protestava e Deda lo chiamava manesco, collerico
e geloso¯, come se non ne avesse tutte le ragioni. Galeazzo non apprezzava neppure che lei al mare
indossasse costumi succinti. Edda ne aveva acquistato uno assai risicato, e una mattina lo esibì sul lido di
Ostia, a Castel Fusano, certa che il marito, rimasto a Roma, non l'avrebbe vista. Ma per caso Galeazzo
verso mezzogiorno arrivò anche lui sulla spiaggia. Rimase di stucco.
Salutò frettolosamente i presenti e quindi si rivolse alla moglie con tono perentorio: Vieni un attimo in
cabina, devo dirti qualcosa. Appena furono a quattr'occhi la investì urlando: Non ti vergogni di farti
vedere col culo scoperto? Ti proibisco di conciarti così! Togliti quel coso e metti un costume più decente.
Concluse l'intemerata con due schiaffoni da svitarle la testa, come disse Edda raccontando la cosa alle
amiche.
La pressione del regime sulla stampa si completava con l'invio di veline alle redazioni, con telefonate
personali e con la convocazione dei giornalisti presso l'Ufficio stampa del governo. Per il consolidamento
del mito mussoliniano Galeazzo era in costante contatto con il suocero. Più volte al giorno si recava a
rapporto da lui nel salone del Mappamondo a palazzo Venezia, ma rimanendo sempre impalato,
pressoché sull'attenti davanti al suo tavolo. Immodestamente Mussolini alimentava in prima persona il
mito di se stesso. Una volta al teatro Augusteo aveva esclamato: Italiani! Siate orgogliosi di vivere nel
tempo di Mussolini!¯. Con Galeazzo era assillante. Non gli bastava di convocarlo innumerevoli volte nel
suo studio durante la giornata, ma già alle sei del mattino lo svegliava dopo aver letto i giornali, gli
impartiva al telefono le prime istruzioni e lo rampognava se la stampa non aveva fatto il suo dovere.
Il giovane conte si trovò a svolgere un ruolo di grande rilievo che in passato era stato ricoperto da
personaggi di spicco come Cesare Rossi - che poi aveva rotto col fascismo nella temperie del delitto
Matteotti -, come Lando Ferretti e Gaetano Polverelli. La nomina a capo dell'Ufficio stampa significava per
lui, appena trentenne, l'assunzione di grandi responsabilità non burocratiche ma eminentemente
politiche. Si poteva presumere che fosse in grado di assolvere bene il compito, grazie alla sua passione
giornalistica e al fatto di aver ereditato dal padre, ministro delle Comunicazioni, il gusto per i problemi
dell'editoria, della stampa, della radio, del cinema e dello spettacolo visti in chiave di propaganda politica.
Per di più, Galeazzo rivolgeva un'attenzione particolare al servizio di censura, compresa la censura
telefonica, che era preposto al controllo delle corrispondenze trasmesse dai giornalisti esteri alle loro
redazioni.
Forte si era fatta la tensione in Europa con l'ascesa di Hitler al potere. Inizialmente Mussolini aveva
aiutato con l'invio di armi e di denaro il movimento nazionalsocialista, ma in seguito i rapporti fra i due
regimi subirono varie oscillazioni. Anche in altri paesi europei, ad esclusione della Francia e
dell'Inghilterra che si mantenevano fedeli ai princìpi democratico-parlamentari, si verificava uno
spostamento a destra dell'asse politico mediante l'affermazione di governi autoritari.
Venne a Roma Joseph Goebbels, un giornalista al quale Hitler aveva affidato il ministero della Propaganda
e dell'Informazione, ed ebbe lunghi colloqui col giovane conte. Edda fu splendida con l'ospite tedesco,
applicando in Europa quanto aveva appreso alla scuola cinese delle relazioni umane. A Shanghai il suo
carattere tendenzialmente aspro e spigoloso si era addolcito. Galeazzo e Goebbels apparivano molto
diversi tra loro. Troppo molle il primo, troppo ossuto il secondo. Perfino le deformazioni fisiche di cui
soffrivano evidenziavano la loro diversità. I piedi piatti accentuavano la femminilità di Galeazzo, mentre
il piede equino rendeva Goebbels luciferino, al punto da meritare l'appellativo di piccolo diavolo zoppo¯.
Erano tuttavia accomunati dalla passione per il teatro poiché da giovane anche il ministro tedesco aveva
scritto un paio di commedie. I Ciano invitarono a cena Goebbels il quale mostrava di gradire la loro vivace
compagnia.
Edda era incinta, ma ciò non le impediva di essere una gentile e premurosa padrona di casa, anche perché
la gravidanza non era appariscente. Gli ostacoli della lingua tedesca venivano superati, oltre che da un
interprete, dalla governante di Ciccino, Fraulein Morbitz, una donna alta e bionda dagli occhi duri simili a
quelli della contessa.
I Ciano non alloggiavano più con Costanzo in via di Villa Albani, ma finalmente, dopo esser brevemente
transitati per un quartierino di via Panama, avevano potuto trasferirsi in un comodo e spazioso
appartamento su due piani, stupendo attico e superattico, al n. 9 di via Angelo Secchi, ai Parioli, in un
edificio che rispondeva ai canoni dell'architettura littoria. Nel dicembre del '33 nacque qui la loro
seconda figlia. Per ricordare il bisnonno paterno le imposero il nome di Raimonda, ma fin dal primo
vagito la chiamarono Dindina. Frequentemente Edda con i figli si assentava da Roma per rifugiarsi¯, come
lei diceva, a Capri o a Cortina. Era tuttavia orgogliosa della nuova dimora e in particolare degli
innumerevoli tappeti che aveva portato dalla Cina e che ora erano sparsi un po' dovunque nelle varie
camere, nei corridoi e fin nei bagni. Aveva invece pochi quadri alle pareti, ma di valore: alcuni Fattori, un
Telemaco Signorini, un Boldini. Pochissimi erano i libri; molte le riviste, specialmente quelle americane
da lei preferite. Divennero famosi i ricevimenti dei Ciano - e le interminabili partite a poker della
contessa - nei saloni di via Secchi, subito chiamati il Petit Trianon di cui Deda era la pur scorbutica regina.
La potente coppia era altresì contesa dai migliori salotti
della società romana, aristocratici e alto-borghesi; più che mai da quelli in cui trionfava il poker, un gioco
che tratteneva la figlia di Mussolini al tavolo verde fino alle ore del mattino. Era sorto il clan dei Ciano che
fu allusivamente chiamato Cac. Dal Club Amici di Ciano nacque il Cadac, cioè Club degli Amici degli amici
di Ciano in un intreccio di pettegolezzi, di affari più o meno leciti e di storie di lenzuola.
Dai rifugi di Capri o di Cortina la contessa aveva ognora bisogno di soldi, per fronteggiare le forti perdite
al gioco. Riservatamente, chiedeva aiuto al segretario particolare di Mussolini, Osvaldo Sebastiani, che
così diventava il suo confidente e finanziatore discreto. Gli scriveva: Caro Sebastiani, desidererei, se fosse
possibile e all'insaputa di mio padre e di mio marito, che lei mi mandasse la somma di L. 15.000. Ho avuto
delle spese straordinarie e ho bisogno di un po' di denaro per non rimanere in pegno all'oste.
Era impensabile che Sebastiani accedesse a tali richieste senza avvertire il duce, il quale evidentemente
assentiva pur rimanendo nell'ombra. Le preghiere di Edda si facevano, con il tempo, sempre più frequenti
e pressanti. In un altro biglietto scriveva: Caro Sebastiani, ho bisogno di denaro. Ho tutta l'estate davanti
a me e ho fatto alcune sciocchezze. Se fosse possibile vorrei 20.000 lire; per almeno un anno il "Popolo
d'Italia" non dovrà più occuparsi di me. Potete aiutarmi? Subito? Naturalmente nel segreto più assoluto
per quel che riguarda la mia famiglia ecc..
Edda si riferiva esplicitamente al Popolo d'Italia¯ come fonte di denaro per onorare i propri debiti di
gioco, e certamente si sentiva in qualche modo autorizzata a farlo.
Si riferiva spesso a quel giornale, che neppure apprezzava, e difatti ancora scriveva al suo non troppo
occulto finanziatore: Caro Sebastiani, avrei bisogno di 15 mila lire perché sono in bolletta. Non posso
dirvi di scontare il mio debito sulla benzina perchè malgrado io parta domani e la macchina resti, dovrei
restare almeno tre anni senza "Topolino" per estinguere il mio debito. Piuttosto potreste prenderle da
quel mattone del giornale. Tra l'altro non so perché tanti debbano viverci sopra allegramente e mai quelli
di famiglia. Ma questo non c'entra e vi sarei molto grata se mi faceste avere questa somma entro domani
e se non lo diceste a nessuno, soprattutto a Galeazzo che mi sgriderebbe e avrebbe ragione.
Gli incontri con Goebbels avevano incoraggiato il conte ad accelerare l'attuazione di un progetto già allo
studio e che consisteva nell'affidare a un unico ufficio l'azione propagandistica unitamente a quella
culturale per la maggior gloria del regime. Per farne una fabbrica del consenso. Il modello tedesco di
propaganda che Goebbels gli illustrava lo persuase, e lo ritenne tale da soddisfare le sue ambizioni
politiche. Galeazzo conosceva bene la forza di attrazione della politica sulla gente. Difatti dieci anni
prima, ai tempi della passione letteraria, in un suo racconto aveva scritto: La seduzione della politica è
grande e pochi sono gli uomini che riescono a tenersene lontani quando si presenta loro l'occasione
favorevole. L'occasione si era presentata anche a lui, e ora doveva sfruttarla a dovere, bruciando le tappe.
Edda non era soltanto sua moglie e la figlia del duce, ma anche la sua migliore alleata nella marcia per la
conquista d'una posizione di primo piano nell'Olimpo del regime. Era vero che avevano lasciato
malvolentieri la Cina, ma ora, una volta in Italia, apparivano entrambi come invasati dalla brama di
entrare a far parte rapidamente di quella corte esclusiva che si era formata intorno al duce.
Per essere sempre pronto agli ordini del Capo e non deluderlo mai, Galeazzo, nei momenti di particolare
tensione, non tornava a casa la sera, per trascorrere la notte in una camera da letto che si era fatta
allestire in un angolo di palazzo Chigi. Ma intorno a lui si mormorava che quello era un escamotage per
sfuggire al controllo di Edda e dedicarsi più liberamente ai giochi d'amore extraconiugali.
L'area di competenza dell'Ufficio stampa si estendeva alla radio e al cinema, mentre si nominavano
addetti stampa presso le prefetture di sette grandi città, Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Napoli,
Palermo, per rendere più capillare il controllo. Alla luce degli incontri
con Goebbels, il conte Ciano aveva altresì accelerato l'azione dell'Ufficio stampa per contenere la forza di
persuasione della propaganda nazionalsocialista che rischiava di indebolire in Europa l'immagine
primigenia del fascismo. Goebbels gli aveva illustrato il funzionamento del Reichsministerium fur
Volksaufklarung und Propaganda, e Ciano propose al suocero una totale ristrutturazione del suo ufficio.
I rapporti tra fascismo e nazionalsocialismo entrarono in rotta di collisione in seguito all'estendersi
dell'hitlerismo in terra austriaca. Una volta che la Germania assorbendo l'Austria fosse arrivata al
Brennero, avrebbe costituito, con il peso dei suoi settanta milioni di abitanti, un serio pericolo per la
Lombardia e il Veneto. Mussolini perciò sosteneva apertamente le ragioni del cancelliere austriaco
Dollfuss, il quale a sua volta capeggiava un autoritario regime antisocialista. Anche la Francia e la Gran
Bretagna si opponevano agli appetiti territoriali di Hitler, sicchè il cancelliere tedesco arrivò in Italia per
parlamentare con Mussolini. I due personaggi, che non si erano mai visti prima, s'incontrarono a Venezia,
ma i colloqui si rivelarono infruttuosi. Il Fuhrer aveva insistito nel proposito di annettersi l'Austria,
mentre il duce aveva riaffermato l'esigenza di salvaguardarne l'indipendenza. I due non si piacquero:
erano di fronte l'uomo della Provvidenza, come papa Ratti dopo la conciliazione aveva definito Mussolini,
e il nuovo Redentore¯, come Hitler era chiamato in Germania.
Sullo sfondo di quell'incontro s'intravedeva Galeazzo, l'operoso portavoce del capo del Governo.
I giornalisti lo chiamarono ironicamente il primo messaggero del duce. Galeazzo ebbe un'impressione
spaventosamente negativa di Hitler. A Orio Vergani disse, ma a voce alta perché potessero udirlo i
giornalisti che stazionavano al bar dell'Hatel Danieli: Quello non è un uomo. E un pazzo.
Vorrebbe invadere l'Austria e anche la Francia, ed è sicuro di poterlo fare in ventiquattro ore, se noi lo
aiutiamo. A noi chiede soltanto di stare fermi. Mussolini stesso è trasecolato.
Ha battuto il pugno sul tavolo e ha detto no.
Conclusi i colloqui, Mussolini accompagnò il collega all'aeroporto. Non appena lo ebbe salutato disse ai
suoi collaboratori: Questo Hitler, che pulcinella!¯. Il Fuhrer non fu da meno nel suo giudizio: Questo
Mussolini, che pallone gonfiato!¯, esclamò. Il duce mostrò ulteriormente e in pubblico la sua antipatia per
il tedesco. Dovrei essere contento¯, disse, che Hitler ha fatto una rivoluzione sulla nostra falsariga.
Ma sono teutonici, e finiranno col rovinare la nostra idea. Sono sempre i barbari di Tacito e della Riforma,
in perpetua lotta con Roma. Io non me ne fido.
A poco più di un mese dall'incontro di Venezia, avvenne infatti che i nazionalsocialisti tentassero un
colpo di Stato in Austria e assassinassero a coltellate Dollfuss, proprio quando il protetto di Mussolini si
accingeva a raggiungere la moglie a Riccione dove era ospite di donna Rachele. In Italia si scatenò una
violenta campagna antinazista. Il duce schierava quattro divisioni alle frontiere austriache del Brennero e
della Carinzia; sui muri delle città italiane apparivano numerose scritte di Abbasso Hitler; gli studenti
manifestavano nelle strade a favore dell'indipendenza austriaca. Mussolini non dubitava che il Putsch
fosse stato voluto dal Fuhrer, da quel pazzo pericoloso¯, da quell'orribile degenerato sessuale, come lo
chiamava. Ecco perché, aggiungeva, non poteva esserci alcun legame tra la rivoluzione fascista e quella
nazista: Il nazismo è paragonabile a una rivoluzione delle vecchie tribù germaniche della foresta
primitiva contro la civiltà di Roma. Esso Š barbaro e selvaggio: assassinio, strage, saccheggio e ricatto,
questo è tutto ciò di cui è capace. Il fascismo invece riconosce i diritti dell'individuo, la religione e la
famiglia¯. A lungo il dittatore italiano contrappose nei suoi discorsi la civiltà latina al nazismo.
Hitler scese a Venezia sebbene in quei giorni si fosse inasprito lo scontro con Ernst Rohm, il capo delle
SA, che cercava di rovesciarlo propugnando una seconda rivoluzione a sfondo populista e la nascita d'un
esercito rivoluzionario - quello delle SA, appunto - in cui assorbire la Reichswehr. Al suo ritorno in
Germania aveva stroncato l'azione dei rivoluzionari ordinando di arrestarli e di passarli per le armi, a
cominciare dallo stesso Rohm, in un'azione sterminatrice che fu chiamata la notte dei lunghi coltelli e che
si perpetrò nelle camere d'un albergo di Bad Wiessee, nella caserma di Lichterfeld e nelle segrete del
carcere di Stadelheim.
I Mussolini e i Ciano erano terrificati dalla sequenza di assassinii che insanguinava la Germania e
l'Austria a opera di Hitler. L'incontro di Venezia, diceva Galeazzo a Deda, non era minimamente servito a
trattenere il cancelliere tedesco. E stato un incontro disastroso, esclamava Galeazzo. Il duce le diceva le
stesse cose. Si mostrava sgomento di come Hitler avesse partecipato con le sue stesse mani alla
sanguinosa repressione delle SA e di come avesse freddamente ordinato ai nazisti viennesi di eliminare
fisicamente dalla scena politica il cancelliere Dollfuss, un ostacolo troppo forte all'assorbimento
dell'Austria che egli considerava un Gau della Germania. Mamma¯, diceva Edda a Rachele, Hitler mi
richiama alla mente Attila.
Egli ha trucidato gli uomini che lo avevano sostenuto nell'ascesa al potere. E terribile. E poi ho sempre
davanti agli occhi l'immagine della moglie di Dollfuss in lacrime nella nostra casa di Riccione.
Nonostante la tensione fra i due regimi, Goebbels confermava al conte la sua amicizia personale, e così
faceva con Edda la bella moglie, Frau Magda. Edda avrebbe voluto sapere quanto rispondevano al vero le
insinuazioni su un passato burrascoso di Magda, e sul suo presente non meno ambiguo. Era stata davvero
attrice o cos'altro? Ma poi faceva spallucce. La contessa, che riprendeva a esternare i propri sentimenti
filotedeschi, era naturalmente lieta che si mantenessero buoni i rapporti con i Goebbels. Forse, diceva, i
nazisti non erano tutti pericolosi e infIdi; forse il Fuhrer aveva le sue ragioni nel voler riunire i tedeschi
d'Europa ovunque si trovassero in un solo, grande Reich.
Hitler aveva nel frattempo accresciuto il suo peso poiché, morto il presidente Hindenburg, era riuscito a
prenderne il posto, e quindi a riassumere in s‚ le cariche di cancelliere e di capo dello Stato. Aveva
accentuato il carattere poliziesco del regime, avendo aperto da un paio d'anni i primi campi di
concentramento in cui rinchiudere gli oppositori. Al riarmo tedesco, ora considerato pericoloso,
Mussolini contrapponeva un progetto di intensa militarizzazione in Italia che non mancò di preoccupare
le democrazie occidentali.
Attraverso Goebbels, che continuava a mantenere stretti contatti con Galeazzo, il Fuhrer cercava di
recuperare il sostegno se non l'amicizia di Mussolini, il quale mostrava invece di volersi riavvicinare alla
Gran Bretagna e alla Francia. Presso l'una e l'altra nazione il duce poteva far affidamento sull'appoggio
dei partiti conservatori che gli riconoscevano il merito di aver bloccato l'espansione del bolscevismo.
Insieme al nuovo premier francese Pierre Laval, sottoscrisse a Roma un accordo di consultazione con
l'intento di salvaguardare l'indipendenza austriaca.
Un ulteriore accordo riguardava consistenti sistemazioni territoriali e societarie nella remota terra
etiopica, mentre, in una ben pi— rilevante intesa che rimase segreta, Laval s'impegnava a lasciar mano
libera a Mussolini – l'uomo che aveva scritto la più bella pagina in Europa, come disse - qualora decidesse
di compiere una qualche azione in Abissinia.
Il duce, sulla scorta dell'intesa con la Francia, tentò di tessere con Londra un'analoga rete antitedesca,
sebbene i governanti inglesi si mostrassero allarmati per i preparativi ormai palesi d'un attacco italiano
all'Etiopia. La conquista di nuove colonie, oltre i possedimenti della Libia, dell'Eritrea e della Somalia, era
diventato il sogno non troppo nascosto di Mussolini il quale magnificava le tradizioni imperiali di Roma
Caput mundi cui bisognava fare onore preparandosi spiritualmente e militarmente alle immancabili
espansioni territoriali dell'Italia fascista. Il regime si era assegnato una vocazione imperiale sia per
ragioni di prestigio sia per alleviare il peso della disoccupazione che aumentava con la progressiva
riduzione delle possibilità di trovar lavoro all'estero. Il posto al sole avrebbe risolto tutti i problemi
italiani.
Mussolini aveva apprezzato le proposte del genero sull'esigenza di ristrutturare il servizio stampa sul
modello tedesco che Goebbels gli aveva ampiamente illustrato.
E decise di trasformare quell'ufficio in sottosegretariato.
A capo del nuovo organismo, cui si diede il nome di sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda, fu
posto Galeazzo, il quale così entrava giovanissimo nel governo avendo compiuto da qualche mese trentun
anni. Ma lui si sorprendeva a pensare che Napoleone al ponte d'Arcole ne aveva appena ventisette.
Assumeva comunque il titolo di Eccellenza, un titolo che si estendeva alla moglie. Essi erano le Loro
Eccellenze Galeazzo e Edda Ciano.
Come sede del nuovo sottosegretariato fu scelto il palazzo Balestra, al n. 14 di via Veneto.
All'inaugurazione presenziò il duce in persona - di ritorno dall'aver trebbiato il grano nell'Agro pontino dimostrando pubblicamente in tal maniera di annettere un gran valore all'opera dell'ufficio e del genero.
Ben presto palazzo Balestra divenne infatti l'enorme Ufficio pubblicità del regime.
Il duce trasmetteva al nuovo sottosegretario alcune parole d'ordine propagandistiche in vista d'una
ventilata campagna d'Africa. Diceva: I giudici dei nostri interessi, garanti del nostro avvenire, siamo noi,
soltanto noi, esclusivamente noi e nessun altro. Imiteremo alla lettera coloro i quali nella Società delle
nazioni ci fanno la lezione. Essi hanno dimostrato che quando si trattava di creare un impero, non
tennero mai in alcun conto l'opinione del mondo. E aggiungeva: E semplicemente mostruoso che
l'Inghilterra, dominatrice del mondo, ci rifiuti un povero lembo di terra al sole africano. Anche per questo
noi tireremo diritto! Bisogna farlo capire a tutti gli italiani.
Naturalmente bisognava farlo capire anche agli inglesi, i più ostili a un'espansione coloniale del fascismo.
A Londra ritenevano che le minacce espansionistiche di Mussolini fossero un bluff, una vanteria, per cui
l'ambasciatore Dino Grandi ricevette l'incarico di convincere il governo inglese a prenderle un po' più sul
serio. Mussolini decise di inviare anche Edda in Gran Bretagna con lo stesso incarico: quello di far
intendere agli inglesi, dal primo ministro all'ultimo autista di taxi, che lui non scherzava. Edda doveva
inoltre saggiare le reazioni di quella gente. Fu con la figlia quanto mai categorico: Devi dire agli inglesi
che noi italiani siamo fermamente intenzionati a invadere l'Etiopia. Devi fargli intendere che la nostra è
una decisione irrevocabile. Prendano pure tutte le precauzioni che riterranno opportune. Noi ce ne
infischiamo. Devono convincersi che non riusciranno in alcuna maniera a toglierci questa idea dalla testa.
Dino Grandi accolse la contessa con gli onori degni di un personaggio di sangue reale, mentre lei faceva la
sbarazzina. Lanciava frecciate contro i gerarchi del regime, primo fra tutti il sergente Starace, ed esaltava
unicamente la figura del padre. Quando Mussolini dice di fare una cosa, siatene certi, la fa, esclamava a
ogni pie' sospinto. E per ribadire il concetto aggiungeva: Conquisteremo l'Etiopia, qualunque cosa voi
diciate o facciate.
Le sembrava che la minaccia lasciasse nell'indifferenza gli interlocutori. Era forse dovuto alla flemma
inglese? Soltanto due fra le personalità incontrate durante la permanenza a Londra, che si protrasse per
una trentina di giorni, le diedero risposte tanto precise quanto contraddittorie. La prima era di sostegno
all'Italia, e proveniva dal proprietario del Daily Mail, lord Rothemere; la seconda era di avversione, e
giungeva dal capo del Governo Ramsay MacDonald. Bene, benissimo!, esclamò l'editore, andate laggiù e
prendetevi un po' cura di quei miserabili! Che cosa sono tutte queste storie di interventi degli altri paesi?
Non fateci caso. Anche noi ci siamo costruiti il nostro impero. E come! Il premier reagì invece con ostile
freddezza, sia pure in perfetto stile diplomatico: Molto bene, ma presumo che abbiate considerato le
conseguenze!. Tuttavia le diede assicurazione che l'Inghilterra non si sarebbe mossa. Ci farete guerra?,
aveva chiesto Edda con malcelata emozione. No!, rispose MacDonald. Era quanto lei voleva sapere.
Edda aveva svolto ottimamente la missione che il padre le aveva affidato, e aveva rivelato una certa
propensione per la politica. Ma lei non mostrava eccessivo interesse per questa attività, preferendo
consumare larga parte della vita nei viaggi, nei giochi d'amore e al tavolo verde. Pur occupandosi assai
poco e in maniera marginale di politica, l'avevano egualmente circonfusa d'una leggenda che la voleva
ispiratrice del padre, suggeritrice del marito, ninfa Egeria del regime. In effetti però riceveva di tanto in
tanto qualche incarico dal duce o da Galeazzo: Va' nel tal luogo; parla con il tale; vedi di incontrare il tal
altro; con quell'altro comportati così e così.
A Londra aveva ottenuto un successo personale per la sua intelligenza e sensibilità. Dino Grandi ne
caricava le tinte del successo magnificando a Mussolini l'effetto che la figlia aveva prodotto sugli inglesi.
Non gli era difficile premere sui tasti dell'esaltazione, essendo lui il più ipocrita fra i gerarchi ipocriti.
Sul viaggio di Edda scriveva a Mussolini: Duce, ti mando fotografie e ritagli di giornale che parlano della
Tua figliola. La Contessa Š un vero autentico successo, e tutti sono ammirati e lusingati di averla con loro.
Quindi aggiungeva: Tutti parlano di Lei a Londra, e dicono che è bella, intelligente e straordinariamente
interessante¯. Ma non bastava: "Tutti hanno sinceramente ammirato la Tua figliola, e questi frigidi inglesi
sono tutt'altro che facili! Quello che ha più colpito di Lei, oltre alla Sua bellezza e alla Sua intelligenza, è
una dote ancora più rara, e cioè la perfetta armonia tra una luminosa giovinezza ed una naturale, squisita,
signorile dignità. Lui andava oltre le lodi più sperticate accomunando in esse padre e figlia: Fra tutti gli
uomini della terra Tu puoi essere il più orgoglioso per quello che hai dato e che darai al Mondo, ma,
credimi, il Padre di Edda può essere almeno altrettanto orgoglioso quanto il Creatore della Civiltà Nuova.
Credimi, Duce, Tuo fedele, Grandi.
L'ambasciatore riempiva altri fogli della lettera con la descrizione dei particolari del pranzo offerto dal re
e dalla regina d'Inghilterra. Edda aveva fatto una gran bella figura con il suo impeccabile inchino davanti
ai sovrani. Indossava un abito di velluto viola con perle e brillanti. Poi, alle aristocratiche corse dei cavalli
di Ascot, aveva conquistato la personale simpatia di Giorgio quinto che le aveva offerto - segno di
liberalità - una sigaretta.
Nella prospettiva d'una guerra coloniale, che sarebbe stata condotta in opposizione alla Società delle
nazioni, grande importanza assumeva in Italia la preparazione degli animi all'evento. E Mussolini pensò
bene di alzare il livello degli uffici addetti alla propaganda. Nel '35 il sottosegretariato fu infatti
trasformato in ministero per la Stampa e Propaganda, cosa che comportò la naturale promozione del
genero a ministro. Subito si parlò ironicamente di lui come di un ministro sui generis, mentre fino a quel
momento era stato chiamato il padroncino. Costanzo, il padre, era soprannominato Ganascia, per il suo
aspetto fisico di formidabile mangiatore e per il fatto di accumulare cospicue fortune all'ombra del
regime. Il suo regno era la cittadina di Ponte a Moriano, nei pressi di Lucca. E lì possedeva una lussuosa
villa immersa in un grande parco. Un anonimo scriveva irritato a Costanzo: Eccellenza e Nobilissimo
Conte, non si è ancora appreso che Ella abbia donato allo Stato qualcheduno di quei milioni che in 13 anni
di regime Ella ha estorto facendosi offrire dai paggetti del Consiglio di amministrazione delle
Comunicazioni e dei tanti Consigli nei quali Ella con maschia figura ha seduto. Ella da pezzente in 13 anni
è diventato milionario.
Nei giorni dell'ascesa di Galeazzo a ministro, arrivava a Roma il rappresentante britannico presso la
Società delle nazioni, Anthony Eden, per affrontare la questione etiopica e per ribadire l'intesa che si era
raggiunta in un convegno a Stresa fra l'Italia, la Francia e la Gran Bretagna preoccupate dal revanscismo
hitleriano. Il Fuhrer aveva infatti denunciato le clausole militari del trattato di Versailles, e le tre potenze
alleate nella prima guerra mondiale cercavano in qualche modo di salvaguardare la pace in Europa.
Mussolini, che accusava Londra di aver ferito lo spirito di Stresa firmando con Hitler un patto navale, si
mostrò scortese con Eden. Ma, alle proteste della stampa inglese, affermava il contrario, e portava a
sostegno di ciò la testimonianza di Edda. Diceva di aver ricevuto Eden con la massima cordialità e di aver
invitato la figlia al pranzo in suo onore proprio per dimostrargli la sua personale considerazione. Quindi
precisava: Un giornale londinese ha scritto che Eden entrando nella sala del Mappamondo Š inciampato
in un tappeto ed è caduto. Al che io mi sarei messo a sghignazzare. Ma nella sala in questione non ci sono
tappeti!.
Il segretario del partito, Starace, si ingelosiva per la rilevanza dell'incarico che il duce aveva conferito al
conte e per il fatto che ora Galeazzo lo accompagnava più frequentemente di lui nelle visite, sedendogli
accanto nell'automobile presidenziale. Il rozzo ras di Gallipoli, come lo chiamava Edda, volle tenergli
testa su un diverso terreno propagandistico, quello di preparare alle armi i borghesi, e decise di
intensificare fino allo spasimo le esercitazioni militari del sabato fascista. Al sabato degli avanguardisti,
Ciano contrapponeva polemicamente il sabato teatrale all'aperto per le grandi masse popolari. L'odio di
Edda nei confronti di Starace cresceva a dismisura, né lei mancava di dimostrarglielo. Per umiliarlo lo
trattava in pubblico come un lacchè, lo chiamava a voce alta e con tono perentorio: Starace, venite qua!.
Sebbene molti nemici lavorassero nell'ombra ai suoi danni, Starace appariva ben saldo in sella. Ciano era
l'avversario più accanito e pericoloso. I due erano diversi in tutto, e non potevano non odiarsi. Il giovane
Galeazzo era ormai avvantaggiato nello scontro, se non altro per aver sposato Edda. La lotta si svolgeva
sorda e misteriosa, come si conveniva a una guerra di palazzo. Ciano aveva per alleato il capo della polizia
Arturo Bocchini - don Arturo, un Brummell partenopeo dall'immenso guardaroba – i cui servizi
d'informazione raccoglievano infaticabilmente innumerevoli dossiers su Starace. Gli informatori, i
confidenti, i fiduciari avevano capito le esigenze di Bocchini e gli raccontavano le cose più inverosimili sul
segretario del partito, vere o false che fossero purché lui potesse poi trasmetterle a Ciano che ne gioiva.
Mussolini si fidava di ben poche persone, temendo ognora le rivolte di palazzo. Aveva neutralizzato
Farinacci, aveva allontanato Arpinati e fatto arrestare Malaparte, aveva esiliato Balbo in Libia. Poteva
contare su due uomini, ed erano proprio Ciano e Starace. Purtroppo aveva commesso l'errore di
collocarli in posizioni-chiave, e ciò non poteva non condurli allo scontro. Sia Ciano sia Starace
pretendevano di aver l'assoluta giurisdizione sui giornali. Nel braccio di ferro sembrava talvolta
prevalere il genero del duce, talaltra il fedele mastino di Gallipoli.
Mussolini non riusciva a scegliere fra i due, e l'odio fra i loro clan cresceva. Ciano piaceva ai giornalisti,
Starace li indispettiva. L'uno era la gentilezza fatta persona e non dava mai l'impressione di impartire un
ordine, l'altro si comportava come un furiere. I giornalisti erano per loro un continuo motivo di litigio.
Ciano, sospinto da Edda, diceva che Starace li scocciava per questioni inconsistenti e secondarie, fino a
stranirli inutilmente. Starace rispondeva che non c'era molto da preoccuparsi di quegli scribacchini e che
alla stampa bisognava dare soltanto ordini. Per i giornalisti aveva già studiato un distintivo: un violino e
un soffietto incrociati. Ciano li difendeva, e chiamava l'avversario un coglione che fa girare i coglioni.
Comunque i giornalisti ubbidivano agli ordini del segretario del partito e cercavano di prevenire i
desideri del ministro.
Entrambi, ognuno a suo modo, erano intenti a costruire il monumento a Mussolini, e non era facile
individuare a chi di loro dovesse andare il merito di quanto appariva sui giornali in lode al duce.
Il Corriere della Sera pubblicava un articolo sulla fondazione di Sabaudia, senza lasciarsi sfuggire
l'occasione di esaltare il mito del Capo: Mussolini non ha proceduto ad una inaugurazione ufficiale con
contorni di abiti lunghi e tubi di stufa in testa, ma ha predisposto il piano d'azione da svolgere per la
completa redenzione dell'Agro Pontino. E ha partecipato al lavoro dei trebbiatori, degli umili contadini,
lavorando per oltre due ore e mezzo alle trebbiatrici, con il ritmo metodico e sicuro degli uomini della
terra, illuminato dalla gioia di vedere il bel grano maturato nell'Agro da lui redento. Tornato a Roma,
dopo aver fatto centinaia di chilometri, visitato con il suo passo rapido e svelto- "il più rapido e svelto di
tutti gli altri" - poderi e casolari, il Duce ha ripreso a Palazzo Venezia il suo lavoro: problemi di politica
mondiale, atti di amministrazione, tutto, insomma, l'insieme complesso degli affari di Stato¯. C'era chi
giurava che questo articolo fosse opera del giovane Ciano il quale indubbiamente usava la penna meglio
di Starace, mentre la superiorità del gallipolino sull'avversario consisteva nel saltare attraverso un
cerchio di fuoco.
I giornali non dovevano pubblicare notizie di cronaca nera n‚ foto morbose che riguardassero fatti di
sangue, tragedie passionali, perversioni sessuali. Sugli omosessuali il silenzio doveva essere completo.
Niente fotografie di mostri e neppure di belle donne in abiti succinti, niente scandali e disastri ferroviari,
sciagure naturali, epidemie e alluvioni, pena il sequestro. In un discorso alla Camera, Ciano si vantava che
dai giornali avesse fatto scomparire la cronaca nera, la quale altro non era se non l'apologia insana del
delitto compiuta a fini di malintesa utilità editoriale. Ai giornali era assegnato il compito di fungere da
organi di ardente propaganda dell'italianità e del Regime, improntato a ottimismo, fiducia e sicurezza
nell'avvenire. Quindi ben altro era diventato il ruolo della stampa: In passato, quella del giornalista, era
spesso la professione di chi non ne aveva alcuna. Ciò non è più. Il giornalismo era ormai una missione, un
servizio pubblico; non più un affare privato, ma un formidabile mezzo per l'educazione del Popolo
fascista¯; ed era evidente che assegnato al giornalismo un compito così alto, lo Stato dovesse intervenire,
sia direttamente sia attraverso organi speciali, per svolgere un'indispensabile opera di propulsione e di
controllo.
Galeazzo non aveva la forte voce metallica di Mussolini.
Parlava in falsetto, ma si sforzava di somigliargli negli atteggiamenti. Mussolineggiava portando le
braccia ai fianchi e protendendo il mento verso l'alto per apparire volitivo. C'era chi ridacchiava a questo
spettacolo e gli inviava lettere anonime. In una di esse, firmata un contadino, si leggeva: Caro Conte, Vi
trasmetto copia del vostro ritratto, affinché possiate riflettere che a prendere certe pose cadete nel
ridicolo: Mussolini è tipo inconfondibile, quindi è inutile imitarlo, anche se Š vostro suocero: questione di
cervello. Lui è un gigante voi siete e rimarrete un pigmeo!
Quindi d'ora innanzi niente più quelle facce che vorrebbero avere una certa rassomiglianza con la
maschera Mussoliniana, chiamiamola così, ma facciamo il nostro viso naturale, come Iddio ce lo ha fatto:
questo è il consiglio che vi dà un contadino autentico e modesto!
Starace, più intensamente di Ciano, voleva un'Italia combattiva che non fosse esclusivamente impastata
di sonniferi propagandistici. Egli puntava a far emergere uno spirito militaresco che a suo dire covava
nell'inconscio di ogni italiano. Non si doveva preparare l'Italia di Mussolini a una guerra coloniale?
La propaganda doveva pertanto servire all'esaltazione degli animi, anche per essere pronti a contrastare
il riarmo hitleriano che cominciava a far paura. Insieme alla Francia, l'Italia fascista era il paese che più si
preoccupava della crescente potenza navale tedesca. Allo stesso tempo la disinvolta condotta diplomatica
della perfida Albione, come il duce chiamò l'Inghilterra con qualche reminiscenza classica, offrì al
governo di Roma il coraggio e il destro di partire in armi alla conquista dell'agognato posto al sole in
Abissinia. Senza preavviso, cioè senza una dichiarazione di guerra, le legioni di Mussolini penetravano il
3 di ottobre in Etiopia, attraverso il confine sul fiume Mareb.
Era l'anno tredicesimo dell'era fascista, e gli italiani accorsero in piazza Venezia e in ogni altra piazza
della nazione a godere di quel momento di gloria. Il Popolo d'Italia scriveva: Tredici anni di regime,
tredici anni di organizzazione, di educazione, di lavoro fascista; tredici anni di dure, nobili, portentose
conquiste. Tutto il fascismo in piedi - stretto attorno alle insegne del Littorio, compatto e impetuoso,
animato, sorretto e sospinto dal nome prodigioso di Mussolini - ha riconfermato oggi nella grande
adunata, nel modo più solenne, l'incoercibile coscienza dei diritti alla grandezza che la storia gli ha
assegnato. Era farina del sacco di Ciano, erano espressioni alle quali il conte non avrebbe però mai fatto
ricorso negli anni della passione letteraria non ancora contaminata dalla retorica del regime.
Con l'Etiopia abbiamo pazientato quarant'anni. Ora basta!, disse Mussolini, e a questo grido partirono per
l'Africa orientale gerarchi e altezze reali, deputati e senatori, intellettuali e scribacchini, accademici
d'Italia e lo stesso Marinetti che sostituiva alla feluca il casco coloniale. Erano tutti in divisa kaki. Perché
la propaganda bellica risultasse più che mai convincente, dovettero partire anche Ciano, il ministro per la
Stampa e Propaganda, e Starace, il segretario del Pnf. Edda - in un elegante abito bianco, a braccia nude accompagnò il marito fino a Napoli. Salì sul piroscafo Saturnia - assai lussuoso essendo in realtà una nave
da crociera -, e non ne scese se non al levar dell'ancora. Il comandante della nave le aveva offerto un gran
mazzo di rose rosse, e lei sul molo lo aveva regalato a una popolana che in lacrime salutava il figlio,
camicia nera, in partenza per l'Africa. Sullo stesso piroscafo erano imbarcati anche i fratelli di Edda,
Vittorio e Bruno.
Starace si mosse in ritardo, ma raggiunse l'Etiopia colmo d'entusiasmo. I legionari, già da alcuni mesi in
Africa, intonavano una mordace canzoncina dedicata a lui e ad altri ritardatari di lusso: Quando la pugna
diventa pugnetta / ogni gerarca a venire s'affretta / Se spira il più lieve sospiro di vento / chiedono ed
hanno medaglia d'argento / Ma c'è qualcuno (è sempre il più stronzo) /che pur si contenta di quella di
bronzo.
Ciano aveva abbandonato malvolentieri la comoda poltrona di via Veneto. Comunque il ministro sui
generis, indossata la bianca uniforme di capitano pilota di complemento, fu assegnato in Eritrea a una
squadriglia da bombardamento. Egli appellò quel gruppo La Disperata – con insegna un teschio e tibie
incrociate - per celebrare le azioni che vantava di aver compiuto ancora giovincello nell'omonima
formazione squadristica toscana, sebbene Perrone Compagni, che ne era stato l'organizzatore, giurasse di
non averlo mai visto tra le sue file. Anche l'amico Orio Vergani diceva come non fosse possibile
immaginare un Galeazzo studente di liceo, con manganello e olio di ricino. Tanto più che il ragazzo, non
bisognava dimenticarlo, si era addirittura infarinato di socialismo. Ma la retorica littoria voleva
egualmente la sua parte, e Mario Appelius proclamava che l'Eritrea in armi aveva accolto in Galeazzo
Ciano l'Ardito del Governo fascista. Gli dava man forte Alessandro Pavolini, aedo di Galeazzo in Africa,
smentendo con sdegno le riduttive affermazioni di Perrone Compagni.
In Africa, le gesta di alcuni gerarchi venivano immortalate in canzoni belliche che i legionari cantavano
sul far della sera. Ne meritò una Ciano:Vieni con noi Toselli /vieni con noi Galliano, / il nostro
comandante è Galeazzo Ciano. E una Giuseppe Bottai: Il Battaglion va avanti, /Bottai l'è il condottier. /
Avanti nona, avanti decima, /avanti undicesima ad attaccar. I soldati di Mussolini, come Starace chiamava
i legionari, erano penetrati rapidamente in territorio etiopico, ma la guerra prosciugava le risorse
economiche italiane costringendo la gente a enormi sacrifici. Ciò non impediva che si cantasse lietamente
Faccetta nera piccola Abissina, / sarai in camicia nera pure te!
Il regime indisse una gigantesca raccolta dell'oro e del ferro per tamponare le falle nel bilancio dello
Stato, mentre le operazioni militari in Etiopia subivano un rallentamento. I legionari piegavano sotto la
pressione degli abissini e retrocessero fino ad Axum. I servizi segreti informavano che nuove truppe del
negus erano in marcia verso il fronte italiano, oltre il Tecazzè. Negli alti comandi si temeva, se non una
sconfitta, il protrarsi indefinito della guerra e il suo frantumarsi in guerriglia.
Alcuni ufficiali accusavano il duce di aver gettato l'Italia in un'avventura senza sbocco per manie di
grandezza, morso dalla tarantola napoleonica¯. Proprio Galeazzo, il più scontento per essere stato
sbalestrato in Africa e per aver dovuto lasciare il suo posto al sottosegretario Dino Alfieri, aveva preso a
inveire contro il disistimato camerata. Raccontava su di lui una facezia appresa da Edda: Alfieri quale? Il
tragico? No, il comico! A mensa una sera le sue invettive non avevano più termine. Un collega,
interrompendolo, polemicamente gli aveva chiesto: Il duce non è tuo suocero?, e lui gli aveva risposto
irritato: Il suocero non è un parente!
Protestò perfino con il sottosegretario alle Colonie, Alessandro Lessona, in visita all'Asmara. Chi riferiva i
suoi discorsi osservava come egli si esprimesse con la cinica leggerezza del suo carattere¯ e distribuisse a
piene mani il seme velenoso del suo scetticismo. A Lessona diceva: La vittoria militare è da escludersi
perché in questo terreno montagnoso non vi possono essere soluzioni rapide. Intanto noi saremo
strangolati dalle sanzioni. Vedo nero all'orizzonte. Per quanto mi riguarda, terrò pronto un aeroplano col
quale rientrare in Italia quando occorra. Galeazzo tornò effettivamente in patria, ma per subire un
intervento chirurgico a un orecchio e al naso. Rimase in Italia dal dicembre del '35 fino al febbraio
successivo, non certo inoperosamente anche perché‚ in quelle settimane il suocero lo accolse nel Gran
consiglio del fascismo.
Non inoperosamente per molteplici ragioni, come appariva dalle lettere anonime che lo riguardavano,
indirizzate un po' a tutti, a Mussolini, al segretario Sebastiani, al capo della polizia Bocchini.
Un personaggio addentro alle segrete cose del regime, una vera e propria talpa, inviava segretamente ai
gerarchi più in vista un suo personale bollettino dattilografato, Il Pensiero del Popolo, zeppo di notizie e
di insinuazioni. E nauseante, scriveva la talpa, dover constatare come un superministro, ammesso
recentemente, per chi sa quali meriti, nel Gran consiglio, che dopo essersi fatto decorare con una
motivazione lunga tre colonne di giornale, lascia il fronte per gironzolare nei salotti romani e, peggio
ancora, mostrarsi in pubblico fino alle 3 di notte, strettamente abbracciato con la Delia Del Bagno, una
cara amica della contessa Edda. E ciò mentre i suoi compagni d'arma rischiano la vita e muoiono e sono
decapitati. Ora che si comincia a fare qualcosa laggiù è più igienico sprofondarsi tra le fattezze della
famosa Balestra e della Marta Eggerth?.
Eccellenza Mussolini, si leggeva in una di quelle lettere anonime, faccia finire la tresca di suo genero con
la Berlingieri Giovannelli. A Roma tutti lo sanno e ridono della sua disgraziata figlia Edda e di tutto il
cianaio che ruba senza paura e sfrutta il suo nome e si crede che il Duce sia un rammollito. L'amica di suo
genero dice alle amiche che lui poveretto non può avere rapporti con Edda perché glielo ha proibito il
medico a causa della tubercolosi di lei! C'era chi scriveva anche a donna Rachele. In una missiva, che
proveniva dall'Hotel Quirinal Rome secondo la snobistica intestazione della lettera, si dava notizia di un
ménage incrociato a quattro fra i coniugi Ciano e i loro aristocratici amici Delia e Galeazzo Di Bagno.
Si riferivano altresì alcune affermazioni del marchese Di Bagno e vero che Delia ha relazioni con
Galeazzo, ma è pur vero che io lo ricambio con pari moneta.
Il regime cercava di dare un'immagine ben diversa sia del superministro sia della moglie. Il Minculpop
nel novembre del '35 in piena guerra d'Etiopia trasmetteva ai giornali una velina in cui si presentava in
termini nobilissimi la figura di Edda. La velina era redatta in maniera deamicisiana: La seguente notizia
va pubblicata sui giornali di domani e deve essere datata da Parigi: Mattinata di sole, di questo
miracoloso sole dell'autunno romano. Una piccola folla attende un autobus. Il veicolo arriva e il
giornalista subito nota che l'elegante signora - sobria eleganza - che senza impazienza attendeva
l'automobile di tutti, ora sale anche lei, si confonde col popolo con umiltà come una donna qualunque.
Ma è proprio lei? - il giornalista si domanda osservando attentamente non osservato. - Sì, è lei, è la
contessa Ciano, è Edda, la figlia di Mussolini che ha rinunciato all'automobile personale per vivere più
intimamente in quest'ora di prova la vita del popolo italiano.
E ha il viso pensoso. Il giornalista aggiunge: Ella è anche lei di quelle donne italiane che hanno laggiù, in
Africa, qualche persona molto cara, qualcuno che forse mentre ella se ne torna quietamente a casa sotto
questo cielo così dolce, passa in un cielo di battaglia col ruggito d'un motore. E non solo uno sposo ella ha,
ma anche due fratelli laggiù. Una donna italiana come tante altre, con dentro il cuore la stessa fierezza.
La notizia apparve puntualmente sui giornali, e offrì alla talpa l'occasione di compilare un numero
speciale del suo bollettino "Il Pensiero del Popolo” per far sapere di aver visto in ben altre situazioni la
signora dell'Autobus e quell'eroe del marito: L'eroe per antonomasia ha scelto proprio questo momento
per lasciare il fronte e venire alla capitale non per fare il Superministro, che a questo ci pensa Alfieri, ma
per andare a ballare fino alle 3 di notte alla Taverna del Quirinale, dopo il teatro di Santo Stefano. Al ballo
vi era anche la "signora dell'Autobus" con le sue sconce, per non dire oscene, pose da gigolette. Alla porta
dell'Albergo, ossia della Taverna, non vi era ad attenderla l'autobus, ma una lussuosa macchina statale di
quelle che beve l'oro versato nel frattempo dal popolo.
La passione della contessa era il tango in cui sfogava il suo istinto erotico e disperato, e anche
iconoclastico. Edda aveva sentito dire che i papi avevano lanciato fulmini contro la danza nelle loro
encicliche; l'avevano bollata come manifestazione di barbarie per lo strofinio delle parti inferiori dei
corpi avvinghiati e come occasione di peccato. Ballare la cumparsita era per lei come compiere un atto di
ribellione.
Galeazzo mostrava di non aver cambiato opinione sui rischi della guerra. Francesco Giunta, che era stato
sottosegretario alla Presidenza, gli disse: Perché non ne parli col duce? E lui, di rimando: Non ci si può
ragionare. Gli ho detto tutto. Sapete cosa mi ha risposto? "Stai tranquillo.
Vedrai che intorno a Pasqua Badoglio avrà vinto". Mussolini non si sbagliava di molto perché, il 5 maggio,
le truppe di Badoglio erano in vista degli eucalipti di Addis Abeba. I gerarchi più influenti rientravano
subito in patria, e tornò anche Ciano il quale, a dispetto delle frecciate al suocero, aveva riscosso sul
campo due medaglie d'argento al valore. Tornava riportando il sedile del suo aereo che era stato colpito
dalla fucileria abissina. In casa, Edda assegnò a quell'oggetto un posto d'onore come simbolo di vittoria.
L'Italia aveva conquistato l'Etiopia in soli sette mesi, ma ora si trovava alle prese con un'aspra e
incontenibile guerriglia scatenata dalle bande che si ribellavano al suo dominio. Gli italiani avevano
dovuto affrontare non poche difficoltà economiche a causa delle sanzioni imposte dalla Società delle
nazioni. Le sanzioni, sebbene non severamente applicate essendo in contrasto con gli interessi degli
stessi paesi sanzionisti, avevano costretto Mussolini ad attuare una rigida politica di autonomia
economica nazionale, cui si diede il nome di autarchia. Essa comportò un aumento del costo della vita che
investì anche i generi di prima necessità, compreso il pane. Se ne lamentavano tutti, non esclusi i fascisti
più fanatici.
In seguito alle sanzioni si avviò un avvicinamento fra l'Italia e la Germania, sebbene con lentezza. Anzi
alla vigilia dell'impresa etiopica e nei primi mesi del conflitto, Hitler aveva segretamente aiutato il negus
Hailè Selassiè inviandogli armi e munizioni. Ora però, a guerra conclusa, Berlino riconosceva l'impero, e
l'Italia si adoperava perché fosse sanato il contrasto tra Germania e Austria, la quale non aveva mancato
di riconoscere a sua volta la sovranità italiana in Etiopia. Con l'occupazione tedesca della Renania, cui la
Francia non si era opposta, Hitler aveva raggiunto un altissimo prestigio in Germania pari a quello
toccato poco dopo da Mussolini in Italia con la conquista dell'impero. Francia e Gran Bretagna non
facevano seguire alle loro proteste misure tali da scoraggiare gli istinti espansionistici dei due dittatori.
Ciò avveniva non per loro intrinseca debolezza militare o per una sorta di malinteso pacifismo, ma in
quanto ravvisavano in Mussolini e in Hitler i campioni della lotta internazionale al bolscevismo.
Non tutti in Italia vedevano di buon occhio l'accostarsi di Mussolini a Hitler, così come in Germania si
nutrivano non lievi diffidenze per gli italiani. Quindi il duce, che aveva inviato Edda a Londra per chiarire
agli inglesi le idee del regime sull'Etiopia, ora la spediva a Berlino affinché rappresentasse al Fuhrer il
vero volto e le vere intenzioni dell'Italia fascista. La contessa considerava in termini più che favorevoli
quel riaccostarsi trovando logico che i due dittatori stringessero rapporti di amicizia e si sostenessero a
vicenda. Lei era ospite a Berlino della cognata Maria, sorella di Galeazzo, che aveva sposato il conte
Massimo Magistrati, primo consigliere di sicuro avvenire presso l'ambasciata italiana nella capitale
tedesca, retta da Bernardo Attolico. Aveva fatto il viaggio in treno da sola e durante il tragitto non aveva
mai aperto bocca perché nello scompartimento c'erano soltanto tedeschi e lei non sapeva una parola
della loro lingua. Nessun cerimoniale era previsto per la sua presenza in Germania, né Edda aveva ancora
preso contatto con i rappresentanti del regime in attesa che il padre le desse il via. Era partita da Roma sa
pendo che qualcosa di importante bolliva in pentola a favore del marito. Si prospettava l'ascesa al
ministero degli Esteri essendo sfumata, con piena soddisfazione dei coniugi Ciano, la più volte ventilata
nomina a segretario del partito.
