Geografia dei rischi naturali ‐ S. Pinna La struttura interna della Terra e la Tettonica a Placche Dato che la Terra ha un raggio di 6350 km, le nostre conoscenze sulla sua costituzione interna si basano su ipotesi. Mediante calcoli geofisici sappiamo che la densità media del globo è 5,51*10^3kg/m^3 mentre i valori della superficie sono inferiori a 3 al centro la densità raggiunge valori superiori a 10. L'analisi delle onde sismiche prodotte dai terremoti ha provato che la loro velocità varia (in particolare nella parte liquida del nucleo, che non può essere attraversata dalle onde "S") all'interno del globo: ciò significa che le onde attraversano materiali diversi. Dato ciò ipotizziamo che la Terra sia costituita da tre involucri ceoncetrici: • la Crosta che ha spessore più ridotto nelle aree oceaniche e superiori in quelle continentali (>70 km); la discontinuità di Mohorovicic (o di Moho), scoperta nel 1909, segna il passaggio al mantello con rocce di densità maggiore. • il Mantello, diviso in superiore (700 km di profondità) ed inferiore (2900 km) è di materiale più denso; la discontinuità di Gutemberg collega questo involucro al nucleo. • il Nucleo, anch'esso diviso tra una parte esterna, composta da materiale di tipo liquido con densità 9‐10, ed una interna, di materiale solido con densità 12‐13. ‐ la Litosfera è l'insieme della Crosta e del primo spessore del Mantello detto LID (vedi schema 1.1, pag. 15); struttura rigida rispetto alla sottostante, più plastica. ‐ l'Astenosfera è lo strato più debole sotto la litosfera, secondo alcune teorie esso termina alla sommità del mantello inferiore anche se una precedente discontinuità suggerisce una profondità più attendibile di 400‐450 km. La Tettonica a Placche La teoria della Tettonica a placche o a zolle, è stata elaborata negli anni '60. Essa descrive i movimenti delle strutture litosferiche giustificando anche la presenza e la distribuzione di catene montuose, dorsali e fosse oceaniche, vulcani, terremoti ed altri elementi. La litosfera è divisa in numerose placche, o porzioni, alcune grandi ed altre più piccole originate dagli attriti tra le grandi zolle. Tutte le zolle si muovono in alcuni casi collidendo (con la consumazione di materia) o divergendo (creando nuovo materiale litosferico) tra loro. I continenti, inseriti nelle relative placche ne seguono il movimento. Il motore che consente lo spostamento delle zolle litosferiche è dato da celle convettive di materiale nell'astenosfera, alimentate da un calore profondo, presumibilmente originato dal decadimento di isotopi radioattivi. Questi flussi sono analoghi a quelli che si osservano in un liquido messo in un contenitore scaldato dal basso; essi determinano la tipologia del margine tra placche confinanti che può essere divergente, convergente o trasforme. • Divergente: Nei bacini oceanici sono le dorsali, ovvero catene montuose sommerse che presentano un solco (rift) lungo l'asse longitudinale con una costante attività vulcanica effusiva che crea nuova litosfera. Un esempio è la dorsale Medio Atlantica che dai fondali artici arriva all'antartico. In zone continentali la divergenza dei margini crea grandi depressioni di forma allungata (rift valley) che, come in Africa Orientale, prelude ad una futura zona oceanica. Altri casi di rift valley sono il Mar Rosso e il Golfo della California. Tutti i margini divergenti sono sedi di vulcanismo e di attività sismica. • Convergente: Quando si scontrano due placche oceaniche una discende sotto l'altra, verso il mantello, attraverso la subduzione. La spinta verso il basso crea una fosse oceanica e crea inoltre le condizioni per un'intensa attività vulcanica che origina degli archi insulari. Se una placca oceanica collide con un continentale, quella oceanica si piega e scorre verso il basso dando origine ad una fossa nei fondali marini, mentre sul lato continentale nasce una catena montuosa parallela alla costa. Se convergono due placche continentali si creano condizioni diverse dalla classica subduzione oceanica. La collisione dell'India con la zolla eurasiatica ha determinato il sovrascorrimento di quest'ultima sulla prima, che però non si è incuneata nel mantello causando il raddoppiamento dello spessore litosferico con la nascita dell'Himalaya e del grande altopiano del Tibet. In ognuno dei casi sopracitati, nelle zone di convergenza si verificano terremoti, in particolare nella convergenza continentale. • Trasforme: In alcune situazione le placche scivolano l'una a fianco dell'altra senza creazione o distruzione di litosfera, si parla quindi di margini conservativi. Essi corrispondono a faglie trasformi, fratture lungo le quali avviene lo spostamento reciproco di due blocchi adiacenti. Le faglie trasformi caratterizzano le dorsali oceaniche che appiano disarticolate per la dislocazione con andamento trasversale rispetto al naturale corso della catena. Un esempio noto è la faglia di San Andrea in California dove le rocce affioranti hanno età diverse per il continuo scorrimento. Questa faglia crea speso terremoti anche in epoche recenti con conseguenze catastrofiche. Brevi note sul clima e i suoi caratteri di aggressività Tempo: stato dell'atmosfera in un determinato momento; è definito quindi dall'insieme degli elementi meteorologici (temperatura, precipitazioni, nuvolosità, vento, radiazione solare, pressione e umidità), valutati in un certo istante, mediante diverse grandezze misurabili Clima: quadro delle condizioni atmosferiche caratteristiche di un luogo, che scaturisce da un'analisi statistica delle serie storiche di dati meteorologici. Tale quadro sarà perciò definito in base a: I. valori medi per un certo intervallo temporale; II. variabilità associata alle medie calcolate; III. valori estremi misurati; IV. caratteri di stagionalità; V. andamenti tendenziali nel lungo periodo Fattori del clima: tutte quelle cause generali che, agendo sui vari elementi quali temperatura, pioggia ecc, danno origine ai diversi tipi di tempo e di clima. Essi sono di due categorie: • Fattori cosmici: quelli che influiscono sulla ripartizione dell'energie solare nella superficie terrestre: il moto di rivoluzione, l'eccentricità dell'orbita, il moto di rotazione, la forma quasi sferica della terra e le conseguenti differenze nell'angolo di incidenza dei raggi solari • Fattori geografici: tutti quelli in grado di agire in modo tale da poter modificare le ipotetiche condizioni cosmiche: la distribuzione dei mari e terre emerse, la distanza dal mare, le correnti oceaniche, la distribuzione globale della pressione atmosferica, l'orientamento delle masse continentali e delle catene montuose, le differenze altimetriche, l'esposizione topografica, la presenza di laghi, i caratteri del suolo, la vegetazione, le azione antropiche. IL RISCHIO VULCANICO Vulcanismo: quell'insieme di manifestazione della dinamica endogena che comportano la fuoriuscita sulla superficie terrestre di sostanze di vario tipo come lave, elementi frammentari solidi o pastosi, gas, acque termominerali e fanghi caldi. Vulcanismo secondario: emissioni di gas (che per condensazione generano le "fumarole"), acque o fanghi Vulcanismo primario: eruzioni di lave (attività di tipo effusivo) o espulsione violenta di elementi frammentari (attività di tipo esplosivo con espulsione di prodotti piroclastici i cui depositi sono detti "tefra") Vulcano: qualunque spaccatura della crosta terrestre attraverso la quale i materiali magmatici possono risalire dal mantello fino alla superficie. Esso è formato da una struttura interna con una camera magmatica e un condotto che la collega al cratere, ed una esterna chiamata edificio vulcanico formato per accumulo di materiale eruttato; il cratere è una depressione che rappresenta la bocca di un vulcano dalla quale il materiale magmatico può arrivare all'esterno, uno è quello sulla sommità mentre altri possono aprirsi lungo il corpo dell'edifico. La caldera è una depressione di notevole ampiezza generata dal collasso di una gran parte dell'edificio vulcanico verso la camera magmatica, a seguito dell'intenso svuotamento. La distribuzione geografica globale delle aree vulcaniche Strettamente connesse con le placche litosferiche; forte attività vulcanica nei margini divergenti (rift valley e dorsali oceaniche) mentre vulcani subaerei sono ai margini della regione pacifica (subduzione di margini convergenti), la ring of fire. Sporadici sono i vulcani nell'interplacca, che si formano per estensione della litosfera o per gli hot spot, punti caldi nel mantello che causano la fuoriuscita di materiale fluido verso l'alto. Le Hawaii sono un esempio di placca oceanica che si muove per il passaggio sopra un punto caldo, lo Yellowstone invece è un vulcanismo per hot spot in una zolla continentale. Tipologie di eruzione e relativi livelli di pericolosità Eruzione effusiva Emissione graduale di lava. Non sono pericolose anche se è necessario che tra il vulcano e la zona urbanizzata vi sia sufficiente distanza dato che non si può intervenire sui flussi eruttati. Eruzioni di questo tipo sono caratteristiche dei margini divergenti; zone particolarmente a rischio sono quindi l'Islanda (dorsale medio atlantica) e le Hawaii (dorsale delle Hawaii). Il Nyiragongo, nella Repubblica Democratica del Congo, è uno dei pochi casi di eruzione effusiva pericolosa perché ha un lago di magma fuso che, con lesioni dell'edificio, può originare valanghe di lava (verificatesi negli anni 1977 e 2002 con colate prossime ai 100 km/h, nel secondo caso raggiungendo anche al città di Kiwu). Eruzioni esplosive I magmi ad alto contenuto in silice (magmi acidi) trattengono in soluzione grandi quantità di gas. Quando nel percorso del fuso verso l'alto si arriva alla saturazione, il gas in eccesso si separa dalla fase liquida e forma delle bolle che tendono a spostarsi verso la superficie, per poi esplodere una volta che la pressione esterna sia più bassa di una certa soglia. L'esplosione delle bolle frammenta il magma in elementi dimensioni variabili, scagliati al di fuori del cratere. Le eruzione esplosive sono caratterizzate dalla "colonna eruttiva", un getto di elementi piroclastici grossolani, ceneri e gas che si spinge molto in alto e che, negli eventi più intensi, può oltrepassare di decine di chilometri il limite superiore della troposfera. L'Indonesia è la zona più a rischio. Tipi di eruzioni esplosive La classificazione deriva da vulcani italiani (pliniano= Vesuvio) Stromboliana: il magma all'interno dell'edificio forma una sottile crosta che ostacola la risalita della bolle. Quando la crosta salta fuori vengono proiettati piccoli frammenti piroclastici. Dopo l'esplosione c'è una fase di fontane di lave e colate di media fluidità. Vulcanica: data la viscosità del magma che trova difficoltà a salire in superficie si creano degli ostacoli alla fuoriuscita dei gas. Le eruzione sono quindi più sporadiche data l'alta pressione necessaria a far saltare il tappo di roccia; le esplosioni sono più violente con colonne eruttive di 15‐20 km di altezza. Subpliniana (VEI= 4): eruzione violenta. Colonna alta 30 km, con caduta di tefra in un'area molto ampia vicino al vulcano; formazione di flussi piroclastici. Plininana (VEI= 5): eruzione di estrema violenza. Colonna eruttiva gigantesca con probabile collasso della parte superiore dell'edificio. I flussi piroclastici devastano i versanti della montagna e le zone contermini. Ultrapliniana (VEI= 6‐7): eruzione di eccezionale intensità. Gli effetti dell'eruzione arrivano ad influenzare l'intero Pianeta perché determinano cambiamenti climatici per l'immissione nell'atmosfera di polveri in grande quantità. L'indice di esplosività VEI (vulcanic explosivity index) Il VEI è un indicatore semiquantitativo elaborato al fine di esprimere la dimensione delle eruzioni vulcaniche esplosive; si basa sul volume di materiale emesso dal vulcano sotto forma di prodotti piroclastici; questo dato viene stimato valutando i volumi dei depositi ed esprimendoli in termini di Dense Rock Equivalent (DRE), ossia non considerando i vuoti. La scala VEI va intesa in senso logaritmico poiché ogni grado corrisponde ad un evento 10 volte superiore al precedente. Tutte le eruzione conosciute sono comprese tra 0 (totalmente effusiva) e 8 (esplosioni colossali). Un VEI 5 fu il St. Helens di Washington nel 1980, un VEI 6 il Pinatubo nelle Filippine, il Krakatoa in Indonesia e il Santorini nel Mar Egeo. Il Tambora, la più grande eruzione esplosiva di VEI 7, in Indonesia avvenne nel 1815 con un'emissione di 100 km^3 di materiale e il collasso dell'edificio; la polvere introdotta nella stratosfera rimase sospesa per vari anni intorno alla Terra raffreddando il clima (il 1816 è stato definito l'anno senza estate). I supervulcani e le eruzioni colossali Il termine supervulcano è stato creato dai media (prima menzione in un documentario della BBC nel marzo 2005) ed indica quelle strutture contraddistinte da un'enorme caldera e da una camera magmatica di dimensione proporzionali, ove vi possono avere luogo eruzioni imponenti di VEI 8 ed emissione di 1000 km^3 di materiale (tuttavia non ne abbiamo osservato alcuno poiché questi esempi hanno tempi di ritorno lunghissimi). Il Toba (in Indonesia) ha eruttato 74 mila anni or sono producendo 2800 km^3 di magma (mille volte l'eruzione vesuviana). Il supervulcano più noto è quello dello Yellowstone che deve la sua origine ad un punto caldo nel mantello. Potranno ripetersi simili eruzioni come quella del Toba? Anche se in tempi del tutto incerti sì, con il rischio di veder spazzata via ogni forma di vita. Fenomeni di pericolo connessi alle eruzioni esplosive La ricaduta al suolo di prodotti piroclastici (tefra): la cenere vulcanica può contaminare le riserve idriche, causare tempeste elettriche, danneggiare ogni tipo di macchinari e determinare il collasso dei tetti e degli edifici per il loro accumulo. Se ingerita la cenere può provocare soffocamento, se investiti si possono subire ustioni e danni e alla vista. Flussi piroclastici: valanghe costituite da gas, ceneri vetrose, porzioni di roccia e parti di magma in stato di fluidizzazione che hanno una forte velocità. Si sviluppano in eruzione di VEI > 3: a) per il collasso della colonna eruttiva per la riduzione dell'energia esplosiva; b) per l'esplosione laterale a causa del franamento di una parte dell'edificio vulcanico; c) per l'esplosione direzione causata da una ostruzione del cratere (di questo tipo fu l'eruzione del Pelée nella Martinica, che distrusse la quasi totalità della città di Saint‐Pierre). I surge sono correnti turbolente nelle quali i gas sono volumetricamente prevalenti rispetto alle particelle solide; spesso si originano dallo scorrimento di colate piroclastiche, di cui rappresentano in pratica la parte più diluita. I base surge sono un'espansione laterale concentrica di vapore e materiali solidi che si sviluppa alla base della nube eruttiva in condizioni di vulcanismo fraetomagmatico (ovvero quando è derivato dalla sua interazione con acqua di falda oppure per il collasso di una colonna pliniana). Lahar: forma di rischio idrogeologico originata da eruzioni vulcaniche; consistono in colate di fango ad elevata densità, derivanti dallo smottamento di prodotti piroclastici incoerenti che si accumulano lungo i pendii del vulcano e che successivamente si imbevono d'acqua a seguito di piogge intense o per lo scioglimento di nevi o ghiacci. La frequenza di questi fenomeni è assai elevata perché le polveri immesse in atmosfera durante l'eruzione agiscono da nuclei di condensazione, favorendo la formazione delle gocce d'acqua e quindi aumentando la probabilità di piogge. Bisogna notare