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Geografia dei rischi naturali ‐ S. Pinna
La struttura interna della Terra e la Tettonica a Placche
Dato che la Terra ha un raggio di 6350 km, le nostre conoscenze sulla sua costituzione interna si
basano su ipotesi.
Mediante calcoli geofisici sappiamo che la densità media del globo è 5,51*10^3kg/m^3 mentre i
valori della superficie sono inferiori a 3 al centro la densità raggiunge valori superiori a 10.
L'analisi delle onde sismiche prodotte dai terremoti ha provato che la loro velocità varia (in
particolare nella parte liquida del nucleo, che non può essere attraversata dalle onde "S") all'interno
del globo: ciò significa che le onde attraversano materiali diversi.
Dato ciò ipotizziamo che la Terra sia costituita da tre involucri ceoncetrici:
• la Crosta che ha spessore più ridotto nelle aree oceaniche e superiori in quelle continentali (>70
km); la discontinuità di Mohorovicic (o di Moho), scoperta nel 1909, segna il passaggio al mantello
con rocce di densità maggiore.
• il Mantello, diviso in superiore (700 km di profondità) ed inferiore (2900 km) è di materiale più
denso; la discontinuità di Gutemberg collega questo involucro al nucleo.
• il Nucleo, anch'esso diviso tra una parte esterna, composta da materiale di tipo liquido con
densità 9‐10, ed una interna, di materiale solido con densità 12‐13.
‐ la Litosfera è l'insieme della Crosta e del primo spessore del Mantello detto LID (vedi schema 1.1,
pag. 15); struttura rigida rispetto alla sottostante, più plastica.
‐ l'Astenosfera è lo strato più debole sotto la litosfera, secondo alcune teorie esso termina alla
sommità del mantello inferiore anche se una precedente discontinuità suggerisce una profondità
più attendibile di 400‐450 km.
La Tettonica a Placche
La teoria della Tettonica a placche o a zolle, è stata elaborata negli anni '60. Essa descrive i
movimenti delle strutture litosferiche giustificando anche la presenza e la distribuzione di catene
montuose, dorsali e fosse oceaniche, vulcani, terremoti ed altri elementi.
La litosfera è divisa in numerose placche, o porzioni, alcune grandi ed altre più piccole originate
dagli attriti tra le grandi zolle.
Tutte le zolle si muovono in alcuni casi collidendo (con la consumazione di materia) o divergendo
(creando nuovo materiale litosferico) tra loro. I continenti, inseriti nelle relative placche ne seguono
il movimento.
Il motore che consente lo spostamento delle zolle litosferiche è dato da celle convettive di materiale
nell'astenosfera, alimentate da un calore profondo, presumibilmente originato dal decadimento di
isotopi radioattivi. Questi flussi sono analoghi a quelli che si osservano in un liquido messo in un
contenitore scaldato dal basso; essi determinano la tipologia del margine tra placche confinanti che
può essere divergente, convergente o trasforme.
• Divergente: Nei bacini oceanici sono le dorsali, ovvero catene montuose sommerse che
presentano un solco (rift) lungo l'asse longitudinale con una costante attività vulcanica effusiva che
crea nuova litosfera. Un esempio è la dorsale Medio Atlantica che dai fondali artici arriva
all'antartico. In zone continentali la divergenza dei margini crea grandi depressioni di forma
allungata (rift valley) che, come in Africa Orientale, prelude ad una futura zona oceanica. Altri casi di
rift valley sono il Mar Rosso e il Golfo della California. Tutti i margini divergenti sono sedi di
vulcanismo e di attività sismica.
• Convergente: Quando si scontrano due placche oceaniche una discende sotto l'altra, verso il
mantello, attraverso la subduzione. La spinta verso il basso crea una fosse oceanica e crea inoltre le
condizioni per un'intensa attività vulcanica che origina degli archi insulari. Se una placca oceanica
collide con un continentale, quella oceanica si piega e scorre verso il basso dando origine ad una
fossa nei fondali marini, mentre sul lato continentale nasce una catena montuosa parallela alla
costa. Se convergono due placche continentali si creano condizioni diverse dalla classica subduzione
oceanica. La collisione dell'India con la zolla eurasiatica ha determinato il sovrascorrimento di
quest'ultima sulla prima, che però non si è incuneata nel mantello causando il raddoppiamento
dello spessore litosferico con la nascita dell'Himalaya e del grande altopiano del Tibet. In ognuno
dei casi sopracitati, nelle zone di convergenza si verificano terremoti, in particolare nella
convergenza continentale.
• Trasforme: In alcune situazione le placche scivolano l'una a fianco dell'altra senza creazione o
distruzione di litosfera, si parla quindi di margini conservativi. Essi corrispondono a faglie trasformi,
fratture lungo le quali avviene lo spostamento reciproco di due blocchi adiacenti. Le faglie trasformi
caratterizzano le dorsali oceaniche che appiano disarticolate per la dislocazione con andamento
trasversale rispetto al naturale corso della catena. Un esempio noto è la faglia di San Andrea in
California dove le rocce affioranti hanno età diverse per il continuo scorrimento. Questa faglia crea
speso terremoti anche in epoche recenti con conseguenze catastrofiche.
Brevi note sul clima e i suoi caratteri di aggressività
Tempo: stato dell'atmosfera in un determinato momento; è definito quindi dall'insieme degli
elementi meteorologici (temperatura, precipitazioni, nuvolosità, vento, radiazione solare, pressione
e umidità), valutati in un certo istante, mediante diverse grandezze misurabili
Clima: quadro delle condizioni atmosferiche caratteristiche di un luogo, che scaturisce da un'analisi
statistica delle serie storiche di dati meteorologici. Tale quadro sarà perciò definito in base a: I.
valori medi per un certo intervallo temporale; II. variabilità associata alle medie calcolate;
III. valori estremi misurati; IV. caratteri di stagionalità; V. andamenti tendenziali nel lungo periodo
Fattori del clima: tutte quelle cause generali che, agendo sui vari elementi quali temperatura,
pioggia ecc, danno origine ai diversi tipi di tempo e di clima. Essi sono di due categorie:
• Fattori cosmici: quelli che influiscono sulla ripartizione dell'energie solare nella superficie
terrestre: il moto di rivoluzione, l'eccentricità dell'orbita, il moto di rotazione, la forma quasi sferica
della terra e le conseguenti differenze nell'angolo di incidenza dei raggi solari
• Fattori geografici: tutti quelli in grado di agire in modo tale da poter modificare le ipotetiche
condizioni cosmiche: la distribuzione dei mari e terre emerse, la distanza dal mare, le correnti
oceaniche, la distribuzione globale della pressione atmosferica, l'orientamento delle masse
continentali e delle catene montuose, le differenze altimetriche, l'esposizione topografica, la
presenza di laghi, i caratteri del suolo, la vegetazione, le azione antropiche.
IL RISCHIO VULCANICO
Vulcanismo: quell'insieme di manifestazione della dinamica endogena che comportano la fuoriuscita
sulla superficie terrestre di sostanze di vario tipo come lave, elementi frammentari solidi o pastosi,
gas, acque termominerali e fanghi caldi.
Vulcanismo secondario: emissioni di gas (che per condensazione generano le
"fumarole"), acque o fanghi
Vulcanismo primario: eruzioni di lave (attività di tipo effusivo) o espulsione violenta di elementi
frammentari (attività di tipo esplosivo con espulsione di prodotti piroclastici i cui depositi sono detti
"tefra")
Vulcano: qualunque spaccatura della crosta terrestre attraverso la quale i materiali magmatici
possono risalire dal mantello fino alla superficie. Esso è formato da una struttura interna con una
camera magmatica e un condotto che la collega al cratere, ed una esterna chiamata edificio
vulcanico formato per accumulo di materiale eruttato; il cratere è una depressione che rappresenta
la bocca di un vulcano dalla quale il materiale magmatico può arrivare all'esterno, uno è quello sulla
sommità mentre altri possono aprirsi lungo il corpo dell'edifico.
La caldera è una depressione di notevole ampiezza generata dal collasso di una gran parte
dell'edificio vulcanico verso la camera magmatica, a seguito dell'intenso svuotamento.
La distribuzione geografica globale delle aree vulcaniche
Strettamente connesse con le placche litosferiche; forte attività vulcanica nei margini divergenti (rift
valley e dorsali oceaniche) mentre vulcani subaerei sono ai margini della regione pacifica (subduzione
di margini convergenti), la ring of fire.
Sporadici sono i vulcani nell'interplacca, che si formano per estensione della litosfera o per gli hot
spot, punti caldi nel mantello che causano la fuoriuscita di materiale fluido verso l'alto.
Le Hawaii sono un esempio di placca oceanica che si muove per il passaggio sopra un punto caldo,
lo Yellowstone invece è un vulcanismo per hot spot in una zolla continentale.
Tipologie di eruzione e relativi livelli di pericolosità
Eruzione effusiva
Emissione graduale di lava. Non sono pericolose anche se è necessario che tra il vulcano e la zona
urbanizzata vi sia sufficiente distanza dato che non si può intervenire sui flussi eruttati.
Eruzioni di questo tipo sono caratteristiche dei margini divergenti; zone particolarmente a rischio
sono quindi l'Islanda (dorsale medio atlantica) e le Hawaii (dorsale delle Hawaii).
Il Nyiragongo, nella Repubblica Democratica del Congo, è uno dei pochi casi di eruzione effusiva
pericolosa perché ha un lago di magma fuso che, con lesioni dell'edificio, può originare valanghe di
lava (verificatesi negli anni 1977 e 2002 con colate prossime ai 100 km/h, nel secondo caso
raggiungendo anche al città di Kiwu).
Eruzioni esplosive
I magmi ad alto contenuto in silice (magmi acidi) trattengono in soluzione grandi quantità di gas.
Quando nel percorso del fuso verso l'alto si arriva alla saturazione, il gas in eccesso si separa dalla
fase liquida e forma delle bolle che tendono a spostarsi verso la superficie, per poi esplodere una
volta che la pressione esterna sia più bassa di una certa soglia. L'esplosione delle bolle frammenta il
magma in elementi dimensioni variabili, scagliati al di fuori del cratere.
Le eruzione esplosive sono caratterizzate dalla "colonna eruttiva", un getto di elementi piroclastici
grossolani, ceneri e gas che si spinge molto in alto e che, negli eventi più intensi, può oltrepassare di
decine di chilometri il limite superiore della troposfera. L'Indonesia è la zona più a rischio.
Tipi di eruzioni esplosive
La classificazione deriva da vulcani italiani (pliniano= Vesuvio)
Stromboliana: il magma all'interno dell'edificio forma una sottile crosta che ostacola la risalita della
bolle. Quando la crosta salta fuori vengono proiettati piccoli frammenti piroclastici. Dopo
l'esplosione c'è una fase di fontane di lave e colate di media fluidità.
Vulcanica: data la viscosità del magma che trova difficoltà a salire in superficie si creano degli
ostacoli alla fuoriuscita dei gas. Le eruzione sono quindi più sporadiche data l'alta pressione
necessaria a far saltare il tappo di roccia; le esplosioni sono più violente con colonne eruttive di
15‐20 km di altezza.
Subpliniana (VEI= 4): eruzione violenta. Colonna alta 30 km, con caduta di tefra in un'area molto
ampia vicino al vulcano; formazione di flussi piroclastici.
Plininana (VEI= 5): eruzione di estrema violenza. Colonna eruttiva gigantesca con probabile collasso
della parte superiore dell'edificio. I flussi piroclastici devastano i versanti della montagna e le zone
contermini.
Ultrapliniana (VEI= 6‐7): eruzione di eccezionale intensità. Gli effetti dell'eruzione arrivano ad
influenzare l'intero Pianeta perché determinano cambiamenti climatici per l'immissione
nell'atmosfera di polveri in grande quantità.
L'indice di esplosività VEI (vulcanic explosivity index)
Il VEI è un indicatore semiquantitativo elaborato al fine di esprimere la dimensione delle eruzioni
vulcaniche esplosive; si basa sul volume di materiale emesso dal vulcano sotto forma di prodotti
piroclastici; questo dato viene stimato valutando i volumi dei depositi ed esprimendoli in termini di
Dense Rock Equivalent (DRE), ossia non considerando i vuoti. La scala VEI va intesa in senso
logaritmico poiché ogni grado corrisponde ad un evento 10 volte superiore al precedente. Tutte le
eruzione conosciute sono comprese tra 0 (totalmente effusiva) e 8 (esplosioni colossali).
Un VEI 5 fu il St. Helens di Washington nel 1980, un VEI 6 il Pinatubo nelle Filippine, il Krakatoa in
Indonesia e il Santorini nel Mar Egeo. Il Tambora, la più grande eruzione esplosiva di VEI 7, in
Indonesia avvenne nel 1815 con un'emissione di 100 km^3 di materiale e il collasso dell'edificio; la
polvere introdotta nella stratosfera rimase sospesa per vari anni intorno alla Terra raffreddando il
clima (il 1816 è stato definito l'anno senza estate).
I supervulcani e le eruzioni colossali
Il termine supervulcano è stato creato dai media (prima menzione in un documentario della BBC nel
marzo 2005) ed indica quelle strutture contraddistinte da un'enorme caldera e da una camera
magmatica di dimensione proporzionali, ove vi possono avere luogo eruzioni imponenti di VEI 8 ed
emissione di 1000 km^3 di materiale (tuttavia non ne abbiamo osservato alcuno poiché questi
esempi hanno tempi di ritorno lunghissimi).
Il Toba (in Indonesia) ha eruttato 74 mila anni or sono producendo 2800 km^3 di magma (mille
volte l'eruzione vesuviana). Il supervulcano più noto è quello dello Yellowstone che deve la sua
origine ad un punto caldo nel mantello. Potranno ripetersi simili eruzioni come quella del Toba?
Anche se in tempi del tutto incerti sì, con il rischio di veder spazzata via ogni forma di vita.
Fenomeni di pericolo connessi alle eruzioni esplosive
La ricaduta al suolo di prodotti piroclastici (tefra): la cenere vulcanica può contaminare le riserve
idriche, causare tempeste elettriche, danneggiare ogni tipo di macchinari e determinare il collasso
dei tetti e degli edifici per il loro accumulo. Se ingerita la cenere può provocare soffocamento, se
investiti si possono subire ustioni e danni e alla vista.
Flussi piroclastici: valanghe costituite da gas, ceneri vetrose, porzioni di roccia e parti di magma in
stato di fluidizzazione che hanno una forte velocità. Si sviluppano in eruzione di
VEI > 3: a) per il collasso della colonna eruttiva per la riduzione dell'energia esplosiva; b) per
l'esplosione laterale a causa del franamento di una parte dell'edificio vulcanico; c) per l'esplosione
direzione causata da una ostruzione del cratere (di questo tipo fu l'eruzione del
Pelée nella Martinica, che distrusse la quasi totalità della città di Saint‐Pierre).
I surge sono correnti turbolente nelle quali i gas sono volumetricamente prevalenti rispetto alle
particelle solide; spesso si originano dallo scorrimento di colate piroclastiche, di cui rappresentano
in pratica la parte più diluita.
I base surge sono un'espansione laterale concentrica di vapore e materiali solidi che si sviluppa alla
base della nube eruttiva in condizioni di vulcanismo fraetomagmatico (ovvero quando è derivato
dalla sua interazione con acqua di falda oppure per il collasso di una colonna pliniana).
Lahar: forma di rischio idrogeologico originata da eruzioni vulcaniche; consistono in colate di fango
ad elevata densità, derivanti dallo smottamento di prodotti piroclastici incoerenti che si accumulano
lungo i pendii del vulcano e che successivamente si imbevono d'acqua a seguito di piogge intense o
per lo scioglimento di nevi o ghiacci. La frequenza di questi fenomeni è assai elevata perché le
polveri immesse in atmosfera durante l'eruzione agiscono da nuclei di condensazione, favorendo la
formazione delle gocce d'acqua e quindi aumentando la probabilità di piogge. Bisogna notare che
altre colate di materiale fangoso si possono avere anche in presenza di vulcanismo effusivo, quando
la fuoriuscita di lava provoca uno scioglimento di ghiaccio.
I terremoti (molto superficiali): le fasi di intensa attività sono accompagnate da frequenti terremoti
che possono risultare molto pericolosi per il fatto che la posizione degli ipocentri è sempre molto
superficiali (secondo i documenti, anche nel 79 e nel 1631 con l'eruzione del Vesuvio seguirono due
terremoti di magnitudo 5).
Le colate di lava: se nelle eruzioni di forte esplosività la parte prevalente del magma viene
espulsa sotto forma di prodotti piroclastici, quelle di tipo stromboliano e pure vulcaniano sono
spesso accompagnate anche da fasi effusive, con produzione quindi di colate che possono
recare seri danni a fondovalle.
La previsione delle eruzioni
Vi è una notevole irregolarità nella distribuzione temporale delle sporadiche manifestazioni
eruttive di varia intensità con una conseguente aleatorietà nella previsione di tale fenomeni,