Era trascorso un mese dalla proclamazione dell'impero quando il duce ruppe gli indugi e decise di
lasciare le redini del ministero degli Esteri per affidarle al genero. Sicché a soli trentatre anni Galeazzo
divenne il capo della diplomazia italiana, anche se il padrone era sempre Mussolini. Comunque lui era il
più giovane fra i ministri degli Esteri del mondo intero. Il 9 giugno in Germania, alla notizia della nomina,
tutto mutò per Edda. La sua posizione, come consorte del neo-ministro degli Esteri italiano, cambiò di
sana pianta, e la sua visita divenne un fatto politico di grande rilievo. Si sospettò che dare la notizia della
nomina di Galeazzo agli Esteri nei giorni della presenza di Edda nella capitale tedesca facesse parte d'un
piano prestabilito al fine di accrescere il prestigio della contessa agli occhi di Hitler.
Per prima cosa, Edda fu ricevuta dal Fuhrer con un'attenzione che il suo nuovo rango reclamava. Lei ne fu
toccata. Considerava quell'uomo un eroe, non tanto per i risultati che aveva ottenuto sul piano politico,
quanto per essere riuscito a salire tanto in alto movendo da umilissime condizioni di nascita. Vedeva
molti parallelismi fra lui e suo padre. L'incontro non avvenne tuttavia nella solennità della Cancelleria,
ma durante un tè offerto dai Goebbels sulle rive del Wannsee nei pressi di Berlino, con un Hitler bonario
e familiare. I figli dei Goebbels lo chiamavano zio Adolf, e il più piccolo gli saliva sulle ginocchia Il Fuhrer
chiedeva alla contessa notizie del duce, esprimeva stima e ammirazione per un uomo di così grande
levatura. In una mattinata illuminata dal sole le fu al fianco in motoscafo in una scorribanda sul lago.
Le illustrava in un profluvio di parole la bellezza di quei luoghi, le attrattive artistiche della Germania; le
enumerava le città da visitare, e infine le offrì il suo treno speciale perché potesse comodamente
muoversi in tutto il paese. Le mise a disposizione anche un battello col quale seguire il corso del Reno.
Edda esprimeva alla giovane cognata Maria, filonazista quanto lei, il proprio stupore per un'accoglienza
così naturale, aliena da ogni formalità burocratica. Le diceva che di certo, nonostante la tradizionale
bonarietà degli italiani, se Hitler avesse avuto una figlia e l'avesse inviata in visita in Italia, a Mussolini
non sarebbe mai venuta in mente l'idea di invitarla a un tè e di accompagnarla, per esempio, in una gita in
motoscafo sul lago di Nemi.
Prima di quell'incontro, Hitler aveva sempre suscitato nella contessa una sgradevole impressione.
Gli sembrava una specie di marionetta dai gesti meccanici e ridicoli, mentre ora, a conoscerlo così da
vicino, poteva dire di sentirsene attratta. Ne definiva affascinanti gli occhi, pur senza ravvisarvi quel
potere ipnotico di cui tanto si favoleggiava. I baffetti alla Charlot, che sulle prime potevano renderlo
buffo, gli conferivano invece una certa serietà.
Queste sue sensazioni erano in contrasto con le idee di Galeazzo che sdegnosamente chiamava il Fuhrer
Baffino". Edda, che però lo rimirava anche da un punto di vista femminile, finiva col dire a Maria: Hitler
non è certo un Adone! Profuse egualmente tutto intero il suo charme per far colpo su di lui e disporlo
favorevolmente nei confronti del padre, così come il padre le aveva chiesto di fare. Si trattenne in
Germania per un mese ricevendo cortesie e atti di omaggio da altri personaggi del partito nazista e dello
Stato, da Goring a Himmler, da von Neurath a Hans Frank il quale le leggeva ispirato le sue poesie. Fu più
volte invitata alle feste che Goring, enorme, imbandiva nella sua fastosa residenza di Karinhalle, un
meraviglioso castello colmo di arazzi, di quadri, di argenterie disseminate in ogni suo angolo e di opere
d'arte comprate in Italia, come la Danae del Tiziano.
La fulminea ascesa di Ciano aveva sollevato in patria un'onda di malumori. Giuseppe Bottai definiva il
neoministro vano e astuto, lo vedeva salire in alto linfatico e pingue con un ondeggiare da mongolfiera.
Eppure Mussolini nutriva per il genero progetti ben più ambiziosi pensando a lui come suo eventuale
successore. Nelle coulisses del regime si attribuiva ovviamente al matrimonio con Edda il merito della
promozione. Si diceva che Galeazzo era il mantenuto morale¯ della figlia del duce, e poiché lo giudicavano
di scarse capacità intellettuali, lo chiamavano il cretino arrivato. Circolavano su di lui altre battute
sarcastiche. Una prendeva spunto dalla liturgia fascista dei saluti alla voce per rilevare come la sua
fortuna dipendesse dalla moglie: Saluto al Re: Viva Il Re; Saluto al Duce: a noi!; Saluto a Ciano: a lei!.
Rispuntavano le accuse di immoralità, di leggerezze sentimentali e di illeciti arricchimenti, già rivolte in
passato a lui e al padre, ma che ora si facevano più violente e rabbiose.
C'era però chi in tanto malanimo gli riconosceva doti di intelligenza, preparazione e generosità.
Non erano in molti. Ben più numerosi erano coloro che ne denunciavano gli aspetti negativi.
Ne parlavano come d'un personaggio orgoglioso, presuntuoso, vanitoso, disposto all'intrigo, al cinismo,
all'edonismo; alternativamente altezzoso e affabile; capace di cattive azioni e peggio; viziato dalla
fortuna, scettico e bramoso di comando; di costume mondano e leggero, facile alle confidenze pericolose,
convinto di aver diritto all'impunità e alla successione all'uomo che lo aveva elevato al di sopra di ogni
merito¯. Un ambasciatore, Roberto Cantalupo, si esprimeva non meno duramente presentandolo come
una persona immatura e prepotente che voleva troppo, diceva troppo, comandava troppo,
contraddicendosi e smentendosi, facendo bizze e lasciandosi dominare da simpatie e da odii, da una
morbosa suscettibilità e da una morbida vanagloria, impudico nella sua sete di dominio e nella sua
debordante e spocchiosa, giovanile e cordiale mondanità.
Il capo dell'Ovra, Guido Leto, era convinto che Ciano non avrebbe esitato nemmeno sulla soglia di un
delitto pur di raggiungere le sue mete. A meno che Mussolini, più svelto di lui, non decidesse un giorno di
eliminarlo come Hitler aveva fatto con Rohm, l'ambizioso capo delle SA. Ma di concreto c'era la sua
nomina a capo della diplomazia italiana. Ed era altrettanto certo che Galeazzo avesse abilmente brigato
per raggiungere questo obiettivo. Lo diceva anche Marcellino Del Drago, un diplomatico del suo
entourage: Ciano spinto dalla propria ambizione e da quella della moglie non aveva lasciato nulla
d'intentato per occupare una così prestigiosa poltrona.
Sulla scia del viaggio di Edda a Berlino, partiva per la Germania anche Galeazzo. Ed era la sua prima
missione oltre i confini come ministro degli Esteri. Ottenne un onore mai tributato a nessun altro gerarca,
poiché il Fuhrer lo volle ospite nel rifugio di Berchtesgaden sulle pendici dell'Obersalzberg. Hitler si
profuse in elogi per Mussolini e disse esplicitamente di mirare a un'intesa fra le due nazioni da favorire
con la firma di accordi preliminari. Ci fu un attimo di gelo sulla questione austriaca quando il Fuhrer,
guardando con un binocolo da una grande vetrata del Berghof il panorama di Salisburgo, oltre il confine
austriaco, esclamò corrucciato: Solo così posso vedere la mia patria tedesca!
Il viaggio di Ciano fu definito di fondamentale importanza, e Mussolini lo lodò pubblicamente in piazza
del Duomo a Milano. Dal sagrato della chiesa diede quindi un grande annuncio che consisteva nella
prefigurazione di un'alleanza operativa italo-tedesca che chiamò asse: La verticale Berlino-Roma non è
un diaframma, è piuttosto un asse attorno al quale possono collaborare tutti gli Stati europei animati da
volontà di collaborazione e di pace. Una pace che si affrettò a definire armata, rivolgendosi soprattutto
all'Inghilterra perché intendesse come le conquiste italiane fossero un fatto irreversibile.
I rapporti italotedeschi miglioravano, anche se fra qualche incertezza a causa delle strizzatine d'occhio
che Roma e Berlino, ognuno per proprio conto, ancora rivolgevano alla Francia e alla Gran Bretagna.
Mussolini aveva incaricato Ciano di preparare con gli inglesi nonostante la riluttanza del ministro degli
Esteri Eden, una sorta d'intesa che al momento della firma fu chiamata gentlernen's agreement.
Con questo accordo si riconosceva come interesse vitale dei due paesi il diritto di entrare nel
Mediterraneo, di uscirne e di transitarvi liberamente. Ciò non poteva non impensierire il Fuhrer, il quale
tuttavia moltiplicava le cortesie nei confronti del duce, del genero Galeazzo e della figlia Edda.
Già pensava di invitare Mussolini a Berlino. L'incontro doveva servire a neutralizzare il fastidioso
gentlemen's agreement italoinglese, ma la preparazione dell'evento si presentava complessa.
Goring, che aveva particolari rapporti di amicizia con l'Italia, fu a Roma per tastare il polso a Mussolini
sul mai accantonato proposito hitleriano di annettersi l'Austria. Il duce non evitò di confermarsi
contrario all'Anschluss e dovette correre ai ripari il ministro degli Esteri von Neurath dandogli
l'assicurazione che Berlino non avrebbe mai invalidato l'accordo austrotedesco sottoscritto con il
cancelliere viennese Schuschnigg, a meno che gli Asburgo non fossero riusciti a tornare sul trono.
Quei legami sempre più stretti fra l'Italia e la Germania preoccupavano fortemente l'Austria, tanto che
quando i coniugi Ciano si recarono in visita a Vienna furono accolti
con freddezza. Edda, che se ne lamentava, definiva per ritorsione Schuschnigg l'uomo più noioso che
avesse mai incontrato, così come Galeazzo lo giudicava ipocrita e sfuggente. Scortata dalla principessa di
Starhenberg, era condotta da un museo a una scuola, da un asilo a una mostra di pittura. Dovunque era
accolta con agghiacciante distacco. Una mattina, attraversando il cortile di un severo edificio, vide uomini
e donne che agitavano freneticamente le mani al suo passaggio. Ne fu lieta perché finalmente qualcuno la
festeggiava e mostrava di apprezzare l'Italia. Ma grande e amara fu la sorpresa quando si accorse che si
trovava in un manicomio.
L'ascesa del marito agli Esteri la indusse a rivolgere maggiore attenzione alla politica soprattutto perché
approvava il riavvicinamento del padre a Hitler. I giornali stranieri subito le assegnarono un ruolo di
maggior rilievo sulla scena politica italiana, anzi europea. Mussolini se ne compiaceva, e nel novembre
del '36 le inviò il ritaglio d'un settimanale di Zurigo che intesseva di lei uno smaccato panegirico.
Unì al ritaglio un biglietto sul quale scrisse di proprio pugno: Cara Edda, ti mando una nota della
"Weltwoche". A poco a poco entri nella leggenda! Affettuosamente tuo papà Mussolini. Il settimanale
aveva sentenziato: La contessa Ciano, la donna più potente d'Italia, la donna che ha molti ammiratori e
pochi amici, l'amica di Goebbels, Goring e Himmler, la figlia prediletta del duce e nello stesso tempo la sua
più intima confidente, la contessa Ciano è con la signora Roosevelt la donna più influente del mondo.
Svolge missioni diplomatiche, è il "Ribbentrop italiano", esamina con suo padre le più importanti
questioni politiche ed è meglio informata sulla politica estera italiana della maggior parte dei ministri del
suo paese. La contessa Ciano è una delle più strane e delle più attraenti figure di donna della nostra
epoca.
Un altro giornale svizzero, il Berner Tageblatt, completava più maliziosamente il quadro scrivendo: Il
conte Ciano deve alla moglie la nomina a ministro degli Esteri, poiché Mussolini ha ceduto alle insistenze
e all'ambizione della figlia. La bella Contessa è senza dubbio una delle donne più potenti d'Europa; il duce
la definisce il suo "miglior consigliere", e non vi è questione politica per la quale egli non richieda la sua
opinione. E quindi concludeva: Tutti sanno che suo padre governa l'Italia e che Edda governa suo padre.
Galeazzo pensava che la diplomazia avesse le cadenze di un valzer. Ed egli s'intendeva della materia
essendo amante del ballo. A Roma lo sapevano tutti, e difatti l'ambasciatore degli Stati Uniti in Italia
William Phillips organizzava serate di ballo in onore suo e di Edda la quale in verità preferiva alla danza il
tavolo verde. Phillips non stimava granché il conte. Diceva che era impossibile prenderlo sul seno,
essendo egli più un giovane bellimbusto che un ministro degli Esteri. E aggiungeva: Il conte manca quasi
del tutto di buona educazione. Phillips si mostrava scandalizzato del comportamento dei Ciano nelle
serate danzanti: Il conte dedica la sua attenzione esclusivamente alle amiche presenti, trascurando del
tutto gli ambasciatori. La contessa Edda tiene un identico atteggiamento con i giovani che le fanno la
corte.
A Ginevra i paesi sanzionisti avevano deciso di revocare le limitazioni economiche imposte all'Italia, ma il
duce non modificò la sua linea di accostamento alla Germania. L'atto di pacificazione della Lega
internazionale, gli offrì anzi l occasione per un nuovo altisonante discorso dal famoso balcone di palazzo
Venezia: Oggi 15 luglio dell'anno quattordicesimo, sugli spalti del sanzionismo mondiale è stata innalzata
la bandiera bianca. Il merito di questa grande vittoria va tutto e integralmente al popolo italiano....
La folla lo interruppe gridando Va a Voi, Duce. Qualcuno più familiarmente esclamò: Va a te! A te che hai
guidato i nostri figli! Lui compiaciuto, si piegò più volte sulle ginocchia, arcuando le gambe come un
baldo cavallerizzo
L'Italia, per quanto in linea con la Germania, cercava di svolgere una propria politica estera che in
qualche modo le consentisse di tamponare il temuto espansionismo tedesco. Il bacino danubiano si
presentava agli occhi di Mussolini, e soprattutto di Ciano, come una possibile area di manovra. Il conte
decise quindi di stabilire un contatto con l'uomo forte della Iugoslavia, Milan Stojadinovic, giudicato
filofascista. Firmò con lui un'alleanza, nell'illusione di poter considerare con minor turbamento
l'eventualità d'un Anschluss. Si mormorava di una liaison sentimentale fra Galeazzo e Augusta, moglie di
Stojadinovic, mentre in una telefonata intercorsa tra l'addetto stampa dell'ambasciata inglese a Roma e
un giornalista, intercettata dai servizi segreti italiani, si insinuava che Ciano si accingesse ad accogliere in
Italia il premier iugoslavo facendogli trovare nel letto qualche bella donna per legarlo sempre più al carro
fascista¯. Galeazzo, riconoscendo come ciò fosse in parte vero, nel diario annotava: Il Duce ha riso quando
gli ho detto che, oltre ai ricevimenti ufficiali, ho preparato alcuni balletti con le più belle donne della
società romana.
L'esplosione della guerra civile in Spagna aveva offerto a Mussolini e a Hitler nuovi motivi per affiancarsi
l'un l'altro, tanto che nel corso del conflitto poterono sperimentare in concreto una comune militanza
antibolscevica. Ciano, da convinto fautore dell'intervento al fianco dei rivoltosi franchisti, assunse
un'iniziativa eccentrica e istituì presso il suo ministero un ufficio con il compito di coordinare alcune
operazioni militari dei legionari italiani in Spagna. Da quell'ufficio egli ordinava di fucilare i prigionieri
rossi, di bombardare Valenza per terrorizzare il nemico, di tagliare l'acqua a Santander per affrettarne la
resa.
Mentre i due dittatori inviavano non soltanto consiglieri militari, ma anche truppe - il tutto per impedire,
come dicevano, una pericolosa espansione dei rossi nel Mediterraneo - si approfondiva la rottura con
l'Inghilterra. Ne dava testimonianza Grandi: I rapporti italo-britannici, messi in pericolo dalla questione
abissina, sono ora compromessi e avvelenati dalla questione spagnola. Questa, non quella, è la causa vera
del turbamento definitivo verso il quale ci avviamo. La questione abissina era stata una malattia acuta ma
breve. Come tutte le malattie brevi essa avrebbe determinato una guarigione rapida e contribuito, alla
fine, per rafforzare i rapporti italo-britannici. La questione spagnola ha i caratteri di una malattia
subdola, lenta, progressiva. E il grande strumento, in mano alla Germania, per creare un abisso sempre
maggiore tra Italia e Gran Bretagna.
In Germania i capi nazisti ormai si adoperavano per accaparrare le simpatie delle persone vicine a
Mussolini. Quindi, se Edda si prodigava per conquistare l'amicizia dei tedeschi, i tedeschi cercavano di
attrarre lei nella loro orbita, ben conoscendone i sentimenti filonazisti. Era sempre Grandi a rivelare
alcuni aspetti di questa vicenda. Diceva che Edda era stata invitata e accolta a Berlino come una regina e
che era tornata dalla Germania tanto inebriata da diventare una delle più attive propagandiste
dell'alleanza italotedesca. Ciano, aggiungeva l'ambasciatore, non mancava di essere geloso della
posizione politica che la moglie si era conquistata agli occhi dei tedeschi. I giudizi di Grandi potevano
essere venati di invidia poiché Mussolini non aveva restituito a lui, filoinglese, il portafoglio degli Esteri
preferendogli il genero, filotedesco.
Era tutto un carosello di invidie e di gelosie. Grandi poteva aver ragione nell'accennare alla gelosia di
Galeazzo per i successi della moglie. Eppure Deda, sebbene si fosse avvicinata alla politica, se ne
occupava aristocraticamente, con un certo distacco. Nelle manifestazioni pubbliche di cui era
protagonista si manteneva distante, non si sbracciava e raramente sorrideva. Galeazzo notava come la
gente non tributasse alla moglie accoglienze calorose: E un'ottima ragazza, ma difetta di forma e non ama
la folla. Allora non è amata. Ed è un peccato perché ha grandi e singolari qualità. Prevaleva in lei una
naturale asprezza del carattere e una tendenza a condurre più una politica di coulisses che di folle.
I suoi viaggi a Berlino si susseguivano ormai con una certa frequenza. Si era invaghita di von Ribbentrop?
Macché, lo odiava! Condivideva infatti il giudizio di Goring che lo chiamava il primo pappagallo della
Germania in quanto si limitava a ripetere pedissequamente ciò che il Fuhrer diceva. Ribbentrop era
l'unico tedesco che le dava il voltastomaco. I giornali stranieri azzardavano scabrose allusioni, e lei ne
parlava un po' con esasperazione, un po' con amara sfrontatezza. Con quelle insinuazioni, diceva,
tendevano a farla passare per una specie di Messalina che si recava fra i tedeschi per concedersi alle
guardie del corpo del Fuhrer essendo dei giovani robusti, alti, belli e biondi. Veniva giudicata una donna
che non sarebbe indietreggiata neppure di fronte all'orrore di andare a letto con il padre o con i figli pur
di raggiungere i suoi scopi. La sua vita veniva rappresentata come una lunga teoria di scandali che
esplodevano in ogni dove, tra dune, scogli, monti. Lei sceglieva gli angoli più solitari anche in luoghi
affollati, a Capri, a Castel Fusano, a Torre Astura, a Cortina, in Versilia, un po' stordita e in vesti succinte,
nude le braccia e le spalle. A Cortina, l'angolo da lei preferito era un rifugio intitolato al suo nome, e lì
trascorreva lunghe ore a giocare a poker, a fumare sigarette americane, a bere gin o whisky inglese,
secondo le delizie scoperte in Cina.
Non disdegnava neppure i luoghi affollati come la Capannina di Achille Franceschi, a Forte dei Marmi,
dove ballava gota-a-gota notti intere. Una volta si presentò in un attillatissimo abitino bianco con una
enorme rosa nera sul sedere.
La suocera, Carolina, la giudicava una donna bizzarra come nessun'altra, e confidava alle amiche: Edda si
apparta talvolta per quindici giorni consecutivi, immersa nella lettura di romanzi americani. Poi,
d'improvviso, la solitudine le viene a noia. Allora s'imbarca con i primi tipi che le capitano a portata di
mano, senza badare troppo per il sottile. Un giorno un settimanale straniero le aveva paradossalmente
attribuito quarantamila amanti, e lei aveva scritto a Carolina, con sarcasmo e stizza: Cara mamma, devi
rapidamente persuaderti che la Pompadour, Ninon de Lenclos e madame de Maintenon erano, al mio
confronto, delle ingenue ragazzine degne d'indossare la veste monacale. Dicono che sono incinta chissà di
chi, e diranno che sei incinta anche tu, cara mamma.
Le sfuriate di Galeazzo, il suo sfoggio di autoritarismo la lasciavano indifferente. Il marito imparava a
sopportarla e comunque la ripagava con la sua stessa moneta, per cui lei gli dava perfino qualche
consiglio: Divertiti, se vuoi, ma non abbandonarti a confidenze con le tue conquiste. Diffida delle
confidenze sul cuscino. Sei un ministro e sei tenuto ai segreti di Stato. Lei era certa che molte belle donne
andassero a letto col marito per carpirgli indiscrezioni da riferire ai tedeschi e agli stessi fascisti suoi
nemici. Lui non se ne dava per inteso. Fatuo e vanaglorio so cercava di fare colpo tra le coltri lasciandosi
andare a malevoli giudizi su tutti, su Mussolini stesso; su Hitler, che definiva un puro folle e un nuovo
Parsifal; sui tedeschi in genere, su quel fesso oltre che cafone e vinattiere di Ribbentrop, su quel gran bue
lardoso di Goring, su quello sciancato di Goebbels che sembrava uscito da una tregenda nibelungica di
quart'ordine. Parlava senza remore anche con una donna che i tedeschi gli avevano messo alle costole, la
baronessa Veronica von Klemm, una splendida creatura di pelle dorata e di non inespugnabile virtù.
Si esibiva con feroci stoccate contro i capi della Germania perfino alla presenza dei diplomatici di villa
Wolkonsky, sede dell'ambasciata tedesca a Roma, come il consigliere Otto von Bismarck. E naturalmente
con le mogli, a cominciare dalla bellissima Anna Maria, consorte di Otto, per quanto gli fosse antipatica.
La vita coniugale dei Ciano era costellata di litigi. Per un po' ne tennero lontani i figli che abitavano
nell'appartamento di via Secchi al piano inferiore, affidati alle cure di una bisbetica governante tedesca,
ma poi furono anche loro coinvolti nel tempestoso ménage insieme al resto della famiglia, compresa la
suocera Carolina che ormai Edda chiamava pubblicamente senza riguardi la bertuccia. A questa
avversione corrispondeva un'ostilità altrettanto esplicita dell'altra suocera, donna Rachele, nei confronti
del marito della figlia. All'inizio i coniugi Ciano si erano rinfacciati i loro reciproci svaghi sessuali extra
moenia, ma poi cominciarono a trovare più conveniente l'armistizio.
Deda non nascondeva quanto le era costato raggiungere uno stato di serenità con Gallo. Ma prima di
arrivare a questo risultato aveva progettato di separarsi da lui. Lo aveva detto a bruciapelo al padre nella
sala del Mappamondo a palazzo Venezia. Papà, voglio lasciare Galeazzo. E Mussolini le aveva risposto
provocatoriamente: Non ti d… abbastanza da mangiare? No, non si tratta di questo. Allora ti lascia senza
soldi? No. Ti tradisce? Forse. Sei innamorata di qualcun altro? Assolutamente no! Allora torna a casa e
non parliamone più. Edda non poté fare altro che sistemare per suo conto la delicata questione.
Per Galeazzo, Deda rimaneva la donna della sua fortuna politica, al di là d'ogni contrasto. In molti
coglievano la sostanza della cosa, e c'era chi accusava Mussolini di proteggere spudoratamente il giovane
conte soltanto perché aveva impalmato la figlia. Nell'ottobre del '36 arrivò da Torino sul tavolo del duce
una minacciosa riservata personale, con un finale preoccupante: Eccellenza, Vi si avverte che la
scandalosa propaganda che state facendo a Vostro genero Galeazzo Ciano di Cortellazzo testa di cazzo, fa
vomitare tutta la Nazione. Gli italiani pensano che a Vostro genero, marito di una puttana, mantenuto,
cornuto, pappatore, promosso e decorato in Africa Orientale perché Vostro parente sia per lui troppo
quello che già ha avuto. Il nepotismo ha fatto il suo tempo fra di noi e la pazienza della Nazione ha un
limite. Attenzione ai mali passi, Voi e lui. Lui però prima. Su Edda, giudicata troppo mondana, i
marchigiani ricordavano: Donna che dimena l'anca, / o è puttana o poco ci manca. E i veneti: Dona che
mena 'l cul come una quaglia, / se putana no xe de poco sbaglia.
Ciano prese a guardare in direzione dell'Albania come terra di conquista. Considerava ormai insufficiente
la sola strategia del contenimento nei confronti della Germania, e quindi cominciava ad abbozzare
un'idea nuova: quella di annacquare i termini dell'alleanza italotedesca per favorire un riavvicinamento
tra Roma e Londra. Fin dalle primissime pagine del diario, il 25 agosto del '37, scriveva: Ho persuaso il
Duce a dare 60 milioni, in quattro anni, all'Albania, per lavori di varia natura. Bisogna crearvi dei centri
stabili di interessi italiani. Non si sa quello che l'avvenire può riservare.
Edda era preoccupata. Dalle idee che il marito andava maturando potevano scaturire dissapori con il
padre, e del resto lei stessa le disapprovava apertamente. Per non aggravare i contrasti familiari,
sentimentali e politici, lei trascorreva intere settimane a Capri che era diventata il paradiso dell'impero
fascista. Si era fatta costruire una casa sul Castiglione, fra il Monte Solaro e il salto di Tiberio, a
strapiombo su Marina Piccola. Era un edificio prefabbricato, un esempio di deturpazione del paesaggio.
Glielo aveva costruito un ingegnere maneggione del regime, quel Dario Pater che si era arricchito
entrando nelle grazie di donna Rachele, realizzando case di cartone compresso in Africa orientale e in
ogni altro luogo dove fosse possibile esercitare una speculazione edilizia. Aveva costruito in cartone e
segatura anche la casa di Edda, sebbene avesse ricevuto l'ordine di edificarla in pietra. Presto la contessa
dovette farla riedificare con materiale più duraturo e il prefabbricato si trasformò in una vera e propria
villa, molto ampia, a due piani, pur somigliando sempre a un impersonale scatolone. Edda l'arredò
lussuosamente. Pose alle pareti un De Chirico, alcuni Sciltian, altri dipinti di valore e affidò il tutto in
custodia al suo fidato barcaiolo e cameriere, Costanzo Strina. Sulle colonne d'ingresso fece collocare due
grandi aquile imperiali, immagini a lei care essendo lei stessa chiamata in famiglia con l'appellativo di
Aquilaccia.
I rapporti fra l'ingegnere e i Ciano si erano definitivamente guastati. Si mormorava che Pater fosse
l'amante di donna Rachele, e di questa strana storia parlò Edda a Galeazzo, dicendo in conclusione: Sono
gli effetti della menopausa. Il conte, pur apprezzando la spregiudicatezza della moglie, non mancava di
metterla in guardia da quel Rasputine in sedicesimo, un poco di buono che approfittava dell'ascendente
su Rachele per tirarne ogni sorta di utili.
La casa fu collegata con il centro di Capri tramite una carrozzabile aperta dal regime in onore di Edda.
Lei non conduceva però vita di Piazzetta. Preferiva riunirsi con gli amici nel chiuso delle ville o nei
giardini segreti dell'isola.
Un gioielliere di via Camerelle, soprannominato Chanteclair¯, divenne un suo accompagnatore assiduo.
Né poteva essere diversamente essendo entrambi campioni di eccentricità. n marito ideale di Edda
poteva essere Chanteclair per la sua estrosità, e non Galeazzo che di originale non aveva nulla.
Chanteclair, al secolo Pietro Capuano, era un bell'uomo, frutto vivissimo della bizzarria di cui l'isola era
ricca, amico degli svagati frequentatori di quello scoglio superbo. Abbigliato oltre i limiti dell'eccentricità
più ardita e snobistica riusciva continuamente a superare se stesso e a stupire gli altri. Combinava i colori
dei suoi vestimenti giocando su accesi contrasti o su lievi nuances. Nel suo sconfinato guardaroba, che
occupava un intero stanzone nella casa di Punta Tragara, si allineavano non meno di duecento abiti. La
gente diceva che avesse più vestiti negli armadi che capelli in testa. Calzava scarpe di eccelsa fattura
brillanti come uno specchio, poiché le lucidava fin sotto le suole, con l'atteggiamento di un lord Brummell
del ventesimo secolo.
Di buona famiglia napoletana, aveva qualche anno più di Edda. Erano diventati amici a prima vista.
Chanteclair era uno scapolo burlone e festaiolo. Gustava la vita all'aria aperta, le lunghe uscite in barca.
Fra i più riposti anfratti di Capri amava la Grotta verde, nelle cui acque si bagnava con la contessa ogni
mattina a mezzogiorno. Apparecchiava feste e banchetti interminabili alla Marina Grande e in ogni altro
luogo dell'isola, con la partecipazione del pungente Noel Coward, o del biondo Eddie Bismarck
accompagnato da Mona Williams, o di Gioia Caetani, di Elisabetta Moretti e della sempre sorridente
Cyprienne Charles-Roux Del Drago.
Nelle tasche di Chanteclair i gioielli si confondevano ai tric-trac. La forte amicizia tra lui e l'Edda nacque
dal!'esplosione di uno di quei tric-trac in una sera d'estate. Al Quisisana era in pieno svolgimento una
festa in onore di Umberto di Savoia, attorniato da bella gente, dame e personaggi della nobiltà
internazionale e del fascismo partenopeo, quando all'improvviso sotto il tavolo del principe esplose e
rimbalzò più volte con gran fracasso un petardo. Lo aveva lanciato Chanteclair, avventatamente, ma
Umberto, insensibile alle manifestazioni di originalità ancor più di Galeazzo, non gradì lo scherzo.
Le autorità di polizia agguantarono il giovane quanto innocuo dinamitardo per le ascelle e lo avrebbero
all'istante trascinato al fresco, se non si fosse levata in sua difesa la contessa, implorando il principe di
compiere un gesto di magnanima liberalità. Continuò a difendere il giovane scapestrato fino a quando
non riuscì a ottenere una definitiva archiviazione dell'incidente.
Rari si erano fatti i contatti con Galeazzo, il quale raggiungeva l'isola una volta la settimana e non vi si
tratteneva che per poche ore. Il conte arrivava il sabato mattina, ammarando con un idrovolante a Marina
Grande, e ripartiva il pomeriggio dello stesso giorno, prima che fosse calata la sera. I figli soffrivano per
quelle troppo rapide apparizioni, e a consolarli non bastavano le sue carezze.
In Europa tutto era allo stato nebuloso. Galeazzo, da un lato preparava il viaggio che Mussolini si
accingeva a compiere in Germania, dall'altro lato ne prendeva le distanze. Diceva a Giuseppe Bottai:
®Vado a Berlino per rendermi conto degli umori. Non bisogna stringere troppo, però. La Germania non è
che un terreno di manovra per me. Voglio dire: per noi. Ora devo un poco frenare il Capo, proclive ad
accendersi per le notizie sull'organizzazione militare tedesca. La scelta del momento per l'incontro fra i
due dittatori si rivelò propizia. Hitler fece bene attenzione affinché non si ripetessero le infelici
incomprensioni di Venezia: fu così che il viaggio in Germania poté segnare il passaggio dell'asse Roma
Berlino dalla fase di ideazione a quella di attuazione.
La preparazione dell'incontro si era protratta per un anno in quanto Mussolini non intendeva
intraprenderlo senza essere certo di ricavarne un immenso clamore e di raggiungere risultati concreti di
portata storica: Esso dovrà determinare l'incontro dei Capi di due movimenti e di due filosofie affini, e
segnare non soltanto la solidarietà dei regimi, ma anche la politica comune dei due Stati.
Il segreto dell'asse, diceva Anfuso a Galeazzo, risiedeva tutto in quel nuovo incontro che - pur avendo
fatto ritrovare di fronte due nemici ereditari, essendo l'uno un caporale italiano e l'altro un caporale
tedesco - si concluse con ottimi risultati. Il segreto consisteva nella grande abilità di Hitler che era
riuscito a far credere al duce di essere al centro dell'universo, di essere popolare in Germania più dello
stesso Capo tedesco. Non ho mai visto Hitler così buono come in quei giorni, osservava Anfuso.
®Sembrava che il Fuhrer dovesse far le consegne del suo paese a un nuovo padrone. A un certo punto
temetti che se Mussolini avesse preso un raffreddore, Hitler avrebbe ordinato di uccidere il capo del
cerimoniale tedesco.
La stessa cosa valeva per Edda, la quale, nei suoi viaggi a Berlino e in altre città della Germania, aveva
netta la sensazione di essere più amata che in patria. Naturalmente le sfuggiva che il clima di popolarità
in cui si trovava immersa oltralpe non era che una messa in scena propagandistica ideata da quel diavolo
di Goebbels per attrarla sempre più nella sfera tedesca.
Hitler mostrò al duce armamenti, folle e soldati, in una scenografia da epopea nibelungica, tra canti
ossessivi e musiche wagneriane, monumentali colonne e archi di trionfo sormontati dalla lettera M,
aquile germaniche e svastiche commiste a fasci littori. Nella capitale prussiana, al Campo di Maggio, nello
stadio olimpico, sulla via Triumphalis e sulla Wilhelmstrasse erano ammassate tre milioni di persone. Il
Fuhrer, nel salutare l'ospite italiano, espresse la gioia di trovarsi al fianco d'uno di quegli uomini solitari
che non sono strumenti della storia, ma che fanno essi stessi la storia. Esaltò il fatto che l'Italia fascista,
per merito della geniale attività creatrice di un costruttore, era diventata un nuovo impero, così come la
Germania nazionalsocialista era ridiventata una potenza mondiale. Quindi gli consegnò la più alta
onorificenza tedesca, insieme a un distintivo d'oro del partito nazista identico al suo. Non ce n'erano altri
eguali in tutta la Germania. Mussolini viveva in un'apoteosi che, come scrivevano i giornali, soltanto
Cesare aveva conosciuto. Durante la visita a Monaco, culla del nazismo, sfilò tra busti di imperatori
romani e trionfali piante di alloro. A Potsdam si entusiasmò all'idea che di lì era passato Napoleone.
Nello storico Meclemburgo gli fu offerto un grandioso spettacolo di manovre militari, ma Ciano gli
mormorava perfidamente all'orecchio che dai tedeschi si sarebbe aspettato di più. Ne indicava
ridacchiando i gesti meccanici, niente affatto umani, di gente accecata da un pericoloso fanatismo.
I due paesi si avviavano verso un comune destino. In un solo blocco si univano centoquindici milioni di
cittadini per costruire, come diceva Mario Appelius, una nuova Europa e sconfiggere per sempre il
bolscevismo. Tornato a Roma, Mussolini dal balcone di palazzo Venezia disse di aver riportato dalla
Germania e dai colloqui col Fuhrer profonde impressioni e immagini indelebili. Aggiunse a voce altissima
poche altre parole: L'amicizia italogermanica, considerata nella politica dell'asse Roma-Berlino, è in
questi giorni discesa nel cuore delle due nazioni e vi rimarrà.
Le cose non stavano proprio così, tanto che per lo stesso Ciano si apriva fin da quei giorni del '37 una fase
di grande tormento sentendosi lacerato da una sorda dissociazione interiore. Era il ministro degli Esteri
di una nazione che ravvisava nella Germania un'alleata ideale. In tale veste era suo compito fare da
vessillifero della politica filotedesca, ma in realtà succedeva che proprio in quel momento egli avvertisse
l'esigenza di staccarsene.
Nel diario dava piena testimonianza di questa sua contraddizione, tra momenti di entusiasmo e altri di
scoramento. Si chiedeva se poteva bastare la solidarietà di regime a tenere veramente uniti due popoli
che razza, civiltà, religione, gusti respingono ai poli opposti. Quindi proseguiva amareggiato: Nessuno
può accusarmi di ostilità alla politica filotedesca. L'ho inaugurata io. Ma deve la Germania considerarsi
una meta o non piuttosto un terreno di manovra? Gli avvenimenti di questi giorni e soprattutto il
lealismo politico di Mussolini mi fanno propendere per la prima eventualità. Ma le vicende non si
svilupperanno in modo tale da separare ancora una volta questi due popoli?. Era questa l'ipotesi che
Ciano si augurava di veder realizzata. Ciò apparteneva ai suoi segreti pensieri, mentre il volto ufficiale del
ministro era un altro. Difatti a Roma, fra i molti che non sapevano come stessero realmente le cose, si
diceva che Galeazzo era un pupazzo nelle mani dei tedeschi. Lui se ne irritava, e alla cara amica
Cyprienne Charles-Roux, moglie di Marcellino Del Drago, diceva: Glielo farò vedere io se mi manovrano
come un coglione!.
Una così grave dissociazione si rifletteva sul mènage familiare dei Ciano, approfondendo il dissidio
sessuale che già li teneva lontani e in conflitto. Tra loro esplodevano furibonde discussioni sulla
Germania e sul nazismo. Deda non diceva nulla al padre. Taceva, sempre sperando in un recupero del
marito. Tra loro si era instaurata una sorta di tollerante amicizia e di istintiva solidarietà tra simili.
La contessa disponeva liberamente di sé, e attraverso i canali del pettegolezzo di regime si infittivano le
voci di amori non troppo nascosti. Erano relazioni fuggevoli, occasionali, avventure di viaggio, che Gallo
con tollerante understatement diplomatico, definiva in pubblico piccoli flirts, ricorrendo alla stessa
espressione che la moglie usava per lui. Mordeva il freno senza che il suo fragile carattere gli permettesse
di fare qualcosa di più.
Galeazzo seguiva costantemente le mosse di Hitler, traendone sempre nuovi motivi di preoccupazione.
Dalla Germania soffiava un vento che non prometteva niente di buono. E si era alla fine del '37. La lunga
ossessione che aveva dominato la vita di Hitler, sembrava prossima a uno sbocco drammatico: fare della
Germania la nazione egemone di un'Europa asservita e di se stesso il più grande tedesco di tutti i tempi.
Ciò non si sarebbe potuto attuare se non attraverso una guerra, come ammetteva apertamente il Fuhrer
suggestionando i suoi più vicini collaboratori. Le prime conquiste si potevano ottenere senza incrociare
le armi, mostrando fermezza, contando sulla debolezza e sulle difficoltà in cui si dibattevano le altre
nazioni oltre che sull'alleanza dell'Italia. Fra i suoi primi obiettivi figuravano l'annessione dell'Austria e
l'occupazione dell'intera Cecoslovacchia, non soltanto del territorio dei Sudeti, da realizzare
fulmineamente entro pochi mesi, non oltre il '38.
Hitler era sicuro che la Francia e l'Inghilterra non si sarebbero mosse e che anzi già davano per scontato
la cancellazione del popolo cèco dalla carta dell'Europa. Poteva temere una reazione di Mussolini
all'Anschluss, ma per sventarla, diceva, sarebbe bastato assentire a sue nuove espansioni. Si poteva
neutralizzare anche la tenue fronda di Ciano, che a lui non sfuggiva, favorendo lo sbarco italiano in
Albania. In questo clima si estendeva all'Italia il patto anti-Comintern che la Germania aveva firmato
l'anno prima col Giappone. L'alleanza impegnava apertamente i contraenti a battersi contro l'attività
disgregatrice dell'Internazionale comunista, detta Comintern, che inglobava i partiti comunisti nel
mondo; segretamente li obbligava a intervenire l'uno in soccorso dell'altro per respingere eventuali
attacchi sovietici. L'adesione di Mussolini al patto fu sottoscritta a Roma, e in questa occasione Ciano
metteva la sordina alla polemica antitedesca prevalendo in lui i sentimenti anticomunisti e l'immensa
soddisfazione di trovarsi, con l'Italia che aveva rotto l'isolamento, al centro della più formidabile
combinazione politica militare che sia mai esistita¯. Notava perciò che al suo ingresso nelle aule di
Montecitorio e di palazzo Madama veniva vivamente applaudito.
Con la firma del patto vedeva aprirsi una reale possibilità di giocare la partita suprema. Scriveva che
l'alleanza di tre imperi militari come l'Italia, la Germania e il Giappone gettava sulla bilancia il peso di una
forza armata senza precedenti¯; tre popoli erano su una medesima strada che forse li condurrà al
combattimento, combattimento necessario se si vuole spezzare la crosta che soffoca l'energia e le
aspirazioni dei popoli giovani.
Morsicato dalla tarantola del bellicismo, faceva fretta a tutti. Polemizzava con i ministri finanziari
Guarnieri e Revel che gli esprimevano il più vivo pessimismo sulla situazione valutaria italiana, tanto
critica da sconsigliare ogni iniziativa bellica. Essi chiedevano due anni di tranquillità e dieci di pace, per
cui Ciano li rimbeccava esclamando: Mi sembrano troppi!. Traeva però grande soddisfazione
dall'imminente costruzione della nuova sede del ministero degli Esteri prevista, alle pendici di monte
Mario, come un enorme blocco, bianco e uniforme. Con soddisfazione diceva che il nuovo palazzo
avrebbe contribuito a creare la Roma del Duce.
Nella sua incarnazione bellica decise di imporre un nome guerresco al terzo figlio che nacque nel
dicembre di quel movimentato '37, e lo chiamò Marzio, con piena soddisfazione di Edda. Il significato di
quella decisione non passò inosservato, sicché lui ne scrisse nel diario: Si è voluto dare alla scelta del
nome Marzio un sapore politico e profetico: guerra. Ma credono veramente che le partite aspetteranno
ancora tanti anni quanti ne richiederebbe la giovinezza armata di Marzio prima di trovare una
soluzione?. Galeazzo, mostrando di voler bruciare i tempi, aggiungeva: A volte mi chiedo se non convenga
proprio a noi di forzare la marcia e di dar fuoco alla miccia. Bisogna stringere la cintola ed armarsi. Tutto
lascia credere che la lotta sia inevitabile. In tal caso non bisogna perdere il nostro maggiore vantaggio:
quello dell'iniziativa.
Per i Ciano, il piccolo Marzio non era soltanto un segnale di guerra. Come avevano chiamato Dindina la
figlia dell'errore, essendo nata contro la loro volontà, così Marzio fu chiamato il figlio della ragione poiché
il bambino avrebbe dovuto rappresentare un loro reale e duraturo riavvicinamento amoroso. Ancora una
volta a un Ciano si imponeva il nome con una zeta, e la tradizione proseguiva. Marzio nacque in via
Secchi. Galeazzo era felice.
Era ancora in mutande quando corse a comunicare la notizia agli altri due figlioli. Bambini, un altro
maschio! E biondo, ha gli occhi azzurri. Venite a vederlo!, gridò. Deda diede al nuovo arrivato il
soprannome di Mowgli che in lingua indiana vuol dire ranocchio. Era, quella, una reminiscenza del suo
viaggio in India frammista alla lettura del Libro della giungla di Kipling, uno dei suoi scrittori preferiti,
scomparso l'anno prima. Il bambino fu battezzato dal segretario della congregazione dei Riti, monsignor
Celso Costantini. Ha ricevuto l'acqua e il sale, annotò Galeazzo, in religioso silenzio, senza versare una
lacrima, il che, a detta di competenti, ha del prodigioso.
Hitler stava alfine per ingoiare l'Austria, e la sua ingordigia si rivelava sconfinata. Ormai non se ne
preoccupava più soltanto Ciano, ma lo stesso Mussolini. Era in pericolo anche l'Alto Adige, ora che la
Germania avrebbe confinato con il Brennero. I tedeschi altoatesini, diceva Galeazzo al suocero, alzano
troppo la testa, riuscendo così a riaccendere in lui vecchi rancori. Difatti il duce affermava che se i
tedeschi avessero ardito di spostare d'un solo metro il palo di frontiera si sarebbero trovati di fronte alla
più dura delle guerre: Metteremo a terra la Germania per almeno due secoli.
Appariva necessario riallacciare i rapporti con gli inglesi, e soprattutto rendere concreta l'idea d'un asse
orizzontale Italia-Iugoslavia magari prolungandolo all'Ungheria e alla Polonia. Poiché, osservava Ciano, il
pollastro austriaco è caduto nella pentola tedesca, è indispensabile che i legami tra Roma e Belgrado
vengano ancora rafforzati e conviene tenere presente che anche l'Ungheria e la Polonia si trovano in
situazione analoga. L'asse orizzontale potrà permettere l'esistenza dell'asse verticale. Con gli inglesi però
non si doveva dare l'impressione di essere andati a Canossa sotto la pressione tedesca.
All'ondeggiamento della politica estera corrispondeva una più intensa fascistizzazione dell'Italia,
aggravata da spruzzatine di stile nazista, dal passo dell'oca al nuovo look delle uniformi. Si gettò alle
ortiche il consunto fez con nappa ciondolante per adottare un berretto a visiera d'ispirazione tedesca.
La fascistizzazione, oltre alle aspersioni di stile nazista, si colorava anche di giallo nipponico.
Tutto diventava più rigido e severo. Si mettevano in divisa, con l'attribuzione di gradi come sotto le armi,
i dipendenti statali; si aboliva la stretta di mano e si imponeva il saluto a braccio teso; si sopprimeva il lei
e si ingiungeva di usare il voi. Mussolini, parafrasando d'Azeglio, esclamava: Abbiamo fatto l'impero, ora
bisogna fare gli imperialisti ! "
In una temperie sempre più tesa, Hitler invase l'Austria. L'evento fatale si è compiuto, commentava Ciano
il 13 marzo. Cinque giorni dopo festeggiava in famiglia il suo compleanno, e con aria pensosa esclamava:
Trentacinque anni, il mezzo del cammin........ Sostanzialmente l'annessione era anche una conseguenza
della politica inglese dell'appeasement protesa a fare concessioni al Fuhrer con l'illusione che sarebbe
bastato compiacerlo per renderlo meno pericoloso. Mussolini commentava, smentendo se stesso: Quanto
è accaduto doveva fatalmente accadere. Il fiume, malgrado le dighe cartacee dei trattati, è giunto alla foce.
Il revirement d'opinion sulla questione austriaca andava a suo dire attribuito alle sanzioni con le quali le
potenze occidentali avevano pensato di poter strangolare il popolo italiano. Non c'era infine alcun
pericolo per la frontiera del Brennero grazie all'asse Roma-Berlino: Il Fuhrer su ciò è stato categorico!.
Il duce volle dare l'immagine dì un'Italia militarmente pronta, e disse che nell'Italia fascista era stato
definitivamente risolto il problema del comando unico delle forze armate le quali in un'eventuale futura
guerra saranno guidate, agli ordini del re, da uno solo: da chi vi parla Sembrava però inconcepibile che il
comando unico fosse nelle mani di un sergente dell'esercito - il grado da lui raggiunto sotto le armi -, di
un caporale della milizia, anche se caporale d'onore. Ci voleva qualche lasagna in più, anzi bisognava
porsi al medesimo livello militare del sovrano. Si decise perciò di conferire a lui e al re, soltanto a loro
due, un grado nuovo di zecca, quello di Primo Maresciallo dell'Impero. Il grado si evidenziava con due
greche disposte parallelamente l'una sull'altra sulle maniche della giubba e sul berretto, quasi a
simboleggiare il parallelismo della diarchia di cui essi occupavano i vertici.
Nella vicenda per l'istituzione del nuovo grado ebbero un ruolo di rilievo il presidente della Camera,
Costanzo Ciano, suo figlio Galeazzo, ministro degli Esteri, e il segretario del partito, Starace. Il vecchio
Costanzo aveva ottenuto dai deputati nell'aula di Montecitorio l'approvazione per acclamazione della
legge, due soli articoli, che istituiva il nuovo grado. Quindi - con passo bersaglieresco e al canto di
Giovinezza, affiancato da Starace - mosse alla volta del vicino Senato. Nel frattempo Galeazzo telefonava
al presidente di quell'assemblea, Federzoni, e gli imponeva di non togliere la seduta essendo imminente
una straordinaria novità. Sopraggiunto nell'aula senatoriale, Galeazzo mostrò a Federzoni un foglietto di
carta sul quale era trascritto a matita il testo della legge. E gli disse: Bada che Sua Maestà è informato,
consente e gradisce. Il giovane Ciano mentiva sul gradimento del sovrano, ma Federzoni, che gli credette,
non sentì il bisogno di saperne di più, pur essendo uno dei massimi esponenti del lealismo monarchico.
La legge fu approvata in cinque minuti anche a palazzo Madama, per cui con un rapidissimo colpo di
mano la Corona perdeva un'antica supremazia.
Il sovrano, amareggiato, tentò di impugnare la legge per incostituzionalità, ma il duce richiese un parere
al consiglio di Stato che gli diede ragione. Mussolini comunicò il responso a Vittorio Emanuele, mentre
diceva al genero: Basta. Ho le palle piene del re. Io lavoro e lui firma. Galeazzo annuiva e aggiungeva:
Potremmo andare più in là alla prima occasione. Intendeva alludere a una ben più profonda vulnerazione
della monarchia, e infatti diceva: La prossima occasione potremmo averla quando alla firma del Re si
dovesse sostituire quella meno rispettabile del Principe. E Mussolini: Finita la guerra di Spagna, ne
parleremo.
Attuato l'Anschluss e preparandosi ad attaccare la Cecoslovacchia con il pretesto di dover difendere la
minoranza tedesca dei Sudeti, il Fuhrer decise di compiere nel maggio del '38 un viaggio a Roma per
rendere ossequio all'irascibile collega italiano, ma anche per mostrare al mondo quanto fosse salda
l'alleanza tra i regimi che dominavano due nazioni ormai confinanti. Pochi ricordavano che un poeta,
Eugenio Montale, aveva messo in guardia dalle croci a uncino e dagli alalà di scherani, impensierito dalle
vetrine dei negozi armate di cannoni e giocattoli di guerra. I romani accolsero con entusiasmo l'ospite
tedesco che definì la città in festa una visione magica, impressionato dalla grandiosità delle vestigia
dell'antica civiltà imperiale. Vittorio Emanuele e il Fuhrer si rivolsero poche parole in pubblico, ma in
privato l'uno sparlava dell'altro. Al carosello di malelingue non mancarono di partecipare n‚ Mussolini
n‚ Ciano n‚ Ribbentrop né Goebbels. Il duce diceva che Ribbentrop era uno di quei tedeschi menagramo.
Ribbentrop riferiva a Ciano le lamentele di Hitler per la scarsa considerazione che il Savoia mostrava nei
suoi confronti, e Mussolini gli faceva dire di aver pazienza: Sono sedici anni che paziento io....
Il Fuhrer, bisbigliando all'orecchio di Himmler, diceva che al Quirinale si respirava un'aria da catacombe
e che tutti quei principi dell'aristocrazia romana erano soltanto dei fannulloni.
Goebbels anticipava un bilancio politico dei colloqui: Mussolini è totalmente d'accordo sull'Anschluss.
Il Fuhrer, che gli molto grato di ciò, gli ha promesso tutto l'aiuto per qualsiasi azione. L'amicizia tra i due
è salda e definitiva. Il Duce ci d… via libera anche per la Cecoslovacchia. A sua volta entusiasta, Hitler
tirava le somme degli incontri e diceva a Mussolini che non c'erano ostacoli sulla loro strada. Il duce
nutriva ancora qualche timore sulla intoccabilità dei confini al Brennero e quindi sulla sorte dell'Alto
Adige, ma il Fuhrer lo rassicurava affermando che le frontiere italotedesche erano definitivamente
fissate.