che altre colate di materiale fangoso si possono avere anche in presenza di vulcanismo effusivo, quando la fuoriuscita di lava provoca uno scioglimento di ghiaccio. I terremoti (molto superficiali): le fasi di intensa attività sono accompagnate da frequenti terremoti che possono risultare molto pericolosi per il fatto che la posizione degli ipocentri è sempre molto superficiali (secondo i documenti, anche nel 79 e nel 1631 con l'eruzione del Vesuvio seguirono due terremoti di magnitudo 5). Le colate di lava: se nelle eruzioni di forte esplosività la parte prevalente del magma viene espulsa sotto forma di prodotti piroclastici, quelle di tipo stromboliano e pure vulcaniano sono spesso accompagnate anche da fasi effusive, con produzione quindi di colate che possono recare seri danni a fondovalle. La previsione delle eruzioni Vi è una notevole irregolarità nella distribuzione temporale delle sporadiche manifestazioni eruttive di varia intensità con una conseguente aleatorietà nella previsione di tale fenomeni, tuttavia vi sono dei risultati positivi per quanto riguarda le previsioni deterministiche a breve periodo. Elementi di primaria importanza: prevedere un'eruzioni con sufficiente anticipo per predisporre la procedura di emergenza; l'approccio a tale problema è essenzialmente empirico ed è collegato al rapporto tra l'attività vulcanica ed altri fenomeni. Esempi di segnali premonitori: • Attività sismica in superficie. Le eruzioni sono precedute da numerosi terremoti superficiali, spesso di elevata magnitudo. Aumento di terremoti in brevi tempi =probabilità di eventi vulcanici (1958‐> piano d'evacuazione della regione nell'Asama in Giappone, dato l'aumento dell'attività sismica tra gennaio‐febbraio e maggio‐giugno e ottobre‐dicembre‐> l'eruzione è avvenuta dopo il piano d'evacuazione tuttavia non vi è la certezza che anche per lo stesso vulcano le situazioni si riproducano in modo costante) • Movimenti del suolo. Utili segnali premonitori in genere con caratteri di medio‐lungo termine: iniziale rigonfiamento della parte sommitale dell'edificio vulcanico, cui fa seguito un rapido abbassamento non appena è iniziata la fase di attività eruttiva. In alcuni casi i movimenti sono evidentissimi in altri sono impercettibili a occhio nudo, ma possono essere misurate con apposite strumentazioni. • Cambiamenti della declinazione magnetica. Per la variazione di temperatura causate dalla risalita del magma. • Le variazioni nell'intensità del campo magnetico. • L’abbassamento dei livelli piezometrici (limite di saturazione dell’acqua) di falde acquifere superficiali • I caratteri delle fumarole (quantità, composizione chimica e temperatura). Salita del magma=aumento delle temperatura=maggiore emissione di vapori con cambio di rapporto di concentrazione tra sostanze e diversa volatilità. • L'apertura di fratture nel corpo del vulcano • La modifica dello stato termico del vulcani I vulcani italiani attivi Sul territorio italiano si possono considerare 10 vulcani attivi che hanno cioè dato luogo a manifestazioni primarie negli ultimi 10mila anni, di cui sei sono nell'area siciliana e quattro in quella campano‐laziale. Area Siciliana: Pantelleria, Isola Ferdinandea, Etna Area Campano‐Laziale: Vulcano, Lipari, Stromboli, Ischia, Vesuvio, Campi Flegrei, Colli Albani In attività persistente sono solamente Stromboli e Etna, tuttavia si ritiene che anche gli altri possano produrre eruzioni in tempi brevi o medi, per questo vengono monitorati continuamente. Pantelleria. L’isola è situata nel Canale di Sicilia, appartiene ad una struttura a rift, costituito da crosta continentale, e rappresenta la parte emersa di una struttura vulcanica formata da lave e depositi piroclastici. L’attività eruttiva più recente risale al 1831 in corrispondenza di frattura eruttive subacquee vicino all’attuale porto. C’è un termalismo diffuso rappresentato da fumarole e da sorgenti di acqua calda. Isola Ferdinandea. Nata nel canale di Sicilia nell'estate del 1831, è sopravvissuta solo per pochi mesi all'azione erosiva del vento e del mare (isola che non c’è). La nascita dell'isola fu preceduta da dei terremoti e, alla fine di alcune eruzioni si costituì appunto un'isola, di un perimetro di quasi 1 Km. Etna. Il vulcano siciliano è il più grande d’Europa e tra quelli più attivi del mondo. Le sue eruzioni avvengono sia in sommità, dove attualmente si trovano 4 crateri, che lungo i fianchi, ove vi sono circa altri 300 crateri secondari. Fino a tempi recenti si credeva che l'Etna fosse un vulcano prevalentemente effusivo, viste le emissioni di colate laviche, tuttavia studi recenti hanno rivelato che questo vulcano è stato anche sede di episodi esplosivi, inoltre può generare significative quantità di materiale piroclastico che può uscire anche dalle bocche laterali, andando avanti così per mesi, causando problemi e disagi nelle zone popolate e rappresentando una seria minaccia per il traffico aereo. Vulcano. È la più meridionale delle isole eolie, famosa per la sua frequente attività magmatica già in epoca classica, la struttura dell'isola è data dal collasso di tre diversi edifici vulcanici. La parte più settentrionale dell'isola è la penisola Vulcanello. Ultima eruzione di Vulcano: 2 agosto 1888‐marzo 1890. Da allora Vulcano si trova in una fase di sonno, che tuttavia si può risvegliare. Lipari. La più grande isola dell'arcipelago, l'apparato vulcanico è composto da numerosi centri eruttivi che mostrano un allineamento più o meno analogo a quello di tutta la parte emersa. Lipari è un sistema vulcanico tuttora attivo, come dimostra la debole attività termale e le fumarole. Stromboli. Uno dei vulcani più conosciuti al mondo, anche per la sua persistente attività, interrotta soltanto da episodi occasionali di attività più intensa. Ischia. L'isola rappresenta la porzione sommitale di un apparato vulcanico che si eleva per circa 900 m dal fondo del mare. La sua attività vulcanica è connessa con le fasi tettoniche a carattere distensivo che hanno caratterizzato l'evoluzione del margine tirrenico della catena appenninica tra il Pliocene e il Quaternario. Ultima eruzione: 1302. Colli Albani. Gruppo di rilievi di origine vulcanica situati a sudest di Roma originatasi circa 600 mila anni fa, che è conosciuta col nome di Vulcano Laziale. Dato che le ultime eruzioni risalgono a circa 17000 anni fa il vulcano potrebbe rientrare tra quelli ritenuti non attivi, tuttavia lo classifichiamo tra quelli quiescenti poiché non abbiamo notizie di attività più recenti. L'area vesuviana: quella a maggior rischio vulcanico del mondo. Non è possibile trovare un’area con una pericolosità vulcanica elevatissima associata ad una tale vulnerabilità territoriale, elevatissima, che è sempre andata crescendo (R=P*V). L’edificio è costituito da due strutture vulcaniche di diversa età: la più antica è quella del Monte Somma, la cui parte superiore è collassata generando una caldera; la più recente è data dal cono del Vesuvio, cresciuto all’interno di quest’ultima. La storia dell’apparato Somma‐Vesuvio riguarda gli ultimi 25 mila anni rispetto ai 400 mila anni fa dell’inizio dell’attività vulcanica. INGV distingue 5 fasi 1. 2. 3. 4. 25‐19000 anni: eruzioni effusive che hanno costituito il M somma 18‐16000 anni fa: eruzioni di tipo pliniano 8000‐79 d.C.:3 eventi pliniani e almeno 6 subpliniani (tra cui Pompei) 79‐1631: quarta fase (importante poiché siamo stati in grado di usarla come riferimento), conclusasi con l'eruzione subpliniana del 1631 5. 1631‐1944 La sua storia eruttiva è quindi segnata da 4 importanti eventi pliniani: ‐79: eruzione che portò la distruzione di Ercolano e Pompei dopo: piccole eruzioni effusive e esplosive, il vulcano dopo alcuni episodi nel XII secolo entra in una fase di attività ridotta per circa 5 secoli ‐1631: la più violenta eruzione dei tempi moderni, ha prodotto dei ripetuti flussi piroclastici che sono arrivati fino al mare. Ha scatenato una nuova intensa attività che ha comportato un totale di 49 eruzioni ‐1906: eruzione intensa che procurò gravi danni e numerose vittime ‐1944: eruzione importante, ma molto più tranquilla di quella del 1631 e del 79, dopo di essa il vulcano è di nuovo in stato di Quiescenza a condotto chiuso che tuttora permane ma che è destinato prima o poi a concludersi. La vulnerabilità della regione vesuviana Il vulcano nonostante la sua eccezionale pericolosità appare ormai completamente contornato da una cintura urbana che tende a occuparne anche parte dei versanti fino a quote considerevoli. La parte costiera è sicuramente più a rischio rispetto alla zona est, ciò è derivato dal suo carattere morfologico: infatti dato che la sua forma è derivata dall'espulsione di caldere esplosive, fa sì che la probabilità di espulsioni nella parte occidentale sia maggiore, ma ciò non significa che non siano a rischio le altre zone circostanti, basti pensare che nella provincia di Napoli risiedono 3,1 milioni di persone per una densità di ca 2670 ab/km². Anni 90: elaborazione di un piano d'emergenza‐> Pianificazione d'emergenza nell'area vesuviana Elaborandolo si è deciso di far riferimento all'evento subpliniano del 1631 con un VEI 4 (manifestazione violenta) In funzione quindi dell'eruzione ipotizzata e dei fenomeni che essa comporterebbe si è provveduto a suddividere il territorio in 3 zone di pericolo: Zona rossa: Pericolo massimo dovuto ai flussi piroclastici Zona Gialla: Pericolo relativo (dovuto alla ricaduta di Tefra) Zona Blu: come la gialla ma con possibilità di inondazioni Il piano è stato approvato nel 1995, nel 2014 è stata ampliata la zona rossa, dove risiedono circa 700 mila persone. Onde poter prevedere l'eruzione con sufficiente anticipo, sono continuamente monitorati vari parametri del vulcano dall'osservatore vesuviano.7 livelli di pericolo (0=stato attuale, 6=inizio vero e proprio di un'eruzione) Il piano di emergenza si articola in sei fasi successive: Fase di attenzione (livelli 1 e 2 di pericolo). Si attiva per variazioni significative dello stato di attività del vulcano Fase di preallarme (livello 3 di pericolo). Dichiarazione dello “stato di emergenza nazionale” con nomina di un Commissario Delegato. Fase di allarme (livello 4). Implica le operazioni di evacuazione della popolazione a rischio (zona rossa). Fase di attesa. Controllo del territorio. Fase dell'eruzione. Valutazione di una possibile evacuazione della zona gialla a rischio tefra. Fase successiva all'evento. Collocare nelle zone colpite tutte le strutture necessarie alle diverse operazioni di protezione civile. La struttura generale del programma appare abbastanza logica ed adeguata, ma sono le possibilità reali di una sua messa in pratica che destano perplessità e che hanno suscitato molte discussioni sul Piano: infatti questa evacuazione deve essere totale e immediata, senza contare le complicazioni che deriverebbero dal fattore panico ecc. I Campi Flegrei: un supervulcano nel nostro territorio I campi flegrei costituiscono un esteso complesso vulcanico che comprende i settori occidentali di Napoli e l'intera fascia costiera che si affaccia sul Golfo di Pozzuoli, fino a Campo Miseno. Ampia caldera di forma complessa, generata da due grandi eventi eruttivi che risalgono a 39 e a 15 mila anni fa: hanno lasciato evidenti tracce nella morfologia del territorio. Storia eruttiva. 60‐39000 anni fa: 11 eruzioni esplosive e 5 effusive. Al termine di questo periodo si è verificato un gigantesco evento esplosivo VEI=7 considerato come il più importante del mediterraneo negli ultimi 200 mila anni‐> determinò la formazione della Piroclastica tufacea che seppellì quasi tutto il territorio campano. Almeno 9 sono le manifestazioni avvenute nei campi Flegrei tra 39 mila e 15 mila anni or sono, un intervallo nel quale, analogamente al precedente, fasi di attività si sono alternate a quelle di quiescenza. La vulnerabilità del territorio. È impossibile valutare la vulnerabilità di tale zona data la sua forte urbanizzazione. L'attività magmatica dei Campi Flegrei è testimoniata dalla presenza di numerose fumarole e da fenomeni idrotermali. La Solfatara è una particolare area craterica caratterizzata da fumarole di anidride solforosa, getti di fanghi bollenti ed elevata temperatura del suolo. Altro fenomeno tipico della regione flegrea sono i bradisismi, cioè dei movimenti verticali del terreno relativamente lenti, come dei lenti terremoti, vengono percepiti solo mediante delle apparecchiature. Il tempio di Serapide vicino al Porto di Pozzuoli viene utilizzato per la ricostruzione storica delle oscillazioni del suolo grazie alla presenza sulle colonne di fori litodomi (molluschi) dalla cui posizione si possono dedurre le variazioni, relative del livello marino. Un episodio di bradisismo davvero intenso precedette l'eruzione del Monte Nuovo: il mare si ritirò di quasi 400 m per un innalzamento del mare di oltre 7 m. IL RISCHIO SISMICO Terremoto (o sisma): serie di oscillazioni del terreno, che si succedono per un periodo di tempo che può andare da pochi secondi ad alcuni minuti, causate da una liberazione rapida ed improvvisa di energia meccanica nel sottosuolo, che si propaga mediante onde sismiche. La maggior parte dei sismi è di origine tettonica, cioè conseguenza di movimenti che avvengono lungo grandi superfici di frattura della crosta terrestre, dette faglie. I forti attriti in gioco impediscono che una data spinta si tramuti in un movimento continuo, determinando quindi un progressivo accumulo di tensione elastica; quando si raggiunge il limite di resistenza dei materiali rocciosi, si produce appunto quella liberazione improvvisa di energia cinetica, che causa le scosse di terremoto. Rispetto alla superficie, o specchio, di faglia: Tetto: la massa rocciosa che sovrasta lo specchio Letto: la parte sotto la superficie Rigetto: spostamento verticale Tipi di faglie: Dirette: dovute a tensioni distensive della crosta; il tetto si abbassa rispetto al letto, determinando un allungamento della porzione di roccia coinvolta Inverse: il tetto scorre sopra al letto per spinte compressive; ne deriva un accorciamento Trascorrenti: spostamento solo orizzontale Ipocentro: luogo dove su origina il terremoto, inteso come area dato che viene coinvolto un piano di faglia. Epicentro: luogo della superficie terrestre posto sulla verticale dell’ipocentro che corrispondo alla zona dove il terremoto si manifesta con massima intensità Onde sismiche Onde di Volume: che si originano dall’ipocentro Onde P: le più veloci ad arrivare al sismografo. L’oscillazione è nella stessa direzione dello spostamento (onde longitudinali per compressione e dilatazione) Onde S: arrivano per seconde, sono onde trasversali (oscillazioni ortogonali al verso del moto) per cui non si trasmettono nei liquidi. Onde di Superficie: che si originano quando quelle di volume incontrano una superficie di discontinuità fisica (la superficie terrestre); esse sono avvertite come scossa di terremoto. Onde L (Love): fanno vibrare il terreno sul piano orizzontale in direzione ortogonale rispetto alla direzione di propagazione dell’onda Onde R (Rayleight): fanno vibrare le particelle superficiali del terreno secondo un movimento ellittico, retrogrado in rapporto alla direzione di propagazione dell’onda. Classificazione dei terremoti in base alla profondità dell’ipocentro a) Superficiali: fra 0 e 70 km (più frequenti) b) Intermedi: fra 70 e 300 km c) Profondi: fra 300 e 700 km N.B: Oltre 700 km le condizioni di pressione e temperatura non rendono più possibile il fenomeno. Sismogramma: grafico che scaturisce dalla registrazione del passaggio, nel luogo dove è posizionato lo strumento, di un treno di onde