tuttavia vi sono dei risultati positivi per quanto riguarda le previsioni deterministiche a breve
periodo.
Elementi di primaria importanza: prevedere un'eruzioni con sufficiente anticipo per predisporre la
procedura di emergenza; l'approccio a tale problema è essenzialmente empirico ed è collegato al
rapporto tra l'attività vulcanica ed altri fenomeni.
Esempi di segnali premonitori:
•
Attività sismica in superficie. Le eruzioni sono precedute da numerosi terremoti
superficiali, spesso di elevata magnitudo. Aumento di terremoti in brevi tempi =probabilità
di eventi vulcanici (1958‐> piano d'evacuazione della regione nell'Asama in Giappone, dato
l'aumento dell'attività sismica tra gennaio‐febbraio e maggio‐giugno e ottobre‐dicembre‐>
l'eruzione è avvenuta dopo il piano d'evacuazione tuttavia non vi è la certezza che anche
per lo stesso vulcano le situazioni si riproducano in modo costante)
•
Movimenti del suolo. Utili segnali premonitori in genere con caratteri di medio‐lungo
termine: iniziale rigonfiamento della parte sommitale dell'edificio vulcanico, cui fa seguito
un rapido abbassamento non appena è iniziata la fase di attività eruttiva.
In alcuni casi i movimenti sono evidentissimi in altri sono impercettibili a occhio nudo,
ma possono essere misurate con apposite strumentazioni.
•
Cambiamenti della declinazione magnetica. Per la variazione di temperatura causate dalla
risalita del magma.
•
Le variazioni nell'intensità del campo magnetico.
•
L’abbassamento dei livelli piezometrici (limite di saturazione dell’acqua) di falde acquifere
superficiali
•
I caratteri delle fumarole (quantità, composizione chimica e temperatura). Salita del
magma=aumento delle temperatura=maggiore emissione di vapori con cambio di rapporto
di concentrazione tra sostanze e diversa volatilità.
•
L'apertura di fratture nel corpo del vulcano
•
La modifica dello stato termico del vulcani
I vulcani italiani attivi
Sul territorio italiano si possono considerare 10 vulcani attivi che hanno cioè dato luogo a
manifestazioni primarie negli ultimi 10mila anni, di cui sei sono nell'area siciliana e quattro in
quella campano‐laziale.
Area Siciliana: Pantelleria, Isola Ferdinandea, Etna
Area Campano‐Laziale: Vulcano, Lipari, Stromboli, Ischia, Vesuvio, Campi Flegrei, Colli Albani
In attività persistente sono solamente Stromboli e Etna, tuttavia si ritiene che anche gli altri possano
produrre eruzioni in tempi brevi o medi, per questo vengono monitorati continuamente.
Pantelleria. L’isola è situata nel Canale di Sicilia, appartiene ad una struttura a rift, costituito da
crosta continentale, e rappresenta la parte emersa di una struttura vulcanica formata da lave e
depositi piroclastici. L’attività eruttiva più recente risale al 1831 in corrispondenza di frattura eruttive
subacquee vicino all’attuale porto. C’è un termalismo diffuso rappresentato da fumarole e da
sorgenti di acqua calda.
Isola Ferdinandea. Nata nel canale di Sicilia nell'estate del 1831, è sopravvissuta solo per pochi mesi
all'azione erosiva del vento e del mare (isola che non c’è). La nascita dell'isola fu preceduta da dei
terremoti e, alla fine di alcune eruzioni si costituì appunto un'isola, di un perimetro di quasi 1 Km.
Etna. Il vulcano siciliano è il più grande d’Europa e tra quelli più attivi del mondo. Le sue eruzioni
avvengono sia in sommità, dove attualmente si trovano 4 crateri, che lungo i fianchi, ove vi sono
circa altri 300 crateri secondari. Fino a tempi recenti si credeva che l'Etna fosse un vulcano
prevalentemente effusivo, viste le emissioni di colate laviche, tuttavia studi recenti hanno rivelato
che questo vulcano è stato anche sede di episodi esplosivi, inoltre può generare significative quantità
di materiale piroclastico che può uscire anche dalle bocche laterali, andando avanti così per mesi,
causando problemi e disagi nelle zone popolate e rappresentando una seria minaccia per il traffico
aereo.
Vulcano. È la più meridionale delle isole eolie, famosa per la sua frequente attività magmatica già in
epoca classica, la struttura dell'isola è data dal collasso di tre diversi edifici vulcanici. La parte più
settentrionale dell'isola è la penisola Vulcanello. Ultima eruzione di Vulcano: 2 agosto 1888‐marzo
1890. Da allora Vulcano si trova in una fase di sonno, che tuttavia si può risvegliare.
Lipari. La più grande isola dell'arcipelago, l'apparato vulcanico è composto da numerosi centri eruttivi
che mostrano un allineamento più o meno analogo a quello di tutta la parte emersa. Lipari è un
sistema vulcanico tuttora attivo, come dimostra la debole attività termale e le fumarole.
Stromboli. Uno dei vulcani più conosciuti al mondo, anche per la sua persistente attività, interrotta
soltanto da episodi occasionali di attività più intensa.
Ischia. L'isola rappresenta la porzione sommitale di un apparato vulcanico che si eleva per circa 900
m dal fondo del mare. La sua attività vulcanica è connessa con le fasi tettoniche a carattere
distensivo che hanno caratterizzato l'evoluzione del margine tirrenico della catena appenninica tra il
Pliocene e il Quaternario. Ultima eruzione: 1302.
Colli Albani. Gruppo di rilievi di origine vulcanica situati a sudest di Roma originatasi circa 600 mila
anni fa, che è conosciuta col nome di Vulcano Laziale. Dato che le ultime eruzioni risalgono a circa
17000 anni fa il vulcano potrebbe rientrare tra quelli ritenuti non attivi, tuttavia lo classifichiamo
tra quelli quiescenti poiché non abbiamo notizie di attività più recenti.
L'area vesuviana: quella a maggior rischio vulcanico del mondo. Non è possibile trovare un’area con
una pericolosità vulcanica elevatissima associata ad una tale vulnerabilità territoriale, elevatissima,
che è sempre andata crescendo (R=P*V).
L’edificio è costituito da due strutture vulcaniche di diversa età: la più antica è quella del Monte
Somma, la cui parte superiore è collassata generando una caldera; la più recente è data dal cono del
Vesuvio, cresciuto all’interno di quest’ultima.
La storia dell’apparato Somma‐Vesuvio riguarda gli ultimi 25 mila anni rispetto ai 400 mila anni fa
dell’inizio dell’attività vulcanica. INGV distingue 5 fasi
1.
2.
3.
4.
25‐19000 anni: eruzioni effusive che hanno costituito il M somma
18‐16000 anni fa: eruzioni di tipo pliniano
8000‐79 d.C.:3 eventi pliniani e almeno 6 subpliniani (tra cui Pompei)
79‐1631: quarta fase (importante poiché siamo stati in grado di usarla come
riferimento), conclusasi con l'eruzione subpliniana del 1631
5. 1631‐1944
La sua storia eruttiva è quindi segnata da 4 importanti eventi pliniani:
‐79: eruzione che portò la distruzione di Ercolano e Pompei dopo: piccole eruzioni effusive e
esplosive, il vulcano dopo alcuni episodi nel XII secolo entra in una fase di attività ridotta per circa 5
secoli
‐1631: la più violenta eruzione dei tempi moderni, ha prodotto dei ripetuti flussi piroclastici che
sono arrivati fino al mare. Ha scatenato una nuova intensa attività che ha comportato un totale di
49 eruzioni
‐1906: eruzione intensa che procurò gravi danni e numerose vittime
‐1944: eruzione importante, ma molto più tranquilla di quella del 1631 e del 79, dopo di essa il
vulcano è di nuovo in stato di Quiescenza a condotto chiuso che tuttora permane ma che è
destinato prima o poi a concludersi.
La vulnerabilità della regione vesuviana
Il vulcano nonostante la sua eccezionale pericolosità appare ormai completamente contornato da
una cintura urbana che tende a occuparne anche parte dei versanti fino a quote considerevoli. La
parte costiera è sicuramente più a rischio rispetto alla zona est, ciò è derivato dal suo carattere
morfologico: infatti dato che la sua forma è derivata dall'espulsione di caldere esplosive, fa sì che la
probabilità di espulsioni nella parte occidentale sia maggiore, ma ciò non significa che non siano a
rischio le altre zone circostanti, basti pensare che nella provincia di Napoli risiedono 3,1 milioni di
persone per una densità di ca 2670 ab/km².
Anni 90: elaborazione di un piano d'emergenza‐> Pianificazione d'emergenza nell'area vesuviana
Elaborandolo si è deciso di far riferimento all'evento subpliniano del 1631 con un VEI 4
(manifestazione violenta)
In funzione quindi dell'eruzione ipotizzata e dei fenomeni che essa comporterebbe si è provveduto
a suddividere il territorio in 3 zone di pericolo:
Zona rossa: Pericolo massimo dovuto ai flussi piroclastici
Zona Gialla: Pericolo relativo (dovuto alla ricaduta di Tefra)
Zona Blu: come la gialla ma con possibilità di inondazioni
Il piano è stato approvato nel 1995, nel 2014 è stata ampliata la zona rossa, dove risiedono circa
700 mila persone.
Onde poter prevedere l'eruzione con sufficiente anticipo, sono continuamente monitorati vari
parametri del vulcano dall'osservatore vesuviano.7 livelli di pericolo (0=stato attuale, 6=inizio vero
e proprio di un'eruzione)
Il piano di emergenza si articola in sei fasi successive:
Fase di attenzione (livelli 1 e 2 di pericolo). Si attiva per variazioni significative dello stato di attività
del vulcano
Fase di preallarme (livello 3 di pericolo). Dichiarazione dello “stato di emergenza nazionale” con
nomina di un Commissario Delegato.
Fase di allarme (livello 4). Implica le operazioni di evacuazione della popolazione a rischio (zona
rossa).
Fase di attesa. Controllo del territorio.
Fase dell'eruzione. Valutazione di una possibile evacuazione della zona gialla a rischio tefra.
Fase successiva all'evento. Collocare nelle zone colpite tutte le strutture necessarie alle diverse
operazioni di protezione civile.
La struttura generale del programma appare abbastanza logica ed adeguata, ma sono le possibilità
reali di una sua messa in pratica che destano perplessità e che hanno suscitato molte discussioni
sul Piano: infatti questa evacuazione deve essere totale e immediata, senza contare le
complicazioni che deriverebbero dal fattore panico ecc.
I Campi Flegrei: un supervulcano nel nostro territorio
I campi flegrei costituiscono un esteso complesso vulcanico che comprende i settori occidentali di
Napoli e l'intera fascia costiera che si affaccia sul Golfo di Pozzuoli, fino a Campo Miseno. Ampia
caldera di forma complessa, generata da due grandi eventi eruttivi che risalgono a 39 e a 15 mila
anni fa: hanno lasciato evidenti tracce nella morfologia del territorio.
Storia eruttiva. 60‐39000 anni fa: 11 eruzioni esplosive e 5 effusive. Al termine di questo
periodo si è verificato un gigantesco evento esplosivo VEI=7 considerato come il più
importante del mediterraneo negli ultimi 200 mila anni‐> determinò la formazione della
Piroclastica tufacea che seppellì quasi tutto il territorio campano. Almeno 9 sono le
manifestazioni avvenute nei campi Flegrei tra 39 mila e 15 mila anni or sono, un intervallo nel
quale, analogamente al precedente, fasi di attività si sono alternate a quelle di quiescenza.
La vulnerabilità del territorio. È impossibile valutare la vulnerabilità di tale zona data la sua
forte urbanizzazione. L'attività magmatica dei Campi Flegrei è testimoniata dalla presenza di
numerose fumarole e da fenomeni idrotermali. La Solfatara è una particolare area craterica
caratterizzata da fumarole di anidride solforosa, getti di fanghi bollenti ed elevata
temperatura del suolo. Altro fenomeno tipico della regione flegrea sono i bradisismi, cioè dei
movimenti verticali del terreno relativamente lenti, come dei lenti terremoti, vengono
percepiti solo mediante delle apparecchiature. Il tempio di Serapide vicino al Porto di
Pozzuoli viene utilizzato per la ricostruzione storica delle oscillazioni del suolo grazie alla
presenza sulle colonne di fori litodomi (molluschi) dalla cui posizione si possono dedurre le
variazioni, relative del livello marino. Un episodio di bradisismo davvero intenso precedette
l'eruzione del Monte Nuovo: il mare si ritirò di quasi 400 m per un innalzamento del mare di
oltre 7 m.
IL RISCHIO SISMICO
Terremoto (o sisma): serie di oscillazioni del terreno, che si succedono per un periodo di tempo che
può andare da pochi secondi ad alcuni minuti, causate da una liberazione rapida ed improvvisa di
energia meccanica nel sottosuolo, che si propaga mediante onde sismiche.
La maggior parte dei sismi è di origine tettonica, cioè conseguenza di movimenti che avvengono
lungo grandi superfici di frattura della crosta terrestre, dette faglie. I forti attriti in gioco
impediscono che una data spinta si tramuti in un movimento continuo, determinando quindi un
progressivo accumulo di tensione elastica; quando si raggiunge il limite di resistenza dei materiali
rocciosi, si produce appunto quella liberazione improvvisa di energia cinetica, che causa le scosse di
terremoto.
Rispetto alla superficie, o specchio, di faglia:
Tetto: la massa rocciosa che sovrasta lo specchio
Letto: la parte sotto la superficie
Rigetto: spostamento verticale
Tipi di faglie:
Dirette: dovute a tensioni distensive della crosta; il tetto si abbassa rispetto al letto, determinando
un allungamento della porzione di roccia coinvolta
Inverse: il tetto scorre sopra al letto per spinte compressive; ne deriva un accorciamento
Trascorrenti: spostamento solo orizzontale
Ipocentro: luogo dove su origina il terremoto, inteso come area dato che viene coinvolto un piano di
faglia.
Epicentro: luogo della superficie terrestre posto sulla verticale dell’ipocentro che corrispondo alla
zona dove il terremoto si manifesta con massima intensità
Onde sismiche
Onde di Volume: che si originano dall’ipocentro
Onde P: le più veloci ad arrivare al sismografo. L’oscillazione è nella stessa direzione dello
spostamento (onde longitudinali per compressione e dilatazione)
Onde S: arrivano per seconde, sono onde trasversali (oscillazioni ortogonali al verso del
moto) per cui non si trasmettono nei liquidi.
Onde di Superficie: che si originano quando quelle di volume incontrano una superficie di
discontinuità fisica (la superficie terrestre); esse sono avvertite come scossa di terremoto.
Onde L (Love): fanno vibrare il terreno sul piano orizzontale in direzione ortogonale rispetto
alla direzione di propagazione dell’onda
Onde R (Rayleight): fanno vibrare le particelle superficiali del terreno secondo un movimento
ellittico, retrogrado in rapporto alla direzione di propagazione dell’onda.
Classificazione dei terremoti in base alla profondità dell’ipocentro
a) Superficiali: fra 0 e 70 km (più frequenti)
b) Intermedi: fra 70 e 300 km
c) Profondi: fra 300 e 700 km
N.B: Oltre 700 km le condizioni di pressione e temperatura non rendono più possibile il fenomeno.
Sismogramma: grafico che scaturisce dalla registrazione del passaggio, nel luogo dove è posizionato
lo strumento, di un treno di onde sismiche; da esso si possono ricavare gli intervalli di tempo che
separano l’arrivo di un tipo d’onda all’altro e l’ampiezza elle oscillazioni che serve per classificare il
terremoto. L’esame di almeno tre sismogrammi ottenuti in tre località differenti serve per
individuare l’epicentro dell’evento.
La distribuzione geografica della sismicità
Per valutare le caratteristiche di rischio di un territorio si utilizza la misura dell’accelerazione
massima del suolo; la pericolosità è espressa in termini di probabilità di superamento di certe soglie
di accelerazione, in un dato lasso di tempo.
La distribuzione geografica del pericolo del territorio varia da aree continentali, quasi del tutto prive
di pericolo, ad aree esposte a grande rischio. Inoltre si nota una forte analogia con il vulcanismo
quindi un’alta probabilità di eventi sismici nei territori lungo i margini delle zolle.
America Settentrionale: pericolo elevato nella fascia occidentale (scontro fra la placca nord‐
americana con la pacifica); bassissima sismicità in gran parte del Canada, mentre nella parte centro
orientale i valori sono più elevati, in special modo nella New Madrid seismic zone, lungo la valle del
Mississippi.
America Meridionale: pericolo lungo le coste pacifiche in diminuzione spostandosi verso Est.
Europa: bassa sismicità al centro e al nord, eccezion fatta per l’Islanda, alta nelle regioni meridionali
con la Francia che invece presenta un sismicità bassa. Italia, le zone balcaniche, tutta l’area dello
Ionio e dell’Egeo, gran parte della Turchia sono ad elevato rischio sismico.
Africa: valori considerevoli solo nella grande rift
Asia: le uniche zono dove la sismicità è assente sono la Siberia e il Kazakistan, bassa nel settore
centro meridionale della penisola indiana e quelli di Nord‐Est e di Sud‐Ovest della Cina. Alta
sismicità in Giappone, nelle Filippine, nella zona dell’Himalaya e a Sud‐Ovest del continente asitico.
Australia: sismicità medio bassa
La geografia della sismicità in Italia
I più alti valori di sismicità si riscontrano nella Sicilia sud orientale, nello Stretto di Messina, in tutto