Durante quello stesso mese di maggio, i giornali stranieri rivolgevano grande attenzione all'influenza che,
secondo la voce corrente, Edda aveva avuto nel riavvicinamento italotedesco e nelle accoglienze trionfali
tributate al dittatore germanico in Italia. Lei era insomma più che mai considerata come la massima
suggeritrice del regime.
L'Illustrowany Kuryer Codzyenny di Cracovia scriveva che l'effettiva promotrice dell'asse Roma-Berlino
era stata la contessa Ciano, mentre il Match di Parigi attribuiva la responsabilità dell'alleanza in parti
eguali a lei e al marito: Edda non ha mai smesso di essere l'ispiratrice instancabile della politica
italotedesca, ma l'asse è opera di entrambi i coniugi Ciano.
Altri giornali, come il Berner Tageblatt, oltre a definirla la donna più influente d'Italia, mettevano in
rilievo come Mussolini fosse sensibile a qualsiasi sua richiesta. Il giornale svizzero pubblicava un
lunghissimo articolo nelle cui prime righe si riportava il testo d'una significativa telefonata che si
sarebbero scambiata il duce e la figlia.
Ho detto espressamente [era Mussolini all'apparecchio] che non voglio essere disturbato durante il mio
colloquio con Lord Perth!
Perdoni, Eccellenza, ma c'è la Contessa Ciano al telefono e vorrebbe parlarLe.
Ah, bene allora. Mi vuole scusare un momento, Signor Ambasciatore? Pronto, Edda!
Papà, vorrei sapere se vieni da noi a cena?
Ma certo, cara, verrò alle 8 e mezza e sarò puntuale.
Fammi preparare un buon rumpsfeak inglese. Poi parleremo un po' della situazione in Romania.
A rivederci, cara!
All'episodio, probabilmente di maniera ma tale da mostrare quanto fosse forte l'influenza di Edda sul
padre, il giornale apponeva un commento: Questo dialogo in presenza di Lord Perth [l'ambasciatore
inglese a Roma], è simile a mille altri, ma è soltanto la figlia maggiore di Mussolini, l'unica donna in Italia
che può permettersi di chiamarlo al telefono per piccole cose. Né Donna Rachele n‚ una qualche amica e
nemmeno una principessa del sangue avrebbe osato disturbarlo durante un'importante conferenza. Del
resto non avrebbe nemmeno avuto la comunicazione telefonica, perché questo privilegio è riservato solo
alla bella Contessa Ciano di Cortellazzo.
Il giornale tracciava poi in rapidi cenni una storia dei Mussolini attraverso i secoli affinchè‚ i lettori
sapessero di quanti impetuosi spiriti fosse popolata quell'indomita stirpe: Sembra che Edda sia l'unica
rappresentante della famiglia che abbia ereditato qualcosa dell'animo ribelle degli antenati. Anche essa è
sospinta dall'orgoglio, dall'ambizione e dal fuoco che fanno la grandezza del padre. I fratelli VIttorio e
Bruno sono dei bravi figlioli, non c'è che dire, ma non hanno quel temperamento che costituisce il fascino
di Edda.
La visita di Hitler a Roma, oltre a suggellare l'alleanza nazifascista, diede una spinta al cammino che
doveva condurre anche in Italia, così come era avvenuto nel Reich, alla istituzione d'un razzismo di Stato.
Durante i colloqui romani Mussolini si avvide che non c'era più spazio per i distinguo sui quali si era
esercitato in quegli anni e diede quindi l'avvio alla marcia antiebraica pubblicando nel luglio del '38 il
Manifesto del razzismo italiano¯. Tre mesi più tardi fece seguire a quel documento la Carta della razza che
pose le basi giuridiche della lotta antiebraica poi travasate dal Consiglio dei ministri in una vera e propria
struttura legislativa.
Mussolini si era attardato a lungo sui distinguo. Anche a Ciano non sembrava opportuno inimicarsi
apertamente gli ebrei, e nel diario scriveva di non aver promesso a Hitler la loro persecuzione. Benché gli
uomini del regime fingessero di equivocare sulla portata della campagna antisemita, respingendo
l'accusa che si trattasse di oppressione, per parlare solo di sistemazione giuridica, Ciano,
machiavellicamente, rilevava nel diario che i tedeschi non gli avevano parlato di persecuzione.
Era altrettanto certo che non si dovessero mai tiranneggiare gli ebrei come tali: Ciò provocherebbe la
solidarietà di tutti gli ebrei del mondo. Si possono colpire con tanti pretesti¯.
Ciano tergiversava da tempo. Nel dicembre del '37 Giovanni Preziosi, un promotore dell'antiebraismo, gli
aveva chiesto un aiuto nella campagna razziale, ma lui glielo aveva rifiutato.
Con la promulgazione delle leggi razziali riesplose il dissidio fra la Santa Sede e il regime fascista perché
con alcune norme si violava il Concordato. Scese in campo Pio undicesimo. Ciano non poté non convocare
il nunzio, e a tale proposito scrisse: In seguito al discorso del Papa, violentemente antirazzista, convoco il
Nunzio e lo metto sull'avviso; se si continua su questa strada, l'urto è inevitabile perché il Duce considera
la questione razziale come fondamentale, dopo avvenuta la conquista dell'Impero. E all'impreparazione
razziale degli italiani che dobbiamo l'insurrezione degli Amhara. Ho parlato molto chiaramente a
Borgongini: gli ho spiegato i presupposti e i fini del nostro razzismo. Mi Š parso assai convinto.
Ed aggiungerò che si è rivelato personalmente antisemita. Domani conferirà con il Santo Padre. Credo che
convenga agire per evitare la crisi, ma se la Chiesa lo vorrà, non saremo noi a scapitarne. Intanto si
accingeva a convocare al ministero anche i diplomatici italiani israeliti, poiché Mussolini era più che mai
montato sulla questione della razza, e aveva ordinato di eliminare tutti gli ebrei dai ruoli della
diplomazia.
Mentre in Italia dalle spruzzatine di stile nazista sui modelli di vita fascista si passava a ondate di
prussianesimo, l'Europa era sull'orlo della guerra per le minacce di Hitler alla Cecoslovacchia.
Mussolini proclamava che l'Italia si sarebbe schierata contro Praga, essendo la Cecoslovacchia qualcosa
di ibrido, ceco-tedesco-polacco-magiaro-ruteno-slovacco. Ciano si chiedeva se il suocero pensasse
davvero che la fermezza sua e quella di Hitler sarebbero bastate a intimorire la Francia e la Gran
Bretagna fino a costringerle a cedere su tutta la linea pur di evitare sempre e comunque una guerra.
Quando le democrazie occidentali andarono a vedere da vicino che cosa volesse Hitler, capirono che egli
non si sarebbe fermato all'annessione dei Sudeti, sofisticamente reclamata in nome dell'autodecisione
dei gruppi etnici, ma che sarebbe andato oltre. Sicché Londra e Parigi ebbero un barlume di coscienza
sulla gravità della sciagura che stava per abbattersi su loro e su tutta l'Europa.
Ma commisero un nuovo errore il giorno in cui si rivolsero a Mussolini perché inducesse il Fuhrer a non
scatenare la guerra. Fu il primo ministro inglese Chamberlain a indirizzare un appello al duce e a
investirlo del ruolo di mediatore. Mussolini, pur ritenendo ormai inevitabile lo scontro, accettò l'arduo
incarico, mentre Ciano mormorava: E la guerra. Dio protegga l'Italia e il Duce. Chamberlain propose di
svolgere una conferenza a quattro - Hitler, Mussolini, il premier francese Daladier e lui stesso - con l'idea
di arrivare in breve a una soluzione concordata del problema dei Sudeti. Il Fuhrer non avrebbe potuto
certamente rifiutarsi, come osservava Ciano, a meno che non avesse voluto attirarsi l'odio del mondo e
assumersi per intero la responsabilità del conflitto. Difatti non si sottrasse alla conferenza che ebbe inizio
alla fine di settembre a Monaco, in Baviera. Ai colloqui mancavano le vittime designate, i cecoslovacchi.
Mussolini, scuro in volto, era in abiti borghesi; Galeazzo, con un atteggiamento tra il vano e l'astuto,
indossava la divisa di generale della Milizia. L'ambasciatore francese in Germania lo descriveva come un
grosso giovanotto vigoroso, sempre attorno al suo padrone, ufficiale d'ordinanza più che ministro degli
Esteri.
Mussolini presentava al consesso una proposta d'accordo che gli era stata segretamente suggerita da
Hitler e che prevedeva lo smembramento della Cecoslovacchia. La proposta fu approvata, e Monaco si
rivelava una disonorevole Canossa per le democrazie. Con l'illusione di evitare la guerra, o meglio non
volendo scendere in guerra contro l'asse, avveniva che l'Inghilterra e la Francia sacrificassero
pavidamente la Cecoslovacchia alla Germania, per cui Hitler fu autorizzato a realizzare il progetto di
occupare i Sudeti. I tedeschi, diceva Churchill, non erano i soli avvoltoi intorno al cadavere. Difatti anche
la Polonia e l'Ungheria strapparono altri territori ai cecoslovacchi.
Solo in parte in Inghilterra si capì quanto Chamberlain, così ottuso, così arrendevole nei confronti degli
appetiti hitleriani, avesse sbagliato. Fu attaccato da Churchill che pure aveva visto nel fascismo e nel
nazismo una diga al bolscevismo.
Mussolini fu salutato come l'ispirato salvatore della pace. In realtà tutto precipitava. Le truppe tedesche,
in attuazione dei piani hitleriani, entrarono in Praga il 15 marzo. Ciano perse la calma: La cosa è grave,
tanto più che Hitler aveva assicurato che non avrebbe mai voluto annettersi un solo cèco. L'azione
tedesca non distrugge ormai la Cecoslovacchia di Versailles, bensì quella che era stata costruita a
Monaco. Quale peso si potrà dare in futuro a quelle altre dichiarazioni e promesse che più da vicino ci
riguardano?. Chiedeva a Mussolini se in tale stato di cose convenisse effettivamente all'Italia stringere
l'alleanza con la Germania o non piuttosto mantenere la piena libertà di orientarci in futuro secondo i
nostri interessi.
Il duce si confermò favorevole all'alleanza. Galeazzo insistette esprimendo le proprie riserve: L'alleanza
sarà poco popolare in Italia e poi temo che la Germania possa valersene per spingere più a fondo la sua
politica espansionistica in Europa centrale. Nel diario scriveva: Gli avvenimenti di questi giorni hanno
capovolto il mio giudizio sul Fuhrer e sulla Germania: anche egli è sleale e infido, e nessuna politica può
essere fatta con lui. Era il 19 marzo del '39, la data che segnava la svolta del suo atteggiamento nei
confronti dei nazisti, a tre anni dalla sua nomina a ministro degli Esteri. Da oggi, aggiungeva Galeazzo
accentuando il significato della novità, lavoro presso il Duce per l'accordo anche con le Potenze
Occidentali.
Con l'occupazione, la Cecoslovacchia subiva lo smembramento che il Fuhrer aveva preteso: la Slovacchia
decadeva a Stato vassallo, la Boemia e la Moravia diventavano un protettorato tedesco. La Boemia, diceva
Mussolini con rabbia, è uno dei territori più ricchi del mondo. E ora fa parte del Reich! Qualche giorno più
tardi la Germania ingoiava la cittadina lituana di Memel. Hitler poneva così le basi strategiche della
marcia verso est. A quel punto tra gli obiettivi da colpire rientrava l'Unione Sovietica per la conquista
dello spazio vitale, il Lebensraum cui aveva sempre mirato. Grande e generalizzato era l'allarme per la
politica aggressiva della Germania. Il nuovo pontefice, Pio dodicesimo, non mancava di esternare viva
preoccupazione proprio a Ciano che gli aveva chiesto udienza, e a sera il ministro registrava nei suoi
quaderni l'essenza del colloquio. Nei confronti della Germania, Pacelli, rispetto al predecessore, si
proponeva di seguire una politica più conciliante - ecco il papa duttile osteggiato dai duri del conclave! ma riconosceva che gli era necessaria una rispondenza dell'interlocutore, altrimenti il suo sarebbe stato
un vano soliloquio.
Roma pensava di dover reagire usando gli stessi metodi di Berlino, e difatti già il 7 aprile, giorno di
venerdì santo, le truppe italiane sbarcavano a Durazzo impossessandosi dell'Albania in una settimana.
Ciano sorvolava la città in aereo alle prime ore di quel venerdì lasciandosi commuovere dalla venustà del
paesaggio guerresco: "Lo spettacolo è bellissimo. Nella rada, ferme e solenni, sono le navi da guerra,
mentre i motoscafi, le maone, i rimorchiatori solcano il porto trasportando le forze da sbarco. Il mare è
uno specchio. La campagna è verde e le montagne, alte e massicce, sono coronate di neve. In Durazzo non
si vede che poca gente. Ma un po' di resistenza deve esserci, poiché vedo squadre di bersaglieri restare
appiattate dietro cumuli di carbone, in difesa del porto; e ne vedo altre salire rapidamente in fila indiana
il colle, per accerchiare la città. Da qualche finestra si sparacchia.
I soldati italiani avanzavano, re Zog d'Albania fuggiva, Galeazzo attraversava le vie di Tirana accolto dalla
popolazione in festa, ma non mancava di accorgersi che fra la gente c'era qualche zona di freddo,
soprattutto fra gli scolari; vedeva che i ragazzi stentavano ad alzare il braccio nel saluto romano; alcuni si
rifiutavano apertamente di farlo quando i loro compagni li invitavano. Il mondo non reagì a
quell'occupazione. L'Inghilterra aveva fatto sapere di non avere interessi in Albania, anzi Chamberlain
aveva avvisato il duce che sarebbe stato costretto a esprimersi un po' duramente alla Camera dei comuni,
ma soltanto per ragioni di politica interna.
Tornato a Roma, Galeazzo trovò Edda in preda a un grande entusiasmo. Gli diceva, battendo le mani:
Finalmente abbiamo cacciato quel pagliaccio di re Zogu. Non faceva altro che chiederci denaro.
Gli abbiamo dato la lezione che meritava, lui che ci ricattava facendo l'occhiolino all'Inghilterra e
all'America. Edda approvava la guerra d'Albania mentre si era mostrata contraria all'intervento in
Spagna. Quella maledetta guerra di Spagna, diceva, ci ha dissanguato per tre anni. I falangisti non le erano
simpatici: Preferiscono mettersi in ginocchio, e non sull'attenti, così attaccati come sono alle sottane dei
preti. Ma noi dovevamo necessariamente partecipare a quella guerra, se volevamo bloccare gli appetiti
del bolscevismo nel Mediterraneo. Pensava che la corona d'Albania sarebbe caduta sulla testa d'un
Savoia, e non se ne mostrava soddisfatta. Osservava che il padre da quando era al potere aveva dato ai
signori Savoia un territorio sette volte più grande della penisola, e aggiungeva che non si poteva andare
avanti a regalar corone.
Con l'impresa d'Albania, di cui era stato l'ispiratore, Ciano aveva voluto reagire al colpo di mano
consumato da Hitler. Al tempo stesso tentava con alcuni paesi dell'Europa orientale - Iugoslavia,
Ungheria, Polonia: già sospettosi nei confronti di Berlino - la costituzione di un'alleanza, che avesse per
perno l'Italia, da contrapporre all'espansione tedesca. Deda diceva che Gallo aveva il pallino dell'Albania.
Ciano, prendendo a pretesto colossali battute di caccia, aveva mantenuto strette relazioni con il
presidente iugoslavo Stojadinovic col reggente d'Ungheria Horthy e con il ministro degli Esteri polacco
Beck. La quartogenita di Vittorio Emanuele, Giovanna, aveva sposato re Boris di Bulgaria, e anche questa
era un'ipoteca che avrebbe potuto dare buoni frutti.
Nei colloqui con Mussolini, Galeazzo aveva sostenuto che l'improvvisa azione tedesca preoccupava e
umiliava il popolo italiano cui bisognava dare subito la soddisfazione di un compenso: l'Albania, appunto.
Mussolini si era detto dello stesso parere. Era caduta Madrid, e Franco aveva vinto la lunga guerra. Il
duce, indicando al genero l'atlante geografico, aveva esclamato: L'ho tenuto aperto alla pagina della
Spagna per quasi tre anni. Ora so che devo aprirlo a un'altra pagina. Era naturalmente quella dell'Albania.
Ciano aveva falsamente dichiarato ai rappresentanti esteri in Italia, tutti profondamente preoccupati, che
Roma era stata debitamente informata della mossa hitleriana. Alle pagine del suo diario segreto aveva
però confessato la verità: E così sgradevole mentire!. In grandi ambasce si era confidato col suocero.
Gli aveva rivelato il proprio tormento esprimendogli le più vive preoccupazioni nei confronti di Berlino,
cresciute a dismisura dal giorno in cui aveva avuto la prova della slealtà teutonica. Hitler, che cercava di
spiegare agli italiani le ragioni dell'aggressione alla Cecoslovacchia, inviò a Roma il principe Filippo
d'Assia, il quale però non riuscì a convincere Galeazzo. Questi pretesti¯, erano le sue considerazioni, sono
forse buoni per la propaganda di Goebbels, ma dovrebbero venir risparmiati quando parlano con noi, che
abbiamo avuto il torto di essere con loro troppo leali. Mussolini voleva tener segreta la notizia della visita
del principe perché‚ diceva che gli italiani avrebbero riso di lui: Ogni volta che Hitler prende uno Stato mi
manda un messaggio.
Ciano trattò rapidamente a Tirana l'incoronazione di Vittorio Emanuele a re d'Albania. Si parlava d'una
sua eventuale nomina a viceré, e i giornali esteri, sempre in agguato per intingere la penna nelle
maldicenze sul regime fascista, riportarono la voce con ricchezza di particolari. L'autorevole Times di
Londra scrisse che Edda insisteva col marito perché‚ si facesse nominare viceré. Il tal caso lei sarebbe
diventata viceregina e, nelle cerimonie ufficiali, avrebbe avuto la precedenza su Maria José; cosa che
l'avrebbe riempita di soddisfazione non amando la principessa. Ma il tema ricorrente della stampa
straniera era sempre quello del potere occulto che la figlia del duce esercitava sulle scelte della politica
italiana. La rivista francese Vu scriveva che Edda, dal volto orgoglioso e severo, aspirava a diventare una
di quelle donne che lasciano il segno nella storia; il Sunday Mirror ne tracciava di rincalzo un vivace
quadretto: La contessa Ciano è la vera prima signora d'Italia. In realtà la donna più potente d'Europa
dovrebbe essere oggi Rachele Mussolini.
Ma non lo è. Al contrario, Rachele lava i piatti e alleva polli in un angolo appartato dell'immensa Villa
Torlonia. Chi conta è sua figlia Edda, l'unico essere al mondo capace di tener testa al Duce.
Il suo mito cresceva. All'estero gli antifascisti si preoccupavano dell'influsso che lei esercitava sul padre e
sul marito perché le relazioni tra l'Italia e la Germania si mantenessero buone nonostante i continui
dissapori che minacciavano di avvelenarle. Cominciò a circolare la voce di un complotto che si andava
preparando a Parigi ai suoi danni per eliminare dalla scena politica la più fervida e convinta sostenitrice
dell'asse Roma-Berlino. Ciano investì della questione il capo della polizia Bocchini, cui chiese anche di
sapere se il ventilato complotto aveva per obiettivo la coppia Ciano o soltanto Edda. Bocchini mise
all'opera uno dei migliori agenti segreti di Parigi, il fiduciario n.353, il quale, al termine di un'accurata
indagine, gli inviò un rapporto in cui si escludeva l'esistenza della congiura, ma si disegnava di Ciano un
profilo niente affatto lusinghiero. Il confidente scriveva che Ciano contava troppo poco per farne
l'obiettivo di un omicidio. Pregiomi comunicare, si leggeva nel rapporto a Bocchini, che le voci che
circolano a Parigi riguardo alla persona di S.E. Il Conte Ciano sono piuttosto sfavorevoli, sia negli
ambienti giornalistici, sia in quelli diplomatici. Il 353 con spregiudicatezza scriveva che coram populo si
attribuiva ognora la rapidità della carriera del Conte al fatto di aver sposato la figlia di Mussolini:
Le capacità diplomatiche e la sua conoscenza della situazione europea viene considerata come minima o
inesistente; non un ministro degli Esteri capace di esaminare come si deve una situazione; come
diplomatico viene considerato assai meno abile di Grandi e di Suvich. Gli si rimprovera di darsi
importanza e di scimmiottare il Duce. Il 353¯ offriva altresì sulle aspirazioni di Ciano un'interpretazione
in contrasto con l'opinione corrente che lo voleva delfino di Mussolini. E scriveva: Non lo si crede
desideroso di assumere un giorno l'eredità del Duce, poiché lo si giudica assolutamente incapace di
ricoprire una sì alta carica". Chi contava davvero era Edda, una donna molto intelligente. E lei che
durante i viaggi prende le decisioni e consiglia e sostiene il marito"; un'idea, questa, particolarmente
radicata e diffusa negli ambienti francesi.
Il complotto poteva perciò riguardare soltanto lei e non anche il marito: E probabile che gli ambienti del
Fronte popolare francese, allo scopo di spezzare i vincoli familiari che legano al Duce il Conte Galeazzo,
cerchino di agire contro la Contessa Edda; ma trovomi nel campo delle ipotesi, dato che non mi è stato
possibile raccogliere alcun elemento di quanto è contenuto nella relazione fiduciaria di cui in oggetto.
Il capo della polizia, amico di Ciano, pensò bene di non trasmettergli un rapporto così crudele, ma non
poté non condensargliene il senso. Non è risultato, gli scrisse, che da parte del "Fronte popolare" in
Francia si sia pensato ad azioni delittuose contro la Tua persona e quella della Contessa. E vero invece
che, dopo gli accordi italotedeschi in molti ambienti antifascisti di Parigi si è molto parlato dei viaggi a
Berlino della Contessa, la quale, secondo le voci correnti in vecchi ambienti, avrebbe gettato le basi per la
successiva conclusione degli accordi stessi. E poiché antifascisti e francesi in genere, naturalmente
considerano con animo ostile e con una vera e propria preoccupazione l'accordo tra Roma e Berlino e ne
attribuiscono la riuscita all'azione svolta in un primo tempo dalla Contessa e poi da Te secondo le
direttive del Duce, non manca talvolta qualche basso scopo. Insomma Bocchini non risparmiava a Ciano
la verità, ma gliela diceva in termini diplomatici rivolgendosi a un diplomatico, e come poliziotto offriva
una bella prova di abilità.
Il sovrano accettò la corona d'Albania pur avendo contrastato i piani d'invasione. Aveva detto a Mussolini
e a Ciano che gli italiani non avrebbero trovato in Albania che quattro sassi, per cui il gioco non valeva la
candela. Un paese di montagne, e difatti, durante la cerimonia dell'incoronazione, il Quirinale si era
riempito di giganteschi montanari albanesi, accanto ai quali lui, piccoletto, sfigurava miseramente.
Il re diventava sempre più antitedesco, e chiedeva al suo primo ministro se sapeva che dal giorno della
conferenza di Monaco era universalmente considerato il Gauleiter di Hitler in Italia. Il duce,
profondamente colpito, si era sfogato dicendo al genero che se Hitler avesse avuto tra i piedi una testa di
cazzo di Re non avrebbe mai potuto prendere l'Austria e la Cecoslovacchia.
Il Fuhrer già pensava alla possibilità di annettere con la forza la città libera di Danzica, demograficamente
tedesca, e di ricercare un proprio spazio vitale a oriente, il famoso Lebensraum. Mussolini sogguardava in
tralice l'insaziabile camerata e riprendeva qualche contatto, sia con l'Inghilterra sia con la Francia, tra le
più varie contraddizioni. Ufficialmente si diceva favorevole all'asse, in privato riconosceva l'opportunità
di segnare il passo sull'alleanza militare con i tedeschi perché ripresentarla in quel momento al popolo
italiano avrebbe significato far rivoltare le pietre. Si accingeva a scrivere una lettera al collega dittatore
per esprimergli il proprio disappunto, poiché ogni repentina mossa tedesca lo feriva gravemente nel
prestigio personale. Hitler confermava di non avere pretese sull'Adriatico e sul Mediterraneo. Possiamo
credergli? si chiedeva il duce, il quale nondimeno, se la mattina era antitedesco, la sera ridiventava
filohitleriano asserendo di non poter cambiare politica: Non siamo delle puttane!.
Alle alte sfere del regime si imponeva una questione tedesca, per cui se ne discusse in seno al Gran
consiglio De Bono era perplesso, Balbo sosteneva la necessità di prendere le distanze dalla Germania per
non starle sempre a lustrare le scarpe. Il duce si irritò e, parlandone col genero, disse che Balbo sarà
sempre quel porco democratico che fu oratore della loggia Girolamo Savonarola a Ferrara.
Del quadrumviro De Bono disse, semplicemente: E' un vecchio cretino!
Si andava consumando nel 1939 l'ultima stagione di pace, una stagione turbolenta, densa di insidie.
Pace o guerra?, si chiedevano i fascisti della vecchia guardia.
Si temeva una nuova, tragica mossa della Germania.
L'obiettivo era la Polonia con l'intento iniziale di rimuovere il corridoio di Danzica scaturito dal trattato
di Versailles come sbocco polacco sul Baltico. L'Europa tratteneva il fiato. In Gran Bretagna il Primo lord
dell'Ammiragliato, Winston Churchill, confermava la volontà di intervenire, ma in Francia, dilaniata dai
contrasti interni, c'era chi si rivolgeva un pilatesco interrogativo: Mourir pour Dantzig?.
Nelle more della questione polacca si concludevano due rilevanti patti internazionali. Il primo, firmato a
Berlino da un Ciano riluttante e da un Ribbentrop altezzoso, consisteva nell'accordo militare fra due
regimi sospettosi l'uno dell'altro, fascista e nazista, ma tuttavia affini, tanto che Mussolini, superando le
preoccupazioni sulla slealtà hitleriana, poté imporgli il risonante nome di patto d'acciaio. L'evento
andava festeggiato, e l'Edda convocò gli amici più intimi a Venezia per una partita a poker che si tenne
nella sua suite all'albergo Excelsior. Anche quella volta perse una forte somma. Il suo umore era
particolarmente nero, n‚ valse a migliorare la situazione un telegramma di Rachele col quale le
annunciava che il re aveva concesso a Galeazzo il collare dell'Annunziata come riconoscimento per la
conquista dell'Albania. Per di più le avevano parlato d'una preoccupante sortita della regina Elena, la
quale, nota per le sue doti di preveggenza, aveva in quei giorni detto a una dama di compagnia: Ho la
sensazione che questo Ciano finirà tragicamente travolto dal fascismo.
Sul patto con la Germania, se Mussolini si preoccupava della slealtà hitleriana, Galeazzo ne era addirittura
terrorizzato. Ma faceva buon viso a cattivo gioco. Egualmente si proponeva di continuare a lavorare per
non perdere il contatto con le democrazie occidentali. Aveva dovuto recarsi a Berlino per la cerimonia
ufficiale della firma, e si rammaricava che durante i colloqui non fosse riuscito a far sancire per iscritto
una precisa garanzia che Mussolini, su pressioni di Vittorio Emanuele, aveva richiesto a Hitler.
L'Italia voleva che la Germania s'impegnasse a non scatenare una guerra europea prima di tre o quattro
anni, sapendo di non poter affrontare subito un conflitto di vaste proporzioni. Era chiaro come la più
esposta fosse l'Italia, nutrendo Hitler propositi ben più bellicosi di quanti ne potesse covare Mussolini.
Galeazzo, spaventato dal contenuto dell'accordo, commentò: Più che d'acciaio, è un patto di dinamite.
Il secondo accordo offriva lo spettacolo di due Stati fra loro nemici mortali, Germania e Unione Sovietica, i
cui rappresentanti Molotov e Ribbentrop si intendevano allo stesso tavolo per sottoscrivere un patto
decennale di amicizia e di non aggressione. Il trattato di Mosca conteneva clausole segrete che indicavano
le reciproche sfere d'interesse e lasciavano alla Germania libertà d'azione in Polonia. Al contrario, il patto
d'acciaio tra Roma e Berlino non sanciva per iscritto, n‚ apertamente n‚ in protocolli riservati, l impegno
chiesto da Mussolini a Hitler di non scatenare una guerra europea prima di tre o quattro anni. L'impegno
era reclamato in considerazione del fatto che l'Italia non sarebbe stata assolutamente in grado di
affrontare un conflitto di vaste proporzioni, avendo già rivelato gravissime deficienze militari nelle
aggressioni all'Etiopia e all'Albania. Nella guerra d'Albania le truppe alpine italiane avevano ai piedi
scarpe senza chiodi, vere e proprie scarpette da struscio cittadino.
Morire per Danzica?, era l'interrogativo che sovrastava l'Europa. In Italia un po' dovunque serpeggiava
un sentimento antitedesco, in quell'ultima estate di pace turbolenta. Già al Concorso ippico in piazza di
Siena, a Roma, le evoluzioni dei cavalieri inglesi erano state reiteratamente accolte da prolungati scrosci
di applausi, mentre ai cavalieri tedeschi si era riservato un indispettito silenzio, quando non si era levato
qualche ostile mormorio. Si cominciava a parlare della formazione di un fronte antitedesco che aveva per
ispiratori Vittorio Emanuele e Ciano, il quale si era riavvicinato a Balbo dimentico di averlo non molto
tempo prima denunciato a Mussolini come avversario del patto Roma-Berlino. Il duce in quell'occasione
aveva esclamato: Ecco un uomo del quale non garantisco l'avvenire. La gente era in ansia perché
Mussolini non rivelava le proprie intenzioni, si chiedeva se lui avrebbe o no sostenuto Hitler che gettava
la maschera. Specialmente nei piccoli paesi, nelle comunità rurali, erano i preti a condurre un'opera non
troppo nascosta di antigermanesimo, a dipingere il nazismo come un pericolo per l'umanità, come il
diavolo.
Nemmeno Vittorio Emanuele terzo faceva mistero della sua preoccupazione. In base a dirette
informazioni, poteva giudicare pietose le condizioni in cui versavano le forze armate, e si diceva perciò
convinto che l'Italia non fosse assolutamente in grado di fare la guerra. L'aeronautica non disponeva
nemmeno di un litro di benzina e l'esercito non aveva scorte che per una settimana; le artiglierie erano
superate, le armi antiaeree inesistenti. Chiedeva di incontrare Ciano, col quale avvertiva una certa
sintonia. Gli diceva che lo stato d'animo del paese era nettamente antigermanico e che i contadini
andavano alle armi maledicendo quei buggeroni di tedeschi. Era dunque necessario restare con le armi al
piede in attesa di eventi: Sei mesi di neutralità ci daranno una grande forza. Sempre confidandosi con
Ciano diceva di sperare che il duce, in caso di conflitto, avrebbe affidato un incarico di responsabilità al
principe Umberto.
Il pericolo d'una guerra europea diventava sempre più concreto, sotto la minaccia nazista di aggredire la
Polonia, col pretesto di difendervi le minoranze tedesche. Hitler accusava la soldataglia polacca di aver
barbaramente castrato alcuni giovani di razza germanica. Ciano ancora pensava di poter contrapporre
alla Germania, per impedirle di provocare un conflitto senza limiti, un fronte di italiani, iugoslavi,
ungheresi, polacchi. Egualmente, però, Si rendeva conto che forse era troppo tardi per realizzare un
piano così complesso. Il re confermava l'esigenza di mantenersi neutrali. Il duce sembrava dello stesso
parere e si proponeva di parlarne al Fuhrer che Ciano aveva incontrato qualche giorno prima a
Berchtesgaden riportandone un'impressione disastrosa.
Hitler voleva attaccare la Polonia, e nessuno lo avrebbe fermato. Dominato dal dèmone della distruzione
non dava il minimo peso alle opinioni degli italiani, in realtà alquanto incerte. Ciano corse ancora una
volta da lui a metà agosto per cercare di trattenerlo sulla brutta china. Il clima era teso al punto che a
Salisburgo, dove avvenivano gli incontri, non scambiò con Ribbentrop neppure una parola durante il
pranzo, all'Obersalzberg, pur essendogli seduto accanto. Diffidiamo l'uno dell'altro, annotava Galeazzo,
ma io, almeno, ho la coscienza tranquilla. Egli, no. Definiva sfuggente il collega tedesco che gli nascondeva
le notizie delle azioni che il Fuhrer si accingeva a compiere: Ribbentrop ha la cattiva coscienza: troppe
volte ha mentito circa le intenzioni germaniche verso la Polonia per non sentire il disagio di quanto deve
dirmi.
L'incontro con Hitler fu lievemente meno infelice. In apparenza il Fuhrer si mostrava cordiale, ma nella
sostanza faceva capire che aveva deciso di colpire e che avrebbe colpito. Era pallido e nervoso.
La colazione fu definita un'agape funeraria, sebbene Ciano, gentile anche in quella circostanza, avesse
cercato di rallegrare la tavolata illustrando le caratteristiche di alcuni intingoli della cucina italiana,
suggeritigli da Edda. Il clima della giornata, da plumbeo che era, divenne tempestoso fra tuoni e fulrnini
che sembrava dovessero abbattersi sull'immensa vetrata dell'Obersalzberg. Galeazzo cominciò a
prodursi in scongiuri, cioè a grattarsi visibilmente, cosa che i tedeschi considerarono un'offesa personale.
Le sue parole, tendenti a dimostrare l'impossibilità per gli italiani di sostenere in armi la nazione amica,
erano all'opposto di ciò che i tedeschi avrebbero voluto sentirgli dire. E poiché Hitler assicurava che il
conflitto sarebbe rimasto localizzato alla Polonia, Ciano ebbe l'ardire di replicare esclamando: Fuhrer, le
auguro di aver ragione come sempre!
Il conte era ormai convinto della inutilità dei colloqui con Hitler, e se ne tornò a Roma disgustato della
Germania, dei suoi capi, del loro modo di agire: Ci hanno ingannato e mentito. E oggi stanno per tirarci in
un'avventura che non abbiamo voluta e che può compromettere il Regime e il Paese. Ancor più turbato
scriveva nel diario: Il popolo italiano fremerà d'orrore quando conoscerà l'aggressione contro la Polonia
e, caso mai, vorrà impugnare le armi contro i tedeschi. Diceva di più: Non so se augurare all'Italia una
vittoria o una sconfitta germanica.
Comunque, dato il contegno tedesco io ritengo che noi abbiamo le mani libere e propongo di agire in
conseguenza, dichiarando cioè che noi non intendiamo partecipare a un conflitto che non abbiamo voluto
n‚ provocato. Esortava Starace a non nascondere al Duce il vero stato d'animo del Paese: nettamente
antigermanico. Oggi i tedeschi invadono il territorio polacco, diceva, domani sarà la volta dell'Ungheria,
poi la nostra.
Ne discuteva con Mussolini parlandogli con brutale franchezza, in colloqui che si prolungavano per
cinque o sei ore consecutive. Diceva al suocero come non ci si potesse fidare di Hitler. Conosco bene quel
pazzo! esclamava il duce, annuendo. Il conte incalzava: Quell'energumeno cerca la scusa del "corridoio",
ma si propone di prendersi tutto l'appartamento. In ciò forse d'accordo con l'orso sovietico. E' un
criminale! diceva ancora Mussolini. E il genero: Siccome l'appetito vien mangiando, forse ha anche voglia
di fare una villeggiatura al mare, sull'Adriatico... San Giusto. Ciò potrebbe procurargli un'indigestione,
interrompeva Mussolini, bisognerebbe mandarlo in un campo di concentramento. Galeazzo esprimeva
pesanti giudizi anche su Ribbentrop - lo definiva idiota e ignorante - che si faceva chiamare Von, ma che
nobile non era avendo rubato il titolo alla zia Gertrud.
Apertamente diceva a Mussolini quanto il suo prestigio di capo del Governo italiano fosse scosso dal
comportamento dei tedeschi, quanto fosse spiacevole la sua posizione di secondo poco brillante rispetto
a Hitler che spadroneggiava a piacimento. Una mattina gli consegnò una documentazione a riprova della
malafede germanica sulla questione polacca, e commentava che l'alleanza italotedesca era stata conclusa
su premesse che i tedeschi stavano per rinnegare. I tedeschi sono i traditori, affermava con vigore, e noi
non dobbiamo avere scrupoli a piantarli in asso. Il suocero ascoltava, lo lasciava parlare e poi troncava la
discussione dicendo che se avesse deciso di sganciarsi dalla Germania lo avrebbe fatto con prudenza.
Con decisione Galeazzo scriveva ancora: Dovrò giocare una partita dura per portare il Duce dalla mia
parte. Ma la giocherò convinto di rendere un grande servizio a lui e al Paese¯. Come aveva fatto con
Starace, ora consigliava il capo della polizia di far sapere a Mussolini che il popolo italiano non voleva
battersi al fianco della Germania; non intendeva darle quella potenza con cui un giorno lo avrebbe
minacciato. Ciano diceva di non avere più dubbi sui propositi espansionistici dei tedeschi: Siamo anche
noi nel loro mirino. Dobbiamo perciò agire ora, finché siamo in tempo. S'incontrava con l'ambasciatore
polacco, mentre apprendeva dal consigliere italiano a Varsavia che la Polonia era decisa a combattere
contro i nazisti fino all'ultimo uomo. Veniva altresì a sapere che le chiese polacche erano piene di fedeli,
che in esse si pregava Dio e si cantava l'inno Dio salvaci la Patria!. Commentava con amarezza: Questa
gente domani sarà massacrata dal ferro germanico. E non avrà colpa alcuna. Il mio cuore e con loro¯.
Il duce non si decideva a prendere le distanze da Hitler.
Eppure, annotava Ciano, io lo eccito sempre con tutti i mezzi. Sarebbe una folle avventura entrare in
guerra, un'avventura compiuta contro l'unanime volontà del popolo italiano, che non sa ancora come
stanno le cose, ma avendo fiutato la verità, è preso da un impeto d'ira contro i tedeschi. Per colmo di
sventura Mussolini dava l'impressione di voler marciare in senso inverso per confermarsi filogermanico.
Si proponeva perciò di inviare da Ribbentrop l'ambasciatore italiano a Berlino, Attolico, con un annuncio
definitivo: Nonostante tutto l'Italia marcerà con la Germania se le democrazie si getteranno nella fornace.
La reazione di Ciano fu assai ferma. Lui stesso diceva: Mi sono battuto come un leone contro questa idea e
sono riuscito a far modificare queste istruzioni del Duce nel senso di tacere, fino almeno a quando i
tedeschi non ci rinnoveranno la richiesta, su quanto noi faremo.
Era possibile prevedere che al momento dell'aggressione nazista alla Polonia, le grandi potenze
democratiche occidentali avrebbero risposto con una guerra di colossali proporzioni. Meglio sarebbe
stato non farsi coinvolgere, ma il duce osservava Ciano, ®temeva l'ira di Hitler; riteneva che una
denuncia del patto con Berlino avrebbe addirittura indotto il Fuhrer ad abbandonare la questione
polacca per saldare il conto con Roma. Pensava perciò di ripetere al dittatore tedesco che l'Italia non
sarebbe potuta entrare in guerra immediatamente, a causa della sua incompleta preparazione bellica.
Poi scelse una posizione intermedia, e gli scrisse per comunicargli che avrebbe potuto imbracciare le
armi soltanto se la Germania gli avesse fornito il materiale bellico che gli mancava.
Galeazzo vedeva nel suocero un uomo sempre più nervoso e inquieto; non riusciva pi a parlargli a lungo
come una volta, per cercare di far valere i suoi punti di vista. I miei suggerimenti durano pochi secondi,
osservava. Anzi segnalava che qualcosa si era rotto fra di loro: Ormai Mussolini sospetta anche me di
ostilità all'asse, di partito preso e anche la mia influenza in materia, purtroppo, sembra declinare¯. Era il
18 agosto del 1939. Mentre il duce si allontanava da lui, gli si avvicinava Vittorio Emanuele, il quale,
proprio in quei giorni, gli conferiva il collare dell'Annunziata. Mussolini, facendo buon viso a cattiva sorte,
si mostrò lieto di quel sovrano riconoscimento.
Lo stato di preparazione militare dell'Italia era in condizioni paurose, al punto che spesso i richiamati
venivano rispediti a casa per mancanza di uniformi e anche di brande nelle caserme. Eppure Mussolini
dava l'impressione di non accorgersi di nulla, preso com'era dalle apparenze. Il Duce che fa?, si chiedeva
polemicamente Ciano, dando a quell'interrogativo una risposta niente affatto rassicurante: Si concentra
in questioni di forma: succede l'ira di Dio se il presentat'arm è fatto male o se un ufficiale non sa alzare la
gamba nel passo romano, ma delle reali deficienze che conosce a fondo non sembra preoccuparsi oltre un
certo limite. Galeazzo entrava nei particolari: Nonostante la mia formale denuncia circa i risultati
dell'inchiesta dell'ammiraglio Cavagnari sulla efficienza dell'aviazione, il Duce non ha fatto niente,
assolutamente niente ed oggi, in un colloquio con Cavagnari, non ha neppure accennato alla cosa. Perché?
Teme forse a tal punto la verità da non volerla ascoltare?.
Si viveva nel terrore di una guerra incombente. Nelle alte sfere del regime si chiedevano quale sarebbe
stata la reazione della gente. Gli italiani si sarebbero schierati volentieri con la Germania? Si pensava di
no, se lo stesso Starace consigliava la massima vigilanza per impedire che in caso di guerra esplodessero
pubbliche manifestazioni antitedesche. Il duce aveva preannunciato a Hitler che l'Italia sarebbe rimasta
neutrale, una neutralità che tuttavia egli avrebbe chiamato non belligeranza, apparendogli, questa,
un'espressione meno pantofolaia. Il Fuhrer gli aveva chiesto di non dare subito la notizia di un'Italia
neutrale, e lui, per confondere le acque e fingersi al fianco della Germania, ordinava nuovi richiami di
militari, l'oscuramento delle città, la chiusura dei locali pubblici, insieme a requisizioni e a limitazioni
d'ogni genere.
Edda definiva la formula della non belligeranza una geniale trovata pubblicitaria del padre, proprio per
poter restare alla finestra tutto il tempo necessario prima di prendere le armi. Negli ultimi giorni di
agosto gli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra si alternavano però preoccupati nello studio di Ciano, e
gli chiedevano con sempre maggiore insistenza che cosa avrebbe fatto l'Italia. Al rappresentante
americano William Phillips, il conte apparve in piena crisi la mattina del 31. Le pauvre garcon ètait
déprimé, disse Phillips ai funzionari dell'ambasciata cui più tardi riferiva il colloquio. Galeazzo aveva
detto al cortese diplomatico che da due notti non riusciva a prendere sonno, e che quella mattina si era
svegliato chiedendo con la più grande trepidazione se era o no scoppiata la guerra.
Phillips aggiungeva: Ciano - nell'apprendere che le ostilità non Si erano verificate fino a quel momento
del 31 agosto, giorno di scadenza dell'ultimatum imposto dalla Germania alla Polonia - si era sentito
rinascere la speranza, la quale gli cresceva in cuore di ora in ora "perchè si vede che Hitler comincia a
tentennare"
Nel pomeriggio Galeazzo ricevette a palazzo Chigi anche il nunzio in Italia, monsignor Borgongini Duca, il
quale immediatamente informava del colloquio il segretario di Stato Maglione: Ho alfine avuto l'udienza
di Cianoche ho trovato abbastanza depresso e stanco. Stava al Ministero dalle 7 della mattina e non si era
mosso nemmeno per la colazione. "Ho mangiato", mi ha detto, "un piatto di spaghetti su questo tavolo."
Gli ho domandato notizie sull'ultimatum alla Polonia e come fosse che Hitler non aveva cominciato le
ostilità. Mi ha risposto che tanto lui quanto Mussolini si stavano battendo da leoni per impedire il
conflitto e che nella mattinata l'Italia aveva fatto un passo fortissimo sulla Germania. Nell'uscire gli ho
detto: "Qualunque cosa sia per avvenire, io spero che l'Italia non si muoverà". Mi ha risposto sorridendo:
"Questa è un'altra questione; l'Italia prima di muoversi ci penserà molto, molto bene, con tutta calma e
attenzione", e seguitò a sorridere.
Il passo fortissimo, svolto dall'Italia in quella giornata cruciale del 31 agosto, consisteva nell'aver
proposto a Hitler, attraverso Attolico ambasciatore a Berlino, una conferenza internazionale per il 5
settembre al fine di ridiscutere le clausole del trattato di Versailles che ancora turbavano la vita europea.
Ciano aveva nel frattempo chiamato al telefono il ministro degli Esteri inglese lord Halifax per dirgli che
Mussolini sarebbe potuto intervenire efficacemente su Hitler qualora fosse stato in grado di garantirgli la
cessione di Danzica. Ma la risposta di Halifax fu negativa. Era chiaro che la conferenza di MonacoCanossa
aveva fatto scuola, e gli inglesi non ne volevano ripetere gli errori.
A mezzanotte, il consigliere all'ambasciata italiana di Berlino, Magistrati, informava al telefono il cognato
Galeazzo che in Germania erano già usciti i giornali con la notizia della guerra imminente, e che andavano
a ruba. Gli leggeva affannosamente i titoli, tutti eguali, che addossavano ai polacchi la responsabilità del
conflitto per non aver voluto cedere Danzica alla Germania. La Polonia ha rifiutato. L'attacco sta per
cominciare.¯ Difatti alle ore 5,25 del mattino, 1 settembre, l'esercito hitleriano penetrava in Polonia.
Sorprendentemente la prima giornata di guerra trascorse senza che l'Inghilterra e la Francia reagissero
all'attacco. Chamberlain, in piena incertezza, tardò due giorni prima di inviare la dichiarazione di guerra
alla Germania, e per di più lo fece sotto la minaccia d'un voto di sfiducia alla Camera dei Comuni.
La Francia si accodò. Quale sarebbe stato il destino degli ebrei polacchi? L'aggressione alla Polonia
segnava l'inizio effettivo del secondo conflitto mondiale.
La notizia dell'invasione tedesca aveva definitivamente prostrato Ciano. Gli fece visita il collega di
governo, Bottai, e ne ebbe pietà. Eppure non lo stimava molto avendolo sempre visto attorniato di veri e
falsi aristocratici, di diplomatici snob, di squadristi bisognosi. Bottai, parlando con accenti drammatici
dell'incontro, diceva: Il suo volto era stirato da un'interna angoscia. Occhi che non hanno dormito; e,
forse, hanno lacrimato. E un corpo, curioso, un corpo, che, ad un tratto, di pieno e altero che era, si piega,
si raccoglie, con un che di infantile e di femmineo: abbandonato, smarrito. Mi prende, Galeazzo, per la
vita, mi trascina verso il muro, tra le due finestre chiuse, mi fa sedere su una panca; e lui stesso mi cade
accanto, di peso.
Mussolini non era meno depresso del genero, sebbene per ragioni opposte. Aveva cercato di trattenere
Hitler, e ora che le truppe tedesche erano penetrate in Polonia, sapeva di non poterglisi affiancare come
avrebbe voluto.
Era costretto alla neutralità, sia dal desiderio di pace che si levava dal paese, sia dalla impreparazione
delle forze armate. Ai suoi ministri disse di aver illustrato al Fuhrer l'impossibilità per l'Italia di
impegnarsi in una guerra prima del 1942. Aveva interloquito Dino Grandi, con toni drammatici: Adesso
dobbiamo prepararci all'accusa di tradimento che i tedeschi ci rivolgeranno. Ebbene, cominciamo col
convincere noi stessi che noi siamo i "traditi", non i "traditori".
Particolarmente fosche apparivano le condizioni dell'arma aeronautica, sebbene il sottosegretario Valle
non Si mostrasse tanto catastrofico. La cosa insospettì Ciano il quale, pensando che Valle fornisse al duce
cifre false ed assurdamente ottimistiche, aveva consigliato di affidare ai prefetti un'inchiesta di estrema
semplicità che consisteva nel contare gli aerei negli hangar e farne la somma.
Non dev'essere un'impresa impossibile, commentava, eppure non riusciamo a sapere la verità.
Il territorio polacco era stato rapidamente smembrato: un pezzo a Hitler, un pezzo a Stalin. Il duce
doveva stare a guardare in un momento tempestoso, come diceva, in cui si rimetteva in gioco la carta
dell'Europa, e forse anche quella dei continenti. Edda premeva su Galeazzo perché si rompessero gli
indugi a favore dell'entrata in guerra dell'Italia. Si era già nel maggio del '40 quando lei, estremamente
innervosita e irritata, raggiunse il marito nell'ufficio di palazzo Chigi, col fermo proposito di affrontarlo a
viso aperto e di sostenere l'urgenza di interrompere la lunga e sterile quaresima della non belligeranza.
Lei andava per protestare e per dirgli quanto si vergognava di vedere che l'Italia non si era ancora
schierata al fianco dell'alleato tedesco.
Galeazzo ascoltò l'intemerata con aria di malcelata ironia, e, sapendo che Edda stava per recarsi alle
manifestazioni del Maggio fiorentino fermamente le disse: Non capisci nulla di politica. Fai benissimo ad
andartene a Firenze. Potrai così interessarti, in modo senz'altro più proficuo, di musica. Di quell'incontro
Galeazzo diceva che in effetti Deda era andata da lui per sostenere l'entrata in guerra: Mi ha parlato di
intervento immediato, di necessità di marciare, di onore e di disonore. L'ho ascoltata con impersonale
cortesia. Peccato che neppure lei, così intelligente, voglia ragionare: trovo che fa molto bene ad andare al
Maggio fiorentino, ove potrà più profittevolmente occuparsi di musica.
Lui però ometteva di accennare al drastico giudizio che aveva espresso sulla moglie e che invece Edda
aveva riferito - Non capisci nulla di politica¯ - ma la sostanza della reprimenda rimaneva inalterata.
Lei comunque non rinunciava a incalzare il marito e a rimproverarlo aspramente. Era addirittura furente
da quando aveva capito che Galeazzo si era ricreduto sulla utilità dell'alleanza con la Germania. Ogni
giorno lo investiva con spaventose scenate. Galeazzo annotava: Edda mi fa un violento attacco
accusandomi di germanofobia e asserendo che la cosa è nota ovunque, anche e soprattutto fra i tedeschi,
che sanno "com'io abbia per loro una invincibile repulsione fisica". Non capisco perché se la sia presa
tanto calda e chi le abbia parlato: in genere quando fa così è stata opportunamente insuMata. Non ho
risposto o quasi: d'altra parte lei conosce troppo bene com'io la penso in merito. E non sono solo.
La stampa estera continuava a presentare Edda come un personaggio di primo piano. Nel maggio del '40,
un giornale egiziano, 'Al Wafd al-Misri, scriveva che Mussolini si consigliava soltanto con la figlia.
Il Time le fece l'onore d'una copertina, e un'altra rivista egiziana, Images, arrivava a definirla la donna più
pericolosa d'Europa, la donna che guidava suo padre col pugno di ferro. C'era chi scriveva che lei col suo
fascino aveva soggiogato perfino Hitler. Edda commentava che, a leggere quei giornali, le sembrava di
essere contemporaneamente l'imperatrice della Cina Tsu-hsi, Caterina II di Russia, Caterina de' Medici, la
regina Vittoria, Mata Hari e, perché no?, anche Fouch‚ e Richelieu. Ma aggiungeva che in verità aveva un
solo grande rammarico: quello di non essere nata uomo.
Il regime attraversava una crisi così profonda che alcuni lo davano già per virtualmente morto. Galeazzo
rilevava come l'avvio del diciassettesimo anno dell'era fascista non avesse smalto e come le celebrazioni
della marcia su Roma si svolgessero con un'aria un po' stanca, vagamente delusa. Incisivamente
continuava: Il più malcontento e inquieto è il Duce: sente che gli eventi hanno tradito speranze e
promesse. Cosa riserva il futuro?. Qualche giorno dopo segnava un punto a suo favore, nel senso che il
suocero, almeno in una cosa, gli aveva dato retta: aveva cioè scacciato Achille Starace da segretario del
partito sostituendolo con Ettore Muti, un giovane tenente colonnello pilota con quattro guerre al suo
attivo e un aplomb da condottiero alla Gattamelata, artefice di delicate missioni in Spagna e in Albania.