sismiche; da esso si possono ricavare gli intervalli di tempo che separano l’arrivo di un tipo d’onda all’altro e l’ampiezza elle oscillazioni che serve per classificare il terremoto. L’esame di almeno tre sismogrammi ottenuti in tre località differenti serve per individuare l’epicentro dell’evento. La distribuzione geografica della sismicità Per valutare le caratteristiche di rischio di un territorio si utilizza la misura dell’accelerazione massima del suolo; la pericolosità è espressa in termini di probabilità di superamento di certe soglie di accelerazione, in un dato lasso di tempo. La distribuzione geografica del pericolo del territorio varia da aree continentali, quasi del tutto prive di pericolo, ad aree esposte a grande rischio. Inoltre si nota una forte analogia con il vulcanismo quindi un’alta probabilità di eventi sismici nei territori lungo i margini delle zolle. America Settentrionale: pericolo elevato nella fascia occidentale (scontro fra la placca nord‐ americana con la pacifica); bassissima sismicità in gran parte del Canada, mentre nella parte centro orientale i valori sono più elevati, in special modo nella New Madrid seismic zone, lungo la valle del Mississippi. America Meridionale: pericolo lungo le coste pacifiche in diminuzione spostandosi verso Est. Europa: bassa sismicità al centro e al nord, eccezion fatta per l’Islanda, alta nelle regioni meridionali con la Francia che invece presenta un sismicità bassa. Italia, le zone balcaniche, tutta l’area dello Ionio e dell’Egeo, gran parte della Turchia sono ad elevato rischio sismico. Africa: valori considerevoli solo nella grande rift Asia: le uniche zono dove la sismicità è assente sono la Siberia e il Kazakistan, bassa nel settore centro meridionale della penisola indiana e quelli di Nord‐Est e di Sud‐Ovest della Cina. Alta sismicità in Giappone, nelle Filippine, nella zona dell’Himalaya e a Sud‐Ovest del continente asitico. Australia: sismicità medio bassa La geografia della sismicità in Italia I più alti valori di sismicità si riscontrano nella Sicilia sud orientale, nello Stretto di Messina, in tutto l’asse appenninico compreso fra la Calabria e l’Umbria meridionale, con l’aggiunta di Veneto orientale e Umbria (rilievi carnici). La Sardegna in pratica non presenta rischio sismico; Piemonte, Alto Adige e la Penisola Salentina hanno pericolosità basse. La Toscana è a rischio nella zona appenninica del Mugello. Magnitudo dei terremoti Ritcher è stato il primo a creare un metodo per la definizione strumentale della potenza di un evento sismico. Nel 1935 ha proposto il calcolo della Magnitudo (M), un parametro ottenuto dalla differenza tra il logaritmo di massimo traccia di ampiezza (logA) misurata in mm attraverso il Wood Anderson e un terremoto di riferimento, ovvero un sisma campione scelto da Ritcher che ad una distanza di 100 km dall’epicentro avrebbe determinato un’ampiezza della traccia massima pari ad un millesimo di millimetro (logA0): M = logA ‐ logA0 (Il risultato è un n. decimale che varia da valori negativi fino anche a infinito) Il parametro introdotto da Ritcher è definito “magnitudo locale” (ML) e richiede l’applicazione della seguente formula: ML = Log(A/T) + f(D,h) + Cs + Cr A= ampiezza del segnale; T= periodo del segnale al sismografo; D= distanza dall’epicentro; h= profondità dell’ipocentro; Cs e Cr= fattori dipendenti dalle caratteristiche geologiche del sito della stazione di rilevamento e della regione attraversata dalle onde. Dopo Ritcher sono stati elaborati altri metodi tutti però accumunati da un difetto ovvero un effetto di saturazione verso i valori più elevati e quindi la difficoltà a distinguere correttamente i sismi di grande violenza. Tale problema è stato risolto nel 1979 con l’introduzione della “magnitudo momento” (Mw), un parametro riferito al “momento sismico” (M0), cioè un’ampiezza in grado di esprimere la quantità di energia liberata; esso è esplicabile nella seguente formula: M0 = µ * A * L µ= modulo di rigidità delle rocce; A= area della superficie (o specchio) di faglia coinvolta nel movimento; L= spostamento medio lungo la faglia stessa. La scala della Magnitudo Momento è stata tarata per adeguarsi sostanzialmente ai valori che scaturirebbero da quelle messe a punto in precedenza; la classificazione di terremoti di considerevole energia avviene ormai secondo la Mw (il sisma più forte con Mw =9, 5 si è verifica nel 1960 in Valdivia nel Cile). Fra magnitudo e numero di terremoti vi è una relazione inversa del tipo: LogN = α – β * M (Ergo più i terremoti hanno un magnitudo momento di valore alto meno sono frequenti) Il sisma più violento in Italia fu quello del 1693 nella parte sud est della Sicilia con Mw = 7,4, seguito da quello di Messina del 1908 con Mw = 7, 2. L’energia (erg) liberata nell’ipocentro può essere valutata, in funzione della magnitudo, con l’espressione: LogE = 1,5 * M + 11,8 Grazie ad essa sappiamo che il sisma in Valdivia ha sviluppato un energia 120 mila volte superiore a quella della bomba di Hiroshima. Scale dell’intensità e carte a isosisme Magnitudo ≠ Intensità Magnitudo. Energia liberata nell’ipocentro quantificata secondo una scala di valori continua e illimitata, la scala Richter. Intensità. Entità degli effetti del sisma sulle persone, sui manufatti e sull’ambiente stimata sulla base dei 12 gradi della scala Mercalli. Quindi vi è un unico dato di magnitudo e diversi valori di intensità nella varie parti del territorio. L’uso delle scale di intensità permettono quindi di ottenere una distribuzione geografica degli effetti del sisma, mediante la costruzione delle isosisme. Scala MCS (Mercalli – Cancani – Sieberg). Scala frutto di un serie di aggiustamenti successivi apportati allo schema originario della Mercalli Scala EMS (European Macrosesmic Scale). Scala frutta della commissione sismologica europea, entrata in vigore nel 1998 con una collaborazione tra ingegneri e geofisici. Entrambe le scale sono basate su 12 livelli, l’1 si riferisce ad una scossa avvertibile solo con appositi strumenti e 12 è il livello di una situazione simil apocalittica con la distruzione di ogni manufatto. A parità di condizioni, con l’aumentare della magnitudo cresce anche il valore massimo della Scala Mercalli; perciò sono state ricavate delle correlazioni empiriche che legano le due grandezze. Gutemberg e Ritcher hanno calcolato la seguente formula: M = 0,67 * Imax + 1,0 Mentre sui terremoti superficiali in area appenninica si utilizza la seguente variante: M = 0,40 * Imax + 1,69 Attraverso le scale di intensità è possibile ottenere le isosisme ovvero rappresentazioni della distribuzione geografica degli effetti di un sisma attraverso linee di confine, necessariamente approssimate, fra zone ove il terremoto si è manifestato secondo due successivi gradi di intensità. Le isosisme racchiudono quindi aree dove gli effetti del terremoto sono stai dello stesso tipo: i massimi saranno nella zona epicentrale, mentre valori più bassi si riscontreranno allontanandosi da essa. Date le condizioni geologico‐tettoniche le isosisme hanno della forme complesse simili a ellissi o più irregolari, magari lobate. Lo studio della sismicità e i criteri per la relativa zonazione Per poter predisporre degli adeguati piani di mitigazione dei rischi è necessario innanzitutto definire in maniera migliore possibile i caratteri di sismicità del territorio. Si utilizzano dati strumentali forniti da numerose stazioni appartenenti a reti sismiche (nel caso dell’Italia l’INGV svolge un apposito servizio di monitoraggio con oltre 300 sismografi) e lo studio sistematico degli effetti del sisma sul territorio riferito solo agli ultimi 100 anni. La documentazione storica è un dato altrettanto utile; le informazioni sulla storia sismica di un territorio vengono raccolto in appositi cataloghi sismici, nei quali ogni singolo terremoto è descritto in modo sintetico, riportando, se possibile, valori quali: data e ora dell’evento, posizione dell’epicentro, profondità dell’ipocentro, zona ove si è riscontrata la massima intensità, magnitudo, effetti sulle persone, eventuali modificazioni indotte sulla morfologia o sull’idrografia, fonti bibliografiche utilizzate, livello di incertezza dei dati catalogati. Cosa va tenuto presente negli studi di sismicità? Molto di rado un terremoto si manifesta come una scossa isolata, quanto piuttosto all’interno di una sequenza sismica costituita da un insieme di episodi ricorrenti nella stessa zona in un breve lasso di tempo; le sequenze possono essere di tipo diverso: . Scossa Principale ‐> Repliche = alla prima scossa (magnitudo elevata) segue sempre un ulteriore rilascio di energia mediante una serie di eventi di minore intensità. . Scosse premonitrici ‐> Scossa principale ‐> Repliche: La scossa più violenta è preceduta da altre, deboli ed in numero sempre limitato. . Sciame sismico: varie scosse, tra le quali non si può riconoscere un evento principale (in genere non c’è pericolo). . Scosse multiple: due o più episodi principali che avvengono anche nell’arco di mesi, possono essere assai pericolose. Con le informazioni derivanti dalla storia sismica di una determinata regione è possibile costruire delle carte tematiche che mettono in luce la distribuzione geografica di alcuni aspetti particolarmente significativi. Carta degli epicentri: Riporta i luoghi epicentrali di tutti i terremoti di una certa intensità che si sono verificati in un determinato periodo. Carta dei valori massimi di intensità osservati: Può essere costruita secondo il principio delle isolinee, oppure col metodo a mosaico, adattandosi alla ripartizione amministrativa del territorio. Per mitigare il rischio sismico, l’azione si deve concentrare sulla predisposizione di particolari procedure e soprattutto sull’applicazione d i speciali norme per le costruzioni nelle zone che potrebbero essere interessate dalle scosse di terremoto. Si procede quindi ad una zonazione ovvero si divide il territorio in basse ai diversi livelli di pericolo. Macrozonazione Sismica Riferita a regione relativamente ampie e contraddistinta da un ridotto livello di dettaglio, con rappresentazioni cartografiche a scala medio‐piccola. Si basa su valutazione statistiche in merito alla probabilità che in una certa area si manifesti un determinato livello di scuotimento del suolo. Nei primi anni 2000 è stato completato un inquadramento della zona sismica dell’Italia con individuazione della zona di massimo pericolo sull’asse appenninico fino alla stretto di Messina. Microzonazione Sismica È quella che riguarda le aree strette ed è caratterizzata da un alto livello di dettaglio, con rappresentazioni quindi mediante carte a grande scala. Oltre che dai fattori che governano la macrozonazione essa dipende anche da condizioni locali legate alla topografia ed alla geologia dei singoli siti. Inoltre deve tener conto anche di tutte le possibili amplificazioni delle scosse e di altri fenomeni di percolo, come la liquefazione che si potrebbero manifestare in diversi luoghi. Liquefazione del terreno in condizioni sismiche. Perdita totale di resistenza di terreni incoerenti saturi sotto sollecitazioni statiche o dinamiche, in conseguenza delle quali essi raggiungono uno stato di fluidità pari a quello di una massa viscosa. Questo fenomeno avviene di norma in depositi di sabbie fini, sciolte e sature, quando sotto l’azione di carichi applicati o forze dinamiche, la pressione interstiziale (pressione idraulica presente nel terreno in conseguenza alla presenza d’acqua) dell’acqua eguaglia quella totale di confinamento, annullando la resistenza a taglio del materiale. Ne consegue un cambiamento di stato dal solido al liquido, con il risultato finale che del tutto ciò che sta sopra viene risucchiato in basso: quando abbiamo terremoti potenti e lungi avviene questo fenomeno per gli sforzi di tagli ciclici che il terreno subisce. Se il sisma ha intensità e durata elevate vi è una temporanea condizione di galleggiamento delle particelle solide nell’acqua di falda, cui seguono, al termine della scosse, l’espulsione dell’acqua verso la superfice e nuovo depositi dei granuli di sabbia secondo una struttura più addensata di quella precedente. Gli effetti prodotti dalla liquefazione possono esser impressionanti: dall’affondamento, al ribaltamento di edifici antisismici, al cedimento di ponti e viadotti, franamento di interi versanti. Ci sono alcuni tipi di terreni che per la loro genesi sono particolarmente soggetti a questo tipo di rischio: Depositi deltaici recenti, terreni di riporto, depositi palustri, meandri fluviali abbandonati, paleoalvei (aree dove una volta scorrevano dei corsi d’acqua), terrazzi (marini o fluviali). Una volta che un terreno va in liquefazione determina una fuoriuscita di grande quantità d’acqua e il terreno si compatta, provocando l’abissamento (sprofondamento o rotazione dell’edificio). Il rischio va sempre considerato come il prodotto di una pericolosità e di una vulnerabilità. Vulnerabilità sismica: per qualificare il grado di vulnerabilità bisogna valutare: Le caratteristiche costruttive dei vari manufatti L’educazione e l’addestramento delle persone all’evacuazione Terremoti con eventi di liquefazioni: Nigata in Giappone, 1964 (ribaltamento di edifici, abbassamento del livello del suolo) Alaska 1964 La vulnerabilità verso i terremoti e mitigazione del rischio Non possiamo prevedere i terremoti, possiamo solo cercare di tenere sotto controllo l'attività sismica. Esaminando molti casi storici di gravissimi disastri ci rendiamo conto che certe conseguenze catastrofiche sono state procurate dalla violenza dei sismi, ma ancor di più dalla vulnerabilità dei territori che avevano colpito. Il terremoto che aveva causato più vittime della storia: Shaanxi (1556) ‐> oltre (800 mila vittime)‐> numero ingente di morti dovuto al fatto che gran parte della popolazione viveva in abitazioni tradizionali (case‐caverne) scavate in roccia molto friabile. Altri due casi di eventi catastrofici: Terremoto di S.Francisco (1906) e di Messina (1908). La protezione civile ha realizzato un sondaggio sulla vulnerabilità del territorio italiano: Ha suddiviso i manufatti secondo le 3 categorie generali di vulnerabilità della scala MSK: • Classe A (alta vulnerabilità) • Classe B (media vulnerabilità) • Classe C (bassa vulnerabilità) Abbiamo in grande maggioranza del territorio italiano una vulnerabilità elevata. La previsione dei terremoti • Previsioni di tipo statistico: Molto attendibili visto il grande numero di eventi sui quali basare le stime, anche se sono un po’ più incerte per i terremoti violenti, delle buone conoscenze sulla storia sismica portano comunque a definire degli scenari piuttosto chiari. Siamo ancora tuttavia lungi dalle previsioni di un singolo terremoto • Previsioni deterministiche: Non siamo ancora in grado di determinare quando avverrà esattamente un terremoto in modo tale da dare l'allarme alla popolazione. Ci sono alcuni segnali premonitori per un terremoto molto utili quali: velocità delle onde longitudinali P, livello del suolo, campo di gravità, resistività elettrica delle rocce ecc. In tutta la storia della sismologia siamo riusciti a prevedere un solo terremoto‐> Haicheng, Cina (1975). Un gruppo di sismologi cinesi, studiando le caratteristiche geologiche di una regione, scoprirono che quella determinata area sarebbe stata soggetta a un grave terremoto nel giro di un paio di anni ‐> qualche mese più tardi l'aumento consistente del rumore di fondo condusse a ritenere che mancassero non più di sei mesi al sisma‐> venne programmato così un piano d'evacuazione e dichiarato lo stato d'allarme a febbraio a causa