l’asse appenninico compreso fra la Calabria e l’Umbria meridionale, con l’aggiunta di Veneto
orientale e Umbria (rilievi carnici). La Sardegna in pratica non presenta rischio sismico; Piemonte,
Alto Adige e la Penisola Salentina hanno pericolosità basse. La Toscana è a rischio nella zona
appenninica del Mugello.
Magnitudo dei terremoti
Ritcher è stato il primo a creare un metodo per la definizione strumentale della potenza di un
evento sismico. Nel 1935 ha proposto il calcolo della Magnitudo (M), un parametro ottenuto dalla
differenza tra il logaritmo di massimo traccia di ampiezza (logA) misurata in mm attraverso il Wood
Anderson e un terremoto di riferimento, ovvero un sisma campione scelto da Ritcher che ad una
distanza di 100 km dall’epicentro avrebbe determinato un’ampiezza della traccia massima pari ad
un millesimo di millimetro (logA0):
M = logA ‐ logA0
(Il risultato è un n. decimale che varia da valori negativi fino anche a infinito)
Il parametro introdotto da Ritcher è definito “magnitudo locale” (ML) e richiede l’applicazione della
seguente formula:
ML = Log(A/T) + f(D,h) + Cs + Cr
A= ampiezza del segnale; T= periodo del segnale al sismografo; D= distanza dall’epicentro; h=
profondità dell’ipocentro; Cs e Cr= fattori dipendenti dalle caratteristiche geologiche del sito della
stazione di rilevamento e della regione attraversata dalle onde.
Dopo Ritcher sono stati elaborati altri metodi tutti però accumunati da un difetto ovvero un effetto
di saturazione verso i valori più elevati e quindi la difficoltà a distinguere correttamente i sismi di
grande violenza.
Tale problema è stato risolto nel 1979 con l’introduzione della “magnitudo momento” (Mw), un
parametro riferito al “momento sismico” (M0), cioè un’ampiezza in grado di esprimere la quantità di
energia liberata; esso è esplicabile nella seguente formula:
M0 = µ * A * L
µ= modulo di rigidità delle rocce; A= area della superficie (o specchio) di faglia coinvolta nel
movimento; L= spostamento medio lungo la faglia stessa.
La scala della Magnitudo Momento è stata tarata per adeguarsi sostanzialmente ai valori che
scaturirebbero da quelle messe a punto in precedenza; la classificazione di terremoti di
considerevole energia avviene ormai secondo la Mw (il sisma più forte con Mw =9, 5 si è verifica nel
1960 in Valdivia nel Cile).
Fra magnitudo e numero di terremoti vi è una relazione inversa del tipo:
LogN = α – β * M
(Ergo più i terremoti hanno un magnitudo momento di valore alto meno sono frequenti)
Il sisma più violento in Italia fu quello del 1693 nella parte sud est della Sicilia con Mw = 7,4, seguito
da quello di Messina del 1908 con Mw = 7, 2.
L’energia (erg) liberata nell’ipocentro può essere valutata, in funzione della magnitudo, con
l’espressione:
LogE = 1,5 * M + 11,8
Grazie ad essa sappiamo che il sisma in Valdivia ha sviluppato un energia 120 mila volte superiore a
quella della bomba di Hiroshima.
Scale dell’intensità e carte a isosisme
Magnitudo ≠ Intensità
Magnitudo. Energia liberata nell’ipocentro quantificata secondo una scala di valori continua e
illimitata, la scala Richter.
Intensità. Entità degli effetti del sisma sulle persone, sui manufatti e sull’ambiente stimata sulla base
dei 12 gradi della scala Mercalli.
Quindi vi è un unico dato di magnitudo e diversi valori di intensità nella varie parti del territorio.
L’uso delle scale di intensità permettono quindi di ottenere una distribuzione geografica degli effetti
del sisma, mediante la costruzione delle isosisme.
Scala MCS (Mercalli – Cancani – Sieberg). Scala frutto di un serie di aggiustamenti successivi
apportati allo schema originario della Mercalli
Scala EMS (European Macrosesmic Scale). Scala frutta della commissione sismologica europea,
entrata in vigore nel 1998 con una collaborazione tra ingegneri e geofisici.
Entrambe le scale sono basate su 12 livelli, l’1 si riferisce ad una scossa avvertibile solo con appositi
strumenti e 12 è il livello di una situazione simil apocalittica con la distruzione di ogni manufatto.
A parità di condizioni, con l’aumentare della magnitudo cresce anche il valore massimo della Scala
Mercalli; perciò sono state ricavate delle correlazioni empiriche che legano le due grandezze.
Gutemberg e Ritcher hanno calcolato la seguente formula:
M = 0,67 * Imax + 1,0
Mentre sui terremoti superficiali in area appenninica si utilizza la seguente variante:
M = 0,40 * Imax + 1,69
Attraverso le scale di intensità è possibile ottenere le isosisme ovvero rappresentazioni della
distribuzione geografica degli effetti di un sisma attraverso linee di confine, necessariamente
approssimate, fra zone ove il terremoto si è manifestato secondo due successivi gradi di intensità.
Le isosisme racchiudono quindi aree dove gli effetti del terremoto sono stai dello stesso tipo: i
massimi saranno nella zona epicentrale, mentre valori più bassi si riscontreranno allontanandosi da
essa. Date le condizioni geologico‐tettoniche le isosisme hanno della forme complesse simili a ellissi
o più irregolari, magari lobate.
Lo studio della sismicità e i criteri per la relativa zonazione
Per poter predisporre degli adeguati piani di mitigazione dei rischi è necessario innanzitutto definire
in maniera migliore possibile i caratteri di sismicità del territorio.
Si utilizzano dati strumentali forniti da numerose stazioni appartenenti a reti sismiche (nel caso
dell’Italia l’INGV svolge un apposito servizio di monitoraggio con oltre 300 sismografi) e lo studio
sistematico degli effetti del sisma sul territorio riferito solo agli ultimi 100 anni.
La documentazione storica è un dato altrettanto utile; le informazioni sulla storia sismica di un
territorio vengono raccolto in appositi cataloghi sismici, nei quali ogni singolo terremoto è descritto
in modo sintetico, riportando, se possibile, valori quali: data e ora dell’evento, posizione
dell’epicentro, profondità dell’ipocentro, zona ove si è riscontrata la massima intensità, magnitudo,
effetti sulle persone, eventuali modificazioni indotte sulla morfologia o sull’idrografia, fonti
bibliografiche utilizzate, livello di incertezza dei dati catalogati.
Cosa va tenuto presente negli studi di sismicità? Molto di rado un terremoto si manifesta come una
scossa isolata, quanto piuttosto all’interno di una sequenza sismica costituita da un insieme di
episodi ricorrenti nella stessa zona in un breve lasso di tempo; le sequenze possono essere di tipo
diverso:
. Scossa Principale ‐> Repliche = alla prima scossa (magnitudo elevata) segue sempre un ulteriore
rilascio di energia mediante una serie di eventi di minore intensità.
. Scosse premonitrici ‐> Scossa principale ‐> Repliche: La scossa più violenta è preceduta da altre,
deboli ed in numero sempre limitato.
. Sciame sismico: varie scosse, tra le quali non si può riconoscere un evento principale (in genere
non c’è pericolo).
. Scosse multiple: due o più episodi principali che avvengono anche nell’arco di mesi, possono
essere assai pericolose.
Con le informazioni derivanti dalla storia sismica di una determinata regione è possibile costruire
delle carte tematiche che mettono in luce la distribuzione geografica di alcuni aspetti
particolarmente significativi.
Carta degli epicentri: Riporta i luoghi epicentrali di tutti i terremoti di una certa intensità che si sono
verificati in un determinato periodo.
Carta dei valori massimi di intensità osservati: Può essere costruita secondo il principio delle isolinee,
oppure col metodo a mosaico, adattandosi alla ripartizione amministrativa del territorio.
Per mitigare il rischio sismico, l’azione si deve concentrare sulla predisposizione di particolari
procedure e soprattutto sull’applicazione d i speciali norme per le costruzioni nelle zone che
potrebbero essere interessate dalle scosse di terremoto. Si procede quindi ad una zonazione ovvero
si divide il territorio in basse ai diversi livelli di pericolo.
Macrozonazione Sismica
Riferita a regione relativamente ampie e contraddistinta da un ridotto livello di dettaglio, con
rappresentazioni cartografiche a scala medio‐piccola. Si basa su valutazione statistiche in merito alla
probabilità che in una certa area si manifesti un determinato livello di scuotimento del suolo.
Nei primi anni 2000 è stato completato un inquadramento della zona sismica dell’Italia con
individuazione della zona di massimo pericolo sull’asse appenninico fino alla stretto di Messina.
Microzonazione Sismica
È quella che riguarda le aree strette ed è caratterizzata da un alto livello di dettaglio, con
rappresentazioni quindi mediante carte a grande scala. Oltre che dai fattori che governano la
macrozonazione essa dipende anche da condizioni locali legate alla topografia ed alla geologia dei
singoli siti. Inoltre deve tener conto anche di tutte le possibili amplificazioni delle scosse e di altri
fenomeni di percolo, come la liquefazione che si potrebbero manifestare in diversi luoghi.
Liquefazione del terreno in condizioni sismiche. Perdita totale di resistenza di terreni incoerenti saturi
sotto sollecitazioni statiche o dinamiche, in conseguenza delle quali essi raggiungono uno stato di
fluidità pari a quello di una massa viscosa.
Questo fenomeno avviene di norma in depositi di sabbie fini, sciolte e sature, quando sotto l’azione
di carichi applicati o forze dinamiche, la pressione interstiziale (pressione idraulica presente nel
terreno in conseguenza alla presenza d’acqua) dell’acqua eguaglia quella totale di confinamento,
annullando la resistenza a taglio del materiale. Ne consegue un cambiamento di stato dal solido al
liquido, con il risultato finale che del tutto ciò che sta sopra viene risucchiato in basso: quando
abbiamo terremoti potenti e lungi avviene questo fenomeno per gli sforzi di tagli ciclici che il
terreno subisce.
Se il sisma ha intensità e durata elevate vi è una temporanea condizione di galleggiamento delle
particelle solide nell’acqua di falda, cui seguono, al termine della scosse, l’espulsione dell’acqua
verso la superfice e nuovo depositi dei granuli di sabbia secondo una struttura più addensata di
quella precedente.
Gli effetti prodotti dalla liquefazione possono esser impressionanti: dall’affondamento, al
ribaltamento di edifici antisismici, al cedimento di ponti e viadotti, franamento di interi versanti.
Ci sono alcuni tipi di terreni che per la loro genesi sono particolarmente soggetti a questo tipo di
rischio:
Depositi deltaici recenti, terreni di riporto, depositi palustri, meandri fluviali abbandonati, paleoalvei
(aree dove una volta scorrevano dei corsi d’acqua), terrazzi (marini o fluviali).
Una volta che un terreno va in liquefazione determina una fuoriuscita di grande quantità d’acqua e
il terreno si compatta, provocando l’abissamento (sprofondamento o rotazione dell’edificio).
Il rischio va sempre considerato come il prodotto di una pericolosità e di una vulnerabilità.
Vulnerabilità sismica: per qualificare il grado di vulnerabilità bisogna valutare:
Le caratteristiche costruttive dei vari manufatti
L’educazione e l’addestramento delle persone all’evacuazione
Terremoti con eventi di liquefazioni:
Nigata in Giappone, 1964 (ribaltamento di edifici, abbassamento del livello del suolo)
Alaska 1964
La vulnerabilità verso i terremoti e mitigazione del rischio
Non possiamo prevedere i terremoti, possiamo solo cercare di tenere sotto controllo l'attività
sismica. Esaminando molti casi storici di gravissimi disastri ci rendiamo conto che certe
conseguenze catastrofiche sono state procurate dalla violenza dei sismi, ma ancor di più dalla
vulnerabilità dei territori che avevano colpito.
Il terremoto che aveva causato più vittime della storia: Shaanxi (1556) ‐> oltre (800 mila vittime)‐>
numero ingente di morti dovuto al fatto che gran parte della popolazione viveva in abitazioni
tradizionali (case‐caverne) scavate in roccia molto friabile.
Altri due casi di eventi catastrofici: Terremoto di S.Francisco (1906) e di Messina (1908).
La protezione civile ha realizzato un sondaggio sulla vulnerabilità del territorio italiano:
Ha suddiviso i manufatti secondo le 3 categorie generali di vulnerabilità della scala MSK:
•
Classe A (alta vulnerabilità)
•
Classe B (media vulnerabilità)
•
Classe C (bassa vulnerabilità)
Abbiamo in grande maggioranza del territorio italiano una vulnerabilità elevata.
La previsione dei terremoti
•
Previsioni di tipo statistico: Molto attendibili visto il grande numero di eventi sui quali
basare le stime, anche se sono un po’ più incerte per i terremoti violenti, delle buone
conoscenze sulla storia sismica portano comunque a definire degli scenari piuttosto
chiari. Siamo ancora tuttavia lungi dalle previsioni di un singolo terremoto
•
Previsioni deterministiche: Non siamo ancora in grado di determinare quando avverrà
esattamente un terremoto in modo tale da dare l'allarme alla popolazione. Ci sono alcuni
segnali premonitori per un terremoto molto utili quali: velocità delle onde longitudinali P,
livello del suolo, campo di gravità, resistività elettrica delle rocce ecc.
In tutta la storia della sismologia siamo riusciti a prevedere un solo terremoto‐> Haicheng, Cina
(1975).
Un gruppo di sismologi cinesi, studiando le caratteristiche geologiche di una regione, scoprirono
che quella determinata area sarebbe stata soggetta a un grave terremoto nel giro di un paio di
anni ‐> qualche mese più tardi l'aumento consistente del rumore di fondo condusse a ritenere
che mancassero non più di sei mesi al sisma‐> venne programmato così un piano d'evacuazione e
dichiarato lo stato d'allarme a febbraio a causa dell'aumento d'intensità dei piccoli terremoti: una
volta evacuata la città, la sera dello stesso giorno un terremoto di magnitudo 7 sconvolse la città.
L'evento riscontrò un successo enorme ma va considerato come un evento fortunato: nel 1976 il
terremoto della regione Tangshan rase tutto al suolo: in questo caso i segnali premonitori non
permisero di andare oltre un generico allarme a tempo indeterminato.
La mitigazione del rischio sismico
Direzione più importante per ridurre i rischi‐>edilizia fondata su rigorose norme antisismiche
Importante da non trascurare: importanza dei programmi di educazione della popolazione
Re Ferdinando di Borbone fu il primo nel 1783 ad emanare le prime disposizione antisismiche dopo
le scosse che investirono la Calabria nel febbraio‐marzo di quell’anno.
Lo Stato Italiano pensò a norme antisismiche solo nel 1908 dopo il terremoto di Messina.
Nel 1937 nasce il grado di sismicità S con valore 12 per i comuni classificati nella categoria I che
viene direttamente trasformato in un parametro di progettazione, il coefficiente di intensità sismica
(C)
C = (S – 2)/100
IL RISCHIO TSUNAMI
Tsunami (o maremoto): treno di onde, generate dallo spostamento di un enorme volume d’acqua
nel mare (o eventualmente in un grande bacino lacustre). Esse sono caratterizzate da una lunghezza
d’onda, la distanza tra due creste o due gole, successive, anche di centinaia di chilometri.
In mare aperto il fenomeno è rilevabile solo con apposite strumentazioni in quanto l’ampiezza,
ovvero l’altezza raggiunta dall’onda rispetto al livello marino medio è di norma inferiore ad un
metro. Quando l’onda invece, si avvicina alla costa, la velocità diminuisce a poche decina di km/h
mentre l’ampiezza aumenta, creando dei muri d’acqua.
Run‐up: l’altezza massima, rispetto al livello marino normale, raggiunta dall’acqua sulla terraferma.
Essa dipende da tre fattori: a) l’energia dello tsunami; b) la distanza dal punto epicentrale, cioè dal
punto dove si origina il fenomeno; c) la morfologia dei fondali della costa.
Coefficiente di run‐up: rapporto tra il run‐up e l’ampiezza dell’onda di tsunami nel cuore
dell’oceano.
Run‐up distance: estensione verso l’interno della zona allagata dallo tsunami, influenzata anche
dalla pendenza media del terreno oltre che dal run‐up.
Run‐up massimo: ondata frangente più grande, tra le prime a raggiungere la terra.
N.B. l’azione distruttiva di un maremoto non si esplica in modo istantaneo ma si protrae per tempi
abbastanza lunghi. Il periodo di oscillazione di uno tsunami è di circa 10‐20 minuti con conseguente
devastazione delle fasce litorali per l’alternanza ciclica di trasgressione e regressione dell’acqua
marina, con crescente quantità di detriti veicolati.
Se il maremoto si manifesta con un cavo d’onda si produce una specie di risucchio delle acque base
con il risultato di vedere i fondali più vicini alla costa scoperti; se interpretato correttamente questo
fenomeno è un fondamentale avvertimento dell’arrivo della prima cresta d’onda dello tsunami.
I possibili tipi di genesi di uno tsunami
Il catalogo mondiale degli tsunami GTDB (Global Tsunamis Data Base) riporta 2100 eventi accaduti
negli ultimi 4 mila anni con la seguente percentuale di origine:





75%: sismica
10%: frana
4%: vulcanica
3%: metereologica
8%: non definita
Origine sismica (75%). Gran parte degli tsunami è causata da sismi sottomarini, dotati di
determinate caratteristiche ovvero un ipocentro che non sia troppo profondo, una magnitudo
significativa, di almeno 6,5, e soprattutto che il movimento della faglia sia tale da provocare uno
sposamento verticale del fondo marino in grado di mettere in moto la massa d’acqua sovrastante.
Il run‐up massimo di questi tsunami può difficilmente superare i 30‐35 m, altrimenti il fenomeno è
provocato da frane sottomarine locali, innescate dal sisma (il terremoto del 1964 in Alaska ha
provocato uno tsunami record di 68 m).
La magnitudo dei terremoti potenzialmente generatori di tsunami è di almeno 6,5; il pericolo di
maremoti al di sotto di tale potenza è minimo, mentre oltre la soglia di 8,0 vi è in pratica la certezza
che al sisma si associ uno tsunami.
Il fatto che, tra magnitudo dei terremoti e violenza del maremoto, vi sia una correlazione poco
stretta dipende essenzialmente da tre fattori:



La variabilità dovuta alla profondità dell’ipocentro e alle differenze nei meccanismi delle
sorgenti sismogenetiche:
Le differenze nella localizzazione della sorgente (zone di subduzione, bacini marginali,
pianure abissai ecc…)
La possibilità che prendano corpo meccanismi secondari, quali le frane sottomarine
Tsunami di origine sismica più forti negli ultimi tempi:
Indonesia (26 dicembre 2004). Un terremoto di Mw 9,1 con epicentro a largo delle coste nord‐
occidentali di Sumatra ha prodotto uno tsunami che ha devastato i paesi affaccianti sull’Oceano
Indiano causando un numero di vittime di circa 300 milia unità. Run‐up di 35 m nella zona
epicentrale e di 6‐7 m nello Sri Lanka.
Giappone (11 marzo 2011). Terremoto di Mw 9,0 con epicentro a est dell’isola di Honshu,
devastando l’isola suddetta e Hokkaido. Run‐up di 30 m nelle zone più esposte e esplosione di un
reattore della centrale atomica di Fukushima.
Tsunami causati da frane (10%). Si possono originare sia da frane in ambiente subaereo che
comporti l’impatto di una massa rocciosa con l’acqua, sia da una frano sottomarina. Nel caso di una
subaerea, quando il movimento si sviluppa ad elevata velocità, si possono creare delle ondate
davvero gigantesche con record di valori run‐up. La massima pericolosità si sviluppa in sede locale
dato che la loro energia si dissipa piuttosto rapidamente con l’allontanarsi delle onde dalla
sorgente.
A causa di forti terremoti il rischio di tsunami causati da frane aumenta, un esempio è il terremoto
dell’Alaska del 1964 il cui maggior numero di vittime fu causato da onde nate dal collasso di delta
costieri
Origine vulcanica (4%). Ci sono diverse modalità per la nascita di un maremoto da vulcani:





Collasso della caldera in una struttura vulcanica a contatto col mare
Eruzione esplosiva sottomarina
Flusso piroclastico che impatta sull’acqua con velocità elevata
Frana dovuta al collasso di pare dell’edifico vulcanico, durante un evento eruttivo
Frana per cedimenti strutturali nel corpo dell’edificio vulcanico, relativi all’instabilità che, in
taluni casi, ne caratterizza certe sue fasi evolutivi
Il collasso calderico del vulcano Santorini colpì l’isola di Creta (1630 a.C.), come anche il collasso del
Krakatoa portò ad un’inondazione della zona dello Stretto della Sonda (1883). Uno tsunami causato
direttamente da un’eruzione vulcanica sottomarina fu quello dell’isola di Kuyushu (1781). Lo
Stromboli a causa del collasso di una parte dell’edifico vulcanico ha provocato un violento
maremoto nel 2002.
Meteotsunami (3%). Fenomeni poco noti (tsunami meteorologici ≠ onde di marea di grandi
tempeste marine).
I meteotsunami sono dei maremoti con caratteri, lunghezza d’onda e periodo, analoghi a quelli
degli altri tipi, ma originati da processi atmosferici. Sono connessi a onde atmosferiche di gravità,
cioè a quelle oscillazioni dell’aria che si trasmettono nei bassi e medi strati della troposfera e che
provocano le tipiche increspature delle nubi, talvolta visibili nelle foto satellitari. Queste oscillazioni
dell’atmosfera, dovute a moti convettivi, brusche variazioni bariche, passaggio di fronti, intense
perturbazioni con attività temporalesche, possono creare particolari sistemi di onde nel mare che
tendono ad amplificarsi per fenomeni di risonanza, per poi dar luogo a dei run‐up anche di qualche
metro in insenature di particolare morfologia (molto strette e allungate).
Tsunami orinati dall’impatto di un asteroide. Non i sono conoscenze dirette di maremoti di questo
tipo, per la bassa frequenza degli eventi di impatto di un corpo celeste con la superficie terrestre,
anche se molto probabilmente durante la storia del pianeta ci sono stati episodi del genere
La classificazione degli tsunami. Una prima classificazione può essere fata in base all’entità e
all’estensione geografica degli effetti distruttivi:
Tsunami Transoceanici. Run‐up non inferiori a 5 metri su coste distanti almeno 5 mila km dalla
sorgente; procurano danni significativi nel lato opposto di un bacino oceanico.
Tsunami Regionali intensi. Nella regione prossima alla sorgente hanno causato danni gravi con
vittime
Tsunami Regionali. Danni consistenti nella regione prossima alla sorgente, senza vittime.
Nel corso dell’ultimo secolo sono state messe a punto scale simili alla Mercalli per valutare gli effetti
procurati dagli tsunami.
Scala Ambraseys‐Sieberg. Utilizzata soprattutto nel Mediterraneo, si basa su 6 classi (I onde rilevabili
solo da strumenti, VI distruzione totale della zona costiera)
Scala Papadopoulos‐Imamura. Scala di 12 livelli (2001), simile alla MCS; dipende dagli effetti sulle
persone e sugli oggetti e dai danni subiti dalle costruzioni.
Per comparare la forza di tsunami diversi si utilizza il parametro di energia totale.
Nel 1963 è stato teorizzata una formula per indicare il grado di intensità (m) di uno tsunami
prendendo in considerazione il run‐up massimo (Hmax) osservato.
m = log2(Hmax)
Nel 1972 alla suddetta formula è stata suggerita una nuova relazione da Soloviev che ha introdotto
il così il parametro d’intensità Soloviev‐Imamura (parametro I), ora il principale quantificatore nei
cataloghi degli tsunami con l’elemento Hav (av= average) ossia il run‐up medio lungo le coste vicine al
luogo di origine dell’evento
I = 0,5 + Log2(Hav)
Quando si dispone di date strumentali è possibile calcolare anche la magnitudo degli tsunami (Mt),
attraverso la formula di Abe del 1979:
Mt = α * Log(h) + β * Log(R) + K
h= altezza d’onda in metri, R= la distanza dalla sorgente in km (deve essere almeno 100); α, β e K=
costanti determinate in modo da rendere la scala della magnitudo degli tsunami più vicina possibile
a quella dei terremoti.
La distribuzione geografia degli tsunami. Se consideriamo le aree ove si originano gli tsunami, è
evidente che esse corrispondano in gran parte con i margini attivi di placca, dove hanno sede i più
intensi fenomeni sismici e anche vulcanici.
Non sorprende che l’anello del fuoco nel Pacifico sia anche la sede nella quali si è prodotta la
maggioranza di maremoti conosciuti. Tuttavia possono essere interessate anche regioni che non
avrebbero un rischio tsunami sotto l’aspetto delle loro caratteristiche geologiche, come dimostra lo
tsunami del 2004 a Sumatra, visto che danni gravi si sono avuti da Ceylon fino all’Africa orientale,
zone del tutto prive di sorgenti tsunagemiche.
Il mediterraneo è suddiviso in 16 aree tsunagemiche, distinte in 4 classi di potenziale in base alla
frequenza e all’intensità dei maremoti che vi hanno avuto origine.
Potenziale massimo: Golfo di Corinto
Potenziale alto: Arco Ellenico occidentale e orientale
Potenziale medio: Eolie, Calabria, Stretto di Messina
Potenziale basso: Liguria, Toscana e Gargano.
Pericoli di tsunami dalla piana abissale del Tirreno. Dai fondali del Tirreno meridionale, ad una
profondità di circa 3500 m, vi si staccano 3 seamount vulcanici di grandi dimensioni, Magnaghi,
Vavilov, Marsili, sui quali da un certo tempo è caduta l’attenzione degli studiosi, in merito a un
possibile pericolo di tsunami che ne potrebbero derivare. Non sono ritenuti attivi al momento
tuttavia date la particolari caratteristiche strutturali (Vavilov) o le dimensioni imponenti (Marsili)
possono creare un elevato pericolo.
Sistemi di Allarme. La mitigazione del rischio consiste nel mettere a punto dei sistemi di allarme che
consentano alle persone di allontanarsi tempestivamente dai litorali prima che questi vengano
inondati. Tali sistemi si fondano su:
1. Rete di sensori e di strumenti per individuare lo tsunami
2. Infrastrutture atte a favorire la diffusione dell’informazione il prima possibile
IL RISCHIO IDROGEOLOGICO
Dissesto idrogeologico: l’insieme di tutte le forme di evidente disordine o squilibrio del suolo (sia in
superficie che al di sotto di essa); in tali forme l’acqua è generalmente il principale agente dinamico.
Per arrivare a tale definizione sono occorsi diversi decenni data la difficoltà nel classificare in una
singola definizione anche altri evento dovuti all’azione dell’acqua quali soprattutto gli allagamenti e
le esondazioni fluviali.
Il rischio idraulico. Con questo termine si intendono le varie forme di rischio di inondazioni, causate
da eventi di piena in corsi d’acqua naturali o artificiali. L’Italia a causa della sua conformazione
morfologica e climatica è molto soggetta a questo rischio.
I fattori della pericolosità idraulica. Sul meccanismo di formazione delle piene, oltre a fattori naturali,
incidono altri di tipo antropico dato che ogni intervento destinato a mutare i caratteri naturali dello
spazio geografico, può avere effetti più o meno diretti sui caratteri idraulici dei bacini fluviali. Gruppi
di fattori:




L’aggressività del clima. È la causa prima di ogni episodio di piena, la precipitazione intensa.
Un’irregolare distribuzione intermensile delle piogge e la frequenza e l’entità di eventi
pluviometrici violenti sono fattori di pericolo di primaria importanza.
Gli aspetti morfologici del bacino e gli usi del suolo al suo interno. Le dimensioni areali del
bacino, difatti più è grande la sua estensione, tanto più abbondanti saranno le portate di
piena per un determinato afflusso meteorico su un’unità di superficie; all’opposto, nei corsi
d’acqua con bacini piccoli si dovrà fare attenzione alla frequenza delle piene che saranno di
breve durata ma con considerevoli picchi al colmo e soprattutto quasi improvvise. La
pendenza media dei versanti e la copertura vegetale del terreno è un altro aspetto che va
preso in considerazione: com’è ovvio, una pendenza elevata tende a determinare delle
piene abbondanti e dal rapido sviluppo, mentre la copertura vegetale gioca un ruolo
essenziale di regolazione dei regimi idrici, in modo diretto con gli apparati esterni degli
alberi, e indiretto, per l’elevata permeabilità degli strati superficiali del suolo boschivo. I
processi di antropizzazione del territorio è forse il fattore più importante.
La realizzazione di sistemi di contenimento delle acque o di arginature ai lati dell’alveo.
Nonostante la loro funzione sia quella di difendere il territorio, la loro realizzazione è tra i
possibili fattori di pericolo; vanno tenuti in considerazione due ordini di problemi:
I.
Se le strutture di contenimento non riguardano tutto il corso del
fiume, la diminuzione del pericolo di un certo tratto può
determinarne l’aumento in quelli successivi (es. Firenze, post 1966:
innalzamento delle spallette nei lungarni e abbassamento platee di
Ponte Vecchio hanno aumentato i problemi a valla della città)
II.
Sotto la spinta della corrente di piena, una parte dell’argine può
cedere (rotte), causando una braccia dalla quale fuoriesce l’acqua che
invade le campagne circostanti; in questi casi le aree del medio e
basso corso del fiume rischiano un’inondazione superiore a quella che
si avrebbe in condizioni naturali, per le maggiori portate convogliate
dal sistema di arginature
Interventi diretti dell’uomo sulla configurazione dell’alveo. Opere che portano una
modificazione del sistema idraulico dei bacini sono, ad esempio, quelle di “canalizzazione”
per ridurre la naturale larghezza del letto fluviale, in ragione a molteplici obiettivi. Questi
interventi hanno il risultato di determinare una capacità di deflusso delle acque
generalmente inferiore a quella primitiva. Capita che per motivi di urbanizzazione corsi
d’acqua siano fatti scorrere dentro alvei artificiali o siano “intubati” lungo i tratti di
attraversamento dei centri abitati. A causa della cattiva manutenzione di opere realizzate
nel nostro Paese come l’utilizzo di alveoli artificiali come discariche, si determina un
restringimento dell’area a disposizione per lo scorrimento delle acque che possono originare
un fenomeno ancora più pericoloso: se l’energia corrente è in grado di mobilizzare i
materiali scaricati, questi possono ammucchiarsi e creare una specie di diga in grado di
causa l’esondazione.
Corsi d’acqua e relativi bacini idrografici. Bacino idrografico: porzione della superficie topografica che
convoglia le acque, alimentate dalle precipitazione, verso il fondovalle dal corso d’acqua stesso. Ogni
bacino è separato dagli adiacenti attraverso linee dette “spartiacque” che corrono sulla sommità
dei rilievi. Alcuni fiumi per la circolazione sotterranea delle acque di infiltrazione ricevono l’apporto
relativo a piogge cadute in certe parti di un altro bacino imbrifero; in tali casi gli spartiacque reali, o
idrogeologici, differiscono da quelli topografici (per il caso dell’Italia vedi p. 161).
Il coefficiente di deflusso. Il bilancio idrologico di un bacino imbrifero verte sul raffronto fra l’entità
degli afflussi meteorici (Am) in un dato intervallo di tempo (in genere 1 anno) e quella del deflusso
(D) nello stesso periodo. L’afflusso viene stimato con i dati provenienti dalle stazione pluviometriche
nel bacino e nelle zone confinanti; dividendo il volume totale di acqua piovuta per la superficie del
bacino si ottiene “l’altezza di afflusso”, espressa in mm. Il deflusso è dato dal volume dal volume
d’acqua che fluisce nel fiume alla sezione di chiusura del bacino stesso; in modo analogo al
precedente anche questo valore può essere dato in mm calcolando “l’altezza di deflusso”. Viene
definito “coefficiente di deflusso” (CD) il parametro adimensionale ottenuto dal seguente rapporto:
CD = D/ Am
Di norma i valori sono inferiori all’unità per perdite dovute all’evapotraspirazione o ad altre cause,
ma talora può accadere il contrario, quando si hanno sostanziosi contributi sotterranei da bacini
limitrofi.
Regimi di deflusso. Disponendo di serie pluriennali di dati sul deflusso si possono calcolare, oltre alla
media annua, quelle mensili, atte ad invidiare il regime medio annuo; una maggiore o minore
regolarità dello stesso dipende dalle condizioni climatiche, dall’estensione del bacino e dai sui
caratteri geomorfologici.
Massimi (nei grafici): periodi di piena, ovvero quei momenti dell’anno in cui è statisticamente più
elevato il deflusso, in virtù della ciclicità stagionale.
I corsi d’acqua si dividono in due categorie generali:
Torrenti. Contraddistinti da bacini non molto estesi ed alvei con forti pendenze e
conseguentemente elevata velocità media di scorrimento; il regime è assai irregolare con forti
piene e periodi di magre molto pronunciati (tipico esempio: fiumare della Calabria e della Sicilia,
con alvei ampissimi, ingombri di materiale detritico e spesso privi di acqua)
Fiumi. Corsi d’acqua permanenti, dotati di velocità medie non troppo elevate. I regimi sono
decisamente più regolari di quelli dei torrenti, con differenze però piuttosto marcate da caso a caso,
tanto che quando l’irregolarità è assai pronunciata, si parla di fiumi a carattere torrentizio (come
l’Arno).
Flusso, portata, episodi di piena ed esondazioni fluviali.
Portata Q. Il volume d’acqua che passa attraverso una data sezione nell’unita di tempo; è il
parametro più importante per la definizione del flusso di un fiume e ha valori in m3/s. La portata
dipende dalla velocità del flusso e dall’area di sezione dell’alveo occupata dalla massa liquida, due
grandezze che vengono misurate in apposite stazioni lungo il corso d’acqua.
Nel corso dell’anno si osservano numerose e marcate variazioni di portata, in funzione dei diversi
episodi di pioggia che interessano il bacino imbrifero, o almeno una parte di esso. Nei periodi privi
di apporti meteorici i fiumi hanno un deflusso ridotto, in quanto alimentati dalle falde sotterranee;
quando si manifestano delle precipitazioni, parte dell’acqua inizia a ruscellare sulla superficie del
terreno fino a raggiungere il collettore e a determinare un aumento delle portate, originando così il
flusso in piena.
Idrogramma di piena. Tipo di grafico che rappresenta i fenomeni sopraelencati che riunisce, in
funzione del tempo, il pluviogramma dell’evento meteorico che ha causato la piena e il diagramma
delle portate. Il flusso di piena comincia sempre in un momento successivo a quello d’inizio delle
piogge, ma tende a crescere rapidamente fino a raggiungere la portata di colmo; la fase di
diminuzione è assai più lenta, come testimoniato dalle diverse pendenze dei rami ascendenti e
discendenti: tutto questo costituisce la cosiddetta onda di piena, un fenomeno che
progressivamente di sposta da monte verso valle. Il ritardo fra le piogge e la relativa piena fluviale
viene espresso da:
Tempo di ritardo. Intervallo che separa il baricentro del pluviogramma da quello del diagramma
delle portate di piena
Tempo di risposta. Tempo che intercorre fra l’inizio delle piogge e il raggiungimento del colmo di
pinea.
Quando un corso d’acqua raggiunge una portata così elevata da superare la capacità massima di
contenimento dell’alveo normale, si verifica l’esondazione con conseguente inondazione delle zone
circostanti.
Gli effetti dell’antropizzazione dei bacini imbriferi. I caratteri idrologici di un bacino possono essere
alterati in modo consistente da eventuali processi di antropizzazione che dovessero verificarsi al
loro interno. In tal senso sono tre tipi di azione umana che è indispensabile considerare per capire
le modificazioni prodotte
 Disboscamento di alcune zone precedentemente forestate. Fattore negativo per la
regolazione dei regimi idraulici, in quanto viene a mancare l’intercettazione operata sulla
pioggia dagli apparati esterni delle piante, che riuscivano a far scorrere parte dell’acqua
lungo i rami ed il fusto, favorendo così i processi di evapotraspirazione, a scapito del
ruscellamento rapido; viene inoltre a mancare l’azione frenante sulla gocce di pioggia e
viene diminuita considerevolmente l’infiltrazione.
 Urbanizzazione di ampie aree. Con conseguente impermeabilizzazione di ampie superfici, a
causa della loro totale cementificazione; aumento della velocità di scorrimento delle acque.
 Pratiche agricole intensive con grande utilizzazione di mezzi meccanici. Queste attività
possono determinare diminuzione della permeabilità degli strati superficiali a causa della
compattazione prodotta dalle attrezzature e un aumento della velocità di ruscellamento.
Note sul rischio idraulico in Italia. La condizione di pericolo è assai diversa a seconda del tipo di corso
d’acqua, in quanto per quelli minori è sufficiente una singola e localizzata pioggia intensa di poche
ore a innescare l’onda di piena, mentre per i fiumi maggiori le situazioni gravi si creano solo quando
si registrano copiose precipitazioni che cadono su vaste aree anche per più giorni. Ci sono stati 1263
eventi con danni alle persone in quasi 1500 anni, un netta maggioranza dei quali ricade negli ultimi
150 anni; nonostante ciò il 90% dei decessi ricade prima del 1850. Nessuna regione è esente dal
problema del rischio idraulico anche se aree dove la concentrazione è più elevata sono: l’arco
alpino e prealpino, il Piemonte meridionale, la Liguria, il corso del Po, il bacino dell’Arno, la
Campania centrosettentrionale e la meridionale.
La questione del flash food: il caso della Liguria. Flash food: piene abbondanti che si sviluppano
rapidamente in corsi d’acqua minori con bacino di notevole acclività, a seguito di precipitazioni
molto intense e, in genere, anche concentrate su aree piuttosto ristrette. È un fenomeno di alta
pericolosità sia per la velocità di scorrimento delle acque, sia per la ristrettezza dei tempi che
separano le piogge dal colmo di piena, con conseguente difficoltà nel poter organizzare
tempestivamente e azioni difensive. In Italia purtroppo le flash food sono un fatto abbastanza
frequente in certe regioni geografiche caratterizzate da rilievi che affacciandosi direttamente sulla
costa, offrono così un ostacolo allo spostamento di masse d’aria umida di provenienza marina
(Toscana settentrionale, salernitano, Calabria e Sicilia). Il caso più tipico in tal senso è offerto della
Liguria, una regione cui il territorio è pressoché interamente formato da rilievi che si sviluppano a
ridosso della fascia litorale, dando luogo ad un’idrografia costituita da una serie di torrenti che
partono da quote abbastanza elevate e arrivano a sfociare in mare dopo un percorso breve e ripido.
Frequenza ed entità degli episodi pluviometrici intensi raggiungo in Liguria dei massimi non solo
rispetto a tutta l’Italia ma anche all’interno mediterraneo.
Qualche cenno sulle gravi alluvioni in Italia.
Sardegna, ottobre 1951. Gravissima alluvione che presenta degli aspetti di eccezionalità climatica
per l’estensione e la durata dei fenomeni pluviometrici violenti che, per più giorni consecutivi
hanno flagellato interrottamente una buona parte dell’isola. Le stime parlando di quasi un terzo
della regione alluvionato. Le precipitazione estreme furono causate da una configurazione
meteorologica di blocca, cioè dalla presenza di un’area anticiclonica che determinò la presenza di
una struttura depressionaria sul Mediterraneo.
Polesine, novembre 1951. Dal punto di vista dell’estensione delle terre allagate e dei volumi d’acqua
esondati, quella del Po del 1951 può essere considerata la più grande alluvione nella storia dello
stato italiano: tre rotte che si formarono quasi contemporaneamente tra le province di Ferrara e
Rovigo; i due terzi della portata si sono così riversati al di fuori degli argini. Causa principale:
abbondanti precipitazioni la settimana precedente distribuite su tutto il bacino imbrifero del fiume
Po.
Toscana, novembre 1966. Disastro che colpì quasi l’intero bacino dell’Arno e la maremma toscana.
In quel mese vi era una zona depressionaria centrata sul mediterraneo nord occidentale e un
robusto anticiclone posizione sulla Russia; le correnti di aria polare attivarono il movimento in
direzione settentrionale di masse d’aria calda e umida, che investirono così l’Italia, in particolare
Toscana e Veneto nelle quali si verificarono precipitazione di tale copiosità da causare allagamenti
ed alluvioni estremamente gravi. Le precipitazioni non ebbero caratteri di elevatissima intensità
momentanea ma risultarono straordinariamente abbondanti per la loro continuità su un arco di
oltre una giornata (95% del loro ammontare in sole 25‐26 ore). I cumulati furono superiori a 100
mm in quasi tutta la Toscana e in particolare 3 aree distinte nelle quali sono stati misurate delle
precipitazione assolutamente eccezionali di oltre 300 mm: Grosseto, Badia, Agnano e Firenze.
Grosseto: 323 mm n 24 ore, valori 5 volte superiori alla media. Badia Agnano, 473 mm, ‘evento
superò la media di un lungo periodi di circa 10 deviazioni standard. Per quanto riguarda gli
allagamenti causati dell’Arno problemi seri si ebbero lungo tutto il suo corso, praticamente ino alla
foce: disastrosi furono poi gli allagamenti a Firenze dove la portata massima fu al di sopra del 4000
m3/s. il capoluogo aveva dovuto sopportare numerose inondazioni distruttive, ma quella del 1966
pare essere stata la peggiore di tutti i tempi a causa dell’ampiezza della zona alluvionata che per i
livelli raggiunti dall’acqua nelle strade, sembra che in alcune zone bassa l’acqua sia salita fin quasi a
6 m. anche a valle di Firenze quasi tutti gli affluenti andarono in piena, tanto che inondazioni
davvero catastrofiche riguardarono il tratto fra S. Maria a Monte e Pontedera. Parimenti catastrofici
risultarono le inondazioni nella maremma toscana provocate sia dai corsi d’acqua minore che
dall’Ombrone.
La mitigazione del rischio idraulico. I tipi di interventi sono atti a ridurre la probabilità di
esondazione, contenendo le acque e favorendone il deflusso oppure cercando di addolcire
l’andamento dell’idrogramma di piena mediante l’abbassamento delle portate al colmo e
all’allungamento dei tempi di ritardo. L’uomo attualmente non è minimamente in grado di ridurrei il
rischio. Le uniche due cose che i possono fare sono: Ridurre la vulnerabilità e ridurre la pericolosità
(data dalla possibilità che certe parti del territorio possano essere allagate da una fuoriuscita di
acqua). Le soluzioni più frequenti sono:





Argini in terra. Uno dei metodi più diffusi anche per la sua relativa economicità; quasi tutti i
tipi di fiumi hanno queste difese, organizzate in due coppie di strutture (argini) che corrono
parallelamente all’alveo, delimitando ai lati di esso delle fasce dette golene, le quali non
possono contenere del materiale che costituisca un intralcio al fiume.
Canali scolmatori. Condotti che entrano in funzione quando il livello del fiume supera un
determinato limite e scaricano parte della portata verso uno specchio lacustre o
direttamente in mare. Un esempio è lo scolmatore dell’Arno che inizia appena a ovest di
Pontedera e sfocia in mare a nord di Livorno, che serve a proteggere la città di Pisa.
Bacini di ritenuta. Mediante la costruzione di dighe, si possono realizzare ei laghi artificiali da
riempire nei momenti di forti portate, onde ottenere uno smorzamento delle piene.
Casse di espansione. Aree ai lati dell’alveo che vengono predisposte per farvi espandere le
acque di piena (entro appositi argini) per poi ricondurli gradualmente nell’alveo attraverso i
canali di scolo; tale procedura è detta “laminazione della piena” e fa in modo che tale acqua
non possa espandersi in modo eccessivo sul territorio.
Modificazione della morfologia fluviale. Gli interventi operati sull’alveo possono mirare ad
ottenere: una rettifica, ovvero una riduzione della sinuosità dell’asta fluviale mediante il
taglio di una serie di anse naturali, aumento della pendenza e quindi della velocità media
corrente, favorendone le smaltimento delle piene; un allungamento, con la scopo di
aumentare la sezione di deflusso e quindi di accrescere la capacità funzionale dell’alveo, si

tratta però di interventi possibili solo nelle zone rurali; una ramificazione, poco a monte dei
centri abitati in pianure l’alveo può esser suddiviso in due o anche tre rami che si
ricongiungono poi a valle deli stessi centri ripartendo così la portata tra vari canali.
Rimboscamento di parti del bacino. Utile a mitigare il rischio idraulico, riducendo le portate
al colmo e aumentando i tempi di ritorno.
Azioni volte a ridurre la vulnerabilità:


Predisposizione di sistemi di difesa degli edifici
Predisposizione di sistemi di previsione e d’allarme. È fondamentale che la popolazione sia
avvertita con sufficiente anticipo; quando si delinea una situazione di crisi è necessario
organizzare una rete di stazioni distribuite sul territorio in grado di trasmettere in tempo
reale ad una centrale operativa i valori che vengono rilevati. 4 fasi: preallerta, allerta,
preallarme e allarme (vedi pag. 191).
Per quanto concerne le previsioni, queste devono essere intese in senso estremamente
generico, perché lo stato attuale delle conoscenze non permette ancora di applicare dei metodi
deterministici che indichino con sufficiente anticipo sia i luoghi dove ricadranno le precipitazioni
più forti che l'intensità delle stesse.
La gestione del territorio e le Autorità di Bacino. Per gran parte dei disastri alluvionali che si
verificano in Italia, l'ammontare dei danni è dovuto ad una eccessiva esposizione delle zone
urbanizzate ai pericoli idraulici. Particolarmente seria è la situazione in certe regioni costiere con i
retrostanti rilievi molto prossimi al mare. In esse la richiesta di spazi per l'edilizia ha portato a
utilizzare anche quelli di naturale competenza dei torrenti che provengono dai suddetti rilievi,
determinando così un incremento della vulnerabilità territoriale e spesso anche della pericolosità
dei corsi d'acqua, costretti a scorrere nel loro tratto finale in canali o condotti chiusi molto angusti
(es. Genova o Reggio Calabria). Un fatto molto positivo per le nostre politiche del territorio è stato il
varo della legge 183/1989 inerente ai piani di bacino che stabilisce che i bacini idrografici devono
costituire l'ambito fisico della pianificazione, istituendo le cosiddette "Autorità di Bacino", ovvero gli
enti proposti al loro governo.
Piano di Bacino. Documento programmatico redatto dalle suddette autorità nel quale, oltre alla
fondamentale questione del rischio idraulico si affrontano vari problemi relativi all'ambiente, Il
documento deve infatti presentare degli interventi mirati alla: a) difesa dei centri abitati dal
rischio di esondazioni fluviali; b) protezione delle risorse idriche dal depauperamento e
dall'inquinamento; c) riduzione dei rischi di frana; d) mantenimento di una dinamica dei litorali e
degli alvei che risulti compatibile sia con le tendenze naturali che con i bisogni umani; e) uso
sostenibile delle risorse naturali
Il piano di bacino deve svilupparsi progressivamente in 3 fasi:
 Individuazione delle aree a rischio idraulico. In questa prima fase devono essere individuati i
tratti dei corsi d'acqua lungo i quali sarà eseguita la zonazione delle aree a rischio.
 Zonizzazione di dettaglio del rischio. Le attività di questa seconda fase devono innanzitutto
mirare all'elaborazione di elementi di cartografia tematica che riguardino da un lato il
fattore pericolosità e dall'altro quello della vulnerabilità territoriale. Per il primo caso, a
seguito di accurate valutazioni quantitative in merito ai tempi di ritorno dovranno essere
distinte le aree secondo 3 diversi gradi di pericolosità: bassa, media, alta. La sovrapposizione
della carta tematica della vulnerabilità (carta dove si deve tenere presente della conoscenza

degli insediamenti, attività antropiche ecc.) con quella della pericolosità, nella quale sono
riportati i limiti delle aree a grado diverso, permette in definitiva di distinguere 4 tipi di zone
a differente classe di rischio.
Programmazione della mitigazione del rischio. In questa fase conclusiva vengono fissati i
vincoli definitivi per l'uso del territorio e si provvede alla scelta e al progetto di quegli
interventi atti alla mitigazione del rischio e, quando necessario, si definiscono le misure di
delocalizzazione degli insediamenti situati nelle aree ad elevata pericolosità.
I movimenti franosi. Se la superficie topografica presenta delle pendenze, i materiali sono sottoposti
a sforzi di taglio dovuti alla gravità; quando tali sforzi superano la resistenza dei materiali stessi si
producono dei movimenti massa verso valle. I tipi di movimenti che emergono possono essere di
tipologia diversa e svilupparsi in tempi molto lunghi oppure brevi. Oltre alle rocce bisogna ricordare
che lo scivolamento può riguardare anche la neve eventualmente accumulata su dei pendii: le
valanghe sono infatti un genere di movimento di massa che crea delle potenziali situazioni di
pericolo in certe zone di montagna.
La resistenza al taglio e i relativi tipi (tecnici) di rocce. Essa è espressa dalla formula di Coulomb:
τ = c + σ * tgⱷ
c= coesione, cioè quella parte di resistenza dovuta alle forze attrattive che si scambiano le
particelle; σ= pressione normale alla superficie ove può avvenire la rottura; tgⱷ = coefficiente di
attrito, una caratteristica del materiale. Quando è presente acqua nel terreno bisogna considerare
che la pressione interstiziale (u) riduce gli sforzi normali e quindi il contributo offerto dall’attrito, per
questo si dovrà calcolare la “pressione normale effettiva” (σ᷃): σ᷃ = (σ – u). Se u eguaglia σ, la
pressione effettiva si annulla e anche la resistenza per attrito.
Roccia: qualsiasi aggregato naturale di minerali. Minerale: un corpo inorganico omogeneo dotato di
caratteristiche fisiche definite e di composizione chimica esprimibile mediante una formula.
È possibile classificare le rocce in diverse categorie, distinte in base al potenziale comportamento
rispetto alla franosità:




Coerenti. Gruppo formato da rocce lapidee (basalti, graniti, marmi) caratterizzate da valori
di coesione sempre molto elevati; normalmente le rocce coerenti non sono quindi franose.
Semicoerenti. Rocce costituite da granuli con legami cementizi (di norma calcarei) piuttosto
deboli; i valori di coesione sono perciò assai più bassi di quelli delle vere rocce lapidee e
risultano pertanto mediamente franose (arenarie, tufi vulcanici).
Incoerenti. Prive di coesione ovvero costituite da elementi liberi poggiati l’uno sull’altro
come nel caso delle sabbie o ghiaie sciolte: divengono quindi franose ogni qualvolta che
venga superato il loro angolo di naturale riposo.
Pseudocoerenti. Il grado di coesione non è stabile ma varia in funzione del contenuto di
acqua. Quando le rocce pseudocoerenti sono asciutte hanno una buona resistenza, mentre
tendono a diventare molto franose con l’aumentare dell’umidità; hanno tale
comportamento le argille, alcuni limi e quelle rocce sedimentarie nelle quali gli elementi
sono tenuti insieme da un cemento argilloso. Per stabilire le percentuali di acqua in ogni
argilla si stabiliscono i limiti di Atterberg che segnano il passaggio da uno stato all’altro e
consentono quindi di valutare il loro comportamento nelle diverse conduzioni.
I fattori della franosità:
I.
II.
III.
IV.
Aspetti morfologici. Forma del territorio, è di grande importanza per il diretto
rapporto con l’entità delle sollecitazioni di taglio
Caratteri climatici. La piovosità è un fattore fondamentale dato che si hanno maggiori
rischi durante i periodi di forte concentrazione delle piogge, anche se non vanno
trascurate neppure le escursioni termiche, i cicli gelo‐disgelo e le insolazioni.
Copertura vegetale. Un bosco per esempio può creare problemi su versanti di una
certa ripidità, per il carico esercitato e per le sollecitazioni che trasmette al suolo
nelle giornate di forte vento.
Caratteri geologici. La costituzione litologica, il grado di fessurazione, la struttura.
Movimenti lenti di massa nei versanti: creep e soliflusso.
Creep. Consiste nel lentissimo scorrimento del suolo (non superiore a 1‐2 mm l’anno) che
praticamente interessa qualunque pendio non troppo ripido con una copertura detritica a basso
grado di coesione. Il fenomeno si manifesta con scarpatine o zone di decorticazione del manto
erboso. L’azione del creep è resa spesso evidente da segnali del suolo come inclinazione di pali, la
tipica curvatura con concavità rivolta verso monte, la rottura di muri di contenimento, la
formazione di lesioni di pavimentazione. I movimenti sono dovuti, oltre che alla spinta di gravità, i
cicli di gelo‐disgelo, la variazioni di umidità, l’azione di animali scavatori, la crescita della
vegetazione, interventi antropici in agricoltura.
Soliflusso. È un movimento lento del suolo che ha luogo lungo i pendii con scarsa inclinazione e che
è messo in evidenza da una serie di forme lobate. Il soliflusso riguarda in particolare gli ambienti
periglaciali con sottosuolo perennemente gelato (permafrost) nei periodo in cui iniziano a fondere
le nevi.
Le frane. Genericamente considerata come il distacco da un versante e la rapida discesa di una
consistente massa rocciosa. La rapidità del movimento rende le frane sostanzialmente differenti dai
sopracitati creep e soliflussi, dai movimenti più lenti. Dal punto di vista dimensionale le frane hanno
un’ampissima variabilità. È una prassi ormai considerare “frana” sia il fenomeno della rottura e dello
scivolamento e l’aspetto assunto dalla superficie topografica dopo che il terreno è stato interessato
dal dissesto. Le frane assumono forme molto diverse fra loro.
Nicchia di distacco. La parte dove è avvenuta la rottura; appare come una netta ferita del suolo.
Alveo di frana. Tratto di versante interessato alla discesa dei materiali rocciosi, tende pertanto ad
avere una forma allungata.
Area di accumulo. La parte bassa della frana, formata da una massa detritica che, dopo essersi
staccata dalla nicchia, è andata ad arrestarsi più a valle in una nuova posizione di equilibrio.
Tipologie di frane:




Colamento. Colate di roccia pseudocoerenti miste a detriti; si muovono abbastanza
lentamente lungo i pendii.
Crollo. Repentino stacco di falde di rocce coerenti in pareti molto ripide.
Scoscendimento. Rapidi sprofondamenti che si generano in rocce argillose pseudocoerenti; il
movimento avviene lungo le superfici spesso arcuate, corrispondenti di norma a preformate
aree di rottura preferenziali.
Smottamento. Fenomeni di dissesto dati dalla discesa rapida e caotica di rocce incoerenti o
di materiali argillosi fluidificatisi completamente per abbondante imbibizione.


Scivolamento. Riguarda le rocce stratificate coerenti in versanti a franapoggio (nello stesso
senso del versante); il movimento avviene lungo un piano a bassa resistenza meccanica,
sovente rappresentato da un interstrato di natura argillosa.
Miste. Gruppo dove ricadono tutte le frane non ascrivibili ad uno dei precedenti tipi, poiché
il fenomeno risulta come una combinazione di movimenti diversi.
Le cause delle frane. Oltre all’eventuale diminuzione della resistenza calcolata con la formula di
Coulomb, andranno considerata sia le cause relative ad un abbassamento della coesione, sia quelle
in grado di agire sull’attrito. È molto difficile che da una condizione iniziale di buona stabilità si passi
improvvisamente al movimento franoso; in effetti è logico ritenere che, quando esso avviene, sia
stato preceduto da qualche mutamento della situazione dei versanti che abbia comportato un
incremento del livello di pericolosità:
‐
‐
Cause preparatorie, ovvero quando si creano condizioni ideali per il dissesto
Cause determinati, ovvero quando si manifestano situazioni di rapporto resistente/sforzi di
poco superiori ad 1, innescandone il movimento.
Il ruolo più importante nell’originare i fenomeni franosi è quasi sempre giocata dall’acqua poiché
può aumentare le sollecitazioni al taglio, è in grado di abbassare le resistenze, sia riducendo la
pressione normale effettiva responsabile dell’attrito che diminuendo il livello di coesione, come
avviene per l’imbibizione dei materiali argillosi.
Cause che agiscono diminuendo la coesione:





Fessurazione di scisti argillosi o di argille molto consolidate
Disgregazione fisica del corpo roccioso per variazioni di volume indotte da uscursioni
termiche o per gli effetti dei cambiamenti di stato dell’acqua nelle fessure, durante i cicli di
gelo‐disgelo
Alterazione chimica dei componenti minerali
Asportazione del cemento di rocce clastiche per soluzione causata dalle acque percolanti
Ammollimento di rocce pseudo coerenti, determinato da processi di imbibizione.
Cause che inducono una riduzione della resistenza per attrito:


Incremento della pressione interstiziale dell’acqua
Modificazione in quegli interstrati che, in un ammasso roccioso costituito da materiali
coerenti stratificati, separano una parte superiore potenzialmente mobilizzabile da un’altra
stabile sottostante.
Cause che determinano un aumento delle sollecitazioni al taglio:




Aumento della densità dei materiali che potrebbero franare, dovuto ad un incremento del
grado di imbibizione cioè del livello di saturazione dei pori da parte dell’acqua
Sovraccarico sul pendio, causata dall’accumulo di detriti o neve ma anche dalla crescita di
alberi
Aumento dell’inclinazione del versante, spesso per effetto di un’intensa erosione naturale o
per azioni antropiche
Sollecitazioni transitorie, naturali o antropiche
Le rilevazioni in merito alla franosità del territorio italiano. L’Italia è un paese molto soggetto ai
dissesti franosi in ragione di diversi fattori naturali:




Caratteri morfologici. La morfologia italiana è assai tormentata, come dimostrato
dall’esistenza di soltanto il 22% di aree pianeggianti.
Caratteristiche geologiche. Il territorio italiano è in buona parte costituito da formazioni poco
resistenti, con grande frequenza di rocce argillose, molto suscettibili al franamento.
Aspetti climatici. Particolare riferimento all’aggressività delle piogge.
Elevata sismicità che causa frane.
Nel 1989 il GNDCI (Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche) he effettuato un
censimento delle aree del paese colpite da frane e/o inondazioni a partire dal 1918; questo
progetto, definito AVI (aree vulnerate italiane) realizzato da 17 gruppi di ricerca, ha condotto al
riconoscimento, fino al1944, di 9223 eventi franosi ripartiti in tre categorie
1. Massima intensità (danni diretti alle persone)
2. Media intensità (distruzione o serio danneggiamento di opere umane)
3. Bassa intensità (lievi danni)
Nello stesso anno, 1989, il ministero dell’ambiente dichiara che è stabile solo il 38% del territorio
italiano, un 46% poco stabile e il 16% potenzialmente franoso oppure già interessato a dissesti.
Zone assenti dal pericolo frane: aree di pianura, Sardegna e Puglia. Nel 2012 l’Istituto di ricerca per
la Protezione Idrogeologica (IRPI), che provvede alla pubblicazione di periodici rapporti sul rischio
cui è soggetta la popolazione italiana, ha portato a individuare almeno 2533 siti nei quali si è
verificato almeno un evento franoso negli ultimi 1359 anni.
Due grandi eventi di frana verificatisi in Italia
 Vajont (1963)
 Valtellina (1987)
Furono dissesti di gigantesche proporzioni con conseguenze gravissime per le popolazioni
interessate.
La frana del Vajont. Il torrente Vajont è un piccolo affluente a sinistra del Piave che ha come
caratteristica principale quella di sboccare in una vallata con una gola molto stretta.
Negli anni 20 l'Ingegnere Carlo Semenza propone di sfruttare le acque del Vajont per la
produzione di energia idroelettrica. Questo progetto trova la sua realizzazione solo nel 1929
quando la SADE (società adriatica di elettricità) decide di iniziare un invaso artificiale. Il progetto è
piuttosto datato, la messa in piega del progetto avvenne solo successivamente, dal 1957 fino al
1963, modificando così profondamente la valle del Vajont mediante la costruzione di un ampia
diga.
La relazione geologica fu realizzata da un famoso geologo, Giorgio Paz, tuttavia risultava uno
studio assai incompleto.
Nel 1959 frana di una diga vicina, si decide quindi di bloccare i lavori per sottoporre delle indagini
geologiche e affidano l'incarico a due geologi: Edoardo Semenza e Franco Giudici, i quali
individuarono la presenza di una “paleofrana” posta sul versante del monte Toc che a loro
giudizio avrebbe potuto scivolare nuovamente con la creazione del lago.
Si decide nonostante le indicazioni di portare a termine i lavori e di collaudare la diga.
Il fatto di aver iniziato a riempire la diga, a seguito delle continue variazioni di invaso, cominciò a
svilupparsi lungo i pendici del Monte Toc una grande fessura a forma di M, larga un metro e lunga
oltre 2,5 km. Alcuni mesi dopo si staccò una frana di oltre 700000 m³ che, cadendo all'interno del
lago, generò un onda di circa 10m.
Perché è significativa la strage del Vajont? È un evento che ha influito sulla gestione di cantieri di
questo tipo e anche dal punto di vista politico, creando due filoni di opposizione tra PCI e Dc.
Vennero effettuate alcune modifiche, utilizzando anche dei modelli di laboratorio: da questa
parte parve risultare che una nuova frana di dimensioni superiori a quella da poco scivolata nel
bacino non avrebbe comunque prodotto un'ondata in grado di danneggiare la diga e tantomeno
di oltrepassarla.
Nel 1961, malgrado tutto, si decide di procedere a una seconda prova di invaso, e viene
addirittura aumentata la portata dell'acqua. Queste operazioni fecero riattivare i movimenti
della coltre instabile, con le fessure del suolo che si allargavano sempre più velocemente.
Il 26 settembre 1963, per tentare di scongiurare il pericolo di un disastro che appariva allora
chiaro si decide di attuare lo svaso del lago, il provvedimento non sortì però l'effetto desiderato
ed anzi, i dislocamenti del terreno si fecero sempre più frequenti. 9 ottobre 1963: la frana si
stacca dal monte Toc, sviluppandosi in modo evidentemente non previsto; la forza d'urto della
massa franata fu in grado di spostare un enorme quantità d'acque che si mosse in varie direzioni
a quasi 90 km/h. Altezza di 500m. 2000 vittime circa.
La frana della Valtellina. Nel 1987 a causa di forti precipitazioni che interessarono la Veltellina, il
fiume Adda e tanti corsi di acqua minori finirono in piena causando poi allagamenti e numerose
vittime. Le suddette precipitazioni furono anche la causa di un altro dissesto idrogeologico che ebbe
luogo nella Val Pola, dove iniziarono a manifestarsi preoccupanti fenditure che innestarono il
campanello di allarme per la previsione di un’eventuale frana. Il 28 luglio alle 7.23 si staccò una
massa di 40 milioni di metri cubi di roccia che precipitò sul fondovalle causando la morte di alcuni
operai. L’energia della frana causò la risalita di parte del versante opposto, dove vennero distrutti 4
nuclei abitativi: 35 vittime. L’ostruzione della vallata determinò la creazione di un lago per
l’ostruzione dell’Adda, che rischiava di colmarsi nel giro di 60 giorni, con la paura del collasso dello
sbarramento. Furono perciò scavate alcune galleria per favorire il deflusso del lago ma senza
successo a causa del ritmo incessante con cui saliva il livello dell’acqua; si decise quindi di effettuare
una “tracimazione controllata” cioè di far defluire l’acqua in un alveo artificiale tracciato attraverso
l’area di accumulo. Il 3° agosto dopo una evacuazione venne quindi aperta una breccia nel corpo
della frana e il lago venne progressivamente prosciugato.
La mitigazione dei pericoli di frana. Il primo passo è quello di definire dei livelli di pericolosità mentre
la cosa più importante è avere una conoscenza del territorio più accurata possibile
Si dovrà quindi procedere alla costruzione di una carta tematica della franosità potenziale nella
quale verrà espressa la relativa zonazione del territorio interessato secondo un certo numero di
classi di pericolo (in genere 4 o 5).
La carta della franosità si otterrà mediante la sovrapposizione delle seguenti carte tematiche:
1. Carta delle frane. Carta che riporta tutti gli eventi franosi che si sono verificati in una
zona distinguendo: a) le frane di recente formazione o quelle ancora in movimento; b) le
paleofrane apparentemente stabilizzate; c) le zone stabili ove si verificano movimenti
gravitativi superficiali diffusi
2. Carta dei caratteri idrogeologi. Dà risalto alla componente dell'acqua poiché riporta i
caratteri litologici delle formazioni affioranti e quindi la relativa propensione al
franamento, la giacitura delle superfici di discontinuità, le zone di penetrazione
circolazione ed emergenza delle falde acquifere ecc.
3. Carta delle pendenze che sintetizza gli aspetti topografici e valuta le sollecitazioni date
dalla gravità.
Quando si deve lavorare ad un livello di scala molto elevato vengono allora effettuate delle
indagini geognostiche che comportano, a seconda dei casi, prospezioni geofisiche, prove in situ
o prove di laboratorio effettuate su campioni indisturbati prelevati dal sottosuolo; gli obiettivi
cui tendono queste indagini sono:
Individuazione della superficie di eventuale scorrimento
•
Le determinazione dei pesi di volume delle parti di terreno che potrebbero franare
•
Conoscenza dell'andamento della pressione interstiziale alle varie profondità
•
Determinazione dei valori della coesione e dell'angolo di attrito nelle zone di probabile
rottura
Le informazioni ottenute sono utilizzate per applicare il modello di verifica più adatto alla situazione
in esame, le condizioni di stabilità sono allora espresse secondo il coefficiente (o fattore) di sicurezza
(Fs), dato dal rapporto tra l'entità complessiva delle forze resistenti e quella delle sollecitazioni di
taglio.
Ovviamente, a causa della reale complessità della struttura del suolo, la stima del coefficiente è
sempre affetta da un certo margine di approssimazione:
a) Sicuramente stabile = per Fs > 1,5
b) Sufficientemente stabile = nell’intervallo tra 1,3 e 1,5
c) In equilibrio incerto = Fs < 1,3
Una volta effettuati gli studi sulle condizioni di pericolosità, sarà allora possibile predisporre le
misure più opportune per impedire il verificarsi di una frana. Le principali tipologie:
‐ Allontanamento dell'acqua dai versanti a rischio
‐ Rimodellamento del pendio
‐ Alleggerimento della parte alta del versante
‐ Ancoraggio al substrato stabile degli strati superficiali
‐ Protezione della base dei versanti
Le colate detritiche (debris flow). Fenomeno che consiste in flussi molto densi di materiale detritico
ed acqua che si sviluppano lungo l'alveo di torrenti montani. Quando nel flusso la concentrazione di
detriti non è eccessivamente alta (40‐45% max) si parla di correnti torrentizie concentrate, mentre
per valori superiori siamo in presenza di veri e propri debris flow. Problema maggiore: la rimozione
dei detriti rimasti sul suolo dopo che l'acqua si è allontanata Dove si possono verificare: Bacini
montani caratterizzati da pendenze elevate e dalla presenza di una coltre detritica superficiale poco
stabile, così che i detriti, anziché depositarsi nel fondovalle, si mescolano con l'acqua e scendono
nell'alveo lungo il torrente.
Come si sviluppa la colata detritica. All'origine dell'evento c’è una precipitazione di elevata intensità
che interessa un bacino di tipo montano. Le forti piogge determinano una serie di frammenti negli
strati più superficiali, facendo sì che una consistente quantità di materiale detritico finisca nel letto
del torrente. Al tempo stesso le piogge intense causano un rapido aumento della portata nel corso
d'acqua, per cui i detriti vanno a mescolarsi ad una corrente impetuosa, dando così luogo alla colata
detritica. Se l'acclività dell'alveo è notevole, il fluido denso può viaggiare ad alta velocità ed arrivare
ad aree urbanizzate, procurando danni e mettendo a rischio l'incolumità delle persone.
Alcuni esempi di eventi calamitosi in Italia.
Alta Versilia, giugno 1966: precipitazioni di eccezionale intensità che colpirono le Alpi Apuane; le
piogge violentissime causarono il collasso della coltre superficiale in varie parti dei pandi del bacino
del Versilia, con formazione di ondate di acqua mista a fango ed altri detriti che procurarono danni
e vittimi a tutta Cardoso.
•
Alluvione di Sarno e Quindici, maggio 1998: franamento dei terreni superficiali di origine piroclastica
nei rilievi che separano l’Irpinia dalla Campania occidentale, con conseguenti colate fangose che
raggiunsero il fondovalle con danni in special modo a Sarno e Quindici
Gli eventi del Messinese, ottobre 2009: la zona del disastro è quella compresa nella fascia litoranea a
sud di Messina, alla base delle pendici dei Monti Peloritani. A causa di un forte nubifragio si
crearono numerose frane con colate di materiale detritico fino a valle. Le devastazioni più gravi
colpirono i centri di Giampilieri e di Scaletta Zanclea.
Alluvione alle Cinque Terre, ottobre 2011: sulla Liguria orientale si svilupparono delle precipitazioni
di eccezionale intensità che in alcuni casi segnarono dei veri e propri record. Nei versanti costieri
nella zona delle Cinque Terre si originarono impetuose colate detritiche che arrivarono a devastare
doversi borghi litoranei.
I catastrofici debris flow in Venezuela, nel dicembre del 1999. Stato di Vargas eccezionalmente
piovoso nel mese di dicembre di quell'anno, in particolare dal 14 al 16 dicembre. Forti precipitazioni
e fenomeni di dissesto in numerose zone, ma quelli più gravi si manifestarono nel tratto di costa
comprendente la città di Caraballeda, a nord di Caracas. Oltre alla forzante meteorologica, è
importante considerare anche le condizioni morfologiche del Venezuela, caratterizzato dalla
presenza di una catena montuosa di notevole altezza allungata parallelamente alla direzione della
costa e molto prossima a quest'ultima. Molteplici ed estesi episodi di frana che fecero convogliare
una grande quantità di detriti nelle aste torrentizie, dove le piogge incessanti alimentavano delle
piene di forte entità con conseguenti colate detritiche che, per il numero e la violenza si possono
considerare davvero eccezionali. Oltre 60 km di fascia litorale videro la propria morfologia
decisamente modificata dalle inondazioni e dal materiale roccioso. Oltre 8 mila abitazioni distrutte
e 20‐30 mila vittime.
I rischi da erosione. Erosione: azione abrasiva esercitata sui materiali della superficie terrestre da
vari agenti naturali, come il vento, le acque continentali, il mare e i ghiacciai. Nelle regioni
temperate la percentuale assolutamente maggioritaria di tutti i fenomeni erosivi che si verificano è
quella addebitabile alle acque piovane, che cadono e scorrono dapprima diffuse su terreno
(erosione dilavante) per poi raccogliersi in corsi d'acqua di dimensioni via via sempre maggiori
(erosione incanalata). I processi erosivi si sviluppano continuamente, molto spesso con andamento
così graduale e lento da non costituire una sensibile forma di pericolo per le comunità umane; in
effetti si può parlare di condizioni di rischio per erosione solo quando il fenomeno tende ad
intaccare con una certa rapidità determinate parti di territorio, che risultano particolarmente
importanti per lo svolgimento di numerose attività umane.
I fattori dell'erosione. Le erosioni dipendono da diversi fattori, sia naturali che antropici, tra i quali:
Composizione litologica del terreno
•
Caratteri pedologici (struttura e composizione del suolo)
•
Aspetti morfologici (pendenza dei versanti come fattore decisivo)
•
Tipologia ed estensione della copertura vegetale
•
Caratteri della piovosità
•
Interventi antropici
Come valutare l'entità del suolo. Per poter parlare di erosione lenta o accelerata in termini
quantitativi è necessario avere dei valori di riferimento cui apportarsi. Valutazioni precise
dell'erosione si possono ottenere da: misure dirette, molto precise ma molto costose e indirizzate
solo in posti specifici, i risultati difficilmente si estendono a zone lontane a quelle delle aree di
prova; misure indirette, la quantità di materiale asportata da un bacino in un dato periodo viene
stimata sulla scorta di rivelazione del trasporto solido operato dai suoi corsi d'acqua. Esso può
avvenire:
‐ In soluzione (quando il materiale è più grosso)
‐ Sul fondo (per saltellamento, rotolamento o scivolamento)
•
‐ In sospensione (Quando il materiale è fine, si deposita e viene trasportato dall'acqua‐ >trasporto
torbido)
La valutazione quantitativa dell'erosione chimica apparirebbe da 1,4 a 2,4 volte superiore alla
realtà. Per il trasporto di fondo le misure sono molto difficili e i risultati limitativamente affidabili (5‐
15%). Il trasporto solido per essere comparato da un bacino all'altro deve essere espresso in forma
unitaria data la quantità diversa delle dimensioni dei bacini: si misura la quantità di sedimenti che
passa in una certa porzione nell'unità di tempo, ci sono differenze enormi, ad esempio tra aree
appenniniche e di pianura, dipende ciò da condizioni geologiche e poi giocano in maniera non
trascurabile i differenti fattori climatici. Accanto a queste misure indirette si possono fare delle
stime che si basano su delle correlazioni empiriche che hanno consentito di trovare una
correlazione tra parametri geomorfici e il trasporto d'acqua, consentono di informazioni
approssimative sulle correlazioni. Ricerche svolte in Italia hanno portato all'elaborazione di formule
empiriche che mettono in relazione il trasporto torbido annuo (Tu) con i due seguenti parametri
geomorfici:
•
Densità di drenaggio (D) esprime la fittezza della rete idrografica nell'ambito del
territorio
•
Gradiente di pendio delle aste fluiviali esprime per ogni singolo pezzo di asta Fluviale il
rapporto tra il dislivello dei punti estremi di un tratto di alveo e il tratto di quest'ultimo. Se
il gradiente di pendio è correlato all'erosione, possiamo chiederci perché è così importante
il gradiente di Drenaggio, quando abbiamo una rete così fitta il terreno deve essere
facilmente erodibile poiché questo renda possibile la nascita naturale degli alvei.
Naturalmente questo è correlato alle condizioni climatiche ed altri fattori favorevoli
USLE (universal soil loss equation) fornisce una stima specifica riconosciuta a livello
internazionale in base a diversi parametri specifici (quantità di terreno erosa ogni anno, fattore
di erosività della pioggia, fattore di lunghezza, fattore di pendenza, fattore di coltivazione)
L'erosione costiera e l'arretramento delle spiagge. Spiaggia: corpo sedimentario litoraneo, costituito
da materiale sciolto sabbioso oppure ghiaioso, in continua evoluzione.Il problema dell'erosione delle
coste basse rientra nella questione dei rischi naturali, in ragione delle conseguenze negative che
tale fenomeno può arrecare alle attività legate al turismo balneare e, quando particolarmente
intenso, anche dei possibili danni ad insediamenti urbani prossimi. Tale evoluzione dipende da una
serie di fattori naturali quali moto ondoso, maree, correnti marine, la topografia dei fondali,
l'apporto solido dalle foci dei corsi d'acqua ecc. L'iterazione di questi fattori determina i processi di
trasporto litoraneo dei sedimenti stessi e condiziona quindi le variazioni che una spiaggia può subire
nel tempo. Un cambiamento nel regime dei venti o nella direzione di certe correnti marine può così
essere alla base di una fase di avanzamento o di arretramento della linea di costa, secondo
oscillazioni cicliche ovunque verificate.
Cause antropiche dell'erosione delle spiagge. Quando una spiaggia si trova in una fase di forte
erosione, la causa più importante è spesso data da un deciso calo del trasporto del solido fluviale.
Quando si ha arretramenti in tempi brevi le cause sono interventi avvenuti in bacini idrografici o
interventi umani avvenuti lungo le fasce costiere
Entrambi sono causa di interventi antropici. Alcuni esempi:
•
Realizzazione di invasi artificiali lungo il corso dei fiumi
•
Coltivazione di cave inerti negli alvei
•
Sistemazioni idraulico‐forestali delle zone montane
•
Sfruttamento dell’acqua fluviale per scopi irrigui
•
Costruzione di opere marittime di difesa
•
Distruzione di sistemi di dune litoranee
•
Subsidenza indotta delle fasce litoranee
Il caso dei litorali prospicienti: la foce dell'Arno. Un esempio molto interessante di rapida
evoluzione costiera, anche dovuta a fattori antropici, è dato dall'area della foce dell'Arno. In essa
infatti durante gli ultimi due secoli la morfologia ha mostrato cambiamenti di entità davvero
considerevoli. Le coste pisane sono state interessate da una situazione di avanzamento molto
rilevante, determinato dal fatto che nel 1500 ha subìto una espansione particolarmente rilevante.
Una delle caratteristiche ambientali è quella delle cosiddette LAME, strutture costituite da fasce di
territorio abbastanza strette lungo la costa.
1. 1606: Taglio ferdinandeo. La foce viene spostata di alcuni km verso nord, in breve
tempo si forma un nuovo delta nei pressi dell'attuale bocca
2. Fine XVIIII secolo. Massiccio disboscamento del bacino dell’Arno, con conseguente
aumento degli effetti erosivi e quindi del trasporto solido del fiume, il delta tende,
grazie alle sue condizioni dovute alla piccola glaciazione, ad accrescersi fino a
raggiungere intorno al 1850 la sua massima estensione.
3. 1850‐1890. Periodo di massima stabilità
4. Post 1890. Fase di erosione che inizialmente interessa la cuspide deltizia e le spiagge a
essa prospicienti (non sappiamo le cause, molto probabilmente cause antropiche)
5. 1926. la foce viene prolungata verso il mare mediante la costruzione di due lunghi
pennelli; tutto questo amplia notevolmente l'area nord, cosicché tutta la spiaggia della
tenuta di s. Rossore nel 1928 inizia a ridursi dopo essere stata fino ad allora in prevalente
avanzamento.
Situazione attuale: nonostante alcuni interventi hanno stabilizzato parte della situazione, desta
preoccupazione la continuazione migrazione del fenomeno erosivo, in particolare a nord oltre il
fiume morto e sud dove interessa in particolare parte della spiaggia di Tirrenia.
Opere di difesa delle coste basse. Per difendere le spiagge si può ricorrere a delle barriere di
protezione frangiflutti, costituite da grossi blocchi di pietra tetrapodi che possono essere di due tipi:
•
Longitudinali (Dighe). Andamento sostanzialmente parallelo a quello della costa, possono
essere aderenti alla costa o, come più spesso accade, foranee, ovvero distanziate da essa,
in modo da creare una zona di relativa calma con condizioni quindi favorevoli alla
disposizione dei sedimenti trasportati. Spesso tuttavia a causa dell'eccessiva
sedimentazione, quest'ultimo caso diventa col tempo meno fruibile e più basso, le acque
diventano maleodoranti per lo scarso ricambi imputabile ai tomboli di collegamento che
tendono a formarsi (Tomboli, strutture lungo la costa che hanno delle disposizioni parallele
alle dighe, creando delle paludi), per cercare di evitare che si formino tali specchi di acqua
stagnante all'interno delle scogliere si procede talvolta a realizzare dighe sommerse (dighe
soffolte)che permette il ricambio dell'acqua
•
Trasversali (Pennelli). Hanno uno sviluppo ortogonale o variamente inclinato rispetto alle
rive, si protendono verso il mare aperto. La loro funzione è quella di favorire l'accumulo di
sabbia sul lato contro la quale sono diretti i venti dominanti e quindi il trasporto litoraneo.
Questo tipo di difesa si basa sulla realizzazione di una serie di strutture parallele,
distanziate tra loro anche in relazione alla lunghezza prescelta (disposizione a denti di
sega).
I GRANDI RISCHI METEORICI
Intensi Cicloni Tropicali (ed extratropicali)
Ciclone: regione (spesso di forma subcircolare) nella quale i valori della pressione atmosferica
decrescono dalla periferia verso il centro; un'area ciclonica è tipicamente associata a condizioni di
tempo perturbato con temporali, forti venti e piogge. Alle basse latitudini possono originarsi delle
strutture cicloniche di grandi dimensioni e forti intensità.
Esistono due tipi di aree:
a) Aree cicloniche
b)Aree anticicloniche
Classificazione dei cicloni tropicali
• Depressione Tropicale=V<62km/h si tratta delle perturbazioni di modesta intensità, simili
alla maggioranza di quelle che osserviamo alle nostre latitudini.
• Tempesta Tropicale=V compresa tra 62 e 118 km/h
• Uragani=V>118km/h
Ad ognuna delle perturbazioni classificate almeno come tempesta viene assegnato un nome proprio,
secondo delle procedure stabilite dalle istituzioni scientifiche competenti.
Gli uragani a loro volta (3 categoria) possono essere classificati in 5 gruppi sulla base della scala
SSHWS (Saffir-Simpson Hurricane Wind Scale).
Gli uragani ricadenti nelle tipologie 3 4 e 5 (sopra i 178 km/h) sono detti Uragani maggiori e nelle
regioni pacifiche occidentali vengono denominati tifoni (Il termine uragano è stato coniato
dall'inglese hurricane e vale specificatamente per le zone dell'atlantico e del pacifico orientale).
Le zone d'origine e le traiettorie dei grandi cicloni tropicali. I cicloni tropicali si formano sugli oceani a
latitudini approssimativamente comprese tra 5°e 20°, rimangono in vita per parecchi giorni per poi
spostarsi ad una velocità di 20- 50 km/h, descrivendo complessivamente traiettorie più o meno
lunghe migliaia di km, in alcune casi regolari, in altri più complesse. L'intensità non si mantiene
costante ma varia durante lo sviluppo della traiettoria, per cui lo stesso ciclone potrebbe colpire
territori diversi con violenza assai differente. Possiamo distinguere 7 bacini oceanici dei cicloni, dei
quali 4 nell'emisfero boreale e 3 in quello australe. Cosa strana: l'evento non si sviluppa nell'oceano
atlantico meridionale
Le caratteristiche principali degli uragani
• Le dimensioni degli uragani sono assai variabili da caso a casa, ma sempre rilevanti
• Non esistono delle norme generiche poiché variano molto da caso in caso
• Raggio medio 150-170 km/h
• Ci sono dei mesi dell'anno in cui aumentano le probabilità di un avvento di un uragano
Punta di massima frequenza: metà settembre (nell’atlantico non si è mai formato un forte
ciclone tropicale dal 1 gennaio al 7 marzo secondo le statistiche)
Quando l'uragano raggiunge le aree costiere. Quando le traiettorie dell'uragano si sviluppano
esclusivamente su aree marine, gli eventuali pericoli possono concernere soltanto la navigazione. I
rischi maggiori si hanno quando l'uragano va a colpire le zone costiere (verificandosi quindi il
fenomeno del landfall), non solo perché sono più abitate (quindi vulnerabili) ma anche perché
l'uragano, essendo un ciclone particolarmente intenso, è spesso accompagnato da fenomeni
diversi:
1. Innalzamento del livello marino (Storm Surge) anche di vari metri rispetto al livello medio>quando l'uragano si avvicina alla costa l'innalzamento diviene evidente. Il surge è dovuto
sia alla spinta dei venti sulla superficie delle acque che alla caduta della pressione
atmosferica al centro del ciclone, che favorisce un rigonfiamento locale del mare->Se
l'uragano si trova in pieno oceano la variazione del livello medio marino non è molto
sensibile, ma quando si avvicina ai litorali, con la riduzione di profondità dei fondali il surge
cresce ancora. Da considerare inoltre che il surgedovuto alla tempesta può aggiungersi ad
una fase di alta marea, dando luogo a valori ancor maggiori del livello del mare ed
incrementando così il pericolo di inondazione.
2. Venti impetuosi
3. Piogge di forte intensità
Le grandi tempeste in Europa
Al di fuori della fascia intertropicale si possono verificare questi fenomeni? Nel Nord Atlantico, a
latitudini tra 30 e 60°, si verificano dei cicloni molto intensi e questi sono conosciuti genericamente
come European Windstorm , essi hanno delle velocità elevate tipiche degli uragani (oltre i 120 km/h).
Nell'area del Mediterraneo l'intensità delle tempeste è inferiore, per cui sono rari i casi in cui si
verifichi una velocità elevata alla soglia degli uragani, le uniche aree a rischio sono il golfo di Genova
e di Venezia data la morfologia della costa "chiusa".
Analogamente ai cicloni tropicali, anche per le grandi tempeste di vento europee vi è il pericolo di
allagamenti costieri, dovuti al moto ondoso e al già descritto meccanismo del surge marino.
Grande tempesta del mare del nord (31-01-1953). La tempesta implicò danni ingenti (oltre 2000
vittime) e un innalzamento del livello del mare di oltre due metri nelle coste scozzesi, inglesi e
olandesi. A seguito della tragedia l'Olanda ha realizzato una serie di provvedimenti in caso di
innalzamento del livello marino.
I tornado. Non hanno nulla a che vedere con gli Uragani:
• Non si formano sul mare ma mediante una nube temporalesca (cumulonembo) che crea
intensi vortici d'aria che si estendono fino a toccare il suolo
• Sono più piccoli
• Durano molto meno, una decina di minuti, un'ora al massimo
• Percorrono traiettorie minori, al massimo una decina di km
• Intensità incredibile
Cumulonembi, Mesocicloni e formazioni dei tornado. Cumulonembo: imponente tipo di nuvola a
sviluppo verticale, dall'aspetto torreggiante. Tale struttura è originata da moti convettivi, in situazione
di elevata instabilità atmosferica che rende possibile la continua scesa di correnti d'aria. Se il processo
non viene interrotto, la nube cresce fino al limite superiore della troposfera dove il gradiente termico
verticale si annulla prima di iniziare a invertirsi (cambiamento di gradiente). Una volta raggiunta la
tropopausa (limite troposfera) la nube non può continuare a salire e si verifica così un'espansione, che
tende a imporre una rotazione di tutta la struttura. L'allargamento della parte sommitale del
cumulonembo fa sì che la struttura abbia così la forma tipica a incudine. In alcuni casi la corrente
ascendente associata alla nube è così intensa da causare il superamento del limite imposto dalla
tropopausa, con conseguente spinta di una porzione di nuvole nei livelli inferiori della stratosfera; il
fenomeno è reso visibile dalla presenza di una protuberanza a forma di cupola al di sopra della
superficie piatta dell'incudine. Sistemi temporaleschi di questo genere, chiamati supercelle, sono di
norma alimentati da venti freddi in quota che, scontrandosi con venti in quota che hanno velocità
diversa, tendono a imporre una rotazione a tutta la struttura: si parla così di mesociclone (=ciclone a
dimensioni contenute).
1. Quando in prossimità del suolo vi è dell'aria calda, si assiste ad una risalita vorticosa che esalta il moto
rotatorio del mesociclone;
2. Si inizia allora a delineare un percorso di correnti fredde che, lungo la parte centrale del
turbine ascendente, si dirige verso il terreno
3. A questo punto una colonna d'aria in forte rotazione emerge dalla base del cumulonembo,
assumendo una forma di un imbuto o di una proboscide
4. Se tale protuberanza tocca il suolo il tornado è in azione e i suoi contorni divengono ben visibili alla
base, grazie alla polvere e ai detriti che esso aspira sul terreno.
Alcune caratteristiche del tornado. Il tornado può presentarsi come fenomeno isolato oppure
organizzato in serie di numerosi eventi (tornado outbreak) in un breve lasso temporale.
• Il vortice può avere forme differenti e dimensioni assai variabili (larghezza media 150- 200 m)
siamo a conoscenza sia di tornado piccolissimi che hanno danneggiato territori di pochi metri
che di vortici enormi di ampiezza superiore ai 2 m
• In orizzontale la velocità di spostamento media è 50 km/h,ma vi sono state delle occasioni
nelle quali il vortice si è mosso ad oltre 100 km/h
• Durata di vita di un tornado-> una decina di minuti, in conclusione il percors medio sarà 1020 km.Anche in questo caso la situazione può variare molto, a volte la velocità è così rapida
che si esaurisce subito, distruggendo pochi territori, in altri casi il tornado è rimasto attivo
per molte ore.
Elementi di pericolosità del Tornado
- Azione del vento a velocità eccezionali
- Differenza di pressione tra interno ed esterno dell'imbuto (anche del 10-11%)->costituiscono un
ulteriore elemento di pericolo per la possibilità che i tetti degli edifici saltino, non essendoci il tempo
per un riequilibrio della pressione all'interno delle abitazioni.
La classificazione dei tornado.
Il vento impetuoso è il fenomeno che più di ogni altro contraddistingue i tornado (in alcuni casi
anche 500-600 km/h).la forza distruttiva del vortice è proporzionale alla velocità dei venti di
rotazione, per cui è logico che essa costituisca il parametro in base al quale si effettuano le
classificazioni.
Scala Fujita. Simile a quella degli uragani, è suddivisa in 6 gradi, in base alla max velocità delle
raffiche, che va da F0(=64-116km/h) fino a F5 (oltre 418 km/h)
Le regioni della Terra interessate al fenomeno. I tornado si possono formare in varie regioni del
Pianeta, ovviamente con probabilità molto diverse da caso a caso, a seconda delle differenti
caratteristiche meteorologiche, geografiche e morfologiche. Non c'è nessuna parentela con gli
uragani poiché i tornado si sviluppano molto di più nelle medie latitudini essendo innescati da
scontri di masse d'aria calda e massa d'aria fredda. Inoltre il tornado necessita di ampi spazi e
pianeggianti. Zone maggiormente interessate: medie latitudini dove possono esserci scontri di masse
d'aria con forti contrasti termici (quasi tutta l’Europa settentrionale, gli Stati Uniti, il Canada
settentrionale, l e F ilippine, parti settentrionali dell’Australia).
La Tornado Alley degli Stati Uniti
Gli USA sono il Paese che soffre i maggiori problemi per i tornado; la parte centrale della
confederazione nordamericana offre infatti le condizioni ideali per tali manifestazioni, sia per la sua
morfologia quasi completamente pianeggiante, sia perché l'andamento secondo i meridiani delle
principali catene montuose statunitensi consente alle grandi masse d'aria di muoversi liberamente
su grandi distanze e di scontrarsi, dando luogo a sistemi temporaleschi di estrema violenza.
Tornado Alley. Ampia parte del territorio degli Usa dove i fenomeni sono molto frequenti.
I tornado in Italia. La frequenza con la quale i tornado si formano sul nostro territorio è molto
inferiore rispetto a quella degli Stati Uniti, ma il fenomeno non è comunque affatto trascurabile. La
morfologia piuttosto tormentata dell’Italia riduce la probabilità di manifestazioni tornadiche, certe
aree pianeggianti sono comunque interessate dal ripetersi di questi eventi come la Pianura Padana,
la Puglia, piane costiere laziali e Sicilia orientale. Trombe marine. Vortici lungo i litorali che possono
essere ricondotti a tipologie diverse: alcuni hanno una vera e propria genesi tornadica, altri si
originano mediante meccanismi un po’ diversi e di norma non assumono intensità particolarmente
alte. Non è escluso che questi violenti eventi non possano colpire l’Italia, come testimoniano i
tornadi avvenuti in provincia di Treviso nel 1930(F5) e nella regione dei colli Euganei nel 1970 (F4).
Un altro fenomeno temporalesco di pericolo: il microburst. In occasione di temporali violenti si
possono verificare dei danni dovuti all'azione del vento che spesso sono erroneamente associati al
formarsi di un tornado, questo fenomeno è chiamato microburst. Impetuosi venti freddi discendenti
che da un cumulonembo si dirigono verso il terreno con velocità che può superare i 250 km/h. L'area
interessata ha un diametro di norma non superiore ai 2 km, quando le dimensioni sono superiori si
tende a parlare di macroburst. Quando la colonna d'aria arriva al suolo perpendicolarmente tende a
espandersi in tutte le direzioni, dando luogo a una sorta di anello dove i venti assumono direzioni
opposte in breve ambito spaziale.Due tipi di microburst:
•
Microburst umidi- associati a forti rovesci di pioggia o grandine,per cui visivamente sono
facilmente individuabili grazie alle tipiche bande di precipitazioni che collegano la base di
cumulonembo col suolo
• Microburst secchi- Si manifestano senza precipitazioni, per questo motivo sono
identificabili solo dal sollevamento di polvere procurato dal vento discendente quando
raggiunge il terreno, oppure per la formazione di una virga (=tipica scia di precipitazione
che si stacca dalla superficie inferiore del cumulonembo ma non raggiunge il suolo a causa
dei forti processi di evaporazione)
A parte i danni che può provocare localmente, il microburst costituisce un serissimo pericolo per
la navigazione aerea.