Gongolante Galeazzo diceva: Credo che Starace sia geloso di Muti perché ha più medaglie di lui.
C'era chi, ricorrendo a una reminiscenza ginnasiale, commentava: Stavolta Ettore ha battuto Achille.
Il Quirinale e il Vaticano erano in pieno fermento, le posizioni del duce e del suo ministro degli Esteri si
allontanavano sempre più. Galeazzo si mostrava sensibile alle preoccupazioni del re e del papa, che poi
erano anche le sue. Il sovrano, già in occasione della firma del patto d'acciaio, gli aveva mostrato simpatia
pur essendo Ciano il firmatario dell'alleanza. Gli aveva inviato un telegramma e intendeva conferirgli il
titolo di marchese. Il re ricevette il ministro davanti a un vassoio di cioccolatini nella residenza di
Sant'Anna di Valdieri. Per prima cosa gli disse che dal giorno dell'assunzione al trono, dal 1900, cioè da
trentanove anni, non aveva mai telegrafato a un ministro. E soggiungeva: Ho creduto di rompere una
tradizione per esprimere dei sentimenti profondamente provati. Quindi forniva un'implicita spiegazione
del suo gesto, con una frecciata antigermanica: I tedeschi finché avranno bisogno di noi saranno cortesi e
magari servili. Ma alla prima occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono.
Il re aveva già conferito al ministro il collare dell'Annunziata, quando arrivò a Ciano un'attestazione di
stima anche dal nuovo pontefice, Pio dodicesimo, il quale gli attribuiva l'alta onorificenza dello Speron
d'oro con una motivazione che ne magnificava l'opera svolta in favore della causa nobilissima della pace.
Vittorio Emanuele si spinse oltre rispetto al suo carattere freddo e alla posizione istituzionale che
occupava. Lo fece avvicinare dal ministro della Real Casa, Acquarone, per dare l'avvio a un'azione politica
che avrebbe potuto condurre proprio lui, Ciano, alla sostituzione di Mussolini.
Il re volle anche sondarne personalmente gli umori e Galeazzo annotava nel diario i punti salienti della
conversazione. Scriveva che il sovrano era indispettito per l'atteggiamento degli inglesi sulla questione
del blocco navale contro le navi italiane, ma che ciò non aveva minimamente mutato il suo fondo di
pervicace antitedesco Il re gli diceva: Io sono nel libro nero della Germania Lui rispondeva: Sì, Maestà.
Al primo posto. E se permette l'audacia, io vi figuro subito dopo. Lo credo anche io.
Ma ciò onora entrambi nei confronti dell'Italia, incalzava Vittorio Emanuele. Ciano scriveva ancora: Tale il
tono dei nostri discorsi. Non ho esitato a dirgli che considererei la vittoria tedesca come il più grande
disastro per il nostro Paese. Mi ha domandato cosa potremmo ottenere dagli alleati angloamericani.
"Salvare la libertà dell'Italia che l'egemonia germanica comprometterebbe per secoli."
Era d'accordo.
Seguì un nuovo incontro fra Galeazzo e il duca Acquarone, cosa che conferì un ulteriore significato al
rapporto con la Corona. Il duca Acquarone era un personaggio discusso. A Verona i suoi concittadini lo
avevano soprannominato il duca affarone. L'incontro non fu casuale sebbene il ministro della Real Casa
avesse scelto per l abboccamento un luogo mondano, più sportivo che diplomatico, un campo di golf
frequentato da principi, duchi, marchesi e belle signore. Evidentemente per evitare sospetti.
La precauzione era superflua poiché all'occhiuto capitano Eugen Dollmann, l'uomo delle SS a Roma,
quelle manovre non sfuggivano, e ne informava Berlino. Chi era al corrente di quei contatti aveva chiara
la sensazione che l'emergente identità di vedute fra il re e il ministro degli Esteri potesse preparare una
svolta decisiva. Qualcuno nutriva sospetti sul comportamento di Dollmann e vedeva in lui un occulto
agente dell'Intelligence service.
Ciano, il 14 marzo del 1940, annotava: "Al Golf mi avvicina il Conte [sic] Acquarone. Parla apertamente
della situazione in termini preoccupanti, e assicura che anche il Re è al corrente del disagio che perturba
il Paese. A suo dire, Sua Maestà sente che da un momento all'altro potrebbe presentarsi per lui la
necessità di intervenire anche per dare una piega diversa alle cose; è pronto a farlo ed anche con la più
netta energia. Acquarone ripete che il Re ha verso di me "più che benevolenza, un vero e proprio affetto e
molta fiducia". Acquarone - non so se d'iniziativa personale o d'ordine - voleva portare più oltre il
discorso, ma io mi sono tenuto sulle generali. Galeazzo - per lealtà nei confronti del suocero o perché non
sentiva di potersi assumere una così grande responsabilità, o per mancanza di coraggio politico - si
ritraeva. Al Quirinale però si conservava la fiducia in lui e se ne capiva la riluttanza.
Naturalmente Mussolini nutriva qualche sospetto, e Ciano osservava che da molte parti gli arrivava la
voce che il duce avesse in mente di allontanarlo dagli Esteri.
Ma aggiungeva: Non lo credo. Comunque, se ciò dovesse avvenire, sarei lieto di lasciare questo posto, nel
quale servo da quasi quattro anni - e quali anni! - a testa alta.
Tutta la mia azione è stata ed è ispirata al solo scopo di servire la mia patria e il Duce, e quando ho
assunto un atteggiamento che può essere apparso in contrasto con quello di Mussolini è stato anche per
difendere la sua posizione dalle offese straniere. Questo è il vero motivo – ed è il più intimo - del mio
risentimento insanabile – che confermo - contro i tedeschi da Salisburgo in poi. Ma ciò non conta: il Duce
farà ciò che vuole: Dominus dedit, Dominus abstulit.
Si mosse il principe Umberto per ulteriori sondaggi con lui e per tentare una nuova azione di
convincimento.
All'estero, e soprattutto in Gran Bretagna, si faceva più affidamento su Umberto che non su altri
personaggi che pure prendevano le distanze dal fascismo. Si riteneva che un movimento di monarchici,
capeggiato dal giovane erede al trono, potesse un giorno non lontano assumere il potere. Ma tutto questo
sarebbe potuto avvenire in seguito all'abdicazione di Vittorio Emanuele e al rovesciamento del regime.
Si correva un po' troppo con la fantasia, comunque proprio dal principe provenivano alcune rivelazioni
sui contatti che Acquarone conduceva su incarico del re. Nel colloquio avuto con Ciano al Golf, il ministro
della Real Casa illustrò chiaramente i propositi del sovrano. Ma Ciano osservava che la Corona purtroppo
non poteva far nulla. Acquarone ribatteva: Il re, caro Ciano, la pensa diversamente; è pronto ad agire con
energia, fino alle estreme conseguenze, fermo restando il principio della legittimità costituzionale,
indispensabile per evitare disordini nel paese e, Dio non voglia, un intervento tedesco col pretesto di
ristabilire la legalità.
Ciano rimaneva sulle sue posizioni: Agire con energia sta bene, ma cosa può fare ormai il sovrano?.
Infervorato Acquarone replicava: "Molto, tutto: può capovolgere la situazione, salvare il paese. Se il Gran
consiglio del fascismo esprimesse un voto di censura o di sfiducia per la politica di guerra del capo del
Governo, il sovrano inviterebbe Mussolini a rassegnare le dimissioni. Comprendo, disse Ciano, ma il Gran
consiglio non esprimerà un voto di censura per la politica del Duce, perché il Duce in persona mi ha detto
che non lo riunirà più per molto tempo: ha già deciso che, al momento giusto, la guerra sarà dichiarata
senza che si debba disturbare il Gran consiglio per questa piccola formalità. Ma è inaudito, incalzò
Acquarone, voi potete esigere in qualsiasi momento, data la gravità della situazione attuale, che il Gran
consiglio si riunisca: il sovrano si impegna a sostenere ad ogni costo una vostra richiesta in tal senso. Mi
comprende? Spetta a voi agire con la fermezza e l'autorità che vi deriva dall'essere custodi delle legalità
costituzionali. Non le nascondo, caro Ciano, che il re guarda a lei, in questo momento, con grande fiducia e
speranza.
Allora, che fare?, chiedeva Galeazzo. Una cosa molto semplice, caro Ciano: fare il censimento delle
coscienze fra i membri del Gran consiglio, accertare quanti sono coloro che giudicano disastrosa la nostra
eventuale entrata in guerra al fianco di Hitler e quanti di costoro sono pronti ad alzare un braccio per
impedire la rovina del paese.
Ma sarebbe un tradimento!!", esclamò Ciano. E Acquarone, d'impeto: Un voto liberamente espresso per
evitare una immane sventura al paese, non è un tradimento: è un normalissimo atto di procedura
costituzionale.
La polizia politica del regime e i servizi d'informazione del Vaticano avevano avuto sentore di tutto
questo lavorio. In una noticina pervenuta alla segreteria di Stato della Santa Sede si diceva che da un
mese Ciano era in predicato di succedere a M. [Mussolini], e che ciò poteva avvenire da un momento
all'altro, tanto più che in quei giorni il principe Umberto era venuto a Roma e per una settimana aveva
sempre pranzato con C.¯. Da Milano un agente segreto dell'Ovra inviava un rapporto sui malumori del
ministro degli Esteri cui si univano quelli dei principi di Piemonte, Maria José e Umberto. Dicono, vi si
leggeva, che sono già 10 giorni che S.E. Ciano non va al ministero e come conferma di questa voce citano i
giornali che non parlano assolutamente niente di lui. Da ieri queste voci aumentano di tono e si
aggiungono anche al risentimento di S.A.R. Principessa e S.A.R. Principe di Piemonte per l'invasione del
Belgio e che apre un dissidio fra la famiglia Reale e il Partito di Governo.
Ormai Galeazzo infastidiva il suocero con le sue osservazioni sulla pericolosità dei tedeschi. Anche Edda
era irritata con lui, non riuscendo a trattenerlo sulla strada della germanofobia. Protestava pure con il
padre recandosi con piglio aggressivo a palazzo Venezia. Urlava, occhi sbarrati e mani adunche. Gli diceva
che il Paese vuole la guerra e che il prolungarsi della neutralità era il disonore. Ciano osservava con
amarezza come purtroppo fossero questi i discorsi che il duce voleva sentire, i soli che ormai era disposto
a prendere sul serio. Galeazzo insisteva nel constatare come non avesse più alcuna possibilità di influire
sul suocero: Il Duce ha deciso di agire e agirà. Crede nel successo tedesco e nella rapidità di questo
successo. Ciano lamentava di essere stato completamente abbandonato da tutti coloro che non si
preoccupano di dire al Duce se non le cose che pensano possano fargli piacere; la verità è l'ultimo dei loro
pensieri.
Per molti giorni, fu abbandonato anche da Deda che, dopo la sfuriata con il padre, si rinchiuse nella villa
di Capri, al Castiglione. Non usciva quasi mai, eppure c'era chi giurava di averla vista nelle notti di luna
piena aggirarsi, ubriaca e solitaria, sulle rupi, lungo le mulattiere della Migliara, fin sulla punta estrema a
picco sul mare, come per restituire all'isola con la sua disperazione una fosca aura tiberiana. Curzio
Malaparte prendeva appunti per un suo libro, e si accingeva a dedicare alla contessa le pagine più
torbide. La paragonava a Stavroghin, una figura demoniaca, cupa, sinistra, anzi tragica, di Dostoevskij.
Diceva: Elle aime la mort. Ha un viso straordinario: certi giorni ha la maschera dell'assassinio, certi altri
la maschera del suicidio. Non mi meraviglierei se un giorno mi dicessero che ha ucciso qualcuno, o che si
Š uccisa¯. A Capri c'era chi assentiva a queste parole: Oui, elle aime la mort. E poi confermava la notizia
delle sue uscite notturne: Si arrampica sulle scogliere a picco sul mare, cammina in bilico sul ciglio dei
precipizi. Una notte, alcuni contadini l'hanno vista seduta sul muricciolo del Salto di Tiberio, con le
gambe penzoloni nel vuoto. Una notte, durante un temporale, l'ho vista con i miei occhi camminare sul
tetto della Certosa, saltando da una cupola all'altra come un gatto stregato.
Qualcuno raccontava come un mattino il medico dell'ospedale tedesco di Anacapri, il capitano Kifer, fosse
accorso al capezzale di lei, ammalata al Castiglione. Fantastico e impressionante era anche quel racconto:
Il medico uscì molto turbato dalla camera della contessa. Disse di aver osservato sulla sua tempia una
macchia bianca, simile alla cicatrice di un colpo di pistola. E aggiunse che certamente era la cicatrice del
colpo di pistola che ella un giorno si sparerà nella tempia.
Il vanesio Dino Alfieri ne sapeva sempre una nuova sul conto di Edda. Anche quando era lontana dalle
feste e dalle gazzarre capresi, la contessa ne era egualmente la protagonista, ricorrendo
immancabilmente col suo fantasma in tutte le conversazioni. Una nobildonna tedesca diceva che Edda
non era mai stata veramente giovane, a causa d'un capriccioso e dispotico carattere di vecchia signora:
era una donna mortalmente triste, il cui peggior nemico era la noia. Nel tentativo di fugare il terribile
spleen che la atterriva, era capace di starsene intere notti a giocare a dadi, come una negra di Harlem.
Se Malaparte la vedeva piangente, altri la rappresentavano con un eterno sorriso sulle labbra, non meno
tragico di un ghigno: Elle rit tout le ternps, elle passe souvent la nuit d boire au milieu de sa jolie cour
d'amants, d'escrocs et de mouchards.
Alfieri diceva che gli italiani la odiavano, ma che gli abitanti di Capri, pur non amandola, la rispettavano e
le perdonavano ogni stravaganza. Povera contessa, sussurravano i capresi con indulgenza, che colpa ne
ha lei?
E la figlia d'un matto! E lì a Capri, s'intendevano di matti o almeno di originali, essendone popolata.
Malaparte aveva da dire la sua: Mussolini sa che la figlia è della razza di Stavroghin, e ne ha paura, la fa
sorvegliare, vuol conoscere ogni suo passo, ogni suo pensiero, ogni suo vizio.
E giunto perfino a gettarle nelle braccia un uomo della polizia, per potere, sia pure con gli occhi di un
altro, spiare sua figlia nei momenti di abbandono. Il suo unico nemico, il suo vero rivale, Š la figlia. E lei la
sua coscienza segreta.
Tutto il sangue nero dei Mussolini non è nelle vene del padre, è nelle vene di Edda. Se Mussolini fosse un
re legittimo, e Edda fosse un principe, il suo erede, egli la farebbe togliere di mezzo per assicurarsi il
trono. In fondo, Mussolini è felice della vita disordinata di sua figlia, del male che l'insidia. Egli può
regnare in pace. Ma può dormire in pace? Edda è implacabile, ossessiona le sue notti. Ci sarà del sangue,
un giorno, fra quel padre e quella figlia.
Se Mussolini aveva paura di lei, non meno spaventato appariva Galeazzo. Malaparte riferiva una
confessione che il ministro, suo amico, gli aveva fatto in un momento di sconforto sul campo di golf: Se un
giorno Edda si allontanasse da me, se ci fosse qualcos'altro nella sua vita, qualcosa di serio, io sarei
perduto. Tutto dipende da Edda. Ho tentato varie volte di farle capire quanto siano pericolosi per me
certi suoi atteggiamenti. Ma con Edda non si può parlare. E una donna dura, strana. Non si sa mai quel
che ci si può aspettare da lei. Certe volte mi fa paura.
Non so chi metta in giro quelle stupide voci su Edda, sulla sua intenzione di far annullare il nostro
matrimonio per sposare non so chi.
Era difficile negare che a quel punto una neutralità prolungata avrebbe potuto rivelarsi rischiosa per
l'Italia. Hitler vinceva ovunque, e sembrava avverarsi la sua ipotesi di guerra-lampo, Blitzkrieg. Hitler
scriveva al duce informandolo delle vittorie tedesche in terra e in cielo. Si era a metà maggio. Mussolini si
accingeva a rompere gli indugi.
L'ambasciatore tedesco a Roma, von Mackensen, informava Berlino che entro qualche settimana, o
addirittura pochi giorni, l'Italia sarebbe scesa in guerra. Ciano ormai non poteva sperare che in una
prolungata dilazione. Diceva che, sebbene le vicende militari fossero favorevoli ai tedeschi, era troppo
presto per fare il punto con certezza. Lo scenario poteva mutare, e un errore nella scelta del momento
dell'ingresso in guerra avrebbe potuto rivelarsi fatale per l'Italia. Mussolini sosteneva che bisognava
affrettarsi per cogliere accanto alla Germania i frutti di una non lontana vittoria finale. Non bisognava
arrivare tardi. Inoltre, evitando di affiancarsi al Fuhrer, si rischiava di offrirgli il pretesto per un'azione
punitiva che avrebbe avuto per obiettivo non soltanto l'occupazione dell'Alto Adige, ma dell'intero
Lombardo-Veneto e dell'Istria, eterno sogno tedesco. Sarebbe il colmo, esclamava, aver firmato un patto
che si chiama d'acciaio, per essere poi invasi dalla Germania; trovarsi cioè, dalla parte dell'incudine.
Il capo di stato maggiore generale, Badoglio, in sintonia con Ciano, prospettava l'esigenza di
procrastinare l'intervento. E aggiungeva: Così l'Italia potrebbe prepararsi meglio". Contrari erano pure
Bottai, Grandi, Balbo, i personaggi più cospicui del regime, le teste pensanti che si ponevano
l'interrogativo di come frenare il duce lungo quella brutta china. Galeazzo si era esposto ben più
chiaramente di ogni altro, fin da quando aveva fatto alla Camera un importante discorso impregnato,
come egli stesso diceva, di un sottile veleno antitedesco. Fra i grandi gerarchi, e non solo fra loro, egli
giocava il tutto per tutto.
La gente, nel rendersene conto, giudicava gli altri personaggi della scena politica italiana troppo prudenti.
Con un calembour si diceva che Mussolini temeva di perdere il treno e Vittorio Emanuele il trono.
Nella ridda di vociferazioni sull'antihitlerismo di Ciano, si innestavano i sospetti di Guido Leto, il quale
aveva già detto che Galeazzo non avrebbe esitato nemmeno sulla soglia di un delitto pur di soddisfare la
sua ambizione E adesso, con i destini dell'Italia in gioco, riteneva che lui stesse realmente complottando
per sopprimere il suocero.
Leto aveva avuto una conferma di ciò dal capo della polizia, Arturo Bocchini, che era in continuo contatto
con Ciano e che anzi apparteneva al suo clan. Don Arturo gli aveva rivelato che Galeazzo intendeva
propinare al suocero un veleno per liberare l'Italia dalla sua tirannia. Il veleno glielo doveva procurare lo
stesso Bocchini, e doveva essere di sicura efficacia e tale da non lasciare tracce.
Leto conosceva altri segreti del regime. Sapeva che con l'ormai imminente partecipazione dell'Italia alla
guerra, il clan dei Ciano, di Galeazzo e della stessa Edda, si era esteso a dismisura poiché in molti
speravano nella loro protezione per ottenere ordinativi di materiale bellico, e quindi arricchirsi
ulteriormente.
Ciano e il capo della polizia filavano in perfetto accordo nel tentativo di far capire al duce che gli italiani
non volevano la guerra. Su invito del ministro degli Esteri, Bocchini preparò un dossier sulla base di
un'inchiesta ordinata al capo della polizia politica, l'Ovra. Gli informatori furono sollecitati a fornire
relazioni veritiere, con l'assicurazione che i loro rapporti e i loro nomi sarebbero rimasti segreti. Ognuno
poteva scrivere in piena libertà, mettendosi anche, eventualmente, in contrasto con i superiori o con se
stessi se in altre recenti circostanze, per motivi di opportunità o di altra natura, avevano dovuto
deformare il proprio pensiero. Bocchini consegnò i risultati dell'indagine a Mussolini, riassumendone a
voce il contenuto: il popolo italiano, nella stragrande maggioranza, non aveva alcuna intenzione di
imbracciare le armi al fianco dei tedeschi.
Il duce era comunque irritato con Hitler che non lo metteva al corrente dei suoi piani bellici. Il Fuhrer non
aveva torto a tacere poiché‚ in varie occasioni si era verificato che le notizie provenienti da Berlino, anche
le più riservate, non appena giunte a Roma cominciavano a fare il giro del mondo. I soliti chiacchieroni,
gli italiani! Mogli e amanti di gerarchi, dive del cinema e attrici girovaghe del Carro di Tespi le
spifferavano ai quattro venti. Non ultima tra le centrali per la divulgazione di notizie segrete, era la
sontuosa residenza della saggia maestra orientale e principessa Isabelle-Hélène Colonna in piazza Santi
Apostoli, un caleidoscopico salotto il cui nume tutelare era proprio Galeazzo. Si diceva infatti
ironicamente che la sede del ministero degli Esteri si fosse trasferita da palazzo Chigi a palazzo Colonna,
in barba a palazzo Venezia. Sursok era il nome da ragazza di Isabelle e ne denunciava non soltanto le
origini siriane, ma anche la vocazione agli intrighi. Aveva sposato l'immensamente ricco principe romano
don Marcantonio Colonna di Paliano, assistente al soglio pontificio e discendente di grandi papi, uomo
coraggioso e di modi spicci dalla parlata romanesca. Se danarosi erano i Colonna non meno facoltosa era
la famiglia di Isabelle.
Tra i divani e i tavoli del salotto Colonna, il più importante della mondanità romana, non si svolgevano
soltanto feste e festini. Era certo che nelle più segrete coulisses papaline e filoinglesi della magnifica casa
s'intrecciassero relazioni politiche di grande momento, tra domestici in parrucca e livrea. Sicuramente
messaggeri inglesi sotto mentite spoglie s'incontravano con Ciano, e insieme architettavano piani che
avevano per obiettivo una pace separata dell'Italia con la Gran Bretagna, il distacco di Mussolini da Hitler,
se non addirittura il suo disarcionamento, magari con il suo consenso per facilitare l'operazione di
sganciamento del paese. Prendevano inoltre in esame l'eventualità di un'abdicazione del re a favore del
nipote, il principino Vittorio Emanuele. Insomma lì in casa Colonna aveva inizio il revirement di Ciano nei
confronti della Germania. Tra le pareti di quell'antico palazzo che era stato di papa Martino quinto, il
conte parlava più volentieri in inglese che in tedesco, e chiamava crucchi i tedeschi. Altre relazioni egli
svilupperà, ancora nei nobili saloni dei Colonna, con esuli polacchi e con emissari dell'incantevole
principessa Maria Cristina Saphiea, nipote dell'arcivescovo antihitleriano di Cracovia, monsignor Adam
Saphiea.
Grazie a questa parentela la principessa poteva incontrare Pacelli. In Vaticano era ospitato l'ambasciatore
Casimir Papee, rappresentante del governo polacco in esilio, in rapporti con generale Sikorski, capo di
quel governo che aveva sede a Londra.
Personalmente anche Isabelle si manteneva in contatto con il Vaticano, soprattutto con il cardinale
Maglione, che nutriva i suoi stessi sentimenti antinazisti. Ciano mischiava insieme strategie politiche,
pettegolezzi e giudizi avventati. Per vantarsi di non temere Mussolini, raccontava fra grandi risate a
Isabelle come un giorno, trovandosi nell'anticamera del duce a palazzo Venezia, e stanco di aspettare di
essere ricevuto, avesse esclamato ad alta voce: Se quel rammollito mi vuole, mi telefoni in casa Colonna.
Alla segreteria del duce arrivavano lettere anonime nelle quali si affermava che a palazzo Colonna e al
Golf dell'Acquasanta si ordivano macchinazioni antitedesche e che, nelle alcove del ministro Ciano,
marchesine e principessine decidevano chi dovesse far carriera e chi restare al palo. In una di quelle
lettere si leggeva: Ciano e la sua banda di nobili prostitute conducono un'azione criminale, cercano di
manovrare perché l'Italia non entri in guerra al fianco di camerati nazionalsocialisti, esponendola così al
disprezzo e alla vendetta di Hitler.
Numerose arrivavano le lettere anonime anche sui tavoli di villa Wolkonsky, nel quartiere di san
Giovanni, dove risiedevano gli uffici dell'ambasciata tedesca. Era difficile che a quegli uffici sfuggisse
qualcosa nonostante le precauzioni dei vociferatori. L'ambiente dell'ambasciata, a dispetto della severità
teutonica degli abitanti, sembrava prestarsi al gioco degli intrighi spionistici e anche di quelli amorosi.
Tra le mura dell'edificio che sorgeva accanto alle rovine dell'acquedotto di Nerone, si era rinchiusa la
principessa Zenalde Wolkonsky a meditare sul suo amore con Alessandro I di Russia.
Edda sapeva che il marito e Isabelle erano molto legati. Sapeva che Galeazzo si lasciava andare troppo
spesso in confidenze con Isabelle, ma era certa che la principessa non lo avrebbe mai danneggiato; non
avrebbe mai detto ad altri ciò che di segreto lui le rivelava, e che mai avrebbe raccontato ciò che accadeva
dietro le quinte dei saloni.
Anzi, quasi a prevenire sospetti d'intelligenza col nemico e per difendere il marito da eventuali accuse,
diceva che tutto sommato Galeazzo e Isabelle non si scambiavano che frivolezze. La principessa, era
l'opinione riduttiva di Edda, aveva fatto di lui il proprio confidente e la loro complicità andava dai piccoli
intrighi, ai quali Galeazzo si appassionava, alle conquiste galanti, quando Isabelle gli combinava un
incontro o una cena con una donna che aveva attirato la sua attenzione. Insomma, secondo Edda, era
tutta una storia di coucheries e null'altro. Ma le cose in realtà stavano ben diversamente.
La contessa continuava a proclamarsi superiore ai flirts del marito, alle speciali attenzioni femminili di
cui egli era oggetto. Le chiamava puerilità, e aggiungeva che Galeazzo poteva divertirsi a piacimento,
tanto per lei la cosa non rivestiva alcuna importanza. Notava però con piacere che mai le signore che
ronzavano attorno al marito, ne fossero o no le amanti, l'avevano posta in situazioni imbarazzanti . Per
questo era grata a loro e a lui.
Ciano veniva ancora invitato a colloquio dal re, il quale, come aveva già fatto altre volte, gli chiedeva le
ultime notizie sui rapporti con Washington e Londra, non senza consigliarlo di tener caro qualsiasi filo
che possa venir riannodato anche se esile come la tela di ragno. All'inizio del giugno '40, dopo un nuovo
incontro, Ciano osservava: Il Re ormai è rassegnato all'idea della guerra. Attribuisce, ed ha ragione, molta
importanza all'eventuale intervento americano. Sente che il Paese va in guerra senza entusiasmo, e dice:
"S'illudono coloro che parlano di guerra breve e facile"¯. Il duce era fra coloro che credevano
nell'impossibilità d'un intervento degli Stati Uniti, così lontani e così isolazionisti.
Contemporaneamente in un ben diverso ambiente, cioè in Vaticano, operavano in gran segreto alcuni
esponenti della resistenza militare antinazista. Pio dodicesimo ne sosteneva gli sforzi, esponendosi a
gravi rischi personali. Attraverso l'ambasciatore britannico presso la Santa Sede, sir D'Arcy Osborne, il
papa sollecitava il governo di Londra a incoraggiare i militari tedeschi dissidenti che si proponevano di
abbattere Hitler con un colpo di Stato per porre fine alla guerra ancor prima che anche l'Italia prendesse
le armi.
Naturalmente i dissidenti volevano essere certi che, in caso di successo della loro azione, gli alleati si
sarebbero dichiarati disposti a concedere alla Germania onorevoli condizioni di pace. A questo fine il
papa fungeva da trait d'union fra i cospiratori e gli inglesi. Anche Osborne frequentava il salotto di
Isabelle Colonna e stretti erano i suoi rapporti con Ciano. Vi trascorreva lunghe ore lo stesso
ambasciatore inglese presso il Quirinale, sir Percy Loraine.
Pio dodicesimo era in contatto con un avvocato bavarese, Josef Muller, che apparteneva all'Abwehr, il
servizio segreto della Wehrmacht agli ordini dell'enigmatico ammiraglio Canaris, un temibile avversario
di Hitler. La guerra era esplosa da pochi mesi e Muller tentava di stringere i tempi della congiura. In veste
di rappresentante segreto della resistenza militare antihitleriana s'incontrava in Vaticano con emissari di
Osborne. Mai personalmente con Pacelli, per una misura prudenziale imposta dallo stesso pontefice.
Era Pacelli che invece trattava direttamente con Osborne il quale si recava da lui in incognito senza
indossare l'abito da cerimonia per non dare nell'occhio. Osborne informava di questi colloqui il ministro
degli Esteri, lord Halifax. Gli diceva che il papa lo teneva al corrente dei suoi contatti con personalità
tedesche le quali gli chiedevano di sostenere l'azione di alti ufficiali germanici, di cui taceva i nomi, pronti
a rovesciare Hitler per sostituirlo con un governo disposto alla pace, a condizione che gli angloamericani
si impegnassero a evitare alla Germania l'umiliazione di una nuova Versailles. Su richiesta del papa,
l'ambasciatore comunicava ogni cosa anche al ministro degli Esteri francesi, Daladier. Pacelli appoggiava
quegli sforzi augurandosi a sua volta la caduta del regime nazista. Egli ravvisava in Hitler il vero ostacolo
da abbattere sul cammino della pace, e in quei giorni si aspettava il tramonto precipitoso dell'errore
nazionalsocialista, grazie al trionfo della cospirazione.
Per l'Italia scoccava l'ora delle decisioni. Ciano riceveva da Mussolini l'ordine di consegnare, nella
mattinata del 10 giugno, la dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna.
Le cerimonie a palazzo Chigi furono severe e formali, ma toccanti. Franc,ois-Poncet, che cercava di
nascondere l'emozione, gli disse: E un colpo di pugnale inferto a un uomo in terra. Vi ringrazio, conte, di
usare un guanto di velluto¯. Ciano arrossiva, e l'ambasciatore francese soggiungeva, pur senza acredine:
I tedeschi sono padroni duri. Ve ne accorgerete anche voi.
Ciano taceva, diritto in piedi nella sua uniforme di ufficiale d'aviazione, e l'ospite incalzava: Non vi fate
ammazzare! Il rappresentante inglese, sir Percy Loraine, accolse senza battere ciglio la comunicazione
che il ministro gli leggeva, ma poi, accomiatandosi in silenzio, gli strinse a lungo la mano, con un velo di
mestizia nello sguardo.
Sull'imbrunire Mussolini annunciò al paese dal balcone di palazzo Venezia di essere sceso in guerra,
pronunciando un martellante discorso di sole settecento parole. Disse che gli obiettivi da colpire erano le
democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente e che l'Italia non intendeva trascinare altri popoli
nel conflitto, come Svizzera Iugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto, purché avessero evitato provocazioni.
Quella sera Ciano annotava: La notizia della guerra non desta eccessivi entusiasmi. Io sono triste: molto
triste. L'avventura comincia. Che Dio assista l'ltalia. Un grande spirito laico, Piero Calamandrei, scriveva
nel suo diario, in data 10 giugno: Da oggi, qualunque cosa accada, il fascismo è finito. Uno scrittore
cattolico, Georges Bernanos, proclamava: Penso a Hitler come a un defunto. Sembrava che la principessa
Maria Jos‚ volesse scendere nelle strade della capitale mostrando un cartello con la scritta: No alla
guerra!. Comunque disse: E la fine, più che un principio. Edda, invece, era entusiasta. In Albania aveva un
porto intitolato al suo nome, e il marito, proprio qualche giorno prima del conflitto, vi aveva inaugurato le
opere del regime. Nella vetrina di un droghiere romano apparvero quel giorno le foto del duce e del
Fuhrer fra due pile di biscotti marca Lazzaroni.
L'Italia aggrediva subito la Francia, sorellastra latina, volendo impossessarsi di Nizza e Savoia. Già col
bollettino di guerra n. 2 si dava notizia delle azioni italiane su Tolone, e, nel comunicato successivo che
portava la data del 14 giugno, si accennava alle prime attività militari sul fronte alpino. I francesi
reagirono immediatamente con un bombardamento su Livorno colpendo proprio il Palace Hotel che
accoglieva Edda nelle sue visite in Toscana.
Negli ambienti contrari alla guerra si riconosceva a Galeazzo il merito di aver contribuito a tenere l'Italia
in condizione di non belligeranza per ben nove mesi e mezzo,riuscendo in qualche modo a frenare il
suocero. E non era cosa da poco. Il conte non aveva più avuto contatti con il sovrano, il quale però
continuava a progettare ipotesi su di lui. Difatti tornò alla carica Acquarone che gli parlò d'un piano
molto preciso, un vero e proprio colpo di Stato. Il re, disse Acquarone, pensava di nominarlo presidente
del Consiglio dei ministri in sostituzione di Mussolini che, per giubilarlo in maniera indolore, sarebbe
stato chiamato a una carica di nuova istituzione, quella di Cancelliere dell'impero. Mussolini non vorrà
saperne, disse Ciano all'interlocutore cui, a queste parole, caddero le braccia per la disperazione. Non
c'era più speranza di agire su di lui. Fu quello il momento della svolta, della rottura fra il sovrano e Ciano.
Vittorio Emanuele cominciò a esprimere aspri giudizi sull'uomo che lo aveva profondamente deluso, e
l'iniziativa reale prese altre strade.
Nell'elenco dei paesi che il duce aveva tranquillizzato dal balcone di palazzo Venezia, figuravano la
Iugoslavia e la Grecia. Accantonati per il momento, vista l'opposizione dei tedeschi, i propositi di
aggredire la Iugoslavia, Mussolini attaccò la Grecia in ottobre. Nel frattempo aveva inferto un flebile e
disonorevole colpo alla Francia del maresciallo Pétain che già si era arreso ai tedeschi. Subiva sempre più
l'influenza del Fuhrer. Galeazzo diceva a Bottai: Come di Goethe si poteva osservare che la sua più grande
disgrazia fu la nascita di Napoleone, così di Mussolini si può affermare che la sua più grande disgrazia è
stata la nascita di Hitler.
Ancora attratto e respinto dal suocero, Galeazzo manteneva un atteggiamento contraddittorio anche nei
confronti del Fuhrer. Ne elogiava la genialità e perfino la sensibilità. Raccontava a Bottai, col quale era in
rapporti sempre più stretti, come Hitler avesse trovato il tempo di recarsi a visitare un figlio di Goebbels,
ammalato, e gli opponeva la villania di Mussolini, la sua impenetrabilità affettiva, il suo fastidio per ogni
intimità. Sbottava: Con Mussolini devi sempre stare in piedi davanti al suo tavolo. Ti ha mai detto di
accomodarti?¯. Un vero monumento di maleducazione!.
Mussolini, per timore d'un sempre possibile accordo anglogermanico (quale significato poteva avere la
strana evacuazione dei francobritannici a Dunkerque?) e per strappare qualcosa al nemico e all'alleato,
fece attaccare dalle truppe di Graziani gli inglesi in Africa settentrionale. Nei suoi piani, le operazioni
militari degli italiani in terra africana, e soprattutto in Grecia, dovevano consentirgli di combattere una
guerra parallela a quella tedesca, sia per dimostrare la validità del suo sforzo bellico sia per pretendere
un più consistente bottino al momento di fare i conti. Ma il sogno del parallelismo presto s'infranse
infelicemente.
Nel novembre del '40, alle prime battute del conflitto, Ciano scriveva: Approfitto d'una giornata di sole
per fare su Salonicco un bombardamento coi fiocchi. Era lui ai comandi dell'aereo, e si comportava con la
souplesse un po' snobistica di chi sapeva di avere a che fare con una guerra da tutti chiamata la guerra di
Ciano. Nel gennaio successivo Mussolini decise che Pavolini, Bottai, Renato Ricci, e naturalmente il
genero, fossero mobilitati e andassero a combattere in maniera continuativa. Pensava che la campagna di
Grecia si sarebbe conclusa entro un paio di mesi, e chiedeva che i politici, i gerarchi accusati di aver
voluto la guerra dessero la prova di essere anche capaci di farla¯. E ha ragione, commentava Galeazzo.
Ma già alla fine del mese annotava: Prendo congedo dal Duce: domani sera raggiungerò il mio gruppo a
Bari. Mussolini non è stato cordiale, come avrebbe dovuto essere. Aggiungeva che il distacco della
partenza, quella volta, si rivelava più duro: Nessun presentimento, tuttavia.
Soltanto poca convinzione e di conseguenza minore entusiasmo. Tutti i camerati volontarizzati per forza,
la pensano così e molti non lo nascondono.
Gli informatori della polizia segreta segnalavano nelle loro informative questo stato d'animo. Scrivevano
che Ciano era più presente negli alberghi di Bari e di Brindisi che sulla linea del fronte, ma trascuravano
di mettere in rilievo che nella capitale pugliese risiedeva il suo stormo e che egli poteva trovarsi lì per
servizio. Dicevano che Ciano si era fatto confezionare con i fondi del ministero una costosa pelliccia e che
si pavoneggiava nella divisa di tenente colonnello all'albergo delle Nazioni di Bari, sostando al bar in
compagnia di donne di sospetta moralità¯, di attrici in cerca di avventure e bevendo caffè.
Avevano sentito Ciano esclamare: Non potrei proprio vivere senza caffè!, e gli amici aggiungere sotto
voce: Neppure senza donne!. In un'altra nota della polizia si leggeva: Lì al bar S.E. Ciano riceve i
documenti e gli incartamenti del ministero. Tra uno scherzo e l'altro vi appone sollecitamente uno
svolazzo a mo' di firma. Insomma, dava in tempo di guerra, uno spettacolo poco edificante, pur essendo
tenuto a un comportamento di vita austera.
All'ispettore di pubblica sicurezza di Bologna risultava - in base alla segnalazione d'un colonnello
d'aviazione, aspro censore della condotta di alcuni gerarchi - che il tenente colonnello Ciano e il capitano
Alessandro Pavolini vivevano comodamente a Bari avendo a propria disposizione cinque appartamenti
all'albergo Imperiale di quella città e una villa in periferia. Sempre da Bari era rimbalzata alla questura di
Trento una strana notizia: Il ministro Ciano non sarebbe stato operato alla gola, come si sostiene
ufficialmente, ma di una ferita infertagli da Ettore Muti, al quale voleva portar via una sua amante
spagnola. Si forniva infine la ragione per cui Galeazzo se ne stava a Bari e a Brindisi: Non può recarsi in
Albania perché lì gli ufficiali gli farebbero certamente la pelle.
Con la denominazione di albergo Imperiale si indicava il vecchio hotel delle Nazioni. Questo albergo fu
teatro, era il caso di dirlo, d'una disavventura in cui incappò l'attricetta Rosaria Agrò, in arte Sara Agrò,
appartenente alla compagnia comica di riviste Pica-Turco che si produceva sulle scene del Petruzzelli.
L'attrice raccontava in un esposto come fino al 5 di febbraio avesse vissuto a Bari tranquillamente: La
sera del 5, invece, mentre ero al bar dell'albergo Imperiale fui abbordata dall'Eccellenza Pavolini, subito
seguito dall'Eccellenza Ciano, i quali mi corteggiarono, mi strinsero, piuttosto intensamente. Dissi che
intendevo rimanere sola con i miei pensieri e le mie noie, ma loro non demordevano. Nel frattempo
sopraggiungevano numerosi ufficiali d'aviazione i quali, attorniando i due gerarchi e chiedendo loro
l'autografo, consentirono all'attrice di allontanarsi. Ma fui subito inseguita dall'Ecc. Pavolini, continuava
Sara nel suo racconto alla polizia, e raggiunta lungo le scale. Dandomi confidenzialmente del tu,
l'Eccellenza chiedeva di entrare nella mia camera. Gli dissi che non avevo mai ricevuto nessuno da me, e
allora lui mi invitò nella sua camera a bere un po' di cognac, un cognac speciale che non avrei mai potuto
trovare altrove.
Accettai. Gli parlai della mia compagnia, che si era dovuta sciogliere, e della speranza di costituirne
un'altra. L'Eccellenza cercò di tranquillizzarmi; bevvi il cognac, ringraziai e rientrai nella mia camera.
La sera successiva Ciano e Pavolini tornarono alla carica con Sara: L'Eccellenza Pavolini, più insistente
che mai, mi raggiunse nella mia camera, portando in mano la bottiglia di cognac. Io avevo appena fatto in
tempo a indossare la camicia da notte e a mettere su di essa una vestaglia. Né mi ero ancora riavuta dalla
sorpresa di quella visita quando arrivò anche l'Eccellenza Ciano. Le due Eccellenze si sedettero sul letto
offrendomi il cognac. Alle moine dell'Eccellenza Ciano risposi piuttosto fredda, ma sempre con garbo: ai
suoi complimenti sulla mia eleganza mi schermii. Egli mi chiese di togliermi la vestaglia, e io me la tolsi,
ben sapendo che avevo, sotto, una camicia da notte lunga e ben chiusa fino al collo. L'Eccellenza mi chiese
allora di togliermi la camicia, ma io rifiutai. I due brontolarono un poco, e poi, piuttosto delusi, se ne
andarono. La vicenda si concluse con la cacciata dell'attrice dall'albergo, e difatti l'esposto derivava dalla
protesta di Sara per la sua ingiustificata espulsione.
Ciano aveva subito un intervento alla gola in seguito a un'infezione, ed era tornato al ministero dopo
esserne stato lontano per un paio di mesi. Il 7 agosto era morto Bruno a causa di un incidente aereo nei
cieli di Pisa. Galeazzo, immobilizzato a letto, non aveva potuto partecipare ai funerali, ma la polizia
segreta riferiva come la gente fosse propensa a credere che l'assenza nascondesse l'accentuarsi dei
dissapori politici fra Galeazzo e il suocero, dissapori tanto forti da dar luogo a una vera e propria
opposizione: La fronda è capitanata da Grandi, da Bottai e dallo stesso Ciano. Tutto ciò è sufficiente a far
pensare che il Conte non sia più nelle grazie del Duce. Ma questo non sarebbe un eccessivo danno n‚ per
S.E. Mussolini n‚ per la Nazione. Ciano stava per essere rispedito in Cina, ed è stata Edda a scongiurare il
provvedimento, intervenendo presso il padre a favore del marito. Comunque, essendo stato Ciano il
promotore della guerra d'Albania, non si sentono in giro auguri per la sua guarigione.
Molte critiche riguardavano anche Edda: Da Capri giungono informazioni sulla vita dissipata della
Contessa. Si parla di banchetti continui, di accaparramento di viveri, di gioco d'azzardo. L'altra sera la
Contessa ha perduto due milioni e mezzo, e non ha lasciato andar via gli invitati fino a quando non riuscì
a recuperare la somma.
La gente si meraviglia che la Contessa circoli per l'isola in abbigliamenti succinti, con colori sgargianti,
spensieratamente, come se il fratello Bruno non fosse così prematuramente e tragicamente morto. Non
ne rispetta il lutto. La Contessa non rinuncia neppure al ballo, come se la Patria non fosse in guerra. Ciò
viene commentato negativamente. A Capri, piccola isola, si sa tutto di tutti.
Si sapeva che lei aveva fatto carte false per ottenere l'assegnazione di due accumulatori Bosch. Li installò
nella villa al Castiglione per non rimanere al buio nonostante le restrizioni di energia elettrica cui erano
sottoposti i comuni mortali. Rimproverava il padre che pretendeva una condotta eccessivamente austera
dai soldati nelle retrovie, e mostrava comprensione per chi tornava al fronte. Non capisco, diceva, perché
dovrebbero starsene col muso lungo. Fanno molto bene a gustare la dolcezza della vita, magari ballando
per tutta la notte, prima di riprendere le armi.
Altre ragioni la dividevano dal padre; riguardavano i familiari di Claretta Petacci, la giovane donna che da
anni dominava la vita sentimentale di lui. Senza peli sulla lingua dichiarava un odio profondo per il clan
dei Petacci. Li definiva ignobili ceffi che approfittavano della relazione fra la loro congiunta e il duce per
trafficare in oro e in valuta, per ottenere colossali forniture e speciali facilitazioni nel campo dell'import
export, per influire sulle carriere politiche e militari dei loro adepti, per decretare la morte civile degli
avversari. Alcuni membri del governo erano stati nominati su segnalazione dell'amante, ed erano
chiamati i ministri di Claretta. Insomma i Petacci facevano scandalosamente il bello e il brutto tempo.
Edda denunciava tutto ciò al padre, anche nel tentativo di staccarlo dalla provocante sottana di quella
donna. Gli riferiva con brutalità le vociferazioni dei gerarchi, alle quali lei prestava credito. Tutti
sapevano, diceva, che il ministero più potente¯ era quello della Camilluccia, la zona di Monte Mario dove
sorgeva la fastosa villa di Claretta. Tutti sapevano che lui la colmava di regali che andavano dai pianoforti,
acquistati in via di Fontanella Borghese, ai gioielli, che provenivano da un raffinato negozio di via
Condotti. La stessa villa in cui Claretta viveva lussuosamente era un dono del duce. Sul muro di cinta
dell'edificio una mano, tanto ignota quanto sarcastica, aveva scritto col gesso: Scuola di mistica fascista.
Il fratello di Claretta, Marcello, alla notizia d'un rovescio subito dalle truppe italiane in Africa
settentrionale, aveva un giorno esclamato: Tutto va male, ma sul fronte della Camilluccia tutto va bene.
Edda urlò in faccia al padre: Basta di dare scandalo con quella famiglia, ed elencò una lunga serie di
malefatte perpetrate dai Petacci e personalmente dal vorace Marcello, un medico ignorante che era
perfino riuscito a conquistare una cattedra universitaria dopo sonore bocciature. Gli ricordò che il
fratello della sua amante non aveva ancora fatto neppure un giorno di guerra, ma che egualmente aveva
ottenuto folli promozioni; la sorella, Myriam di San Servolo, - Bello questo nome d'arte che richiama il
manicomio di Venezia! - faceva l'attrice cinematografica senza saper spiccicare" una parola: tutta l'Italia
si sbellicava dalle risate, perché il suo ultimo film aveva un titolo involontariamente ambiguo, Le vie del
cuore.
Edda non la finiva più di gridare, mentre Mussolini taceva. Esasperata, aprì la borsetta.
Melodrammaticamente gettò sullo scrittoio del padre un fascicolo. Era un dossier che si era fatto
preparare dal nuovo sottosegretario agli Interni, Umberto Albini, suo fedele ammiratore. In esso erano
contenute le prove delle malefatte della banda petacciana. Mussolini alfine si scosse. Dando l'impressione
di indignarsi, esclamò: So tutto. Ho deciso di porre fine a questo legame e giuro che Rachele è l'unica
donna importante della mia vita. Marcello Petacci è un imbecille. Confermo: la donna sarà liquidata, non
metterà più piede a palazzo Venezia, e tutti questi imbrogli avranno termine.
Edda, placata, salutò il padre con la certezza di aver vinto la partita, tanto più che lui realmente congedò
l'amante.
Proprio in quei giorni c'era stato un litigio fra i due, per questioni politiche, e Ben, infuriato, aveva gridato
a Claretta: Basta, non vorrai anche tu rompermi le palle con la politica! Già lo fa un'altra donna e alludeva
a sua figlia.
Ma dopo una settimana tutto era tornato come prima fra lui e Claretta. Peggio di prima! esclamò
indignata Edda.
Il più intrigante dei Petacci era effettivamente Marcello, fratello dell'emerita sorella, come diceva
Galeazzo. Il conte lo definiva un affarista imbroglione, in base alle informazioni che gli forniva l'Ovra.
Un giorno Guido Leto gli aveva detto: "Il dottor Petacci fa più male al Duce di quindici battaglie perdute.
Edda lamentava che ormai il padre le si allontanava sempre più; passavano mesi senza vedersi e quando
si incontravano finivano col litigare.
Nell'animo di lei si agitava un intreccio di gelosie. L'apparizione di quella donna nella vita di Mussolini
aveva difatti indebolito, quasi spezzato, i legami tra loro. Avveniva che il duce, ammaliato da Claretta, non
provava più la misteriosa dipendenza da Edda, una dipendenza che lo aveva sempre turbato. Ora gli
sembrava che Claretta lo avesse posto al riparo dal lungo potere della figlia. E questi sentimenti
gettavano Edda nella disperazione.
Badoglio, che aveva inutilmente additato le deficienze delle forze armate italiane, veniva sostituito da
Cavallero nella carica di capo di stato maggiore generale. Graziani aveva dovuto abbandonare
precipitosamente Sidi-el-Barrani agli inglesi. Ciano quasi gioiva che le cose non andassero male soltanto
in Grecia. Comunque chiamava eufemisticamente flessioni le ritirate dell'esercito italiano sul fronte
greco-albanese, e insisteva sulle sventure di Graziani dicendo che il maresciallo non si era più ripreso dal
momento dell'attentato subito ad Addis Abeba. Sul frontegrecoalbanese non c'era altro da fare che
attendere l'arrivo dei tedeschi per contenere gli effetti della disfatta. Le leve delle operazioni militari
tedesche e italiane erano saldamente nelle mani di Hitler, con l'esplicito assenso di Mussolini.
La situazione militare e politica presentava aspetti altamente drammatici. Tuttavia Edda e Galeazzo
trovarono il modo di farsi ritrarre in posa proprio in quei giorni. La scelta cadde su due pittori, assai
diversi tra loro, De Chirico e Amerigo Bartoli. Dopo il primo abbozzo, perché De Chirico potesse lavorare
più tranquillamente nella sua casa di Milano, gli fu inviata l'alta uniforme ricamata d'oro del ministro con
feluca piumata, spadino e decorazioni, compreso il collare dell'Annunziata. Tra i due ritratti eseguiti dal
pictor optimus, il più somigliante all'originale era quello di Edda, ma entrambi furono ovviamente posti
alla parete d'onore dell'appartamento di via Secchi. Alla vista di quei dipinti gli amici di Galeazzo
ricordavano ciò che aveva scritto di lui un intellettuale inglese, Harold Nicolson: Il conte Ciano è il ritratto
di un giovane moderno, ma dipinto da un pittore antico, un pittore come il Bronzino.
Qualche stupore suscitò nel clan di Galeazzo il fatto che egli si fosse rivolto anche a Bartoli poiché lo si
sapeva autore di un disegno ferocemente antifascista. In quel disegno si vedeva il Leone di Giuda - una
statua sottratta dai legionari di Mussolini al negus d'Etiopia e trasportata in Italia - che alla stazione
Termini stava per lasciare Roma, mentre il duce rispettosamente gli si rivolgeva dicendo: Speriamo che la
prossima volta resterete più a lungo.
Ciò a commento del fatto che nel giugno di quell'anno ii negus Hailè Selassiè aveva riconquistato Addis
Abeba, per cui l'impero di Mussolini non era durato che un quinquennio.
Edda, che tanto aveva invocato l'ingresso dell'Italia in guerra, decise coerentemente di parteciparvi in
qualche modo. E tornò ad arruolarsi come crocerossina, pur senza averne il brevetto. Glielo aveva
rifiutato fin dal '35 la presidentessa della Croce Rossa, Maria Josè di Savoia, affermando che per aver
diritto al titolo era necessario prestare servizio almeno un anno consecutivo, e alla Ciano mancava quel
requisito essenziale.
In divisa di crocerossina, partiva in treno alla volta del Piemonte con l'idea di offrire la sua opera in un
ospedale nelle immediate retrovie del fronte francese. Nessuno aveva saputo di quanto lei stava
meditando, neppure Galeazzo di cui temeva le sfuriate. Si limitò a lasciargli sul comodino della camera da
letto un biglietto con poche righe di saluto. Un colpo di testa così imprevisto irritò il padre che diede
ordine di tener segreta la cosa, e difatti una velina del Minculpop, in data 11 giugno, il giorno
immediatamente successivo alla dichiarazione di guerra, imponeva drasticamente di non parlare affatto
della partenza della Contessa Ciano". Edda, che aveva raccolto in disordine un po' di biancheria in una
valigetta, appena arrivata a Torino si trovò sotto un bombardamento dell'aviazione francese.