dell'aumento d'intensità dei piccoli terremoti: una volta evacuata la città, la sera dello stesso giorno un terremoto di magnitudo 7 sconvolse la città. L'evento riscontrò un successo enorme ma va considerato come un evento fortunato: nel 1976 il terremoto della regione Tangshan rase tutto al suolo: in questo caso i segnali premonitori non permisero di andare oltre un generico allarme a tempo indeterminato. La mitigazione del rischio sismico Direzione più importante per ridurre i rischi‐>edilizia fondata su rigorose norme antisismiche Importante da non trascurare: importanza dei programmi di educazione della popolazione Re Ferdinando di Borbone fu il primo nel 1783 ad emanare le prime disposizione antisismiche dopo le scosse che investirono la Calabria nel febbraio‐marzo di quell’anno. Lo Stato Italiano pensò a norme antisismiche solo nel 1908 dopo il terremoto di Messina. Nel 1937 nasce il grado di sismicità S con valore 12 per i comuni classificati nella categoria I che viene direttamente trasformato in un parametro di progettazione, il coefficiente di intensità sismica (C) C = (S – 2)/100 IL RISCHIO TSUNAMI Tsunami (o maremoto): treno di onde, generate dallo spostamento di un enorme volume d’acqua nel mare (o eventualmente in un grande bacino lacustre). Esse sono caratterizzate da una lunghezza d’onda, la distanza tra due creste o due gole, successive, anche di centinaia di chilometri. In mare aperto il fenomeno è rilevabile solo con apposite strumentazioni in quanto l’ampiezza, ovvero l’altezza raggiunta dall’onda rispetto al livello marino medio è di norma inferiore ad un metro. Quando l’onda invece, si avvicina alla costa, la velocità diminuisce a poche decina di km/h mentre l’ampiezza aumenta, creando dei muri d’acqua. Run‐up: l’altezza massima, rispetto al livello marino normale, raggiunta dall’acqua sulla terraferma. Essa dipende da tre fattori: a) l’energia dello tsunami; b) la distanza dal punto epicentrale, cioè dal punto dove si origina il fenomeno; c) la morfologia dei fondali della costa. Coefficiente di run‐up: rapporto tra il run‐up e l’ampiezza dell’onda di tsunami nel cuore dell’oceano. Run‐up distance: estensione verso l’interno della zona allagata dallo tsunami, influenzata anche dalla pendenza media del terreno oltre che dal run‐up. Run‐up massimo: ondata frangente più grande, tra le prime a raggiungere la terra. N.B. l’azione distruttiva di un maremoto non si esplica in modo istantaneo ma si protrae per tempi abbastanza lunghi. Il periodo di oscillazione di uno tsunami è di circa 10‐20 minuti con conseguente devastazione delle fasce litorali per l’alternanza ciclica di trasgressione e regressione dell’acqua marina, con crescente quantità di detriti veicolati. Se il maremoto si manifesta con un cavo d’onda si produce una specie di risucchio delle acque base con il risultato di vedere i fondali più vicini alla costa scoperti; se interpretato correttamente questo fenomeno è un fondamentale avvertimento dell’arrivo della prima cresta d’onda dello tsunami. I possibili tipi di genesi di uno tsunami Il catalogo mondiale degli tsunami GTDB (Global Tsunamis Data Base) riporta 2100 eventi accaduti negli ultimi 4 mila anni con la seguente percentuale di origine: 75%: sismica 10%: frana 4%: vulcanica 3%: metereologica 8%: non definita Origine sismica (75%). Gran parte degli tsunami è causata da sismi sottomarini, dotati di determinate caratteristiche ovvero un ipocentro che non sia troppo profondo, una magnitudo significativa, di almeno 6,5, e soprattutto che il movimento della faglia sia tale da provocare uno sposamento verticale del fondo marino in grado di mettere in moto la massa d’acqua sovrastante. Il run‐up massimo di questi tsunami può difficilmente superare i 30‐35 m, altrimenti il fenomeno è provocato da frane sottomarine locali, innescate dal sisma (il terremoto del 1964 in Alaska ha provocato uno tsunami record di 68 m). La magnitudo dei terremoti potenzialmente generatori di tsunami è di almeno 6,5; il pericolo di maremoti al di sotto di tale potenza è minimo, mentre oltre la soglia di 8,0 vi è in pratica la certezza che al sisma si associ uno tsunami. Il fatto che, tra magnitudo dei terremoti e violenza del maremoto, vi sia una correlazione poco stretta dipende essenzialmente da tre fattori: La variabilità dovuta alla profondità dell’ipocentro e alle differenze nei meccanismi delle sorgenti sismogenetiche: Le differenze nella localizzazione della sorgente (zone di subduzione, bacini marginali, pianure abissai ecc…) La possibilità che prendano corpo meccanismi secondari, quali le frane sottomarine Tsunami di origine sismica più forti negli ultimi tempi: Indonesia (26 dicembre 2004). Un terremoto di Mw 9,1 con epicentro a largo delle coste nord‐ occidentali di Sumatra ha prodotto uno tsunami che ha devastato i paesi affaccianti sull’Oceano Indiano causando un numero di vittime di circa 300 milia unità. Run‐up di 35 m nella zona epicentrale e di 6‐7 m nello Sri Lanka. Giappone (11 marzo 2011). Terremoto di Mw 9,0 con epicentro a est dell’isola di Honshu, devastando l’isola suddetta e Hokkaido. Run‐up di 30 m nelle zone più esposte e esplosione di un reattore della centrale atomica di Fukushima. Tsunami causati da frane (10%). Si possono originare sia da frane in ambiente subaereo che comporti l’impatto di una massa rocciosa con l’acqua, sia da una frano sottomarina. Nel caso di una subaerea, quando il movimento si sviluppa ad elevata velocità, si possono creare delle ondate davvero gigantesche con record di valori run‐up. La massima pericolosità si sviluppa in sede locale dato che la loro energia si dissipa piuttosto rapidamente con l’allontanarsi delle onde dalla sorgente. A causa di forti terremoti il rischio di tsunami causati da frane aumenta, un esempio è il terremoto dell’Alaska del 1964 il cui maggior numero di vittime fu causato da onde nate dal collasso di delta costieri Origine vulcanica (4%). Ci sono diverse modalità per la nascita di un maremoto da vulcani: Collasso della caldera in una struttura vulcanica a contatto col mare Eruzione esplosiva sottomarina Flusso piroclastico che impatta sull’acqua con velocità elevata Frana dovuta al collasso di pare dell’edifico vulcanico, durante un evento eruttivo Frana per cedimenti strutturali nel corpo dell’edificio vulcanico, relativi all’instabilità che, in taluni casi, ne caratterizza certe sue fasi evolutivi Il collasso calderico del vulcano Santorini colpì l’isola di Creta (1630 a.C.), come anche il collasso del Krakatoa portò ad un’inondazione della zona dello Stretto della Sonda (1883). Uno tsunami causato direttamente da un’eruzione vulcanica sottomarina fu quello dell’isola di Kuyushu (1781). Lo Stromboli a causa del collasso di una parte dell’edifico vulcanico ha provocato un violento maremoto nel 2002. Meteotsunami (3%). Fenomeni poco noti (tsunami meteorologici ≠ onde di marea di grandi tempeste marine). I meteotsunami sono dei maremoti con caratteri, lunghezza d’onda e periodo, analoghi a quelli degli altri tipi, ma originati da processi atmosferici. Sono connessi a onde atmosferiche di gravità, cioè a quelle oscillazioni dell’aria che si trasmettono nei bassi e medi strati della troposfera e che provocano le tipiche increspature delle nubi, talvolta visibili nelle foto satellitari. Queste oscillazioni dell’atmosfera, dovute a moti convettivi, brusche variazioni bariche, passaggio di fronti, intense perturbazioni con attività temporalesche, possono creare particolari sistemi di onde nel mare che tendono ad amplificarsi per fenomeni di risonanza, per poi dar luogo a dei run‐up anche di qualche metro in insenature di particolare morfologia (molto strette e allungate). Tsunami orinati dall’impatto di un asteroide. Non i sono conoscenze dirette di maremoti di questo tipo, per la bassa frequenza degli eventi di impatto di un corpo celeste con la superficie terrestre, anche se molto probabilmente durante la storia del pianeta ci sono stati episodi del genere La classificazione degli tsunami. Una prima classificazione può essere fata in base all’entità e all’estensione geografica degli effetti distruttivi: Tsunami Transoceanici. Run‐up non inferiori a 5 metri su coste distanti almeno 5 mila km dalla sorgente; procurano danni significativi nel lato opposto di un bacino oceanico. Tsunami Regionali intensi. Nella regione prossima alla sorgente hanno causato danni gravi con vittime Tsunami Regionali. Danni consistenti nella regione prossima alla sorgente, senza vittime. Nel corso dell’ultimo secolo sono state messe a punto scale simili alla Mercalli per valutare gli effetti procurati dagli tsunami. Scala Ambraseys‐Sieberg. Utilizzata soprattutto nel Mediterraneo, si basa su 6 classi (I onde rilevabili solo da strumenti, VI distruzione totale della zona costiera) Scala Papadopoulos‐Imamura. Scala di 12 livelli (2001), simile alla MCS; dipende dagli effetti sulle persone e sugli oggetti e dai danni subiti dalle costruzioni. Per comparare la forza di tsunami diversi si utilizza il parametro di energia totale. Nel 1963 è stato teorizzata una formula per indicare il grado di intensità (m) di uno tsunami prendendo in considerazione il run‐up massimo (Hmax) osservato. m = log2(Hmax) Nel 1972 alla suddetta formula è stata suggerita una nuova relazione da Soloviev che ha introdotto il così il parametro d’intensità Soloviev‐Imamura (parametro I), ora il principale quantificatore nei cataloghi degli tsunami con l’elemento Hav (av= average) ossia il run‐up medio lungo le coste vicine al luogo di origine dell’evento I = 0,5 + Log2(Hav) Quando si dispone di date strumentali è possibile calcolare anche la magnitudo degli tsunami (Mt), attraverso la formula di Abe del 1979: Mt = α * Log(h) + β * Log(R) + K h= altezza d’onda in metri, R= la distanza dalla sorgente in km (deve essere almeno 100); α, β e K= costanti determinate in modo da rendere la scala della magnitudo degli tsunami più vicina possibile a quella dei terremoti. La distribuzione geografia degli tsunami. Se consideriamo le aree ove si originano gli tsunami, è evidente che esse corrispondano in gran parte con i margini attivi di placca, dove hanno sede i più intensi fenomeni sismici e anche vulcanici. Non sorprende che l’anello del fuoco nel Pacifico sia anche la sede nella quali si è prodotta la maggioranza di maremoti conosciuti. Tuttavia possono essere interessate anche regioni che non avrebbero un rischio tsunami sotto l’aspetto delle loro caratteristiche geologiche, come dimostra lo tsunami del 2004 a Sumatra, visto che danni gravi si sono avuti da Ceylon fino all’Africa orientale, zone del tutto prive di sorgenti tsunagemiche. Il mediterraneo è suddiviso in 16 aree tsunagemiche, distinte in 4 classi di potenziale in base alla frequenza e all’intensità dei maremoti che vi hanno avuto origine. Potenziale massimo: Golfo di Corinto Potenziale alto: Arco Ellenico occidentale e orientale Potenziale medio: Eolie, Calabria, Stretto di Messina Potenziale basso: Liguria, Toscana e Gargano. Pericoli di tsunami dalla piana abissale del Tirreno. Dai fondali del Tirreno meridionale, ad una profondità di circa 3500 m, vi si staccano 3 seamount vulcanici di grandi dimensioni, Magnaghi, Vavilov, Marsili, sui quali da un certo tempo è caduta l’attenzione degli studiosi, in merito a un possibile pericolo di tsunami che ne potrebbero derivare. Non sono ritenuti attivi al momento tuttavia date la particolari caratteristiche strutturali (Vavilov) o le dimensioni imponenti (Marsili) possono creare un elevato pericolo. Sistemi di Allarme. La mitigazione del rischio consiste nel mettere a punto dei sistemi di allarme che consentano alle persone di allontanarsi tempestivamente dai litorali prima che questi vengano inondati. Tali sistemi si fondano su: 1. Rete di sensori e di strumenti per individuare lo tsunami 2. Infrastrutture atte a favorire la diffusione dell’informazione il prima possibile IL RISCHIO IDROGEOLOGICO Dissesto idrogeologico: l’insieme di tutte le forme di evidente disordine o squilibrio del suolo (sia in superficie che al di sotto di essa); in tali forme l’acqua è generalmente il principale agente dinamico. Per arrivare a tale definizione sono occorsi diversi decenni data la difficoltà nel classificare in una singola definizione anche altri evento dovuti all’azione dell’acqua quali soprattutto gli allagamenti e le esondazioni fluviali. Il rischio idraulico. Con questo termine si intendono le varie forme di rischio di inondazioni, causate da eventi di piena in corsi d’acqua naturali o artificiali. L’Italia a causa della sua conformazione morfologica e climatica è molto soggetta a questo rischio. I fattori della pericolosità idraulica. Sul meccanismo di formazione delle piene, oltre a fattori naturali, incidono altri di tipo antropico dato che ogni intervento destinato a mutare i caratteri naturali dello spazio geografico, può avere effetti più o meno diretti sui caratteri idraulici dei bacini fluviali. Gruppi di fattori: L’aggressività del clima. È la causa prima di ogni episodio di piena, la precipitazione intensa. Un’irregolare distribuzione intermensile delle piogge e la frequenza e l’entità di eventi pluviometrici violenti sono fattori di pericolo di primaria importanza. Gli aspetti morfologici del bacino e gli usi del suolo al suo interno. Le dimensioni areali del bacino, difatti più è grande la sua estensione, tanto più abbondanti saranno le portate di piena per un determinato afflusso meteorico su un’unità di superficie; all’opposto, nei corsi d’acqua con bacini piccoli si dovrà fare attenzione alla frequenza delle piene che saranno di breve durata ma con considerevoli picchi al colmo e soprattutto quasi improvvise. La pendenza media dei versanti e la copertura vegetale del terreno è un altro aspetto che va preso in considerazione: com’è ovvio, una pendenza elevata tende a determinare delle piene abbondanti e dal rapido sviluppo, mentre la copertura vegetale gioca un ruolo essenziale di regolazione dei regimi idrici, in modo diretto con gli apparati esterni degli alberi, e indiretto, per l’elevata permeabilità degli strati superficiali del suolo boschivo. I processi di antropizzazione del territorio è forse il fattore più importante. La realizzazione di sistemi di contenimento delle acque o di arginature ai lati dell’alveo. Nonostante la loro funzione sia quella di difendere il territorio, la loro realizzazione è tra i possibili fattori di pericolo; vanno tenuti in considerazione due ordini di problemi: I. Se le strutture di contenimento non riguardano tutto il corso del fiume, la diminuzione del pericolo di un certo tratto può determinarne l’aumento in quelli successivi (es. Firenze, post 1966: innalzamento delle spallette nei lungarni e abbassamento platee di Ponte Vecchio hanno aumentato i problemi a valla della città) II. Sotto la spinta della corrente di piena, una parte dell’argine può cedere (rotte), causando una braccia dalla quale fuoriesce l’acqua che invade le campagne circostanti; in questi casi le aree del medio e basso corso del fiume rischiano un’inondazione superiore a quella che si avrebbe in condizioni naturali, per le maggiori portate convogliate dal sistema di arginature Interventi diretti dell’uomo sulla configurazione dell’alveo. Opere che portano una modificazione del sistema idraulico dei bacini sono, ad esempio, quelle di “canalizzazione” per ridurre la naturale larghezza del letto fluviale, in ragione a molteplici obiettivi. Questi interventi hanno il risultato di determinare una capacità di deflusso delle acque generalmente inferiore a quella primitiva. Capita che per motivi di urbanizzazione corsi d’acqua siano fatti