Potè provare il brivido della guerra, ma tutto fu di breve durata in quanto Pètain si era affrettato a
firmare l'armistizio.
Contrariata cercò la gloria altrove, e raggiunse il fronte greco-albanese dopo aver attraversato l'Adriatico
a bordo della nave ospedale Aquileia. Era molto attiva, lavorava dodici-quattordici ore al giorno; era
amata e apprezzata dai feriti, dai medici, dagli infermieri. Le chiedevano autografi ed era accolta al grido
di Viva Edda! Viva il Duce! Vinceremo!, ma una volta le era parso di sentire una voce discorde, quasi un
mormorio: Sì, Vince Romolo!. Poteva rischiare la vita anche senza il brevetto di crocerossina, e la rischiò
davvero nella baia di Valona, a bordo della nave ospedale Po. Il piroscafo, benchè sulle fiancate fosse
evidente la croce rossa, fu colpito di notte da due aerosiluranti inglesi, e in pochi minuti fece naufragio.
Fino a un attimo prima dell'esplosione, Edda se ne stava tranquillamente in cabina a leggere un libro,
proprio d'uno scrittore inglese, Wodehouse. E lo trovava spiritosissimo. A esplosione avvenuta,
paralizzata dal terrore, stava per lasciarsi colare a picco con la nave quando un marinaio ebbe la
prontezza di spirito di prelevarla di peso dalla cabina e di spingerla in mare. Rimase in acqua per cinque
ore, fino a quando fu ripescata da una scialuppa di salvataggio. Ed era l'alba. Si sospettò che gli inglesi
avessero silurato quel piroscafo sapendo che ospitava la figlia del duce. Il padre, che si era precipitato a
Valona, nel riabbracciarla esclamò: Vedo che hai la pellaccia dura dei Mussolini!¯.
Per essere rimasta a galla, la contessa fu insignita d'una medaglia di bronzo sul campo. La cerimonia della
consegna si svolse a Tirana alla presenza delle truppe schierate di fronte al palco d'onore. La decorazione
le fu appuntata sul petto dal capo di stato maggiore dell'esercito Cavallero, il quale lesse la motivazione in
cui si celebravano il suo ammirevole altruismo e lo spiccato spirito di sacrificio nel dare a tutti la
precedenza prima di salire sulle imbarcazioni di salvataggio. Offriva così un nobile esempio di solidarietà
umana che accomuna, per lo sprezzo del pericolo e per la dedizione assoluta al dovere, la donna italiana
dell'Era fascista al combattente.
Nel maggio del '42, Edda volle nuovamente recarsi in Gerrnania dove si sentiva a suo agio, ancor più che
in Italia. Aveva deciso di visitare alcune fra le città più bombardate, Lubecca, Amburgo, Brema, ma aveva
l'impressione che qualcuno volesse impedirglielo. Forse proprio Ribbentrop, quel pappagallo.
Fu per questo motivo che una mattina a Berlino piombò nella sede del ministero degli Esteri urlando: Ho
deciso di fare questo viaggio, e nessuno mi farà cambiare idea. I tedeschi, che già erano al corrente
dell'antihitlerismo di Galeazzo, si mostravano ora meno accondiscendenti con la contessa. Ma poi,
Ribbentrop decise di non irritarla, essendo lei una sicura alleata della Germania; se ne sarebbero potuti
servire al momento buono. Edda poté compiere il viaggio su un vagone speciale che Ribbentrop le mise a
disposizione. Tuttavia il ministro, incontrando qualche giorno dopo il collega italiano, non mancò di
lamentarsi con lui degli insopportabili capricci" e della indisponente molestia della moglie.
Quel viaggio era nato sotto una cattiva stella. Edda volle visitare i campi in cui confluivano gli operai
italiani che si erano recati a lavorare in Germania su richiesta del governo tedesco. E ne fu dolorosamente
colpita. Sono trattati come servi della gleba, commentava Galeazzo ascoltando il raccapricciante racconto
di Deda. A quegli operai, sfruttati indecorosamente, davano da mangiare sempre e soltanto patate. C'era
anche qualcosa di più grave. In un ospedale Edda aveva visto un operaio italiano che era stato ferito a
roncolate alle braccia da un brutale sorvegliante. Aveva subito riferito l'episodio a Hitler, il quale,
mostrandosi infuriato, aveva ordinato inchieste ed arresti. Il che però non cambierà il corso delle cose,
osservava avvilito Galeazzo.
La storia di quelle roncolate rimbalzò sia a palazzo Venezia sia al Quirinale. Il duce telefonò al genero
perché convincesse Edda a non parlare con nessuno, assolutamente con nessuno, di quanto aveva visto e
rilevato in Germania. La spiegazione della richiesta la dava lo stesso Galeazzo: Il Re aveva detto a
Mussolini: "Tutta Roma sa che in un ospedale tedesco c'è un operaio italiano con le dita tagliate e sa che
anche vostra figlia ha energicamente protestato presso Hitler". Il Duce si è preoccupato di questo
discorso e vi riconosce una manovra per attirare i risentimenti antitedeschi del popolo italiano,
servendosi del caso specifico di un nome molto impressionante. "Il Re che fa sempre l'antitedesco", ha
osservato Mussolini, "ha dato una figlia a un tedesco, il figlio a una belga di razza tedesca, e nella sua casa
i matrimoni con i tedeschi si contano a decine".
Al termine del viaggio in Germania, la crocerossina Edda Ciano partì alla volta del fronte russo.
Hitler l'aveva personalmente scongiurata di non affrontare una così rischiosa impresa, ma al cospetto
della sua risolutezza volle che almeno si facesse vaccinare contro tutte le malattie possibili e
immaginabili. E le mise a disposizione il proprio medico. Edda fu sia a Stalino, nell'area tenuta dal corpo
di spedizione italiano, sia in Ucraina, nell'ampio bacino del Don. Operò attivamente sebbene la presenza
d'un'infermiera così celebre creasse ai comandanti dei reparti preoccupazioni e fastidi, e generasse fra gli
ufficiali gelosie e sospetti, il tutto in un diffuso clima d'insopprimibile piaggeria. In un'isba tra un
bicchiere di rum e l'altro, un giovane tenente cominciò una sera a lodare Mussolini. Lo descriveva come il
più geniale protagonista della storia, anzi, come una divinità in terra. Avrebbe certamente proseguito
all'infinito su quel tono se lei non lo avesse interrotto gridando: Ora basta con questi discorsi da federale!
Alla piaggeria si univa spesso la sudditanza. Era lei stessa a raccontare un episodio, non vero ma ben
inventato. Nell'autunno del '42, quando a Stalingrado l'Armata rossa aveva già stretto in una morsa i
tedeschi di Von Paulus, se ne tornava in Italia su un treno zeppo di moribondi. Il comandante del
convoglio, diceva Edda sorridendo, era così eccitato di avermi a bordo, che la notte dormiva in alta
uniforme.
Crocerossina in tempo di guerra, aveva svolto un'intensa opera assistenziale anche negli anni di pace, e
ancora guidava una vasta organizzazione di soccorsi, di elargizioni e di raccomandazioni. Presso il
Minculpop esisteva alle sue dipendenze un ufficio denominato Segreteria particolare dell'Eccellenza la
Contessa Edda Ciano Mussolini. Se ne occupava il Minculpop affinché ogni suo intervento a favore di chi
le chiedeva aiuto si risolvesse in un atto di benevolenza, producesse un effetto propagandistico sul
regime e contribuisse a estendere intorno a Mussolini il consenso e la devozione popolare. Edda
dispensava sussidi militari e premi di natalità; si occupava di licenze e congedi, di arruolamenti e di
imbarchi; disponeva l'assegnazione di apparecchi ortopedici e la distribuzione di indumenti; regalava
sigarette e cerini, lamette e sapone da barba, inquadrando minuziosamente il tutto nella grande
macchina del populismo fascista. Di mese in mese il padre, mediante i segretari De Cesare e Sebastiani, le
faceva avere nell'abitazione di via Angelo Secchi, con raccomandata a mano attraverso un agente di
polizia, una certa somma – in genere tremila lire - perché la destinasse alle opere di beneficenza. Di volta
in volta l'Eccellenza Edda Ciano firmava una ricevuta in proposito. E null'altro.
Era obbligatorio allegare alle richieste di aiuto il certificato di buona condotta redatto dalle questure o
dai comuni e attestati di fedeltà al fascismo. I sussidi potevano variare dalle cinquanta alle cento lire, a
seconda delle condizioni economiche del cittadino bisognoso. Non tutti i richiedenti venivano però
accontentati. Un operaio di Salerno si vide rifiutare il sussidio essendo un pregiudicato, dedito all'ozio,
pur dovendo mantenere ben venti figli.
Anche Claretta si prodigava nelle opere assistenziali, provocando la rabbia di Edda. Come alla figlia di
Mussolini, così all'amante veniva attribuito il titolo di Eccellenza nell'entourage del duce. Per di più
Claretta, oltre a disporre in palazzo Venezia della sala dello Zodiaco per gli incontri intimi con l'amato,
poteva servirsi d'un piccolo ufficio dove esaminare le pratiche di beneficenza che si accatastavano sul suo
tavolo. Nelle concessioni dei sussidi lei godeva d'una maggiore libertà della stessa Edda, poichè poteva
distribuire senza alcun controllo burocratico il denaro che riceveva da Benito.
Di fronte ai rovesci militari, il duce ascoltava nuovamente con interesse ciò che il genero gli diceva.
Galeazzo gli prospettava i vantaggi per l'Italia d'una pace di compromesso, come la chiamava, ed egli
sembrava consenziente, anche perché era irritato dai contrasti che esplodevano in Grecia con il comando
tedesco e dallo spadroneggiare di Hitler. Ci lascino tranquilli i tedeschi, diceva, e si ricordino che per loro
abbiamo già perso l'Impero.
Ho una spina nel cuore per il fatto che la Francia battuta ha il suo Impero intatto e noi lo abbiamo
perduto. Il Fuhrer voleva vederlo a breve termine, al Brennero, e Mussolini scalpitava: Sono stufo di
essere chiamato col campanello, ma prese subito il treno per raggiungere il luogo dell'incontro.
Già duramente impegnato nei Balcani e in Africa settentrionale, il duce decise egualmente di inviare in
Russia un suo corpo di spedizione. Fra i gerarchi più avveduti si paventava che la penetrazione in quelle
terre sterminate potesse sortire lo stesso effetto della campagna napoleonica. La diretta partecipazione
italiana alla guerra contro l'Urss ebbe come risultato immediato l'interruzione imposta da Mosca ai
negoziati in corso con Roma per la fornitura all'Italia di grandi quantità di nafta. La mancanza di quel
carburante creò nuove difficoltà a Mussolini, in un quadro di per s‚ fosco, con i soldati che partivano per il
fronte russo senza adeguati equipaggiamenti e privi di armi moderne. Il duce rivolgeva le sue rampogne
più contro singole persone che nei confronti delle deficienze organizzative del sistema militare fascista; si
accaniva a criticare questo o quell'ufficiale o trascurabili aspetti del loro comportamento perdendo di
vista l'insieme dei problemi Ciano raccontava che Mussolini era talvolta tentato di scendere
dall'automobile per frustare gli ufficiali che andavano al Ministero della Guerra, tanto li considerava
indegni di vestire l'uniforme.
Mussolini voleva che il popolo fosse sempre all'erta. A Roma gli allarmi aerei suonavano a vuoto, e
Galeazzo sapeva che era stato personalmente il duce a dare l'ordine di far funzionare le sirene nella
capitale ogni volta che c'era un allarme a Napoli. Lo fa, diceva Ciano, perchè vuol dare al Paese una
impressione di guerra: ha disposto che alla prima occasione sparino anche le artiglierie, per rendere più
emozionante la cosa. E utile tutto ciò? A sentire i commenti per la strada, mi sembra proprio di no.
L'allarme consisteva in sei riprese consecutive d'un lancinante suono di sirena della durata di quindici
secondi ciascuno intervallate a loro volta da quindici secondi. Dove mancavano le sirene interveniva il
suono delle campane a martello. La gente era obbligata a sopprimere tutte le luci non strettamente
indispensabili alla vita notturna e ad attenuare o schermare le luci di cui non si poteva assolutamente
fare a meno. La luce delle abitazioni private, degli esercizi pubblici, degli uffici non doveva minimamente
trapelare da portoni, porte, finestre, lucernari, trombe di scale, locali di servizio, sia verso le strade, sia
verso cortili e giardini. Erano vietati gli spettacoli notturni all'aperto. Era obbligatorio tenere spenti i
lumini delle immagini sacre stradali, e anche i cimiteri dovevano rimanere immersi nell'oscurità più
completa.
Per non discostarsi dall'austerità bellica imposta da Mussolini, i giornali non potevano intrattenersi sul
così detto esodo di Ferragosto. Ma non era neppure consentito occuparsi delle code davanti ai negozi in
attesa della merce o dei viveri che, scarseggiando, tardavano ad arrivare. Perfino i necrologi erano un
chiodo fisso del Minculpop, non soltanto nei riguardi degli ebrei, ma anche dei caduti in combattimento:
E' fatto assoluto divieto di pubblicare necrologi di caduti in operazioni militari; Si porta a conoscenza che
in seguito alla decisione adottata dal Ministero dell'Interno, Direzione Generale per la demografia e la
razza, non possono consentirsi nei quotidiani italiani pubblicazioni di avvisi mortuari di nominativi
ebraici.
Ciano discuteva con Anfuso sulle prospettive della guerra in Russia. Anfuso aveva appreso da Frau
Mollier, moglie dell'addetto stampa tedesco a Roma, che con quell'offensiva si era aperta una grave crisi
nelle classi dirigenti germaniche. Hitler aveva attaccato l'Urss con la convinzione che la lotta al
bolscevismo avrebbe indotto i paesi anglosassoni a desistere dal conflitto e ad allearsi con lui. Invece
Churchill non si era lasciato commuovere da quella mossa e aveva confermato di essere pronto a
sottoscrivere un patto anche col diavolo pur di farla finita col nazismo. Frau Mollier aveva aspramente
criticato il Fuhrer e lo aveva definito uno sciocco, Dummkopf, interpretando un giudizio che si diffondeva
a macchia d'olio in Germania.
Si rese necessario un nuovo incontro di Mussolini con Hitler. I colloqui avvennero nella famosa Tana del
lupo verso la fine dell'agosto '41. Il duce indossava l'uniforme da campagna di primo maresciallo
dell'impero, un possedimento che non aveva più, e Hitler portava una semplice divisa grigioverde.
S'incontravano sulle barricate europee contro il comunismo, diceva alla radio Mario Appelius nei
commenti ai fatti del giorno. Galeazzo non prese parte alla missione, in preda a una tonsillite che richiese
un intervento chirurgico e che quindi, una volta tanto, non nascondeva una malattia diplomatica.
Vittorio Emanuele aveva ormai perso qualsiasi fiducia in Ciano. E, irritato, si era messo a sparlare di lui
perfino con Mussolini. Gli diceva che a palazzo Chigi, nei salotti romani e presso l'alta società non si
faceva altro che criticare i tedeschi. Ciò è pericolosissimo, osservava, perché il governo germanico,
attraverso la Gestapo e villa Wolkonsky, era informato di ogni voce. Si ha l'impressione, diceva il re, che
tutti i pettegolezzi riscuotano il consenso di Ciano, il quale non riesce mai a tenere la lingua fra i denti e la
bocca chiusa.¯ Vittorio Emanuele arrivava perfino a fare i conti in tasca ai Ciano: Ho detto a Mussolini che
ho saputo cose piuttosto spiacevoli e compromettenti riguardo a suo genero. E stato fatto l'inventario
delle sostanze lasciate dal vecchio Ciano ed è risultato che il suo patrimonio ammonta a 900 milioni di
lire. Anche il Duce ha strabuzzato gli occhi ed Š rimasto senza fiato. Mi è parso che non ne fosse al
corrente e che la notizia lo abbia molto sorpreso. Gli ho parlato anche di un'azione giudiziaria per
questioni di eredità che è stata promossa dal conte Magistrati, vedovo di una sorella di Galeazzo.
Mussolini ha ascoltato sempre in silenzio. Una così dura requisitoria era la conseguenza dello sconforto
per aver dovuto ravvisare nel ministro degli Esteri un pusillanime un uomo incapace di impegnarsi in
una grande e meritevole impresa come sarebbe stata quella di assecondarlo nei piani per disarcionare
Mussolini.
La polizia politica riceveva dai suoi fiduciari numerose segnalazioni sull'arricchimento dei Ciano. Nel
febbraio del '42 anche dall'Archivio segreto del Vaticano giunsero alcune indiscrezioni secondo le quali
Galeazzo aveva formato una società anonima simulata con il conte Volpi di Misurata e l'impresa Tudini e
Talenti per acquistare dal demanio l'intera aerea delle caserme al Castro Pretorio, in vista della loro
demolizione. Il demanio gli aveva fatto un trattamento di favore vendendogli il terreno ad appena 6 lire il
metro quadrato, mentre il suo valore reale si aggirava sulle 1500 lire. L'affare rivestiva un'importanza
straordinaria in considerazione della vastità dei terreni, tre ettari, e della loro centralissima ubicazione.
Ne era informato anche l'autorevole corrispondente da Roma dell'agenzia giornalistica francese Havas,
Max Bergerre, vaticanista. I fiduciari di polizia ritenevano che Ciano stesse addirittura per acquistare
palazzo Barberini, ma accennando alla reazione di quanti erano al corrente di questo colossale affare,
scrivevano che la fortuna accumulata dalla famiglia del Conte non potrà avere benefici risultati: ci
penserà il popolo a farsi giustizia, quando sarà il momento.
Un po' misteriosa appariva un'informazione proveniente da Pistoia: Qui nel Pistoiese continuano le
lamentele per la famiglia che alloggia alle Piramidi dell'Abetone. Il capofamiglia ha comprato in questo
periodo 18 poderi in prov. di Lucca. Due di questi poderi erano legati ad altro proprietario.
Allora Egli li ha acquistati a 400.000 lire l'uno mentre il giusto valore era di circa (pagati bene) 100.000
ciascuno. Gli avversari di quella persona sono sempre più numerosi, ed aspettano che venga cacciata.
Altrimenti sono pronti a una rivolta. Seguiva a questa nota un P.S. chiarificatore: La famiglia è quella del
conte G. Ciano; il capofamiglia è lui stesso; non ci sono dubbi su chi sia Egli.
La ridda delle voci sul poverello di Livorno, come Galeazzo veniva ironicamente chiamato dalle sue parti,
non aveva termine. Si diceva di aver messo le mani sulla elettroferrovia Roma-Ostia, sulla Roma Nord,
sulle linee tra la capitale e i Castelli romani e sulla compagnia Vagoni letto; di essere uno dei maggiori
azionisti della ditta Bombrini-Parodi di Isola Liri e della società Motta; di essersi impossessato delle
tenute Bella Donna e Santa Colomba site nell'Agro romano; di aver acquistato l'intera isola di Capri e
altre immense proprietà a Sorrento, ad Amalfi e naturalmente in Toscana, non escluse le cave di marmo
di Massa Carrara che forniva il materiale per l'E.42; di avere grandi proprietà in Albania, e che comunque
era una delle persone più discusse e malviste.
Qualche anno addietro Edda aveva compiuto un viaggio in Brasile, con tanto di credenziali diplomatiche,
per ottenere un certo quantitativo di caffè e per non far mancare agli italiani la loro bevanda preferita,
come recitava la versione ufficiale sulla missione. Si diceva pure che lei, appassionata di danza, aveva
voluto impararvi il Samba e il Masciscia, e che riusciva perfino a scandalizzare la sua compagna di
escursioni notturne, la marchesa Delia Di Bagno. Ma ora si apprendeva che in realtà vi si era recata per
acquistare vaste piantagioni di caffè e per depositare una fortissima somma. Si apprendeva altresì che il
governo brasiliano stava già disponendo la confisca delle fazendas e del denaro dei Ciano. La popolazione
nera, memore della conquista mussoliniana dell'Abissinia, le si era mostrata ostile con urla e fischi.
La contessa aveva compiuto il viaggio verso il Brasile sul Conte di Savoia, portando con sé tre grandi bauli
costantemente vigilati da un agente in borghese. Un informatore sosteneva che in quei bauli si
nascondessero grandi quantità di pietre preziose e di oro che lei portava in salvo.
In Italia circolava una facezia. Un vigile urbano aveva fermato un'auto per eccesso di velocità. Al volante
c'era Galeazzo che cercava di non pagare la multa facendosi forza del suo rango. Il vigile, scattando
sull'attenti, gli faceva presente che la legge era eguale per tutti. Galeazzo si decideva a pagare, ma diceva:
Eccovi il denaro. Sappiate però che è denaro rubato. E il vigile: Lo sappiamo, lo sappiamo, Eccellenza!.
La Blitzkrieg era diventata una lunga guerra di logoramento, e la sfiducia si diffondeva ovunque. Gli aerei
inglesi bombardavano Torino, Milano, Genova, Savona, Napoli, Brindisi, Palermo. Un intellettuale, Alberto
Savinio, dedicava alla capitale lombarda un libro carico di passione. Scriveva: Questo è il ritratto di
Milano "di prima". E Milano quale nessuno vedrà più. La città presentava ora qua e là nelle zone
bombardate gruppi di sinistrati accampati nelle vie. A tutti gli italiani si imponevano provvedimenti
restrittivi. I raccolti erano cattivi e nelle campagne i contadini, opponendosi alle requisizioni,
nascondevano il grano perfino nei materassi. In Sicilia avevano affrontato a colpi di lupara i rastrellatori
comunali. Sulla base di rapporti della Sanità, il sottosegretario agli Interni aveva comunicato a Mussolini
come fra gli operai numerosi fossero i casi di edemi da denutrizione. Anche a Ciano risultava che a
Piombino, come gli diceva il federale di Livorno Umberto Ajello, si verificavano situazioni altrettanto
gravi. Gli italiani disponevano appena di quattrocento grammi mensili di carne; di cinquecento grammi
mensili di zucchero; di mille grammi mensili di patate. Stavano perdendo la guerra, e per di più dovevano
tirare la cinghia.
Al razionamento dei generi alimentari seguirono le restrizioni nell'acquisto di tessuti e di capi di
abbigliamento, scarpe incluse, oltre che di prodotti per l'igiene personale, a cominciare dal sapone.
I Ciano invece non si privavano di nulla, come risultava dalle informative della polizia. In una di esse un
agente scriveva: Aspettavo il tramvai in piazza Fiume, fra la gente sotto la pensilina. Avevo accanto due
signori, piuttosto anziani e molto distinti. L'uno diceva all'altro, a bassa voce: "Sono stato dal fornaio per
farmi dare un etto di grissini. Mi ha detto che non aveva più né grissini né pane, poiché gli avevano
decurtato l'assegnazione di farina.
Per noi del popolo non c'è pane, ma io ho saputo che l'altro ieri a Monterotondo stazione sono arrivati
due vagoni di granturco per dare da mangiare ai fagiani e ad altri volatili della riserva di caccia di Ciano,
controllata da ben sei guardacaccia. Ho saputo anche che alla tenuta arrivano ogni mattina dieci litri di
latte per il pastone da dare ai cani del Conte. Che te ne pare?". L'altro signore ha risposto "Fesserie,
fesserie!".
In un'altra informativa si raccontava che in casa dell'attrice cinematografica Mariella Lotti, via Ruggero
Fauro 54, si mangiava pasta bianchissima, e che lei con orgoglio diceva agli ospiti in sollucchero: Questi
sono gli spaghetti del conte Ciano!. L'informatore precisava che l'attrice poteva disporne essendo in
intimità col ministro, e non lo nascondeva. Se Mariella Lotti si vantava della pasta del conte, un'altra
attrice, Elsa Merlini, si gloriava di ricevere da Ciano tutto il caffè di cui aveva bisogno. L'agente divagava
poi sul tema dei ras del regime in rapporti intimi con donne del cinema. Alessandro Pavolini - che gli
amici chiamavano Buzzino - aveva per amante Doris Duranti.
Ne era gelosissimo, una gelosia accentuata dal fatto che la Duranti aveva a sua volta per amante una bella
ragazza. L'informatore si chiedeva come sarebbe stato possibile non imitare il Capo che aveva
trasformato in attrice una figlia del dottor Petacci, Myriam, soltanto perché era la sorella dell'amante
Claretta.
Pasta bianca mangiavano pure, e naturalmente, Edda, i figli e la suocera Carolina, ospiti all'Abetone
dell'albergo le Piramidi. Se la facevano servire tutti i giorni, né si privavano di grandi bistecche alla
fiorentina. Ed erano del tutto insensibili alle occhiatacce degli altri clienti in sala che trasecolavano a tali
spettacoli pantagruelici di cui i Ciano erano gli unici beneficiari. Per non far mancare la carne fresca a così
autorevoli personaggi del regime, si era istituito un servizio quotidiano di corriera, al di fuori delle corse
regolari. Inoltre Edda, i figli e la suocera si pavoneggiavano su due carrozzelle trainate da cavallini inglesi.
Tra le righe di talune informative facevano capolino anche gli episodi più che intimi dei Ciano: In
ambienti bene informati si afferma che la Contessa Edda Ciano Mussolini si sia data alla vita brillante
dedicandosi all'alcool e agli stupefacenti, e che abbia pertanto perso il senso della famiglia. A lei appare
tutto lecito. Il marito farebbe altrettanto, fornendo a sua volta un edificante esempio d'immoralità e
depravazione. Il compilatore di questa nota avvertiva però il bisogno di apporvi una chiosa cautelativa:
Tanto riferisco, ma si ha ragione di dubitare che queste chiacchiere siano state messe in circolazione ad
arte da malvagie persone in malafede. Veniva segnalato un grande pranzo che Galeazzo aveva offerto agli
amici nei saloni dell'hotel Riviera a Forte dei Marmi. L'agape suscitò commenti sfavorevoli anche perché,
attraverso le finestre, i passanti avevano visto il conte dare spettacolo di s‚ abbracciando alcune ragazze.
Mussolini scriveva a Hitler per rassicurarlo che le misure prese dal regime avevano lasciato
perfettamente tranquilla la totalità del popolo italiano. Il Fuhrer ne era invece allarmato, così come era
impensierito per la salute del duce il quale da tempo non parlava alle folle, e lo chiamavano Mutolini.
Il duce era infatti nuovamente attanagliato da dolori all'ulcera duodenale e appariva dimagrito. Gli abiti
gli andavano larghi. Era l'ulcera ad averlo ridotto così o il tormento di essere un uomo finito? Impotente
era un grande clinico come Frugoni che ne parlava con Edda. Fosse o no ammalato seriamente, gli alti
gerarchi mostravano di aver sempre minor fiducia in lui.
Dicevano: Tutto nel Duce è infondato, persino il cancro.
Edda era vivamente preoccupata per la magrezza del padre. Ma sempre vittima d'un irresistibile delirio
psicomotorio, partì egualmente per Capri. Dall'isola inviò al marito una lettera accorata, tormentata,
scombinata come le suggeriva la tragica incoerenza del suo carattere. Galeazzo ne inserì il testo
nell'agenda della Croce Rossa, dove stendeva il suo diario, alla data del 26 settembre '42: Caro Gallo,
arrivata ieri sera alle 11 dopo un viaggio massacrante mi sono sentita dire, con quella simpatica
svagolatezza che fa della mia famiglia una delle famiglie impossibili, che oggi sarebbero tutti partiti - ma
che se volevo potevo rimanere - mia madre non ha sense of humour però dice e fa le cose più
umoristiche... Comunque non è per questo che ti scrivo - mio padre non sta bene - bruciori allo stomaco,
irritabilità, depressioni ecc. - mia madre me ne ha fatto un quadro piuttosto buio - a mio avviso siamo
sulla via dell'ulcera. (Molte considerazioni su di lui: la sua vita privata in questi ultimi anni; gli affetti ecc.;
non è il caso di parlarne). Sono state fatte radiografie di ogni genere - tutte negative - però non si è mai
chiamato un medico - Quando, avendo domandato di Frugoni, hanno loro risposto che fino al 4 era fuori
Roma, si sono tutti arrestati davanti l'ostacolo e tanti saluti – raramente ho visto gente più sconsigliata Interessatene tu - se non è Frugoni - sia Pontano - se non quello un altro - ma che mio padre sia visto e
visitato seriamente - Mettiti in comunicazione con mia madre e aiutala - Per ora - i soli provvedimenti che
ha preso, sono le ingiurie e le bestemmie - E da preferirsi un clinico in caso di malattie - naturalmente con
una certa segretezza - Stamani quantunque sia una magnifica giornata ho un senso di soffocamento e di
paura. Forse perché‚ sono così stanca che mi sento avvelenata - stanotte non ho chiuso occhio
perché‚ come dice la canzone - tutta la notte invano, con la candela in mano - davo la caccia all'orribile
bestiaccia - Sul mio letto senza protezione si avventavano a centinaia le zanzare – Bella Capri! Oggi a
un'ora X partirò per Castrocaro dove spero di dormire. I bambini, come vedrai stanno bene. La signorina
istitutrice è stata catechizzata. Caro Gallo, teniamoci lesti e tiriamo avanti! Ti prego i dottori ecc.
Ti abbraccio affettuosamente. Edda.
Ulcera o non ulcera, Mussolini si consolava con le notizie che in quei giorni davano di Ribbentrop in
preda a una dissenteria tanto violenta da non consentirgli di allontanarsi nemmeno per pochi minuti dal
suo trono.
Nell'abitazione di Capri la contessa aveva profuso ingenti somme per arredarla splendidamente come
una piccola reggia. E la nuova Villa Jovis, si diceva aspramente sull'isola riprovando uno sciupio che
proseguiva anche in piena guerra. Si sussurrava che le maniglie delle porte, decorate con coralli e
placcate d'oro, fossero costate tremila lire l'una. A un'amica, che le fece notare quanto fosse inopportuno
un simile lusso, Edda diede una risposta disperata: Noi non vogliamo n‚ dobbiamo privarci di nulla. Fino a
quando sarà possibile dobbiamo concederci tutti gli agi, tanto sappiamo che ci aspetta la ghigliottina.
Negli ambienti di corte tornava a circolare la voce d'una possibile sostituzione di Mussolini. Accantonata
la soluzione Ciano, si faceva il nome di Grandi che presiedeva la Camera dei fasci e delle corporazioni.
Ma sostituire il duce significava anche e soprattutto prendere le distanze da Hitler, un'operazione piena
di rischi. Eppure però in molti ancora consideravano fatale l'alleanza con la Germania, e difatti circolava
una ben triste battuta: Se i tedeschi perdono, noi siamo perdenti; se vincono, noi siamo perduti. Mussolini
mostrava di non volersi sganciare da Hitler. Poteva almeno farsi da parte temporaneamente, come si
augurava Federzoni, perché così, d'intesa con i tedeschi, l'Italia stremata avrebbe potuto avviare le
trattative per una pace separata. Ma il duce - e i suoi seguaci ne erano consapevoli - non avrebbe mai
rinunciato volontariamente al potere, neppure per finta.
Il Vaticano veniva considerato dagli ambienti antifascisti come un indispensabile punto di riferimento
per tentare di indurre l'Italia alla pace. Era dello stesso avviso anche Maria José che si proponeva a sua
volta di favorire un sollecito distacco dai tedeschi. A questo fine vagheggiava di propugnare un colpo di
Stato per abbattere Mussolini. Escludeva però che ne potessero prendere il posto personaggi
compromessi col regime come Ciano e Grandi che, oltre tutto, lei non amava. Il Vaticano le sembrava un
approdo ben più serio nella ricerca d'una soluzione di salvataggio della nazione. Ebbe infatti un
importante colloquio con iI sostituto della Segreteria di Stato, Montini. Il calendario segnava la data del 3
settembre '42. Sfuggendo ai pedinamenti della polizia, cui era sottoposta, varcò a bordo di una piccola
automobile l'Arco delle Campane.
Condotta al primo piano del palazzo Apostolico dove era attesa, volle sapere per prima cosa da Montini
se l'ambasciatore americano Myron Taylor aveva portato o no effethve proposte di pace. Pregava quindi
il monsignore di comunicare all'inviato di Roosevelt che il popolo italiano desiderava fermamente uscire
dalla guerra e non bisognava deluderlo. Quindi precisava con fermezza che non si dovevano intavolare
trattative con gli uomini al potere in Italia i quali non avevano altro obiettivo se non quello di salvarsi
abbandonando il capo del Governo Mussolini e affettando simpatie per gli inglesi e gli americani.
La principessa non mancava di rilevare che con queste sue parole intendeva riferirsi al ministro Galeazzo
Ciano e ad altri come lui.
Quindi continuava: Sarebbe bene far sapere all'estero che questi uomini non potrebbero rappresentare
l'Italia per cose di tanta importanza. Vi sono altri personaggi che potrebbero raccogliere la successione e
che tratterebbero volentieri la pace. Si augurava che un sollecito invito alla pace pervenisse dagli alleati
al fine di agevolare il cambiamento. Si dichiarava angosciata per la gente che soffriva e moriva e per il
paese che andava alla rovina. Insisteva nelle critiche a Ciano e a Dino Grandi: Un cambiamento di
situazione non è possibile con i dirigenti di oggi: il popolo non li segue; vi sono moltissimi uomini, in ogni
ceto - esercito, magistratura, burocrazia - che aspettano un cambiamento e sono pronti a prestare l'opera
loro. Anche per la successione dei capi attuali non sarebbe difficile, sebbene essi abbiano in mano i punti
più importanti del comando. Un uomo capace di rendere dei servigi potrebbe essere Badoglio o il
marchese Falcone Lucifero. L'accenno a Badoglio non era casuale, e difatti aveva incontrato segretamente
il maresciallo sui monti di Cogne. Confidava che la Chiesa avrebbe offerto il suo appoggio per evitare una
rivoluzione anarchica e - con esplicito riferimento all'esigenza di un colpo di Stato - per sostenere un
movimento costituzionale volto ad abbattere il regime. Sperava infine che la Santa Sede potesse
all'occorrenza farsi tramite con l'estero per accelerare il raggiungimento di una pace favorevole all'Italia.
Era convinta che se la sua azione avesse avuto successo si sarebbe potuto perfino trarre dai guai la
monarchia. Ma per fare ciò, diceva, era necessario che Vittorio Emanuele terzo abdicasse subito e che suo
marito Umberto rinunciasse al trono a favore del loro piccolo Vittorio Emanuele. Insomma si dovevano
sacrificare alcune teste per salvare l'istituto monarchico e, con esso, la dinastia. Come dire?
E morto il re, viva il re, difatti L'histoire a ses paradoxes.
Il '43 non poteva cominciare peggio per Mussolini, Hitler e Hirohito, non soltanto in Urss con la sconfitta
subìta a Stalingrado, ma un po' dovunque. Gli americani erano già sbarcati in Marocco e in Algeria. Si era
al giro di boa, e ogni italiano doveva rivedere le proprie convinzioni, tornare a decidere come schierarsi.
Tutto precipitava sia in Africa del Nord, sia nella lontana isola di Guadalcanal, nell'arcipelago delle
Salomone, dove gli americani, strappando nuovamente ai giapponesi il controllo del mar dei Coralli,
capovolgevano a proprio favore la situazione strategica del Pacifico. Con la ritirata in Africa
settentrionale, perdute Tripoli - addio Quarta Sponda! - e la Tunisia, gli italiani dovevano aspettarsi
l'invasione del loro territorio nazionale. Inutile era stata l'occupazione di Sidiel-Barrani che aveva dato a
Mussolini l'impressione di un'avanzata napoleonica su Alessandria d'Egitto.
Per rappresentare un momento così drammatico, Ciano ricorreva a una piccola immagine casalinga: Le
nostre forze militari scarseggiano. A volte ho l'impressione che lì Asse è come un uomo che deve coprirsi
con una coperta troppo piccola: ha freddo alla testa se riscalda i piedi, ed i piedi si gelano se vuol tirarla
più sù. Il fronte interno era allo sbando, e gli italiani soffrivano la fame. Non avevano più nemmeno le
caldarroste agli angoli delle strade. Galeazzo, sempre incerto, cercava di farsi venire l'idea giusta in
lunghe sedute ai bagni turchi.
Incoraggiati dai continui successi, Roosevelt e Churchill decisero a Casablanca, in Marocco, di non porre
fine alla guerra se non dopo aver costretto il nemico a una resa incondizionata, unconditional surrender.
Decisero altresì di aprire un secondo fronte per costringere i tedeschi ad attenuare la pressione
sull'esercito sovietico; così colpirono direttamente l'Italia, l'anello più debole del sistema, con uno sbarco
in Sicilia.
Alla data dell'1 gennaio '43, Galeazzo aveva scritto nel diario: Nessuna novità particolare. Il giorno 3 era
ancora dello stesso parere: Niente di nuovo. Il giorno 5 scriveva qualcosa di più: Vedo il Duce. Lo trovo
stanco. Edda dice che i dolori allo stomaco si sono accentuati, anche se ingerisce soltanto alimenti liquidi.
E depresso per la situazione in Libia. Il giorno 8: Rivedo il Duce dopo tre giorni e lo trovo ancora più giù
fisicamente. L'indomani annotava: Vittorio Mussolini mi parla della salute del Duce. In questi ultimi
tempi si è prodotta una nuova crisi di dolori gastrici, il che è grave perché rende minima e insufficiente
l'alimentazione. Il giorno 12 scriveva di alcuni suoi incontri molto importanti in casa Colonna: Lungo
colloquio, presso Isabelle, con Monsignor Montini, che, a quanto si dice, è il vero ed intimo collaboratore
del Santo Padre. E stato prudente, misurato e italiano. Il sostituto della segreteria di Stato, annotava
Ciano, aveva evitato di formulare giudizi sulla situazione italiana. Ma, dopo aver espresso il timore di una
lotta ancora aspra e lunga, si era detto a piena disposizione per fare il possibile in favore dell'Italia.
Il monsignore si era dichiarato nettamente antibolscevico, pur esprimendo ammirazione e meraviglia per
quanto Stalin aveva saputo realizzare.
Lo stesso Montini registrava i termini del colloquio in una nota più particolareggiata degli appunti presi
da Galeazzo. Il monsignore dava anzitutto notizia di una colazione indetta dai principi Colonna cui
avevano partecipato, oltre lui e Ciano, anche il direttore degli affari generali al ministero degli Esteri,
Leonardo Vitetti, e la principessa Cyprienne Charles-Roux, moglie del principe Marcellino Del Drago.
Montini aveva appreso da Isabelle che la colazione era stata esplicitamente desiderata da Galeazzo per
riferirgli cose interessanti. Ciano, annotava Montini, si mostrò molto affabile dando alla conversazione un
tanto di semplicità e di cordialità che la fecero apparire sincera e piacevole. Alla colazione seguì un
colloquio tra il ministro e il sostituto che si protrasse per oltre un'ora senza altri testimoni. Il Sostituto
rimase quasi passivo scriveva di se stesso Montini, e aggiungeva: Sembrava che il Ministro avesse una
certa traccia delle cose che andava esponendo.
Ciano toccò quattro punti. Ebbe parole di soddisfazione per l'azione svolta da Pio dodicesimo con
l'intento di preservare Roma dai bombardamenti, n‚ tacque la propria personale riconoscenza per la
missione del papato: Alle volte essa non sembra palese, ma viene un momento in cui se ne vede tutta
l'importanza. Non tralasciò di lodare un film Pastor Angelicus, che era stato realizzato intorno a una
giornata ideale di Pacelli. Sui rapporti fra Stato e Chiesa disse che, essendo l'Italia una nazione cattolica,
le relazioni fra le due entità erano e dovevano mantenersi ottime. Personalmente si offriva per risolvere
eventuali incidenti e per fare opera moderatrice anche nei riguardi di certe intemperanze di uomini del
Pnf, come Farinacci e Preziosi: non era quello il momento di fare politica di parte. Ma essendo in gioco i
destini della patria, non poteva non esprimere parole di scarsa stima sugli attuali dirigenti del partito.
Sulle relazioni con i tedeschi, fu più sommario limitandosi a raccontare di alcuni suoi viaggi in Germania,
delle impressioni che gli suggeriva la residenza del Fuhrer a Berchtesgaden, del fasto indescrivibile in cui
viveva Goring; dell'assoluta adesione di Von Ribbentrop alle idee di Hitler; della discreta facilità di
conversazione che nonostante tutto riusciva a intrattenere con quel mostro del capo della polizia tedesca,
Himmler. Sulla guerra disse esplicitamente che l'Italia avrebbe potuto rimanerne fuori, ed enumerò tutti
gli sforzi da lui compiuti per evitare la sciagura dell'intervento; l'Italia era tenuta all'oscuro delle
decisioni tedesche, non esclusa la campagna di Russia; l'Urss era un grande paese del tutto sconosciuto,
tanto che in Ucraina si era scoperta un'intera città industriale, di cui si ignorava l'esistenza perché
dissimulata da boschi. Sulle sorti della guerra, che volgevano al peggio, esprimeva le più vive
preoccupazioni. Forniva alcune notizie sulla salute del duce che migliorava e che da qualche giorno si
trovava per un breve periodo di riposo alla Rocca delle Caminate dopo aver sofferto di dolori viscerali.
Infine, nel riconoscere che la Santa Sede aveva un grande ruolo da svolgere, dichiarava tutta la sua fiducia
in Dio; parlava delle sue visite al santuario di Montenero, presso Livorno, e del senso religioso che gli
infondevano; diceva della profonda commozione spirituale provata alla morte del padre, un evento che
gli aveva fatto capire l'esigenza di orientarsi verso la religione e come il dolore apra l'anima alla ricerca di
Dio.
Sempre in quel mese di gennaio, Galeazzo scriveva che le notizie erano ovunque brutte. In Russia la
ritirata si trasformava in rotta; in Libia si evacuava Tripoli: Parlo al telefono con Mussolini. Ha l'aria
depressa. Il comando delle truppe che rifluivano in Tunisia veniva affidato al generale Messe, che
amaramente si autodefiniva il comandante degli sbandati.
La Conferenza di Casablanca era in pieno svolgimento quando i più alti gerarchi del regime, insieme a
generali e a industriali, si posero in maniera impellente l'esigenza che l'Italia chiedesse la pace separata.
Grandi, Bottai, Thaon di Revel - il nipote del grande ammiraglio - premevano su Ciano. Il conte ebbe un
incontro decisivo con il generale Ambrosio, che di lì a qualche giorno avrebbe sostituito Cavallero - ladro
e mentitore, servo dei tedeschi - nella carica di capo di stato maggiore generale. Dopo questo colloquio
riprese coraggio, e per essere in pace con la coscienza, come diceva, prospettò a Mussolini la pace
separata come unica soluzione possibile per salvare il salvabile, essendo convinto che si marciava verso
un ineluttabile disastro. Ancora una volta il duce appariva incerto: ora, pessimisticamente, conveniva
sulla necessità di prendere qualche contatto diretto con gli angloamericani; ora, ottimisticamente,
mostrava di credere nelle possibilità di recupero dei tedeschi. Ciano giudicava con favore la nomina di
Ambrosio, sebbene non lo considerasse un fulmine di guerra; ma in quelle condizioni neppure un
Bonaparte avrebbe potuto fare miracoli.
Gli italiani avevano perso Tripoli da pochi giorni, Rommel si era ritirato sul confine tunisino, quando
esplose una notizia che in realtà non fu una sorpresa: Galeazzo Ciano, nel pomeriggio del 5 febbraio
veniva licenziato da ministro degli Esteri. Il conte ebbe la comunicazione dal suocero a palazzo Venezia
nell'ambito di un più ampio cambio della guardia, deciso per ridurre la rilevanza dell'evento e farlo
apparire come un normale avvicendamento. A molti non sfuggiva che nell'allontanamento di Ciano c'era
lo zampino dei tedeschi. La gente intuiva che il delfino era caduto in disgrazia e che quindi era stato
silurato sebbene ufficialmente nel comunicato dell'agenzia Stefani si parlasse di dimissioni volontarie.
Mussolini parve imbarazzato al genero. Dopo avergli chiesto: Cosa desideri fare adesso?, gli prospettò
varie soluzioni. Galeazzo scartò la luogotenenza in Albania - non voleva fare il fucilatore e l'impiccatore di
coloro ai quali aveva promesso fratellanza - e scelse l'ambasciata presso la Santa Sede, un posto che può
lasciare adito a molte possibilità per l'avvenire, e l'avvenire, mai come oggi, è nelle mani di Dio.
La maggiore possibilità consisteva proprio nel poter continuare ad agire per una pace separata e
intensificare i contatti con Osborne, l'ambasciatore inglese presso il Vaticano.
Nel diario annotò alcune considerazioni: Lasciare gli Esteri, dove per 7 anni - e quali anni -, ho dato il
meglio di me è certamente un colpo duro e doloroso. So essere forte e guardare al domani. Il quale
domani può anche richiedere una maggiore libertà d'azione. Le vie che la Provvidenza sceglie sono a
volte misteriose. Rivelava di essersi affezionato a palazzo Chigi, che ora non era più suo. Scriveva: Ho
troppo vissuto - nel pieno senso della parola - tra quelle mura per non sentire l'angoscia di uno strappo
fisico, quasi di una mutilazione.
Deda, che si trovava a Cortina, aveva una sua opinione sul licenziamento del marito: Questo siluro è
l'effetto di un "complotto d'alcova" diceva, un complotto dei Petacci, in un intreccio tra l'abbondante seno
di Claretta e le mani rapaci di suo fratello Marcello. Il licenziamento è inoltre una rappresaglia contro di
me, essendo intervenuta presso mio padre, prove alla mano, per convincerlo che la sua relazione con
Clara suscitava troppi pettegolezzi e gli arrecava danni, mentre i loschi affari del fratello non
contribuiscono a migliorare la situazione. Non potendo fare nulla contro di me, si vendicano su Galeazzo.
Era tuttavia seriamente preoccupata della sfida che aveva ingaggiato con Claretta. Fra le due donne chi
aveva armi più sottili e convincenti? Chi avrebbe finito col prevalere nel cuore del duce? Una sfida impari
per Edda, e lei aveva commesso l'errore di lanciarla.
Immensi furono il rumore e l'emozione per quel disarcionamento, sebbene tutti se lo aspettassero,
meravigliandosi anzi come mai il duce conservasse a Galeazzo la rilevante carica pur conoscendo di lui
piani e intenzioni.
Mussolini aveva tardato il più possibile a liberarsi di Galeazzo, non soltanto per le incertezze che nutriva
sull'alleanza con la Germania, non soltanto perché Galeazzo era il marito di Edda, ma anche per la
sostanziale fedeltà che lui gli aveva dimostrato resistendo alle manovre di Vittorio Emanuele. Infatti
l'obiettivo di Ciano non era tanto di colpire il duce quanto Hitler. Galeazzo sperava sempre di indurre il
suocero a denunciare la ferale alleanza con i tedeschi. Ma ora aveva perso la partita. E si vide ridotto al
ruolo di sacrestano, secondo la definizione spregiativa che il duce, riprendendosi gli Esteri, dava di quella
carica.
La nomina ad ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede appariva strana e, difatti, Mussolini intendeva
ritirarla.
Ciano però, intuendo un ripensamento del duce, aveva rapidamente chiesto il gradimento della segreteria
di Stato, battendo sul tempo il suocero: Cosa fatta, capo ha. E il Duce ha accettato, senza entusiasmo il
fatto compiuto Pio dodicesimo, pur definendo non consono alla Santa Sede il troppo frequente alternarsi
di ambasciatori italiani presso di lui, concesse il gradimento. All'interno delle mura leonine si arricciò il
naso alla notizia che Edda diventava ambasciatrice presso il Vaticano. Rientrava comunque tra i compiti
della Chiesa, si diceva ironicamente, accogliere le pecorelle smarrite nel suo seno. Mussolini puniva Ciano
per aver rotto con la Germania, ma finiva con l'affidargli un incarico che lo avvicinava ulteriormente a un
mondo in cui Hitler, l'Anticristo, non era certo amato. Secondo alcuni, tutto questo poteva perfino
significare che il duce avesse accantonato il genero per utilizzarlo in eventuali trattative di pace separata
con gli angloamericani in preparazione di un'eventuale svolta antitedesca.
Alla data dell'8 febbraio '43, Ciano, appena quarantenne, chiudeva per sempre le grosse agende della
Croce Rossa che custodiva in una cassaforte di cui portava sempre con s‚ la chiave. A quelle agende, dal
22 agosto del '37, aveva giorno per giorno affidato le sue memorie. Spesso si era riferito in quelle pagine
a Edda, anche polemicamente, ma ora le ultime righe erano dedicate a Mussolini: Mi ha invitato ad
andare spesso da lui. "Anche tutti i giorni." Il commiato è stato cordiale. Di ciò sono molto contento
perché a Mussolini voglio bene, molto bene e la cosa che più mi mancherà sarà il contatto con lui.
In realtà il suo animo era in tempesta, e non sempre ciò che scriveva e ciò che diceva erano tra loro in
sintonia.
Contrastanti erano anche i suoi giudizi sul suocero. Non aveva mancato di esprimere la propria
avversione alla guerra in una battuta a effetto: Bisogna ritirarsi dal conflitto; Mussolini non vuole
ritirarsi; bisogna far ritirare Mussolini. Anche in Vaticano cominciò a esprimersi apertamente contro il
suocero, come appariva dai rapporti dell'Ovra: S.E. Ciano, ambasciatore presso la S. Sede, non ha
tralasciato, alla presenza di altissimi prelati, di criticare l'operato del Duce.
Ricominciamo a fare gli ambasciatori! disse Edda con fastidio. Poi aggiunse: Ma io tornerò a fare la
crocerossina. Galeazzo fingeva di essere soddisfatto del nuovo incarico. Agli amici rivelava di poter
lavorare meglio da quell'osservatorio a favore della pace e per lo sganciamento dell'Italia dal carro
hitleriano. Il palazzo di via Flaminia, dove aveva sede l'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, già
veniva chiamato il Palazzetto Venezia o il contro Palazzo Venezia. Erano esagerazioni, poichè il potere di
Ciano era ridotto a zero. Inoltre il regime gli creava mille difficoltà nell'adempimento delle più modeste
incombenze d'ufficio. Quando Pio dodicesimo gli concesse un'udienza particolare nella sua nuova veste
di rappresentante italiano, gli fecero mancare senza preavviso l'autista e la macchina di rappresentanza,
la famosa Lancia Dilambda di Stato nera.
Per non arrivare tardi in Vaticano, GaIeazzo si mise al volante della sua Topolino. E non era difficile
immaginare lo spettacolo di un ambasciatore in grande uniforme, con feluca e spadino, che si recava in
udienza dal pontefice guidando di persona una piccola utilitaria nella quale era stipata l'intera famiglia:
Edda in abito lungo e grande velo, la figlia Dindina, vestita da prima comunione, e altrettanto compiti nei
loro abbigliamenti da cerimonia gli altri due figli Ciccino e Marzio. Marzio rese ancor più disastrosa la
situazione. Avendo adocchiato sullo scrittoio del papa un magnifico telefono, che gli sembrava d'oro,
scattò dalla poltroncina, su cui era seduto, per impossessarsene.
Non meno rapido di lui fu Pio dodicesimo nel difendere il suo telefono, e tutti e due, il papa severo e il
bambino discolo, insieme rimasero aggrappati all'apparecchio per alcuni secondi. Bene, bene, bene!
esclamò seccato il pontefice, che interruppe bruscamente l'udienza. Ciccino sferrò un calcio al fratello.
Ciano imbronciato, con il codazzo d'una famiglia impermalita, risalì sulla Topolino sacramentando, da
buon toscano. Su quella visita i giornali non pubblicarono che una nota breve ®a una colonna, senza parti
colare rilievo tipografico e di impaginazione, come un evento del tutto trascurabile, perché così aveva
ordinato il Minculpop. Quando poi durante le festività pasquali si svolse presso il pontefice la cerimonia
della comunione del Corpo diplomatico romano, Edda si disse ammalata per non parteciparvi, mentre il
marito si confessò e fece pubblicamente la comunione.
Il 25 aprile di quell'anno fu per gli italiani la terza Pasqua di guerra. In un promemoria inviato dal
ministro della Cultura popolare a Mussolini si segnalava l'estendersi d'un diffuso malumore tra la gente
per il prolungarsi del conflitto, l'aggravarsi delle restrizioni alimentari e un generale inasprimento delle
condizioni economiche del paese. Alla luce di quel preoccupante promemoria il regime, non potendo fare
sforzi più consistenti per porre un benché minimo rimedio alla gravità della situazione, ricorreva alle
armi della propaganda e alluvionava di veline le redazioni dei giornali.
A mezzogiorno i capiredattori trascrivevano nei loro brogliacci gli ordini del ministro Gaetano Polverelli,
anche lui giornalista, che dal febbraio era succeduto ad Alessandro Pavolini alla guida del Minculpop.
In base a quelle tassative disposizioni, i giornali non dovevano consumare spazio a raccontare come in
tre secoli e mezzo la Pasqua si fosse celebrata soltanto tre volte nella giornata del 25 aprile, n‚ dovevano
sdilinquirsi nel distribuire auguri pasquali a dritta e a manca. Meglio avrebbero fatto a pubblicare nuove
virili rubriche, di cui veniva suggerito qualche titolo: Figure eroiche o Famiglie guerriere. Mussolini aveva
dato l'esempio ricevendo a palazzo Venezia proprio i rappresentanti di famiglie guerriere italiane, e
quindi bisognava dare fortissimo rilievo all'evento corredando gli articoli con le foto distribuite
dall'istituto Luce.
Il gerarca Carlo Scorza aveva sostituito Aldo Vidussoni nella carica di segretario del Pnf, e pertanto
bisognava pubblicarne le foto con parole di simpatia e di elogio a favore dell'uno e dell'altro. Nel primo
discorso ai federali, Scorza aveva però tralasciato di scuotere le coscienze degli italiani, così avvilite, e
Mussolini dovette intervenire di persona per rincuorare a suo modo i più sfiduciati. Disse: "Il Partito
realizza il fatto, nuovo nella storia, di un'aristocrazia di massa. Ciascun fascista è pertanto un
combattente che si è dedicato alla Causa con rovente fanatismo ed estremo vigore di sentimento, di
pensiero, di opere. Gli incerti, i tiepidi, i calcolatori debbono essere eliminati.
Per prima cosa si cercò di eliminare dalla circolazione coloro che disturbavano il buon andamento del
mercato, un mercato che in realtà era asfittico per se stesso a causa della guerra. I nemici da colpire
erano i borsari neri, cioè coloro che, con immissioni clandestine di merci o di derrate, supplivano alle
deficienze dei razionamenti alimentari e dei più svariati oggetti di abbigliamento. Fino a quel momento si
era affrontato il mercato nero con multe, confische e anche con l'arresto e la condanna dei responsabili al
carcere. Ma, proprio nei giorni intorno a quella Pasqua, si fece il grande salto: il regime decise di istituire
due campi di concentramento e rinchiudervi i borsari neri, così come in Germania si era cominciato a fare
per gli avversari politici, ancor prima che il nazismo salisse al potere, con il campo di concentramento di
Dachau una cittadina nei dintorni di Monaco.
Non si sapeva dove fossero i campi di concentramento italiani per borsari neri, ma si vociferava che uno
si trovasse in Abruzzo. I giornali davano notizia degli internamenti; parlavano di gente sorpresa con
carichi di olio d oliva da smerciare a prezzi maggiorati; di innumerevoli pescivendoli disonesti; di
professionisti - ingegneri, insegnanti, avvocati - che avevano sottratto all'ammasso grandi quantità di
granturco e orzo; di salumieri che vendevano sottobanco prodotti tesserati ignorando i bollini delle carte
annonarie.
A Roma le autorità comunali sopperirono in qualche modo alle carenze degli approvvigionamenti
consentendo la vendita di frattaglie bovine, per la durata della settimana santa, esclusivamente nelle
macellerie sulla riva destra del Tevere. Ma anche la distribuzione delle interiora avveniva secondo le
consuete restrizioni e attraverso il versamento dei bollini. Nei romani rimaneva intatta la fame di carne,
sicché‚ la terza Pasqua di guerra fu una Pasqua senza agnello, senza abbacchio. Per fortuna comparve
improvvisamente sul mercato un certo quantitativo di conigli. Lunghe e litigiose erano le file degli
acquirenti.
Ma quella fu una riparazione sgradita e tardiva, mentre continuavano a mancare altre cose, non escluso il
burro. Procedeva a rilento la distribuzione dei legumi, delle patate e perfino dei fichi secchi; era vietata la
vendita della birra, essendo tale bevanda riservata alle forze armate. Infine, ciò che si chiamava caffè, non
era che una mistura contenente cicoria al novanta per cento.
Un umorista verseggiatore, Alberto Cavaliere, prorompeva in una satira graffiante: Vivrebbe - afferma un
me- dico polacco - / centovent'anni e più l'uomo normale, /sol che abolisse l'alcole e il tabacco, /
nonché‚ carne, zucchero e sale. / Or nessun più brontoli, e allegria, / ché siamo tutti sulla buona via.
Nella sua nuova veste di ambasciatore, Ciano vedeva ancora con una certa frequenza il suocero, poiché‚ il
papa e la segreteria di Stato avevano suo tramite intensificato l'azione volta a indurre il duce a prendere
in maggiore considerazione la gravità del momento. Il 12 maggio Pio dodicesimo si rivolgeva
nuovamente a Mussolini con una comunicazione verbale di cui il cardinale Maglione metteva al corrente
Ciano perché ne riferisse al Capo. Ciano si mostrava scettico con Maglione sull'esito dell'iniziativa
pontificia, poiché disgraziatamente Mussolini non si rendeva conto della necessità di salvare il paese.
Il segretario di Stato annotava che Ciano gli aveva descritto con vivissima commozione i pericoli di
un'imminente offensiva degli alleati contro l'Italia e l'impossibilità di difendere efficacemente" le città
non solo della costa, ma anche dell'interno, destinate a subire la stessa fine di Palermo, Catania, Marsala.
Mussolini pensava che la guerra si sarebbe protratta per tre o quattro anni ancora, e si preoccupava
esclusivamente, diceva Ciano, della eventualità d'una rivoluzione interna contro la quale intendeva
premunirsi stringendo i freni e minacciando plotoni d'esecuzione. Maglione aveva preso appunti
particolareggiati sul colloquio con Galeazzo, e registrava altre sue osservazioni: il re non si muoveva; il
principe Umberto era preoccupato, ma non credeva di poter parlare e meno ancora di agire per rispetto e
disciplina verso il padre. Non bisognava farsi illusioni, aggiungeva Ciano: Gli alleati attaccheranno l'Italia
perché sono convinti che, occupandola, provocheranno un collasso pronto e completo della Germania, la
quale si sente odiata da tutti. Bisognerebbe trattare, ma Mussolini non vuole e gli alleati non tratteranno
mai con lui. Con ciò Galeazzo faceva implicito riferimento all'esigenza di liberarsi del duce in qualche
modo. Maglione concludeva così i suoi appunti:"E' tragico" ha ripetuto più volte il Conte Ciano.
Iddio e il Papa aiutino questo nostro povero paese!.
Il giorno successivo al colloquio con Maglione, Ciano tornava in Vaticano con una risposta deludente di
Mussolini: Il Duce ringrazia il Papa degli intendimenti dimostrati, ma allo stato degli atti non vi sono
alternative e quindi l'Italia continuerà a combattere. Galeazzo comunicò al segretario di Stato in via
confidenzialissima e segreta altre notizie: Mussolini non ha gradito il passo della Santa Sede (Gli fa ombra
il prestigio del Papa). Il generale Ambrosio ha dichiarato che la situazione è disperata.
Palermo è per tre quarti rasa al suolo; a Marsala sono rimaste in piedi solo cinque o sei case.
Parte terza.
ESODO
L'Erinni.
In veste di crocerossina Edda aveva raggiunto la Sicilia, e rimase sconvolta dalla visione d'una Palermo
semidistrutta, la città che il padre non aveva più voluto visitare dal giorno dei primi bombardamenti.
Edda lo chiamava lo struzzo. Imprecava contro Mussolini, contro Roma e i romani così indifferenti a
tutto, contro i complottatori che vedeva annidati ovunque, e quindi anche contro suo marito. Inviò un
rapporto alla principessa Maria José, che presiedeva la Croce Rossa italiana. Infine, con l'animo in
tempesta scrisse al padre una lettera durissima: Caro papà, forte è lo spettacolo di desolazione a Palermo.
Il terrore è dipinto su tutte le facce. Gli parlava degli innumerevoli morti, dei feriti, di coloro che avevano
perso assolutamente tutto. La gente è accampata lungo i margini delle strade, sotto le rocce, dentro le
grotte dove muore di fame e di freddo; letteralmente, e sai che io non esagero.
Dopo l'ultima incursione aerea, la popolazione è rimasta per sei giorni senza pane, l'acqua mancava da un
mese, da cinque mesi non si vedeva un pezzo di carne. C'era bisogno di medicinali, di indumenti, di mezzi
di trasporto per soccorrere e trasferire altrove i ventimila sfollati che si addensavano a Monreale, vera e
propria carne da macello; negli ospedali la gente è nuda nei letti. Io sono stata in Albania e in Russia, mai
ho visto tanta sofferenza e tanto dolore.
Poiché gli scriveva con l'intento di farsi ascoltare, aveva riempito la lettera di minacce e di avvertimenti:
Per ora si dice ancora, il Duce non lo sa, ma ora lo sai, perché te lo dico io! In qualsiasi modo, con qualsiasi
mezzo manda roba. Pane, pasta, medicinali, indumenti. Fammi sapere se hai ricevuto questa lettera.
Le autorità non erano all'altezza della situazione: I poteri sono divisi e come sempre uno scarica le
responsabilità sull'altro. I militari pare che diano spettacolo di paura peggio dei civili, fuggendo come
lepri nelle campagne. Coglieva l'occasione per confermarsi filotedesca, e scriveva: I militari italiani, finite
le incursioni aeree nemiche, invece di precipitarsi a aiutare se ne stanno tranquilli, a differenza dei
tedeschi che si danno da fare. La popolazione che non poteva soffrire i tedeschi, ora non solo li tollera, ma
li ammira per il loro senso organizzativo e altruistico. Mi dicono che il generale Fiocca, comandante
militare, non vale un fico.
Concludeva l'intemerata richiamando l'attenzione del padre sulle conseguenze d'ogni genere che
potevano scaturire da una situazione così disastrosa: Capisco le difficoltà ecc. ma qui il problema è
gravissimo. Per ora i palermitani non si ribellano, ma se non si corre ai ripari c'è da aspettarsi qualsiasi
cosa; il problema è gravissimo e rischia di diventare catastrofico anche politicamente. Il padre le inviò
cinquantamila lire da distribuire in sussidi ai più bisognosi, e nel frattempo ordinava ai giornali,
attraverso le veline del Minculpop, di sospendere fino a nuovo avviso la pubblicazione di corrispondenze
dalla Sicilia, per far cadere sulla tragedia dell'isola una cappa di silenzio.
Edda aveva da ridire anche sull'organizzazione della Croce Rossa italiana, e la cosa irritò Maria José che
ne era l'ispettrice nazionale. La principessa, che l'aveva convocata nel suo ufficio, registrò l'incontroscontro, nei suoi diari: 7 giugno '43. In CRI ricevuta Edda Ciano, reduce da quindici giorni di servizio
come infermiera volontaria a Monreale. L'ho chiamata per sentirla raccontare dell'ospedale di Monreale
e per accennarle che avevo notato la sua indisciplina perché parte e torna senza mai avvertire
l'Ispettorato nazionale. Il resoconto era minuzioso difatti Maria José scriveva: Le dissi che l'avevo
chiamata perché sapevo che s'era lamentata col Presidente del cattivo andamento degli ospedali della
CRI in Sicilia, benché questo servizio non mi riguardasse. Lei mi interruppe dicendo: "Allora di che cosa vi
occupate?", ed io: "Della mobilitazione delle infermiere". Le chiesi perché era tornata cos'ì presto.
"Perchè sono malata", ed aggiunse che come semplice infermiera volontaria poteva vedere l'andamento
degli ospedali meglio di me nei miei giri. "E come mio padre, non gli fanno mai vedere niente." Le dissi
che se considerava questo un complimento per me, perché mi poneva sullo stesso livello del padre,
poteva risparmiarselo. La principessa concludeva così quelle annotazioni: Le chiesi come stava il duce e
mi rispose che aveva avuto una gastrite ma che adesso stava bene. Su ciò la congedai, e lei partì per il suo
feudo di Livorno.
Con negli occhi l'immagine di una Palermo semidistrutta dai bombardamenti, Edda partì infatti per la
Toscana dove si chiuse in se stessa, irritata e disillusa. La raggiunse Galeazzo nella loro casa di Antignano,
ma lei, sempre più in rotta col padre, era altrettanto polemica con il marito. Il conte defenestrato aveva
sulle prime meditato di abbandonare la politica attiva, per tornare al giornalismo e magari per dirigere a
Livorno il suo giornale, Il Telegrafo. Poi si era reso conto che il suo nuovo incarico poteva essere quanto
mai proficuo per il raggiungimento di un obiettivo di pace. Egli mutava ruolo: non era più il delfino, ma
l'antiduce. Quando lasciò la Toscana per tornare a Roma, la moglie, al momento del commiato, gli disse:
Se mio padre dovesse mantenersi al potere soltanto grazie all'appoggio dei tedeschi, farebbe meglio ad
andarsene. Adesso non è più questione di essere fascisti o antifascisti. Dobbiamo essere soltanto italiani.
Voleva dire che anche lei, come il marito, si augurava ormai che Vittorio Emanuele riprendesse nelle
proprie mani almeno una parte delle responsabilità che da tempo aveva dovuto delegare a Mussolini.
Il duce viveva ormai nell'incubo dello sbarco degli angloamericani in Italia, e anche Hitler ne era
allarmato. Il Fuhrer era preoccupato sia per la scarsa capacità di resistenza del popolo italiano, sia per le
cattive condizioni di salute di Mussolini, il quale da settimane non appariva più al balcone di palazzo
Venezia. Il duce soffriva nuovamente di ulcera duodenale, ma si sospettava qualcosa di peggio.
Agli americani, in preparazione dello sbarco, servivano informazioni sulle effettive capacità di resistenza
dell'isola, e a questo scopo la marina statunitense decise segretamente di stabilire rapporti con la mafia
di New York dominata da siculoamericani. Il boss Lucky Luciano, con la promessa della scarcerazione e
dell'invio in Sicilia, offrì la sua collaborazione affinché i siciliani appoggiassero l'arrivo degli alleati.
A la guerre comme à la guerre, e quindi bando alle considerazioni morali: l'obiettivo era sbarcare e
penetrare. Proprio grazie al contributo di Luciano fu possibile fornire al generale Patton, che comandava
le forze di sbarco, alcuni preziosi elenchi con i nomi di malavitosi siciliani i quali, estradati per i loro
crimini dagli Stati Uniti, erano in grado non soltanto di parlare in italiano, ma anche di intrecciare
relazioni con i boss dell'isola, capeggiati da don Calogero Vizzini. Tutto ciò per proteggere le truppe
liberatrici. Se era incerto il ruolo svolto da Luciano e dai servizi strategici americani, l'Oss, era indubbio
che il governo militare alleato d'occupazione, l'Amgot, riportasse in auge vecchi mafiosi lasciandoli
arricchire col mercato nero, affidando loro responsabilità amministrative pubbliche. Magari
scambiandoli per antifascisti. E Calogero Vizzini ascese alla carica di sindaco di Villalba, una cittadina nei
pressi di Caltanissetta.
La Sicilia fu liberata dagli alleati in trentotto giorni e l'Edda esclamava: Ora la gente invidia i siciliani' Essi
hanno finito di soffrire!. L'isola diventava altresì teatro di un'azione secessionista per iniziativa d'un
estroso e scalpitante personaggio politico palermitano, Andrea Finocchiaro Aprile, che arrivò a
proclamare l'indipendenza dell'isola e la decadenza della monarchia sabauda. Il suo movimento ottenne
all'inizio l'appoggio degli alleati che favorirono la scelta di un esponente del separatismo, l'agrario Lucio
Tasca, a sindaco di Palermo. Sempre in previsione dello sbarco, gli angloamericani intensificavano i
bombardamenti sull'Italia. Avevano colpito Genova, Torino, Napoli, mentre i romani si sentivano al
sicuro. Era tranquillo, o mostrava di esserlo, anche Mussolini il quale diceva a Kesselring: Se vengono su
Roma li accoglieremo a dovere. La città sarà un inferno per loro. Poche persone correvano nei rifugi
antiaerei e scendevano nelle cantine delle loro case che, quando suonava l'allarme, diventavano un luogo
di ritrovo, sebbene spettrale, per chiacchierare in piena notte. Un antico fatalismo teneva i romani nei
loro letti. Li rendeva sicuri la convinzione che Roma fosse una città santa e intoccabile. Ma che Unpa,
esclamavano, ma che rifugi! Il papa è la contraerea di Roma! L'Unpa, Unione nazionale protezione
antiaerea, voleva in realtà dire per loro Unico nostro pericolo aereo, così come l'altra sigla, Dicat, Difesa
italiana contraerea territoriale, veniva drasticamente tradotta in Dormienti in cima ai tetti. Nemmeno la
famiglia Mussolini utilizzava il suo bunker scavato nelle grotte di villa Torlonia, a contatto con antiche
necropoli ebraiche.
Ormai era minacciata anche Roma che veniva fatta segno di alcune incursioni, ancora incruente.
Roosevelt lanciava all'Italia un vero e proprio ultimatum: se non usciva immediatamente dalla guerra, gli
alleati avrebbero bombardato non soltanto i presidi militari, ma l'intera capitale, per stremarne la
popolazione. Intanto bombardarono Milano. Nella fabbriche di Torino e di Alessandria, di Milano e di
Como erano già esplosi i primi scioperi, e furono un brutto segnale per il regime. Vogliamo pace, pane e
non carte annonarie, gridavano gli operai. Nell'edizione clandestina dell'Unità, il giornale dei comunisti,
si leggeva a tutta pagina: Sciopero di 100.000 operai torinesi, e si lanciava un appello: In tutto il paese si
segua il loro esempio per conquistare il pane, la pace e la libertà.
In Basilicata le donne di Matera già avevano assaltato la Casa del fascio. La stessa distribuzione dei generi
tesserati aveva perso ogni regolarità; i prezzi dei prodotti in vendita salivano alle stelle e la borsa nera si
faceva più esosa. A protestare non erano soltanto gli operai antifascisti, tanto che la ribellione si
diffondeva anche al sud, a Palermo e altrove. Ma i giornali tacevano.
Ancora una volta Hitler, per tranquillizzare Mussolini e se stesso, invitò il collega italiano a Salisburgo,
sepolta dalla neve. Lo ospitò nel sontuoso castello di Klessheim che era stata la residenza dei principi
vescovi, fra mobili, arazzi, tappeti e ogni altro arredo antico che i tedeschi avevano requisito nella Francia
occupata. Il duce voleva convincere il Fuhrer a chiedere una tregua sul fronte russo, ma il Fuhrer
convinse lui a continuare la battaglia al suo fianco, pena la sconfitta comune. Goebbels diceva Adolf è
riuscito a rimettere Benito in carreggiata. Tornando a Roma, il duce mostrava una faccia grigia e
devastata. Non c'era da sperare che in un cannone speciale, in un'arma segreta di Hitler, di cui si
vociferava da qualche tempo.
Pur sotto l'incubo d'uno sbarco, Mussolini si attardava a distinguere dialetticamente fra sbarco,
penetrazione e invasione. Diceva: Non appena il nemico tenterà di sbarcare, dovrà essere congelato su
quella linea che i marinai chiamano del "bagnasciuga", la linea della sabbia, dove l'acqua finisce e
comincia la terra. Se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva si precipitino
sugli sbarcati, annientandoli fino all'ultimo uomo. Di modo che si possa dire che essi hanno occupato un
lembo della nostra patria, ma l'hanno occupato rimanendo per sempre in una posizione orizzontale, non
verticale.
Questo era il discorso del bagnasciuga, e fu pronunciato il 24 giugno. Con queste parole, Mussolini
confermava i suoi timori sull'imminenza dello sbarco che infatti si verificò il 10 luglio. Era facile
prevederlo, poiché gli angloamericani avevano già occupato le isole di Pantelleria e Larnpedusa. Né gli
sfuggiva la rabbia montante degli italiani, per quanto cercasse di minimizzarne la portata. Difatti, sempre
nel discorso del bagnasciuga, aveva detto che quarantasei milioni di italiani, meno trascurabili scorie,
erano, in potenza e in atto, quarantasei milioni di combattenti che credevano nella vittoria. Non di
trascurabili scorie si trattava in realtà, tanto che, quando gli angloamericani strinsero la Sicilia in una
tenaglia e le popolazioni li accolsero come liberatori - fornendo un clamoroso sintomo di come il fascismo
non facesse più presa sugli italiani - egli piombò in una sorta di impenetrabile fatalismo da farlo apparire
un Budda, disfatto e assente. Quel discorso apparve ridicolo a lui stesso, come si capiva
dall'intercettazione di una sua telefonata alla giovane amante, Claretta, captata in piena notte del 15
luglio dal Servizio speciale riservato dell'Ovra, Ssr, cui da qualche mese aveva dato l'ordine di
intercettare e registrare le comunicazioni telefoniche dei gerarchi, comprese le proprie.
Dalla Sicilia si avevano notizie sempre più gravi. La pressione degli angloamericani era incontenibile.
La base di Augusta era stata abbandonata, e al nemico era aperta la via di Catania dove però ancora solo i
paracadutisti tedeschi resistevano e dove si erano nascosti gruppi di marinai fuggitivi. Si diceva che a
Roma fossero nottetempo arrivati dall'isola sei o sette aviatori in mutande. Alcuni gerarchi di primo
piano, con l'ausilio e l'incoraggiamento di re Vittorio Emanuele, si recarono a palazzo Venezia per
conferire con Mussolini e decidere come ripristinare la perduta collegialità politica e tornare alla legalità
costituzionale. Chiedevano la convocazione del Gran consiglio che peraltro non si riuniva più dal '39.
Lui tagliò corto esclamando: Ebbene, lo convocherò. Diranno che s'è riunito per discutere la
capitolazione. Ma, subito dopo aver congedato i gerarchi, investì furiosamente il segretario del Pnf,
Scorza. Lo apostrofò chiedendogli con quale autorità quei personaggi gli si fossero presentati, e lo
rimproverò di avergli procurato in tal maniera un ben strano pronunciamento. Quindi reclamava un
incontro col genero Galeazzo, ma questi, febbricitante, non poté uscire da casa o non volle farlo.
Col cruccio di dover adunare il Gran consiglio, Mussolini incontrò controvoglia Hitler il 19 luglio a San
Fermo. Andava a Feltre, nel Bellunese, una località che significativamente si trova nei pressi del Piave,
quasi per augurarsi una riscossa. In realtà egli apparve all'ospite proprio come un Buddha. Mussolini era
distratto e distante; attratto esclusivamente dall'edificio-labirinto in cui si svolgeva il colloquio e che egli
paragonava a un gioco pietrificato di parole incrociate¯. Il Fuhrer non mancò di lamentarsi della
debolezza mostrata dall'esercito italiano e del suo scarso entusiasmo. Assicurò tuttavia l'invio di adeguati
rinforzi e rivelò l'irnminente impiego d'una risolutiva arma segreta capace di infliggere agli inglesi una
Stalingrado marittima. Raramente Mussolini era riuscito a inserire una battuta o una frase, in tedesco, nel
torrenziale discorso del collega di cui poté interrompere la foga soltanto con un annuncio sconvolgente.
Da Roma gli comunicavano che la città era sotto un bombardamento aereo.
Per la prima volta la capitale subiva l'attacco delle fortezze volanti americane Liberator, come era già
avvenuto in altre città italiane. Per circa tre ore, dalle 11,03 del mattino alle 14,07 di quel caldo lunedì di
luglio, cinquecento aerei sganciarono in quattro ondate milleduecento tonnellate di esplosivo sui
quartieri popolari del Prenestino e del Tiburtino, con l'intento di colpire la vicina stazione centrale e
mettere fuori gioco il sistema ferroviario italiano. Molte bombe piombarono sul cimitero del Verano, e
Giuseppe Ungaretti scriverà in una sua poesia: “Cessate di uccidere i morti”. Le ragioni spietate della
guerra avevano indotto Roosevelt a trascurare il parere di trenta milioni di cittadini americani i quali,
essendo cattolici, avrebbero preferito lasciar fuori dalla contesa Roma in quanto sede del papato e quindi
capitale di tutti i cattolici del mondo.
Mentre Mussolini tornava rapidamente indietro, Pio dodicesimo poco dopo le 16 lasciava in automobile il
Vaticano per recarsi sul luogo dei bombardamenti. Da una finestra del suo appartamento aveva visto le
formazioni aeree sorvolare pesantemente Roma a velocità contenuta emettendo un sordo e
impressionante rombo di motori. Poi vide sganciare le bombe. Pallido ed emozionato si recò nei quartieri
colpiti Era la prima volta che lasciava il Vaticano dall'inizio della guerra. I romani gli si facevano incontro
gridando: Santità, pace! Santità, pace!. Sul selciato stradale appariva netto il segno dei mitragliamenti.
Il pronao della basilica di San Lorenzo era crollato sotto le bombe, e il papa, non potendo entrare nella
chiesa, intonava il De Profundis inginocchiato tra le macerie: Dall'abisso, o Signore, io ti chiamo!. Tornò in
Vaticano alle 8 della sera. Soltanto in quel momento si avvide che la sua bianca veste era macchiata di
sangue, in basso verso l'orlo e alle maniche. Profondamente rattristato per lo spettacolo delle
devastazioni, constatava il fallimento dei suoi sforzi tesi a salvaguardare la città sacra di Roma dai
bombardamenti. Al suo medico disse: La contraerea Pacelli non ha funzionato.
Nel pomeriggio si erano recati trepidanti tra le macerie, ancora avvolte dal fumo e dalla polvere, anche il
re, la regina e i principi ereditari Umberto e Maria José. Il duce era in viaggio da Feltre dove, alla notizia
del bombardamento, aveva cinicamente esclamato: Bene. Così finisce il mito della Roma papale. Ma anche
la sua sorte era segnata, ed egli ne ebbe un'avvisaglia nel colloquio che si svolse con il sovrano la sera
stessa di quel tragico 19 luglio, quando era apparso su un muro della via Casilina una scritta: Meio
l'americani su la capoccia che Mussolini tra li cojoni.
I romani, colpiti dalle bombe delle fortezze volanti, lasciarono in molti la città, e si aggiunsero alle lunghe
file degli sfollati verso la Ciociaria, la Sabina, il Molise, le Marche carichi di fagotti che poi abbandonavano
via via lungo il cammino, guadando i fiumi dove i ponti erano crollati trascorrendo le notti nelle grotte
umide, procedendo piedi o sui carri agricoli e sui superstiti treni merci di fortuna. Gente raminga che
fuggiva dai bombardamenti e dalla fame, andava incontro ad altri eventi militari e ad altre privazioni.
Gli uomini validi dovevano guardarsi dalle razzie dei tedeschi, perfino i ragazzi, perfino gli imberbi Dove
infuriava la guerra di posizione, i piccoli paesi era no conquistati e persi ripetutamente dagli
angloamericani che avanzavano con estrema lentezza, e diventavano teatro di indicibili carneficine e
inumane rappresaglie. Come liquidare Mussolini? Era, questo, l'interrogativo di Ciano e soprattutto di
Grandi. Un po' tutti, compresi loro due, avevano perso troppo tempo. Ormai non se ne poteva perdere
altro. Incredibile! Erano passati tre anni dai primi approcci di Acquarone con Ciano al golf, da quegli
incontri davanti allo specchio d'acqua della piscina, fra il verde dei prati. Il re ancora cercava una via
d'uscita. Con lui continuavano a cercarla, sebbene con in-tenti diversi e spesso contrastanti, alcuni fra i
maggiori esponenti del regime, il Vaticano e i movimenti clandestini antifascisti col sostegno dei
fuorusciti. Per i più ferventi monarchici il punto di forza rimaneva il re; per altri non c'era altro da fare
che abbattere anche lui, come corresponsabile delle sciagure, e operare per un rivolgimento istituzionale
repubblicano.
Vittorio Emanuele riprendeva i contatti col vecchio Bonomi e con Badoglio, discuteva col generale
Ambrosio. Si studiava una particolare operazione che prevedeva la cattura di Mussolini. Il generale
Ambrosio gli prospettava l'opportunità di proclamare una dittatura militare con a capo Caviglia o
Badoglio. Si voleva rendere a Mussolini pan per focaccia e sopprimerlo come lui aveva fatto diciannove
anni prima con Matteotti. Sembrava che l'ordine provenisse da Ambrosio, il quale aveva chiamato il
comandante in capo dei carabinieri, Cerica, perché lo eseguisse tenendo d'occhio la riunione del Gran
consiglio.
Cerica però metteva al corrente il re di questo complotto che veniva definito di pretto stile balcanico, e
quindi escluso.
Il ministro della Real Casa, Acquarone, si adoperava perché il sovrano s'incontrasse - segretamente - con
un sempre maggior numero di personalità dissenzienti, politiche e militari. I colloqui con Grandi
potevano significare molto, ma non approdavano a nulla di concreto. Finalmente, essendo le truppe
corazzate del generale Patton entrate in Palermo, il 22 luglio, il re si decise a rompere gli indugi, pur
attendendo ancora che gli offrissero un appiglio costituzionale per agire. Farinacci aveva saputo qualcosa
in proposito dagli informatori di villa Wolkonsky, la sede dell'ambasciata tedesca, e diceva a Mussolini
che Dino Grandi capeggiava una congiura per deporlo sperando nel sostegno del sovrano, ma che il re,
conducendo una sua propria azione, lo avrebbe giocato. Farinacci sapeva che Ciano era pronto a
schierarsi con Grandi e ora si rimproverava di non essere riuscito a far scattare il complotto che aveva
messo a punto con l'intento di sopprimere Galeazzo con un colpo di pistola.
Fu alfine offerto a Vittorio Emanuele l'appiglio costituzionale con la convocazione del Gran consiglio del
fascismo a palazzo Venezia. Mussolini era apparso spento durante la seduta, e del resto già nell'incontro
con Hitler a Feltre di pochi giorni prima non aveva brillato per spirito di iniziativa. Un Buddha, appunto.
Non aveva reagito a dovere. Fu giudicato assai strano questo suo comportamento al Gran consiglio, che
egli aveva sempre dominato.
In realtà Mussolini era molto ammalato, ed ecco la ragione della sua sonnolenza. Qualche medicina lo
rendeva distante. La sua acquiescenza sorprese tutti. C'erano anche altre ragioni che ne spiegavano
l'atteggiamento, come il bisogno di affidare ad altri la responsabilità del grave momento dal quale non
sapeva più come uscire. Mussolini s'illudeva che il re lo avesse convocato a villa Savoia per privarlo sì del
comando delle forze armate ma anche per conferirgli l'incarico di formare un nuovo ministero. Fu il re a
voler dare un taglio netto col regime fascista chiamando Badoglio. Del resto l'ordine del giorno Grandi lo
invitava esclusivamente a riassumere le sue funzioni costituzionali.
In diciannove votarono contro Mussolini. I principali autori della congiura capirono subito che il re li
aveva giocati e che probabilmente non aveva mai pensato di dar vita né a un governo Grandi né a un
governo Ciano. Si era servito di loro per abbattere il duce e, con lui, il fascismo.
Nei suoi piani non rientrava un proseguimento del fascismo senza Mussolini. La scelta di Badoglio a capo
del nuovo ministero ne era una inconfutabile riprova.
Mentre Mussolini lasciava villa Torlonia, Rachele dal giardino gli gridava: Falli arrestare tutti, Benito, falli
arrestare prima che la riunione cominci. Non fidarti di Grandi e dei suoi compari. Guardati soprattutto da
Galeazzo. Aveva sentito parlare di Calpurnia che fra i singhiozzi scongiurava Cesare di non andare al
Senato in quel giorno infausto delle Idi di marzo. Galeazzo come Bruto! Rachele intuiva che vi fossero
pugnali fin nei sorrisi e traeva i suoi sospetti da una personale rete di informatori, una sorta di polizia
parallela di cui tirava i fili e che faceva di lei una persona ben diversa da come la propaganda fascista la
rappresentava. Altro che massaia dedita esclusivamente alle cure dell'orto di villa Torlonia.
Lei partecipava direttamente agli intrighi del regime, talvolta travestita da disoccupata in cerca di lavoro
per meglio tessere la sua rete e rafforzare il suo clan in lotta con altri gruppi di potere.
In mattinata Claretta al telefono aveva dato al suo Ben lo stesso consiglio di Rachele. Lui aveva fatto
spallucce.
La seduta del Gran consiglio ebbe inizio alle 17 del 24 luglio, era un sabato afoso, e non erano trascorsi
che cinque giorni dal bombardamento di Roma. Il drammatico dibattito, bombe a mano sotto i tavoli, si
concludeva alle 2,30 del mattino successivo con un voto di sfiducia a Mussolini, sulla base di un
documento presentato da Dino Grandi col quale si sosteneva la necessità di un immediato ripristino di
tutte le funzioni statali restituendo al re l'effettivo comando delle forze armate. Avete provocato la crisi
del regime disse Mussolini tornando a passare come faceva ogni giorno davanti a una fila di antiche
armature.
Tra i firmatari c'era anche Galeazzo, sebbene Grandi lo avesse consigliato di non prender parte alla fase
culminante della congiura. Gli aveva detto: Ti siamo tutti grati per la tua adesione e la collaborazione che
ci hai dato fino a stasera. Ora non metterti in una posizione troppo grave.
Dai retta. Nessuno te ne vorrà, se ti asterrai. Ma Ciano aveva votato e aveva parlato riaffermando la tesi
del tradimento tedesco: Hitler aveva scatenato la guerra senza consultare n‚ preavvertire l'alleato italiano
che aveva sconsigliato l'apertura delle ostilità prima del 1943, 44, ma fin dal '39 i tedeschi avevano
voluto dar fuoco alle polveri anzi tempo incuranti di ogni altro giudizio.
Il voto sul documento Grandi era ciò che il re voleva per procedere alla sostituzione del duce il quale non
era mai stato semplicemente il suo primo ministro, ma molto di più: era stato Mussolini. Al termine di
venti anni di dittatura, il fascismo cadeva in seguito a una votazione democratica e nel rispetto
cavalleresco delle forme. Ma tutto avveniva sotto la spinta del tracollo militare. Edda avvertiva
l'imminenza d'uno sconvolgimento totale, e difatti il 25 luglio non si sorprese di quanto accadeva. Non
tutto però le fu chiaro rapidamente. Aveva trascorso la notte in un rifugio antiaereo a Livorno, mentre la
città subiva un bombardamento americano. Subito dopo il voto del Gran consiglio, Galeazzo la chiamò al
telefono, e le disse : Siamo in una violenta tempesta. Ti mando a prendere con una macchina. Porta con te
mia madre e i bambini. Venite immediatamente!. Non aggiunse altro, per cui lei non riuscì a decifrare il
messaggio. Sapeva soltanto di dover tornare a Roma senza perdere tempo. In mattinata una macchina dei
carabinieri prelevò la famigliola e la condusse alla stazione di Livorno. Edda cominciò a rendersi conto di
ciò che era successo quando lesse sulle fiancate dei vagoni ferroviari alcune scritte in gesso inneggianti
alla caduta del fascismo: Abbasso Mussolini, Viva il Re ,Viva Badoglio.
Il viaggio verso Roma fu lungo e penoso, interrotto da innumerevoli soste anche in aperta campagna.
E già in tempi normali i treni impiegavano quattro ore per compiere il percorso da Livorno alla capitale.
Durante l'intero tragitto Edda non fece altro che lamentarsi con la suocera per un foruncolo in brutta
posizione che la tormentava, che le causava dolori lancinanti e le dava la febbre. La contessa Carolina, che
le sedeva accanto, le sembrava non meno insopportabile, agghindata da pensare che stesse recandosi a
un garden-party. Edda trovò Roma in tripudio, e disse ironicamente alla suocera: Guarda come la città è
pavesata a festa. Abbiamo forse riconquistato Addis Abeba?. Su un muro lesse una scritta: A morte il
puzzone. Più avanti un'altra scritta, con annessi disegnini, che la riguardava personalmente: Edda
Mussolini figlia di un porco. I disegnini rappresentavano un piccolo maiale e un profilo di lei; dalle labbra
partiva un fumetto con la dicitura: La vacca.
Era mezzanotte passata, ma Roma ancora viveva nelle strade gli straordinari rivolgimenti di quella
grande giornata. La gente deponeva gli stivali, si sfilava il distintivo dall'occhiello della giacca, si
abbracciava, si baciava, marciava in corteo, cantava l'inno di Mameli. In poche ore i romani avevano fatto
strage di fasci littorio, avevano acceso immensi falò in ogni piazza e gettavano tra le fiamme le immagini
del dittatore deposto e dei gerarchi. Su un'automobile d'una occasionale pattuglia di carabinieri in
perlustrazione alla stazione Termini l'Edda poté alfine raggiungere l'abitazione in via Secchi, dove trovò
il marito in preda al terrore. Galeazzo, stringendola a sé, le disse in lacrime: Dobbiamo fuggire dall'Italia.
Qui ci ammazzano!. Entrambi corsero subito in biblioteca, e affannosamente cominciarono a bruciare nel
caminetto mucchi di carte compromettenti, mentre la casa si riempiva di fumo.
Al Gran consiglio l'ordine del giorno Grandi aveva ottenuto diciannove si e sette no. Uno degli avversari
di Mussolini, Giuseppe Bottai, dava un'acuta interpretazione del documento. Diceva che con quel voto
non si intendeva raccomandare la capitolazione dell'Italia, ma la resistenza. Pertanto si circoscriveva
l'iniziativa del sovrano al puro e semplice ripristino della costituzione. Che poi il re sia andato oltre, stava
a significare come egli avesse sovrapposto al voto del Gran consiglio un proprio colpo di Stato di cui
portava tutta intera la responsabilità.
In effetti Vittorio Emanuele aveva scientemente evitato di affidare il governo ai capi del fascismo che
avevano rovesciato Mussolini. I Grandi, i Ciano si attendevano di essere loro i successori del duce
disarcionato, ma il sovrano aveva colto l'occasione del voto del Gran consiglio non soltanto per abbattere
Mussolini, ma anche per seppellire il regime.
Caro Duce, disse il re a Mussolini la sera del 25 luglio, le cose non vanno più. L'Italia è in tocchi.
Il colloquio durò una ventina di minuti, e subito dopo un capitano dei carabinieri spinse l'ex duce su
un'autoambulanza che lo attendeva nel parco di villa Savoia. A villa Torlonia, Rachele ebbe al telefono la
notizia dell'arresto da una voce anonima: Signora, in questo momento hanno arrestato Mussolini. Non
posso dirvi altro. In Vaticano il segretario di Stato Maglione si adoperava perché l'ordinario militare in
Italia, monsignor Angelo Bartolomasi, si recasse a nome di Pio dodicesimo a confortare il prigioniero che
era stato rinchiuso nella caserma degli allievi carabinieri in Prati. Pregava inoltre Carmine Senise, tornato
alla testa della polizia dopo esserne stato allontanato dai fascisti, di garantire l'incolumità della povera
donna Rachele.
Circolò subito una teoria secondo la quale Mussolini sarebbe stato scacciato dal re anche se non si fosse
verificata la ribellione del Gran consiglio. Ciò poteva significare che in pratica nel luglio del '43
sussistevano due azioni parallele con il comune obiettivo di abbattere il fascismo per staccare l'Italia
dalla Germania: un'azione militare condotta dallo Stato maggiore con il consenso del re; un'azione
politica capeggiata da Dino Grandi e anche essa sollecitata dal sovrano. Si poteva altresì ritenere possibile
una contemporanea presenza delle due azioni, ma era arduo credere che Vittorio Emanuele avrebbe
agito senza il voto del Gran consiglio, lui che per l'intera durata del Ventennio aveva sempre detto agli
oppositori: Io sono un re costituzionale. Non volete più Mussolini? Datemi un appiglio, e lo licenzierò.
Su una nave in mezzo all'Oceano, un corrispondente di guerra, John Steinbeck, apprendeva la notizia
della caduta di Mussolini, e scriveva al suo giornale americano: Hanno dato un calcio in culo al vecchio
Musso. I maccheroni si sono rivoltati. Hanno fatto la più bella rivoluzione di tutti i tempi.
Galeazzo Ciano era formalmente libero, ma se ne stava rintanato assieme all'indispettita Edda nel suo
appartamento di Roma, in attesa di ricevere assicurazioni dal re, fidando nel fatto di essere collare
dell'Annunziata e quindi cugino del sovrano. Nel frattempo inviava una lettera al nuovo capo del
Governo, Badoglio, per mettergli a disposizione la carica di ambasciatore presso la Santa Sede.
In suo luogo Badoglio nominava un incaricato d'affari.
Nella lettera Galeazzo aggiungeva: Desidero confermare all'Eccellenza Vostra che qualora la mia persona
e la mia opera potessero essere in qualsiasi guisa di qualche utilità, io mi tengo sempre e comunque a
disposizione del Governo, al quale auguro il maggior successo nell'opera intrapresa nel nome del Re e
della Patria¯. Gridava aiuto mentre in molti gli voltavano le spalle, ed egli già pensava a un rifugio più
sicuro. Sapeva di essere ricercato come profittatore del fascismo. Difatti Badoglio, che aveva presentato
un decreto contro gli illeciti arricchimenti avvenuti durante il Ventennio mussoliniano, aveva già
ordinato di arrestarlo e di internarlo nell'isola di Ponza.
Il vecchio ras di Cremona, Roberto Farinacci, dopo essersi immediatamente nascosto a villa Wolkonsky
sotto la protezione dell'ambasciatore von Mackensen, aveva potuto raggiungere la Germania dove
avrebbe influito sinistramente sull'animo di Hitler, qualora ce ne fosse stato bisogno. Dino Grandi era
riuscito a involarsi in Portogallo sotto il falso nome di Domenico Galli, avvocato, dopo aver perduto la
speranza di ottenere dal re almeno un ministero, quello dell'Interno o degli Esteri, come ricompensa
della rivolta del 25 luglio da lui capeggiata. Dino Alfieri aveva potuto rifugiarsi in Svizzera. Altri gerarchi
furono subito accolti nei monasteri. Giuseppe Bottai poté entrare fra i primi in un convento di suore
presso Castel Gandolfo, dove si diede a leggere la Genesi, i Salmi, l'Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici e un
libro sulle meraviglie di Fatima. Innumerevoli gerarchi trascorsero ore intere a distruggere carte,
documenti e cimeli, nel tentativo di cancellare e disperdere le tracce d'un passato compromettente.
Roma si scosse all'improvviso e la popolazione cominciò a riversarsi come un fiume impetuoso nelle
strade. La radio aveva dato l'annuncio della caduta del fascismo e tutti urlavano di gioia. Sembrava che
prima di allora non avessero mai strillato tanto e non fossero mai stati in piazza Venezia a gridare Duce!
Duce! sotto il fatidico balcone. Una giovane madre aveva fra le braccia un bambino in fasce, ed esclamava:
Voglio che respiri quest'aria anche tu!, mentre lo sollevava al cielo. E tornato il sorriso scriveva Diego
Calcagno, un giornalista che immediatamente inaugurava una nuova retorica: Tutto sorride anche nella
compostezza severa del popolo che lavora disciplinatamente e che è pronto a qualsiasi sacrificio per il
suo paese e per il suo Re. Ed è come affacciarsi sopra un giardino che s era avvezzi di vedere squallido e
che d'improvviso si vede tutto fiorito di rose. Più sensibile si mostrava Sibilla Aleramo. Nel diario segreto
di poetessa scriveva: Povera cara Italia. Stamane l'abbiamo veduta a una svolta, come si dice, della sua
storia. Ancora una. Ha potuto scrollarsi di dosso l'oppressione fascista, che pareva invincibile: così
inattesamente, quasi senza crederci.
La gioia della folla abbatteva gli argini delle proibizioni e delle censure. Che ci facevano tutti quei crucchi
in giro per le strade di Roma? Tornava la libertà. La rivista dei tedeschi Signal, esprimeva tutto il suo
sdegno: La plebaglia ha occupato le strade, dando sfogo ai più bassi istinti di cui essa è capace e offrendo
così una nuova dimostrazione dell'inestirpabile balordaggine umana che si rinnova eternamente.
La plebaglia fa sempre la sua apparizione ovunque si dischiudano anche solo per poco le dighe
dell'ordine.
Tornava la libertà, niente più oscuramento, niente più tessera del pane. Stremati, gli italiani erano
arrivati all'ultimo foro della cinghia che avevano chiamato Foro Mussolini, con ironico riferimento al
monumentale complesso urbanistico dominato dal monolito littorio alle pendici di monte Mario. Nello
slargo con la grande sfera marmorea, alcuni blocchi di marmo recavano scolpite le date dell'ascesa e
dell'affermazione del regime ormai caduto, e subito i romani chiamarono quei blocchi la via Crucis degli
italiani sotto il fascismo. La loro storia, diceva Longanesi, era stata in quegli anni una lunga fila di
tagliandi della tessera del pane. Che sarebbe successo ora? Il paese sarebbe insorto o avrebbe
dimenticato? C'era o no un'incognita comunista all'orizzonte? Intanto si continuava a frantumare i
monumenti a Mussolini, a rovesciare le aquile del regime, ad abbattere i simboli e gli stucchi del
Ventennio. Tutti ancora ignoravano la sorte del duce. Era morto? Era vivo? E se era vivo, dove lo
tenevano prigioniero? E che cosa ne avrebbero fatto?
Nei paesi sui muri delle case campeggiavano ancora le scritte del fascismo, i motti mussoliniani siglati
dalla M imperiale che, con i loro caratteri in vernice nera, risultavano più lugubri che mai. Credere,
obbedire, combattere; Noi tireremo diritto; L'aratro traccia il solco, la spada lo difende. Quelle scritte
erano già lontane nel tempo, tanto che nessuno si preoccupava di cancellarle.
Erano cadute da sole nella coscienza popolare. Di esse si avvedevano soltanto i soldati americani, quando,
in pattuglie di quattro o cinque elementi, arrivavano in avanscoperta a prendere possesso della nuova
posizione. E scuotevano la testa. Le pattuglie di soldati americani comparivano all'improvviso, avanzando
con precauzione negli spazi che, abbandonati dai tedeschi, avevano assunto la terribile fisionomia della
terra di nessuno. Gli abitanti avevano la sorpresa di sentir parlare quei soldati in dialetto napoletano
intorbidito dalle acque dell'Hudson, essendo figli d'emigrati italiani.
Il 25 luglio non aveva però comportato la cessazione del conflitto, come invece la gente si aspettava che
accadesse. La guerra continua si diceva nel proclama, suggerito dall'ottantatreenne Vittorio Emanuele
Orlando, insieme a qualcosa che suonava ancora più falsa: L' ltalia mantiene fede alla parola data.
Badoglio decideva di persistere nei combattimenti al fianco di Hitler con l'intento di difendere il
territorio italiano dal pericolo di un'invasione tedesca. Ma non fu possibile scongiurare quell'invasione,
come non si potevano evitare i bombardamenti angloamericani che anzi si abbatterono con maggiore
violenza sull'intera penisola. Il 13 agosto Roma venne colpita dall'alto una seconda volta, e Pio
dodicesimo scese nuovamente tra i morti e i feriti dei quartieri Tuscolano Appio-Latino, Tiburtino,
Casilino, Prenestino.
Gli autori del rovesciamento di Mussolini avevano ormai constatato come il re li avesse definitivamente
esclusi. Era uscito di scena il cavalier Benito Mussolini e ne aveva preso il posto il cavalier Pietro Badoglio
come in una commedia a lieto fine. In realtà era tutta una tragedia.
Con i nazisti a Roma, ancora in posizione rilevante, l'appartamento di via Secchi non era un rifugio sicuro
per Galeazzo; egli poteva aspettarsi di essere da un momento all'altro il bersaglio d'una vendetta dei
tedeschi o di chiunque volesse fargli pagare il voto del 25 luglio. Doveva espatriare, e pensava alla
Spagna. Questa era la soluzione per lui e la famiglia, poiché Francisco Franco li avrebbe sicuramente
accolti.
Chiese i documenti necessari per il viaggio, ma il nuovo ministro degli Esteri Guariglia glieli rifiutò,
sebbene lui, con la lettera a Badoglio, avesse compiuto un atto di sottomissione nei confronti del nuovo
corso della politica italiana. A quel punto non gli rimase che sollecitare l'ospitalità del Vaticano, ma il
portone di bronzo non si aprì.
Edda ricevette poche e non convincenti righe di giustificazione dalla segreteria di Stato. Galeazzo,
disperato, appariva agli occhi di lei come un uomo che ormai in tanta tragedia seguita al voto del Gran
consiglio non vedeva altra soluzione al di là del suicidio.
Edda allora assunse su di s‚ tutta intera l'iniziativa. Io ho ancora fiducia nei tedeschi, gli disse. E aggiunse:
Chiediamoli a loro i documenti per la Spagna. Rivolgiamoci a loro perché ci aiutino a lasciare
clandestinamente l'Italia. E una pura follia!, le rispose il marito, cercando di dissuaderla, dicendole che
correvano il rischio di gettarsi ingenuamente nelle fauci della iena tedesca. Ma non capisci, ribatteva lei,
convinta di non aver perso l'antico ascendente sul Fuhrer, che Hitler è la nostra unica ancora di salvezza.
Ci ha sempre dimostrato amicizia. Io ho tuttora fiducia in lui.
Galeazzo era quanto mai confuso e disorientato, ma - nell'apprendere che il suo amico carissimo Ettore
Muti era stato ucciso il 22 agosto nella pineta di Fregene in circostanze oscure da una pattuglia di
carabinieri badogliani accorsi per catturarlo - si convinse che aveva ragione Edda a tentare il tutto per il
tutto con Hitler, proprio per evitare di cadere nelle mani degli antifascisti. Lei si aggrappava sempre più
ai tedeschi, i quali in realtà entravano in scena al momento giusto per preparare ai Ciano un terribile
tranello. La trappola era tuttavia abbastanza scoperta perché, all'atto in cui Edda chiese ai tedeschi aiuto
per espatriare in Spagna, il colonnello delle SS Eugen Dollmann le parlò con chiarezza dell'avversione di
Hitler per Galeazzo. Il Fuhrer, le disse Dollmann, era pronto a soccorrere lei, ma non voleva
assolutamente sentir parlare del marito. Posso mettere in salvo il "sangue del Duce", aveva detto Hitler al
colonnello e lui lo riferiva alla contessa, ma Ciano deve restare nella terra "dove cresce il pepe". Deda
aveva reagito affermando che non avrebbe mai abbandonato Gallo, e aveva aggiunto che comunque il
marito, qualora lo avessero portato in Germania anziché in Spagna, avrebbe potuto spiegare
personalmente meglio di ogni altro a Hitler che cosa era davvero successo il 25 luglio.
Edda volle forzare la situazione e comunicò a Dollmann che lei e Galeazzo erano pronti a lasciare l'Italia,
certi che i tedeschi li avrebbero condotti segretamente in Spagna. A villa Wolkonsky il viaggio fu studiato
attentamente e segretamente in ogni minimo particolare, soprattutto per eludere la sorveglianza dei
badogliani che non intendevano lasciarseli sfuggire. L'attuazione del piano di evasione fu affidata al capo
dei servizi segreti tedeschi in Italia, Wilhelm Hottl, in collaborazione con il comandante delle SS di Roma,
Herbert Kappler.
In base ai programmi prestabiliti, nella mattinata del 23 agosto '43, Edda uscì con i figli dall'abitazione di
via Secchi, come per fare una breve passeggiata. Indossava un abitino attillato. La piccola Dindina aveva
in mano un'ochetta di celluloide. Percorso un tratto di viale Parioli, arrivarono in piazza Santiago del Cile
dove furono accolti, a bordo di un'automobile nera, da agenti del Servizio segreto tedesco che erano lì ad
attenderli, senza che il poliziotto badogliano, che doveva controllare a distanza i loro movimenti, si
insospettisse di nulla. Poco dopo, sempre in quei paraggi, anche Galeazzo salì indisturbato su un'altra
macchina che raggiunse l'Accademia tedesca. La moglie e i figli vi erano già arrivati da alcuni minuti.