scorrere dentro alvei artificiali o siano “intubati” lungo i tratti di attraversamento dei centri abitati. A causa della cattiva manutenzione di opere realizzate nel nostro Paese come l’utilizzo di alveoli artificiali come discariche, si determina un restringimento dell’area a disposizione per lo scorrimento delle acque che possono originare un fenomeno ancora più pericoloso: se l’energia corrente è in grado di mobilizzare i materiali scaricati, questi possono ammucchiarsi e creare una specie di diga in grado di causa l’esondazione. Corsi d’acqua e relativi bacini idrografici. Bacino idrografico: porzione della superficie topografica che convoglia le acque, alimentate dalle precipitazione, verso il fondovalle dal corso d’acqua stesso. Ogni bacino è separato dagli adiacenti attraverso linee dette “spartiacque” che corrono sulla sommità dei rilievi. Alcuni fiumi per la circolazione sotterranea delle acque di infiltrazione ricevono l’apporto relativo a piogge cadute in certe parti di un altro bacino imbrifero; in tali casi gli spartiacque reali, o idrogeologici, differiscono da quelli topografici (per il caso dell’Italia vedi p. 161). Il coefficiente di deflusso. Il bilancio idrologico di un bacino imbrifero verte sul raffronto fra l’entità degli afflussi meteorici (Am) in un dato intervallo di tempo (in genere 1 anno) e quella del deflusso (D) nello stesso periodo. L’afflusso viene stimato con i dati provenienti dalle stazione pluviometriche nel bacino e nelle zone confinanti; dividendo il volume totale di acqua piovuta per la superficie del bacino si ottiene “l’altezza di afflusso”, espressa in mm. Il deflusso è dato dal volume dal volume d’acqua che fluisce nel fiume alla sezione di chiusura del bacino stesso; in modo analogo al precedente anche questo valore può essere dato in mm calcolando “l’altezza di deflusso”. Viene definito “coefficiente di deflusso” (CD) il parametro adimensionale ottenuto dal seguente rapporto: CD = D/ Am Di norma i valori sono inferiori all’unità per perdite dovute all’evapotraspirazione o ad altre cause, ma talora può accadere il contrario, quando si hanno sostanziosi contributi sotterranei da bacini limitrofi. Regimi di deflusso. Disponendo di serie pluriennali di dati sul deflusso si possono calcolare, oltre alla media annua, quelle mensili, atte ad invidiare il regime medio annuo; una maggiore o minore regolarità dello stesso dipende dalle condizioni climatiche, dall’estensione del bacino e dai sui caratteri geomorfologici. Massimi (nei grafici): periodi di piena, ovvero quei momenti dell’anno in cui è statisticamente più elevato il deflusso, in virtù della ciclicità stagionale. I corsi d’acqua si dividono in due categorie generali: Torrenti. Contraddistinti da bacini non molto estesi ed alvei con forti pendenze e conseguentemente elevata velocità media di scorrimento; il regime è assai irregolare con forti piene e periodi di magre molto pronunciati (tipico esempio: fiumare della Calabria e della Sicilia, con alvei ampissimi, ingombri di materiale detritico e spesso privi di acqua) Fiumi. Corsi d’acqua permanenti, dotati di velocità medie non troppo elevate. I regimi sono decisamente più regolari di quelli dei torrenti, con differenze però piuttosto marcate da caso a caso, tanto che quando l’irregolarità è assai pronunciata, si parla di fiumi a carattere torrentizio (come l’Arno). Flusso, portata, episodi di piena ed esondazioni fluviali. Portata Q. Il volume d’acqua che passa attraverso una data sezione nell’unita di tempo; è il parametro più importante per la definizione del flusso di un fiume e ha valori in m3/s. La portata dipende dalla velocità del flusso e dall’area di sezione dell’alveo occupata dalla massa liquida, due grandezze che vengono misurate in apposite stazioni lungo il corso d’acqua. Nel corso dell’anno si osservano numerose e marcate variazioni di portata, in funzione dei diversi episodi di pioggia che interessano il bacino imbrifero, o almeno una parte di esso. Nei periodi privi di apporti meteorici i fiumi hanno un deflusso ridotto, in quanto alimentati dalle falde sotterranee; quando si manifestano delle precipitazioni, parte dell’acqua inizia a ruscellare sulla superficie del terreno fino a raggiungere il collettore e a determinare un aumento delle portate, originando così il flusso in piena. Idrogramma di piena. Tipo di grafico che rappresenta i fenomeni sopraelencati che riunisce, in funzione del tempo, il pluviogramma dell’evento meteorico che ha causato la piena e il diagramma delle portate. Il flusso di piena comincia sempre in un momento successivo a quello d’inizio delle piogge, ma tende a crescere rapidamente fino a raggiungere la portata di colmo; la fase di diminuzione è assai più lenta, come testimoniato dalle diverse pendenze dei rami ascendenti e discendenti: tutto questo costituisce la cosiddetta onda di piena, un fenomeno che progressivamente di sposta da monte verso valle. Il ritardo fra le piogge e la relativa piena fluviale viene espresso da: Tempo di ritardo. Intervallo che separa il baricentro del pluviogramma da quello del diagramma delle portate di piena Tempo di risposta. Tempo che intercorre fra l’inizio delle piogge e il raggiungimento del colmo di pinea. Quando un corso d’acqua raggiunge una portata così elevata da superare la capacità massima di contenimento dell’alveo normale, si verifica l’esondazione con conseguente inondazione delle zone circostanti. Gli effetti dell’antropizzazione dei bacini imbriferi. I caratteri idrologici di un bacino possono essere alterati in modo consistente da eventuali processi di antropizzazione che dovessero verificarsi al loro interno. In tal senso sono tre tipi di azione umana che è indispensabile considerare per capire le modificazioni prodotte Disboscamento di alcune zone precedentemente forestate. Fattore negativo per la regolazione dei regimi idraulici, in quanto viene a mancare l’intercettazione operata sulla pioggia dagli apparati esterni delle piante, che riuscivano a far scorrere parte dell’acqua lungo i rami ed il fusto, favorendo così i processi di evapotraspirazione, a scapito del ruscellamento rapido; viene inoltre a mancare l’azione frenante sulla gocce di pioggia e viene diminuita considerevolmente l’infiltrazione. Urbanizzazione di ampie aree. Con conseguente impermeabilizzazione di ampie superfici, a causa della loro totale cementificazione; aumento della velocità di scorrimento delle acque. Pratiche agricole intensive con grande utilizzazione di mezzi meccanici. Queste attività possono determinare diminuzione della permeabilità degli strati superficiali a causa della compattazione prodotta dalle attrezzature e un aumento della velocità di ruscellamento. Note sul rischio idraulico in Italia. La condizione di pericolo è assai diversa a seconda del tipo di corso d’acqua, in quanto per quelli minori è sufficiente una singola e localizzata pioggia intensa di poche ore a innescare l’onda di piena, mentre per i fiumi maggiori le situazioni gravi si creano solo quando si registrano copiose precipitazioni che cadono su vaste aree anche per più giorni. Ci sono stati 1263 eventi con danni alle persone in quasi 1500 anni, un netta maggioranza dei quali ricade negli ultimi 150 anni; nonostante ciò il 90% dei decessi ricade prima del 1850. Nessuna regione è esente dal problema del rischio idraulico anche se aree dove la concentrazione è più elevata sono: l’arco alpino e prealpino, il Piemonte meridionale, la Liguria, il corso del Po, il bacino dell’Arno, la Campania centrosettentrionale e la meridionale. La questione del flash food: il caso della Liguria. Flash food: piene abbondanti che si sviluppano rapidamente in corsi d’acqua minori con bacino di notevole acclività, a seguito di precipitazioni molto intense e, in genere, anche concentrate su aree piuttosto ristrette. È un fenomeno di alta pericolosità sia per la velocità di scorrimento delle acque, sia per la ristrettezza dei tempi che separano le piogge dal colmo di piena, con conseguente difficoltà nel poter organizzare tempestivamente e azioni difensive. In Italia purtroppo le flash food sono un fatto abbastanza frequente in certe regioni geografiche caratterizzate da rilievi che affacciandosi direttamente sulla costa, offrono così un ostacolo allo spostamento di masse d’aria umida di provenienza marina (Toscana settentrionale, salernitano, Calabria e Sicilia). Il caso più tipico in tal senso è offerto della Liguria, una regione cui il territorio è pressoché interamente formato da rilievi che si sviluppano a ridosso della fascia litorale, dando luogo ad un’idrografia costituita da una serie di torrenti che partono da quote abbastanza elevate e arrivano a sfociare in mare dopo un percorso breve e ripido. Frequenza ed entità degli episodi pluviometrici intensi raggiungo in Liguria dei massimi non solo rispetto a tutta l’Italia ma anche all’interno mediterraneo. Qualche cenno sulle gravi alluvioni in Italia. Sardegna, ottobre 1951. Gravissima alluvione che presenta degli aspetti di eccezionalità climatica per l’estensione e la durata dei fenomeni pluviometrici violenti che, per più giorni consecutivi hanno flagellato interrottamente una buona parte dell’isola. Le stime parlando di quasi un terzo della regione alluvionato. Le precipitazione estreme furono causate da una configurazione meteorologica di blocca, cioè dalla presenza di un’area anticiclonica che determinò la presenza di una struttura depressionaria sul Mediterraneo. Polesine, novembre 1951. Dal punto di vista dell’estensione delle terre allagate e dei volumi d’acqua esondati, quella del Po del 1951 può essere considerata la più grande alluvione nella storia dello stato italiano: tre rotte che si formarono quasi contemporaneamente tra le province di Ferrara e Rovigo; i due terzi della portata si sono così riversati al di fuori degli argini. Causa principale: abbondanti precipitazioni la settimana precedente distribuite su tutto il bacino imbrifero del fiume Po. Toscana, novembre 1966. Disastro che colpì quasi l’intero bacino dell’Arno e la maremma toscana. In quel mese vi era una zona depressionaria centrata sul mediterraneo nord occidentale e un robusto anticiclone posizione sulla Russia; le correnti di aria polare attivarono il movimento in direzione settentrionale di masse d’aria calda e umida, che investirono così l’Italia, in particolare Toscana e Veneto nelle quali si verificarono precipitazione di tale copiosità da causare allagamenti ed alluvioni estremamente gravi. Le precipitazioni non ebbero caratteri di elevatissima intensità momentanea ma risultarono straordinariamente abbondanti per la loro continuità su un arco di oltre una giornata (95% del loro ammontare in sole 25‐26 ore). I cumulati furono superiori a 100 mm in quasi tutta la Toscana e in particolare 3 aree distinte nelle quali sono stati misurate delle precipitazione assolutamente eccezionali di oltre 300 mm: Grosseto, Badia, Agnano e Firenze. Grosseto: 323 mm n 24 ore, valori 5 volte superiori alla media. Badia Agnano, 473 mm, ‘evento superò la media di un lungo periodi di circa 10 deviazioni standard. Per quanto riguarda gli allagamenti causati dell’Arno problemi seri si ebbero lungo tutto il suo corso, praticamente ino alla foce: disastrosi furono poi gli allagamenti a Firenze dove la portata massima fu al di sopra del 4000 m3/s. il capoluogo aveva dovuto sopportare numerose inondazioni distruttive, ma quella del 1966 pare essere stata la peggiore di tutti i tempi a causa dell’ampiezza della zona alluvionata che per i livelli raggiunti dall’acqua nelle strade, sembra che in alcune zone bassa l’acqua sia salita fin quasi a 6 m. anche a valle di Firenze quasi tutti gli affluenti andarono in piena, tanto che inondazioni davvero catastrofiche riguardarono il tratto fra S. Maria a Monte e Pontedera. Parimenti catastrofici risultarono le inondazioni nella maremma toscana provocate sia dai corsi d’acqua minore che dall’Ombrone. La mitigazione del rischio idraulico. I tipi di interventi sono atti a ridurre la probabilità di esondazione, contenendo le acque e favorendone il deflusso oppure cercando di addolcire l’andamento dell’idrogramma di piena mediante l’abbassamento delle portate al colmo e all’allungamento dei tempi di ritardo. L’uomo attualmente non è minimamente in grado di ridurrei il rischio. Le uniche due cose che i possono fare sono: Ridurre la vulnerabilità e ridurre la pericolosità (data dalla possibilità che certe parti del territorio possano essere allagate da una fuoriuscita di acqua). Le soluzioni più frequenti sono: Argini in terra. Uno dei metodi più diffusi anche per la sua relativa economicità; quasi tutti i tipi di fiumi hanno queste difese, organizzate in due coppie di strutture (argini) che corrono parallelamente all’alveo, delimitando ai lati di esso delle fasce dette golene, le quali non possono contenere del materiale che costituisca un intralcio al fiume. Canali scolmatori. Condotti che entrano in funzione quando il livello del fiume supera un determinato limite e scaricano parte della portata verso uno specchio lacustre o direttamente in mare. Un esempio è lo scolmatore dell’Arno che inizia appena a ovest di Pontedera e sfocia in mare a nord di Livorno, che serve a proteggere la città di Pisa. Bacini di ritenuta. Mediante la costruzione di dighe, si possono realizzare ei laghi artificiali da riempire nei momenti di forti portate, onde ottenere uno smorzamento delle piene. Casse di espansione. Aree ai lati dell’alveo che vengono predisposte per farvi espandere le acque di piena (entro appositi argini) per poi ricondurli gradualmente nell’alveo attraverso i canali di scolo; tale procedura è detta “laminazione della piena” e fa in modo che tale acqua non possa espandersi in modo eccessivo sul territorio. Modificazione della morfologia fluviale. Gli interventi operati sull’alveo possono mirare ad ottenere: una rettifica, ovvero una riduzione della sinuosità dell’asta fluviale mediante il taglio di una serie di anse naturali, aumento della pendenza e quindi della velocità media corrente, favorendone le smaltimento delle piene; un allungamento, con la scopo di aumentare la sezione di deflusso e quindi di accrescere la capacità funzionale dell’alveo, si tratta però di interventi possibili solo nelle zone rurali; una ramificazione, poco a monte dei centri abitati in pianure l’alveo può esser suddiviso in due o anche tre rami che si ricongiungono poi a valle deli stessi centri ripartendo così la portata tra vari canali. Rimboscamento di parti del bacino. Utile a mitigare il rischio idraulico, riducendo le portate al colmo e aumentando i tempi di ritorno. Azioni volte a ridurre la vulnerabilità: Predisposizione di sistemi di difesa degli edifici Predisposizione di sistemi di previsione e d’allarme. È fondamentale che la popolazione sia avvertita con sufficiente anticipo; quando si delinea una situazione di crisi è necessario organizzare una rete di stazioni distribuite sul territorio in grado di trasmettere in tempo reale ad una centrale operativa i valori che vengono rilevati. 