Di lì, celati sotto il tendone di un camion della Wehrmacht, furono subito trasportati all'aeroporto di
Pratica di Mare, dove trovarono un apparecchio della Luftwaffe già pronto, uno Junker, con i motori
accesi.
Il capo della polizia Senise fu il primo a sorprendersi della loro fuga. A lui risultava che l'abitazione dei
Ciano era piantonata da una pattuglia di carabinieri e da un agente ciclista. Costoro se ne stavano però
piuttosto tranquilli, poiché il conte in quei giorni non era mai uscito di casa, neppure durante gli allarmi
aerei. A fuga avvenuta, Senise ordinava un sopralluogo dal quale risultò che Galeazzo, Edda e i figli
avevano scavalcato il muro di cinta che si ergeva fra il giardino della loro casa e quello di una villa
contigua, per poi salire su un'auto con targa diplomatica che li attendeva nei pressi. Senise non ebbe
dubbi nel ritenere minuziosamente preparata la fuga avendo potuto appurare che Edda, la sera prima
della partenza, aveva fatto indossare, in pieno agosto, una sua pelliccia di gran pregio a una dama
dell'aristocrazia romana sua amica, perché la mettesse in salvo, e che Galeazzo aveva distribuito cospicue
mance al personale di servizio a mo' di commiato.
Sull'aereo che li aveva accolti a Pratica di Mare, i Ciano, per un primo tratto del volo, erano ancora certi
che sarebbero stati condotti in Spagna, perché questi erano i patti.
Ma ben presto dovettero amaramente rendersi conto che i tedeschi li avevano ingannati. L'aereo non
volava affatto in direzione della Spagna. A Edda, che chiedeva concitatamente spiegazioni, fu risposto che
si doveva fare scalo a Monaco di Baviera per ragioni tecniche. Dopo di che l'aereo avrebbe proseguito
verso la meta concordata. Sull'apparecchio, Galeazzo rimise all'occhiello della giacca la cimice, il
distintivo del Pnf, che aveva occultato in una tasca insieme a una sacchetta di gioielli. L'apparecchio,
essendo un aereo da trasporto, non aveva sedili, e i Ciano dovettero accucciarsi sul pavimento.
Indossavano leggeri abiti estivi per cui, quando il velivolo fu costretto a salire di quota per evitare il
maltempo, cominciarono a battere i denti dal freddo.
Lo scalo a Monaco si rivelò un trucco, un basso tranello. Il Fuhrer si mostrò tuttavia cortese con Edda che
volle ricevere al suo quartier generale. Era ad attenderla sulla soglia della baracca in legno immersa in
una foresta della Prussia orientale. Le prese le mani stringendogliele a lungo, mentre agli occhi gli
spuntavano due grosse lacrime. Le chiese perché mai il padre avesse commesso l'errore di far riunire il
Gran consiglio, visto che già conosceva l'ordine del giorno preparato da Dino Grandi. Ma lei, come se non
avesse sentito ciò che Hitler le diceva, gli chiese con irruenza: Dov'è, dov'è mio padre?!. Hitler, sorpreso
da tanto impeto, quasi ne ebbe paura. Cercò di tranquillizzarla. Vostro padre, le disse con dolcezza, sarà
liberato. Siatene certa. Non appena sapremo dove Badoglio lo tiene prigioniero, lo trarremo in salvo. Non
allarmatevi, vi prego. Noi sapremo restituirlo alla famiglia e agli italiani.¯ Quindi le mostrò una lettera di
auguri che gli aveva scritto per il sessantesimo compleanno e che intendeva consegnargli di persona al
momento della ritrovata libertà.
Edda non si era minimamente tranquillizzata e, quando il primo settembre Hitler le si presentò con un
gran fascio di orchidee pronunciando parole gentili per augurarle un buon compleanno - il
trentatreesimo -, lo accolse con malagrazia, e il Fuhrer non poté non mostrarsene irritato. Lei però
continuava a credere possibile che Hitler avrebbe acconsentito al loro trasferimento in Spagna.
Ormai anche Galeazzo soggiaceva a questa assurda illusione. Si preparavano al viaggio come se
dovessero partire da un momento all'altro, mentre in realtà erano sempre più irretiti in una paradossale
commedia degli equivoci. Ancora speravano di ottenere dai tedeschi i passaporti falsi; per cui Galeazzo si
era fatto fotografare con un paio di baffi finti e con lo sguardo nascosto dietro grossi occhiali. Aveva
inoltre assunto l'identità di un argentino di origine italiana.
Edda invece aveva scelto per s‚ il nome di Margaret Smith che, per contrasto, le ricordava una signora
inglese conosciuta negli anni gioiosi di Shanghai.
I passaporti per la Spagna non erano mai pronti e la contessa, disperata, si risolse a chiederli
personalmente al Fuhrer. Piombò nella Tana del lupo, dove quella volta fu accolta, se non con freddezza,
certamente con formale distacco poiché tutti si attendevano una sua sfuriata. E nessuno le offrì orchidee.
Lei parlava e parlava in difesa del marito, ma Hitler taceva. Lei diceva: Concedeteci un salvacondotto e un
aereo. Non vi costa niente. Io, Galeazzo e i nostri figli ci ritireremo in Spagna, e non sentirete mai più
parlare di noi!. Poi affrontò alcune questioni finanziarie, rivelando di aver portato dall'Italia alcuni
milioni di lire e un sacchetto di diamanti. Chiedeva che le cambiassero le lire in pesetas, dicendosi
disposta a offrire ai tedeschi la differenza nel tasso di cambio. Sfrontatamente disse che aveva tutto quel
ben di Dio nella borsetta e che avrebbe potuto vuotarla sul tavolinetto da thé intorno al quale erano
seduti. Aggiunse che si sarebbero potuti trasferire anche in Sudamerica, senza accennare però all'offerta
che il marito aveva fatto a Hottl. L'offerta consisteva nel proporsi come spacciatore, proprio in
Sudamerica, d'un certo quantitativo delle sterline false che le SS avevano stampato imitando alla
perfezione quelle vere, tanto da essere riusciti a ingannare la stessa Banca d'Inghilterra che ne pativa
ingenti danni.
Hitler taceva ancora. Per lui parlò Ribbentrop, presente alla scena. Il conte Ciano e la sua famiglia, disse,
hanno in Germania una sistemazione consona al loro rango.
Inoltre la Spagna non è un luogo sicuro. Lei si innervosì ulteriormente, ma seppe ancora trattenere
un'esplosione d'ira. E, ringraziando a denti stretti, fece presente che non era in gioco una loro certamente
lodevole sistemazione in Baviera. Il problema era un altro: fra quei monti e sulle rive dello Starnberger
See, dove erano stati allocati, faceva un gran freddo, e loro, amanti dei paesi caldi, non riuscivano
neppure a dormire.
Finalmente Hitler parlò, ma soltanto per confermare la certezza nella vittoria tedesca. A quel punto lei
non ne poté più, e disse apertamente ciò che le passava per la testa: No, la guerra è perduta! Il fascismo e
il nazismo sono putrefatti! Forse siamo ancora in tempo a fare la pace almeno con uno dei nostri nemici.
Con la Russia, per esempio. Il Fuhrer ebbe uno scatto d'ira, sentendo ripetere da lei le stesse cose che gli
avevano detto Mussolini a Salisburgo e anche Ciano proprio lì nella Wolfsschanze. La fissò sbalordito e
urlò: No, mai. Non si può far sposare l'acqua col fuoco! Da voi, signora, non mi sarei mai aspettata una
proposta del genere. Noi tedeschi continueremo a combattere finché non avremo ucciso l'ultimo
bolscevico. Inviperita, Edda uscì sbattendo la porta del bunker, mentre giurava a se stessa odio eterno
per Hitler e i suoi accoliti. Quell'uomo era un mostro, altro che eroe da Walhalla! Aveva saputo che
chiamava Galeazzo, (ler nbscheZlliche Knabe, ragazzo disgustoso: se lo sarebbe ricordato. Tornando a
casa fece strage dei piatti che le capitarono a portata di mano, scaraventandoli a terra fra grandi urla.
Il 2 settembre, aveva inviato una lettera a Himmler chiedendo anche a lui di lasciarli partire per un paese
caldo. Gli scriveva di aver riflettuto su quanto le aveva detto; trovava giustissime le sue obiezioni, tuttavia
lei si confermava pronta ad affrontare il rischio politico della penisola iberica non potendo veder
peggiorata la propria salute a causa di una prolungata permanenza in quel gelido clima bavarese: Lo
Starnberger See è bello e mi piace assai, ma l'umidità dei boschi Š pericolosa per una persona che, come
me, è abituata al sole di Capri. Fra pochi giorni verrà da lei Galeazzo, e potrete riparlarne insieme. Sono
stata molto felice del nostro incontro, e le rinnovo il mio grazie, caro Himmler. Faccio i miei migliori
auguri a lei e alle sue SS, alle quali ormai appartengo.
Alfine il giorno 8 di quello stesso mese si apprendeva che il governo Badoglio aveva firmato l'armistizio
con gli angloamericani. L'evento doveva restare segreto ancora per un paio di giorni allo scopo di
consentire al re e a Badoglio di preparare adeguatamente la loro uscita da Roma, affinché non cadessero
prigionieri della Wehrmacht, ma il governo americano non aveva mantenuto l'impegno - l'annuncio lo
aveva dato Eisenhower - e ciò li aveva costretti ad abbandonare precipitosamente la capitale. Hitler reagì
duramente alla notizia dell'armistizio. Accusò l'Italia di tradimento e disse che gli italiani meritavano una
lezione esemplare non avendo ancora imparato a rispettare gli impegni internazionali e i comandamenti
dell'onore nazionale. Diceva queste cose come se un popolo non avesse il diritto di uscire da una guerra
perduta - dichiarata prematuramente e improvvisamente dall'infido alleato - che andava sempre più
assumendo i caratteri di un'azione criminale e di una inutile strage.
La lezione annunciata da Hitler scattò immediatamente con la deportazione in Germania di numerosi
contingenti di soldati italiani rastrellati in tutta rapidità e ammassati su carri ferroviari piombati.
All'indomani dell'armistizio i tedeschi s'impossessarono di Roma dopo aver affrontato nella zona di San
Paolo, presso la piramide Cestia, alcuni reparti dell'esercito italiano che si opponevano ai carri armati del
maresciallo Kesselring. Gli italiani subivano una nuova Caporetto, sebbene Radio Londra riconoscesse il
coraggio di quei soldati che avevano tentato di arrestare la marcia degli invasori. Appariva comunque
certo che il generale Carboni, il comandante della difesa territoriale, non aveva saputo svolgere il suo
compito, per un semplice fatto: egli, pur disponendo di cinquantamila uomini, si era lasciato battere da
un nemico che ne contava soltanto quindicimila. Molti furono i cittadini romani che in preda al panico
corsero ad accamparsi in piazza San Pietro, all'interno del colonnato, come per chiedere protezione a Pio
dodicesimo.
Alle prime ore di quello stesso giorno, Vittorio Emanuele terzo e Badoglio riuscirono a prendere la via di
Pescara per poi attestarsi a Brindisi e mantenere intatta la linea di continuità dello Stato legittimo
italiano, ancora rappresentato dalla monarchia. L'obiettivo del sovrano era di non lasciare tutta l'Italia
alla mercé di Hitler, e ciò era possibile soltanto con la costituzione del regno del Sud.
La sua non era una fuga, ma un trasferimento per portare altrove le insegne dello Stato, come aveva già
fatto Pompeo alla notizia che Cesare aveva varcato il Rubicone e marciava su Roma. Era perciò
ingeneroso parlare, come già si faceva, di un sovrano che si degradava dalla gloriosa reputazione di re di
Peschiera, conquistata all'indomani della rotta di Caporetto, a quella ignominiosa di re di Pescara.
Il giorno 12 di quel settembre Mussolini, prigioniero di Badoglio sul Gran Sasso in Abruzzo, veniva
leggendariamente, anzi fortunosamente, liberato dopo un mese e mezzo di detenzione da un capitano
delle SS, Skorzeny, e quindi trasportato dal Fuhrer che lo attendeva al quartier generale di Rastenburg.
Qualcuno paragonava il ritorno di Mussolini a quello di Napoleone, dopo l'isola d'Elba.
Ma il duce era piuttosto un fantasma del passato. Fin dal primo colloquio che seguì alle effusioni dei due
capi che si riabbracciavano, Hitler gettò sul tavolo le sue carte chiedendo all'esumato duce di condannare
a morte i traditori del Gran consiglio. Definì Ciano quattro volte traditore: traditore della patria, del
fascismo, dell'alleanza con la Germania, della famiglia. E aggiunse: Se fossi al vostro posto niente mi
tratterrebbe dal farmi giustizia con le mie stesse mani. Vi consegno Ciano, in quanto è bene che la
condanna a morte siate voi a deciderla e ad eseguirla in territorio italiano non appena vi avrete fatto
ritorno. Imbarazzato, Mussolini osservava che Galeazzo era il marito di Edda, ma lui lo incalzava
affermando che la parentela rendeva ancor pi— grave il delitto commesso da quell'uomo. Non era un
caso che fra le quattro imputazioni rivoltegli avesse incluso il tradimento della famiglia.
In un primo tempo, i Ciano furono accolti in un certo senso da amici. Galeazzo, sebbene spiato a distanza,
poteva muoversi liberamente in lungo e in largo nelle vie di Monaco, anche in cerca di avventure
sentimentali cui non rinunciava neppure in quelle allarmanti condizioni. Ma dopo l'armistizio italiano la
sua posizione e quella di Edda cambiarono radicalmente. Da ospiti, per quanto riguardati con sufficienza,
vennero apertamente trattati da prigionieri e, come tali, erano tenuti passo passo sotto il più stretto
controllo. La situazione mutò fin nei minimi particolari. Non avevano più servitori a disposizione, e la
gente li sogguardava con ostilità mista a disprezzo. Una SS della scorta che seguiva le loro mosse, una
mattina afferrò un gatto cui il piccolo Marzio era morbosamente affezionato, e glielo strangolò sotto gli
occhi, mentre sibilava tra i denti minacce all'indirizzo degli italiani, buoni soltanto a tradire.
Verrater!, diceva, traditori.
Come avveniva per il marito, adesso anche lei ravvisava nel suicidio l'unica onorevole via d'uscita.
Ma tornarono entrambi ancora una volta a illudersi che tutto potesse volgere nuovamente al meglio
avendo appreso che il duce era stato liberato, così come Hitler aveva promesso di fare. Speravano che dal
commovente incontro fra i due dittatori del 14 settembre nella Tana del lupo, sarebbe sortita la loro
salvezza. La gioia fu di breve durata perché‚ neppure quello straordinario evento indusse il Fuhrer a
rinunciare a vendicarsi di Ciano. Che fare? Galeazzo cominciò a pensare di offrire ai tedeschi il Diario in
cambio della sua vita e della tranquillità per la sua famiglia. I tedeschi sapevano che egli aveva riempito
di appunti numerose agende della Croce Rossa nei sette anni trascorsi a palazzo Chigi come ministro
degli Esteri dell'Italia fascista e imperiale, e mostravano di temerne la pubblicazione, poiché dal Diario
sarebbe apparso chiaro a tutti come si fossero gettati a capofitto nella guerra senza neppure consultare
l'alleato italiano, e come l'avessero tradito venendo meno ai patti.
Donna Rachele e due suoi figli, Romano e Anna Maria, internati dai badogliani alla Rocca delle Caminate,
erano stati anche essi liberati da reparti armati tedeschi e quindi condotti a Monaco. Ora i Mussolini e i
Ciano erano riuniti in uno stupendo edificio neoclassico, il Prinz Karl Palast, fra stucchi e ori. Risultava
stridente la loro condizione di sfollati con indosso abiti sporchi e sdruciti, ospiti di un padrone di cui non
conoscevano le reali intenzioni, ma dal quale c'era tutto da temere. Erano in dodici. Benito e Rachele con i
figli Vittorio, Romano, Anna Maria. Con Vittorio c'era anche la moglie Orsola. C'erano Edda e Galeazzo che con- servava un contegno superiore e distaccato, mentre il suocero appariva quanto mai dimesso con accanto i figli Ciccino, Dindina e Marzio. C'era infine Orio Ruperti, il cognato di Bruno. All'arrivo di
quel pugno di sfollati, di quel gruppetto di diseredati, i tedeschi avevano distribuito grandi mazzi di fiori
a tutti ostentando una cortesia che però era soltanto formale. Apparivano colpiti dalla straordinaria
rassomiglianza fisica di Edda col padre, una rassomiglianza che in quei momenti di disperazione si
accentuava enormemente negli sguardi e nei gesti.
Quando Rachele rivide il marito, diede un grido di disperazione. Gli fece immediatamente fare un bagno.
Si avvide che le sue calze erano piene di buchi, le mutande sudice, sorrette da un enorme bottone nero.
Dove le hai trovate?, gli gridò, ed egli rispose sommessamente: Me le ha date un marinaio mentre mi
portavano prigioniero a Ponza. Galeazzo invece conservava la sua abituale eleganza. Con nonchalance
aveva lasciato su una poltrona dorata il soprabito gabardine color nocciola, di cui era orgoglioso essendo
uscito dalla celebre sartoria romana di Caraceni. Impeccabile era il suo abito grigio, dal cui taschino
spuntava un candido fazzoletto di seta. I capelli erano ben lisciati e imbrillantinati, sebbene le sedute al
barbiere Biancifiori di via Condotti non fossero ormai che un ricordo remoto; le unghie sembravano
appena uscite dalla bacinella d'una manicure. Interpretava a puntino il suo ruolo, e appariva come un
personaggio delle sue commedie giovanili. Intorno a lui, i tedeschi si chiedevano se il suocero avrebbe
potuto davvero perdonargli il voto del 25 luglio, mentre Rachele lo aveva già condannato giurandogli
odio eterno. Ed era sempre lì lì per sputargli in faccia.
I tedeschi non nascondevano la loro sorpresa nel constatare come Mussolini e Ciano vivessero
tranquillamente sotto lo stesso tetto, e ne giudicavano il comportamento come un prodotto dell'eterno
machiavellismo italico.
Consideravano con sospetto quelle due famiglie; si chiedevano come non si accapigliassero Edda e la
madre, Edda e il padre, Benito e Galeazzo, visto che prima o poi si sarebbero dovute tirare le somme del
25 luglio e punire i responsabili. Invece il duce e il conte si erano perfino abbracciati. Goebbels, un
momento, si aspettava di vedere che il dittatore italiano, per salvare la faccia con l'alleato, prendeva
pubblicamente a frustate la figlia; un altro momento, diceva che mai Mussolini avrebbe abbandonato il
genero al suo destino. Adesso Edda odiava Goebbels e la moglie Magda. Li aveva amati e stimati.
Si chiedeva come avesse potuto gioire in passato alla notizia che quei due avevano chiamato Edda una
loro figlia in suo onore.
Aveva considerato Goebbels un vero fenomeno, aveva visto in lui il più grande ministro della propaganda
di tutti i tempi. Aveva ammirato Magda per la sua fermezza, il giorno in cui le aveva rivelato che lei e il
marito si sarebbero uccisi e che avrebbero ucciso anche i figli, in caso d'una vittoria di Stalin. Meglio la
morte che i russi!, le aveva detto Magda. E ora Edda considerava tutto ciò una follia.
I tedeschi erano propensi a credere che lei sarebbe riuscita a far riconciliare definitivamente il padre con
Galeazzo. Goebbels rivelava che Edda si comportava, nella villa in Baviera, come una gatta selvatica; alla
minima provocazione fracassava porcellane e mobili. Prestando credito alla voce, comunque infondata,
che Mussolini avesse avuto quella figlia dall'agitatrice russa ebrea Angelica Balabanoff, definiva Edda una
donnaccia volgare e spregevole, nelle cui vene scorre forse un miscuglio di sangue ebreo. Che Edda fosse
mezzo ebrea, riferiva Goebbels, lo credeva anche Hitler il quale attribuiva a questo fatto la sfrenatezza
sessuale di quella donna, una donna che avrebbe meritato di essere spedita in una casa di correzione.
Goebbels non aveva ormai più dubbi. Si diceva certo che Edda era riuscita a mutare l'opinione del padre
su Ciano: Subito dopo l'arrivo di Mussolini a Monaco, la contessa ha avuto un lungo colloquio con lui in
seguito al quale c'é stata una riconciliazione tra il Duce e Ciano. Ciano è rientrato nelle buone grazie del
Duce. Questo significa che quel fungo velenoso di Ciano si trova piantato nel bel mezzo del nuovo Partito
fascista repubblicano. In tal modo non si può cominciare a ricostruire un movimento rivoluzionario in
Italia.
I tedeschi, ossessionati dal tradimento di Ciano, intercettarono una lettera di Edda al padre in difesa del
marito. La missiva fu consegnata a Hitler. Era aspra, minacciosa, ricattatoria, e il Fuhrer si confermò
nell'idea che Ciano possedesse, non solo un diario segreto, ma anche documenti in grado di provare come
il duce si fosse riproposto di abbandonare i tedeschi al loro destino. Era insomma probabile che Ciano
tenesse in pugno il suocero con l'arma del ricatto nei suoi confronti, e questa poteva essere una ragione
per cui Mussolini si mostrava arrendevole con lui. Era difficile, diceva Hitler, utilizzare un simile alleato
riluttante, anzi infido, ma bisognava far buon viso a cattivo gioco: servirsi oggi di Mussolini e a poco a
poco cominciare a fare una croce su di lui. Goebbels era il più scandalizzato: Che razza di educazione può
aver dato Mussolini alla figlia, se lei osa scrivergli una lettera siffatta, così ricattatoria!.
L'ex duce non era che un Ouisling di Hitler, il quale infatti lo pose d'autorità a capo d'uno Stato fantasma,
cui si diede il nome di Repubblica sociale. Mussolini aveva accettato, pronto a mettere italiani contro
italiani in una guerra civile. Era ridiventato repubblicano dopo essere asceso al potere con la monarchia e
aver ottenuto il titolo di cugino del re. Era troppo, e l'Italia della Repubblica sociale divenne l'Italia
repubblichina su ispirazione di Umberto Calosso che aveva tratto il termine denso di ironia dalle opere
del conterraneo Vittorio Alfieri. I primi ordini per la ricostituzione d'uno Stato fascista, Mussolini li diede
dalla Germania, mentre si preparava a tornare corrucciato in patria.
Edda e Galeazzo con i figli; Vittorio e la moglie Orsola; Rachele, Romano e Anna Maria rimanevano ancora
per breve tempo in Baviera. Alla fine di settembre, Benito era già alla Rocca delle Caminate dove convocò
la prima seduta del suo nuovo governo. Edda, compiendo un viaggio disastroso su una tradotta militare
tedesca zeppa di soldati della Wehrmacht, lo raggiunse qualche giorno dopo. Ancora una volta lo
implorava di intervenire in difesa di Galeazzo, di sottrarlo alla furia dei nazisti, di farlo tornare in Italia,
ma il padre, che si riprendeva dalla prostrazione, le disse freddamente di starsene calma e di andare a
curarsi in una buona clinica i nervi tanto scossi. Alla Rocca c'era anche Pavolini, e Edda ravvisava in lui il
nemico più pericoloso e sanguinario. Non le piaceva lo sguardo, e che dire di quei baffi che gli
conferivano un aspetto ambiguo? Lo ricordava freddo e impassibile, come lo aveva visto una sera alla
proiezione di Via col vento nella saletta cinematografica del Minculpop, quando ancora si mostrava con
Galeazzo umile e servizievole.
Hitler non approvò l'idea di Mussolini, che diceva di voler tornare a Roma, e gli impose come sede del
governo repubblicano una cittadina sulla riva occidentale del lago di Garda, Gargnano, per averlo sotto
controllo, a portata di mano. Nell'intimo Mussolini era grato al Fuhrer che gli aveva impedito di
ristabilirsi nella capitale. I romani non meritavano nulla. Lo avevano immediatamente rinnegato, avevano
abbattuto i suoi busti, divelto le aquile e i fasci del littorio. Ai primi di ottobre si installò alle porte di
Gargnano, in un edificio ottocentesco dei Feltrinelli, marmi rosa alla facciata, parco d'olivi e discesa al
lago. Con il suo arrivo, Gargnano entrò nel mirino degli aerei angloamericani che però non la
bombardarono mai seriamente. All'inizio la villa fu la sua residenza privata oltre che quartier generale
della repubblica; in seguito gli uffici furono trasferiti nella villa delle Orsoline, al centro dell'abitato di
Gargnano, sicché l'edificio dei Feltrinelli divenne, per così dire, la nuova villa Torlonia, mentre la villa
delle Orsoline fu come palazzo Venezia.
Tutto in miniatura. L'amante Claretta arrivò anche lei sul lago e prese alloggio a Gardone nella villa
Fiordaliso che veniva detta la nuova Camilluccia, dal nome della residenza romana dei Petacci.
Nella tragica finzione di un potere inesistente gli uffici ministeriali erano sparpagliati qua e là nella zona
lacustre gabrieldannunziana, e si protendevano in località più lontane, a Padova, Brescia, Venezia, Milano.
La direzione dell'Eiar da Roma fu trasferita nel capoluogo lombardo, e si scelse Maderno come sede del
Partito fascista repubblicano. A Salò, la finta capitale che diede il nome alla repubblica, furono collocati il
dicastero degli Esteri e il Minculpop. In un primo momento Mezzasoma, il nuovo ministro della Cultura
popolare, aveva il suo ufficio in un treno abbandonato su un binario morto d'una vicina stazione.
Nelle grandi stanze di villa Feltrinelli, il duce aveva raccolto quasi per intero la sua famiglia, Rachele e i
figli più giovani, Romano e Anna Maria. Tutti insieme erano ancor più numerosi che in Baviera. C'erano
fra gli altri Vittorio, la moglie Orsola Buvoli con i figli Guido e Adria; c'era la vedova di Bruno, Gina
Ruberti, con la figlia Marina. Edda, che di tanto in tanto arrivava in villa animata dalla furia d'una Erinni
vendicatrice col nome di Galeazzo sulle labbra, viveva invece sotto mentite spoglie nella casa di cura La
Quiete a Ramiola, presso Parma. Nei registri della clinica figurava sotto il nome della contessa Elsa
Santos, in base a documenti contraffatti che le aveva procurato il padre. Dietro quello stesso cognome si
nascondevano anche i figli, ma diversi erano i nomi di battesimo.
Dindina, Ciccino e Marzio ora si chiamavano Margarita, Jorge e Pedro.
I tedeschi avevano trovato strano che suocero e genero, nonostante gli eventi traumatici del 25 luglio,
potessero ancora vivere l'uno accanto all'altro. Si aspettavano ben poco da gente simile, e perciò in un
primo tempo avevano pensato di affidare a Farinacci l'incarico di costituire al nord d'Italia un nuovo
Stato fascista. A ragion veduta Farinacci era rapidamente corso in Germania dopo il voto del Gran
consiglio, ponendosi a disposizione del Fuhrer, forte di essersi differenziato da tutti gli altri gerarchi con
un proprio ordine del giorno. Ma Hitler aveva voluto ancora una volta puntare sul vecchio duce, per
quanto malridotto e avvilito, di cui si fidava più di ogni altro capo fascista. Ancor prima di tornare in
Italia, l'esumato duce annunciava la costituzione del Partito fascista repubblicano richiamandosi alle
origini sansepolcriste, rivoluzionarie e sociali del 1919.
A centinaia di migliaia i soldati italiani, sorpresi a loro volta dalla notizia dell'armistizio, si sbandavano.
Nell'illusione che almeno per loro la guerra fosse finita, e poiché nessuno sapeva dare ordini, decisero da
soli che fosse l'ora di tornarsene tutti a casa. Dov'era il re? Dov'era Badoglio? Dov'era l'esercito? Ben
pochi riuscirono a salvarsi, in molti furono catturati dai tedeschi e tradotti in Germania.
Anche Napoli, come Roma, era sotto il tallone nazista.
Gli invasori reclamavano che i giovani dai diciotto ai ventitre anni rispondessero a un bando di
reclutamento. I napoletani mancarono all'appello, per cui il nemico si sfogò in rastrellamenti e
rappresaglie. In quel cruciale mese di settembre la popolazione partenopea trovò la forza di ribellarsi, di
resistere per quattro giorni e di aprire le porte della città agli alleati che arrivavano vittoriosi. Affamati e
stracciati, i soldati tedeschi arretravano. Ma lo facevano orgogliosamente, dicevano di andare Avanti!
Avanti!. Si ritiravano e distruggevano, facevano saltare ponti e linee ferroviarie, strappavano a una a una
le traversine dei binari. Rubavano il pane ai contadini, li depredavano di tutto, portavano via pecore e
galline, frugavano dovunque in cerca di cibo, sicché il popolo italiano, pur ridotto allo stremo, sfamava gli
invasori.
Edda riuscì a tornare in patria. Rientrava con l'idea di recuperare le agende segretamente affidate alla
suocera Carolina. Ma a metà ottobre, prima ancora di riapparire in Germania dove trattare lo scambio fra
i diari e la libertà per l'intera sua famiglia, Galeazzo era stato inaspettatamente ricondotto in Italia, senza
che gli dicessero quale sorte gli fosse riservata. Ancora nutrendo l'illusione di poter strappare a Hitler
una sorta di perdono, il conte aveva perfino fatto sapere di essere disposto ad arruolarsi come aviatore
volontario nelle file della repubblica di Salò. Non era egli un colonnello d'aeronautica?
Fu tutto inutile. E Ciano non tornava come combattente, ma come prigioniero. Prigioniero della
repubblica che,sebbene per disperazione, diceva di voler servire. Prelevato da quel Wilhelm Hottl che gli
si era protestato amico, fu tradotto in volo a Verona il 19 ottobre, un martedì, scortato da una decina di
SS. Sull'aereo, uno Junker 52, gli era al fianco una giovane donna bruna, Frau Felicitas Beetz, agente dei
servizi segreti di Himmler, spia di rango perch‚ insignita del grado di maggiore delle SS. Felicitas non
aveva che ventidue anni, il suo vero nome era Hildegard Burkhardt. Lei naturalmente non rivelava a
Galeazzo nulla della sua reale identità e del suo ruolo. Ciano l'aveva incrociata una volta di sfuggita a
Roma qualche mese prima, in luglio, e gli era piaciuta, così snella, elegante, con gli occhi castani, un po'
malinconici. Era stato un attimo.
Chi fra i tedeschi aveva scelto Frau Beetz perché affiancasse il prigioniero nel viaggio di ritorno in Italia,
dimostrava di possedere un considerevole intuito in fatto di debolezze umane. Era insomma certo che
Felicitas gli fosse accanto con licenza di lasciarsi amare nel tentativo di estorcergli gli ormai famosi diari,
ritenuti sempre più pericolosi.
Arrivato a Verona, Ciano fu rinchiuso in una cupa e gelida cella nel carcere giudiziario degli Scalzi che era
stato nel Settecento un convento dei carmelitani. E un cinghiale ferito aveva detto Galeazzo del suocero
dopo il voto di sfiducia del 25 luglio. E ora lui si sentiva come un topo in trappola, con un numero di
matricola, 11902. Gli parve che la solitudine e il freddo gli riacutizzassero una vecchia otite e un'asma
bronchiale sempre in agguato. Un paio di settimane più tardi lo raggiunsero nel carcere altri quattro, i più
frastornati fra i diciannove gerarchi che si erano schierati contro Mussolini al Gran consiglio: Tullio
Cianetti, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi. Prima di essere tradotti a Verona erano
stati tenuti sotto chiave a Roma, nel sesto braccio di Regina Coeli quello dei detenuti politici.
La cella di Galeazzo - tre metri per quattro - era contrassegnata dal numero 27 e si trovava al secondo
piano dell'edificio, con tanto di sbarre alla finestra e di spioncino alla porta. Felicitas Beetz aveva la
facoltà di vedere e di conversare liberamente con il prigioniero in ogni momento del giorno e della notte,
senza testimoni. A Edda era invece negata quella consolazione. Potevano visitare Ciano anche un medico
e un prete. Padre Giuseppe Chiot, il confessore del carcere, gli tendeva una mano misericordiosa; il dottor
Arrigo Bottoli gli forniva le pasticche per dormire. Edda invece non poteva vederlo che raramente, ma
aveva la facoltà di scrivergli e di ricevere lettere da lui.
Generosa portatrice dei loro messaggi era Felicitas. I biglietti che Deda e Gallo si scambiavano erano
pervasi da sentimenti affettuosi e talvolta erano percorsi dalla speranza di un destino non troppo
arcigno. Spesso erano semplicemente banali. Non sto né bene nè male, le scriveva Galeazzo, e lei
rispondeva: Potresti ammaestrare un ragno, forse al ricordo d'un racconto di Gor'kij che l'aveva colpita
da ragazza.
A Salò i fascisti si riunirono per la prima volta a metà novembre, ed emanarono un documento
programmatico in diciotto punti cui diedero il nome di Manifesto di Verona a sfondo sociale, ispirato da
Mussolini ed elaborato da Pavolini e Bombacci. Non vollero chiamare congresso la loro rumorosa
assemblea, preferendo una denominazione più militaresca, quella di rapporto nazionale, tanto più che i
convenuti nella sala maggiore del castello scaligero non discutevano, ma urlavano contro i gerarchi che il
25 luglio avevano causato la caduta del duce. Con l'autorità di un'alta corte di giustizia, reclamavano a
gran voce l'immediata fucilazione di Ciano e degli altri traditori, proclamando la sostituzione dei
manganelli della prima ora con i più efficaci mitra.
Edda era sempre sugli spalti a difendere strenuamente Galeazzo da ogni accusa contro tutto e tutti,
contro il padre e la madre, contro i tedeschi, contro i fascisti di Verona, contro gli italiani che definiva un
popolo di schifosi vigliacchi. Sosteneva che il marito aveva votato in buona fede quel maledetto ordine
del giorno che non comportava il rovesciamento di Mussolini ma soltanto una diversa conduzione della
guerra. Diceva che il marito aveva sempre rifiutato le avances del re; che una cosa era il documento di
Grandi e un'altra cosa il colpo di Stato di cui si era fatto promotore il sovrano. Numerosi altri erano gli
argomenti che Deda portava in difesa di Gallo che ora scopriva a se stessa di amare alla follia. Nei giorni
che precedettero la seduta del Gran consiglio, diceva, il marito era ammalato. Potevano testimoniarlo il
medico e chi lo aveva visto a letto. Il professor Ferreri gli aveva riscontrato una grave labirintite che lo
costringeva all'assoluto immobilismo. Alcune amiche di Galeazzo - tra le quali la marchesa Delia di Bagno
- erano andate a fargli visita, e si poteva chiedere loro se lo avevano o no trovato a letto con la febbre.
Delia era pronta a testimoniare che Galeazzo non aveva assolutamente l'aria nervosa di chi stava per
tramare una congiura. Infine, Edda definiva degli sciocchi in mala fede quanti affermavano che Galeazzo
si fingeva infermo per dedicarsi più liberamente alla manovra antimussoliniana.
Dopo l'8 settembre '43, nella Roma interamente nazista, nonostante il tragico clima di provvisorietà che
dominava gli animi, si dava mano a una nuova toponomastica, per cui la popolare piazza Vittorio
diventava piazza della Repubblica fascista e piazza Montecitorio veniva intitolata a Ettore Muti, l'ex
segretario del Pnf che nell'agosto era stato ucciso nella pineta di Fregene dai badogliani nel tentativo di
catturarlo. All'improvviso le autorità tedesche che occupavano la città reclamarono con rabbia la
consegna di seimila ostaggi italiani come rivalsa per la soppressione di sei soldati germanici che si diceva
fosse avvenuta in un ospedale della capitale per mano di antinazisti. Quando si poté dimostrare che la
voce era infondata, i tedeschi non chiesero più ostaggi, ma al loro posto reclamarono seimila persone da
inviare al servizio di lavoro.
Nell'ottobre esplodeva un nuovo gravissimo fatto che aveva per vittime gli ebrei dell'antico ghetto di
Roma, oltre i ruderi e le colonne del portico che Augusto aveva dedicato alla sorella Ottavia. All'alba del
giorno 16, un grigio sabato dell'autunno romano, alcuni reparti di SS armati di mitra si avventarono sul
ghetto agendo da specialisti istruiti alla scuola di Adolf Eichmann. Battevano i mitra contro i portoni.
Sulla base di minuziose liste razziavano casa per casa uomini, donne e bambini, sani e ammalati, e li
caricavano brutalmente su autocarri già pronti a partire. Gli ebrei rastrellati nelle stradine tortuose nei
pressi della sinagoga, al Portico d'Ottavia e in altre zone della città - milleduecento sui dodicimila ebrei di
Roma - vennero stivati su carri merci alle stazioni Ostiense e Tiburtina con destinazione ignota.
La furia delle SS si era rovesciata esclusivamente sugli ebrei di nazionalità italiana, senza badare al fatto
che alcuni di loro erano fascisti convinti i quali non solo avevano donato nel '35 la fede nuziale alla patria,
ma avevano perfino partecipato, nel '22, alla marcia su Roma.
Alcuni capi dell'antifascismo si trovavano a Roma e vivevano in clandestinità essendo tornati dall'esilio.
Le gerarchie ecclesiastiche li ospitavano nelle stanze di San Giovanni in Laterano, a poche centinaia di
metri da via Tasso, sede del quartier generale di Kappler e prigione degli antifascisti. Negli edifici
lateranensi che godevano del diritto di extraterritorialità, peraltro non sempre rispettato dai tedeschi, si
trovavano rifugiati gli esponenti più autorevoli dell'antifascismo italiano, come Nenni, Saragat, Bonomi,
Ruini, Antonio Segni. C'era anche De Gasperi che aveva per anni ricoperto l'incarico di segretario alla
Biblioteca vaticana. Insomma era lì riunito pressoché interamente il Comitato di liberazione nazionale,
l'organismo antifascista che, istituito fin dal 9 settembre, preparava i piani per il ripristino della
democrazia in Italia fra delusioni, incertezze e incredibili colpi di scena.
Il cammino verso una rinnovata democrazia, al termine d'un tragico ventennio, si rivelava assai arduo. In
quel 1943, un anno-chiave nella storia d'Italia, era successo tutto e troppo in fretta. In soli tre mesi, dal
luglio al settembre, si erano sciolti antichi nodi e se ne proponevano di nuovi. Si diceva che gli italiani si
fossero scoperti nemici del fascismo soltanto in quei giorni. Si ironizzava che in Italia vivessero
quarantasei milioni di fascisti e quarantasei milioni di antifascisti. Era una facile ironia che saltava a pie'
pari il dramma di un popolo. Un popolo che lentamente era stato avvelenato, quasi mitridatizzato, da una
dittatura che aveva a poco a poco scoperto il suo reale volto e che a lungo aveva riscosso il consenso di
chi poteva influire sulle masse, come gli agrari, gli industriali, gli intellettuali, il Vaticano.
Attraverso i fatti del '43, che imponevano una svolta decisiva al paese e alla guerra, gli italiani avevano
ricominciato a guardare in se stessi. Le date del 25 luglio e dell'8 settembre - preparate dagli eventi del
10 luglio, con lo sbarco degli alleati in Sicilia, e del 19 luglio, con il primo bombardamento di Roma indicavano come la storia avesse una sua logica e come rispondessero a una logica ben precisa anche i
sentimenti dei popoli.
Pallida e scarmigliata, Edda aveva stabilito il suo quartier generale nella clinica di Ramiola. Nei suoi
movimenti usava sempre il falso nome di Elsa Santos, riuscendo tuttavia a ingannare ben poche persone
e tanto meno i tedeschi con quel trucco puerile. I figli aveva dovuto lasciarli in Germania, nel castello di
Irschenberg. Temendo però che diventassero ostaggi di Hitler, chiedeva al fratello Vittorio di riportarli al
più presto in Italia. Era di un attivismo frenetico. Correva a Gargnano dove affrontava il padre, lo
accusava violentemente, lo minacciava di folli ricatti ma anche lo supplicava a mani giunte.
I loro incontri si facevano sempre più angosciosi. Per qualche tempo padre e figlia erano riusciti a
parlarsi con reciproca, sebbene esile speranza, di poter scongiurare il peggio, ma poi tutto mutò
radicalmente. Era cambiato il clima politico ed era diverso anche Mussolini. C'era un grande stacco fra
quei colloqui di Gargnano e i primi incontri, pur sempre tempestosi di Rastenburg, quando il duce si
mostrava incline a considerare il genero meno responsabile di altri e propenso a ritenere come veri
traditori dell'Idea esclusivamente i Grandi, i Bottai, i Federzoni, i De Marsico. Ora sul Garda le diceva
apertamente di non poter fare nulla¯ per Galeazzo, la cui sorte era legata a quella di tutti gli altri che lo
avevano colpito alle spalle.
Come usare due pesi e due misure? Nessuno lo avrebbe capito, non lo avrebbero capito i nazisti e tanto
meno i fascisti di Verona. Poteva esserci un'unica soluzione: togliersi di mezzo per salvare Galeazzo in
nome dell'infinito amore che aveva sempre nutrito per Edda.
La situazione era precipitata poiché‚ i fascisti repubblicani, riuniti in Castelvecchio, chiedevano
selvaggiamente la testa di Ciano. Agli ordini del nuovo segretario del partito Alessandro Pavolini, essi si
mostravano più intransigenti dei tedeschi. Eppure quel Pavolini, grazie al sostegno di Ciano, era asceso
dall'infima condizione di piccolo ras, ai più alti livelli del regime. Era stato fra gli amici più cari di
Galeazzo; entrambi animati dalla passione per il giornalismo, la letteratura, le donne; compagni nella
guerra d'Africa e nell'aggressione alla Grecia; uniti nell'arrogante corteggiamento di attricette negli
alberghi di Bari e di Brindisi nell'intermezzo delle loro apparizioni sul fronte greco-albanese. Ma Pavolini
si sentiva personalmente tradito dal voltafaccia di Galeazzo, sicché l'amicizia si era tramutata in odio, in
irrefrenabile e feroce brama di vendetta.
La ripugnanza, che con tanta ostinazione Pavolini e i fascisti repubblicani dimostravano nei confronti di
Ciano, rendeva più difficili i pur timidi tentativi del duce di salvare in qualche modo il genero. Nelle
fosche sale del castello veronese, già si preparava il processo agli autori del 25 luglio. Mussolini stesso
era prigioniero degli eventi che incalzavano, come lo era Ciano, e la diversità tra loro era solo apparente.
Se Mussolini non voleva perdere la faccia davanti ai furibondi seguaci, doveva assolutamente concedere
la testa di Galeazzo.
Edda, nella foga d'una delle sue invettive contro il padre, un giorno formulò una preoccupante minaccia:
A che servono le vostre guardie, i vostri controlli? Se io volessi liberare Galeazzo con un colpo di mano,
potrei contare su uomini disposti a tutto!. A queste parole, che giunsero alle orecchie dei tedeschi, seguì
un severo giro di vite, sicché, per ordine del generale Wilhelm Harster – il capo del Sicherleitsdienst nella
repubblica di Salò - la sorveglianza del prigioniero passò dalle brigate nere italiane alle SS. In tal maniera
i tedeschi si garantivano anche contro eventuali tentativi estremi di Mussolini di salvare in qualche modo
il genero, magari favorendone la fuga. Il provvedimento equivaleva infatti a ridurre ulteriormente i già
limitati poteri del duce nei confronti delle autorità naziste. Alla stessa stregua diventava quasi
impossibile per tutti, compresi padre Chiot e il medico, visitare Galeazzo. Soltanto Felicitas era ancora
libera di agire, e una di quelle SS di guardia si prese la briga di fotografarla attraverso lo spioncino,
abbracciata a Ciano.
Da Gargnano, in una spola frenetica, Edda tornava a Verona sperando di poter vedere il marito, ma era
costretta a ripiegare su Frau Beetz cui consegnava per il prigioniero un dolce, un profumo, un libro. Da
Verona tornava a Gargnano, ma il generale Harster ormai le impediva perfino di incontrare il padre, nel
timore che lei potesse ancora influenzarlo a favore di Galeazzo.
In realtà lei nella sua strenua battaglia era assolutamente sola, e meno che mai poteva sperare di ottenere
solidarietà tra i familiari. Vittorio era forse l'unico che avrebbe potuto aiutarla, ma evitava di farlo
temendo la rappresaglia dei tedeschi invasori e dei fascisti repubblicani. Rachele odiava Galeazzo sempre
più intensamente e, del resto, non lo aveva mai amato. Era diventata un'acerrima nemica anche della
figlia. Non voleva più sentir parlare neppure di lei che ancora si permetteva di difendere Galeazzo, un
uomo da disprezzare profondamente, un verme, il vero responsabile delle sciagure che avevano colpito
Mussolini. Galeazzo la detestava a sua volta, la considerava una povera lavandaia.
Ciano aveva spedito un'accorata lettera alla contessa Santos, presso la casa di cura Ramiola, e Deda
subito gli aveva risposto: Caro Gallo mio, finalmente una lettera; la prima. E possibile che tu non abbia
mai scritto?. Era quasi un rimprovero, in tanta agitazione. Quindi proseguiva in tono più disteso: Del
resto anche questa, spedita con francobolli, mi Š arrivata a mano. Censura e celerità non vanno
evidentemente insieme. I bambini stanno bene salvo gli inevitabili raffreddori; anche qui fa un gran
freddo.
Non so dove trovare vestiti per te; furono tutti spediti in Germania e non più rintracciati. Spero di poter
venire a trovarti fra qualche giorno; così mi dirai cosa vuoi. Qui non e facile trovar roba. Forse a Verona
stessa è meno complicato.
Nella conclusione della lettera, oscillava tra speranza, disperazione e disgusto: Nemmeno io ho mente su
che cosa ti o ci aspetta. Almeno questo processo si facesse in fretta così che chi non ha tradito ed ha agito
in buona fede sia riconosciuto innocente e lo si lasci in pace. D'altronde tu ne avevi già tanto le tasche
piene da anni che è certo che di politica non ne vorrai nemmeno sentir parlare. E certo che è il più
appassionante, sporco, ingrato mestiere che esista. Tua madre sta bene ed ha ricevuto la tua lettera. Ti ha
scritto. Gallo mio, sii calmo e sereno e credi che insieme al senso profondo di pena per te ho l'assoluta
certezza che tutto andrà bene se una giustizia esiste. Il mio cuore Š fasciato di disprezzo. Tanti baci
affettuosi da noi quattro. - Edda tua.
Non poté mantenere la promessa di incontrarlo perché ancora una volta glielo impedirono. Non le rimase
che scrivergli di nuovo: Stamani sono venuta a trovarti per la visita settimanale, ma con mia grande
sorpresa e dispiacere mi Š stato detto che non potevo, per superiori disposizioni tedesche, incontrarti. I
nostri non avrebbero fatto difficoltà. Questa sanzione vige per noi soli. Mi scervello per sapere le ragioni
e non riesco a trovarne e trovo tutto ciò ingiusto e crudele. Spero che cambieranno. Gli scriveva ancora il
giorno successivo: Ripensando al fatto di ieri mi e venuto in mente che almeno ti potevo scrivere un
biglietto dalla Prefettura e almeno avresti avuto il mio saluto. Alle volte mi sembra che il cervello non
funzioni più.
Poi penso a te così sereno e stringo i denti e tiro avanti. I bambini d'altronde devono risentire il meno
possibile di questa situazione e per loro devo sorridere. Quando ci sarà il processo? Buon Dio, almeno
fosse presto e alla luce del sole. Basta coi misteri! Gallo caro, spero vederti presto e che il comando
tedesco sia ragionevole, perché quantunque quei colloqui a tre, a quattro, a cinque siano uno strazio,
almeno ci vediamo.
Galeazzo le rispondeva rammaricandosi a sua volta dei mancati incontri: Sono qui, come sempre, nella
cella che tu conosci e che ora il cielo coperto e la stagione fredda rendono ancora più triste. E, ti ripeto,
sotto un aspetto puramente materiale, non si sta male. Le sue lettere erano più elaborate, rispetto a
quelle di Edda: E il tempo che non passa mai. Veramente la noia è una nemica invincibile, sempre
all'agguato, che non riesci a debellare se non per brevi tratti e poi di nuovo ti assalta implacabile,
insinuante, tenace. Eppure sono già passati cinquanta giorni da quando varcai la soglia di questo poco
lieto convento!
Spero che il processo si faccia presto e lo affronterei anche domani se pur sapessi che le difficoltà
dovessero essere di gran lunga maggiori di quelle che la mia coscienza mi indica. Invece niente. Per ora
non si comincia. Concludeva con alcune reminiscenze letterarie d'appendice: Temo che finirò per fare i
capelli bianchi - del resto sono già aumentati - in una nuda segreta, come il Conte di Montecristo o la
Maschera di ferro, prima di sapere qualche cosa.
Edda si recò dal padre per protestare contro le restrizioni che i carcerieri imponevano a Galeazzo,
mentre gli altri detenuti erano trattati più umanamente. Quindi scrisse al marito per dirgli che il duce le
aveva assicurato il suo personale interessamento: Se lo farà o avrà un qualche risultato lo si vedrà.
Del resto non domandiamo niente di speciale: solo che la legge sia uguale per tutti. Ho anche chiesto che
mi siano restituite le tue decorazioni perché francamente, a meno che non se le vogliano tenere in tasca,
non so perché e con quale diritto le tengano. Poi gli parlava di questioni familiari: Tua madre ha avuto un
lieve attacco, ma s'è ripresa benissimo. Le scrivo spesso, per tenerla su, poveretta. I bambini stanno
benissimo e devi pensare a loro con molta serenità. Sono piccoli e quantunque le impressioni ricevute
nell'infanzia siano le più tenaci, pure spero di riuscire a far loro superare questo periodo col minor danno
possibile. Il guaio è che sono intelligenti tutt'e tre. Dovresti vedere come Mowgli gioca a scacchi con la
vecchia contessa sorda. E straordinario. So benissimo come il tuo animo possa essere triste a volte, ma sii
forte. Io ti sono sempre vicina.
Gli scriveva un'altra lettera nella quale, dopo un avvio descrittivo-sentimentale - Piove e gli alberi sono
spogli e il cielo è grigio. Penso a te nella tua cella e non piango solo perché non voglio piangere - gli dava
notizie dei suoi nuovi passi per cercare di alleggerirgli la prigionia: Domani ritornerò al Quartier
Generale per sentire che cosa hanno deciso. Ma temo che avendo altre e molto brutte gatte da pelare, non
abbiano tempo di occuparsi di noi, cioè di quella breve mezz'ora alla settimana, concessa a tutti, e tolta
crudelmente e stupidamente a noi. Debbo dire che il nostro destino è singolare per non dire altro. E il mio
è ancora più singolare del tuo, se non così tragico. Almeno questo inutile, ignobile, ridicolo processo si
facesse in fretta. Non vedo la necessità di tenerti in galera in attesa di giudizio, che se giustizia c'è deve
assolverti.
Gli parlava anche di alcune questioni economiche familiari di cui lei si occupava in quei giorni: Edda
donna d'affari è veramente il limite! Che vita felice mi hai data per anni quando potevo pensare che il
denaro nascesse tra le rose come i bambini. Storie di fate!. E proseguiva: Di me non ho che dirti. Faccio
una vita normale perché non voglio che si veda sul mio viso se soffro o no. Tempi orrendi dovranno
ancora venire e bisognerà essere come delle spade per resistere. Che pena questa nostra Patria!
Che popolo il nostro! Da picchiarlo sulla testa e compiangerlo. Mio caro Gallo, spero di vederti presto,
almeno per Natale: sarebbe ben triste se non ci vedessimo nemmeno allora. Ti penso e spero che il mio
pensiero ti aiuti. Sii sereno e forte.
In attesa del Natale gli inviò ancora una lettera, sempre sotto l'incubo del processo di cui continuava a
non sapere niente di preciso. Lo informava anche di aver interessato al loro caso l'ancor rubicondo
Buffarini Guidi che era diventato ministro degli Interni a Salò: Ti scrivo per augurarti buon Natale.
E quasi fuori posto fare auguri in questi casi; pure spero che la lettera, se ti arriva, ti faccia sentire un po'
meno la tristezza di quel giorno. Ho scritto a Buffarini perché si interessasse per il permesso di venirti a
trovare e spero ancora che mi giunga una risposta. Vorrei tanto vederti nel giorno del Santo Natale; ma
temo che anche questo ci sia negato. Veramente trovo che si esagera e finirò col rivolgermi direttamente
al comandante germanico. Tutto è così vago, non si sa nulla del processo. Veramente ho dei momenti in
cui mi sembra di impazzire. Ma non c'è altro che attendere. Come stai? Hai asma? Ti prego, sopporta con
rassegnazione. Vorrei dirti tante cose, ma mi succede come quelle poche volte che ci siamo visti, che con
tanta gente intorno si finisce col parlare del tempo. I bambini stanno bene. Sono triste e ti voglio tanto
bene e sono più che mai vicina a te.
Quello stesso giorno Frau Beetz informava Galeazzo che anche Claretta Petacci aveva parlato in suo
favore con il duce. Ciano s'intenerì alla sensibilità che la donna gli dimostrava pur sapendo che lui e
l'Edda l'avevano sempre disprezzata e osteggiata. Le scrisse subito una lettera: Signora, Frau Beetz mi ha
detto, ed il vostro pensiero natalizio riesce a commuovermi. Ma non può essere tutto. L'accusa, l'arresto e
il peggio non saranno nulla, se non mi si negherà di provare che non ho mancato all'onore né al dovere.
Voi siete la sola persona al mondo che possa determinare una decisione. Venga presto il processo.
La sentenza è già scontata, ma farò sapere la verità a tutti, e specialmente a lui. Abbiatemi vostro. Claretta
non solo aveva parlato a Mussolini in difesa di Galeazzo, ma gli aveva anche scritto una lettera accorata:
Mio Ben, ho passato una lunga notte terribile. Incubi: apprensioni sangue e rovine. Tra le figure, note ed
ignote, spiccava in una nube rossa quella di Ciano. Ben, salva quell'uomo! Dimostra agli italiani che sei
ancora padrone della tua volontà.
Il destino ci sarà, forse, maggiormente propizio. Ti aspetto presto e ti stringo forte al cuore. Clara.
Con quella lettera Claretta deludeva Hitler che aveva deciso di farla ricongiungere a Mussolini sul Garda
soltanto perchè sperava di averla alleata nell'odio contro i Ciano.
Edda ebbe ancora un colloquio con il padre, e fu il più terrificante. Il farsesco del regime si avviava ad
assumere i tratti d'una tragedia. Le avevano realmente proibito, proprio come lei temeva, di trascorre col
marito un attimo del Natale, soltanto un attimo. Quel mattino, in una Verona sotto la neve, le campane
suonarono a festa per tutti, meno che per lei e per Galeazzo rinchiuso nella sua cella. Fu il più gelido
Natale della sua vita, mentre tornava indietro con in mano i garofani rossi che aveva pensato di offrirgli
nel riabbracciarlo. Alle guardie lasciò un biglietto per lui.
Lo aveva scritto appoggiando il foglio di carta al portone del carcere: Caro Gallo mio, né queste mura né
gli uomini possono impedirmi di esserti sempre vicina. E non bisogna piangere. Vero, Gallo, che non
bisogna e soprattutto non bisogna far vedere che si piange? Baci, Edda tua.
Tornata nella clinica di Ramiola scrisse ancora al marito, ostentando tranquillità: Caro Gallo, ho ricevuto
una tua lettera che ha impiegato undici giorni da Verona a Parma. Un bel record. Fra poco ne parlerà la
"Domenica del Corriere": tipo cartolina che impiega sedici anni da Fornovo a Collecchio. Per venirti a
trovare scrissi a Buffarini il quale non mi ha risposto. Sic transit gloria mundi. E pensare che sino a un
anno fa avrebbe fatto capriole per compiacermi. Di tutto quello che mi Š successo materialmente non
m'importa; ho sempre troppo disprezzato l'umanità perché potesse sorprendermi e non ho mai usato
(per pigrizia) né abusato (per rettitudine) del potere.
Ora che è troppo tardi, se penso quanto avrei potuto divertirmi con tanti bambocci a cui tirare i fili, rido.
Col sense of humour che, nonostante tutto, non mi lascia, immagino e mi diverto. Comunque anche per
rispondere "no" a una donna si risponde. E soltanto questione di correttezza. Ma forse ha molto da fare.
Caro mio Gallo, ti abbraccio con infinito affetto insieme ai bambini e sono sempre come tu mi conosci.
Deda tua. Non aveva visto il marito che tre volte. L'ultimo loro colloquio si era svolto a ottobre nella cella
di Galeazzo. Lui e lei si erano seduti a parlare a bassa voce sulla sponda del letto, mentre un ufficiale della
milizia e un secondino erano a pochi centimetri da loro per ascoltare ciò che si dicevano. L'incontro non
era durato più di un'ora.
Nonostante le loro vite disordinate, e anche quando fra loro il barometro familiare segnava tempesta,
avevano sempre celebrato il Natale insieme, con i figli che a tavola facevano trovare sotto i tovaglioli dei
genitori le loro letterine. Sicché lei nelle prime ore del 26 dicembre, un'altra giornata di pioggia, piombò
nello studio del padre a Gargnano, non più per supplicare ma per aggredirlo con incontenibile virulenza,
fumando disperatamente una sigaretta dietro l'altra, cosa a lui sgradita. Mussolini cercava di schermirsi.
Evocava tutta una serie di cavilli giuridici,le diceva che la giustizia procedeva su binari ben precisi e che
pertanto lui non aveva alcuna possibilità di interferire nell'istruttoria in corso. Ciano aveva una sola
possibilità, aggiungeva, quella di negare tutto, di negare il tradimento del 25 luglio e il tentativo che gli
addebitavano di voler portare l'Italia fuori della guerra.
La reazione di Edda fu terribile, come lei stessa diceva a Vittorio, allibito. Vittorio ne aveva udito le
imprecazioni, le bestemmie, le urla: Ti odio. Ti disprezzo. Non sei più mio padre per me!. Stravolta e
tremante, si era imbattuta nel fratello al termine del colloquio. Rovesciò anche su di lui un profluvio di
improperi e di minacce. Gli gridava: Starete a vedere! Vedrete che cosa sarò capace di fare!.
Sempre tra le urla gli diceva di quell'incontro col padre: Scandendo ogni parola, battendo i pugni sul
tavolo per sottolineare le mie frasi, gli ho gettato in viso tutto quello che pensavo di lui, del suo
atteggiamento, dei suoi alleati tedeschi, che consideravo traditori e nemici, dopo essere stata la loro
alleata più fedele e leale; e, senza tener conto di ciò che papà - papà? - provava, se davvero era costretto a
piegarsi alle richieste degli estremisti fascisti o no, gli ho espresso tutto il mio disprezzo e il mio disgusto.
Mussolini era rimasto come impietrito, e Edda, prima di andarsene sbattendo la porta, aveva ripreso a
insultarlo: Pazzi! Siete tutti pazzi! La guerra è perduta. Tu lo sai benissimo, e in queste condizioni tu lasci
che uccidano Galeazzo. La guerra Š perduta, Š inutile che vi facciate illusioni. L'ho detto in faccia anche a
Hitler. I tedeschi resisteranno ancora qualche mese, non di più. Tu lo sai, vero, quanto io abbia desiderato
la loro e la nostra vittoria, ma adesso non c'è più niente da fare. Te ne rendi conto? Tu, voi, condannate
Galeazzo in queste condizioni?¯. Era tentata di aggredirlo, di saltargli addosso, di graffiarlo. Di prenderlo a
schiaffi, come aveva fatto una volta da piccola, rifiutando una medicina.
Mussolini stava per autorizzare un omicidio in famiglia, ma lei aveva un'ultima carta in mano, quella di
ricattare tutti con la minaccia di pubblicare i diari del marito.
Decise di giocarla fino in fondo. Con l'aiuto di Vittorio- che aveva alfine superato le proprie residue
perplessità e aggirato le ostilità dei tedeschi - aveva mandato in Svizzera i figli, mettendoli al riparo dalle
rappresaglie dei nazisti e dei fascisti. Poi aveva nascosto i diari in una località segreta nei pressi della
frontiera elvetica. Ora si sentiva nella condizione di agire liberamente, e si mosse infatti con epica
determinazione, conscia dell'importanza della posta in palio.
Per una strana coincidenza del destino, si trovò a poter contare soltanto sulla complicità della spia
tedesca Frau Beetz che si era invaghita di Galeazzo e che per lui avrebbe perfino tradito Himmler.
Edda stessa, battendosi per la salvezza del marito, si appoggiava a un suo corteggiatore, il marchese
fiorentino Emilio Pucci di Barsento, valoroso ufficiale d'aviazione. Si parlava di lui come d'un innamorato
corrisposto, e difatti, già ai tempi delle lunghe vacanze capresi d'anteguerra, nel carosello dei pettegolezzi
che allietava le serate dei divini mondani dell'isola, le si attribuiva l'intenzione di lasciare Galeazzo per
sposare quel giovane patrizio. Dunque, gli intrighi di lenzuola, gli amori incrociati, Edda-Emilio, FelicitasGaleazzo, si sollevavano da terra nel porsi il fine nobilissimo di risparmiare una vita umana.
Era davvero possibile ottenere la salvezza di Ciano offrendo ai tedeschi i diari? Chi credeva in questa
trattativa era proprio Heinrich Himmler, che era stato il capo delle SS e di tutte le polizie tedesche e che
ora rivestiva la carica di ministro degli Interni. La stessa Frau Beetz faceva parte del piano per conto di
Himmler, il quale intendeva entrare in possesso delle agende di Ciano e di altri suoi scritti politici per
usarli contro l'odiato Ribbentrop. Difatti Galeazzo, attraverso Hottl, aveva fatto sapere al capo dei servizi
segreti del Reich, Ernst Kaltenbrunner, che i diari avrebbero definitivamente screditato Ribbentrop agli
occhi di Hitler.
Himmler intendeva naturalmente assicurarsi che le carte servissero ai suoi scopi e perciò, soltanto dopo
averne avuto un assaggio ed essersi convinto della loro validità, avrebbe dato l'ordine di liberare il
prigioniero. Soltanto a quel punto due ufficiali delle SS, travestiti da miliziani neri, avrebbero rapito
Galeazzo conducendolo all'estero, forse in Turchia, forse in Ungheria. Per ingannare il Fuihrer, Himmler
avrebbe finto di aver rinvenuto i diari durante l'inseguimento di Ciano, e avrebbe anche con lui sostenuto
la versione che il rapimento di Galeazzo era opera di fascisti estremisti decisi a eliminarlo con le proprie
mani per impedire che Mussolini gli salvasse la vita.
Vincenzo Cersosimo - giudice istruttore e pubblico accusatore del Tribunale speciale straordinario
istituito per decreto da Mussolini allo scopo di giudicare gli imputati del 25 luglio - aveva già interrogato
Ciano e aveva emesso a suo carico un formale mandato di cattura con l'accusa di aver tradito l'idea
fascista e di aver prestato aiuto al nemico. Al termine delle contestazioni, Ciano era scattato in piedi
esclamando: Roba da pazzi! Accusate me. Eppure proprio io sono forse stato il solo in Gran consiglio a
sostenere la necessità di continuare la guerra e ad esortare vivacemente Mussolini a pretendere dai
tedeschi aiuti consistenti. Mi si muove la tremenda accusa di tradimento: accusa che mi faceva sorridere
nel sentirla dai tedeschi, ma ora mi fa rabbrividire perché mi viene lanciata sul viso da italiani, da miei
fratelli. Che mi fucilino subito, così, su due piedi, senza nemmeno ascoltare la mia voce, ma che non mi
chiamino traditore!.
Ciano sperava ancora di potersi salvare seguendo questa linea di difesa e, in preparazione delle udienze
pubbliche del processo, scrisse un memoriale difensivo da leggere in aula. La speranza era però assai
tenue. Questi fogli non fermeranno le pallottole¯, disse infatti al secondino Pellegrinotti. In quei giorni
scrisse anche un'introduzione ai diari e due lettere. La prima delle missive era indirizzata a Vittorio
Emanuele terzo e l'altra a Churchill. Si rivolgeva al sovrano dicendogli di essere in attesa d'un giudizio
che si sarebbe certamente risolto in un assassinio premeditato. Gli confermava devozione e fedeltà; gli
riconosceva altresì il merito di aver sostenuto un'eroica lotta per impedire l'errore e il crimine d'una
guerra al fianco dei tedeschi. Tutte le colpe ricadevano su un uomo, su un uomo solo, Mussolini, che per
torbide ambizioni personali, per sete di gloria militare aveva premeditatamente condotto il paese nel
baratro¯. Poneva infine sotto la sua alta protezione la propria famiglia.
Nella lettera al premier inglese, nella quale si dichiarava grande ammiratore della sua crociata, negava
per prima cosa di essere stato un complice di Mussolini. Sosteneva che era vero tutto il contrario e quindi
rifaceva la storia degli ultimi avvenimenti: Se nell'agosto scorso scomparsi da Roma, fu perché i tedeschi,
avendomi fatto credere alla imminenza di gravi pericoli per i figli, col pretesto di condurmi in Spagna,
s'impadronivano di me e mi condussero prigioniero in Baviera. Adesso, da tre mesi sono nel carcere di
Verona, sempre affidato alla martoriante custodia delle SS. Riteneva imminente la propria fine, ma la
riguardava come una liberazione: Preferisco la morte alla vergogna e alla rovina di un'Italia che sia stata
sotto la dominazione unna. Il delitto che io sono in procinto di espiare è quello di aver assistito,
rimanendone disgustato, alla fredda, crudele, cinica preparazione di questa guerra da parte di Hitler e dei
tedeschi. Sono stato l'unico straniero che abbia potuto vedere da vicino questa odiosa cricca di banditi
prepararsi a precipitare il mondo in una guerra sanguinosa. Ora, fedeli ai sistemi dei gangsters, si
accingono a sopprimere un testimone pericoloso. Ma hanno sbagliato i loro calcoli, perché già da gran
tempo ho posto al sicuro il mio diario e vari altri documenti che dimostreranno i crimini commessi da
questa gente, alla quale poi quella tragica e vile marionetta di Mussolini doveva associarsi per vanità e
disprezzo dei valori morali.
In preparazione della fuga, Edda s'incontrò a Verona con Felicitas che le trasmise due lettere del marito.
Nella prima Galeazzo le comunicava che l'indomani all'alba l'avrebbero prelevata e condotta a Roma con
un'automobile della Gestapo. Nella capitale sarebbe tornata in possesso delle carte che lei sapeva.
Dopo di che, il 7 gennaio alle 21, loro due si sarebbero incontrati sulla carrozzabile che da Verona porta a
Brescia, all'altezza della pietra miliare che indica il chilometro dieci. Lei avrebbe proseguito per la
Svizzera dove il marito l'avrebbe in seguito raggiunta. Nella seconda lettera le illustrava altri particolari
del piano: lei avrebbe dovuto consegnare ai tedeschi esclusivamente le sue carte intitolate Colloqui e che
aveva preso nella casa romana dello zio Gino Ciano in cui erano custodite, senza toccare i documenti
raccolti nel fascicolo Germania. Ma il giorno stesso in cui aveva ricevuto le due lettere del marito, Edda
cadde ammalata. Immobilizzata a letto con la febbre alta, non poté partire alla volta di Roma, e in sua
vece dovette recarsi nella capitale il marchese Pucci per compiere in suo luogo una parte della delicata
missione concordata con Felicitas.
I tedeschi che partecipavano all'attuazione del piano avevano nel frattempo giudicato degne di nota le
prime carte di Ciano e avevano quindi dato il via al proseguimento dell'operazione - cui si era attribuito il
nome di Operazione Conte -, confermando il prestabilito incontro del 7 gennaio fra Edda e il marito
finalmente libero. I protagonisti della vicenda gi… pregustavano il successo finale, ma l'abbraccio, a
suggello della riconquistata libertà di Galeazzo che doveva avvenire sulla carrozzabile Verona-Brescia,
non si verificò. All'ultimo momento qualcuno aveva svelato il piano a Hitler, forse un nemico occulto del
pur potente ministro degli Interni Himmler o forse lo stesso Ribbentrop, per cui il Fuhrer, avvampando
d'ira, aveva minacciato di far fucilare chiunque risultasse implicato nella sciagurata vicenda.
Edda, scortata dal fedele Pucci, era già in viaggio alla volta di Como allo scopo di recuperare i diari colà
nascosti, e ancora non sapeva che il suo piano era stato scoperto. Il viaggio, compiuto su una traballante
Topolino a gas metano, fu avventuroso. A sera, in una strada deserta, scoppiarono alla macchina
contemporaneamente le gomme posteriori, sicché Edda e il marchese rimasero appiedati quando non
mancavano che poche ore al grande appuntamento. Fortunosamente sopraggiungeva poco dopo una
vecchia automobile il cui conducente, uno sconosciuto, ebbe la buona grazia di fermarsi a un loro segnale.
Al termine d'una breve discussione non volle però accogliere a bordo che la sola Edda, la quale accettò il
passaggio pur rammaricata di dover lasciare il marchese sul bordo della strada. Era comunque lei che
deteneva i diari e li portava addosso occultati in una fascia a mo' di cintura a contatto della pelle.
L'automobilista si fermò a Brescia sicché Edda, diretta a Verona, dovette scendere dalla macchina.
Era notte fonda e faceva freddo. Passò un ragazzo in bicicletta che la fece salire in canna, non senza
meravigliarsi che una gentildonna in turbante di maglia e pelliccia, intirizzita, affranta e infangata,
vagasse tutta sola a quell'ora in una strada deserta. Edda arrivò con due ore di ritardo al fatidico luogo
dell'appuntamento, chilometro dieci, ma non c'era nessuno ad aspettarla, né mai anima viva si era recata
lì per incontrarla. Fu assalita dall'ansia e dalla delusione. Non sapeva che cosa pensare. L'incontro era
saltato a causa del suo ritardo o i tedeschi di Himmler avevano cambiato idea all'ultimo minuto? O il
piano era stato scoperto?
In un silenzio pauroso, sotto un cielo nero come non mai, attese ancora nascosta nel fossato rugiadoso ai
bordi della strada, sperando ogni volta che dalle rare macchine di passaggio scendesse il marito. Erano le
cinque del mattino quando decise di tornare a Verona. Fermò un camion, si sedette davanti, fra l'autista e
un altro uomo. I due camionisti la guardavano stralunati, uno di loro tentò un rozzo approccio,
toccandole una coscia. Quando giunse alla Kommandantur di Verona che aveva appena subito un
bombardamento aereo, ebbe da Frau Beetz la drammatica nohzia. Felicitas - un nome stridente in tanta
tragedia - le disse che Hitler aveva scoperto tutto. Era davvero la fine. Edda stava per perdere i sensi.
Ma pur con i nervi in pezzi, seppe ancora farsi forza, sorretta dall'idea di dover portare in salvo i diari che
potevano costituire la vendetta postuma del marito, l'arma della sua riabilitazione davanti al tribunale
della storia.
Con la sua ricomparsa alla Kommandantur veronese le SS avevano potuto riprendere il controllo su di lei,
e ora cercavano apertamente e disperatamente di impossessarsi dei diari. Edda doveva perciò metterli
nuovamente al sicuro, raggiungendo in qualsiasi modo la Svizzera. Ma essendo braccata dalle SS, come
sfuggire alla loro vigilanza?
Si mostrò in preda a una crisi nervosa, e chiese di tornare nella clinica di Ramiola dove i tedeschi la
ricondussero convinti di avere a che fare con una pazza pericolosa. Lì dentro Edda attese pazientemente
il momento buono per agire. Così una mattina affisse alla porta della sua camera un cartello con la scritta:
Ho preso un sonnifero, si prega di non disturbare per nessuna ragione. Il piantone tedesco non si mosse
dalla porta per molte ore, e alla fine, quando l'aprirono, trovarono la stanza vuota. Edda si era calata nella
strada da una finestra, ed era fuggita con l'aiuto del suo amico Pucci.
A Pucci, prima di espatriare, consegnò due forti lettere indirizzate al padre e a Hitler. Scrisse anche al
capo del Sicherheitsdienst, il generale Harster. Nelle missive minacciava nuovamente terrificanti ricatti,
non avendo ancora perso la speranza di salvare il marito. Avrebbe voluto snaturare il suo sesso,
diventare un uomo, ed essere vigorosa nel braccio e nella mente per colpire tutti con ferocia.
Implorava il cielo affinché la rendesse crudele. Era una lady Macbeth che gridava: Spiriti che vegliate sui
pensieri di morte, venite al mio seno di donna e prendetevi il mio sangue in cambio del vostro fiele.
Al generale Harster scriveva: Per la seconda volta mi sono fidata della parola dei tedeschi, col risultato
che voi conoscete. Ora basta. Se ciò che mi è stato promesso non verrà mantenuto, scatenerò la più
tremenda campagna contro l'Asse e farò uso di tutti gli incartamenti e le prove in mio possesso e di tutto
ciò che so. Ecco le mie condizioni: entro tre giorni dal momento in cui la signora B.[Beetz] vi consegnerà
questa lettera, mio marito dovrà trovarsi davanti al comando militare di Berna, accompagnato dalla sola
signora B., fra le 10 del mattino e le 5 del pomeriggio Se questo verrà fatto in completa lealtà, ci
ritireremo a vita privata e non si sentirà mai più parlare di noi. I diari verranno consegnati lo stesso
giorno da mio marito alla signora B..
E a Hitler: Fuhrer! Per la seconda volta mi sono fidata della vostra parola e per due volte sono stata
ingannata. Soltanto il fatto che i soldati italiani e tedeschi sono caduti fianco a fianco sui campi di
battaglia, mi ha sinora trattenuta dal passare al nemico. Se mio marito non verrà liberato alle condizioni
che ho specificato al vostro generale, nessuna considerazione mi tratterrà più. Già da qualche tempo i
documenti sono nelle mani di persone autorizzate a farne uso, e non solo se fosse accaduto qualcosa a
mio marito o a me, ma anche ai miei bambini e alla famiglia.
Ma se, come spero, le mie condizioni saranno accettate e noi saremo lasciati in pace, nel futuro voi non
sentirete più parlare di noi. Mi dispiace di dover fare questo passo, ma voi mi comprenderete. Edda Ciano
Si firmò Edda Ciano anche nella lettera al padre, come a dirgli che rifiutava il cognome di Mussolini da lui
infangato per essersi asservito a Hitler. Galeazzo infatti un giorno le aveva detto che Mussolini avrebbe
sempre fatto tutto ciò che il Fuhrer gli avesse chiesto di fare. Adesso lei gli si rivolgeva chiamandolo col
suo titolo ufficiale: Duce, ho atteso fino a oggi che tu mi dimostrassi un minimo sentimento di umanità e
di giustizia. Ora basta! Se Galeazzo non sarà in Svizzera entro tre giorni secondo le condizioni che ho
fissato con i tedeschi, tutto ciò che so, con prove alla mano, lo userò senza pietà. In caso contrario, se tutti
noi Ciano saremo lasciati in pace e sicurezza (dalla polmonite all'incidente d'auto), non sentirete più
nulla di noi.
Questa tragica lettera indusse Mussolini a parlare dell'imminente esecuzione del genero con Wolff, il
generale delle SS. Il parere del Fuhrer, gli rispose Wolff al telefono, è di considerare il caso Ciano come
una questione di politica interna esclusivamente italiana. Le autorità tedesche presenti in Italia non
devono occuparsene, e per questo motivo, come comandante delle SS in Italia, non sono autorizzato a
esprimermi. Mussolini chiese: Ma, in via confidenziale, voi che cosa ne pensate personalmente?.
La questione, a mio avviso, si riduce a questo: voi Duce, dovreste assoggettarvi al ricatto e concedere la
grazia a vostro genero? Voi, generale, che cosa fareste? Se fossi in voi non cederei. Che cosa ne pensa il
Fuhrer? Il Fuhrer non crede che la sentenza verrà eseguita.
Quindi la mancata esecuzione diminuirebbe il mio prestigio agli occhi del Fuhrer? Sì, Duce, e di molto.
Galeazzo sapeva che tutto era finito. Lo sapeva prima di Edda, e spesso ripeteva come in un ritornello al
prete o ai carcerieri: Il duce non vivrà a lungo. Anzi morirà peggio di me!. Attraverso Felicitas aveva
ricevuto dalla moglie una fiala. Credeva che contenesse cianuro di potassio, e non gli era arrivata che
acqua. Sicché non poté scegliere come morire. Le missive di Edda portavano la data del 10 gennaio del
nuovo anno, e le udienze del processo, di quella tragica pagliacciata, come gridava Galeazzo mentre lo
trascinavano davanti ai giudici nella lugubre sala di Castelvecchio, erano cominciate l'8 mattina. I tre
giorni di cui parlava Deda nelle sue ultime lettere disperate non fecero in tempo a trascorrere, giacché
l'11 gennaio Galeazzo, insieme ad altri quattro congiurati, cadeva sotto il piombo del plotone
d'esecuzione, nello spiazzo del poligono di tiro di San Procolo fra larghe chiazze di neve e folate di vento
gelido, dopo due mesi e ventitre giorni di prigionia. Edda non aveva potuto incontrarlo che tre sole volte
durante l'intera detenzione.
A cavalcioni sulla sedia dei condannati a morte, le mani legate alla spalliera, Galeazzo mostrava la schiena
ai trenta militi della guardia repubblicana coi moschetti spianati.
Era un traditore! Indossava il soprabito color nocciola di Caraceni. Prima che partissero i colpi fece in
tempo a volgere la testa indietro - per un attimo con gli occhi sbarrati e perfino incuriositi - nell'ultimo
soffio di vita. Il suo grido implorante: Mamma s'incrociò con quello imperioso del comandante del
plotone: Fuoco!. Cadde, la sedia ruzzolò. Per finirlo dovettero sparargli alla tempia altri due colpi
ravvicinati di Beretta, una Beretta 7,65. Mussolini e Hitler non potevano certo arrestarsi di fronte a quel
delitto se entrambi trascinavano i loro popoli verso un estremo sacrificio, a guerra ormai perduta.
Da due giorni Edda si trovava in Svizzera dove era arrivata nelle vesti di contadina e con i diari in salvo,
dai quali aveva già strappato le pagine in contrasto con l'idea del marito che ella intendeva tramandare ai
posteri. Un'azione forse superflua perché Galeazzo aveva offerto di sé attraverso le quotidiane
annotazioni un'immagine ben costruita per non apparire né un volgare traditore né un ministro di paglia.
Anche a costo di essere insincero come quando, in data 31 marzo '40, si definiva servitore della patria e
del duce. Nella stesura del diario, egli intendeva dare la migliore prova della sua furbizia, qualità di cui
andava orgoglioso. Talvolta agli amici più intimi chiedeva: Secondo te chi è più furbo, io o Mussolini?.
Appresa la notizia della morte di Galeazzo, la contessa chiamò a s‚ Fabrizio, Marzio e Dindina. Disse loro
con doloroso distacco, senza disperarsi: Vostro padre è stato fucilato. Gallo, morto! Ricordava come i
racconti giovanili del marito avessero sempre avuto per tema la morte, ossessivamente. Come aveva
visto giusto la regina Elena!
Ricordava che la sovrana, con le sue doti di preveggenza, proprio nei giorni in cui a Galeazzo il re
concedeva il collare dell'Annunziata, gli aveva profetizzato un nero destino.
Nessuno aveva fatto qualcosa per salvarlo e lui era caduto sotto i colpi d'un plotone d'esecuzione agli
ordini di quel gran fanatico di Pavolini che gli doveva tutto. Che cosa avrà mai pensato Galeazzo di
Pavolini al momento degli spari? Edda avrebbe voluto anche sapere come si era comportato Anfuso in
tutta quella vicenda: certamente avrà fatto l'indiano, ripeteva a se stessa, secondo il colore della sua pelle
e il suo strano modo di camminare strisciando i piedi. Eppure anche Filippo, il bel Filippo, doveva ogni
cosa all'amicizia con Galeazzo. Possibile che non gli era riuscito di dire al Fuhrer una parola in difesa del
vecchio amico e protettore? Il suo tradimento - anche quello di Anfuso era un tradimento - era
cominciato dall'attimo in cui aveva accettato di fare l'ambasciatore di Salò a Berlino, lui che, con la sua
intelligenza diabolica densa di cinismo, aveva avuto la più nefasta influenza su Gallo, uomo
fondamentalmente ingenuo. Così pensava ancora Edda.
Si era rifugiata nel convento delle suore di Santa Croce a Ingenbohl, dove fu al sicuro per alcuni mesi,
mentre il padre le faceva pervenire numerosi messaggi nel tentativo di riconquistarne se non la stima
l'affetto filiale, pur temendo di veder pubblicati da un momento all'altro i famosi documenti del genero.
Aveva ordinato ai suoi uffici di intercettare qualsiasi trasmissione radiofonica, soprattutto le emittenti
elvetiche e angloamericane, per carpire anche la più piccola informazione sulla figlia. Una mattina
ricevette dalla prefettura di Como una comunicazione assai cruda e in stile burocratico: Notizia da fonte
confidenziale segnala che circa 15 giorni or sono, Edda Ciano avrebbe dato segni di alienazione mentale
tanto da indurre le Autorità Federali Svizzere a trasferirla dal convento di Ingenbohl ove pare fosse
alloggiata con i bambini, in una casa di cura per gli alienati nei dintorni di Berna. Si diceva che fosse la
Maison de sant‚. Mussolini tuttavia non se ne allarmò e, in alto a destra del rapporto, scrisse di suo pugno:
E' falso tutto!¯.
Di tanto in tanto, riceveva informazioni più sicure sulle effettive condizioni di salute di Edda, poiché
aveva incaricato un prete, don Giusto Pancino, di recarsi periodicamente a Ingenbohl e altrove per
parlarle e tentare di addolcirla. Il mediatore era stato scelto bene perché don Giustino era un vecchio
amico di lei fin dai banchi della scuola. Nutriva sentimenti fascisti e da ragazzo faceva lo strillonaggio del
Popolo d'Italia. Ora ricopriva l'incarico di parroco in un paesino della Valtellina. Nonostante il caloroso
impegno del sacerdote, Edda si confermava irremovibile nei suoi sentimenti di odio. Agli amorevoli, per
quanto tardivi messaggi del padre, rispondeva sempre più aspramente: Gli dica che la sua situazione mi
fa pena. Gli dica che due sole soluzioni potranno riabilitarlo ai miei occhi: fuggire o uccidersi. Replicando
a un nuovo messaggio del padre, che le dava notizia dell'avvenuta sepoltura di Galeazzo a Livorno, tornò
a insistere sul ripudio del cognome Mussolini e a dirsi convinta che per colmo di sventura anche la
Commissione sugli illeciti arricchimenti durante il Ventennio avrebbe certamente condannato Ciano:
Sarò la moglie di un traditore e di un ladro. E ne sarò straordinariamente fiera. Porto il nome
insanguinato di mio marito con orgoglio: è un onore per me. E questo valga per te, per i tuoi servi e i tuoi
padroni.
Mussolini, che insisteva nel voler recuperare l'affetto della figlia, ordinò al prete di farle ancora una visita
e di consegnarle una sua nuova lettera: Cara Edda, il tanto bravo don Pancino mi ha portato le tue notizie
che attendevo con ansia. Mi rendo conto della tua situazione e spero che un giorno più o meno lontano ti
renderai conto della mia, e personale e politica. Dopo una considerazione alquanto peregrina rispetto alla
gravità del momento (Sulle rive di questo lago tutto appare calmo), aggiungeva: Sono veramente
contento che attraverso padre Pancino vi sia la possibilità di un contatto fra noi sia pure intermittente.
La risposta di lei fu sferzante: L'ingiustizia e la vigliaccheria degli uomini e tua mi hanno fatto tanto
soffrire che ormai non posso più soffrire oltre. Prego solo che tutto finisca presto.
Mussolini, per quel poco che gli era possibile, cercava di proteggerla dai pericoli immanenti e soprattutto
dagli agguati della Gestapo i cui agenti, anche a costo di rapirla nel suo rifugio svizzero, non avevano
rinunciato all'idea di mettere le mani sui temutissimi diari. Don Pancino le riferiva alcune parole del
padre: ®Non credano di fare a mia figlia ciò che hanno fatto a mio genero. Chi tocca Edda tocca i miei
occhi¯. Ma lei si chiedeva se quelle erano parole sincere o volgare commedia.
A Ingenbohl fu tenuta in segregazione per sei mesi. Si consumava nella monotonia di giornate vuote, lei
che era vissuta di irrequietezza e di vagabondaggio. Non amava gli svizzeri, anzi li odiava. Ridicolizzava la
loro passione per i binocoli e le macchine fotografiche. Tutto il giorno non fanno altro che scrutare i
panorami. E poi fanno figli e fotografie ai figli, diceva con stizza. Gli svizzeri la tennero in un convento e
poi la rinchiusero nel manicomio provinciale di Malevoz, a Monthey nel Vallese. Lei protestava:
Approfittate del fatto che soffro di un leggero esaurimento nervoso!. A Monthey poté almeno
ricongiungersi nuovamente ai figli. Lì i Ciano, alias Santos, avevano adottato un nuovo cognome, Pini, che
poi era quello della madre di Galeazzo.
La malattia l'aveva ischeletrita, le erano caduti quasi completamente i capelli. Odiava tutti, e in
particolare i giornalisti che cercavano di strapparle indiscrezioni e confidenze. Scacciandoli, gridava: Non
scrivete altro che sciocchezze, voi altri. Levatevi di torno!. Un quotidiano, Die Nation, pubblicava una
ricostruzione della sua presenza in Svizzera scrivendo che l'avevano sorpresa tra i partecipanti di una
messa nera, di un'orgia degna dei tempi di Nerone, ma lei fece causa al giornale.
Viveva in uno stato di grande eccitazione, esclusi i momenti in cui riandava al giorno più felice della sua
vita, il giorno delle nozze con Gallo. Sempre più frequenti erano i suoi gesti inconsulti e gli scatti d'ira da
nevropatica. Una mattina si arrampicò su un albero del giardino urlando come un'indemoniata frasi
sconnesse. Ora vi faccio vedere io, gridava, che cosa sono capace di fare, poiché mi credete pazza.
Negli attimi di quiete cercava d'immaginare il suo futuro, quando l'avrebbero rimpatriata. E l'avvenire
dei suoi figli. Sarebbe stata certamente inviata al confino per la sua militanza fascista, forse su un'isola.
Lipari andava bene?
Certo, su quell'isola petrosa l'avrebbero tenuta per un po' di tempo rinchiusa in una stanza come
internata civile. Poi le avrebbero consentito a poco a poco di uscire di casa, ma sempre tallonata dai militi
di guardia. Avrebbe però potuto fare i bagni di scoglio, come una volta. Dal confino avrebbe scritto a
qualche amico del padre. Era tornato in auge Pietro Nenni, e avrebbe potuto rivolgersi a lui, romagnolo
dal cuore grande. Avrebbe scritto un memoriale, un'autodifesa, col proposito di dimostrare quanto fosse
ingiusto tenerla confinata.
A chi poteva ormai far del male, la vedova Ciano?
Nell'autodifesa avrebbe replicato a tutti i capi d'imputazione, a uno a uno. Avrebbe ricordato come il
marito, nella sua ultima lettera a pochi giorni dalla morte, le avesse ordinato di recarsi in Svizzera per
rendere pubblici i diari consegnandoli agli americani: Galeazzo voleva che il mondo sapesse la verità, che
a ciascuno toccasse il suo.
Avrebbe rievocato le due lettere da lei scritte al padre e a Hitler con le quali prometteva di consegnare i
diari in cambio della vita di Gallo; avrebbe respinto la generica accusa di essersi ispirata durante il
regime ai metodi e al malcostume fascista. Essendo figlia di Mussolini, diceva a se stessa, non so quale
condotta politica avrei potuto tenere. Lei nel partito non aveva mai avuto alcun incarico, e nel '36, con
grande orrore dell'allora segretario Starace, si erano accorti che non era nemmeno iscritta al fascio:
prontamente le avevano consegnato una tessera calcolandole, per chissà quali meriti, l'anzianità dal
1922, come un'antemarcia, a soli dodici anni. Cosa che avevano fatto anche con Galeazzo.
Nel provvedimento di confino le avrebbero certamente imputato di aver influenzato la politica estera del
regime e di aver spinto l'Italia fra le braccia di Hitler, e allora lei avrebbe risposto che la politica sia
interna sia estera, era sempre e unicamente ispirata dal padre ed eseguita dai suoi collaboratori. Avrebbe
sostenuto che il suo ruolo era assai semplice: come moglie del ministro degli Esteri non poteva non
attenersi alle direttive che le venivano impartite. Ed erano direttive esclusivamente mondane, in base al
precetto sempre esatto, che molto si ottiene dopo un buon pranzo, ottimi vini, bella casa e piacevole
compagnia. Avrebbe dichiarato di non aver mai parlato di politica con gli ambasciatori, i ministri e gli
stranieri che frequentavano il suo salotto. Si sorprendeva a ricordare quanto in contrasto con tutto ciò
Galeazzo aveva sostenuto nei suoi diari. Anche Edda aveva scritto il marito è stata a Palazzo Venezia e,
infervorata com'era, ha detto al Duce che il Paese vuole la guerra e che il prolungarsi della neutralit…
sarebbe il disonore.
Nel memoriale avrebbe ridotto ai minimi termini la portata dei suoi incontri con Hitler del '42. Avrebbe
messo in rilievo come già l'anno successivo tutto fosse radicalmente cambiato, in peggio. Era sì tornata
nel '43 in Germania, ma quello era stato un soggiorno forzato: tutto si era svolto sotto la stretta
sorveglianza delle SS e della Gestapo dando inizio all'orribile vicenda che avrebbe portato all'uccisione di
Galeazzo. I tedeschi avevano cominciato a considerarla una nemica e i loro rapporti non superarono più
la stretta cortesia. Niente discorsi politici, dunque, anche perché non sapeva parlare tedesco, e sarebbe
stato assai difficile poter fare ciò che le si imputava di aver fatto senza conoscere quella lingua.
Avrebbe respinto nettamente l'accusa di aver svolto un qualsiasi ruolo politico e di aver asservito il suo
paese ai tedeschi. Era assurdo pensare che fosse stata sufficiente la sua personale simpatia nei confronti
della Germania per indurre Mussolini a stringere un'alleanza con Hitler. Che cosa potevano mai
significare quelle due o tre foto che il Fuhrer le aveva donato con dediche calorose? Mai aveva svolto
missioni segrete. Le sue visite in Germania e altrove erano viaggi di divertimento privi di significato
politico. Naturalmente, dato il suo nome, era avvicinata in ogni paese dai personaggi più in vista, ma tutto
si risolveva nella solita gentilezza mondana. Solo una volta, nel '35, il padre l'aveva inviata a Londra con
una missione: Fai intendere ben chiaro a tutti che noi andremo in Abissinia.
Non aveva mai avuto alcun interesse per le questioni politiche, tanto che, anche negli anni più fortunati
del regime, partiva da Roma proprio per non sentire tutte quelle chiacchiere. Malediceva la politica, nella
quale a malincuore aveva dovuto vivere; aveva avuto soltanto un pensiero, starne il più lontano possibile,
e non capiva perciò come si fosse formata l'assurda leggenda che lei era la ninfa Egeria e l'eminenza
grigia del regime. Non sapeva nemmeno di godere di quella reputazione, e lo aveva appreso soltanto in
quei mesi in Svizzera con sua profonda sorpresa. Avrebbero potuto insinuare che l'avevano vista
partecipare a qualche ballo sull'isola del confino. La sua risposta era già pronta: A poche donne è toccato
il destino di ballare in compagnia di quattro carabinieri con il fucile mitragliatore a tracolla. Avrebbe
sferrato un ultimo colpo nel suo memoriale, ricorrendo alla mozione degli affetti: se aveva sbagliato,
aveva duramente scontato i suoi errori: dal '43 la sua vita era un terribile dramma, un calvario, e non le
rimaneva altro al mondo che i suoi tre bambini, figli avuti dal povero Galeazzo. Chiedeva perciò
comprensione e pietà.
Non poteva sperare che scegliessero Capri, la sua Tahiti sognata, come luogo del confino. Sarebbe stato
un sollievo nella disgrazia. Ricordava quanto le aveva detto un giorno di pioggia Axel Munthe: A Capri il
tempo non è mai brutto. Può essere cattivo, ma brutto mai!. Lui aveva la bianca villa del Castiglione: poca
cosa, e sarebbe riuscita a salvarla. Avrebbe difeso strenuamente quelle mura che Galeazzo le aveva
lasciato nel testamento scritto dal carcere degli Scalzi. Lì aveva il mare, ai bagni di Tiberio, e un vecchio
amico, Chanteclair, il gioielliere di via Camerelle. Quell'uomo era sempre stato la sua consolazione, e
sarebbe potuto tornare ad esserlo, più di prima. Con lui avrebbe ritrovato l'antica spensieratezza;
insieme avrebbero fatto un viaggio intorno al mondo raggiungendo luoghi sconosciuti. Parigi era la città
che più di ogni altra l'attraeva e che non aveva mai visto. Sentiva risorgere in lei un antico nomadismo,
quello degli anni dell'infanzia quando voleva fuggire con gli zingari attendati nei prati di via
Castelmorrone a Milano.
Quale sarebbe stato l'avvenire dei figli? Sarebbero entrati in politica, Ciccino e Marzio? Come in una sfera
di cristallo, con lo stesso potere d'una veggente dei carmi nibelungici, scorgeva un fosco destino per
Marzio, un bambino macilento nonostante la fierezza del nome. Si rivolgeva un interrogativo dietro
l'altro. Avrebbe girato a vuoto, Marzio, ragazzo frenetico ma inconsistente e fragile?
Sarebbe caduto come lei vittima dell'alcol? Il suo dramma sarebbe sfociato in delirium tremens? Con la
preveggenza dei folli paventava per lui una breve esistenza, una morte prematura. Sarà come i chiodi
sulla mia bara! Pensava del figlio. Per difenderlo dalle sciagure che immaginava incombenti avrebbe
invocato l'aiuto della Madonna, a piedi scalzi e con un cero in mano, come aveva già fatto una volta per
salvare da una grave malattia il piccolo Mowgli.
In Ciccino vedeva un ragazzo sensibile alla musica, sebbene non agitato dalla stessa passione musicale
che animava lo zio Romano. Altre infatuazioni lo avrebbero scosso più fortemente, come un irresistibile
amore tra i familiari. E dire che pensava di farsi prete. Chi avrebbe sposato Dindina? Ma chi avrebbe
realmente e scabrosamente amato? Prevedeva un avvenire tribolato per tutti loro, come vittime
designate di una infernale maledizione marcata da incroci incestuosi e concubinaggi. Qualcosa degno
d'una genia di sciagurati.
Forse avrebbe potuto affidare quei ragazzi a Chanteclair.
Non sarebbe stato facile né per lei, un'aquilaccia senza più artigli, né per quei poveri figli reinserirsi nella
vita di ogni giorno. Sarebbero stati accolti con freddezza dagli amici di un tempo - smemorati, ingrati,
distratti - i quali dovevano a loro volta acconciarsi con la realtà politica nuova che si sarebbe affermata in
Italia, una realtà costruita sull'immane macelleria messicana di piazzale Loreto. Avrebbe potuto
schierarsi con i partigiani. Era tentata di farlo, se non altro perché ogni volta che ammazzavano un
tedesco lei ne era felice. E' così che si fa giustizia!, gridava.
I Ciano, i Mussolini sprofondavano nell'ignominia con quei nomi di lebbrosi, ed erano nomi che la
schiacciavano.
Avrebbero dato più calci a lei che a un pallone. Non le sarebbe stato facile neppure riavvicinarsi a
Rachele, alla vecchia Ele che tanto aveva odiato Galeazzo giudicandolo il responsabile di ogni sciagura.
N‚ se lo augurava quel riavvicinamento, convinta che la madre avesse avuto una gran parte nell'indurre
Mussolini a non muovere un dito per la salvezza di Galeazzo. Aveva sempre pensato che suo padre fosse
un superuomo, ma poi ne aveva scoperto la vera essenza, quella di un omuncolo che si credeva un
gigante: altro che nietzschiano. Aveva perfino lasciato che i tedeschi svuotassero impunemente la Banca
d'Italia. Lui proclamava l'orgoglio di vivere pericolosamente, e allora perché non si era fatto ammazzare
invece di sottoscrivere la sentenza di morte del marito della figlia? Sul Gran Sasso, poi, perché aveva
accettato di farsi prelevare dai tedeschi, sapendo che quella non era una liberazione, ma una nuova e ben
più pesante prigionia? In quanto a se stessa sapeva di non potersi rifugiare nella speranza d'una vita
ultraterrena, trascendentale, essendo priva di ogni ispirazione mistica. E ciò per colpa dell'educazione
paterna al più cieco materialismo.
Erano queste le sue idee, le fantasie offuscate dal presentimento che, fra tutte le disgrazie, le sarebbe
potuto accadere di vivere troppo a lungo e male dopo l'immane naufragio che aveva ingoiato un mondo.
Eppure era già stanca dell'esistenza, come un'eroina dei carmi nibelungici intitolati al suo nome. Una
volta aveva scritto al marito che entrambi dovevano sentirsi come spade pronte ad affrontare un orribile
futuro, ma ora, da sola, non era che un fuscello. La minacciavano l'alcol e il gioco d'azzardo.
Quante volte aveva bluffato al tavolo verde. E non poteva essere un bluff anche la sua vita? L'alcol e il
gioco! Più che liberarsene, ne sarebbe diventata maggiormente schiava.
Forse non era, quella, la peggiore delle sventure poiché i vizi, le veniva fatto di dire, sono gli unici
sostegni della gente disperata, non per dimenticare ma per soffrire con rabbia nelle veglie e nei
vagabondaggi deliranti, nel macerante ricordo dei lunghi giorni trascorsi a scongiurare Mussolini perché
salvasse il padre dei suoi figli. Ci giocherò sopra a tutto questo!¯, diceva illudendosi di aver trovato una
soluzione al suo dramma. Ricordava i versi di un'ode di Kipling che Galeazzo le ripeteva, recitandoli a
memoria: Tener duro quando in te non resta altro / che la Volontà che dice "Tenete duro!". Ma non erano
che versi, la realtà era un'altra.
La polizia politica svizzera, la Bu. Po., controllava ogni sua mossa. Inviava rapporti al governo federale,
chiedeva l'espulsione di un'ospite tanto indesiderata quanto fastidiosa. Lei non aveva più notizie né di
Rachele né della madre di Galeazzo. Stizzosamente intensificava i suoi contatti personali con gli
americani per la pubblicazione del Diario di cui da qualche tempo circolavano alcune versioni apocrife,
ma verosimili. Trattava senza scrupoli con il sagace capo dei servizi segreti americani in Svizzera, Allen
Dulles, e, a negoziato concluso, le pagine delle agende della Croce Rossa furono fotografate e inviate al
governo di Washington che si era impegnato a curarne la pubblicazione negli Stati Uniti. Il 7 aprile del
'45, venti giorni prima dell'esecuzione del padre, Edda firmava il contratto definitivo col Chicago Daily
News, sicché il suo piombo precedette quello del colonnello Valerio. E fu non meno mortale.
Ma la vendetta sgorgata impetuosa dal sangue di Galeazzo non era servita a nulla. Non la ripagava dei
tradimenti che le avevano lacerato l'animo e che l'avrebbero tormentata per il resto della vita. Era inutile
pensare che forse aveva meritato una simile sorte. Seppe per caso la notizia della fine tragica del padre e
di Claretta, mentre febbrilmente stecchita era intenta a un solitario cui chiedeva chissà quale responso.
Aveva l'indispensabile bicchiere di gin a portata di mano, e il lampeggio dello sguardo, ancora
mussoliniano per quanto venato di paura, era nascosto da immensi occhiali neri. Radio Montecarlo
trasmetteva musica da ballo e, quando lei girò la manopola su una stazione italiana, sentì una voce che
diceva: Parla Radio Milano libera. Un immenso corteo di popolo si dirige ora verso piazzale Loreto dove
sono appesi i cadaveri di Benito Mussolini, della sua amante Claretta Petacci e di altri banditi fascisti¯.
Alla notizia parve placarsi, come folgorata da un annuncio atteso e temuto. Poi prese a urlare e a
imprecare in un profluvio di improperi in romagnolo, mentre si abbandonava a risate convulse e
selvagge. I medici a stento riuscirono a quietarla costringendola a ingoiare una manciata di sedativi. I
giornali svizzeri scrivevano che lei quel giorno si era messa a passeggiare allegramente e scarmigliata
nella piazza centrale di Monthey, dopo aver indossato uno sgargiante abito rosso, come per gioire
spudoratamente della morte del padre che aveva lasciato morire il marito. Erano trascorsi quindici mesi
dalla fucilazione di Galeazzo, e lei si cosparse di profumi sebbene li avesse avuti sempre in odio.
Non erano passati che quattro giorni dalla morte del padre e della Petacci quando apprese della
scomparsa non meno drammatica di Hitler e di Eva Braun nel Fuhrerbunker di Berlino. Non ne fu
minimamente colpita.
Aveva da sempre saputo che Hitler si sarebbe tolto la vita in caso di sconfitta. Una volta il Fuhrer aveva
confidato a Galeazzo, conversando con lui al Berghof, di essere certo di vincere la guerra. Ma se per
disgrazia dovessimo perderla, aveva soggiunto, non avrei più alcuna ragione di vivere, e mi ucciderei. Con
la morte violenta di Hitler e con quella del padre avrebbe potuto, anche se amaramente, sentirsi
vendicata, ma tanto grande era la rabbia per la vigliacca esecuzione di Galeazzo che nulla al mondo
avrebbe potuto restituirle la pace. Era ormai una donna senza sorriso.
Nel luglio dell'anno prima aveva avuto un moto di stizza nell'apprendere che Hitler era sfuggito
all'attentato compiuto dal giovane colonnello Klaus von Stauffenberg nella Tana del Lupo. Benché la
bomba gli fosse esplosa a qualche metro, lui, sempre baciato dalla fortuna, si era salvato e non aveva
subito che qualche scalfittura. Perché il padre, che lo aveva raggiunto nella remota Wolfsschanze proprio
il giorno dell'attentato, non colse allora l'occasione per dirgli che non avevano più alcuna speranza di
vincere?
Adesso la spavalda capitale del Terzo Reich, in cui lei aveva creduto, non era più che un cumulo di
macerie assediate dalle truppe sovietiche vincitrici. La Germania firmava la resa incondizionata, così
come gli angloamericani avevano preteso, al termine d'una guerra durata cinque anni, otto mesi e sette
giorni e che aveva sospinto la Wehrmacht nei deserti africani e nelle steppe nevose della Russia con
l'illusione di poter costruire un Reich millenario.
Alle pareti delle case della buona borghesia germanica, di cui era stata più volte ospite, aveva visto
allineati nelle librerie tre volumi cari ai nazisti. Essi erano intitolati Siamo invincibili in terra, Siamo
invincibili sul mare, Siamo invincibili nell'aria, ed ora costituivano una trilogia che rivelava ai suoi occhi il
tragico sapore di una saga nibelungica. Il mito dell'invincibilità si era infranto. La superba Cancelleria
hitleriana e il turrito palazzo Venezia di suo padre avevano ceduto al cospetto d'una povera casetta rossa
di Reims che simboleggiava la sconfitta, come luogo della resa.
I tradimenti di cui lei era stata vittima erano presenti nel suo animo, nella loro eternità. Edda aveva
amato il padre con tutte le sue viscere, e lui l'aveva tradita per un egoismo che soltanto gli uomini politici
sono capaci di portare al parossismo estremo. Aveva ammirato con tutta se stessa Hitler. Per lui e per il
trionfo delle sue idee avrebbe offerto la vita. E che ne aveva ricavato? Alcuni colpi di fucile alla schiena
d'un innocente, lo sventurato Galeazzo, che aveva creduto di operare da patriota per la salvezza del suo
paese. L'aveva tradita anche Hitler. Stritolata fra due tradimenti, l'esistenza di Edda non fu che un povero
modo di sopravvivere miseramente, di continuare a vivere benché fosse già morta.
FINE.
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