4 fasi: preallerta, allerta, preallarme e allarme (vedi pag. 191). Per quanto concerne le previsioni, queste devono essere intese in senso estremamente generico, perché lo stato attuale delle conoscenze non permette ancora di applicare dei metodi deterministici che indichino con sufficiente anticipo sia i luoghi dove ricadranno le precipitazioni più forti che l'intensità delle stesse. La gestione del territorio e le Autorità di Bacino. Per gran parte dei disastri alluvionali che si verificano in Italia, l'ammontare dei danni è dovuto ad una eccessiva esposizione delle zone urbanizzate ai pericoli idraulici. Particolarmente seria è la situazione in certe regioni costiere con i retrostanti rilievi molto prossimi al mare. In esse la richiesta di spazi per l'edilizia ha portato a utilizzare anche quelli di naturale competenza dei torrenti che provengono dai suddetti rilievi, determinando così un incremento della vulnerabilità territoriale e spesso anche della pericolosità dei corsi d'acqua, costretti a scorrere nel loro tratto finale in canali o condotti chiusi molto angusti (es. Genova o Reggio Calabria). Un fatto molto positivo per le nostre politiche del territorio è stato il varo della legge 183/1989 inerente ai piani di bacino che stabilisce che i bacini idrografici devono costituire l'ambito fisico della pianificazione, istituendo le cosiddette "Autorità di Bacino", ovvero gli enti proposti al loro governo. Piano di Bacino. Documento programmatico redatto dalle suddette autorità nel quale, oltre alla fondamentale questione del rischio idraulico si affrontano vari problemi relativi all'ambiente, Il documento deve infatti presentare degli interventi mirati alla: a) difesa dei centri abitati dal rischio di esondazioni fluviali; b) protezione delle risorse idriche dal depauperamento e dall'inquinamento; c) riduzione dei rischi di frana; d) mantenimento di una dinamica dei litorali e degli alvei che risulti compatibile sia con le tendenze naturali che con i bisogni umani; e) uso sostenibile delle risorse naturali Il piano di bacino deve svilupparsi progressivamente in 3 fasi: Individuazione delle aree a rischio idraulico. In questa prima fase devono essere individuati i tratti dei corsi d'acqua lungo i quali sarà eseguita la zonazione delle aree a rischio. Zonizzazione di dettaglio del rischio. Le attività di questa seconda fase devono innanzitutto mirare all'elaborazione di elementi di cartografia tematica che riguardino da un lato il fattore pericolosità e dall'altro quello della vulnerabilità territoriale. Per il primo caso, a seguito di accurate valutazioni quantitative in merito ai tempi di ritorno dovranno essere distinte le aree secondo 3 diversi gradi di pericolosità: bassa, media, alta. La sovrapposizione della carta tematica della vulnerabilità (carta dove si deve tenere presente della conoscenza degli insediamenti, attività antropiche ecc.) con quella della pericolosità, nella quale sono riportati i limiti delle aree a grado diverso, permette in definitiva di distinguere 4 tipi di zone a differente classe di rischio. Programmazione della mitigazione del rischio. In questa fase conclusiva vengono fissati i vincoli definitivi per l'uso del territorio e si provvede alla scelta e al progetto di quegli interventi atti alla mitigazione del rischio e, quando necessario, si definiscono le misure di delocalizzazione degli insediamenti situati nelle aree ad elevata pericolosità. I movimenti franosi. Se la superficie topografica presenta delle pendenze, i materiali sono sottoposti a sforzi di taglio dovuti alla gravità; quando tali sforzi superano la resistenza dei materiali stessi si producono dei movimenti massa verso valle. I tipi di movimenti che emergono possono essere di tipologia diversa e svilupparsi in tempi molto lunghi oppure brevi. Oltre alle rocce bisogna ricordare che lo scivolamento può riguardare anche la neve eventualmente accumulata su dei pendii: le valanghe sono infatti un genere di movimento di massa che crea delle potenziali situazioni di pericolo in certe zone di montagna. La resistenza al taglio e i relativi tipi (tecnici) di rocce. Essa è espressa dalla formula di Coulomb: τ = c + σ * tgⱷ c= coesione, cioè quella parte di resistenza dovuta alle forze attrattive che si scambiano le particelle; σ= pressione normale alla superficie ove può avvenire la rottura; tgⱷ = coefficiente di attrito, una caratteristica del materiale. Quando è presente acqua nel terreno bisogna considerare che la pressione interstiziale (u) riduce gli sforzi normali e quindi il contributo offerto dall’attrito, per questo si dovrà calcolare la “pressione normale effettiva” (σ᷃): σ᷃ = (σ – u). Se u eguaglia σ, la pressione effettiva si annulla e anche la resistenza per attrito. Roccia: qualsiasi aggregato naturale di minerali. Minerale: un corpo inorganico omogeneo dotato di caratteristiche fisiche definite e di composizione chimica esprimibile mediante una formula. È possibile classificare le rocce in diverse categorie, distinte in base al potenziale comportamento rispetto alla franosità: Coerenti. Gruppo formato da rocce lapidee (basalti, graniti, marmi) caratterizzate da valori di coesione sempre molto elevati; normalmente le rocce coerenti non sono quindi franose. Semicoerenti. Rocce costituite da granuli con legami cementizi (di norma calcarei) piuttosto deboli; i valori di coesione sono perciò assai più bassi di quelli delle vere rocce lapidee e risultano pertanto mediamente franose (arenarie, tufi vulcanici). Incoerenti. Prive di coesione ovvero costituite da elementi liberi poggiati l’uno sull’altro come nel caso delle sabbie o ghiaie sciolte: divengono quindi franose ogni qualvolta che venga superato il loro angolo di naturale riposo. Pseudocoerenti. Il grado di coesione non è stabile ma varia in funzione del contenuto di acqua. Quando le rocce pseudocoerenti sono asciutte hanno una buona resistenza, mentre tendono a diventare molto franose con l’aumentare dell’umidità; hanno tale comportamento le argille, alcuni limi e quelle rocce sedimentarie nelle quali gli elementi sono tenuti insieme da un cemento argilloso. Per stabilire le percentuali di acqua in ogni argilla si stabiliscono i limiti di Atterberg che segnano il passaggio da uno stato all’altro e consentono quindi di valutare il loro comportamento nelle diverse conduzioni. I fattori della franosità: I. II. III. IV. Aspetti morfologici. Forma del territorio, è di grande importanza per il diretto rapporto con l’entità delle sollecitazioni di taglio Caratteri climatici. La piovosità è un fattore fondamentale dato che si hanno maggiori rischi durante i periodi di forte concentrazione delle piogge, anche se non vanno trascurate neppure le escursioni termiche, i cicli gelo‐disgelo e le insolazioni. Copertura vegetale. Un bosco per esempio può creare problemi su versanti di una certa ripidità, per il carico esercitato e per le sollecitazioni che trasmette al suolo nelle giornate di forte vento. Caratteri geologici. La costituzione litologica, il grado di fessurazione, la struttura. Movimenti lenti di massa nei versanti: creep e soliflusso. Creep. Consiste nel lentissimo scorrimento del suolo (non superiore a 1‐2 mm l’anno) che praticamente interessa qualunque pendio non troppo ripido con una copertura detritica a basso grado di coesione. Il fenomeno si manifesta con scarpatine o zone di decorticazione del manto erboso. L’azione del creep è resa spesso evidente da segnali del suolo come inclinazione di pali, la tipica curvatura con concavità rivolta verso monte, la rottura di muri di contenimento, la formazione di lesioni di pavimentazione. I movimenti sono dovuti, oltre che alla spinta di gravità, i cicli di gelo‐disgelo, la variazioni di umidità, l’azione di animali scavatori, la crescita della vegetazione, interventi antropici in agricoltura. Soliflusso. È un movimento lento del suolo che ha luogo lungo i pendii con scarsa inclinazione e che è messo in evidenza da una serie di forme lobate. Il soliflusso riguarda in particolare gli ambienti periglaciali con sottosuolo perennemente gelato (permafrost) nei periodo in cui iniziano a fondere le nevi. Le frane. Genericamente considerata come il distacco da un versante e la rapida discesa di una consistente massa rocciosa. La rapidità del movimento rende le frane sostanzialmente differenti dai sopracitati creep e soliflussi, dai movimenti più lenti. Dal punto di vista dimensionale le frane hanno un’ampissima variabilità. È una prassi ormai considerare “frana” sia il fenomeno della rottura e dello scivolamento e l’aspetto assunto dalla superficie topografica dopo che il terreno è stato interessato dal dissesto. Le frane assumono forme molto diverse fra loro. Nicchia di distacco. La parte dove è avvenuta la rottura; appare come una netta ferita del suolo. Alveo di frana. Tratto di versante interessato alla discesa dei materiali rocciosi, tende pertanto ad avere una forma allungata. Area di accumulo. La parte bassa della frana, formata da una massa detritica che, dopo essersi staccata dalla nicchia, è andata ad arrestarsi più a valle in una nuova posizione di equilibrio. Tipologie di frane: Colamento. Colate di roccia pseudocoerenti miste a detriti; si muovono abbastanza lentamente lungo i pendii. Crollo. Repentino stacco di falde di rocce coerenti in pareti molto ripide. Scoscendimento. Rapidi sprofondamenti che si generano in rocce argillose pseudocoerenti; il movimento avviene lungo le superfici spesso arcuate, corrispondenti di norma a preformate aree di rottura preferenziali. Smottamento. Fenomeni di dissesto dati dalla discesa rapida e caotica di rocce incoerenti o di materiali argillosi fluidificatisi completamente per abbondante imbibizione. Scivolamento. Riguarda le rocce stratificate coerenti in versanti a franapoggio (nello stesso senso del versante); il movimento avviene lungo un piano a bassa resistenza meccanica, sovente rappresentato da un interstrato di natura argillosa. Miste. Gruppo dove ricadono tutte le frane non ascrivibili ad uno dei precedenti tipi, poiché il fenomeno risulta come una combinazione di movimenti diversi. Le cause delle frane. Oltre all’eventuale diminuzione della resistenza calcolata con la formula di Coulomb, andranno considerata sia le cause relative ad un abbassamento della coesione, sia quelle in grado di agire sull’attrito. È molto difficile che da una condizione iniziale di buona stabilità si passi improvvisamente al movimento franoso; in effetti è logico ritenere che, quando esso avviene, sia stato preceduto da qualche mutamento della situazione dei versanti che abbia comportato un incremento del livello di pericolosità: ‐ ‐ Cause preparatorie, ovvero quando si creano condizioni ideali per il dissesto Cause determinati, ovvero quando si manifestano situazioni di rapporto resistente/sforzi di poco superiori ad 1, innescandone il movimento. Il ruolo più importante nell’originare i fenomeni franosi è quasi sempre giocata dall’acqua poiché può aumentare le sollecitazioni al taglio, è in grado di abbassare le resistenze, sia riducendo la pressione normale effettiva responsabile dell’attrito che diminuendo il livello di coesione, come avviene per l’imbibizione dei materiali argillosi. Cause che agiscono diminuendo la coesione: Fessurazione di scisti argillosi o di argille molto consolidate Disgregazione fisica del corpo roccioso per variazioni di volume indotte da uscursioni termiche o per gli effetti dei cambiamenti di stato dell’acqua nelle fessure, durante i cicli di gelo‐disgelo Alterazione chimica dei componenti minerali Asportazione del cemento di rocce clastiche per soluzione causata dalle acque percolanti Ammollimento di rocce pseudo coerenti, determinato da processi di imbibizione. Cause che inducono una riduzione della resistenza per attrito: Incremento della pressione interstiziale dell’acqua Modificazione in quegli interstrati che, in un ammasso roccioso costituito da materiali coerenti stratificati, separano una parte superiore potenzialmente mobilizzabile da un’altra stabile sottostante. Cause che determinano un aumento delle sollecitazioni al taglio: Aumento della densità dei materiali che potrebbero franare, dovuto ad un incremento del grado di imbibizione cioè del livello di saturazione dei pori da parte dell’acqua Sovraccarico sul pendio, causata dall’accumulo di detriti o neve ma anche dalla crescita di alberi Aumento dell’inclinazione del versante, spesso per effetto di un’intensa erosione naturale o per azioni antropiche Sollecitazioni transitorie, naturali o antropiche Le rilevazioni in merito alla franosità del territorio italiano. L’Italia è un paese molto soggetto ai dissesti franosi in ragione di diversi fattori naturali: Caratteri morfologici. La morfologia italiana è assai tormentata, come dimostrato dall’esistenza di soltanto il 22% di aree pianeggianti. Caratteristiche geologiche. Il territorio italiano è in buona parte costituito da formazioni poco resistenti, con grande frequenza di rocce argillose, molto suscettibili al franamento. Aspetti climatici. Particolare riferimento all’aggressività delle piogge. Elevata sismicità che causa frane. Nel 1989 il GNDCI (Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche) he effettuato un censimento delle aree del paese colpite da frane e/o inondazioni a partire dal 1918; questo progetto, definito AVI (aree vulnerate italiane) realizzato da 17 gruppi di ricerca, ha condotto al riconoscimento, fino al1944, di 9223 eventi franosi ripartiti in tre categorie 1. Massima intensità (danni diretti alle persone) 2. Media intensità (distruzione o serio danneggiamento di opere umane) 3. Bassa intensità (lievi danni) Nello stesso anno, 1989, il ministero dell’ambiente dichiara che è stabile solo il 38% del territorio italiano, un 46% poco stabile e il 16% potenzialmente franoso oppure già interessato a dissesti. Zone assenti dal pericolo frane: aree di pianura, Sardegna e Puglia. Nel 2012 l’Istituto di ricerca per la Protezione Idrogeologica (IRPI), che provvede alla pubblicazione di periodici rapporti sul rischio cui è soggetta la popolazione italiana, ha portato a individuare almeno 2533 siti nei quali si è verificato almeno un evento franoso negli ultimi 1359 anni. Due grandi eventi di frana verificatisi in Italia Vajont (1963) Valtellina (1987) Furono dissesti di gigantesche proporzioni con conseguenze gravissime per le popolazioni interessate. La frana del Vajont. Il torrente Vajont è un piccolo affluente a sinistra del Piave che ha come caratteristica principale quella di sboccare in una vallata con una gola molto stretta. Negli anni 20 l'Ingegnere Carlo Semenza propone di sfruttare le acque del Vajont per la produzione di energia idroelettrica. Questo progetto trova la sua realizzazione solo nel 1929 quando la SADE (società adriatica di elettricità) decide di iniziare un invaso artificiale. Il progetto è piuttosto datato, la messa in piega del progetto avvenne solo successivamente, dal 1957 fino al 1963, modificando così profondamente la valle del Vajont mediante la costruzione di un ampia diga. La relazione geologica fu realizzata da un famoso geologo, Giorgio Paz, tuttavia risultava uno studio assai incompleto. Nel 1959 frana di una diga vicina, si decide quindi di bloccare i lavori per sottoporre delle indagini geologiche e affidano l'incarico a due geologi: Edoardo Semenza e Franco Giudici, i quali individuarono la presenza di una “paleofrana” posta sul versante del monte Toc che a loro giudizio avrebbe potuto scivolare nuovamente con la creazione del lago. Si decide nonostante le indicazioni di portare a termine i lavori e di collaudare la diga. Il fatto di aver iniziato a riempire la diga, a seguito delle continue variazioni di invaso, cominciò a svilupparsi lungo i pendici del Monte Toc una grande fessura a forma di M, larga un metro e lunga oltre 2,5 km. Alcuni mesi dopo si staccò una frana di oltre 700000 m³ che, cadendo all'interno del lago, generò un onda di circa 10m. Perché è significativa la strage del Vajont? È un evento che ha influito sulla gestione di cantieri di questo tipo e anche dal punto di vista politico, creando due filoni di opposizione tra PCI e Dc. Vennero effettuate alcune modifiche, utilizzando anche dei modelli di laboratorio: da questa parte parve risultare che una nuova frana di dimensioni superiori a quella da poco scivolata nel bacino non avrebbe comunque prodotto un'ondata in grado di danneggiare la diga e tantomeno di oltrepassarla. Nel 1961, malgrado tutto, si decide di procedere a una seconda prova di invaso, e viene addirittura aumentata la portata dell'acqua. Queste operazioni fecero riattivare i movimenti della coltre instabile, con le fessure del suolo che si allargavano sempre più velocemente. Il 26 settembre 1963, per tentare di scongiurare il pericolo di un disastro che appariva allora chiaro si decide di attuare lo svaso del lago, il provvedimento non sortì però l'effetto desiderato ed anzi, i dislocamenti del terreno si fecero sempre più frequenti. 9 ottobre 1963: la frana si stacca dal monte Toc, sviluppandosi in modo evidentemente non previsto; la forza d'urto della massa franata fu in grado di spostare un enorme quantità d'acque che si mosse in varie direzioni a quasi 90 km/h. Altezza di 500m. 2000 vittime circa. La frana della Valtellina. Nel 1987 a causa di forti precipitazioni che interessarono la Veltellina, il fiume Adda e tanti corsi di acqua minori finirono in piena causando poi allagamenti e numerose vittime. Le suddette precipitazioni furono anche la causa di un altro dissesto idrogeologico che ebbe luogo nella Val Pola, dove iniziarono a manifestarsi preoccupanti fenditure che innestarono il campanello di allarme per la previsione di un’eventuale frana. Il 28 luglio alle 7.23 si staccò una massa di 40 milioni di metri cubi di roccia che precipitò sul fondovalle causando la morte di alcuni operai. L’energia della frana causò la risalita di parte del versante opposto, dove vennero distrutti 4 nuclei abitativi: 35 vittime. L’ostruzione della vallata determinò la creazione di un lago per l’ostruzione dell’Adda, che rischiava di colmarsi nel giro di 60 giorni, con la paura del collasso dello sbarramento. Furono perciò scavate alcune galleria per favorire il deflusso del lago ma senza successo a causa del ritmo incessante con cui saliva il livello dell’acqua; si decise quindi di effettuare una “tracimazione controllata” cioè di far defluire l’acqua in un alveo artificiale tracciato attraverso l’area di accumulo. Il 3° agosto dopo una evacuazione venne quindi aperta una breccia nel corpo della frana e il lago venne progressivamente prosciugato. La mitigazione dei pericoli di frana. Il primo passo è quello di definire dei livelli di pericolosità mentre la cosa più importante è avere una conoscenza del territorio più accurata possibile Si dovrà quindi procedere alla costruzione di una carta tematica della franosità potenziale nella quale verrà espressa la relativa zonazione del territorio interessato secondo un certo numero di classi di pericolo (in genere 4 o 5). La carta della franosità si otterrà mediante la sovrapposizione delle seguenti carte tematiche: 1. Carta delle frane. Carta che riporta tutti gli eventi franosi che si sono verificati in una zona distinguendo: a) le frane di recente formazione o quelle ancora in movimento; b) le paleofrane apparentemente stabilizzate; c) le zone stabili ove si verificano movimenti gravitativi superficiali diffusi 2. Carta dei caratteri idrogeologi. Dà risalto alla componente dell'acqua poiché riporta i caratteri litologici delle formazioni affioranti e quindi la relativa propensione al franamento, la giacitura delle superfici di discontinuità, le zone di penetrazione circolazione ed emergenza delle falde acquifere ecc. 3. Carta delle pendenze che sintetizza gli aspetti topografici e valuta le sollecitazioni date dalla gravità. Quando si deve lavorare ad un livello di scala molto elevato vengono allora effettuate delle indagini geognostiche che comportano, a seconda dei casi, prospezioni geofisiche, prove in situ o prove di laboratorio effettuate su campioni indisturbati prelevati dal sottosuolo; gli obiettivi cui tendono queste indagini sono: Individuazione della superficie di eventuale scorrimento • Le determinazione dei pesi di volume delle parti di terreno che potrebbero franare • Conoscenza dell'andamento della pressione interstiziale alle varie profondità • Determinazione dei valori della coesione e dell'angolo di attrito nelle zone di probabile rottura Le informazioni ottenute sono utilizzate per applicare il modello di verifica più adatto alla situazione in esame, le condizioni di stabilità sono allora espresse secondo il coefficiente (o fattore) di sicurezza (Fs), dato dal rapporto tra l'entità complessiva delle forze resistenti e quella delle sollecitazioni di taglio. Ovviamente, a causa della reale complessità della struttura del suolo, la stima del coefficiente è sempre affetta da un certo margine di approssimazione: a) Sicuramente stabile = per Fs > 1,5 b) Sufficientemente stabile = nell’intervallo tra 1,3 e 1,5 c) In equilibrio incerto = Fs < 1,3 Una volta effettuati gli studi sulle condizioni di pericolosità, sarà allora possibile predisporre le misure più opportune per impedire il verificarsi di una frana. Le principali tipologie: ‐ Allontanamento dell'acqua dai versanti a rischio ‐ Rimodellamento del pendio ‐ Alleggerimento della parte alta del versante ‐ Ancoraggio al substrato stabile degli strati superficiali ‐ Protezione della base dei versanti Le colate detritiche (debris flow). Fenomeno che consiste in flussi molto densi di materiale detritico ed acqua che si sviluppano lungo l'alveo di torrenti montani. Quando nel flusso la concentrazione di detriti non è eccessivamente alta (40‐45% max) si parla di correnti torrentizie concentrate, mentre per valori superiori siamo in presenza di veri e propri debris flow. Problema maggiore: la rimozione dei detriti rimasti sul suolo dopo che l'acqua si è allontanata Dove si possono verificare: Bacini montani caratterizzati da pendenze elevate e dalla presenza di una coltre detritica superficiale poco stabile, così che i detriti, anziché depositarsi nel fondovalle, si mescolano con l'acqua e scendono nell'alveo lungo il torrente. Come si sviluppa la colata detritica. All'origine dell'evento c’è una precipitazione di elevata intensità che interessa un bacino di tipo montano. Le forti piogge determinano una serie di frammenti negli strati più superficiali, facendo sì che una consistente quantità di materiale detritico finisca nel letto del torrente. Al tempo stesso le piogge intense causano un rapido aumento della portata nel corso d'acqua, per cui i detriti vanno a mescolarsi ad una corrente impetuosa, dando così luogo alla colata detritica. Se l'acclività dell'alveo è notevole, il fluido denso può viaggiare ad alta velocità ed arrivare ad aree urbanizzate, procurando danni e mettendo a rischio l'incolumità delle persone. Alcuni esempi di eventi calamitosi in Italia. Alta Versilia, giugno 1966: precipitazioni di eccezionale intensità che colpirono le Alpi Apuane; le piogge violentissime causarono il collasso della coltre superficiale in varie parti dei pandi del bacino del Versilia, con formazione di ondate di acqua mista a fango ed altri detriti che procurarono danni e vittimi a tutta Cardoso. • Alluvione di Sarno e Quindici, maggio 1998: franamento dei terreni superficiali di origine piroclastica nei rilievi che separano l’Irpinia dalla Campania occidentale, con conseguenti colate fangose che raggiunsero il fondovalle con danni in special modo a Sarno e Quindici Gli eventi del Messinese, ottobre 2009: la zona del disastro è quella compresa nella fascia litoranea a sud di Messina, alla base delle pendici dei Monti Peloritani. A causa di un forte nubifragio si crearono numerose frane con colate di materiale detritico fino a valle. Le devastazioni più gravi colpirono i centri di Giampilieri e di Scaletta Zanclea. Alluvione alle Cinque Terre, ottobre 2011: sulla Liguria orientale si svilupparono delle precipitazioni di eccezionale intensità che in alcuni casi segnarono dei veri e propri record. Nei versanti costieri nella zona delle Cinque Terre si originarono impetuose colate detritiche che arrivarono a devastare doversi borghi litoranei. I catastrofici debris flow in Venezuela, nel dicembre del 1999. Stato di Vargas eccezionalmente piovoso nel mese di dicembre di quell'anno, in particolare dal 14 al 16 dicembre. Forti precipitazioni e fenomeni di dissesto in numerose zone, ma quelli più gravi si manifestarono nel tratto di costa comprendente la città di Caraballeda, a nord di Caracas. Oltre alla forzante meteorologica, è importante considerare anche le condizioni morfologiche del Venezuela, caratterizzato dalla presenza di una catena montuosa di notevole altezza allungata parallelamente alla direzione della costa e molto prossima a quest'ultima. Molteplici ed estesi episodi di frana che fecero convogliare una grande quantità di detriti nelle aste torrentizie, dove le piogge incessanti alimentavano delle piene di forte entità con conseguenti colate detritiche che, per il numero e la violenza si possono considerare davvero eccezionali. Oltre 60 km di fascia litorale videro la propria morfologia decisamente modificata dalle inondazioni e dal materiale roccioso. Oltre 8 mila abitazioni distrutte e 20‐30 mila vittime. I rischi da erosione. Erosione: azione abrasiva esercitata sui materiali della superficie terrestre da vari agenti naturali, come il vento, le acque continentali, il mare e i ghiacciai. Nelle regioni temperate la percentuale assolutamente maggioritaria di tutti i fenomeni erosivi che si verificano è quella addebitabile alle acque piovane, che cadono e scorrono dapprima diffuse su terreno (erosione dilavante) per poi raccogliersi in corsi d'acqua di dimensioni via via sempre maggiori (erosione incanalata). I processi erosivi si sviluppano continuamente, molto spesso con andamento così graduale e lento da non costituire una sensibile forma di pericolo per le comunità umane; in effetti si può parlare di condizioni di rischio per erosione solo quando il fenomeno tende ad intaccare con una certa rapidità determinate parti di territorio, che risultano particolarmente importanti per lo svolgimento di numerose attività umane. I fattori dell'erosione. Le erosioni dipendono da diversi fattori, sia naturali che antropici, tra i quali: Composizione litologica del terreno • Caratteri pedologici (struttura e composizione del suolo) • Aspetti morfologici (pendenza dei versanti come fattore decisivo) • Tipologia ed estensione della copertura vegetale • Caratteri della piovosità • Interventi antropici Come valutare l'entità del suolo. Per poter parlare di erosione lenta o accelerata in termini quantitativi è necessario avere dei valori di riferimento cui apportarsi. Valutazioni precise dell'erosione si possono ottenere da: misure dirette, molto precise ma molto costose e indirizzate solo in posti specifici, i risultati difficilmente si estendono a zone lontane a quelle delle aree di prova; misure indirette, la quantità di materiale asportata da un bacino in un dato periodo viene stimata sulla scorta di rivelazione del trasporto solido operato dai suoi corsi d'acqua. Esso può avvenire: ‐ In soluzione (quando il materiale è più grosso) ‐ Sul fondo (per saltellamento, rotolamento o scivolamento) • ‐ In sospensione (Quando il materiale è fine, si deposita e viene trasportato dall'acqua‐ >trasporto torbido) La valutazione quantitativa dell'erosione chimica apparirebbe da 1,4 a 2,4 volte superiore alla realtà. Per il trasporto di fondo le misure sono molto difficili e i risultati limitativamente affidabili (5‐ 15%). Il trasporto solido per essere comparato da un bacino all'altro deve essere espresso in forma unitaria data la quantità diversa delle dimensioni dei bacini: si misura la quantità di sedimenti che passa in una certa porzione nell'unità di tempo, ci sono differenze enormi, ad esempio tra aree appenniniche e di pianura, dipende ciò da condizioni geologiche e poi giocano in maniera non trascurabile i differenti fattori climatici. Accanto a queste misure indirette si possono fare delle stime che si basano su delle correlazioni empiriche che hanno consentito di trovare una correlazione tra parametri geomorfici e il trasporto d'acqua, consentono di informazioni approssimative sulle correlazioni. Ricerche svolte in Italia hanno portato all'elaborazione di formule empiriche che mettono in relazione il trasporto torbido annuo (Tu) con i due seguenti parametri geomorfici: • Densità di drenaggio (D) esprime la fittezza della rete idrografica nell'ambito del territorio • Gradiente di pendio delle aste fluiviali esprime per ogni singolo pezzo di asta Fluviale il rapporto tra il dislivello dei punti estremi di un tratto di alveo e il tratto di quest'ultimo. Se il gradiente di pendio è correlato all'erosione, possiamo chiederci perché è così importante il gradiente di Drenaggio, quando abbiamo una rete così fitta il terreno deve essere facilmente erodibile poiché questo renda possibile la nascita naturale degli alvei. Naturalmente questo è correlato alle condizioni climatiche ed altri fattori favorevoli USLE (universal soil loss equation) fornisce una stima specifica riconosciuta a livello internazionale in base a diversi parametri specifici (quantità di terreno erosa ogni anno, fattore di erosività della pioggia, fattore di lunghezza, fattore di pendenza, fattore di coltivazione) L'erosione costiera e l'arretramento delle spiagge. Spiaggia: corpo sedimentario litoraneo, costituito da materiale sciolto sabbioso oppure ghiaioso, in continua evoluzione.Il problema dell'erosione delle coste basse rientra nella questione dei rischi naturali, in ragione delle conseguenze negative che tale fenomeno può arrecare alle attività legate al turismo balneare e, quando particolarmente intenso, anche dei possibili danni ad insediamenti urbani prossimi. Tale evoluzione dipende da una serie di fattori naturali quali moto ondoso, maree, correnti marine, la topografia dei fondali, l'apporto solido dalle foci dei corsi d'acqua ecc. L'iterazione di questi fattori determina i processi di trasporto litoraneo dei sedimenti stessi e condiziona quindi le variazioni che una spiaggia può subire nel tempo. Un cambiamento nel regime dei venti o nella direzione di certe correnti marine può così essere alla base di una fase di avanzamento o di arretramento della linea di costa, secondo oscillazioni cicliche ovunque verificate. Cause antropiche dell'erosione delle spiagge. Quando una spiaggia si trova in una fase di forte erosione, la causa più importante è spesso data da un deciso calo del trasporto del solido fluviale. Quando si ha arretramenti in tempi brevi le cause sono interventi avvenuti in bacini idrografici o interventi umani avvenuti lungo le fasce costiere Entrambi sono causa di interventi antropici. Alcuni esempi: • Realizzazione di invasi artificiali lungo il corso dei fiumi • Coltivazione di cave inerti negli alvei • Sistemazioni idraulico‐forestali delle zone montane • Sfruttamento dell’acqua fluviale per scopi irrigui • Costruzione di opere marittime di difesa • Distruzione di sistemi di dune litoranee • Subsidenza indotta delle fasce litoranee Il caso dei litorali prospicienti: la foce dell'Arno. Un esempio molto interessante di rapida evoluzione costiera, anche dovuta a fattori antropici, è dato dall'area della foce dell'Arno. In essa infatti durante gli ultimi due secoli la morfologia ha mostrato cambiamenti di entità davvero considerevoli. Le coste pisane sono state interessate da una situazione di avanzamento molto rilevante, determinato dal fatto che nel 1500 ha subìto una espansione particolarmente rilevante. Una delle caratteristiche ambientali è quella delle cosiddette LAME, strutture costituite da fasce di territorio abbastanza strette lungo la costa. 1. 1606: Taglio ferdinandeo. La foce viene spostata di alcuni km verso nord, in breve tempo si forma un nuovo delta nei pressi dell'attuale bocca 2. Fine XVIIII secolo. Massiccio disboscamento del bacino dell’Arno, con conseguente aumento degli effetti erosivi e quindi del trasporto solido del fiume, il delta tende, grazie alle sue condizioni dovute alla piccola glaciazione, ad accrescersi fino a raggiungere intorno al 1850 la sua massima estensione. 3. 1850‐1890. Periodo di massima stabilità 4. Post 1890. Fase di erosione che inizialmente interessa la cuspide deltizia e le spiagge a essa prospicienti (non sappiamo le cause, molto probabilmente cause antropiche) 5. 1926. la foce viene prolungata verso il mare mediante la costruzione di due lunghi pennelli; tutto questo amplia notevolmente l'area nord, cosicché tutta la spiaggia della tenuta di s. Rossore nel 1928 inizia a ridursi dopo essere stata fino ad allora in prevalente avanzamento. Situazione attuale: nonostante alcuni interventi hanno stabilizzato parte della situazione, desta preoccupazione la continuazione migrazione del fenomeno erosivo, in particolare a nord oltre il fiume morto e sud dove interessa in particolare parte della spiaggia di Tirrenia. Opere di difesa delle coste basse. Per difendere le spiagge si può ricorrere a delle barriere di protezione frangiflutti, costituite da grossi blocchi di pietra tetrapodi che possono essere di due tipi: • Longitudinali (Dighe). Andamento sostanzialmente parallelo a quello della costa, possono essere aderenti alla costa o, come più spesso accade, foranee, ovvero distanziate da essa, in modo da creare una zona di relativa calma con condizioni quindi favorevoli alla disposizione dei sedimenti trasportati. Spesso tuttavia a causa dell'eccessiva sedimentazione, quest'ultimo caso diventa col tempo meno fruibile e più basso, le acque diventano maleodoranti per lo scarso ricambi imputabile ai tomboli di collegamento che tendono a formarsi (Tomboli, strutture lungo la costa che hanno delle disposizioni parallele alle dighe, creando delle paludi), per cercare di evitare che si formino tali specchi di acqua stagnante all'interno delle scogliere si procede talvolta a realizzare dighe sommerse (dighe soffolte)che permette il ricambio dell'acqua • Trasversali (Pennelli). Hanno uno sviluppo ortogonale o variamente inclinato rispetto alle rive, si protendono verso il mare aperto. La loro funzione è quella di favorire l'accumulo di sabbia sul lato contro la quale sono diretti i venti dominanti e quindi il trasporto litoraneo. Questo tipo di difesa si basa sulla realizzazione di una serie di strutture parallele, distanziate tra loro anche in relazione alla lunghezza prescelta (disposizione a denti di sega). I GRANDI RISCHI METEORICI Intensi Cicloni Tropicali (ed extratropicali) Ciclone: regione (spesso di forma subcircolare) nella quale i valori della pressione atmosferica decrescono dalla periferia verso il centro; un'area ciclonica è tipicamente associata a condizioni di tempo perturbato con temporali, forti venti e piogge. Alle basse latitudini possono originarsi delle strutture cicloniche di grandi dimensioni e forti intensità. Esistono due tipi di aree: a) Aree cicloniche b)Aree anticicloniche Classificazione dei cicloni tropicali • Depressione Tropicale=V<62km/h si tratta delle perturbazioni di modesta intensità, simili alla maggioranza di quelle che osserviamo alle nostre latitudini. • Tempesta Tropicale=V compresa tra 62 e 118 km/h • Uragani=V>118km/h Ad ognuna delle perturbazioni classificate almeno come tempesta viene assegnato un nome proprio, secondo delle procedure stabilite dalle istituzioni scientifiche competenti. Gli uragani a loro volta (3 categoria) possono essere classificati in 5 gruppi sulla base della scala SSHWS (Saffir-Simpson Hurricane Wind Scale). Gli uragani ricadenti nelle tipologie 3 4 e 5 (sopra i 178 km/h) sono detti Uragani maggiori e nelle regioni pacifiche occidentali vengono denominati tifoni (Il termine uragano è stato coniato dall'inglese hurricane e vale specificatamente per le zone dell'atlantico e del pacifico orientale). Le zone d'origine e le traiettorie dei grandi cicloni tropicali. I cicloni tropicali si formano sugli oceani a latitudini approssimativamente comprese tra 5°e 20°, rimangono in vita per parecchi giorni per poi spostarsi ad una velocità di 20- 50 km/h, descrivendo complessivamente traiettorie più o meno lunghe migliaia di km, in alcune casi regolari, in altri più complesse. L'intensità non si mantiene costante ma varia durante lo sviluppo della traiettoria, per cui lo stesso ciclone potrebbe colpire territori diversi con violenza assai differente. Possiamo distinguere 7 bacini oceanici dei cicloni, dei quali 4 nell'emisfero boreale e 3 in quello australe. Cosa strana: l'evento non si sviluppa nell'oceano atlantico meridionale Le caratteristiche principali degli uragani • Le dimensioni degli uragani sono assai variabili da caso a casa, ma sempre rilevanti • Non esistono delle norme generiche poiché variano molto da caso in caso • Raggio medio 150-170 km/h • Ci sono dei mesi dell'anno in cui aumentano le probabilità di un avvento di un uragano Punta di massima frequenza: metà settembre (nell’atlantico non si è mai formato un forte ciclone tropicale dal 1 gennaio al 7 marzo secondo le statistiche) Quando l'uragano raggiunge le aree costiere. Quando le traiettorie dell'uragano si sviluppano esclusivamente su aree marine, gli eventuali pericoli possono concernere soltanto la navigazione. I rischi maggiori si hanno quando l'uragano va a colpire le zone costiere (verificandosi quindi il fenomeno del landfall), non solo perché sono più abitate (quindi vulnerabili) ma anche perché l'uragano, essendo un ciclone particolarmente intenso, è spesso accompagnato da fenomeni diversi: 1. Innalzamento del livello marino (Storm Surge) anche di vari metri rispetto al livello medio>quando l'uragano si avvicina alla costa l'innalzamento diviene evidente. Il surge è dovuto sia alla spinta dei venti sulla superficie delle acque che alla caduta della pressione atmosferica al centro del ciclone, che favorisce un rigonfiamento locale del mare->Se l'uragano si trova in pieno oceano la variazione del livello medio marino non è molto sensibile, ma quando si avvicina ai litorali, con la riduzione di profondità dei fondali il surge cresce ancora. Da considerare inoltre che il surgedovuto alla tempesta può aggiungersi ad una fase di alta marea, dando luogo a valori ancor maggiori del livello del mare ed incrementando così il pericolo di inondazione. 2. Venti impetuosi 3. Piogge di forte intensità Le grandi tempeste in Europa Al di fuori della fascia intertropicale si possono verificare questi fenomeni? Nel Nord Atlantico, a latitudini tra 30 e 60°, si verificano dei cicloni molto intensi e questi sono conosciuti genericamente come European Windstorm , essi hanno delle velocità elevate tipiche degli uragani (oltre i 120 km/h). Nell'area del Mediterraneo l'intensità delle tempeste è inferiore, per cui sono rari i casi in cui si verifichi una velocità elevata alla soglia degli uragani, le uniche aree a rischio sono il golfo di Genova e di Venezia data la morfologia della costa "chiusa". Analogamente ai cicloni tropicali, anche per le grandi tempeste di vento europee vi è il pericolo di allagamenti costieri, dovuti al moto ondoso e al già descritto meccanismo del surge marino. Grande tempesta del mare del nord (31-01-1953). La tempesta implicò danni ingenti (oltre 2000 vittime) e un innalzamento del livello del mare di oltre due metri nelle coste scozzesi, inglesi e olandesi. A seguito della tragedia l'Olanda ha realizzato una serie di provvedimenti in caso di innalzamento del livello marino. I tornado. Non hanno nulla a che vedere con gli Uragani: • Non si formano sul mare ma mediante una nube temporalesca (cumulonembo) che crea intensi vortici d'aria che si estendono fino a toccare il suolo • Sono più piccoli • Durano molto meno, una decina di minuti, un'ora al massimo • Percorrono traiettorie minori, al massimo una decina di km • Intensità incredibile Cumulonembi, Mesocicloni e formazioni dei tornado. Cumulonembo: imponente tipo di nuvola a sviluppo verticale, dall'aspetto torreggiante. Tale struttura è originata da moti convettivi, in situazione di elevata instabilità atmosferica che rende possibile la continua scesa di correnti d'aria. Se il processo non viene interrotto, la nube cresce fino al limite superiore della troposfera dove il gradiente termico verticale si annulla prima di iniziare a invertirsi (cambiamento di gradiente). Una volta raggiunta la tropopausa (limite troposfera) la nube non può continuare a salire e si verifica così un'espansione, che tende a imporre una rotazione di tutta la struttura. L'allargamento della parte sommitale del cumulonembo fa sì che la struttura abbia così la forma tipica a incudine. In alcuni casi la corrente ascendente associata alla nube è così intensa da causare il superamento del limite imposto dalla tropopausa, con conseguente spinta di una porzione di nuvole nei livelli inferiori della stratosfera; il fenomeno è reso visibile dalla presenza di una protuberanza a forma di cupola al di sopra della superficie piatta dell'incudine. Sistemi temporaleschi di questo genere, chiamati supercelle, sono di norma alimentati da venti freddi in quota che, scontrandosi con venti in quota che hanno velocità diversa, tendono a imporre una rotazione a tutta la struttura: si parla così di mesociclone (=ciclone a dimensioni contenute). 1. Quando in prossimità del suolo vi è dell'aria calda, si assiste ad una risalita vorticosa che esalta il moto rotatorio del mesociclone; 2. Si inizia allora a delineare un percorso di correnti fredde che, lungo la parte centrale del turbine ascendente, si dirige verso il terreno 3. A questo punto una colonna d'aria in forte rotazione emerge dalla base del cumulonembo, assumendo una forma di un imbuto o di una proboscide 4. Se tale protuberanza tocca il suolo il tornado è in azione e i suoi contorni divengono ben visibili alla base, grazie alla polvere e ai detriti che esso aspira sul terreno. Alcune caratteristiche del tornado. Il tornado può presentarsi come fenomeno isolato oppure organizzato in serie di numerosi eventi (tornado outbreak) in un breve lasso temporale. • Il vortice può avere forme differenti e dimensioni assai variabili (larghezza media 150- 200 m) siamo a conoscenza sia di tornado piccolissimi che hanno danneggiato territori di pochi metri che di vortici enormi di ampiezza superiore ai 2 m • In orizzontale la velocità di spostamento media è 50 km/h,ma vi sono state delle occasioni nelle quali il vortice si è mosso ad oltre 100 km/h • Durata di vita di un tornado-> una decina di minuti, in conclusione il percors medio sarà 1020 km.Anche in questo caso la situazione può variare molto, a volte la velocità è così rapida che si esaurisce subito, distruggendo pochi territori, in altri casi il tornado è rimasto attivo per molte ore. Elementi di pericolosità del Tornado - Azione del vento a velocità eccezionali - Differenza di pressione tra interno ed esterno dell'imbuto (anche del 10-11%)->costituiscono un ulteriore elemento di pericolo per la possibilità che i tetti degli edifici saltino, non essendoci il tempo per un riequilibrio della pressione all'interno delle abitazioni. La classificazione dei tornado. Il vento impetuoso è il fenomeno che più di ogni altro contraddistingue i tornado (in alcuni casi anche 500-600 km/h).la forza distruttiva del vortice è proporzionale alla velocità dei venti di rotazione, per cui è logico che essa costituisca il parametro in base al quale si effettuano le classificazioni. Scala Fujita. Simile a quella degli uragani, è suddivisa in 6 gradi, in base alla max velocità delle raffiche, che va da F0(=64-116km/h) fino a F5 (oltre 418 km/h) Le regioni della Terra interessate al fenomeno. I tornado si possono formare in varie regioni del Pianeta, ovviamente con probabilità molto diverse da caso a caso, a seconda delle differenti caratteristiche meteorologiche, geografiche e morfologiche. Non c'è nessuna parentela con gli uragani poiché i tornado si sviluppano molto di più nelle medie latitudini essendo innescati da scontri di masse d'aria calda e massa d'aria fredda. Inoltre il tornado necessita di ampi spazi e pianeggianti. Zone maggiormente interessate: medie latitudini dove possono esserci scontri di masse d'aria con forti contrasti termici (quasi tutta l’Europa settentrionale, gli Stati Uniti, il Canada settentrionale, l e F ilippine, parti settentrionali dell’Australia). La Tornado Alley degli Stati Uniti Gli USA sono il Paese che soffre i maggiori problemi per i tornado; la parte centrale della confederazione nordamericana offre infatti le condizioni ideali per tali manifestazioni, sia per la sua morfologia quasi completamente pianeggiante, sia perché l'andamento secondo i meridiani delle principali catene montuose statunitensi consente alle grandi masse d'aria di muoversi liberamente su grandi distanze e di scontrarsi, dando luogo a sistemi temporaleschi di estrema violenza. Tornado Alley. Ampia parte del territorio degli Usa dove i fenomeni sono molto frequenti. I tornado in Italia. La frequenza con la quale i tornado si formano sul nostro territorio è molto inferiore rispetto a quella degli Stati Uniti, ma il fenomeno non è comunque affatto trascurabile. La morfologia piuttosto tormentata dell’Italia riduce la probabilità di manifestazioni tornadiche, certe aree pianeggianti sono comunque interessate dal ripetersi di questi eventi come la Pianura Padana, la Puglia, piane costiere laziali e Sicilia orientale. Trombe marine. Vortici lungo i litorali che possono essere ricondotti a tipologie diverse: alcuni hanno una vera e propria genesi tornadica, altri si originano mediante meccanismi un po’ diversi e di norma non assumono intensità particolarmente alte. Non è escluso che questi violenti eventi non possano colpire l’Italia, come testimoniano i tornadi avvenuti in provincia di Treviso nel 1930(F5) e nella regione dei colli Euganei nel 1970 (F4). Un altro fenomeno temporalesco di pericolo: il microburst. In occasione di temporali violenti si possono verificare dei danni dovuti all'azione del vento che spesso sono erroneamente associati al formarsi di un tornado, questo fenomeno è chiamato microburst. Impetuosi venti freddi discendenti che da un cumulonembo si dirigono verso il terreno con velocità che può superare i 250 km/h. L'area interessata ha un diametro di norma non superiore ai 2 km, quando le dimensioni sono superiori si tende a parlare di macroburst. Quando la colonna d'aria arriva al suolo perpendicolarmente tende a espandersi in tutte le direzioni, dando luogo a una sorta di anello dove i venti assumono direzioni opposte in breve ambito spaziale.Due tipi di microburst: • Microburst umidi- associati a forti rovesci di pioggia o grandine,per cui visivamente sono facilmente individuabili grazie alle tipiche bande di precipitazioni che collegano la base di cumulonembo col suolo • Microburst secchi- Si manifestano senza precipitazioni, per questo motivo sono identificabili solo dal sollevamento di polvere procurato dal vento discendente quando raggiunge il terreno, oppure per la formazione di una virga (=tipica scia di precipitazione che si stacca dalla superficie inferiore del cumulonembo ma non raggiunge il suolo a causa dei forti processi di evaporazione) A parte i danni che può provocare localmente, il microburst costituisce un serissimo pericolo per la navigazione aerea.